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Famiglia Cristiana n.

9 del 02/03/2008
di Rosanna Biffi

SOCIETÀ
ANCHE LE TEORIE ECONOMICHE PIÙ MODERNE DIMOSTRANO CHE I SOLDI NON SONO TUTTO

LA RICERCA DELLA FELICITÀ


Politici ed economisti stanno sempre più mettendo a punto il vero indicatore del benessere di una
società. Che non è legato al Pil e alla ricchezza. Anzi, oltre una certa cifra...

Jigme Singye Wangchuk, fino al 2006 sovrano del piccolo e isolato regno del Bhutan, anni fa decise di
misurare i progressi del Paese non più con il Prodotto interno lordo ma con la Felicità interna lorda. La
decisione aveva un fondamento politico, ma venne vista per lo più come una stranezza dello sperduto Stato
himalayano.

Nel settembre 2006 è stato il Governo cinese a incaricare l’Ufficio nazionale di statistica di elaborare un
"indice della felicità" del popolo, da affiancare al Pil per rilevare il benessere collettivo e adottare politiche
efficaci. Sarà perché, nonostante il boom economico senza pari e i redditi medi pressoché triplicati, uno
studio ha dimostrato che la soddisfazione del cinese medio è oggi più bassa rispetto al 1994.

Ma spulciando con qualche attenzione i resoconti politici degli ultimi anni alla voce "felicità", si nota un fiorire
del termine sulle bocche di governanti e aspiranti tali anche d’Occidente, durante le attuali primarie negli
Stati Uniti (il Paese del "diritto alla ricerca della felicità"), o tra i riferimenti di Tony Blair quand’era ancora
primo ministro: nel ’99 scriveva che l’avanzamento di un Paese andava misurato non solo con il Pil ma
anche in termini di qualità della vita, sviluppo sostenibile, soddisfazione personale. Il pirotecnico presidente
francese Nicolas Sarkozy, a sua volta, ha ingaggiato i premi Nobel per l’Economia Amartya Sen e Joseph
Stiglitz perché riflettano su come cambiare «gli strumenti di misura della crescita», in un momento (parole di
Sarkozy) «nel quale i francesi non ne possono più dello scarto crescente tra le statistiche, che annunciano
un progresso continuo, e le difficoltà crescenti della loro vita quotidiana». E se notiamo, anche nella
campagna elettorale italiana si affaccia di tanto in tanto il termine "felicità".

Foto AP/La Presse.

Il bisogno di intercettare i segnali

Che succede ai politici di mezzo mondo (e parliamo di quello sviluppato, perché altrove i problemi sono ben
altri)? Stanno diventando tutti governanti sentimentali o, al peggio, populisti a corto di argomenti? Non
rischiano di impicciarsi in quelle intermittenze del cuore che romanticamente associamo alla parola "felicità"
e che sono privatissime? In realtà, le loro preoccupazioni dipendono più da segnali che emergono nella
società civile e dal bisogno di intercettarli che non da tentazioni retoriche.

Osserviamo, per esempio, quanto è successo in quella che in apparenza è la più asettica tra le scienze atte
a governare, l’economia. Da un quarto di secolo negli Usa, da un quindicennio in Europa soprattutto del
Nord e da 7-8 anni anche in Italia, sono in costante crescita le teorie e i dibattiti su una "economia della
felicità". Settore illustrato nel suo formarsi e modificarsi da un interessante libro pubblicato in questi mesi,
Economia della felicità, edito da Feltrinelli e scritto dal giornalista e studioso Luca De Biase. Nel libro si
sottolinea anche come gli studi di uno psicologo, l’israeliano Daniel Kahneman premio Nobel per l’economia
nel 2002, abbiano dato un impulso importante a questa "umanizzazione" della visuale economica, quando
hanno dimostrato che variabili umane come intuizione, sentimenti e preconcetti determinano il
comportamento economico delle persone. Anche Kahneman ha elaborato un "indice di felicità" utile a
misurare il grado di sviluppo di un Paese.

Il paradosso del denaro

«Tutto questo fervore nasce all’origine da un fatto specifico: nel 1974 in America l’economista Richard
Easterlin pubblicò un articolo che metteva in evidenza quello che da allora è noto come "paradosso della
felicità"», spiega l’economista Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’Università di Bologna e
presidente dell’Agenzia governativa per le Onlus, che ha sede a Milano. «Il paradosso della felicità mostra
questo: aumentando il reddito pro capite, dapprima l’indice di felicità aumenta, ma oltre una certa soglia
ulteriori aumenti di reddito lo fanno diminuire. Tutti avevano sempre pensato che col crescere della ricchezza
la gente sarebbe stata più felice. Invece Easterlin ha dimostrato con dati statistici che non è vero e che oltre
un certo punto si sta peggio anziché stare meglio. Da allora tutti hanno cominciato a preoccuparsi, perché
questo paradosso toglie legittimazione sociale all’economia, e quando a un sistema economico come il
nostro si toglie la legittimazione sociale, non tiene più, perché prima o poi scatta la ribellione. La gente si
chiede: "Che senso ha lavorare di più per stare peggio?". Ecco perché oggi tutti ne parlano. Ovviamente a
questo punto la domanda diventa: "Come se ne viene fuori?"».

E ovviamente le risposte sono diverse. Così come non sono univoche le diagnosi sui livelli di felicità, sui
sistemi per misurarli e persino sul perché se ne parli. Il sociologo olandese Ruut Veenhoven insegna
all’Università Erasmus di Rotterdam "Condizioni sociali per la felicità umana" e cura una banca dati mondiale
sul tema, che dà origine a una classifica annuale dei Paesi più e meno felici. Spiega che «in passato
avevamo molti problemi urgenti come la povertà e l’ingiustizia, ed è del tutto evidente che per arrivare a una
maggiore felicità si doveva in primo luogo risolvere questi problemi. Ora che ci si è riusciti in larga misura, ci
troviamo alle prese con la domanda di cosa possiamo fare per essere più felici». Aggiunge che «psicologi e
sociologi cominciarono a occuparsene negli anni ’60» e che «l’approccio degli economisti non è molto
diverso, anche se questi tendono a concentrarsi di più sul rapporto tra felicità e variabili economiche come
guadagno e occupazione».

È evidente che la felicità cui si riferiscono economisti e politici riguarda più la soddisfazione sociale, lo stato
di benessere del cittadino legato a condizioni quali ambiente, lavoro o equità che non la ricerca individuale
della propria felicità, che può coincidere con un amore, un figlio o una fede. Ma possiamo essere
pienamente contenti e liberi nella nostra vita personale se le società in cui viviamo condizionano in noi
comportamenti, desideri e persino sentimenti?

Nel maggio 2006 Civiltà cattolica pubblicò un articolo intitolato "Il malessere nella società del benessere",
opera del direttore della rivista dei Gesuiti, padre Gianpaolo Salvini. Il quale oggi sintetizza così la diagnosi
delle nostre insoddisfazioni: «Dipendono dal fatto che, in base all’aria che respiriamo, tutti noi puntiamo la
nostra riuscita sul conto in banca, sulla bella casa, sull’automobile, su sicurezze date da beni e servizi
materiali. Mentre, a mio avviso, la felicità viene soprattutto dai beni relazionali, cioè da quei rapporti
gratificanti con gli altri che non sono oggetto di mercato. Si parla dei rapporti interpersonali ispirati a quello
che chiameremmo amore, o per lo meno alla simpatia, a un’intesa vicendevole. Cosa potrebbe fare la
politica? Come sempre, quando si entra in ciò che è gratuito e personale, c’è una sfera nella quale l’ente
pubblico non arriva; però certamente può mostrare, attraverso modelli culturali e stili di vita (e penso anche
alla comunicazione di massa) che di solito non ci si realizza solo col conto in banca o la ricchezza
accumulata, ma soprattutto nel mettersi in rapporto con gli altri e anche nel sacrificarsi per gli altri».

I "beni relazionali" dei quali parla il direttore di Civiltà cattolica, e che non sono conteggiati nel Pil,
rappresentano secondo molti ciò che noi sacrifichiamo nella corsa lavoro-guadagno-consumo, e infatti è da lì
che bisogna partire per cercare rimedi al "paradosso della felicità" secondo Zamagni. Il quale – a differenza
dei liberisti per cui perfezionare il mercato risolverà il paradosso, e dei neo-socialisti, secondo cui serve
diminuire i beni privati e aumentare quelli pubblici per vivere più contenti – propone una terza via di matrice
culturale cattolica: «Dobbiamo favorire a livello legislativo, e soprattutto operando a livello culturale, il
ritrovamento dei legami sociali, in modi che possono variare. La nostra tesi è che la modernità ha cancellato
dalla nostra cultura il principio di reciprocità, che è la traduzione in ambito economico del principio di
fraternità. La reciprocità include il legame tra le persone, dal quale nasce quel bene relazionale che ci dà la
gioia di vivere. Dove si realizza oggi la reciprocità? Ma in tutti gli organismi del Terzo settore, come
cooperative, cooperative sociali, consumo critico, finanza etica, commercio equo solidale, Banco alimentare,
banche del tempo: sono tutte espressioni della società civile che stanno crescendo. Se vogliamo trovare una
via d’uscita al paradosso della felicità, è inutile che facciamo grandi discorsi. Dobbiamo adoperarci perché, a
livello legislativo, vengano tolti lacci e lacciuoli che impediscono al principio di reciprocità di farsi strada, e
creare strumenti anche finanziari perché ci sia una fioritura di queste espressioni».

Rosanna Biffi

«INCREMENTATE IL PIL DELLA SALUTE»

Secondo una vecchia definizione «la buona salute, intesa come stato di benessere sia fisico sia
mentale, è necessaria per vivere una vita piacevole, produttiva e densa di significato. In questo
consiste un po’ il rapporto tra qualità della vita – e potenzialmente felicità, se si vuole usare
questo termine – e salute. Nel senso che a una buona salute dovrebbe corrispondere
automaticamente una buona qualità della vita».

Il professor Mariano Bassi, psichiatra e presidente della Società italiana di psichiatria, non esita
ad ammettere l’influenza positiva che una vita soddisfacente ed emotivamente appagata ha sulla
salute.

Se gli economisti della felicità ci dicono che al di sopra di un certo livello i soldi servono poco a
renderci felici, ci basta l’esperienza personale per sapere che difficilmente lo si è quando la salute
latita. È quindi ragionevole aspettarci da chi ci governa il massimo di garanzie per disporre di un
bene essenziale per la felicità: la salute. «Nei Paesi occidentali avanzati come il nostro, oggi i
cittadini hanno le migliori condizioni di salute di sempre», osserva il professor Bassi. «Questo è
confermato dalle aspettative di vita alla nascita, che sono cresciute progressivamente: negli ultimi
quarant’anni, in Italia il guadagno nella durata di vita si è incrementato del 12% per gli uomini e
del 13% per le donne, una media che è di alcuni punti superiore a quella dei Paesi dell’Unione
europea. Però anche da noi ci sono alcune aree critiche. Si sta aprendo una forbice, è cioè
sempre più elevato il numero di coloro che sono in condizioni di salute scadenti. Ci sono fasce di
popolazione fragili, che faticano sempre più ad accedere alle opportunità di assistenza sanitaria,
e non solo». Anche perché oggi la definizione e il raggiungimento della salute poggiano su molti
fattori: «Non è solo il sistema sanitario di un Paese che garantisce ai cittadini la buona salute, che
infatti non è costituita solo da strutture sanitarie nazionali efficienti e tempestive», spiega Bassi.
«Ci sono molti altri elementi. Pensiamo all’ambiente; al tema della sicurezza stradale: i morti per
incidenti stradali sono un elemento molto significativo della mortalità; all’urbanistica: come sono
fatte le nostre città, come sono fatte le nostre case. Per non parlare poi di tutti gli interventi nel
mondo della scuola, nel mondo del lavoro». Tutti elementi, di fatto, che incidono molto sulla
qualità della vita.

Le fasce di popolazione più scoperte, da questi punti di vista, sono quelle «che hanno una
difficoltà di accesso a opportunità sia di assistenza sanitaria, sia anche di luoghi di vita decorosi e
appropriati. Ma anche un basso livello di educazione scolastica e civile porta a stili di vita meno
salutari. Naturalmente incide la condizione economica, così come sono più a rischio immigrati,
persone molto povere e anche persone con gravi disturbi mentali. Il primo alleato della buona
salute è proprio lo stile di vita».

R.B.
SE IL BUONUMORE PRODUCE UTILI

Un team di esperti in economia della felicità ha condotto l’anno scorso una ricerca sul tema "Il
Veneto è ricco. Ma è anche felice?". Commissionata dalla Regione, ha riguardato circa 400
cittadini e prodotto risultati interessanti. Intanto, i veneti hanno un livello di "felicità" superiore alla
media nazionale: 7.20 contro 6.90, secondo la graduatoria del Database mondiale di Rotterdam.
Poi, i gruppi di età più felici sono i giovani dai 19 ai 34 anni e gli anziani oltre i 70; i meno
soddisfatti sono invece i cinquantenni e i sessantenni. «Inoltre si è constatato che si sentono più
felici coloro che vivono in coppia, quanti hanno famiglie numerose e i cittadini che partecipano
attivamente alla vita sociale della comunità», rileva l’assessore regionale alle Politiche sociali,
Stefano Valdegamberi. Che aggiunge: «Come assessore ero interessato a comprendere i punti
di debolezza, per intervenire con politiche adeguate. Questa è una regione che in vent’anni ha
avuto una crescita economica notevole, e si trattava di vedere se a tale progresso corrispondeva
anche un sentimento di benessere».

Una particolarità del Veneto, emersa da una ricerca dell’Università di Verona, è che lo stress
lavorativo è inferiore alla media italiana, benché le ore lavorate siano molte. «Perché abbiamo un
sistema capillare di imprese», osserva Valdegamberi, «dove il rapporto tra imprenditore e
dipendente è spesso di familiarità». In più, il sentimento della famiglia è ancora forte e l’impegno
nel volontariato, di tutti i tipi, massiccio.

«Il sociale non è antitetico all’economia», rileva l’assessore, «ma rappresenta un valore aggiunto.
Un sistema diventa competitivo anche se ci si vive bene, se le risposte ai problemi sociali sono
diffuse e partecipate. In un contesto così anche l’economia va meglio».

R.B.

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