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Poco tempo fa, discutendo con un esponente della

cultura “alta”, mi sentii raccontare che dopo


Campana, non c’era più stata poesia. Saltando a
piè pari quel che penso di chi fa un’affermazione
del genere mi accontento di sottolineare che è
molto improbabile che risponda a verità. Noi del-
la Biblioteca Clandestina Errabonda siamo con-
vinti che, dal 1932, anno in cui Campana morì, a
oggi, un po’ di Poesia (la maiuscola non è un re-
fuso) sia stata scritta. E anche un buon quanti-
tativo di prosa di livello. Ma è vero che, proba-
bilmente, tu non l’hai letta. E con te la gran
parte dei lettori. Nessun complotto. Non c’è nes-
suno che tenta di tenere nascosta la buona lette-
ratura contemporanea. Semplicemente le leve del
controllo stanno nelle mani (anche giustamente,
ci mancherebbe) di persone che si sono degnamente
formate su Dino Campana. E che non saprebbero
riconoscere qualcosa di nuovo (che tutti i grandi
autori sono stati nuovi una volta). Poi c’è la lo-
gica del mercato e delle vendite e chi me lo fa
fare di pubblicare un ignoto che non è nemmeno
caldeggiato da qualcuno che conta quando posso
pubblicare un bel libro di un comico o di un can-
tautore che perlomeno sono sicuro che vende. E
dovendoci, il nostro personaggio, in termini pro-
saici, mangiare, chi può dar lui torto. Per cui è
tutto un gioco perverso, in cui noi, lettori, ci
perdiamo la possibilità di scoprire se c’è qualco-
sa di bello in giro.
Questo non lo possiamo fare, dirvi se c’è qualcosa
di bello in giro intendo. Ma possiamo provare a
mostrarvi qualcosa di nuovo. Poi è tutta una que-
stione di gusto. E quello è un problema tuo.
Samiszdat è questo: una collana di roba nuova
(che poi a noi piace altrimenti mica la pubbli-
cheremmo).
Il nome ha dettato anche la veste grafica e lo
stile. Realizzeremo i nostri libri, che potrete
comprare in rete o cercandoci su
www.bceparma.splinder.com/.

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Samiszdat
Alessandro Cinelli
Il lettore ambulante
copyright © dell’autore

Collana Samiszdat
Prima edizione

Grafica, elaborazione e impaginazione


Biblioteca Clandestina Errabonda
Parma

La riproduzione anche solo parziale,


di questo testo, a mezzo di copie foto-
statiche o con altri strumenti, senza
l’esplicita autorizzazione dell’Autore,
costituisce reato e come tale sarà
perseguito
Alessandro Cinelli

Il lettore ambulante
Essendo anglosassone dovrei ini-
ziare con “Once upon a time”, c’era
una volta, ma, mai come per questa
storia, questa formula, pur ricca
di fascino, sarebbe inadatta, monca
addirittura. Per cui nessuna for-
mula di rito. La storia, così come
ve la racconterò, è il risultato di
un viaggio nella mia personale me-
moria, di una lunga ricerca, di un
paziente lavoro di ricostruzione
della vita di un uomo, di più uomi-
ni per la verità, frutto di innu-
merevoli visite nelle case che
frequentò. La disposizione delle
quali è tanto disagevole da rende-
re praticamente impossibile il
raggiungerle con mezzi diversi dai
propri piedi, con il sudore e la
fatica che questo comporta.
Conobbi Ercole Manetti, per tutti
quelli che lo conoscevano “il let-
tore ambulante”, nell’agosto del
1938, durante un periodo che potrei
definire di convalescenza, in casa
di alcuni amici in Toscana. Nel
1937 il mio stato di salute era an-
dato vieppiù peggiorando ed ero
stato frequente vittima di febbri.
La tosse mi scuoteva perennemente,
causandomi forti dolori al petto.
Il mio medico suggerì un periodo di
riposo in un luogo più salubre
della natia Londra, un periodo
lungo, magari un anno sabbatico.
La cosa mi affascinava: un intero
anno lontano dai libri e dalle
faccende che la gestione della pic-
cola casa editrice ereditata da mio
padre imponeva. Il relativo benes-
sere in cui vivevo mi avrebbe fa-
cilmente permesso di affrontare le
spese relative. Restava il problema
delle mie incombenze a Londra e il
reperire qualcuno che potesse oc-
cuparsene nel periodo in cui fossi
stato lontano. La scelta cadde su
un cognato di mia sorella, Jona-
than Irving, recentemente uscito
da Cambridge, dove aveva avuto mo-
do di mettersi in luce come atleta
e studente modello. L’eccessiva se-
rietà e il piglio autoritario me lo
avevano reso immediatamente anti-
patico, cosa che gli valse il posto,
la grande capacità organizzativa e
una precedente esperienza di col-
laborazione con un editore france-
se finirono per convincermi che la
scelta era la migliore che potessi

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effettuare. Il cenno precedente,
quello alla naturale antipatia che
mi aveva ispirato, merita una
spiegazione: ero felice della pro-
spettiva di abbandonare tutto e
concedermi un periodo tanto lungo
di assenza dalle usate cose, nondi-
meno amavo molto il mio lavoro,
provavo un piacere enorme a legge-
re mano-scritti, scegliere testi,
curare le edizioni. Per cui abban-
donare mi costava lievemente. La
cosa era mitigata dalla prospetti-
va di poter tornare a occuparmene
quando mi fossi di nuovo trovato a
Londra. Scegliere un candidato
simpatico, oltre che valido, mi a-
vrebbe reso estremamente più dif-
ficile estrometterlo dalla carica
quando fossi tornato. Un cordiale
sentimento di antipatia avrebbe
reso più liscio, scevro da sensi di
colpa, il passaggio.
Non giudicatemi in modo troppo se-
vero: capisco che il cinismo che
sta dietro questo genere di deci-
sioni risulti odioso, ma, in fondo,
offrivo al giovanotto un’occasione
che difficilmente gli sarebbe stata
prospettata da altri. La casa edi-

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trice, la Smith & LaForgue, pur
non grande, godeva all’epoca di un
notevole credito, era nota tra gli
estimatori della letteratura con-
temporanea e le sue edizioni, cu-
rate ed eleganti, erano presenti
nelle case dei maggiorenti londi-
nesi. Da quando la dirigevo avevo
incrementato notevolmente il nume-
ro delle copie stampate e vendute,
avevo ampliato il parco autori e
reso quella che era una marginale
ditta nell’impero di mio padre un
successo economico, oltre che una
fonte di lustro per la famiglia.
La parte produttiva dell’impero,
che posava sull’esportazione di
tessuti lavorati e sulla produzio-
ne di the, era infatti finita nelle
mani di mia sorella Nettie, da sem-
pre più “posata” e incline alla cu-
ra degli affari. Mio padre, da buon
affarista qual’era, aveva indivi-
duato da molto tempo chi sarebbe
stato il suo successore alla guida
e, quando la malattia lo prese per
mano, prima che riuscisse a con-
durlo lungo quella china silenzio-
sa che caratterizzò il suo ultimo
anno di vita, lasciò a noi figli

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direttive chiare e precise. A mia
sorella tutto. A me una rendita,
sostanziosa per la verità, e un ba-
locco, la casa editrice appunto, per
mantenermi attivo e impegnato
mentre mia sorella si occupava
delle cose importanti.
Inutile dire che tutto questo non
sarebbe avvenuto se fosse stato an-
cora in vita il povero Harold. Ha-
rold, maggiore di me di sette anni
e solo di un anno minore di Nettie,
era l’erede naturale di mio padre.
Gli somigliava, oltre che per tem-
peramento e stile, anche fisica-
mente. Era l’uomo nato per sosti-
tuirlo, come amava dire mio padre
nelle serate passate assieme nella
grande casa in collina davanti al
fuoco. Lo aveva preparato e pla-
smato per questo e lui era stato
ben felice di tutto. Già a sedici
anni, quando l’investitura era sol-
tanto un “pour parler”, Harold a-
veva iniziato a sentirsene permea-
to, aveva quasi preteso un ruolo
attivo nella ditta di produzione
del the e si era distinto come un
grande lavoratore, uno stratega
notevole e un buon affarista. Ave-

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va buona vista per il lungo termi-
ne. Alcune delle sue strategie, se-
guite all’epoca da nostro padre, so-
no ancora vigenti. Come dicevo, Ha-
rold aveva iniziato presto a far
parte della ditta, questo probabil-
mente faceva parte del piano di
mio padre per prepararlo alla so-
stituzione, pur continuando a es-
sere uno degli studenti più bril-
lanti del proprio corso. Buon atle-
ta, grande parlatore e di aspetto
particolarmente avvenente, Harold
era me in meglio. Ogni mia qualità
era in lui maggiore, mentre i miei
difetti si ritrovavano annacquati
nel mare della sua personalità.
Laddove io ero uno studente pro-
mettente, lui era stato il più pro-
mettente del corso, peraltro mante-
nendo le promesse in seguito. Nes-
suno accordava a me, il motivo re-
sta a tutt’oggi un mistero, pari
fiducia. Io non avrei mantenuto
nello stesso modo le promesse. Così
in effetti è stato, ma mi resta in-
comprensibile capire come facesse-
ro tutti, mio padre, mia sorella,
gli insegnanti, a saperlo. L’unico
certo del contrario era proprio

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lui, Harold. Credeva in me cieca-
mente, mi spronava continuamente a
migliorare, mi aiutava negli studi
e mi amava teneramente. Cosa che
non posso dire di Nettie. Ero nato
dal secondo matrimonio di nostro
padre. La madre di Nettie e Harold
era morta di tisi un anno prima
che io nascessi e lei non lo aveva
mai perdonato per essersi risposa-
to così in fretta. In effetti la re-
lazione tra mio padre e mia madre
andava avanti da molti anni e la
cosa era risaputa. Lei era stata la
sua segretaria anni addietro e la
sua amante in seguito. Anche la
madre dei miei fratelli era a co-
noscenza della cosa ma la rigida e
formale morale della società in-
glese dei primi del novecento non
prevedeva scandali o cadute di
stile. Pertanto la cosa fu soppor-
tata e mantenuta sottotraccia. Il
rapido matrimonio di mio padre e
la mia quasi immediata nascita a-
vevano incrinato quel velo che a-
veva coperto la malefatta di mio
padre, inquinando, a parere di
Nettie, il ricordo di sua madre.

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Non che non mi volesse bene, Nettie
sarebbe incapace di un sentimento
del genere, nondimeno non era mai
riuscita a considerarmi un fratel-
lo nel senso più pieno del termine.
Harold ci venne strappato dalla
stessa malattia che aveva ucciso
sua madre, ma in età molto giovane
e in modo crudele. Era l’anno del
mio diploma e tutto, per lungo tem-
po, mi seppe di amaro. Il piccolo
LaForgue, così mi chiamavano pri-
ma, divenne improvvisamente Ale-
xander LaForgue.
Così le direttive di mio padre alla
sua morte assunsero le connotazio-
ni che elencavo prima e l’ex picco-
lo LaForgue divenne editore. Il mio
impegno nel lavoro fu un modo di
onorare la memoria di mio fratello
e di renderlo orgoglioso di me. Ma
la malattia doveva essere residen-
te nei nostri geni, temo, e anche
la mia salute iniziò a vacillare.
Portandomi in Toscana, libero per
un anno dagli impegni del lavoro e
da ogni altra sollecitazione. Spe-
rimentai in quel periodo uno stato
meraviglioso di apatia, coltivando
la mia naturale pigrizia.

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L’operosità di tutte le persone che
mi circondavano in quel periodo
cozzava con il mio assoluto non
fare niente. Ma la mia condizione
di salute mi giustificava ai loro
occhi, anche se in realtà mi senti-
vo piuttosto bene, e la tragica fi-
ne di mio fratello li rendeva tutti
comprensivi.
Il viaggio da Londra era stato
lungo e piacevole, anche se mi ave-
va effettivamente spossato, ma
l’aria frizzante e il sole costante
della campagna mi avevano ritem-
prato in breve tempo. Non mi ero
mai sentito così carico di energie,
credo che le robuste colazioni cui
mi andavo giorno dopo giorno abi-
tuando grazie alle cure di Maria,
la padrona di casa, moglie del mio
anfitrione, non fossero estranee a
questo, e, contemporaneamente, vi-
vevo l’ignavia di questa mia assur-
da e piacevolissima condizione.
La famiglia presso la quale abita-
vo era quella di un antico cono-
scente, lui si ostinava a definirsi
amico, di mio padre: Antonio Massa-
rini aveva vissuto a Londra dal
1912 al 1920, io ero nato nel 1910,

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e lui, coetaneo di mio padre migra-
to a Londra in cerca di fortuna, si
era trovato a lavorare per una
delle sue ditte. La sua giovialità
e un’innata capacità di trattare le
compravendite ne aveva fatto un
suo pupillo. Al punto che, causa
una crescente confidenza e la cor-
dialità del carattere di Antonio,
gli avevano aperto le porte di casa
nostra e del pranzo domenicale dei
LaForgue. La sua presenza era sta-
ta pressocché costante nei suoi ul-
timi anni di permanenza a Londra.
Poi la morte della madre lo aveva
riportato in Italia, ma frequente-
mente ricevevamo sue lettere e lo
avevo rivisto in occasione del fu-
nerale di Harold e di quello di mio
padre. Nutriva per me l’affetto che
si nutre per il cucciolo più debole
di una covata, un misto di compas-
sione e amore vagamente odioso.
Nondimeno, al momento di dover
trovare una sede per la mia vacan-
za di salute, pensai immediatamente
a lui. La sua risposta fu immedia-
ta, non ne dubitavo minimamente, ed
entusiastica.

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La casa era un cascinale di quelli
che infiammano la fantasia di noi
londinesi, grande, composto di
stanze anche rozze, spaziose, con
una grande cucina, centro pulsante
e nevralgico del mondo, regno della
padrona di casa e rifugio di tutti
gli altri abitanti, reception e
luogo di svago. Fra quelle pareti
risuonavano alti gli strilli dei
due figli minori di Antonio e Ma-
ria, Sergio e Luigi, gemelli, nati
l’anno prima, cosa sorprendente se
si pensa all’età del capofamiglia,
assai meno pensando a quella di
sua moglie, una bella donna di ca-
viglie forti, di almeno vent’anni
più giovane di lui. La coppia aveva
un altro figlio, di sedici anni,
che però viveva con i nonni, in
una casa ad alcuni chilometri di
distanza. L’apparente crudeltà di
questa separazione era dovuta al
fatto che gli anziani genitori
della madre non erano in grado di
badare ai lavori di casa e che lui,
prendendosene cura, ne aveva in
pratica ereditato la casa, cosa di
cui aveva bisogno dato il suo desi-
derio di sposarsi l’anno successivo.

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Completavano il quadro degli abi-
tanti Fiamma e Giovanni. Lei, ami-
ca d’infanzia di Maria, lavorava in
cucina e collaborava alle faccende
della grande casa. Il tutto appari-
va come una scusa: si aveva infatti
la sensazione che le due donne
fossero molto intime. Lui lavorava
i campi attorno al cascinale, dimo-
strando una notevole perizia. I due
vivevano in una sorta di dépendan-
ce a pochi passi dalla casa princi-
pale. In realtà ci dormivano. In-
fatti le due famiglie vivevano as-
sieme, pranzavano e cenavano in-
sieme. E tutti e quattro sembravano
particolarmente affiatati. Oltre a
questi, frequentava la casa Italo,
un tuttofare piuttosto anziano, che
abitava nel piccolo paese a una
ventina di chilometri dalla casa.
Si presentava tutte le mattine, in
bicicletta, cosa sorprendente data
l’età che non poteva essere infe-
riore alla settantina, prima delle
sei. E cominciava subito a fare
qualche lavoretto. Sempre indaffa-
rato attorno a qualche attrezzo,
alla palizzata, non ricordo di a-
verlo mai visto senza un pennello

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o un martello in mano, si dava da
fare fino alle sei pomeridiane,
ora in cui inforcava nuovamente
la bicicletta e tornava in paese.
Solo in rare occasioni capitava
che si fermasse a cena, di solito
in occasione di qualche lavoro più
lungo del previsto. Nondimeno Ma-
ria teneva sempre una stanza libe-
ra e pulita per lui.
Il 12 agosto 1938, per una di quelle
casualità che descrivevo prima,
tutti gli abitanti della casa si
trovarono a tavola assieme, per la
cena, con un anticipo inconsueto.
Non che potessi dire di conoscere
alla perfezione gli orari dei miei
coabitanti: ero arrivato soltanto
da due settimane. Ciononostante
sembrava che tutti avessero cerca-
to delle scuse per rientrare in
anticipo o per prolungare il pro-
prio lavoro in modo da essere co-
stretti a restare. La sensazione si
rinforzò quando Enrico, il primo-
genito di Antonio e Maria, fece ca-
polino chiedendo giovialmente:
“Mamma, hai due posti a tavola?”.
Sembrava una sorta di festa non
annunciata. Tutti erano sovraecci-

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tati. Io li guardavo vagamente in-
credulo. Il lavoro nei campi è
piuttosto duro, per questo motivo
Antonio e Giovanni non erano mai
particolarmente ciarlieri a cena.
Parimenti Maria, al termine della
giornata, era stanca per il gran
daffare che le davano i due picco-
li. Quella sera invece c’era
un’atmosfera vivace, un sacco di
commensali e risate riempivano
l’aria. Un’atmosfera che mi ricor-
dava, non saprei dire perché, gli
ultimi passi che percorrevo prima
di salire sul palace pier di Bri-
ghton, da piccolo, quei metri che ti
separavano ancora da quel bagno di
luci e colori, dolciumi, grida e
suoni.

Il risguardo posteriore si era


scollato dalla copertina e il li-
bro, appoggiato sul tavolo di le-
gno, per metà spogliato, mostrava
la garza protettiva della rilega-
tura, sporca di polvere di anni,
lacerata in alcuni punti. Dalle
lacerazioni si intravedeva il filo
delle cuciture, erano cuciture a
filo di refe, la mia esperienza mi

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permetteva di riconoscerle a oc-
chio. Per incollare i fascicoli era
stata usata colla animale, ma, ne-
gli anni, qualcuno si era preso
cura di quel libro, passando nuove
mani di colla differente, ora più
chiara ora più scura. La stessa
garza era stata per metà sostitui-
ta, la metà inferiore. La qualità
della nuova garza era peggiore
della precedente. Nondimeno assol-
veva egregiamente al suo compito
che è soltanto protettivo. La co-
pertina era probabilmente in legno
leggero, balsa forse, ricoperta di
stoffa rossa, ben distesa. Si era
consumata agli angoli probabil-
mente e una mano amorevole, forse
la stessa che si era presa cura
della rilegatura, aveva provveduto
a fabbricare quattro rinforzi an-
golari e ad applicarli usando la
stessa colla dell’ultimo intervento
sulla costa. Una goccia infatti
fuoriusciva dall’angolo superiore
anteriore. Ma minima. Soltanto un
occhio allenato avrebbe registrato
questo fatto. E il mio lo era. Mani
amorevoli, probabilmente anzi cer-
tamente le stesse che avevano com-

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piuto le operazioni di cui sopra,
estrassero da una borsa un conte-
nitore incrostato e un pennellino,
cosparsero con la colla la facciata
posteriore del risguardo, lo ripo-
sizionarono con cura facendo at-
tenzione che non si creassero pie-
ghe o bolle d’aria. Per completare
l’operazione, le mani frugarono
nella borsa alla ricerca della
stecca d’osso e passarono vigorosa-
mente sul risguardo nuovamente
incollato. Di nuovo una goccia di
colla fece capolino in basso a de-
stra. Le mani si premurarono di
nettàre con cura l’eccedenza uti-
lizzando uno straccetto che doveva
aver eseguito quell’operazione un
sacco di volte. Infine il libro
venne richiuso e posizionato sotto
una piccola pila di altri libri.
“A posto. Domani sarà come nuovo.”
La voce di Ercole Manetti, per tut-
ti quelli che lo conoscevano “il
lettore ambulante”, non aveva
niente della magia che, al contra-
rio, si sprigionava da lui quando
leggeva. Ne avevano invece i suoi
gesti. Quando aveva un libro tra le
mani lo maneggiava con cura, ma

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anche con la familiarità, la con-
suetudine che si riserva ai vecchi
amici. La mano destra correva sem-
pre dietro al libro e le sue lunghe
dita afferravano, con i polpa-
strelli soltanto in verità, la co-
stola. A sorreggerla quasi. La si-
nistra invece toccava le pagine, le
sfogliava, le faceva scorrere, rin-
tracciava i segni. Oppure correva
al segnalibro che spuntava, in al-
to, dalle pagine. Ogni libro aveva
il suo segnalibro, sempre costruito
per stare in quel libro e in quello
soltanto. Il materiale usato era il
più disparato. Ricordo una penna,
di colombo suppongo, a cui era sta-
to fissato un cartoncino su cui
era scritto il titolo del libro. Al
capo opposto invece era legato un
nastrino di raso rosso. Ne ricordo
un paio ottenuti da una sottile
tavoletta di legno su cui i titoli
erano stati pazientemente incisi.
Soltanto uno dei segnalibri non
sembrava artigianale: una sorta di
corta spada, spessa, probabilmente
d’argento, con il manico lavorato.
Ammesso che di argento si trattasse
era da molto che nessuno si pren-

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deva la briga di pulirla e ripor-
tarla all’antico splendore. Questo
però le conferiva un certo fascino
che non saprei dire. Alcuni segna-
libro erano fatti di carta, piegati
in forme strane, all’uso giappone-
se. Non credo li avesse realizzati
lui. Probabilmente erano un dono, o
così mi piacque pensare allora.
Adesso i libri erano tutti sul ta-
volo, lui diceva sempre che ogni
tanto hanno bisogno di respirare,
di guardarsi intorno, di prendere
un po’ di sole addirittura. Così il
tavolo si trovava ingombro di li-
bri. Non che fossero poi molti: una
trentina in tutto, tanti quanti
riusciva a portarsi dietro. La li-
breria portatile. Immaginai
all’epoca che avesse una casa piena
di libri e che quelli fossero i li-
bri che usava leggere in giro. Non
era così, come appurai più avanti:
erano i suoi unici libri. La zona,
il periodo e la scarsità dei mezzi
non consentiva al lettore ambulan-
te una biblioteca maggiormente
fornita. In verità non aveva nean-
che una casa dove poterne accata-
stare altri. Nomade per spirito,

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necessità e vocazione, il lettore
ambulante trovava ospitalità nelle
case dove si recava per leggere.
Solo raramente si fermava per più
di poche ore. Aveva sempre un nuo-
vo posto dove andare, una nuova
casa dove aveva promesso di arri-
vare al più presto, un’altra fami-
glia che da tempo non visitava. E
poi aveva promesso a Montari, sì
quello che abita sulla montagna, di
passare da lui prima della fine
del mese. E poi c’era la vedova Al-
gheri, tutta sola in quella casa
grande, ma avete saputo del suo po-
vero figlio?
Anche la borsa era qualcosa di
spettacolare. Per quanto chiunque
cercasse di riordinare i libri al
suo interno non c’era modo di riu-
scirci: ne avanzavano sempre due. O
si metteva fuori il cambio d’abiti
che il lettore si portava dietro o
i due volumi restavano fuori. Sol-
tanto le sue mani riuscivano a
trovare una misteriosa disposizio-
ne, incomprensibile agli altri. E
tutto quello che la borsa doveva
contenere era, improvvisamente
contenuto. Fu in occasione del pri-

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ma, miracoloso presentarsi di
quell’incredibile fenomeno che mi
convinsi che le teorie sul tesse-
ract non erano completamente bal-
zane: ci doveva essere una quinta
dimensione cui, all’interno di
quella borsa, il lettore accedeva.
Il lettore ambulante era proprio
quello che il suo titolo suggeri-
sce. Un uomo che leggeva. In giro.
Il mestiere lo aveva ereditato dal
padre, com’era avvenuto per me. Ma
per lui, all’epoca quindicenne, era
accaduto per stato di necessità.
Vittorio Manetti era nato nel 1887.
Fin dalla gioventù fu gracile. Un
essere dolce e aggraziato, dalla
voce gentile. Molto versato negli
studi umanistici passò l’età verde
a leggere e imparare. In anni in
cui il culto della fisicità sarebbe
diventato preponderante lui era un
disadattato in potenza. Forse pro-
prio per questo chiamò suo figlio
Ercole, quasi che il nome potesse
schiudergli le porte della forza.
Nel 1915, con il bambino appena
cinquenne e recentemente abbando-
nato dalla moglie, divenne disa-
dattato in atto. Aveva ventotto an-

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ni e nessuna predisposizione per
la guerra. Inadatto alla vita dei
seguaci del fascio riparò in mon-
tagna dove per vivere si inventò
il lavoro, sempre che di lavoro si
possa parlare, che avrebbe svolto
fino alla morte, avvenuta nel 1925
purtroppo per lui in anticipo ri-
spetto ai suoi programmi, e, suo
malgrado, per mano di quelli che
aveva tentato di evitare: casa sba-
gliata, momento sbagliato. Troppo
vicino al paese. Questa era una
regola che il figlio aveva tenuto
a mente. Non si legge vicino al pa-
ese. Meglio la campagna, la monta-
gna addirittura.
Vittorio invece leggeva vicino al
paese. E una sera, mentre tornava
verso la sua casetta, dove Ercole
aspettava il suo ritorno, qualcuno
pensò bene di verificare se la sua
cassa toracica era in grado di
sopportare la pressione di un ara-
tro. Purtroppo, come dimostrato dai
fatti, non era in grado.
Ercole si ritrovò così solo e senza
alcuna rendita. La situazione a
quel punto prevedeva che lui si
trovasse un lavoro. Ma essendo

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completamente digiuno di qualsiasi
nozione utile alla bisogna e aven-
do ereditato dal padre la gracili-
tà, non riuscì a riciclarsi in un
lavorante della terra. L’unica qua-
lità che gli si poteva realmente
riconoscere, oltre a una grande
capacità come lettore, era una ma-
nualità di buon livello. In diffe-
renti circostanze sarebbe potuto
essere un artigiano notevole, un
intagliatore forse. E, in anni dif-
ferenti, forse un buon letterato,
un professore forse. Ma non erano
gli anni giusti. O forse non aveva
incontrato le condizioni giuste.
Resta il fatto che proseguire la
professione paterna fu l’unica via
praticabile. In effetti tutte que-
ste considerazioni sono mie, specu-
lazioni sui perché. Molto più pro-
babilmente la cosa fu naturale.
Lui aveva una predisposizione a
diventare il lettore ambulante. E,
se passaste oggi da quelle parti,
chiedendo in giro scoprireste, tra
i vecchi, qualcuno che si ricorda
del lettore. E si ricordano di lui.
Non del padre. O d’altri.

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A scorrere i titoli sui dorsi dei
libri appoggiati sul tavolo la
prima cosa che balzava agli occhi
era l’estrema eterogeneità dei te-
sti: “Un americano alla corte di re
Artù” di Twain, “Il libro della
Jungla” di Kipling.
“Quello non faceva parte della bi-
blioteca di mio padre. Quello mi è
stato regalato da un brav’uomo che
aveva perso il suo unico figlio
l’estate precedente. Era stato
l’unico libro che avesse mai com-
prato. Lo leggo nelle case dove ci
sono molti bambini.”
Aveva una copertina blu, ruvida,
di una stoffa indecifrabile. Un
buon libro, una buona rilegatura.
Di valore avrei detto, quasi che il
valore non risiedesse nelle parole
stampate dentro ma nella forma. Ma
allora non avevo chiare un sacco
di cose. Comunque la carta era di
buona qualità, cosa oltremodo inso-
lita in quel periodo. Molto proba-
bilmente era un’edizione piuttosto
vecchia perché negli ultimi anni
la carta era sempre meno buona in
Italia, ingialliva velocemente e
con facilità e, a lungo andare

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tendeva a perdere coesione e di-
sfarsi. Quel particolare libro in-
vece aveva le pagine bianchissime.
I caratteri erano leggibili e
piuttosto grandi, com’è usuale per
le edizioni per ragazzi. Alcune il-
lustrazioni lo impreziosivano. E-
rano state inserite alla fine di
ogni quinterno, probabilmente per
facilitarne la stampa. Mancavano
però i dati dello stampatore e
dell’anno. La cosa mi sorprese: chi
realizza un buon lavoro ci tiene a
firmarlo. Così non era.
“I bambini sono gli ascoltatori più
difficili. Se la storia rallenta, o
se semplicemente la vicenda af-
fronta dei particolari che non re-
putano interessanti, o ancora se
qualche spiegazione è lievemente
prolissa, con l’impazienza tipica
della loro età iniziano a smaniare,
a costruire qualcosa con dei resti
di sughero o a torturare un pezzo
di stoffa. Poi interrompono, chie-
dono. Infine si agitano costrin-
gendomi a fare un riassunto e a
passare a qualcosa di più interes-
sante. Questo libro mi evita tutto
questo. Ma anche questo crea dei

30
problemi. Una volta letto, per un
bel periodo, é l’unica lettura che
vogliono ascoltare. Mi è capitato
di leggere tre volte il libro agli
stessi ragazzi. E i ragazzi hanno
una memoria straordinaria. Se per
caso, per rendere più facile un
passaggio o per emozionarli ho
cambiato una parola, invertito due
passi, saltato qualcosa, loro se lo
ricordano. E protestano alla nuova
versione. Pretendono di riascolta-
re quella originale. Quella “vera”
secondo loro.”
Il 12 agosto 1938 la cena emanava
un odore delizioso. Maria e Fiamma
dovevano aver lavorato a lungo
perché c’erano diverse pentole al
fuoco e sulla tavola troneggiavano
due vassoi di verdure pulite e ta-
gliate, da mangiarsi crude, con
l’olio il sale e il pepe, all’uso i-
taliano. Nessuno dei commensali
avrebbe mai osato allungare una
mano finché la padrona di casa, in
Italia esiste una sorta di ma-
triarcato segreto, non si fosse se-
duta. Poi ci sarebbe stato il mo-
mento della preghiera e, infine la
cena avrebbe avuto inizio. Ma, di-

31
versamente dal solito, Maria sem-
brava temporeggiare. Antonio, so-
litamente impaziente, non la solle-
citava com’era uso fare. Anzi, si
perdeva in chiacchiere gioviali.
Tutti gli uomini e le donne al ta-
volo e in giro per la cucina sem-
bravano in attesa di chissà quale
prodigio. La situazione mi appari-
va vieppiù strana al punto che mi
decisi a chiedere:
“Stiamo aspettando qualcuno?”
Come in risposta alla mia domanda
si udirono dei colpi alla porta.
Fiamma si precipitò ad aprire e
nell’andito della porta apparve la
figura minuta, gentile, aggraziata
pur se infagottata in un tabarro
che avrebbe potuto coprire un cor-
po decisamente più massiccio, di
Ercole Manetti, il lettore ambu-
lante.
Aveva mani lunghe e pelle chiara,
un nasone di tutto rispetto e una
bocca sottile e pallida. Barba in-
colta e capelli selvaggi lo incor-
niciavano rendendo più macilento
l’effetto globale. Era di statura
normale, non alto. Le spalle stret-
te e una magrezza pronunciata da-

32
vano l’idea che potesse spezzarsi al
primo vento. Quando fu entrato,
senza smettere di salutare e sor-
ridere ai commensali si diresse
decisamente al fuoco e si scaldò
massaggiandosi prima le mani, poi
le spalle.
“Accomodati. – fece Maria, indican-
dogli la sedia a capotavola, quella
che solitamente occupava lei, di
fronte al marito. – E’ tutto pronto.
Spero tu abbia appetito.”
“Grazie. – fece occupando la sedia
che, a questo punto era evidente,
era la sua usuale sedia. – Vi chie-
do scusa per il ritardo ma stavo
leggendo di Tristano e Isotta e,
come sapete bene, non è storia che
si riesca facilmente a interrompe-
re.”
“Non sei in ritardo. - cinguettò
Fiamma tra gli assensi di tutti gli
altri. – Forse qualche minuto. E
poi non eravamo ancora pronte per
mettere in tavola.”
Il lettore fece onore al desco im-
bandito, come tutti i commensali
d’altro canto. Per la prima volta
da quando soggiornavo presso la
casa, la cena si era trasformata

33
dal momento in cui ci si scambia-
vano informazioni, parentesi atta
al sostentamento per me fra un pe-
riodo di quiete e il successivo, per
gli altri fra il lavoro e il ripo-
so, in un momento di incontro, gio-
viale, durante il quale parlare di
cose futili, di piccolezze e come ti
sta bene Maria quello scialle nuo-
vo. Era galante il lettore, non di-
menticava mai di gloriare questo o
quel vezzo delle signore, la soli-
dità della staccionata nuova, il
perfetto ordine dei campi o la
bontà della carne che certamente
era delle bestie allevate in quella
casa. A me riservò un trattamento
speciale, sfoderando un inglese
rispettabile, pur inquinato da una
cantilena fin troppo italiana. Ve-
nuto a conoscenza della mia pro-
fessione ebbe un lampo negli occhi,
si informò sui titoli che avevo in
catalogo e sull’esistenza di testi
in italiano. Fu sorpreso di sapere
che una versione bilingue di Giu-
lietta e Romeo era stata inserita
tra i miei titoli e si disse dispo-
sto a leggere per un giorno intero
pur di averne una copia. Lo rassi-

34
curai divertito, affermando che
sarebbe stata mia cura inviarne
una copia per lui presso i miei
amici una volta tornato a Londra,
senza bisogno di letture di venti-
quattro ore. La cena scivolò piace-
volmente verso il caffè,
un’abitudine che non riuscivo a
fare mia. Maria mi disse di non
preoccuparmi, tanto era surrogato,
non vero caffè. E forse non valeva
neanche la pena di berlo. In realtà
mi era già capitato di assaggiare
il caffè italiano in passato. E lo
avevo trovato detestabile. Ma evi-
tai accuratamente di dirlo.
La mia condizione di villeggiante,
anche se ufficialmente convale-
scente, mi stancò prima del previ-
sto. Non sono mai stato una persona
iperattiva, né mi sono mai ricono-
sciuto nella frenesia della vita
londinese. Nondimeno il non fare
assolutamente niente di diverso
dal riposare e respirare non è la
mia idea di relax. Iniziai così una
serie di attività quotidiane che
comprendevano una passeggiata fi-
no al limitare del bosco che si
trovava a pochi chilometri dalla

35
casa e, sempre in compagnia dei due
botoli che abitavano il cortile dei
miei ospiti, la ricerca dei frutti
spontanei della terra. A seconda
del periodo more, castagne, funghi,
asparagi selvatici, mirtilli. Que-
ste occupazioni riempivano i miei
pomeriggi. Le mie mattine erano
invece dedicate al restauro dei li-
bri. Avevo convinto il lettore che,
con la mia esperienza e la buona
mano sviluppata in anni di lavoro,
sarei stato egregiamente in grado
di rimettere in sesto i suoi libri
rinforzandone le copertine. In
principio lui non era parso entu-
siasta ma, dopo avermi visto
all’opera, si convinse a lasciarmi
fare.
Lavoravo su un libro per volta. Mi
ero procurato della colla animale
e del filo di refe. Per la verità
era stato lo stesso lettore a pro-
curarli, ne aveva una certa scorta.
Immagino che non potesse permet-
tersi di veder sfaldarsi gli at-
trezzi del suo mestiere. Non avevo
una cucitrice adeguata, ma per il
lavoro che dovevo svolgere erano
sufficienti un buon ago e un dita-

36
le. Soltanto per guadagnare tempo,
in realtà molti libri non avevano
nessuna necessità di essere “risi-
stemati”, scollavo con il vapore di
una pentola d’acqua i risguardi
dalla copertina, rimuovevo la gar-
za e rinforzavo la rilegatura so-
stituendola. Soltanto in pochissimi
casi, cinque libri soltanto se ben
ricordo, la rilegatura era malmes-
sa tanto da costringermi a separa-
re tutti i quinterni, ricucirne
alcuni, incollarli nuovamente.
Al contrario dei libri, le coperti-
ne versavano in cattive condizioni.
Ed era questo il vero lavoro che
dovevo svolgere. Fui costretto a
ricostruirle sagomando dei pezzi
di un legno molto leggero che mi
procurò Italo, il tuttofare. Che
sembrava possedere una riserva di
qualsiasi cosa possa servire a
chicchessia. Ricoprii le nuove co-
pertine con una stoffa resistente
e spessa che Maria aveva in un
cassettone. Non so per quale altro
utilizzo avesse avuto intenzione di
servirsene, dato che mi sembrava
inadatta a qualsiasi uso che non
fosse quello cui l’avevo destinata.

37
In effetti si prestò egregiamente
alla bisogna. Incollai la stoffa ai
pezzi di legno, aiutandomi con una
stecca di legno perfettamente le-
vigata dal solito Italo. Sarebbe
stata migliore una stecca d’osso. E
sapevo che il lettore ne possedeva
una. Ma lui non sembrava intenzio-
nato a darmela. Per cui non chiesi.
La stecca di legno assolse perfet-
tamente il suo dovere. Infine, non
possedendo un torchietto, per tene-
re i libri sotto pressione, usai i
metodi più disparati, dal tenere il
libro con la nuova copertina, sotto
una catasta di moltissimi altri
libri o sotto un mastello pieno
d’acqua. Le soluzioni furono varie
e disparate, ma efficaci. Le nuove
copertine resero i libri come nuo-
vi, proteggendoli dalle future
traversie. Avendo una sola pezza di
stoffa, purtroppo, al termine del
lavoro tutti i libri sembravano
uguali. Nondimeno il lettore riu-
sciva a riconoscerli dal peso, dal-
la dimensione, dal colore della
carta. Ebbi l’impressione che ne
riconoscesse persino i differenti
odori. Nonostante questa sua capa-

38
cità non mi sentii soddisfatto. Mi
procurai della tempera e un pen-
nello sottile. E, a mano, scrissi i
titoli su tutte le coste e le prime
di copertina. Inutile dire chi mi
trovò la tempera, immagino.
Al termine ero davvero soddisfatto
del lavoro che avevo svolto. E tri-
ste. Durante i quindici giorni ne-
cessari al maquillage cui stavo
sottoponendo i suoi libri, il let-
tore era stato costretto a passare
spesso, per verificare che i suoi
“bambini”, come li chiamava, stes-
sero bene, per ritirare quelli
pronti e consegnarmene di nuovi.
Adesso il lavoro era finito e lui
avrebbe ripreso i suoi normali gi-
ri. Questo significava che sarebbe
ripassato dalla nostra casa non
più di una volta ogni quindici
giorni. Aveva moltissimi clienti,
così affermava. E non riusciva a
presentarsi più di una, due volte
al mese nella stessa casa, anche se
la vostra accoglienza, lo sapete
Maria, è sempre la mia preferita.

La vita riprese il suo normale an-


dazzo ma, anche se io non potevo

39
saperlo all’epoca dei fatti, niente
sarebbe stato mai più normale in
quella regione. Entro breve un ca-
taclisma naturale, qualcosa come la
grandine o un uragano, si sarebbe
abbattuto su quella terra, piegando
anche noi. Ma, come dicevo, io non
potevo ancora saperlo. Per cui,
quando la domenica successiva tut-
ti gli abitanti della casa inizia-
rono a dare segni di impazienza
mettendo assieme piccole cose come
preparandosi a un breve viaggio,
trovai normale domandare cosa ac-
cadesse.
“C’è la fiera in paese e ci saranno
gli incontri di pugilato - si sor-
risero Antonio e Giovanni - Le
donne con i bambini andranno in
giro per le strade e noi andremo a
vedere l’incontro di Bastianoni.
Verrai con noi, voglio sperare.”
Pur ignorando completamente chi
fosse Bastianoni colsi la cosa come
un piacevole diversivo alla routi-
ne della vita che conducevamo.
“Non portarti molta roba che la
camminata è lunga.” mi disse dietro
Giovanni.

40
Dovendo cedere alle mie naturali
inclinazioni avrei preferito gi-
rare per le strade, che immaginavo
colorate a festa, piuttosto che ve-
dere due energumeni probabilmente
poco votati alla noble art.
Quanto mi fossi sbagliato fu im-
provvisamente chiaro già dopo i
primi secondi dell’incontro.
L’eleganza, l’accortezza e la velo-
cità di Dante Bastianoni avevano
del miracoloso. Un uomo che doveva
pesare non meno di settanta libbre
con le movenze della pantera.
Dante Bastianoni, ventiquattro an-
ni, scuro di carnagione e di capel-
li, combatteva da quando aveva
compiuto il sedicesimo anno di età.
Orfano dalla nascita, il motivo si
perdeva nel mito arricchendosi di
particolari ogni volta che un nuo-
vo avventore si premurava di inse-
rirsi nella conversazione, era
stato allevato in un convento do-
menicano della zona. La regola del
convento si era rivelata però
troppo dura per quel bambino ri-
belle. A dieci anni era fuggito e
aveva trovato riparo in montagna.
Era stato trovato da una banda di

41
briganti e, probabilmente a causa
di una spavalderia, era diventato
il loro pupillo. Il capo della ban-
da era Sante Piadini, il padre del
celebre Corrado, coetaneo di Dante,
con cui strinse un’amicizia che
molti definivano fraterna. In ef-
fetti anche il padre si affezionò
molto al piccolo orfano. Nel giro
di pochi mesi cominciò a conside-
rarlo come un figlio proprio. Anzi,
come un cucciolo proprio, così li
chiamava: “i miei due cuccioli”. I
due cuccioli selvatici crebbero in-
sieme fino all’età di sedici anni,
era il 1930, anno in cui morì San-
te. Il piccolo Piadini dimostrò al-
lora di possedere la stoffa del pa-
dre, prendendo il suo posto. La cosa
non dovette essere semplice né in-
dolore. Altri intendevano ricopri-
re quel ruolo e la guerra che si
scatenò fu breve e cruenta. Corrado
Piadini si conquistò il diritto di
guidare i briganti bagnandolo nel
sangue dei nemici e in quello di
numerosi amici. Prima di iniziare
però, preferì allontanare Dante. Lo
mandò ad abitare da un ex brigante
che gestiva una piccola palestra

42
pugilistica. Così la morte di Sante
Piadini segnò la vita di tutti e
due i suoi cuccioli.
Dante aveva dimostrato da subito
una grande passione per la boxe e
in meno di sei mesi aveva convinto
il suo allenatore a farlo combat-
tere. Per evitare che il ragazzino
potesse farsi veramente male venne
scelto un avversario non partico-
larmente brillante. Lui lo schian-
tò alla prima ripresa, senza che
questi avesse potuto portare un so-
lo pugno.
Da quel momento la sua carriera
non conobbe intoppi. Gli avversari,
sempre più agguerriti e preparati,
con nomi sempre più importanti,
non furono un ostacolo per il
“giovane bandito”, com’era stato,
con dubbio gusto, soprannominato.
Negli otto anni che avevano con-
dotto a quel giorno, aveva combat-
tuto in quarantatrè incontri, vin-
cendoli tutti per knok out prima
della sesta ripresa.
Oggi si batteva per il titolo na-
zionale. Ma era solo un altro passo
verso la conquista del titolo mon-
diale. Questo andava dicendo ai

43
quattro venti il suo allenatore. E
nei due anni successivi sarebbe
riuscito a mantenere la sua paro-
la.
L’incontro era appena iniziato e io
mi stavo entusiasmando osservando
il pugile di casa che ballava sul
ring. Si sentiva così sicuro di sé
da combattere con la guardia ab-
bassata, schivando i colpi con re-
pentini movimenti del tronco e
mantenendo la distanza fra sé e
l’avversario. Ma quando partiva con
le sue rapide combinazioni faceva
saettare le lunghe leve nell’aria
trovando sempre il bersaglio. Ogni
colpo, non particolarmente possenti
in verità, scuoteva l’altro pugile.
Che, innervosito, caricava a testa
bassa, rendendo più facile la vita
di Dante. Ogni tanto pareva voler
chiudere in fretta. In quei momen-
ti il numero dei colpi si infittiva
e anche la potenza sembrava incre-
mentare. Si aveva la sensazione
che potesse disporre facilmente
dell’altro ma che preferisse non
metterlo a tappeto. Questa specie
di ballo proseguì per cinque entu-
siasmanti riprese, durante le qua-

44
li non un colpo lo raggiunse. Poi,
quando anche la quinta ripresa
volgeva al termine, un destro al
mento chiuse la partita.
L’arbitro contò i dieci secondi, con
ogni probabilità avrebbe potuto
contarne altri venti e il risulta-
to non sarebbe cambiato, si avvici-
nò a Dante, gli afferrò il braccio
destro e lo alzò al cielo procla-
mandolo vincitore.
Tutti erano abbracciati e festanti.
C’era una confusione tale da pensa-
re che non sarebbe finita mai. Poi,
d’improvviso, tutti si zittirono.
“Corrado Piadini, lei è in arresto.”
La voce, pacata ma decisa, proveni-
va da un carabiniere, immagino
fosse un capitano ma non ho dime-
stichezza con i gradi, che stava,
davanti a un nutrito nugolo di ca-
rabinieri armati, di fronte a un
uomo esile, dell’età apparente di
trentacinque anni, in realtà ne
aveva ventiquattro ma certe fati-
che si pagano, dall’aspetto esile e
macilento. Aveva profonde occhiaie
e un incarnato scuro come quello
di alcuni uomini provenienti dalla
Sicilia.

45
Ma gli occhi. Se aveste veduto que-
gli occhi. Profondi. In fiamme.
C’era in lui qualcosa come di sopita
rabbia, un magma inestinguibile.
Nonostante la mia sensazione,
l’uomo non si ribellò. Porse i polsi
e venne rapidamente incatenato e
condotto via. Intanto l’allenatore
aveva portato il suo pugile lonta-
no, al sicuro. Dagli altri e da sé.
Si sentivano infatti le sue grida.
Le grida di un cucciolo che avreb-
be voluto essere un cane adulto.
E lontano, inascoltato, un rumore
come di grandine, o un uragano ad-
dirittura.

Quando il lettore ripartì, dopo


pranzo, la volta seguente che ven-
ne a farci visita, senza pensarci
troppo, credo che altrimenti la mia
naturale apatia avrebbe preso il
sopravvento e non ne avrei fatto
di nulla, gli feci la domanda.
E tutti parvero molto sorpresi.
“Posso accompagnarti per qualche
giorno?”
“Immagino di sì. – rispose dopo una
breve pausa. – Non mi sono mai
presentato nelle case con un ospite

46
ma immagino che nessuno troverà da
ridire.”
“Potrei dire di essere un lettore
ambulante inglese, un “walking re-
ader”, venuto a trovarti.”
“Questa è una buona idea. – rise. –
Proprio buona.”
Lo sentii ridacchiare bofonchiando
“walking reader” e mi ripromisi di
non usare mai più quella locuzio-
ne. Sciupava tutto l’effetto.
Poi tutti gli altri presero a do-
mandarmi perché volessi fare que-
sta cosa e cosa mai mi spingesse e
non ti trovi bene qui con noi?
Passai del tempo a spiegare che mi
andava l’idea, che volevo vedere il
lettore all’opera nelle altre case,
che mi piaceva passare un po’ di
tempo con lui e tornerò tra una
quindicina di giorni Maria non
piangere.
Un’ora dopo presi il sentiero che
portava a casa della vedova Alghe-
ri. Il lettore camminava davanti e
io, badando a dove mettevo i miei
piedi, fin troppo urbani mi accorsi
allora, lo seguivo a breve distan-
za. I viottoli e i sentieri si somi-
gliavano tutti e io non riuscivo a

47
capacitarmi di come il lettore
riuscisse a orizzontarsi. Soprat-
tutto una volta raggiunto il bosco
dove gli alberi schermavano il so-
le. Dopo un’ora di cammino io non
avrei saputo dire dove fosse l’est o
il sud, non avrei mai potuto af-
fermare che non avessimo girato in
tondo. In un paio di occasioni, an-
zi, credetti di aver riconosciuto
un posto familiare e proseguii
convinto di rimbucare davanti alla
casa dei miei ospiti. In una di
queste occasioni, in cui la sensa-
zione di essere tornato indietro fu
più forte, sbucai effettivamente in
un largo spiazzo. Davanti a me
c’era una casa. Ma era quella della
vedova.
La donna aspettava il lettore per
l’ora di cena. Per la prima volta
realizzai che il lettore otteneva
così il pagamento. Un pranzo e
qualche moneta. Una cena e ospita-
lità per la notte. In anni in cui
la povertà la faceva da padrone
accettare pagamenti in denaro non
avrebbe costituito controvalore
sufficiente. Le famiglie, solita-
mente numerose, non avevano pro-

48
blemi ad accogliere un commensale
in più e le case erano grandi, tan-
to da permettere a qualche ospite
di soggiornarvi. Le monete erano
poco più di una mancia.
L’anziana signora che ci venne in-
contro aveva un aspetto dolce. Sem-
brava una di quelle signore che
non di rado capita di incontrare
nelle vie di Londra, carica di uno
stile forte e personale, elegante
pur non indossando un abito parti-
colare o vezzoso. L’evidente contra-
sto fra lei e il luogo ove la in-
contravamo sembrò colpire solo me.
E probabilmente era così.
La donna viveva da sola, e questo
per me restò il mistero più affa-
scinante della giornata dato che
la casa era perfettamente in ordi-
ne, il piccolo orto curato e il re-
cinto delle bestie pulito e verni-
ciato di fresco. Tutto sembrava in
perfetto stato di manutenzione. Co-
me una donna sola potesse riuscire
a governare così una casa e il
terreno circostante mi sembrava
incomprensibile. Poi, spuntava con
la ruota davanti da dietro un pic-
colo mucchio di fieno, vidi la bi-

49
cicletta di Italo. In principio
pensai che fosse una qualunque bi-
cicletta, poi vidi il fanale fissa-
to con il filo di refe, riparazione
provvisoria che io stesso avevo ef-
fettuato pochi giorni prima. La
cosa mi rendeva perplesso. Italo
abitava in paese e lavorava ogni
giorno alla casa dei miei amici. E
ogni sera si allontanava lungo la
strada che conduce a casa sua e co-
sa ci fa la sua bicicletta dietro
quel mucchio di fieno, e dov’é Ita-
lo?
Non ebbi cuore di chiederlo.

La banda di Corrado Piadini era


stata per anni l’unica della zona.
Egli aveva riunito tutti i brigan-
ti e, governandoli duramente, ave-
va reso zona franca per sé e i suoi
tutta quella parte di appennino.
Fuori dalle città e i paesi erano
loro la legge. Una legge violenta e
autoritaria. Molti abitanti di
quelle zone, per sopravvivere, ave-
vano finito per esserne basisti,
per offrire loro ricovero in cam-
bio della salvezza per le proprie
cose. Questi restavano comunque

50
un’esigua minoranza mentre il re-
sto della popolazione semplicemente
li temeva per la capacità distrut-
tiva. Corrado era stato però una
guida più accettabile agli occhi
della gente: visto come un eroe in
quei posti dove le forze dell’ordine
erano decisamente poco amate, ave-
va cercato di limitare l’indole
violenta dei suoi. La sua cattura
apriva scenari completamente nuo-
vi, o spaventosamente vecchi se si
vuole. Fra i briganti più violenti
riscuoteva un notevole successo il
“Biondo”, un uomo massiccio, con
una lunga barba castana e
un’imbarazzante, lieve strabismo.
Fu lui il primo a rivendicare il
diritto di prendere il posto di
Corrado. Nessuno prese in conside-
razione la possibilità che il loro
capo potesse fuggire e far ritorno.
Per cui il vuoto di potere doveva
essere riempito al più presto. La
struttura della banda, quasi mili-
tarizzata, si sarebbe dissolta in
un lampo altrimenti.
Ma la guida del biondo era un pas-
so radicale. Tanto da non essere
accettabile per molti dei briganti

51
“moderati”. In breve si costituiro-
no tre clan. Il più virulento,
quello capeggiato dal biondo, ini-
ziò a saccheggiare le case più lon-
tane e isolate. La natura violenta
della banda e l’assoluto dispregio
per ogni forma di regola portarono
a eccessi di ogni genere, violenze
gratuite. Alcune case vennero date
alle fiamme. Il parziale salvacon-
dotto che le autorità avevano ac-
cordato alla banda Piadini ebbe
così termine e la regione venne
invasa da militari, per lo più ra-
gazzi ignari agli ordini di coman-
danti fanatici che, con l’ausilio di
metodi non troppo dissimili da
quelli delle loro prede, ricevette-
ro l’incarico di “bonificare” la zo-
na. La cosa culminò con
l’annullamento del clan capeggiato
da Vito Rivetti, autonominatosi
delfino di Piadini. La sua banda
era quella numericamente più im-
portante. Proprio questa fu la ra-
gione della disfatta. Gli altri due
gruppi, composti da non più di una
quarantina di elementi, avevano
vita facile nell’occultarsi
sull’appennino. I cento e passa uo-

52
mini di Rivetti lasciavano tracce
più evidenti. Ai gradi alti
dell’esercito non importava molto
come si chiamassero i capi fazione:
un brigante è un brigante. E il
dispaccio che riportava la notizia
dell’annullamento della banda ven-
ne salutato con entusiasmo ed ebbe
grande eco sui giornali. Non ven-
nero riportate le notizie sulle a-
trocità perpetrate dai militari. Il
contingente distaccato in zona
venne ridotto a quaranta unità a-
gli ordini del generale Cassetti e
tutti, quella notte, dormirono più
contenti.
La terza banda si era costituita
agli ordini di Dante Nonini. Di
gran lunga il miglior stratega
fra quell’accozzaglia, capì imme-
diatamente l’importanza del basso
profilo che Piadini aveva imposto.
Per questo motivo la presenza della
banda del biondo gli apparve come
l’ostacolo maggiore da superare per
restaurare la situazione preceden-
te. Iniziò così la più sanguinosa
guerra, una guerra paesana, senza
divise e reggimenti o battaglioni,
che quella zona avrebbe mai cono-

53
sciuto. Mentre i venti di una
guerra molto più globale stavano
per abbattersi sul resto d’europa,
in quell’angolo di mondo in cui es-
sa non sarebbe praticamente arri-
vata, lontano, inascoltato, un ru-
more come di grandine, o un uraga-
no addirittura.
Il biondo costringeva i contadini
a fornirgli derrate alimentari e
asilo per la propria banda. Nel
volgere di due settimane aveva
messo in piedi una struttura di
fiancheggiatori, recalcitranti in-
vero, che gli permetteva di far
letteralmente sparire i suoi uomi-
ni, sottraendoli alla caccia, inve-
ro blanda, che i militari davano
loro. Nonini decise di far dissol-
vere quella rete. Fece passare la
voce che chiunque avesse dato asilo
agli uomini del biondo sarebbe
stato punito. Per rendere il mes-
saggio maggiormente chiaro fece
tagliare un braccio a un contadino
sotto lo sguardo dell’intera fami-
glia schierata. Inutile dire che
l’uomo non sopravvisse al poco chi-
rurgico intervento. Ma la crudeltà
dell’atto risultò un deterrente

54
convincente. Per tutta risposta il
biondo permise alla sua banda di
devastare le case di due uomini che
avevano rifiutato di aiutarli. Per
la prima volta le donne vennero
prima stuprate. Nelle case vennero
armati i fucili e, dato che gli uo-
mini agli ordini del generale Cas-
setti parevano incapaci di fornire
alcun tipo di protezione, la gente
iniziò a pensare a forme di difesa
più “personali”. Molti contadini
abbandonarono le proprie case e si
trasferirono in quelle più grandi
dei vicini. Si formarono comunità
in cui parte degli uomini erano
deputati alla difesa. Micro eserci-
ti clandestini. In mezzo a tutto
questo il generale Cassetti perse-
guiva il suo originale disegno:
lasciare che i briganti si ucci-
dessero tra loro e intervenire
quando, ormai ridotti a un gruppo
minimo, fossero stati più vulnera-
bili. Il fatto che questo preten-
desse un tributo alto di sangue ci-
vile non lo turbava minimamente.
Sarebbe stato ricordato come l’uomo
che aveva debellato i briganti.

55
Il 15 settembre 1938 fu un giorno
dolce di luce d’autunno precoce.
L’aria era fresca di uva e castagne
quando Corrado Piadini vide di
nuovo la luce del sole. Era stato
chiuso in una cella non partico-
larmente scomoda. Lui, abituato al-
la vita dura della macchia, aveva
trovato addirittura confortevole
il pagliericcio. Non aveva avuto
alcun contatto con l’esterno se si
eccettua il brevissimo processo mi-
litare durante il quale, non in-
terpellato, non aveva aperto bocca.
Ma anche la solitudine e il silen-
zio non erano nuovi per quell’uomo
invecchiato presto. Fuori della
prigione due piccole ali di folla
si erano radunate. Non una molti-
tudine certo. Il momento non era il
più propizio e c’era il rischio che
i suoi uomini tentassero qualcosa
per liberarlo. Le divise erano in-
fatti dominanti nel colpo d’occhio.
Piadini, seguito da due militari e
preceduto dall’immancabile prete,
camminò spedito, chiaramente infa-
stidito dalla presenza di un pub-
blico. E qui non si può fare a meno
di chiedersi quali siano i motivi

56
che spingono un essere umano ad
assistere a quel tipo di macabra
cerimonia. Io, per parte mia, avrei
evitato volentieri di presenziare,
ma il mio compagno era di diversa
opinione. La cosa mi aveva colpito
perché ero sempre stato convinto
che il voler vedere avesse del
morboso e non avevo mai rintrac-
ciato questo lato del suo carattere
nelle lunghe ore passate a parlare
con lui. Perché soltanto questa
credevo potesse essere la motiva-
zione. Anche quel giorno doveva
insegnarmi quanto poco sapessi dei
miei simili: in fondo alla fila di
destra, tenuto a debita distanza
dagli altri astanti quasi la sua
mole incutesse sacro terrore, Dante
Bastianoni aspettò che il penoso
corteo lo raggiungesse e, incuran-
te delle parole dei militari, si
accostò all’uomo con i ferri e per-
corse, in silenzio, l’intero tratto
che conduceva al muro. Venti passi,
non di più, lunghi un’eternità.
Quei due uomini camminavano in
silenzio e, in qualche misura, e-
sprimevano una solidarietà e una
dignità di cui tutta la scena pa-

57
reva, fino a pochi secondi prima,
priva. Poi, con mia immensa sor-
presa, un terzo uomo raggiunse i
due che ormai erano davanti al
muro: Ercole Manetti, gracile e
rapido, scivolò vicino al brigante
e al pugile. Il comandante del plo-
tone inveì contro di lui ma
un’occhiata di Bastianoni lo zittì,
immobile sui suoi ridicoli stivali.
I tre parlottarono per pochi se-
condi poi Piadini estrasse con dif-
ficoltà qualcosa dalla tasca della
giacca e la passò al lettore. I tre
si salutarono con brevi cenni del
capo e il mio amico mi raggiunse
in silenzio. Anche Bastianoni ave-
va di nuovo raggiunto il gruppo
degli spettatori. Il condannato ri-
fiutò gentilmente la sigaretta che
il comandante gli aveva offerto e
con essa la benda. Il resto è in-
tuibile e non merita di essere ri-
portato. L’unica cosa buona di
quella barbarie fu l’estrema bre-
vità. Il comandante si avvicinò al
corpo per il colpo di grazia e, così
come era iniziato, tutto finì,
nell’odore di uva e castagne.

58
Il pacchetto mi era stato conse-
gnato prima dell’esecuzione ma,
preso dal pathos del momento, non
avevo avuto nessuna voglia di a-
prirlo. Adesso che l’assembramento
si andava sciogliendo mi tornò al-
la mente. Era un pacchetto ordina-
rio, in carta gialla, recante una
serie di timbri. Proveniva da Lon-
dra come, già a prima vista, aveva
denunciato il sigillo, un po’ pre-
tenzioso in realtà: Smith & LaFor-
gue, direttore editoriale Jonathan
Irving.
Apertolo mi trovai in mano, oltre
ai due volumi che mi immaginavo di
trovare, il “Giulietta e Romeo” bi-
lingue che avevo promesso al let-
tore e una versione italiana sco-
vata in chissà quale modo dal mio
lontano collaboratore di “Alice nel
paese delle meraviglie”, una lunga
lettera del “direttore editoriale”.
Mi colpì il fatto che fosse scritta
in inglese. Niente di strano, in
effetti. Ma la mia disabitudine a
vedere o ascoltare la mia lingua
madre mi colpì, per la prima volta
da quando mi trovavo in Italia. In
fondo questo non faceva altro che

59
farmi sentire come aliena, se pos-
sibile ancora di più, la mia patria
lontana, più nei pensieri che nello
spazio.
“Egregio signor LaForgue,
colgo l’occasione di questo invio
per fornirle alcune informazioni
sull’andamento dei suoi affari in
terra d’origine.”
Senza dubbio questo era il suo ten-
tativo migliore di risultare sim-
patico, pensai. Abortito, ovviamen-
te. Strano uomo, in bilico tra un
formalismo di maniera e il timido
tentativo di risultare “familiare”,
come si dovrebbe essere tra persone
che lavorano assieme e tenendo
conto della vaga parentela che ci
legava. Anche il tono della lettera
era strano quindi, figlio di quella
strana mistura che, avevo concluso,
era lascito di Cambridge ai suoi ex
studenti.
“Come da accordi, ho provveduto a
completare l’edizione dei volumi
che erano stati programmati quando
lei era ancora qua. Sarà felice di
sapere che i dati di vendita sono
decisamente confortanti (allego un
resoconto dettagliato) e che alcuni

60
di essi hanno ricevuto recensioni
interessanti.
Adesso, alle soglie del nuovo seme-
stre, mi trovo nella fastidiosa
condizione di dover programmare le
nuove uscite senza avere il suo
prezioso consiglio. Lei è stato
chiarissimo in merito e quindi
procederò secondo le mie personali
convinzioni. Nonostante questo
credo le sarà gradito conoscere i
titoli che ho intenzione di edita-
re. Per questo motivo allego una
lista del materiale disponibile che
credo sia meritevole di pubblica-
zione. La lista non è ancora com-
pleta in quanto non tutti i titoli
presenti arriveranno alla pubbli-
cazione e alcuni diversi potranno
venir inseriti. Ma credo che, già
da questa prima stesura lei potrà
rendersi conto di come intendo la-
vorare in questo periodo “a solo”.
Sperando che tutto questo le ri-
sulti gradito colgo l’occasione per
inviarle i miei più sentiti saluti
congiuntamente con l’augurio che
il suo stato di salute vada miglio-
rando. Suo Jonathan Irving.

61
Dicevo della voce del lettore. Ma,
come dicevo, non della sua voce
normale, non di quella che usava
per conversare o per ridere. Non
della voce con cui viveva, alla fi-
ne dei conti, ma di quella che gli
nasceva da dentro ogni volta che
sfogliava le pagine, che ci si per-
deva dentro. Quella nota profonda
talvolta, frivola in altre occasio-
ni, appassionata sempre, che si in-
sinuava nelle orecchie di chi lo
ascoltava. Un virus, un contagio
inevitabile, qualcosa di blu o di
rosso. Un qualcosa che nasceva
dalla passione, credo. Dall’amore
per le parole e per la loro conca-
tenazione, dalle mistiche strane,
talvolta voluttuose, altre candide,
che soltanto un libro trasmette.
Dalle spire in cui era, ogni volta,
avviluppato.
Nasceva piano, sempre, quella voce,
che non era la sua voce come dice-
vo, quasi avesse bisogno di riscal-
darsi un poco, di prendere confi-
denza, di accordarsi ai ritmi, ai
suoni che quel particolare libro,
quel passo, quel capoverso preten-
deva.

62
Pretendeva. Parola indovinata.
Perché è così che funziona. Ogni
libro ha il suo suono. E questo un
lettore deve saperlo. La differenza
tra viaggiare e arrivare da qual-
che parte.
Ma dicevo della voce. Nasceva pia-
no, dicevo. Solitamente bassa e
calda. Il ritmo della lettura era
sempre lento, probabilmente per
permettere all’uditorio di affer-
rare bene il senso delle parole. Ma
dopo poche righe i suoni iniziava-
no a farsi spazio, a pretendere il
loro ruolo. Così il tono iniziava a
danzare, dal basso verso l’alto e
viceversa, in continue scale, in
sovrabbondanza di sincopi. Teatra-
le certo. Nessuno avrebbe potuto
disconoscerlo. C’era del mestiere
dietro, è ovvio. Alcuni passi erano
frutto di studio, figli di innume-
revoli letture. Ma nella maggior
parte del tempo tutta la mistica,
compresa quella gestuale nasceva
genuina, direttamente dal piacere
del lettore nel ritrovare questo o
quel particolare, quella singolare
suggestione che non rammentava o
che rammentava fin troppo bene. La

63
gestualità, ridotta ad alcuni
sguardi quando staccava gli occhi
dalle pagine, ampi movimenti della
mano destra, leggeri spostamenti
del tronco e delle spalle, aggrot-
tamenti di sopracciglia e altri
impercettibili fremiti, riempiva
l’atmosfera attorno a lui e colmava
i vuoti che temporanee disatten-
zioni di alcuni ascoltatori pote-
vano creare. La vita infatti, per
quanto congelata dalle storie che
giravano per l’aria, proseguiva.
Infatti non mancavano sovente in-
combenze cui si doveva comunque
provvedere: il latte che bolle, il
bambino che piange e senti che
freddino che c’è stasera vado a
prendere una coperta.
Da che ricordo, l’unica a seguire
immobile e imperturbabile tutta la
lettura, quasi fosse prigioniera
delle parole, era Fiamma. Durante
quelle ore, sempre troppo poche per
lei, sospendeva ogni genere di at-
tività. Uno stato di quasi totale
catatonia. Le parole la attraver-
savano e la possedevano, scuotendo-
la talvolta, commovendola o urtan-
dola. Finché il lettore suonava la

64
sua musica, Fiamma ne era compresa
al punto da dimenticare il mondo.
Conosco la sensazione. Mi capitava
una volta quando Harold mi rac-
contava le sue avventure giovani-
li. Poi non più. Mi appassiono an-
cora, ovviamente. Ma ho perduto
quella specie di schiavitù che ca-
ratterizzava i miei ascolti bambi-
ni. E rivederne un riflesso in al-
tri me la riporta alla mente, ge-
nerando in me un’invidia che non
riesco a combattere.
Ma anche se Fiamma era la vittima
più evidente, tutti subivano il fa-
scino della voce del lettore. Io per
primo. Forse era dovuto al fatto
che parlasse una lingua che non
era la mia, anche se la conoscevo
perfettamente, con tutti quei suoni
e quelle sfumature di cui l’inglese
è privo, forse era dovuto alla si-
tuazione e al momento, forse alla
figura in qualche misura romanti-
ca del lettore, ai tanti piccoli
misteri che lo avvolgevano. Oppure
al luogo, severo e duro e al con-
tempo verde e pieno di luce: un li-
mitare di speranza e sogni.

65
Resta il fatto che quel fascino lo
sentivo e, riportandolo alla mente,
ancora lo sento.
Il cammino che intraprendemmo dopo
gli avvenimenti di quel giorno fu
lungo e difficoltoso. Ci inerpicam-
mo lungo un costone di roccia in
cui erano stati piantati alcuni
lunghi chiodi per facilitare
l’ascesa. Oltre il crinale si sten-
deva una sorta di altopiano brullo.
Sulla destra un muraglione di roc-
cia si stendeva per alcune centi-
naia di metri. Circa al centro di
questo muro, alcune grotte, orifizi
sdentati, aprivano ferite verso
l’interno. Fu immediatamente chiaro
che una discreta quantità di per-
sone occupavano quegli spazi. Il
terreno era calpestato e luci am-
miccavano dall’interno delle ca-
verne. Seguivo il mio compagno con
un sentimento di ansia. Non aveva-
mo scambiato parola per tutto il
cammino. La morte di Corrado Pia-
dini lo aveva molto turbato, questo
era evidente. Durante il tragitto
avevo potuto verificare la natura
del pacchetto che il brigante gli
aveva passato. Si trattava di una

66
copia de “L’isola del tesoro” di
Stevenson. Evidentemente il mio
amico effettuava anche opera di
prestito. La cosa che mi turbava
era che il fatto che uno dei libri
della sacca fosse in possesso di
Corrado Piadini significava che il
lettore aveva avuto contatti con
lui. Il che portava a credere che
avesse dei contatti con i briganti.
E, tratte le debite conclusioni, co-
minciavo a temere che, entro breve,
anch’io avrei sperimentato il mio
primo contatto con loro. Il luogo,
aspro e aperto, si prestava benis-
simo alla bisogna: l’unica via di
accesso era quella che avevamo
percorso noi due ed era facilmente
difendibile. Mi immaginai che da
qualche parte, non vista, una sen-
tinella tenesse d’occhio il passo. E
che, in quello stesso momento, nelle
grotte, si sapesse già del nostro
arrivo.
Due uomini barbuti, coperti da
giacche pesanti di lana, armati di
corti fucili, spuntarono
all’esterno della caverna di sini-
stra. Eravamo ancora distanti al-
cune decine di metri. Lo sguardo

67
del brigante più alto si sciolse in
un sorriso.
“Benvenuti. Venite dentro che fa
più caldo.”
In effetti la sera era umida e le
mie ossa risentivano della lunga
camminata. Così il tepore che ema-
nava da dietro i due mi sembrò la
cosa più bella che potessi immagi-
nare. Seguii il lettore dentro la
fenditura.
All’interno ci ritrovammo in una
sala grande, illuminata dalla luce
di numerose torce. Al centro un
braciere era per metà coperto da
una rozza griglia su cui stavano
cuocendo dei pezzi di carne. L’odore
permeava l’aria e risultava piace-
vole. Improvvisamente mi ritrovai
in un ambiente confortevole e fa-
miliare. Qualcosa che mi ricordava
una festa da spiaggia. Le facce de-
gli uomini che stavano intorno al
fuoco mi risultarono gradevoli,
invitanti. Niente di quello che mi
sarei aspettato da uomini che il
mio immaginario dipingeva come
truci e scostanti. Con gli occhi
della mente me li ero sempre figu-
rati sfregiati, con la bocca atteg-

68
giata a un ghigno bestiale, intenti
a saccheggiare e uccidere. Mi tro-
vai di fronte uomini per niente
dissimili da Antonio, da Italo. Da
me in definitiva. Alcuni avevano
tratti addirittura aristocratici,
altri più popolari. Non moltissimi
uomini, trenta circa.
Da come salutavano il lettore, da
come alcuni gli si avvicinavano,
prendendolo sottobraccio e parlan-
dogli fitto fitto, risultava chiaro
che lo conoscevano bene. Lui pare-
va imbarazzato. Le attenzioni dei
suoi simili avevano questo potere.
Nessuno si stupì della mia presenza
e nessuno domandò niente. Alcuni
mi salutarono con cenni del capo.
Tutti mi sorrisero. Questo signifi-
cava solo una cosa: sapevano chi
ero. Sapevano che non avevano
niente da temere. Erano informati
della mia presenza. Evidentemente
gli informatori della banda ave-
vano un tam tam efficace. La cosa
mi disturbò lievemente.
Poi quello che ci aveva invitato a
entrare mi si rivolse: “Mi scusi
signor LaForgue. Mi sono dimenti-
cato di presentarmi: Dante Nonini.”

69
Per me era un nome come un altro.
Ma, come risultò evidente in segui-
to, era il capobanda. Se avessi sa-
puto qualcosa di più sulle sue ge-
sta, sarei rabbrividito al contatto
con la sua mano forte. Invece la
strinsi con naturalezza.
“Sedetevi.”
Prendemmo posto attorno al fuoco. E
la cena ebbe inizio. Usammo delle
scodelle di pietra. Non esistevano
posate e tutti usavano le mani. Ma
contrariamente a quanto si possa
pensare c’era una compostezza note-
vole nei gesti dei commensali. La
riunione fu allegra, piena di mot-
ti di spirito e facezie. Bevemmo
del vino direttamente da una pic-
cola botte e acqua di fiume raccol-
ta in un orcio. Poi le parole si
diradarono e il lettore svolse il
suo lavoro.

Ci svegliammo molto presto al mat-


tino, il sole non era ancora sorto
e solo un leggero baluginio rag-
giungeva il nostro giaciglio. Ci
avevano svegliato i rumori: i bri-
ganti si preparavano a lasciare le
grotte.

70
“Mai due notti nello stesso posto. –
ci disse allegramente Nonini por-
tandoci una bevanda calda dal gu-
sto riprovevole che conclusi essere
caffè, surrogato probabilmente co-
me quello di Maria, ma ugualmente
imbevibile. Lo tenni stretto fra
mani e gambe, seduto per terra in
mezzo al giaciglio di fortuna che
ci era stato approntato – Scusateci
per la sveglia.”
“Anche noi dobbiamo rimetterci in
cammino presto.” Sorrise il letto-
re.
“Perché? – domandai ingenuo – Per-
ché mai due notti nello stesso po-
sto?”
“I militari.” Si limitò a dire. Muo-
veva la testa da destra a sinistra,
quasi a voler rendere manifesta la
propria disapprovazione.
“Vi cercano?”
“Ci sono sempre pattuglie in giro.
Dall’alto è arrivato l’ordine di e-
liminare i briganti. E presto o
tardi ci riusciranno.”
“Non potreste lasciare la zona? Op-
pure abbandonare questa vita?”
“Per andare dove? E a fare che co-
sa?”

71
Nonini si allontanò con un improv-
viso carico di tristezza sulle
spalle. Mi sembrava impossibile che
un uomo che conduceva quel tipo di
vita riuscisse a rapportarsi ci-
vilmente con me. Invece avevo no-
tato che sia lui che gli altri si
trovavano a loro agio in una nor-
male conversazione, alcuni di loro
erano mediamente istruiti. Con
buona pace del mio immaginario.
Nel giro di pochi minuti dei bri-
ganti non ci fu più traccia. Tutti,
prima di allontanarsi passarono a
salutarci e a stringerci le mani.
Io, inebetito, guardai la lunga fi-
la snodarsi, raggiungere il passo e
scendere. Prima di iniziare la di-
scesa Nonini, in cima alla fila, si
fermò ad aspettare qualcosa. Colse
il momento per voltarsi un’ultima
volta e rivolgerci un cenno con il
braccio. Poi un fischio forò l’aria
e i briganti discesero.
Ci sedemmo a guardare l’alba. Sedu-
ti all’esterno delle caverne, con la
schiena appoggiata al muraglione
di pietra, lasciammo che il sole ci
riscaldasse. Era una mattina lim-
pida, cosa abbastanza inusuale da

72
quelle parti perennemente coperte
dalla bruma mattutina.
“I militari hanno interrotto il
normale flusso delle cose.”
La voce del lettore interruppe un
silenzio che durava da molti minu-
ti. Mentre io mi godevo il tepore
il mio compagno aveva pensato a
quelle domande che mi dovevano
passare per la mente. E, senza che
avessi bisogno di domandare alcun-
ché, mi fornì le risposte. A ripen-
sarci, questa cosa dipinge bene il
rapporto che lui aveva con me, il
modo con cui mi aiutava a compren-
dere quel mondo, quel piccolo lembo
di terra, e le sue regole così dis-
simili da quelle che regolano il
resto della comunità umana. Non
perché fosse un luogo diverso da
tutti, ma perché tutti i luoghi so-
no diversi. E le regole, anche le
regole, sono diverse dovunque.
“Ogni società ha i suoi predoni. E’
nell’ordine delle cose. I briganti
sono i nostri predoni. – si schiarì
la voce con un colpo di tosse – Ma,
mentre fra gli animali un lupo
non fa differenza fra le pecore,

73
fra gli uomini i predoni operano
delle scelte.”
Fece una lunga pausa senza osser-
varmi. Non aspettava cenni di as-
senso, semplicemente mi lasciava il
tempo di accettare il ragionamento.
“Questa terra è povera. E aspra. La
vita è particolarmente dura. Vi-
viamo in un completo isolamento.
L’intero mondo va dal paese alle
case dei montanari là in alto. –
fece un cenno con la mano verso la
cima della montagna – Siamo troppo
distanti dalle città. E non ci sono
insediamenti, superato il paese,
per molte decine di chilometri. Co-
sì, da queste parti, l’unica legge è
sempre stata quella che ci siamo
gestiti da soli. Un patto di convi-
venza. Niente di più. Ognuno di noi
si è attrezzato per sopravvivere.
Prendi il mio caso: non sapevo fare
niente, non avevo un mestiere. E
avevo queste mani gentili che non
si accordano con una zappa. Mi sono
inventato un mestiere che, per mia
fortuna, aveva un suo motivo di
essere in questa comunità. Ma non
c’è abbastanza terra per tutti, non
ci sono possibilità per tutti. Per-

74
ché anche qui abbiamo i nostri pa-
droni, i nostri ricchi, che tirano
fuori, anche da una terra come
questa, più di quello che gli abbi-
sogna. Sai dei pascoli recintati,
vero? – un altro cenno della mano,
seguito da un rapido semicerchio e
dall’indice puntato di fronte a
noi, su una casa grande – E della
tenuta? Per questo non c’è abba-
stanza terra. Per questo non ci so-
no possibilità per tutti.”
Tirò un sospiro profondo.
“Così nacquero i briganti. – di
nuovo una pausa e di nuovo un so-
spiro. – Che, non essendo lupi, si
scelsero le prede. E le prede furo-
no i grandi proprietari della ter-
ra, i ricchi. Anche perché agli al-
tri c’era ben poco da rubare. In
più devi capire che gli altri abi-
tanti della zona non avevano alcun
motivo di amare i propri padroni.
Anzi, negli anni c’erano stati mol-
ti motivi di contrasto. Ma questo
immagino sia uguale anche in in-
ghilterra. Così i briganti presero
a derubare i ricchi. E i poveri,
non avendo niente da temere da lo-
ro, anche perché erano figli loro,

75
li accolsero e protessero. Il siste-
ma trovò un proprio bilanciamento.
Le scorribande non erano così fre-
quenti da rendere il fenomeno ri-
levante per le autorità e i ricchi
si arrangiarono a proteggersi as-
soldando guardiani per le loro
terre e i loro beni. Era un altro
modo per sopravvivere. Se le scor-
ribande andavano a buon fine i
briganti sarebbero sopravvissuti,
altrimenti sarebbero morti di
stenti. Un equilibrio che è durato
per molti anni. In più i briganti,
sotto la guida del padre del povero
Corrado, iniziarono ad amministra-
re la nostra giustizia. Erano loro
i garanti che i patti fra noi non
sarebbero stati infranti, pena il
loro intervento. Nessuno avrebbe
mai osato fare del male o derubare
un vicino. Non ci fu mai bisogno di
esercitare questo controllo con la
forza. La stessa presenza della
banda era un deterrente efficace.”
Il sole scaldava il muraglione e
lui scaldava noi. Il lettore parla-
va usando i suoi toni caldi, cosa
inusuale in una conversazione.
Sembrava leggesse. Oppure, ed era

76
la prima volta che lo pensavo, usa-
va la passione. La stessa passione
che lo avvolgeva quando doveva
raccontare quelle storie d’altri
che amava tanto. Quest’uomo inu-
suale era appassionato da quella
terra così come dai libri. E quando
c’era, la passione tirava fuori la
sua voce di dentro, quella voce che
si dissimulava durante una norma-
le conversazione.
“L’arrivo dei militari ha distrutto
l’equilibrio. Le regole del resto
del mondo non vanno bene qui. O
forse sono le regole stesse, in
quanto tali a non andare bene. Nel
momento stesso in cui esse vengono
scritte perdono di elasticità, non
riescono più ad adattarsi
all’ambiente e alle situazioni.
Forse le regole non dovrebbero es-
sere scritte, dovrebbero formarsi
da sole, essere frutto del quoti-
diano svolgersi delle cose. Con i
militari sono venute le regole. E
loro stessi, che di quelle sono
un’emanazione, sono troppo poco e-
lastici per capire che questo non è
il modo. Non qui. Non adesso.”

77
Ebbi la sensazione che potesse
piangere. Non riuscivo a capire
come la sorte e il futuro di un
gruppo di fuorilegge potesse scuo-
terlo tanto.
“E la colpa non è dei militari. E’
il mondo che sta cambiando. E nes-
suno può evitarlo. Le distanze si
accorciano, le comunità si amplia-
no. E quelle decine di chilometri
sono sempre più sottili. Prima o
poi saranno una barriera insuffi-
ciente, forse già adesso lo sono. E’
questo che scriverà la fine di que-
sto mondo. Che non sarà un gran
mondo, ma è il mio. Prima o poi fi-
niranno i briganti. Non perché
verranno uccisi tutti, e accadrà,
puoi esserne sicuro, ma perché non
ci sarà più spazio per loro nella
società che arriva. Non ci saranno
più i rapporti di buon vicinato ma
regolamenti che stabiliranno quali
devono essere i comportamenti da
tenere. E, prima o poi, non ci sarà
più spazio neanche per un lettore
ambulante. E, temo, neanche per i
libri.”
Si alzò e si sgranchì le ossa. An-
che le mie erano indolenzite. Tirò

78
su la sacca e si incamminò verso il
passo. Lo seguii in silenzio.
Durò ventidue giorni il mio giro-
vagare a fianco del lettore. Du-
rante questo periodo ebbi modo di
visitare numerose famiglie, cono-
scere in modo più profondo il tes-
suto sociale della zona, rendermi
conto di quanto fosse importante e
inusuale la sua presenza
all’interno della comunità. Era il
senso di appartenenza incarnato.
La visita del lettore era, per chi
la riceveva, la conferma che questa
strana società slegata esisteva
davvero, che facevano parte di un
qualcosa di più ampio, che rispon-
deva a modi e abitudini collettivi.
Ci separammo una mattina di otto-
bre appena iniziato. Nessuno aveva
mai fatto obiezioni alla mia pre-
senza, ma io sapevo che in
un’economia come quella che rego-
lava la vita in quelle zone non
permetteva di scialare e che la
presenza di un commensale in più
era un peso che alcune di quelle
famiglie non potevano facilmente
permettersi.

79
Il giorno in cui ci separammo pro-
vai un senso di privazione che non
avevo mai sperimentato prima. Fu
sorprendente notare quanto fosse
stato facile abituarmi a quello
stile di vita. Forse ero davvero,
dentro, uno “walking reader”. Anche
nelle parole e negli occhi del mio
compagno ebbi modo di riconoscere
lampi di rammarico.
“A fine mese arriverò di nuovo a
casa di Antonio e Maria.” Disse a-
sciutto.
“Ci rivedremo lì, allora.”
Ci sarebbero state molte parole da
dire e, magari, anche lo spazio per
qualche manifestazione amicale.
Tutto invece sublimò in una stret-
ta di mano.
La sacca oscillava mentre ne os-
servavo la schiena allontanarsi
lungo il viottolo, divenire più
piccola. La figura del lettore am-
bulante scomparve alla mia vista
oltre un ciuffo di cespugli.
Mi voltai e intrapresi il cammino
di ritorno.
La mattina del 13 dicembre 1938
portò due novità. La prima risultò
evidente anche agli osservatori

80
disattenti. Durante la notte aveva
nevicato. Un buon metro di neve mi
sembrò a prima vista. Restai in-
cantato a guardare quella campa-
gna imbiancata. C’è qualcosa nella
neve che comunica un senso di bel-
lo. O forse era soltanto un recupe-
ro della mia anima bambina. Dalla
finestra della mia camera, ben co-
perto e con addosso i residui del
calore da sonno appena terminato,
stetti immobile a guardare in bas-
so e lontano, dove una nebbiolina
rendeva incerti i profili degli
alberi del bosco.
Proprio da quel punto arrivava I-
talo. A piedi, con passo urgente. In
principio non lo riconobbi: era
soltanto un’immagine umanoide che
caracollava in direzione della ca-
sa, ancora piccolo in prospettiva.
Ne intuivo le braccia e le gambe.
La testa era infilata nel giaccone:
doveva fare un gran freddo. Poi
qualcosa nell’andatura mi suggerì
che doveva trattarsi di lui. Pro-
veniva dal bosco. Cominciai a sor-
ridere tra me. Per tutta l’estate e
tutto l’autunno doveva aver com-
piuto un giro lunghissimo per con-

81
tinuare a farci credere di prove-
nire dal paese. Io invece avevo so-
spetti fondati su quale fosse il
suo punto di partenza. Adesso la
neve e il freddo lo avevano co-
stretto ad abbandonare la bici-
cletta e la riservatezza. A
quell’ora tutta la casa era pervasa
dall’attività. Tutti avrebbero visto
da che direzione proveniva e tutti
avrebbero tratto le ovvie conclu-
sioni e pensa te la vedova inconso-
labile. E chi l’avrebbe mai detto
che Italo…
Poi quando la figura prese conno-
tati più chiari per il ridursi
della distanza qualcosa negli oc-
chi, la sensazione che stesse gri-
dando, mi indussero uno stato
d’ansia. Mi infilai nei vestiti del
giorno precedente e saltellando
per la stanza mi infilai le scarpe
senza perdermi nella solita ricer-
ca delle calze: sarei tornato dopo
a rivestirmi civilmente.
Capita anche a voi di sentire il
tuono prima che effettivamente ar-
rivi? Non parlo di quel tuono che
nasce durante il temporale. Parlo
di quelli lontani, quelli cupi. Che

82
nonostante ci sia un bel sole e una
brezza che sa di primavera a sor-
presa, senti che sulla lingua hai
un sapore di elettrico che non si
spiega e quella folata di vento
leggermente più freddo che viene
dal sud. E subito dopo un suono, no
una vibrazione, che non sai se
viene da te o da fuori. Che cresce
piano e rinforza. E stasera piove.
Mi precipitai giù per le scale e
raggiunsi la porta. La spalancai
tra lo stupore delle donne e le oc-
chiatacce degli uomini, tutti in-
torno al camino. Dovevano lavorare
loro, mica come quell’inglese mezzo
matto che ora si metteva a correre
sulla neve. Senza le calze.
Non so perché ebbi la netta perce-
zione dei pensieri di tutti, né se
sia vero che l’ebbi. Ricordo con
nettezza la sensazione del freddo
che ti morde la carne, improvvisa.
Ciononostante continuai a correre
verso Italo che sopraggiungeva.
Adesso sentivo che stava effettiva-
mente gridando.
Poi un refolo maligno mi portò,
insieme a un brivido freddo che

83
avrei in seguito scontato con dei
giorni di febbre, la sua voce.
“E’ morto.”
Probabilmente me lo ero sognato.
Era troppo distante. Era colpa di
quell’angoscia ingiustificata, di
quell’ansia che non aveva ragione
di essere. Era tutto nella mia te-
sta. Italo si affrettava perché fa-
ceva freddo e sperava che nessuno
notasse da dove veniva. E probabil-
mente non stava neanche gridando.
Magari cantava per tenersi caldo e
allegro in quel tempo da lupi e lui
ha attraversato tutto il bosco e
cosa vado a pensare guarda te.
“E’ morto.”
Correvo più veloce che potevo, ma-
ledicendo quel corpo inutile e pi-
gro che avevo coltivato in tutti
quegli anni. E la distanza sembra-
va non diminuire. Dietro di me an-
che Maria e Antonio, e Fiamma a
poca distanza, avevano preso a cor-
rere. Anche loro si erano resi
conto che qualcosa non andava. O
forse era colpa mia e, preoccupati,
mi stavano inseguendo.
“E’ morto. Il lettore è morto.”

84
Caddi in ginocchio nella neve. Na-
scosto sotto la coltre c’era un
qualcosa di aguzzo che mi tagliò la
carne della coscia. La neve si co-
lorò di rosso. Un rosso vivo. In
pochi istanti aveva tinto tutta la
neve a disposizione, tutta la mon-
tagna si fece rossa, i viottoli, gli
stradelli, le cime degli alberi, le
case, le grotte con i briganti, tut-
to colorato di rosso, tutto il mondo
colorato di rosso e oltre.
“L’hanno ammazzato.”
Anche i miei pensieri divennero
rossi. Dopo di quello, per molto,
molto tempo, non ricordo più nien-
te.
La cena del 12 dicembre era stata
estremamente gradevole per il let-
tore. La vedova Alinghi si era
sbizzarrita ai fornelli. Era
l’ultima visita del lettore prima
del natale. E lei aveva intenzione
di trattarlo per bene e di scam-
biare gli auguri come Dio comanda.
Cosa saranno mai dodici giorni,
aveva pensato. Poi qui, in mezzo al
nulla, anche avessero cambiato
l’intero calendario noi lo verremmo
a sapere solo tra una ventina

85
d’anni. E poi ho sentito che da
qualche parte del mondo è già do-
mani. Allora, magari, da qualche
parte del mondo é già natale.
E loro lo avrebbero festeggiato.
Per l’occasione, a tavola, si mate-
rializzò anche Italo, adducendo
una qualche scusa. La vedova ci te-
neva a mantenere il rispetto delle
forme. Dopo cena la lettura fu me-
no lunga del solito e venne accom-
pagnata da numerosi bicchieri di
vin brulé. C’era una bella sensa-
zione di caldo e non si stentava a
credere che il mondo fosse un bel
posto dove vivere. Infine tutti si
ritirarono nelle loro stanze.
Al mattino Ercole Manetti si levò
di buon ora. Aveva promesso di tro-
varsi per pranzo dagli Uberti. E-
rano una famiglia numerosa, con
numerosi marmocchi. Non poteva
permettersi ritardi altrimenti lo
avrebbero messo in croce. Anche se
aveva nevicato, e aveva nevicato
parecchio, lui doveva incamminarsi
subito.
Abbandonò la casa che il sole stava
appena iniziando a brillare oltre
il dosso. Non avrebbe avuto proble-

86
mi, raggiunto il bosco il sole a-
vrebbe superato il crinale e a-
vrebbe potuto continuare il tra-
gitto in tutta tranquillità.
Come aveva previsto, al limitare
del bosco, il sole fece capolino,
illuminando basso tutto il viottolo
che si intravvedeva sotto alla col-
tre. Così proseguì di buon passo.
Camminava da meno di mezz’ora
quando si imbattè in una pattuglia
di militari: il comandante, un uomo
alto, con due baffi sottili e ca-
pelli unti, lo squadrò dall’alto in
basso.
“Prendetelo” ordinò senza spostarsi
dalla comoda posizione, molto mili-
taresca, che aveva assunto.
Quattro forti braccia abbrancarono
il corpo esile del lettore e lo
strattonarono verso il comandante.
Non aveva fiato in gola, né abba-
stanza coraggio per dire alcunché.
Se avesse avuto qualche idea di co-
me fossero fatti i gradi si sarebbe
reso conto di trovarsi davanti a
un generale. E l’unico generale in
zona era lo spaventoso generale
Cassetti, lo spietato generale Cas-
setti, il pazzo generale Cassetti.

87
L’uomo che giustiziava i briganti,
l’uomo che faceva più paura dei
briganti. Ma, per fortuna, almeno
questo spavento venne risparmiato
al mio amico.
Si ritrovò semplicemente davanti a
quest’uomo dall’aria anche bonaria,
che gli sorrise storto. Anche lui
sorrise storto, ma in un modo che
non dovette piacere al generale: il
pugno lo colpì violentemente allo
stomaco, improvviso. Ercole Manetti
piegò le ginocchia e avrebbe voluto
cadere, ma le quattro braccia lo
stringevano forte e lo costrinsero
a rimanere eretto. Così anche il
secondo pugno lo raggiunse con la
medesima efficacia. Lui era leg-
germente piegato in avanti. Così il
pugno colpì tra il plesso solare e
il costato e lui sentì distintamen-
te il suono di una costola che si
rompeva. Avrebbe gridato volentie-
ri ma l’aria non voleva saperne di
uscirgli dai polmoni.
“Vediamo se sei un tipo intelligen-
te. – proseguì Cassetti. – Dov’è il
biondo?”
Per tutta risposta il lettore, che
non aveva ancora compreso la si-

88
tuazione, gli rivolse un’occhiata
interrogativa. Anche questa non
dovette piacere al generale.
Il terzo pugno lo raggiunse di
nuovo all’addome e questa volta vo-
mitò, con violenza. La cena della
vedova Alinghi si riversò sui pan-
taloni del generale ricoprendoli
di più vivaci colori.
“Bastardo.” Sibilò. Lo colpì con un
calcio al ginocchio destro che mi-
racolosamente restò intero. Il do-
lore fu comunque grande e, stavol-
ta, si divincolò e cadde carponi.
Un nuovo calcio lo colpì in faccia,
rompendogli un dente e riempiendo-
gli la bocca di sangue.
“Te lo chiedo di nuovo: dov’è il
biondo?”
“Io non sono… - tentò di bofon-
chiare reprimendo un nuovo conato
– …non sono…”
Di nuovo calci. Ai fianchi, allo
stomaco. Adesso anche i militari
infierivano su di lui. Qualcuno lo
colpì alla schiena con il calcio
del fucile finché lui non si rove-
sciò sulla schiena.
Il generale fece un gesto e gli al-
tri si fermarono. Il lettore guar-

89
dava il cielo. Nella posizione in
cui si trovava non vedeva altro
che uno spicchio di cielo fra gli
alberi. Non vedeva i suoi aguzzini.
Poi la faccia bonaria del coman-
dante entrò nel suo quadro visivo.
Teneva in mano una pistola.
“Fatti furbo. Dimmi dov’é. So che è
da queste parti. Lo stavo per pren-
dere ieri sera, a due chilometri da
qui. Lui con tutta la banda. Ne ho
già ammazzati sette dei tuoi com-
pari. Dimmi dov’é.”
“Io non…”
Il generale gli puntò la pistola
contro la coscia sinistra e, senza
smettere di sorridere, tirò il
grilletto. Questa volta Ercole Ma-
netti gridò. Sentiva il suo grido
ribollire in mezzo al sangue che
gli aveva riempito la gola. E sen-
tiva tutto quell’anormale caldo che
gli saliva dalla gamba al cuore.
Bruciava il lettore, steso sulla
neve bruciava.
“Proprio in uno duro dovevo imbat-
termi. – si lamentò fra sé il gene-
rale. – Non poteva capitarmene uno
più maneggiabile? Peggio per te
comunque. E, dimmi, - fece allun-

90
gando una mano verso la sacca del
lettore – cos’è che ti porti dietro?”
Libri, soltanto libri e qualche ve-
stito. E un paio di fette di for-
maggio che la vedova Alinghi gli
aveva nascosto in un tovagliolo di
lino per non lasciarlo andare sen-
za qualcosa da mettere sotto ai
denti in quel freddo che c’è la
mattina presto e non capisco per-
ché deve andar via prima che sia
giorno.
Questo avrebbe avuto da dire il mio
amico. Ma non riusciva a parlare
per il dolore.
“Libri? – Tuonò il generale Casset-
ti – Libri? Che se ne fa un bri-
gante di una borsa di libri? Anche
questi rubate adesso?”
“Io non…”
In un accesso d’ira il comandante
prese la copia de “Il libro della
Jungla”, ne osservò le illustrazio-
ni, poi lo afferrò con forza e lo
spezzò in due. Il dorso si divise in
due monconi sbertucciati. La co-
pertina anteriore volò via assieme
alla garza che proteggeva la rile-
gatura. Lo strappo aveva diviso un
quinterno e alcuni fogli scivola-

91
rono come foglie in autunno, svo-
lazzando e andandosi a posare sul-
la neve fradicia e sporca per il
passaggio degli scarponi, per il
vomito e il sangue. Pur immerso
nella nebbia attraverso cui vede-
va, il mio amico assistette impo-
tente alla morte del libro. E qual-
cosa si ruppe. Gridò più forte che
mai e, prima che la ferita alla co-
scia lo facesse ripiombare a terra,
fece uno scatto, le mani protese
verso la gola di quell’infame indi-
viduo che osava distruggere un li-
bro.
Mentre ricadeva vide, alla perife-
ria del suo sguardo, quell’uomo che
non aveva più niente del bonario
mentre afferrava nuovamente la
pistola, le faceva compiere un buf-
fo semicerchio al di sopra della
sua testa, puntava e sparava.
Il proiettile lo raggiunse alla
tempia.

Mi risvegliai il 27 dicembre. Qua-


lunque cosa mi avesse ferito dove-
va essere decisamente affilata. A-
veva reciso la femorale aprendo
uno squarcio nella coscia. I pochi

92
minuti che erano intercorsi dal
momento in cui avevo iniziato a
perdere sangue a quello in cui An-
tonio aveva fermato l’emorragia
usando la sua cintura come laccio
emostatico erano stati sufficienti
a dissanguarmi in modo significa-
tivo. Avevo perso conoscenza a cau-
sa di quello, dicevano, anche se
non ne ero molto convinto. Poi, du-
rante la mia incoscienza, nono-
stante le cure la ferita si era in-
fettata e, a seguire, ero stato col-
to da febbri altissime. Deliravo, o
così mi venne riferito. L’infezione
si estese al punto che il medico
credette dovessi perdere la gamba.
Poi, lentamente, il mio debole corpo
dimostrò un attaccamento
all’esistenza insospettabile. E in-
fine mi risvegliai.
Ero solo nella stanza. A giudicare
dall’altezza del sole sull’orizzonte,
doveva essere poco prima del mezzo-
giorno. Tutti dovevano essere presi
dalle proprie occupazioni ma non
dubitavo che, a breve, qualcuno sa-
rebbe apparso nell’andito della
porta per vedere come stavo. Decisi
di approfittare del breve periodo

93
di solitudine per riordinare le
idee: il lettore era morto. Se dove-
vo fidarmi delle mie percezioni
era stato ucciso. Ma non sapevo se
potessi aver sognato questo parti-
colare. Anche perché sembrava im-
possibile: chi poteva aver ucciso
quell’omino tranquillo. Non aveva
nemici, era cortese con tutti, non
possedeva niente se si escludono i
suoi libri. E non valevano abba-
stanza. Specialmente in un luogo
in cui l’analfabetismo pressocché
totale li rendeva inutili. Possede-
va solo quel segnalibro d’argento.
Ma anche quello non aveva alcun
valore. Dovevo aver sognato tutto.
Ercole Manetti non era morto. Mi
ero sognato tutto.
Poi vidi la borsa.
Era appoggiata sulla sedia accanto
al mio letto. Era sporca e strappa-
ta in più punti. Mi allungai per
raggiungerla ma un dolore mi
bloccò. Guardandomi attorno vidi
che un corto bastone era appoggia-
to alla parete vicino a me. Usando-
lo come prolunga del mio braccio
raggiunsi la borsa e la tirai ver-
so di me.

94
All’interno, sopra gli abiti di ri-
cambio del lettore, c’era quello che
un tempo era stato un libro. Man-
cava la copertina e la rilegatura
era spezzata. Alcuni fogli sparsi,
sporchi e stracciati, sostavano
sotto i due monconi del libro. No-
nostante le condizioni riconobbi
immediatamente “Il libro della
Jungla”. Una delle pagine strappa-
te era quella dell’illustrazione di
Kaa che apre le fauci.
Misi in ordine le pagine staccate.
Un quinterno era stato strappato a
metà. Da quello provenivano i fogli
che avevo trovato sparsi per la
borsa. Con mio grande sollievo tro-
vai tutte le pagine. Sarebbe stata
dura, non sarebbe venuto fuori un
gran lavoro, ma potevo ripararlo.
Avrei dovuto trovare della carta
adatta e si sarebbero visti i segni
della colla e della riparazione. Ma
il libro era salvo. Non trovai la
copertina anteriore. Perduta quel-
la, anche quella posteriore era
inutile. E anche i risguardi. Li
staccai con cura. Li avrei rico-
struiti con la copertina. Sarebbe
tornato quasi come nuovo.

95
Lo avevano trovato coperto di poca
neve. Aveva iniziato a nevicare di
nuovo ma nel fitto del bosco non
arrivava ancora un gran numero di
fiocchi. Antonio aveva sperato fi-
no a quel momento che Italo si fos-
se lasciato suggestionare, che il
lettore fosse ferito o magari sve-
nuto. La neve rossa aveva spento
ogni speranza. Per essere un uomo
così gracile doveva avere un sacco
di sangue. Tutta la scena era stata
ingentilita dal nuovo velo bianco.
Ugualmente le impronte degli scar-
poni erano visibili.
“Militari. – disse Antonio. – Lo
hanno scambiato per un brigante.”
Gli altri erano rimasti in silen-
zio.
L’odore pungente del vomito riem-
piva l’aria ma non fu per quello
che tutti chiusero gli occhi. Poi
Italo e Antonio si caricarono il
mio povero amico e lo portarono a
casa. Non aveva parenti né legami
di alcun tipo. Nonostante questo al
“funerale” c’erano centinaia di
persone. Erano passati due giorni.
Nessuno era stato avvertito. Anto-
nio aveva deciso di non informare

96
le autorità. Nessuno avrebbe mai
chiesto notizie di lui. Era stato
ucciso dai militari. Nessuno a-
vrebbe mai pagato per la sua morte.
Era meglio seppellirlo e basta.
Ugualmente la cosa si riseppe. E il
giorno della “funzione” gruppi di-
sparati di persone si presentarono
a casa dei miei amici per render-
gli l’estremo omaggio. Tutti quelli
che aveva visitato erano presenti.
E tutti insieme lo riconsegnarono
alla terra.
Fiamma recitò un passo del vangelo
che aveva imparato a memoria e la
vedova Alinghi fece un breve di-
scorso. Fra i presenti fu impossi-
bile non notare Dante Bastianoni.
E due briganti, lontani dagli al-
tri. Le voci dicono che fossero
della banda Nonini. E altri affer-
mano di aver scorto addirittura il
biondo, ma nessuno ha mai dato
credito a queste chiacchiere. Sulla
croce Italo aveva intagliato le
parole “qui giace il lettore ambu-
lante”. Nessun nome, nessuna data.
E stavolta tutti lo sentirono quel
rumore: come di grandine, o un u-
ragano addirittura.

97
Il mio regalo di natale per Ercole
Manetti fu il restauro del volume
danneggiato. Stranamente tutti
quelli che mi stavano attorno pre-
sero molto sul serio il mio lavoro
attorno a quel libro. Tutti vollero
collaborare: Italo si procurò della
carta di buona fattura, non chie-
dermi come ci sia riuscito tanto
non te lo direi, Fiamma costrinse
il marito a fabbricare
un’improvvisata pressa per le pa-
gine che stavo ripristinando. L’uso
di abbondante colla e un paio di
giorni di pressa le resero quasi
perfette: osservando con attenzione
si notava la saldatura, in defini-
tiva avevo dovuto soprammettere
dei piccoli lembi di carta, e il co-
lore non era esattamente lo stesso.
Più propriamente la carta nuova
aveva il colore della carta del li-
bro all’origine. Ma gli anni aveva-
no leggermente ingiallito le pagi-
ne. Ma, in fin dei conti, il lavoro
era stato condotto a opera d’arte.
La pressa funzionò a meraviglia e
la carta si stirò tornando come
nuova. Piegare il quinterno rifat-
to non creò problemi anche se

98
l’intero lavoro avrebbe avuto biso-
gno di una leggera rifilatura. La
carta avrebbe però potuto sciupar-
si e decisi di lasciar stare. Maria
si occupò delle cuciture. Antonio
fu l’unico a non partecipare ai la-
vori, ma mi procurò il materiale
per la copertina. Alla fine soltan-
to la copertina stessa e i risguar-
di erano completamente nuovi. E
diversi dagli originali. Sulla co-
pertina scrissi a mano il titolo.
E la mattina del 31 dicembre lo
portammo con noi dal lettore.
Si fanno cose stupide per combat-
tere il dolore. Molti fingono che
non sia accaduto niente. E noi non
facemmo eccezione. Ci trovammo a
chiacchierare come se lui potesse
sentirci, in attesa di chissà quale
segno di assenso e approvazione.
Cinque persone improvvisamente un
po’ più sole. Perché Ercole Manetti
era una finestra sulla vita buona,
quella che ci ostiniamo a pensare
debba esistere, essere in qualche
modo. Quella finestra era stata
chiusa.
E io, a differenza dei miei compa-
gni, mi trovavo in una sorta di

99
confino volontario, facoltativo.
Presto avrei ripreso il mio posto
nell’ordine delle cose, avrei tro-
vato nuove finestre. Mi chiesi, mi
chiedo ancora in verità, se il let-
tore ambulante, quello vero inten-
do, si fosse mai reso conto del suo
ruolo sociale, della sua importanza
in quel piccolo mondo autarchico
per necessità, quell’angolo di pia-
neta che costituiva un ghetto per
abitudine, bisogno, opportunità.
Probabilmente no. In questo, il mio
provenire da fuori rendeva più
facile leggere certe dinamiche. E,
alla fine, rese più semplice la de-
cisione.
Il parco ha un che di falso natu-
rale: prati di un verde troppo lie-
ve in contrasto con quello aspro di
questa zona pre-montana. Un gruppo
di giochi per bambini, scivoli, al-
talene, dondoli, pitturati con co-
lori sgargianti, offende il buon
senso a poca distanza dall’ampia
panchina in ferro. Il nutrito
gruppo di bambini sembra in agita-
zione. In particolare uno di loro
continua a correre dalla panchina
fino al limitare della recinzione

100
e strilla qualcosa a quella che si
può supporre sia sua madre. La
donna, allarmata, osserva la pan-
china, i bambini e la figura esile
e rattrappita abbandonata su un
fianco, per terra, in mezzo alla
caciara di voci infantili. Seguita
da alcune altre donne si avvia a
passo veloce verso l’entrata, ampio
porticato ricoperto di bougainvil-
lea che si apre come una bocca
nella recinzione che comprende lo
spazio giochi del parco. Dalla par-
te opposta, oltre il recinto a sud,
villette a schiera con ingresso
indipendente e piccolo giardino,
ampio ingresso, sala, cucina-
tinello, 3 camere, doppi servizi,
balcone, ripostiglio, posto auto,
termoautonomo, ottime condizioni di
pagamento, varie soluzioni, si
stendono volgari davanti al bosco.
In mezzo al bosco, se si girasse per
un po’, perdendo la cognizione dei
punti cardinali, si potrebbe anco-
ra inciampare casualmente in uno
spiazzo, in mezzo al quale soprav-
vive una vecchia casa, un piccolo
orto abbandonato e i resti di un
recinto per le bestie che è stato

101
verniciato l’ultima volta molti an-
ni fa.
La donna raggiunge la panchina e
i bambini, quasi con deferenza, si
aprono in due ali. Al centro il
vecchio, per terra.
“Mamma è un dottore. Ci pensa lei.”
“La mia fa l’avvocato.”
“Chi se ne frega.”
“Fate largo bambini. Lasciatelo re-
spirare.”
Il volto dell’uomo è un reticolo di
rughe scavate dalle intemperie.
Lei non lo ha mai osservato da vi-
cino. E’ soltanto quel vecchietto
che legge le storie al parco e che
tutti i giorni si piazza sulla
panchina e menomale che c’è lui co-
sì ci prendiamo un caffè al chio-
sco. Sono anni che lo vede. Ci ha
anche parlato a volte. E’
un’istituzione da queste parti.
Quando comprarono la villetta lui
leggeva sulla panchina già da mol-
ti anni. Una presenza discreta e in
qualche misura rassicurante. I
bambini lo adoravano.
Adesso, per la prima volta, ne vede
bene il volto, le mani, i capelli:
un uomo esile ma non fragile. Si

102
inginocchia, le mani corrono al
collo a cercare il battito. Poi la
donna abbassa la testa verso il
naso e la bocca del vecchio. Di
profilo, con l’orecchio che sfiora
letteralmente le labbra dell’uomo,
un’espressione preoccupata, il suo
volto è bellissimo. Una dolcezza
triste ne riempie gli occhi.
Tira su il tronco, trovandosi in-
ginocchiata davanti a quel corpo.
La mano corre di nuovo verso il
volto esanime e ne chiude gli oc-
chi.
Le altre madri hanno portato via i
bambini che protestano rumorosa-
mente.
“Voglio vedere.”
“Lasciamolo stare. Sii bravo.”
“E’ morto?”
“Non lo so.”
Il 19 marzo 1983 è morto il lettore
ambulante. Mi si potrà obiettare
che è morto, quel giorno, Alexander
LaForgue. Ma io continuo a pensare
che questo abbia minore importan-
za. Questo libro è dedicato ai tre
uomini che hanno incarnato il let-
tore. E a chi, in un modo o

103
nell’altro, mi auguro, ancora lo
incarnerà.

104
INOLTRE

Dante Bastianoni conquistò il ti-


tolo dei massimi nel 1940 e detenne
la corona per undici combattimen-
ti. Quando nel 1941 la perse, per
mano di un colosso tedesco durante
un incontro a Berlino, giurò di
non indossare mai più i guantoni.
La sua indole “brigante” gli impedì
un rapporto sereno con le autorità
e, per questo motivo, si ritrovò tra
i partigiani. Le ultime notizie che
è stato possibile rintracciare su
di lui ci raccontano che insieme
ad altri quattro compagni, a pochi
mesi dalla liberazione, in rotta
dopo uno scontro a fuoco con i fa-
scisti, cercò rifugio in Yugosla-
via.
Nel 1939 Italo e la vedova Alinghi,
che per inciso si chiamava Cesira,
decisero di rendere pubblica la
loro unione. L’anno seguente si
sposarono. Morirono a pochi giorni
di distanza nel ’50.
Antonio Massarini e sua moglie
Maria vissero fino alla fine nella
casa in cui Alexander LaForgue
era stato ospite. La casa è tuttora
proprietà della famiglia e i nipo-
ti di Antonio, hanno in mente di
trasformarla in un agriturismo
dotato di tutti i confort. Attual-
mente è in costruzione una grande
piscina proprio nel punto in cui
versò il suo sangue il protagoni-
sta di questa storia.
Giovanni e Fiamma si trasferirono
nel 56 a Genova dove lui trovò la-
voro sul porto. Abitarono il resto
della loro vita in un grazioso ap-
partamento vista mare. Lei scrisse
un libro di poesie dedicate alla
terra di origine che ebbe un di-
screto successo. Si intitolava “Un
posto dove leggere”. Se aveste vo-
glia di cercarlo credo che ne sia
uscita ultimamente una ristampa
bilingue per la Smith & LaForgue.
Il signor Jonathan Irving gestì la
casa editrice per conto della fa-
miglia LaForgue per tutta la vita,
lasciando il timone, alla splendida
età di ottant’anni, al figlio. Tra i
titoli usciti l’anno scorso potete
trovare una splendida versione il-
lustrata de “Il libro della Jun-
gla”.
Dante Nonini venne catturato in-
sieme alla sua banda al completo
nelle caverne presso il muraglio-
ne. Evidentemente il passo non era
così difendibile come tutti avevano
immaginato. Con buona pace delle
doti di stratega di Nonini, la ve-
detta di turno si addormentò e i
militari entrarono in forze nelle
grotte catturandoli tutti senza
sparare un colpo. Per ironia della
sorte l’unico a scampare alla cat-
tura fu la vedetta.
L’intera banda venne tradotta in
catene a Roma. Nessuno venne giu-
stiziato. L’unico a rischiare la
pena capitale fu Nonini che però
venne ucciso nottetempo mentre si
trovava nella sua cella.
L’inchiesta che seguì non portò a
nessun risultato. Tutti i membri
della banda morirono prima del
1940. Certi uccelli non sanno vive-
re in gabbia.
La vedetta si aggregò alla banda
del biondo, ormai ridotta a un
gruppetto di dodici unità. Riusci-
rono a scampare a tutte le imbo-
scate che i militari tesero loro.
Poi anche loro sparirono nel nul-
la. Non è stato possibile avere ul-
teriori notizie. Il fatto che la
banda non fosse mai stata annien-
tata costò un rimprovero al gene-
rale Cassetti che non divenne mai
un “pezzo grosso”, come lui amava
definire quello che un giorno sa-
rebbe stato.
La sacca con i libri che il lettore
ambulante, in tutte le sue incar-
nazioni, si era portato dietro per
sessantotto anni venne ritrovata
nel parco il giorno seguente la
sua scomparsa. L’uomo che la ritro-
vò la portò all’ufficio oggetti
smarriti del comune, dove rimase
per cinque anni. In seguito tornò
in suo possesso. Nessuno ha mai in-
dagato sul mistero del suo spazio
interno. Nessuno è mai riuscito a
sistemare al suo interno tutti i
libri e il cambio d’abiti del letto-
re. Ma la cosa non creò al suo nuo-
vo padrone alcun problema. I ve-
stiti erano vecchi e logori, per
cui li buttò.
Oggi la sacca non esiste più. E’
stata riciclata per altri usi fino
a quando non è stata troppo vec-
chia per continuare a essere utile.
Un giorno le cuciture cedettero e
lei venne buttata via.
I libri invece stanno comodamente
in uno scatolone nella cantina
della famiglia Scalzo, in via mar-
tiri della guerra 13, a Sulmona.
Sul tavolo dell’ingresso, brillante
e splendido, un segnalibro, una
sorta di corta spada, spessa, con il
manico lavorato.
E, lo sentite adesso, lontano, un
rumore come di grandine, o un ura-
gano addirittura?

Ah, già. Giusto. Resto io.


Io continuo a scrivere storie. E a
sperare che un giorno trovino il
loro lettore, uno di quelli che
quando la passione li prende gli
tira fuori la voce di dentro, una
voce che si dissimula durante una
normale conversazione.
Alessandro, livornese travasato
fra la nebbia e la piana
dell’emilia, nel 1999, per la GME
Monduzzi, pubblica il romanzo
“Piccoli spostamenti del cuore” e,
nel 2002 per Liberodiscrivere,
l’apologo scritto con Vito Parisi
“La guerra dei castori e dei sal-
moni”. Nel 2007 esce, sempre per
Lds, “Alice in Land”. Si definisce
uno splendido quarantenne. Proba-
bilmente si ipervaluta.

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