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Ernesto De Martino: 'crisi della presenza' e 'apocalissi culturali'

INDICE

-Introduzione .................................................................................p.5
I. LA CRISI DELLA PRESENZA NEL MONDO MAGICO.p.8
1.1 Sul filo della presenza...p.8
1.2 Perdere lanima, perdere il mondop.10
1.3 La crisi della presenza...p.10
1.4 I momenti critici del divenirep.12
1.5 Polo della crisi e polo del riscatto.p.13
1.6 La magia come tecnica della presenza..p.14
1.7 Il Cristo magico: lo sciamanop.16
1.8 Istituti storici della magia: fattura e imitazione.p.17
1.9 Il valore culturale del dramma magico..p.19
1.10 Le realt del mondo magicop.20
1.11 La critica al soggetto trascendentale kantiano.p.22
1.12 Del magico si pu, si deve, fare storia.p.25
1.13 Dasein e Dasein-sollen: un confronto con Heidegger.p.26
1.14 Il rischio antropologico permanente.....p.27

II. APOCALISSI CULTURALI...p.29


2.1 Magia e religionep.29
2.2 La ierogenesi come tecnica.p.30
2.3 La destorificazione religiosa...p.31
2.4 Il simbolismo mitico-ritualep.33
2

2.5 Leterno ritorno nella cultura..p.34


2.6 La fine del mondo...p.35
2.7 Il rituale del Mundus...p.36
2.8 Lultimo giorno sempre allordine del giorno.p.37
2.9 Lapocalittica cristiana....p.37
2.10 Leucarestia...p.39
2.11 Apocalisse culturale..p.40
2.12 Immagini di apocalissi culturali....p.42
2.13 Lapocalisse dellOccidente..p.43
2.14 Lapocalisse nellarte contemporanea...p.45
2.15 Il pensiero della fine..p.45
2.16 Lapocalisse senza escatonp.47
2.17 Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche: confrontare
per differenziare.p.48
2.18 La fine del mondo come esperienza psicopatologica....p.49
2.19 La crisi della presenza nella psicopatologia: derealizzazione
e depersonalizzazionep.50
2.20 Catatonia e destorificazione irrelativa...p.51
2.21 Schizofrenia e mentalit primitivap.53

III. LE MANIFESTAZIONI LINGUISTICHE DELLA CRISI


DELLA PRESENZAp.55
3.1 Afasia della contiguit.p.56
3.2 Afasia della similarit..p.57
3.3 Linguaggio e crisi della presenza nella schizofrenia...p.58
3.4 Il deragliamento linguistico.p.59
3.5 Le parole come cosep.60

3.6 Devianza semantica e neologismip.61


3.7 Dissociazione semantica..p.63
3.8 Linguaggio e presenza.p.64
3.9 Wahnstimmung e intenzioni di significato...p.65
3.10 Eccesso e difetto di semanticit.p.67
3.11 Troppo e troppo poco.p.70

- Bibliografia...p.72

Introduzione

La tematica che, con il presente lavoro, viene affrontata quella della crisi della
presenza, variamente illustrata negli scritti di Ernesto de Martino. Lintento non
tuttavia quello di dare un resoconto esaustivo del complesso ed elaborato itinerario
demartiniano, n di ripercorrere le innumerevoli tappe del suo articolato percorso
storico ed etnografico. Piuttosto che sulla sua attivit di antropologo ci si soffermer
infatti su alcune specifiche questioni teoriche, dagli importanti risvolti filosofici,
che, talora in superficie talora in modo carsico, percorrono tutta la sua produzione.
Questi fils rouges, di cui possiamo rintracciare le origini fin dalle opere giovanili, sono i
due nuclei concettuali di crisi della presenza e di apocalisse culturale.
Il discorso sulla presenza, e sulla sua crisi, non potr inoltre prescindere da una
riflessione sul linguaggio, in quanto la natura umana si identifica e si caratterizza
proprio per questa facolt. Non si pu mai cogliere luomo separato dal linguaggio;
usando unimmagine di Saussure, presenza e linguaggio costituiscono il recto e il verso
di un medesimo foglio. Nellultima parte del lavoro ci si occuper dunque di filosofia
del linguaggio; si mostrer come la crisi della presenza, mettendo in discussione le
caratteristiche salienti e le prerogative basilari delluomo, comporti necessariamente
delle ripercussioni sul piano linguistico, piano per definizione appartenente allontologia
e alla biologia umana.
Nel primo capitolo la questione della crisi della presenza verr illustrata nel particolare
ambito del mondo magico, un mondo storico in cui la propria presenza individuale non
mai data per scontata, ma si configura piuttosto come un problema costante e una meta
da conquistare. In questo specifico frangente il ci sono perennemente esposto al
rischio di non esserci; lindividuo mette pertanto in atto varie strategie allo scopo di
difendere la propria presenza e di mantenerla al cospetto del mondo. Le pratiche e i riti
magici costituiscono la principale tecnica protettiva di cui si serve luomo delle civilt
primitive per riscattare la propria presenza dalla crisi e dunque per poter agire nel
mondo, piuttosto che lasciarsi agire da esso.
5

Nel secondo capitolo la nozione di apocalisse, concettualizzata da de Martino, ci


permette di estendere la vicenda delloscillazione tra la crisi e la reintegrazione della
presenza dal particolare alluniversale. La ricerca verter qui sui materiali raccolti
allinterno dellopera postuma di de Martino: La fine del mondo (1977). E sufficiente
sfogliare lindice di questa ricchissima e concettualmente densa opera incompiuta per
rendersi conto della variet dei fenomeni cui il concetto di apocalisse fa riferimento.
Il rischio di perdere la propria presenza e di non esserci pi nel mondo si scopre non
appartenere unicamente allo specifico orizzonte esistenziale del mondo magico, ma
essere piuttosto unineludibile costante della condizione umana, un carattere distintivo
dellanthropos. La crisi della presenza si configura dunque come un carattere fisiologico
dellanimale umano, come un rischio antropologico permanente che, trasferito su un
piano simbolico e metaforico, si esprime nella paura per la fine del mondo.
Langoscia per il finire dellordine mondano esistente, -angoscia presente in tutte le
epoche e in tutte le culture-, riproduce, su scala macroscopica, il perenne rischio della
perdita della presenza. Literazione liturgica della fine e dellinizio del mondo non fa
che riproporre, in maniera metaforica e ritualizzata, la costante crisi e dunque la
costante ripetizione del processo antropogenetico.
Pur muovendo allinterno di una ricerca prevalentemente empirica i risultati
dellindagine demartiniana danno luogo a significative conseguenze sul piano filosofico,
conseguenze ed implicazioni teoriche che in questa sede verranno messe in luce.
Gli esiti della ricerca demartiniana reimpostano, affrontandoli da un inedito punto di
vista, i pi intricati problemi della tradizione speculativa moderna. De Martino muove
infatti una radicale critica al soggetto trascendentale kantiano e allessere-nel-mondo
heideggeriano.
La presenza non un a-priori universalmente valido e garantito, un sempre dato che
ci proviene dalla natura, ma costituisce piuttosto un punto darrivo reversibile, un
approdo provvisorio e instabile. Luomo deve costantemente rifondare la propria
presenza nel mondo, deve regolarmente ripercorrere le tappe dellitinerario
antropogenetico.

Anche latto linguistico volto a fondare e a ricostituire la presenza umana nel mondo.
Prima ancora di significare una qualsiasi cosa, lenunciato si riferisce infatti al fatto che
qualcuno lo ha prodotto, che qualcuno parla: ogni emissione di linguaggio segnala cio
linserzione della presenza nel mondo.
Linguaggio e presenza sono fenomeni corrispondenti e indissociabili. Nel terzo capitolo,
partendo da questa imprescindibile identit, ci si occuper della inevitabile coincidenza
tra crisi della presenza e crisi dellattivit linguistica.
Le manifestazioni linguistiche della crisi della presenza consistono essenzialmente in
alterazioni di semanticit, in un difetto o in un eccesso di questa. Il troppo e il troppo
poco di semanticit, lonniallusivit del discorso e la regressione dal segno al segnale,
costituiscono le reazioni linguistiche di una presenza che non riesce pi a conferire un
senso al mondo e dunque a se stessa nel mondo.
Il discorso sulleccesso e sul difetto di semanticit verr sviluppato aprendosi a
differenti prospettive, seguendo pi direzioni, non preliminarmente tracciate.
Si esplorer un terreno non ancora del tutto sondato, un angolo forse rimasto al buio,
sicuramente meno argomentato da Ernesto de Martino, ma che pure egli solleva,
consapevole della molteplicit degli sviluppi possibili, della pluralit delle direzioni che
da qui potranno prendersi, dei plurimi luoghi, o forse non-luoghi, a cui potr condurre.

I. LA CRISI DELLA PRESENZA NEL MONDO MAGICO

Il Mondo Magico (1948) lopera nella quale de Martino presenta la tematica che,
come un fiume carsico, percorrer tutta la sua futura produzione ed elaborazione
teorica: quella della presenza e della crisi della presenza. Oltre i concetti, che saranno
motivo di ulteriori approfondimenti e di feconde riflessioni nelle successive opere, sono
qui presenti in nuce le loro profonde implicazioni, nonch le loro significative
conseguenze, sul piano storico e filosofico. Il mio percorso prende dunque avvio
dallanalisi di questa opera che costituisce la genesi, e allo stesso tempo gi lascia
scorgere i futuri sviluppi, del poliedrico pensiero demartiniano.

1.1 Sul filo della presenza


Nel mondo storico della magia la propria presenza individuale non un fatto, un
possesso garantito e saldo come nel nostro mondo culturale, ma una conquista
temporanea, unacquisizione precaria e fragile. Lunit stabile della persona non si
ancora costituita ma nellatto del farsi. Luomo tenta faticosamente di raccogliersi in
se stesso, lottando contro forze contrarie e minacciose.
La presenza un soffio effimero che il mondo rischia, in ogni momento, di inghiottire
e di vanificare. Essa viene perduta, rapita, rubata, mangiata e deve perci
essere di volta in volta recuperata, ritrovata, fissata. Ogni angolo delluniverso,
ogni oggetto, ogni accadimento celano uninsidia per la presenza, costituiscono un
pericolo radicale e rimandano allangosciosa possibilit dellimpossibilit di esserci.

Nel mondo magico la presenza sta come una meta e un compito, come un dramma e un
problema. Il ci sono perennemente esposto al rischio di non esserci e la presenza,
che non ha ancora la forza di gettare davanti a s loggetto e di differenziarsene,
rischia continuamente di smarrire la propria trascendenza, di perdere se stessa e di
abdicare.
In questa fase storica il confine tra uomo e natura, tra soggetto e oggetto deve ancora
essere tracciato, e luomo continuamente tentato ad adeguarsi mimeticamente alla
natura anzich oggettivarla.1 La sua presenza incerta, non si mantiene, rubata,
sottratta, fugge, scivola via; la natura non costituisce unalterit definita, ma piuttosto un
misterioso oltre, un universo di cose e di eventi che da ogni parte minacciano e
insidiano la presenza.
La realt non data, non oggettivata poich manca ancora lo sguardo di un soggetto;
essa non un possesso garantito, ma un risultato da conseguire, lesito di uno sforzo che
luomo tenta di portare a compimento. La realt in decisione, in fieri, intenta a
costituirsi.
La presenza deve ancora raccogliersi come unit di fronte al mondo e, correlativamente,
il mondo non ancora distanziato e differenziato dalla presenza: lio non saldamente
distinto dal non-io. Se in una civilt come la nostra, presenza al mondo e mondo che
si fa presente sono costituiti come una dualit decisa e garantita, nella civilt magica la
dualit presenza-mondo non ancora tale, ma costituisce un problema dominante e
caratterizzante che investe lintera esperienza e la stessa possibilit di avere esperienza.
Nella magia il mondo non ancora deciso e lesserci una realt condenda.2
Il problema del magismo non dunque quello di conoscere il mondo, o di modificarlo,
azioni che entrambe presuppongono la presenza certa e salda del soggetto-, ma
piuttosto di garantire un mondo.

Stefano Petrucciani, De Martino, Adorno e le avventure del s, in Mario De Caro, Massimo Marraffa (a cura di),
La filosofia di Ernesto de Martino, Paradigmi,anno XXXI, 2013, n.2, p.128
2
Ernesto de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p.75

1.2 Perdere lanima, perdere il mondo


Quando presenza e mondo in cui la presenza immersa non costituiscono una
dualit, quando il confine tra uomo e natura, tra soggetto e oggetto non ancora
definito, perdere lanima significa perdere il mondo.
Io e mondo sono correlati: al rischio individuale di perdere la propria anima
necessariamente e indissolubilmente connesso il rischio di perdere il mondo.
Essere presenti significa infatti avere senso in un mondo dotato di senso, pertanto la
crisi della presenza coincide con la crisi del mondo nella sua oggettivit.
Tra uomo e natura non v dualit e scarto, ma continuit e omogeneit: se lio si sfalda,
il mondo crolla. Come la presenza implica strutturalmente la possibilit della sua stessa
perdita, il mondo, fin dal suo sorgere, comporta il rischio del crollo. Quando la presenza
vacilla, quando lanima rubata, anche il mondo entra in crisi di orizzonte, trapassa
nelloltre angosciante e minaccioso delle cose, dove tutto pu diventare tutto, che
quanto dire: il nulla avanza.3

1.3 La crisi della presenza


Il discorso sul dramma magico prende le mosse, in de Martino, dallanalisi di singolari
condizioni psichiche nelle quali cadono gli indigeni di alcune trib, in occasione di
emozioni intense, provocate da accadimenti improvvisi e inaspettati.
La crisi della presenza innestata dal manifestarsi di realt particolarmente
emozionanti al cospetto delle quali la presenza non riesce a mantenersi, rischiando di
perdere se stessa e di diventare loggetto emozionante.
Nello stato psichico latah, presso i Malesi, lindigeno, venuto a contatto con un
contenuto emozionante particolarmente forte, perde lunit della propria persona e
lautonomia dellio. La sua presenza cade in soggezione, nella passivit dellecocinesi e
dellimitazione. Se la sua attenzione sar attratta dal movimento oscillatorio dei rami
mossi dal vento, egli imiter passivamente tale movimento; se vedr un uomo svestirsi,
si spoglier anchesso.
3

E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, cit., p.123

10

La medesima condizione di imitazione chiamata, presso i Tungusi, olon.


Lo choc procurato da un contenuto emozionante provoca, nello stato olon, la perdita
stessa del contenuto come contenuto di una coscienza presente. La presenza non trova
cio lenergia sufficiente per mantenersi davanti alloggetto, per riconoscerlo, e per
padroneggiarlo, ma resta piuttosto polarizzata in quel certo contenuto, non riuscendo ad
andare oltre di esso e perci abdicando come presenza. Il soggetto che vede le foglie
muoversi, diventa un albero le cui foglie sono mosse dal vento; il soggetto che ode
una parola diventa la parola che ode: la distinzione tra presenza e mondo che si fa
presente cade.
Lo stato olon da porsi in rapporto con lo stato amok, tipico dei Malesi.
Nello stato amok il soggetto perde il controllo delle proprie azioni e, in occasione di
emozioni di spavento e di angoscia, diventa preda di uno scatenamento incontrollato di
impulsi e di movimenti: la vittima salta senza sosta, afferra unarma, corre
allimpazzata, colpisce e uccide chiunque incontri sul proprio cammino, anche se si
tratta del proprio padre.4
Gli stati psichici latah, olon e amok, nei quali la presenza si comporta come una eco
del mondo, rappresentano il momento negativo della crisi della presenza, il momento in
cui si concretizza la possibilit dellimpossibilit di esserci nel mondo e nella storia.
In tali circostanze il soggetto non si afferma contrapponendosi alla natura, ma si riduce
a mera imitazione del mondo-ambiente circostante; la sua debole soggettivit vinta e
la capacit di trascendenza decade. Il soggetto non pi colui che oltrepassa il dato
oggettivo, ma sono piuttosto gli oggetti a trascenderlo: non intenzionalit ma , per
cos dire, intenzionato dalle cose. Luomo, piuttosto che agire, si trova nello stato di
essere-agito-da.
La crisi della presenza, il suo vacillare, consiste proprio nello svanire di questo confine,
nel venire a mancare della linea di demarcazione tra soggetto e oggetto, tra io e mondo.

E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, cit., p.73

11

1.4 I momenti critici del divenire


La crisi della presenza si verifica in determinati segmenti del divenire5
che

de

Martino

definisce

come

momenti

critici

dellesistenza.

Luomo magico esposto al rischio della labilit nelle sue solitarie peregrinazioni,
quando la solitudine, loscurit, la ricerca del cibo, il pericolo costituito dagli animali e
dal rapporto con lo straniero, e la stanchezza dovuta al lungo peregrinare
sopraggiungono a mettere in crisi lunit della sua persona.
Il momento critico dellesistenza critico perch impone una decisione e una scelta,
un pronto adattamento alla realt, un comportamento ricco di conseguenze altamente
impegnative per la presenza. Il cacciatore davanti alla fiera, lagricoltore davanti alla
tempesta, il pastore davanti alla solitudine, luomo davanti alla donna, il guerriero
davanti al nemico, lo schiavo davanti al padrone, il giovinetto davanti alla pubert, i vivi
davanti al cadavere; questi momenti critici dellesistenza sono largamente tradizionali
nelle societ umane. Il carattere che tutti li lega che in essi la storia, il divenire, si
manifesta, e la presenza prende contatto di un mutamento, di un passaggio, cos
impegnativi per essa da rischiare di non mantenersi.6
In tali momenti, di oggettiva difficolt, richiesta una presenza umana particolarmente
vigile e luomo chiamato ad uno sforzo pi alto del consueto: in tutti questi
momenti la storicit sporge, il compito umano di esserci direttamente e
irrevocabilmente chiamato in causa, qualche cosa di decisivo accade o sta per accadere,
costringendo la stessa presenza ad accadere, a sporgere a se stessa, a impegnarsi e a
scegliere.7
Basta una semplice rottura dellordine abituale, il verificarsi di un evento appena al di
fuori dalla norma, a far precipitare luomo nella paralisi della propria presenza:
lincapacit di dare un senso al reale, di comprenderlo -e quindi di dominarlo-, innesta
la crisi. Il suono di una campana, una pianta che d frutti fuori stagione, lapparizione di
un missionario o unalterazione improvvisa del paesaggio sono tutti accadimenti
rischiosi, violazioni che richiedono un compenso, una riparazione riequilibratrice.
5

Tale presupposto teorico sar fonte di contrasto con Mircea Eliade, per il quale il divenire in s, e non solo alcuni
segmenti, ad essere caratterizzato da una valenza negativa.
6
Dario Danti, Dalla presenza alla singolarit. Uno studio su Ernesto de Martino, 2007, tesi di dottorato, p.27
7
Ernesto de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in Studi e materiali di storia delle religioni,
1953-1954, 24-25, p.18

12

Proprio a causa del carattere eccezionale degli accadimenti in corso, in questi momenti
critici del divenire il rischio di non esserci pi intenso, la situazione oggettiva tale
da mettere in dubbio la possibilit di essere umanamente padroneggiata. Luomo
pervaso da unangoscia caratteristica8: la volont di esserci come presenza davanti al
rischio di non esserci.9 La sua labilit diventa un problema che sollecita la reazione e il
riscatto.

1.5 Polo della crisi e polo del riscatto


Il crollo della presenza rappresenta solo uno dei due momenti di cui costituito il
dramma magico; laltro momento quello del riscatto dellesserci, del porsi della
presenza, del venire alla presenza della presenza.10 Dunque il rischio del non esserci,
su cui ci siamo finora soffermati, non costituisce che un polo del dramma, un polo che
va necessariamente messo in relazione con il polo del riscatto culturale,
delledificazione di un mondo significativo in cui si presenti.
Per una presenza che vuole esserci, la possibilit del suo crollo un rischio che viene
appreso con particolare angoscia. Soltanto quando la labilit della presenza viene
avvertita come un problema, e dunque soltanto per lemergere di tale sentimento
dangoscia, la presenza si apre alla possibilit del riscatto. La problematizzazione della
propria labilit condizione necessaria e sufficiente a farci assistere allalba del mondo
magico. Il crollo della presenza, avvertito come rischio da evitare, come male, indica
gi una prima, fondamentale resistenza. Lavvertimento e il sentimento angoscioso della
propria labilit costituisce la genesi del mondo magico, un mondo che non pu nascere
fino a quando la labilit insorge senza compenso.
Per una presenza che crolla senza compenso il mondo magico non ancora apparso;
per una presenza riscattata e consolidata, che non avverte pi il problema della sua
labilit, il mondo magico gi scomparso.11

Tale angoscia pu indurre la paralisi della presenza e la stasi dellattivit valorizzatrice, stasi cui corrisponde il
regresso delluomo dalla cultura alla natura.
9
E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo,cit., p.73
10
Federico Leoni, La magia degli altri e la nostra. Ernesto de Martino e le tecniche della presenza, in Mario De Caro,
Massimo Marraffa (a cura di), La filosofia di Ernesto de Martino, Rivista Paradigmi, anno XXXI, 2013, n.2, p.72
11
E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, cit.,p.74

13

Quello magico un momento che si colloca nellinterstizio tra il crollo effettivo della
presenza e la possibilit del crollo; de Martino tiene il crollo al di qua del suo
compiersi12 e lo rende concreto solo nella coscienza angosciosa della sua possibilit.
In altre parole labdicazione de facto viene elusa affrontando e combattendo langoscia,
cio lavvertimento della possibilit del proprio nulla.
Nel dramma magico si percepisce la dissoluzione dellesserci come una forza maligna
che insidia la presenza e, per combatterla, si entra in rapporto con tale negativo, con tale
maligno, insomma con la propria angosciosa labilit. Per vincere la labilit occorre
saper acquistare il potere di padroneggiarla: occorre la magia.

1.6 La magia come tecnica della presenza


La magia lo strumento di cui luomo del mondo magico si serve per entrare in
rapporto con la propria labilit, al fine di domarla. La labilit viene intensificata
attraverso tecniche magiche atte a favorire la condizione psichica di trance.
Lindebolimento e lattenuazione dellesserci volontariamente perseguito: digiuni,
oscurit, solitudine, danze orgiastiche, canti monotoni e narcotici sono tutte pratiche
magiche che hanno lo scopo di indebolire lunitariet della presenza. Lintensificazione
del rischio, il condursi alle soglie del caos13, infatti la condizione necessaria per dare
inizio al riscatto dellesserci, costituisce il primo passo di una psichicit che si apre al
compito di istituire il suo proprio orizzonte.14
Lattenuazione della presenza pu essere ottenuta mediante la tecnica della ripetizione
dello stesso contenuto: cantilene monotone, tambureggiare lento e continuo dei tamburi.
Literazione dellidentico infatti incompatibile con lattivit della presenza come
unificazione sintetica del molteplice. La ripetizione pu essere anche di tipo visivo:
prolungata fissazione di un punto o di un oggetto. La monotonia, acustica od ottica, ha
lo scopo di polarizzare la coscienza in un certo contenuto e quindi di impedirle di
andare oltre di esso, ovvero di essere pienamente presenza. Ma nellesercizio del
ripetere la presenza non si perde completamente: la ripetizione diviene piuttosto il
sintomo della capacit dellesserci di resistere alla minaccia di annientamento.
12

Gennaro Sasso, Ernesto de Martino. Fra religione e filosofia, Napoli, Bibliopolis, 2001, p.222
E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, cit., p.94
14
Id., p.91
13

14

De Martino ci offre numerosi esempi che mostrano come la magia sia una tecnica della
presenza, una strategia elaborata per mantenere, e consolidare, lesserci delluomo nel
mondo. La dialettica della presenza tra rischio e relativo riscatto ben dispiegata
nellanalisi dellatai degli indigeni di Mota.
Latai si costituisce in occasione della percezione di un oggetto che colpisce
limmaginazione e che desta meraviglia in chi lo percepisce. un oggetto, per esempio
una pietra, a cui lindividuo associa il suo destino personale: egli vive, prospera, patisce
e muore insieme al suo atai. Latai esprime il dramma della presenza nel mondo
esistenziale magico, presenza che, davanti al rischio di annientarsi nel mondo e di essere
vinta dalloggetto, si salva ritrovandosi e trattenendosi nellalter ego.
La dissoluzione della presenza arrestata mediante questa fissazione e localizzazione
in un oggetto, con il quale si stabiliscono rapporti regolati e duraturi. Latai costituisce
dunque una sorta di compromesso: la presenza che si sta perdendo si riconquista ed
trattenuta fissando la propria unit nellunit della cosa. Il riscatto compiuto in questa
esistenza a due. Il mero abdicare della presenza arrestato attraverso una creazione
culturale suscettibile di sviluppo e di significato; latai il prodotto culturale di una
presenza che vuole esserci nel mondo.
Lesempio appena esposto non costituisce lunica modalit di riscatto per la presenza;
il riscatto pu compiersi infatti anche attraverso pratiche magiche che esprimono
il bisogno di allontanare e di separare loggetto che insidia la presenza. Tali modalit si
attuano soprattutto nei casi che hanno a che vedere con la morte e con i morti.
La presenza non riesce a mantenersi davanti levento della morte, levento negativo per
eccellenza, ed esprime lavvertimento di questo rischio nella rappresentazione del
cadavere che contagia, che ruba e che succhia lanima. Il cadavere deve dunque
essere allontanato, separato dal mondo dei vivi.
I riti funerari degli Arunta, presi ad esempio da de Martino, hanno lo scopo di produrre
questo allontanamento, di creare una distanza tra il cadavere e i viventi.
La capanna del defunto viene distrutta per impedire che vi faccia ritorno, la terra che
ricopre il cadavere calpestata per renderla pi compatta, il suo nome non pu essere
pronunciato, poich la parola rischia di diventare la cosa significata. I vivi gridano

15

intorno alla tomba per scacciare il morto e vi depongono ossa, in modo che il morto
possa riconoscersi in esse.
Soltanto apparentemente il rito funebre il rito compiuto dai vivi intorno e per i morti,
in realt la serie di atti che vengono compiuti nascondono unoperazione pi importante
e radicale: quella del tracciamento di un confine, di una linea di separazione.
Il rito, e loperazione magica in generale, vogliono introdurre una distanza, stabilire una
non-coincidenza.
I vivi vogliono assicurarsi dalla malevolenza dei defunti, garantirsi dallo spettro della
morte. Il rito magico cos una tecnica della presenza in quanto anche una tecnica
dellassenza: rendendo assenti i morti, rende presenti i vivi; produce un oggetto, il
morto, in modo tale che i vivi possano gettarlo davanti a s. Solo una volta
oggettivata la morte, solo una volta proiettata davanti, si potr creare lo spazio della
presenza, lo spazio del soggetto.
Il rito, distinguendo tra presenza e assenza, introduce una differenza tra soggetto e
oggetto. Tutte le operazioni magiche, tutte le tecniche della presenza hanno a che fare
con la costruzione di questa distinzione, con lo stabilire questa distanza.

1.7 Il Cristo magico: lo sciamano


Al centro del mondo culturale magico emerge la figura dello sciamano, definito da
de

Martino

come

leroe

della

presenza,

il

Cristo

magico.15

Lo sciamano luomo che si apre al dramma esistenziale dellesserci, che affronta il


rischio della dissoluzione e riporta una conquista non solo per se stesso, ma per la tutta
la comunit.
Lo sciamano si porta al limite della propria presenza per nascere di nuovo; disfa il suo
esserci per rifarsi, ridiscende al suo ci per ripossedersi.16 Nello sciamano il perdersi
costituisce la prima tappa del processo che conduce alla salvezza, allapprodo alla
presenza. Egli provoca intenzionalmente la crisi del ci sono attraverso forme
controllate, ripete il dramma in ciascuna delle sue fasi. Il non esserci, la forza
15
16

Id.,p.98
Ibidem

16

demoniaca e maligna che insidia la presenza, riplasmato dallo sciamano in una serie
definita di spiriti che vengono cos identificati e padroneggiati. Attraverso la sua
figura il rischio della labilit viene riassorbito nella demiurgia umana, diventa un
momento del dramma culturale.
Un esempio: soffia un forte vento, percepito come maligno in quanto realt che ruba
lanima, lo sciamano lo osserva attentamente e vi legge le forme che lo travagliano:
lunghi gatti demoniaci. Solo lo sciamano pu vederli, solo lui pu combatterli, getta
contro di loro pietre e poi li uccide con dei bastoni. Compiuta loperazione loltre
minaccioso del vento stato esorcizzato: tutta la comunit salva dalla forza maligna
che minacciava la sua presenza.
Attraverso lo sciamano la comunit si dota di un mezzo potente, munito di reale
efficacia, che combatte e che cura la labilit degli individui. Lo sciamano incarna il
dramma esistenziale di tutta una collettivit: attraverso di esso la comunit nel suo
complesso si apre alla vicenda dellesserci che si smarrisce e si ritrova.17
Governando e amministrando langoscia, volgendola verso una determinata fine, il
Cristo magico prepara la risalita dagli inferi verso la luce. 18 I drammi esistenziali di
tutti, le esperienze individuali di crisi della presenza, non restano isolate e irrelative19
le une rispetto alle altre, ma, grazie allazione salvifica dello sciamano, si modellano
secondo uno schema comune, si appoggiano alla tradizione, vengono cio culturalmente
regolate.

1.8 Istituti storici della magia: fattura e imitazione


Lo sciamano chiamato a fronteggiare non solo le crisi di labilit suscitate dagli
accadimenti naturali dellesistenza quotidiana, ma anche quelle intenzionalmente
provocate e indotte da altri stregoni. Compito dello sciamano sar, in questo caso,
quello di annullare leffetto della malia compiuta, di opporre alla fattura una controfattura.

17

Id.,p.94
G. Sasso, Ernesto de Martino. Fra religione e filosofia, cit., p.230
19
E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, cit., p. 98
18

17

Non c dubbio che un Arunta morir per una ferita, anche superficialissima, se
creder che larma che ha causato la ferita sia stata affatturata (sung), e dotata di
arungquilta. Egli si accascia, rifiuta il cibo, e deperisce. 20
Un altro uomo [] si prese un leggero raffreddore, ma lo stregone del luogo gli disse
che i membri di un gruppo a circa venti miglia a est gli avevano portato via il cuore: la
qual cosa credendo, luomo si accasci e and in consunzione.21
[]Venne da noi un uomo con una leggere ferita alla schiena. Gli fu assicurato che la
ferita non era grave, e fu curato come si suole in casi simili. Ma luomo persisteva nel
dire che la freccia era stata affatturata, e che essendo la sua schiena rotta, sebbene in
modo invisibile, egli doveva morire: come infatti mor.22
Questi esempi servono a mostrarci quanto sia reale e concreto il rischio a cui esposto
colui che crede di essere affatturato; ma altrettanto reale ed efficace leliminazione del
rischio ad opera della contro-fattura.
Fattura e contro-fattura acquisiscono rilievo di importanza storica; tramite esse il rischio
di non esserci umanizzato: non proviene pi dal di fuori, non insorge
accidentalmente nelle notti di tenebra o durante solitarie peregrinazioni, ma
volontariamente prodotto dalluomo e dalla sua intenzionalit. Attraverso gli istituti
storici della fattura e della contro-fattura luomo partecipa attivamente al dramma
esistenziale magico e ne controlla i momenti: producendo il rischio anche in grado di
superarlo.
Nellautentica realt delle cose, l dove sul serio la presenza si perde, come soggetto,
nellanonimia della natura, ed foglia che stormisce, vento che soffia []; nel luogo in
cui a dominare la morte, il dramma un dramma, anzi una tragedia, un colpo fatale
che [] cade sulla presenza e la schianta. Nella realt ritualizzata della tecnica magica,
nel dramma che vi prodotto e mimato, la tragedia un dramma; che, avendo un inizio
controllato, per questo pu anche esserlo nel suo esito; che non perci la tragedia della
morte, ma il riscatto da questa.23

20

Id.,p.105
Ibidem
22
Ibidem
23
G. Sasso, Ernesto de Martino. Fra religione e filosofia, cit., p. 231
21

18

Un altro importante istituto magico, caratterizzato da una concreta finalit e da una


funzione reintegrativa, quello dellimitazione. Quando storicamente definita e
socialmente istituzionalizzata, limitazione non passiva ecocinesia o mera coinonia tra
soggetto e oggetto. La presenza viene piuttosto riscattata mediante la imitazione attiva
e finalistica24: lindividuo imita i rami mossi dal vento allo scopo di produrre il vento,
mima la pioggia perch vuole far piovere, imita il fuoco per mantenerlo vivo.
Limitazione rende lazione del singolo unattivit demiurgica finalizzata ad un
determinato scopo; attraverso essa lindividuo recede dalla passivit dellecopsichismo,
compie il riscatto dalla presenza immediata e si fa centro attivo delle sue azioni.

1.9 Il valore culturale del dramma magico


Grazie allistituto magico lindividuo e la comunit si sentono protetti dal negativo
della vita, dallincertezza, dalla precariet, dai problemi che lesistenza quotidiana
comporta. La magia si determina, dunque, come una strategia di resistenza alla crisi,
come una tecnica elaborata per proteggere e consolidare lesserci nel mondo.
Nel dramma magico non si verifica mai la caduta totale della presenza, essa vacilla,
in bilico, ma non decade. Vale a dire, nel mondo magico il polo del riscatto
prevalente: domina la presenza che si riscatta.
La magia genera un orizzonte culturale che permette di fronteggiare, e di superare, la
crisi; mediante le sue pratiche la presenza reintegrata. Attraverso i suoi istituti,
attraverso un sistema di compensi e di compromessi, la magia segnala e combatte il
rischio, arresta il caos insorgente e lo riplasma in un nuovo cosmo, recupera per
luomo il mondo che si sta perdendo.25
Loperare magico storico e culturale; il nuovo orizzonte plasmato dalla magia
si rif a modelli culturalmente e intersoggettivamente validi. Il dramma magico non si
astrae dalla sua storicit, vi piuttosto immerso, e riceve senso e valore dallambiente
storico-culturale in cui ha luogo.

24
25

E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, cit., p.111
Id.,p.123

19

Nella civilt magica il dramma non individuale ma comune a tutti, si inserisce


organicamente nella cultura, sapientemente mediato da tradizioni accreditate e da
istituti definiti. La civilt non sprovvista di mezzi al cospetto di tale dramma
esistenziale; essa segue il filo della tradizione, si avvale dellesperienza accumulata
dalle passate generazioni, la struttura della civilt preparata a sciogliere quel
dramma.26
Nella comunit storica la presenza si salva perch la sua tragedia non irrelata, non
individuale; lesserci si riscatta perch accolto e compreso da una cultura. Il mondo
magico fonda una civilt, una civilt che accenna a noi, uomini moderni. 27

1.10 Le realt del mondo magico


Il mondo magico, in quanto mondo in decisione, implica delle forme di realt che
nella nostra civilt, caratterizzata da una presenza decisa e garantita, sono
polemicamente negate e impossibili da concepirsi.
La realt onirica, la realt del doppio degli oggetti, degli spiriti, delleco, del
prolungamento ecc. sono tutte forme che comportano una presenza indefinita e ancora
intrecciata con lambiente, un esserci in fieri, ancora in via di decidersi.
I fenomeni cosiddetti paranormali si configurano come possibili, come reali, per entro
un mondo che non dato, ma ancora tutto incluso nella decisione di una presenza
umana che vacilla. Cos come i fatti della natura presuppongono un mondo dato, una
realt esterna osservabile e quindi una presenza autonoma e stabile, gli eventi
paranormali presuppongono una presenza insidiata, esposta al rischio, un esserci che si
sta ancora cercando.
Per meglio comprendere la realt, o meglio le realt, del mondo magico, de Martino
racconta un caso esplicativo: in Paraguay, un indigeno lengua accus un missionario, un
certo Grubb, di aver rubato le sue zucche. Lindigeno era certo del furto e dellidentit
del ladro poich lo aveva visto chiaramente in sogno compiere tale atto. Per quanto ci
riguarda saremmo portati a dire che lindigeno un folle, che sbaglia ad affidarsi ad un

26
27

Id.,p.151
Id.,p.152

20

sogno e che il sogno non prova niente. Eppure, dice de Martino, le cose non stanno
proprio cos.28
Il nostro concetto di presenza, cos come il nostro concetto di realt, presupponendo
scontatamente il processo storico del costituirsi del ci sono, non possono penetrare il
mondo magico. In unepoca storica in cui la presenza non si ancora nettamente
decisa nel senso della veglia, in una civilt in cui la presenza e il mondo che si fa
presente si estendono nel senso della coscienza onirica, e il reale culturalmente
significativo include anche ci che vissuto da questa coscienza29 ben possibile che
Grubb abbia rubato le zucche. Se affermiamo che il missionario in modo assoluto e
sotto tutti i rapporti non ha rubato le zucche, non facciamo altro che restare prigionieri
del nostro concetto di realt, imponiamo forzatamente la nostra concezione come
assoluta e valida in tutte le epoche e per tutte le civilt.
In realt vi sono due Grubb: quello che fa parte della nostra cultura, della visione
occidentale della presenza e del mondo come realt date, e quello inserito nel contesto
del dramma magico, della presenza indefinita che si intreccia col mondo, del pensiero
che non disgiunto dalla realt. Un terzo Grubb, un Grubb in s assolutamente vero
non esiste.
In un mondo in cui le presenze sono ancora indefinite, e in cui spazio e tempo sono
inclusi nella decisione umana, lindividuo pu teletrasportarsi in luoghi distanti, pu
leggere nel pensiero, comunicare telepaticamente o visitare realmente altri individui in
sogno. Fin quando lesserci costituisce un problema dominante e caratterizzante la
fattura ammalia, la contro-fattura salva; se latai muore, muore anche colui che vi
legato. Questi tipi di eventi fanno parte della decisione e dellintenzionalit umana.
Se vogliamo addentrarci nella civilt magica dobbiamo mettere da parte la positivit e la
datit del nostro mondo, liberarci dai nostri limiti storiografici e tenere presente che
abbiamo a che fare con unaltra forma di realt, legata ad un diverso ordine storico e
culturale: dobbiamo renderci conto che qui in gioco una forma di realt che non la
datit.30

28

Id.,p.135
Id.,p.136
30
Id.,p.134
29

21

Luomo di scienza occidentale deve resistere alla dannosa ed erronea tentazione di


volere inserire i fenomeni paranormali nel nostro ordine fisico, nel nostro mondo dato e
osservabile. I fatti paranormali non sono assimilabili ai fatti della natura, non sono
indipendenti, gettati davanti, oggettivi, ma sono atti che si danno per lintervento
di una presenza che li costruisce immediatamente nellimpegno storico di distinguersi
dal mondo e di contrapporsi ad esso.31
I metodi della nostra scienza, nati per indagare i fenomeni che appartengono ad un
mondo dato, non sono adattabili ad un mondo che deve ancora darsi e decidersi.
Riportare i fenomeni alla forma dellesperimento, ridurli ad unosservazione e ad una
valutazione li strappa dalla concretezza della loro forma storica e spontanea 32, li priva
del loro lato pi propriamente umano e culturale.33
I poteri magici non devono essere scientificamente spiegati ma storicamente compresi;
e possiamo com-prenderli solo nella misura in cui li inseriamo nel dramma esistenziale
da cui sgorgano, solo mediante la ricostruzione culturale dellepoca in cui sono inseriti.

1.11 La critica al soggetto trascendentale kantiano


De Martino, muovendo dalla sua ricerca empirica, compie una radicale critica al
soggetto trascendentale kantiano. Il principio dellautonomia della persona, individuante
e caratterizzante la civilt occidentale, raggiunge il suo apice ideale con la scoperta
kantiana dellunit trascendentale dellautocoscienza.
Affinch sia possibile il contrapporsi di ununit soggettiva ad un mondo oggettivo,
e affinch sia possibile che io resti identico a me stesso nel rappresentarmi la
molteplicit e la mutevolezza dei contenuti e delle esperienze, necessaria lunit
trascendentale dellautocoscienza: lIo Penso.
LIo Penso, o lappercezione, la funzione che svolge lattivit di sintesi e di
unificazione del molteplice, e lo riporta allunit della coscienza. grazie a tale sintesi
se il pensiero dellio non varia con i suoi contenuti ma li comprende come suoi. In altre
parole lappercezione la potenza che rende possibile un mondo fenomenico oggettivo.
31

Id.,p.132
Id.,p.40
33
Ibidem
32

22

La coscienza che io ho di me come soggetto pensante, lidentit dellautocoscienza, mi


permette di avere delle rappresentazioni del mondo. Un oggetto tale solo in rapporto
ad un soggetto, dunque in ciascun dato percepito dallio presupposta la totalit della
coscienza.
Lunit trascendentale dellautocoscienza, fondando la possibilit dellautonomia della
persona,

fonda

parimenti

la

possibilit

del

crollo

di

questa

autonomia.

Lunit kantiana dellappercezione cio soggetta al rischio esistenziale di perdersi.


[]il supremo principio dellunit trascendentale dellautocoscienza comporta un
supremo rischio per la persona, e cio, appunto, il rischio per essa di perdere il supremo
principio che la costituisce e la fonda.34
Tale rischio insorge quando la persona non riporta allunit della coscienza i contenuti
che esperisce bens li lascia liberi dalla sintesi, non padroneggiati; la persona abdica
cio al suo compito, non autonoma in rapporto ai contenuti e pertanto rischia di
scomparire come presenza. Lesserci della persona implica costantemente il rischio di
perdere quello stesso essere, lautocoscienza che la costituisce e che la fonda. Vale a
dire, la presenza, nel momento del suo stesso costituirsi, fonda simultaneamente il
rischio di smarrirsi.
La presenza e il mondo quali realt date restano, in Kant, al di fuori del processo
storico, non vengono individuati come prodotti di formazione storica. La presenza viene
cos congelata, irrigidita, non le viene riconosciuto il suo essere correlativa alla civilt
occidentale: si ha la ipostasi metafisica di una formazione storica.35
La presenza di stampo kantiano, lesserci deciso e garantito, viene assunto dalla nostra
civilt come il modello di ogni possibile presenza, come larchetipo valido per entro
qualsiasi mondo storico e culturale. Lesserci unitario della persona si configura come
il mai deciso o (che poi lo stesso) come il sempre deciso, e perci stesso come ci che
non entra nel mondo delle decisioni storiche.36 Cio entrano nella storia soltanto lo
scegliere e il decidere per entro le forme dellarte, del linguaggio, della religione e del
mito, del sapere scientifico, della economicit, della politicit, del diritto. Ma non entra

34

Id.,p.158
E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, cit.,p.160
36
Ibidem
35

23

nella storia lo scegliere e il decidere per entro la forma fondamentale- il supremo


principio- dellunit trascendentale dellautocoscienza.37
De Martino ci presenta il soggetto trascendentale kantiano, ovvero la condizione di
possibilit di ogni oggettivit, come un momento, esso stesso, del mondo oggettivo.
La fonte di ogni oggettivit cio non essa stessa inoggettivabile ma costituisce lesito
di un determinato processo storico. La suprema unit sintetica dellautocoscienza viene
immersa nel mondo come un momento storico tra gli altri: la categoria giudicante
presa come altrettanto storica della storia che ne giudicata.

38

In altre parole il

principio costituente si ritrova a sua volta una realt costituita. La situazione si


configura quindi come paradossale, ci che si presentava in prima battuta come
orizzonte includente si trasforma in un elemento incluso in questo stesso orizzonte.39
A parere di de Martino lerrore compiuto da Kant di avere assunto lunit
trascendentale dellautocoscienza come un presupposto incondizionato, un immediato,
un a-priori universalmente valido e garantito. Ma il concetto di presenza non un
invariante metastorico, non si sottrae al divenire; esso stesso una forma storica, un
prodotto umano che deriva da una determinata civilt.
La presenza un punto darrivo reversibile, un approdo contingente. Essa parte della
storia, ed , pertanto, esposta allo sviluppo e al dramma; lerrore che deriva da Kant
loblio di tale fatto. [] Mentre la ragione storica andata molto innanzi nella
ricostruzione storiografica per entro vari modi categoriali di realt, rispetto allunit
trascendentale dellautocoscienza essa non ha fatto valere la sua propria esigenza.40
Lesserci non un immediato originario, non un sempre dato che ci proviene dalla
natura, ma un risultato mediato, un traguardo faticosamente, ma non conclusivamente,
raggiunto. La presenza un bene culturale conquistato dalluomo attraverso lotte,
sconfitte, compromessi, attraverso decisioni e scelte che rinnoviamo ogni giorno.

37

Id.,p.159
G. Sasso, Ernesto de Martino. Fra religione e filosofia, cit., p. 250
39
S.Petrucciani, M. De Caro, M. Marraffa (a cura di), cit.,p.131
40
E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, cit.,p.160
38

24

1.12 Del magico si pu, si deve, fare storia


La magia rivela il suo vero significato e senso solo quando mostrata nella sua concreta
finalit e funzione: proteggere lesserci insidiato, garantire la presenza, fondare e
ordinare il mondo. Diversamente da quanto sostenuto dai precedenti studiosi del
magismo e dai cosiddetti irrazionalisti, come Lvy-Bruhl41, il mondo magico non il
regno della pura irrazionalit e del caos; bens esso mette capo ad un cosmo
padroneggiato dalluomo e dalla sua intenzionalit.
Gli irrazionalisti avevano individuato il dramma del mondo magico, ma si erano fermati
alla considerazione del suo polo negativo, al momento della crisi della presenza,
senza accorgersi che il mondo magico in realt dominato dal polo del riscatto
e dallo sforzo attivo di sottrarsi al rischio di non esserci.
Tutto il sistema di istituti, di compensi, di guarentigie e di compromessi che la magia
mette in piedi sono infatti orientati al mantenimento e al consolidamento della presenza,
sono finalizzati alla fondazione dellesserci elementare delluomo. Nel mondo magico
scorgiamo il primo drammatico cenno della volont umana di istituirsi come presenza in
un mondo definito. Tutto ci rende il magismo un fenomeno culturale storicamente
determinato.
Nel magico dunque non v solo dramma, non v solo negativo. Il magismo non la
potenza di cui ci si spoglia nel processo della ragione42, come sostenuto
polemicamente da Adolfo Omodeo43, e per il quale, di conseguenza, del magico non
pu darsi storia, perch la storia si pu fare del positivo e non del negativo.44
Sottratta allirrazionale la magia rivela la sua autentica storicit. Se la separiamo dalla
determinatezza storica in cui immersa non possiamo comprenderla; il fenomeno
magico riceve leggibilit soltanto alla luce della salda giuntura che lega la magia alla

41

Lucien Lvy-Bruhl (1857-1939) antropologo, sociologo, filosofo ed etnologo francese. Ha condotto studi sulla
mentalit religiosa dei popoli arcaici, a seguito dei quali ha elaborato la teoria del prelogismo dei primitivi. Si veda, a
questo proposito, La mentalit primitive, 1923
42
E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, cit., p.162
43
Adolfo Omodeo, maestro di de Martino con il quale si laure presso luniversit di Napoli nel 1932, e che lo
introdusse nella cerchia di Benedetto Croce. In una lettera datata 1941, Omodeo osservava, in polemica con de Martino,
che a rigore di logica la storia del magismo non esiste.
44
Critica riportata da Adolfo Omodeo e altres supportata da Benedetto Croce.

25

storia. Rilievo storico avrebbe solo una ricerca volta a determinare la Weltanschauung
del magismo e la funzione storica di tale Weltanschauung.45
De Martino coglie lessenza del mondo magico e ne rivendica la piena storicit, ne fa
oggetto di una problematica storiografica autonoma. Lelemento magico, nella storia
della civilt, svolge un ruolo culturale, salvifico, eroico, pedagogico46. Del magismo
dunque si pu, e si deve, fare storia.

1.13 Dasein e Dasein-sollen: un confronto con Heidegger


Al rapporto tra presenza e perdita della presenza fa da sfondo il dibattito esistenzialista
su essere e non essere. Lesserci demartiniano un concetto in costante sviluppo, la sua
evoluzione determinata dalle differenti contaminazioni filosofiche e culturali che si
succedono nel corso dei suoi studi (Croce, Janet, Storch, Jaspers, Abbagnano,
Heidegger).
Per Heidegger il modo dessere del Dasein lesistenza. Lesserci, che nella sua
struttura trascendentale implica sempre lessere in un mondo, ha diverse modalit di
essere-nel-mondo: pu scegliere tra lalternativa di una vita autentica o di una vita
inautentica. Appunto perch lEsserci essenzialmente la sua possibilit, questo ente
pu, nel suo essere, o scegliersi, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi
affatto, o conquistarsi solo apparentemente.47
Per Heidegger lesistenza umana per lo pi inautentica. Tale esistenza anonima
insita nella stessa struttura esistenziale delluomo. La deiezione, cio lo scadimento
dellesserci nella dimensione anonima e inautentica della vita, la caduta dellessere
delluomo al livello delle cose del mondo, una forma di alienazione connaturata
allessenza umana. In Heidegger il Dasein coincide con langoscia, il negativo dunque
insito nella stessa struttura dellesserci. La morte concerne lessere stesso delluomo,
costituisce la sua possibilit pi autentica e pi propria. LEsserci di Heidegger
pertanto attraversato da una negativit strutturale.

45

E. de Martino, Naturalismo e storicismo nelletnologia, Laterza, Bari, 1941, p.74


Sergio Fabio Berardini, De Martino, Croce e il problema delle categorie, in Ivan Pozzoni (a cura di), Benedetto
Croce. Teoria e orizzonti, Limina Mentis, 2010, p.340
47
Martin Heidegger, Sein und Zeit, Tubingen 1927; trad. it. Essere e tempo, a cura di A.Marini, Mondadori, 2011 p.65
46

26

In polemica con tale esistenzialismo negativo de Martino non intende lesserci come
deiezione. Per egli il Dasein non esso stesso angoscia; langoscia piuttosto la paralisi
della presenza e la sofferenza che questa paralisi provoca allesserci che ne vittima,
langoscia il sentimento di chi avverte il venir meno della propria presenza, della
propria capacit di emergere nel mondo. Di conseguenza il crollo del mondo, che
coincide con la vita inautentica, non una modalit di essere-nel-mondo, e quindi una
possibilit strutturale dellesserci, ma costituisce un rischio radicale, una minaccia
permanente. La negativit dunque non situata nel cuore dellesserci, ma si configura
piuttosto come un pericolo da combattere, come una possibilit da scongiurare.
Lesserci demartiniano un esserci in cui il ci si configura storicamente entro contesti
storico-culturali determinati; altrettanto storicamente determinati sono presenza e
mondo.48 De Martino sottolinea il carattere sociale di un uomo situato entro una
tradizione culturale definita; di un uomo che, mediante la cultura e la forza del valore,
lotta contro il rischio, contro il negativo e contro la morte.
In tale ottica acquista rilievo il rischio di non-poterci-essere-nel-mondo e, quindi, il
doveroso impegno umano di combattere tale rischio, di trascenderlo mediante la
fondazione di un ordine culturale. Tale trascendimento il vero principio in forza del
quale diventa possibile un mondo in cui si presenza.
Concludendo, per de Martino il fondamento dellumana esistenza non lessere ma
il dover essere. Lesserci non essere-nel-mondo ma doverci-essere-nel-mondo.
Dasein come Dasein-sollen, in-der-Welt-sein come in-der-Welt-sein-sollen. In questa
profonda differenza sta la netta distanza tra il Dasein di Heidegger e lesserci
demartiniano.

1.14 Il rischio antropologico permanente


Il dramma del mondo magico non una tappa ormai archiviata del processo evolutivo
delluomo, ma un momento che fa strutturalmente e costituzionalmente parte dello
stesso essere umano. In un certo senso possiamo dire che siamo tutti, sempre, potenziali
abitanti del mondo magico.
48

Clara Gallini, Introduzione alla Fine del mondo, Torino, Einaudi, 1977, p.LII

27

La presenza non conquistata una volta per tutte, ma sempre precaria e soggetta alla
reversibilit; un prodotto, il risultato conseguito da uno sforzo umano che si dispiega
nella storia, un possesso temporaneo che, in qualsiasi momento, pu venire a mancare.
Il nostro approdo alla presenza non mai conclusivo e definitivo, ma perennemente
esposto

allevenienza

della

catastrofe

alla

possibilit

del

regresso.

La presenza, la conquista di un Io stabile, un bene storico e, come tale, revocabile.


Nella vita dello spirito tutto, a partire dallo spirito stesso, pu essere rimesso in
discussione. La perdita della presenza dunque uneventualit sempre incombente per
luomo, un rischio ubicato nel cuore del suo stesso esserci.
Il tragitto che porta alla formazione del Dasein non a senso unico. La presenza non
conosce porto sicuro, mai al riparo ma sempre esposta al rischio del suo stesso
abdicare. La crisi della presenza, il pericolo del suo sfaldarsi, costituiscono un rischio
antropologico permanente, un carattere fisiologico dellanimale umano.

28

II. APOCALISSI CULTURALI

Certo il mondo pu finire: ma che finisca affar suo,


perch alluomo spetta soltanto rimetterlo
sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo.
Ernesto de Martino

Il rischio di perdersi, di non esserci pi nel mondo, costitutivo della stessa


condizione umana; tale rischio non appartiene solamente allorizzonte esistenziale dei
primitivi, ma connaturato allessere stesso delluomo, consustanziale ad ogni
presenza ed esistenza umana. Il tema della difesa della presenza dalla crisi va dunque
oltre il magismo e i confini del mondo magico, dilegua nel mondo adulto, e investe
anche quelle dimensioni in cui lesserci appariva un possesso garantito.

2.1 Magia e religione


Se il rischio della precariet ineluttabile, altrettanto lo lesigenza di simbolismi
protettivi, volti ad assicurare la presenza umana nel mondo e a farla essere nella storia.
Al pari della magia, anche la religione si rivela una tecnica finalizzata ad impedire il
naufragio della presenza. Ambedue sono infatti accomunate dalla funzione di elaborare
strategie per garantire lesserci nel mondo. Entrambe agiscono in situazioni-limite,
in momenti critici in cui il confine tra natura e cultura rischia di scomparire;
entrambe, ognuna coi propri istituti, operano a favore della rifondazione di tale confine.

29

Magia e religione partecipano alla sfera del sacro. Nellottica di de Martino il sacro
costituisce un dispositivo di protezione, un prodotto culturale creato dalla civilt allo
scopo di arginare il rischio della perdita della presenza.
La tecnica religiosa, parimenti a quella magica, salva luomo dalla caduta nella mera
natura, assicura il persistere di un mondo culturale. Il discorso sulla presenza, tesa tra la
possibilit di esserci e del non-esserci, si rivela dunque inscindibile dal discorso sugli
istituti protettivi magico-religiosi.

2.2 La ierogenesi come tecnica


Secondo de Martino la potenza tecnica delluomo un apriori, non solo quando si
volge al dominio della natura con la produzione di beni economici, con la
fabbricazione di strumenti materiali e mentali del pratico agire49, ma anche, e
soprattutto, quando fa consistere il suo compito nellimpedire il naufragio della
presenza.
Per Rudolf Otto50 il sacro rinvia innanzi tutto alla dimensione dellalterit radicale,
del totalmente altro. Gli strumenti conoscitivi delluomo appaiono, in questottica,
inadeguati a comprendere la complessa realt del numinoso: il sacro, Das Ganz Andere,
nozionalmente inconcepibile e, quindi, irrazionale. Luomo fascinato e terrorizzato
dal numinoso, lo esperisce, o meglio lo subisce, con un sentimento di inadeguatezza e di
inferiorit. Lalterit del sacro concepita da Otto come una realt ontologicamente
data, di fronte alla quale luomo non pu che lasciarsi agire-da.
De Martino discorda radicalmente da questa tesi asserendo che il sacro non un a-priori
ma costituisce un prodotto, il risultato di un determinato processo la cui genesi
integralmente, pienamente, umana. Pertanto non vi irrazionalit nel numinoso, il sacro
va piuttosto concepito alla stregua di un discorso razionale, mondano e prettamente
storico: il sacro costituisce appunto una tecnica.

49

G. Sasso, Ernesto de Martino. Fra religione e filosofia, cit., p.287


Rudolf Otto (1869-1937), storico delle religioni tedesco il cui pensiero sar alla base della futura sociologia e
filosofia della religione. La sua opera pi importante, dove elabora un concetto del sacro che avr larga fortuna e
diffusione, Das Heilige, pubblicata nel 1917.
50

30

La drastica alterit che lo qualifica non ha alcun carattere di assoluto, ma riflette


piuttosto lalienazione della presenza (del s) che nellesperienza della crisi si vive
come altro da s.
Ben si comprende, in questa prospettiva, perch lesperienza del sacro contenga
sempre il manifestarsi di una forza completamente altra, assolutamente separata dal
profano, demoniaca e rischiosa: il momento in cui la presenza recede inorridita
davanti al processo della sua propria alienazione, davanti al s che diventa altro.51
La religione quel dispositivo culturale che, nellambito del sacro, arresta lalienazione
della presenza, svolgendo pertanto un ruolo terapeutico e salvifico, assolvendo ad una
funzione reintegrativa e coesiva. La religione fonte e strumento di salvazione: aiuta a
vivere non gi nel senso generico e banale dellespressione ma nel senso profondo che
recupera e mantiene la base essenziale della vita umana.52

2.3 La destorificazione religiosa


La tecnica promossa dallistituto religioso, al fine di proteggere la presenza umana nel
mondo, quella della destorificazione. Destorificare vuol dire negare, occultare la
storia. Listituto della destorificazione interviene nei momenti critici dellesistenza e,
sottraendoli

alliniziativa

umana53,

opera

un

mascheramento

della

storia

angosciante54; provvede cio a negare loggettiva difficolt dellaccadimento in corso,


presentandolo come se fosse la ripetizione di un evento analogo gi verificatesi in
passato, nellillud tempus del mito.
In questo modo la difficile situazione contingente non viene affrontata nella sua cruda e
problematica storicit, ma viene rappresentata come la replica di un episodio gi vissuto
e quindi suscettibile di essere superato. La criticit del momento in questione risolta
nelliterazione di un da sempre valido ordine risolutore, e risulta pertanto
depotenziata.

51

E. de Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p.17


E. de Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Lecce, Argo, 1995, p.62
53
Questo non significa che non avvengano innovazioni, iniziative o modifiche ma semplicemente che queste hanno
luogo solo se mascherate nella loro storicit.
54
Ibidem
52

31

Loperazione della destorificazione garantisce il compito umano di esserci mediante


listituzione di un piano metastorico che assolve a due funzioni: fonda un orizzonte
rappresentativo stabile e, allo stesso tempo, fornisce il luogo ideale in cui, attraverso
literazione di modelli operativi, pu essere riassorbita, annientata o sospesa, la nefasta
potenza del negativo.
In virt del piano metastorico come orizzonte della crisi e come luogo di
destorificazione del divenire si instaura un regime protetto di esistenza, che [] getta
un velo sullaccadere e consente di stare nella storia come se non ci si stesse.55
Il come se costituisce una modalit di superamento culturale dellesistente 56 e pu
essere considerato il segno distintivo della destorificazione religiosa. Il presente critico
viene assimilato allesistente da sempre, ad un paradigma in cui la crisi si risolta in
maniera positiva. Il rischio di alienazione delle singole presenze viene trasfigurato in un
ordine metastorico, e riportato in un quadro rappresentativo stabile e tradizionalizzato.
Gli uomini si comportano e agiscono come i protagonisti dei miti, attraverso il rito
rinnovano lo spazio e il tempo mitico, evocano il rassicurante orizzonte della metastoria.
Mediante tale prassi mitico-rituale la presenza si mantiene intatta.
[] la decisione umana di quei momenti si svolge per entro la protezione della gi
avvenuta decisione sul piano mitico, il che equivale a dire che attraverso la pia fraus
dello stare nella storia come se non ci si stesse viene ridischiuso lo starci effettivo della
operosit profana, garantito nei suoi risultati e nelle sue prospettive dal gi deciso in illo
tempore.57
Mentre la crisi contingente non offre alcuna certezza di essere risolta, la crisi riplasmata
nei modi del mito e del rito comporta la reintegrazione culturale. Dunque la
destorificazione, quando culturalmente disciplinata e socialmente istituzionalizzata58,
svolge un ruolo positivo di grande portata. La storia, e il negativo che vi al suo
interno, non viene rimossa dalla coscienza, ma collettivamente assunta e fatta oggetto di
pratiche umane il cui valore socialmente condiviso.
55

E.de Martino, Sud e Magia, Milano, Feltrinelli, 2001, p.97


Giovanni Filoramo, Marcello Massenzio, Massimo Raveri, Paolo Scarpi, Manuale di storia delle religioni, Bari,
Laterza, 2009, p.530
57
E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, Clara Gallini (a cura di), Torino,
Einaudi, 1977, p. 222
58
Cio quando non irrelata, quando non una insorgenza spontanea del singolo individuo.
56

32

Strumento primario ed indispensabile della destorificazione il simbolismo miticorituale. Di conseguenza la religione essenzialmente mito e rito. Il mito offre il modello
metastorico del quale il rito compie literazione. Il rito, con parole e gesti definiti, ripete,
narrando e mimando, miti esemplari, nei quali tutto si gi svolto nel modo desiderato.
La negativit attuale del divenire viene cos riassorbita in una esemplarit mitica
risolutiva, viene cancellata in virt di un come mitico, dove il negativo sempre
cancellabile per la semplice ragione che gi stato cancellato.59
Destorificare significa dunque sospendere il divenire nella pura ripetizione del mito e
del rito. Questa operazione ha un carattere soteriologico e reintegrativo, reimmette
lesserci nella corrente positiva delloperare60. La potenza della religione e dei suoi
istituti sta nellattuare la riconversione dalla paralisi della presenza alloperare umano
nel mondo. La forza del sacro sta nel (ri)dischiudere alluomo lorizzonte del profano.

2.4 Il simbolismo mitico-rituale


Il tema del simbolismo mitico rituale, scandito dai tre momenti della crisi, del simbolo e
della reintegrazione culturale, ci riporta nuovamente al tema della presenza, della sua
perdita e della sua reintegrazione entro un orizzonte culturale determinato. Lapparato
simbolico mitico-rituale assolve ad una molteplicit di funzioni: arresta lalienazione
della presenza individuale, difende dai rischi di recessione verso la inoperabilit del
mondo, maschera la responsabilit umana della decisione operativa attuale e attenua
limprevedibilit critica del futuro accadere.
Il simbolismo mitico-rituale riassorbe la proliferazione del divenire e recupera la storia
mediante la riproposizione di un mito delle origini. Il mito sempre in qualche modo
cosmogonia, narra come, in illo tempore, il mondo stato fondato o creato.
Il mito annuncia un evento che ha avuto luogo in un tempo aurorale, al di l della storia,
e che costituisce un precedente esemplare per tutte le azioni e le situazioni che si
presenteranno in futuro. Il rito ripete e rinnova il mito della fondazione, la sua iterazione
volta ad abolire il tempo profano e a ripresentare il mondo sempre di nuovo secondo la
potenza esemplare della prima volta.
59
60

E.de Martino, Sud e Magia, cit., p.108


G. Sasso, Ernesto de Martino. Fra religione e filosofia, cit., p.300

33

Il mito [] pi che a sopprimere radicalmente il divenire volto piuttosto a rendere


mediatamente possibile il concedersi ad esso, il dischiudersi, sia pure a patto, alla storia.
Certe sfere storiche della realt sono dischiuse in quanto si entra in esse attraverso il
nesso mitico-rituale in quanto cio la loro storicit viene trasfigurata (in realt
permessa) attraverso la iterazione dellidentico (della prima volta, del mito delle
origini). 61
Sebbene, a prima vista, possa sembrare che il mito operi cos una definitiva abolizione
della storia, in realt, in quanto comportamento che ripete modelli metastorici,
costituisce esso stesso unazione e un comportamento storico, una iniziativa meramente
umana di ripetizione.
Il mito , al tempo stesso, metastorico e cominciamento storico; ha luogo nella
metastoria ma, daltra parte, la sua metastoria ridischiude la storia umana, la
Einmaligkeit della decisione storica.62 In altre parole potremmo dire che il tentativo di
uccidere la storia fa parte della storia e genera nuova storia.63

2.5 Leterno ritorno nella cultura


Il simbolismo mitico-rituale e la ripetizione dei miti delle origini implicano una
coscienza ciclica del tempo. La concezione ciclica del tempo si rivela un sistema
protettivo volto a preservare la presenza dalla critica storicit del divenire umano.
Il tempo ciclico infatti il tempo della prevedibilit e della sicurezza; il suo modello
offerto dal ciclo astronomico e da quello delle stagioni: il suo modello appartiene di
diritto alla natura.
Trasferito sul piano umano, nellambito della storia, il tempo della prevedibilit e della
sicurezza diventa il tempo della pigrizia, ovvero il rischio della stasi della presenza,
del regresso dalla cultura alla natura. Se infatti in ambito naturale la ripetizione
dellidentico si configura come regolarit e dunque sta senza dramma64, nelluomo
significa invece il crollo della presenza e del mondo, coincide con listinto di morte, con

61

E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, cit., p. 139
Id., p.225
63
Ibidem
64
Id., p.223
62

34

la

paralisi

dellattivit

valorizzatrice.

Leterno

ritorno,

rigorosamente

(cio

naturalmente) inteso, si profila dunque come un rischio estremo, come una radicale
insidia per la presenza umana nella storia.
La ripetizione di un mito delle origini, literazione della fondazione, sembra compiere
ed esprimere una sorta di imitatio naturae, tuttavia tale imitatio non coincide con
leterno ritorno che proprio della natura. Nel simbolismo mitico-rituale leterno ritorno
naturale viene riplasmato in una modalit del ripetere che appartiene in pieno al piano
della cultura umana; viene cio trasfigurato in un tipo di ripetizione che non si manifesta
sua sponte ma che in tutto e per tutto sottomessa allumana disciplina.65
Leterno ritorno del mitico-rituale dunque una imitatio naturae che la cultura ha
incorporato e riplasmato in un prodotto culturale, in una tecnica umana. una modalit
di ripetizione interamente piegata ai fini umani e che opera al fine di dischiudere la
storia entro un regime protetto.
Quando la nostalgia dellidentico si rende conto del vuoto che avanza, lidentit
assume la forma dellessere che si ripete, della nostalgia del divenire ciclico, a
imitazione dellordine astronomico, della vicenda stagionale, della legge naturale.
Lordine simbolico assume questo rischio e mediatamente ridischiude limpegno
dellesserci a trascendere le situazioni secondo valori culturali che luomo genera e che
alluomo sono destinati. [] Lordine simbolico mitico-riturale rammemora
periodicamente una origine assoluta della storia e un suo assoluto compimento, lordine
simbolico ricorda lorigine e la prospettiva di unepoca cui si partecipa. 66

2.6 La fine del mondo


Literazione dellidentico e la momentanea sospensione della storia che questa
ripetizione implica generano la rappresentazione e lesperienza di un ricominciare da
capo, di un tornare-a, di una nascita che sempre si rinnova. La concezione del divenire
ciclico della storia implica cio il tema delleterna morte e delleterna rinascita del
mondo, del suo perenne finire e risorgere. Tutte le rappresentazioni mitiche sono
sorrette da questo sfondo.
65
66

G. Filoramo, M. Massenzio, M. Raveri, P.Scarpi, Manuale di storia delle religioni, cit., p.531
E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, cit., p. 226

35

Il tema della fine del mondo quel rischio antropologico permanente, proprio della
presenza umana, trasferito sul piano simbolico. Il finire coincide con il rischio di non
poterci essere in nessun mondo culturale possibile. Literazione liturgica della fine e
dellinizio del mondo non fa che riproporre, in maniera metaforica e ritualizzata, il
rischio della crisi della presenza, della sempre possibile caduta delluomo dalla cultura
al caos. La fine del mondo significa il rischio di perdere la possibilit di essere operativi
nellorizzonte mondano, implica la catastrofe di qualsiasi progettazione comunitaria
secondo valori. 67
Lesorcismo contro questo rischio radicale rappresentato dalla cultura umana, che lo
fronteggia e lo riscatta. Il tema culturale della fine di un certo ordine mondano esistente
costituisce una modalit storica di ripresa e di superamento del rischio. Un esempio
dimostrativo, propostoci da de Martino al riguardo, quello del rituale romano del
Mundus.

2.7 Il rituale del Mundus


Mundus una fossa a due piani, spazialmente situata al centro di Roma; la parte
inferiore collegata al mondo degli inferi e dei defunti, quella superiore al mondo
abitato e alla volta celeste. Il simbolo mundiale configura il cielo e la terra, il sopra e il
sotto, concentra in s lo spazio cosmico e culturale. Il mundus viene ritualmente aperto
tre volte lanno, in giornate nefaste. In questi tre giorni (segnati nel calendario con la
dicitura mundus patet, cio il mondo aperto) i defunti vagano tra gli uomini, il caos
regna sulla terra abitata, ogni attivit viene sospesa.
Mundus rappresenta il rischio di una caotica fine del mondo, della citt, della cultura, di
tutti i suoi abitanti. la ripetizione periodica della sempre possibile caduta collettiva nel
caos. Questo rischio presentificato e simboleggiato dal ritorno dei morti e dalla
sospensione delle attivit culturali, ma, allo stesso tempo, controllato ed esorcizzato
grazie alla sua fissazione e localizzazione in un determinato luogo e tempo. Il duplice
simbolo spazio-temporale costituisce una reintegrazione e una risposta culturale.
Il regresso al caos, il finire del mondo, non dunque da temere poich sar succeduto da
una rinascita, dallinizio di un mondo nuovo.
67

Id., p.219

36

2.8 Lultimo giorno sempre allordine del giorno68


Langoscia per la fine del mondo viva nelluomo da sempre. Gi presso la civilt
egizia e quella etrusca troviamo riflessioni di carattere escatologico e il pensiero della
fine svolge un ruolo importante allinterno della cultura e delle dinamiche della societ.
Credenze e miti sulla fine del mondo sono presenti anche nello Zoroastrismo e nella
religione degli antichi Maya; non mancano nemmeno in Oriente dove, presso
lInduismo e la dottrina Buddhista, rinveniamo la concezione di un cosmo che va
ciclicamente incontro a deflagrazione e rigenerazione. La medesima concezione del
tempo, inteso come un circolo di eterni ritorni e quindi di eterne distruzioni, vige nelle
visioni del mondo dellantica Grecia e di Roma.
Il pensiero angoscioso per la fine del mondo costituisce un tema culturale non solo nel
quadro delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo, e quindi nellambito
delle configurazioni mitiche e delleterno ritorno, ma anche nel quadro di una storia
caratterizzata da un corso unilineare e irreversibile. Limmagine dellordine mondano
esistente che corre verso la fine non dunque peculiare di una concezione ciclica del
tempo, ma propria anche di una storia umana che, a partire da una origine, muove
verso il suo epilogo.
La paura per il finire del mondo non un derivato della teologia, non un prodotto della
religione o del mito, ma costituisce un tratto peculiare della natura umana, si rivela un
carattere naturale per un animale privo di specializzazioni, come luomo. Langoscia
per la fine del mondo non dunque correlata a certi mondi culturali o a determinati
sistemi sociali, ma semplicemente costituisce latteggiamento umano filogeneticamente
pi antico.

2.9 Lapocalittica cristiana


La tradizione giudaico-cristiana rompe con lo schema del tempo circolare, ma la
coscienza mitico-rituale non risulta per questo annientata, penetra piuttosto nella stessa
coscienza storica del divenire lineare e irreversibile. Se nelle grandi religione storiche,
caratterizzate dal divenire ciclico del tempo, ad essere reiterato il mito di fondazione e
68

Paolo Virno, Promemoria su Ernesto de Martino, in Studi culturali, Bologna, il Mulino,anno III, n.1, 2006

37

la esemplarit delle origini, ora la ripetizione degli inizi diventa ripetizione del centro,
della morte e della risurrezione del Cristo. Laccento si sposta dalla ciclicit delle
catastrofi allattesa di un termine finale univoco: lavvento del Regno di Dio.
Con la profezia del Regno si passa da una fine del mondo prossima e imminente ad un
suo rinvio, procrastinato nel tempo. Il rinvio della parusa costituisce appunto
loperazione tecnica che consente la configurazione, e la dilatazione, di un orizzonte di
operabilit mondana: lattesa del Regno di Dio, ovvero lattesa del mondo, porta con s
la nascita di un mondo.
Lo spostamento della fine dalla imminenza alla lontananza, nonch la sua
indeterminazione spaziale e temporale, permette una progressiva estensione
dellorizzonte

lasciato

alla

operabilit

del

mondo.

Questo

dispositivo

di

allontanamento protegge e legittima lazione umana, libera uno spazio da dedicare


alle attivit profane e alla pratica culturale della condivisione di valori.
Il rischio della imminenza della fine viene riscattato dal Cristianesimo mediante la sua
posticipazione; il finire viene mutato di segno e fatto coincidere con un nuovo
cominciamento. Con questi espedienti, che dischiudendo la operabilit del mondo
permettono il dispiegarsi di una vita culturale comunitaria, il Cristianesimo si rende
fondatore di civilt.
Ma lannunzio del Regno comporta anche alcuni rischi che sono incompatibili con
lattuarsi di una vita culturale comunitaria e che quindi minacciano la presenza umana:
verr il tal giorno databile ed ora non c che da attenderlo con lo sguardo al cielo
consumandosi in una esplorazione di segni.69 Lattesa della parusa implica il rischio
che luomo si ponga in una condizione di inerte aspettativa e che sospenda la sua
azione, rendendosi inoperativo nel mondo e quindi inadatto al comportamento culturale.
Il Cristianesimo si forma nella lotta contro questo rischio, la strategia che adopera al
fine di scongiurarlo quella di porre laccento sul gi: Ges gi venuto una volta e
garantisce la seconda e definitiva; il Regno gi comincia e si compir; attraverso lo

69

E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, cit., p.289

38

Spirito Santo e la Chiesa si compir la promessa.70 Questo gi non deve per essere
concepito come attualit, come compimento gi avvenuto71, ma come un non ancora.
Ci che fece del Cristianesimo una religione fondatrice di civilt, ci che in esso
dischiuse la storia, fu appunto questa paradossale tensione fra gi e non ancora, questo
stare perennemente in tensione vigilante fra l'uno e l'altro, questo sentirsi garantito dal
primo e sospinto verso il secondo, questo viversi di ciascuno nellepoca dello Spirito
Santo, della Chiesa, dellapostolato, della testimonianza sino ai confini della terra, della
buona novella da diffondere tra le genti in un rapporto dominato dallagape. appunto
questa forma cristiana, storicamente definita, dellethos che regge il mondo. Ma questo
ora fra gi e il non ancora, se la grandezza civile del Cristianesimo, costituisce anche
il suo travaglio: il gi ora che oscura il non ancora e il non ancora che perde il gi
costituiscono due forze eccentriche che manifestavano il venir meno di quellagape che
Paolo poneva al di sopra della pistis e dellelps. 72

2.10 Leucarestia
Lesperienza della fine del mondo come rischio esistenziale antropologico trova nella
prospettiva del Regno -che al tempo stesso attesa del futuro e promessa del passatoil suo orizzonte di reintegrazione. La catastrofe del crollo immediato e irrelato del
mondo riscattata e mutata di segno attraverso la prefigurazione del Regno di Dio e, pi
specificatamente, attraverso il rito eucaristico.
Leucarestia la celebrazione ritualizzata, socializzata e istituzionalizzata dellultima
cena, il banchetto del giorno estremo. Il rito delleucarestia presentifica il banchetto
avvenuto nel passato e prefigura quello dei tempi estremi futuri: in virt del simbolo
eucaristico la comunit dei fedeli partecipa ad un orizzonte retrospettivo e prospettico.
Proprio questo duplice orizzonte permette il dischiudersi della dimensione del presente
(e della presenza nel mondo).
Il rischioso puntualizzarsi della catastrofe [] viene ora mediamente oltrepassato: con
il Cristo il mondo ha cominciato a finire, in passato, nel punto centrale del piano divino
70

Id., p.288
Segnerebbe altrimenti la fine della testimonianza operativa mondama, al pari della inerte attesa.
72
Id., p.289
71

39

di salvezza; con il Cristo, sempre in passato, stata data la promessa dei tempi estremi
futuri; e infine con il Cristo reso presente nella iterazione del banchetto eucaristico,
possibile sperimentare nel qui e nellora non gi lattuale immediato crollare del mondo,
ma la promessa passata e lattesa futura del finire vivendo qui ed ora non gi i tempi
estremi, ma la promessa del passato e lattesa del futuro, e quindi la prefigurazione,
lanticipo, il pegno della seconda parusia che certamente avr luogo, poich gi ha
avuto luogo con la prima.73
Con leucarestia si introduce nel tempo storico un rito periodico, limitato ad un
determinato momento del calendario. In questo modo il tempo che intercorre tra le due
celebrazioni reso disponibile alloperare umano e alle attivit culturali profane: tra il
gi e il non ancora lesserci libero di dispiegare la propria potenza.
Se fra il gi e il non ancora del simbolo mitico-rituale cristiano la presenza pu
prendere respiro, la concentrazione calendariale periodica del comportamento
liturgico libera il tempo per gli altri comportamenti culturali: Lanno liturgico
cristiano un dispositivo culturale per la completa destorificazione del tempo: il Cristo
vi infinitamente ripetuto come una stessa voce in una caverna dominata dalleco.
E tuttavia il calendario delle celebrazioni se riassorbe in un anno metastorico gli anni
storici del tempo, li ridischiude uno per uno, nei loro concretissimi mesi, giorni, ore e
istanti, raggiungendo cos quel decidere operativo secondo valori a cui luomo, finch
uomo, non pu sottrarsi.74

2.11 Apocalisse culturale


La fine dellordine mondano esistente ci che de Martino concettualizza col termine di
apocalisse culturale. Questa nozione travalica il fenomeno religioso ed estende la
vicenda delloscillazione tra il crollo e la ripresa della presenza ad ogni piano della vita
umana. Potremmo dire che le apocalissi culturali costituiscono lultima metamorfosi di
quel dramma delle origini (la labilit del Dasein) che de Martino aveva intravisto per la
prima volta nel magismo.75

73

Id.,pp. 291-2
Id.,p.300
75
Paolo Virno, Promemoria su Ernesto de Martino, in Studi culturali, cit.
74

40

Lapocalisse coincide con il dramma della perdita della presenza, esprime lo


sprofondare di un ordine culturale, storico, psicologico: perdere il mondo e perdersi
nel mondo. Questa perdita accade su due fronti: si perde una patria, un luogo
domestico, uno spazio di riconoscimento e, allo stesso tempo, si oblia la propria
tradizione culturale, la propria memoria del passato, e non si ha pi un orizzonte
temporale in cui poter operare. Lapocalisse una catastrofe spaziale e temporale.
La fine del mondo non implica necessariamente scenari di disastri cosmici o paesaggi
catastrofici, ma da intendersi come il riflesso del disfacimento del nostro esserci76,
come la paralisi di una presenza che viene meno al compito di contrapporsi al mondo
esterno e che si rivela drammaticamente incapace di emergere oltre la dimensione della
natura. Nellapocalisse il movimento che trascende la situazione nel valore 77, cio il
movimento che appartiene alla presenza, il suo ethos, subisce un arresto, uno scacco.
Tuttavia nellapocalisse culturale, cos come concettualizzata da de Martino,
preminente il secondo termine della relazione: lapocalisse culturale si caratterizza
come tale per il fatto che la fine del mondo assunta come un rischio incombente e non
come una realt di fatto. La presenza alla fine reintegrata in quanto lapocalisse
culturale non ne occulta la crisi ma, al contrario, ne ripercorre ogni singola tappa e,
proprio rivivendo tutti gli stadi della dissoluzione, in grado di mutarne la direzione: il
rischio della perdita cos, con successo, convertito in ripresa.
La catastrofe dellordine mondano una potenzialit negativa -che grava su tutte le
culture umane- ma che mai diventa atto: il rischio riscattato e superato nella
reintegrazione culturale. Lapocalisse culturale non dunque la fine del mondo ma la
fine di un mondo. In tal senso lapocalisse naturale, cio unesperienza connessa alla
stessa storicit della condizione umana.
La fine di un mondo, da ben distinguere dalla fine del mondo, rientra nellordine della
storia culturale umana, fa parte della dimensione consueta dellumanit. Lesperire il
rischio della fine del mondo un vissuto negativo che permette il dispiegarsi della vita
stessa, un momento indispensabile per poter essere padroni dei momenti che verranno.

76
77

E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, cit., p. XXV
E. de Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, cit., p.103

41

Le apocalissi (culturali) mostravano, in s stesse, un volto bifronte e uno sguardo


duplice. Da una parte guardavano alla loro catastrofe, al farsi passato del loro presente.
Ma, per unaltra, guardavano nella direzione del futuro, a ci che, attraverso la morte,
rivela e afferma la sua nuova vita. Lattesa della fine, ossia il consapevole atteggiarsi di
unepoca nella forma della sua propria apocalisse, era anche attesa dellinizio. E, fra
luna attesa e laltra, la tensione era in s stessa disposizione a che il nuovo si
realizzasse.78
Nelle apocalissi culturali il finire non significa una distruzione, ma coincide piuttosto
con la concreta possibilit di una (ri)costruzione valorizzante, con un nuovo inizio.

2.12 Immagini di apocalissi culturali


La prima immagine di apocalisse culturale individuata da de Martino quella proposta
dalle grande religione storiche e dal loro apparato simbolico-rituale. Queste accolgono il
tema della fine del mondo in quanto rischio periodico e ritualizzato. Grazie allorizzonte
configurato dal mito, la fine viene vissuta collettivamente su un piano metastorico,
ed propedeutica alla genesi di un nuovo mondo storico.
Un altro modello di risoluzione culturale della fine, che abbiamo pocanzi esposto,
quello costituito dallapocalittica cristiana. La fine del mondo viene qui assunta come
una possibilit sicura, ma indeterminata e lontana nel tempo. Loperare umano, che si
dispiega in linea retta tra un inizio e una fine certi, riacquista il suo pieno orizzonte:
nellattesa del regno di Dio luomo partecipa alla vita culturale della comunit.
Altre immagini di apocalissi culturali ci vengono offerte dallescatologia del Terzo
Mondo e dallumanesimo marxiano. I movimenti di stampo apocalittico, presi in
considerazione nellambito etnologico del Terzo Mondo, costituiscono la risposta alla
traumatica esperienza dellinvasione coloniale occidentale.
De Martino nota che in diverse zone dellAfrica e dellOceania il processo di
decolonizzazione ha preso la forma di movimenti chiliastici nei quali il gruppo, sotto
la guida di un leader carismatico, si preparava in vista di una imminente fine del mondo
e dellavvento di uno nuovo tempo. La tematica escatologica in questione attinge le
78

G. Sasso, Ernesto de Martino. Fra religione e filosofia, cit., p. 334

42

proprie immagini da un lato dal patrimonio di credenze appartenenti alla tradizione,


dallaltro impiegando gli insegnamenti neotestamentari diffusi dai missionari.
Lapocalittica del Terzo Mondo si rivela cos culturale (cio opera un riscatto) trovando
la soluzione alla crisi in unazione di sincretismo tra vecchio e nuovo.
Questa escatologia opera a favore della storicizzazione dellesistenza, del passaggio
dalla natura (ovvero dallassenza di decisione sul proprio destino) alla cultura
(alliniziativa) individuando nella perdita del proprio ordine tradizionale la possibilit e
la condizione per una reintegrazione in una dimensione umana pi ampia e pi matura.
Lincontro etnografico, il confronto con il culturalmente alieno, non uccide una
umanit, ma pone piuttosto le basi per un nuovo umanesimo. La fine del proprio mondo
e del sistema di vita tradizionale viene cos trasfigurata nel cominciamento di una nuova
vita pi completa: la de-umanizzazione viene convertita in una ri-umanizzazione
del mondo.
Lapocalisse marxiana non verte su una fine generalizzata del mondo, ma sulla fine del
mondo di una determinata organizzazione sociale, economica e politica. Questa
apocalittica trasferisce su un piano prettamente storico la dialettica fine/inizio.
Lorientamento laico che la caratterizza costituisce la novit pi importante del suo
apporto e la rende differente da tutte le altre immagini di apocalissi culturali: per la
prima volta siamo di fronte ad una apocalisse secolarizzata, che non rimanda ad alcun
ordine o ideologia religiosa. In questo tipo di apocalisse il finire costituisce il preludio
per il cominciamento di un nuovo modello storico, economico e sociale; il riscatto
rappresentato dal possibile raggiungimento di una societ senza classi.
De Martino individua nellapocalisse marxiana il tipo positivo di una pi generale
apocalittica, o crisi, della societ borghese contemporanea. Lapocalisse dellOccidente,
come da lui definita, merita un discorso a s stante che ci accingiamo ad affrontare.

2.13 Lapocalisse dellOccidente


Il progresso della filosofia e della religione aveva fatto s che, attraverso il
Cristianesimo e il suo stesso sacrificio, lumanit uscisse dalla fase della protezione
religiosa. Ma la fine di questa non coincideva tuttavia con lacquisto di una capacit pi

43

alta. [] Mentre le tradizionali barriere protettive cadevano sotto i colpi critici di una
ragione fattasi adulta, lumanit si trovava esposta al rischio [] di un nuovo dramma.
Il rischio di non esserci che, [] ai tempi de Il mondo magico era stato confinato
nellarea remota delle cos dette civilt primitive, e tenuto perci ben lontano dalla
securitas dellOccidente maturo, si rivelava ormai appartenente anche a questa [].
Paradossalmente, era il progresso, era luscita dallepoca delle protezioni religiose, era il
secolarizzarsi, [] a far nascere nellanima occidentale un senso nuovo, eppure antico,
di timore e tremore.79
Se nelle immagini di apocalissi culturali precedentemente descritte il tema della fine del
mondo si risolve in una riplasmazione religiosa, e dunque si svolge lungo una dinamica
che porta alla reintegrazione e al superamento culturale, lapocalisse contemporanea
esperisce invece la nuda crisi del finire alla sola polarit negativa.
Lattuale congiuntura culturale delloccidente conosce [] il tema della fine al di
fuori di ogni orizzonte religioso di salvezza, e cio come nuda e disperata presa di
coscienza del mondano finire.80
La crisi resta nuda quando si spoglia dellorizzonte religioso, quando rompe con un
piano teologico della storia, e con la direzione e il senso che da questo deriva.
La disincantata autocoscienza occidentale, dopo aver perso Dio, e i simboli e i valori ad
esso connessi, non riesce a trovare in se stessa quell energia valorizzante in grado di
superare la crisi. Senza un orizzonte di reintegrazione, senza un luogo di protezione il
finire non pu essere preludio di un nuovo cominciamento o anabasi verso un nuovo
ordine81, ma viene piuttosto esperito al solo segno negativo, come tragica
consapevolezza della catastrofe, come caduta negli inferi senza possibilit di ritorno.
Siamo di fronte ad un disagio esistenziale generalizzato: la crisi borghese una crisi di
valori e pertanto porta con s il rischio di perdere ogni possibile patria culturale, ogni
possibile mondo. La civilt occidentale vittima di una tentazione apocalittica e
attraverso la sua produzione denuncia, con tutte le voci disponibili, la propria malattia:
un male che sembra avere tutti i sintomi di una apocalisse senza escaton.

79

G. Sasso, Ernesto de Martino. Fra religione e filosofia, cit., p. 308


E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, cit., p. 467
81
Id.,p.471
80

44

2.14 Lapocalisse nellarte contemporanea


La societ borghese offre una molteplicit di documenti a testimonianza di questa
radicale crisi: dalla letteratura alla filosofia, dallarte alla musica, passando per il
costume e la vita politica, emerge, in tutta la sua drammaticit, il sentimento tangibile
della fine del mondo, lavvertimento della catastrofe del mondano.
Lanalisi del pensiero della fine nella letteratura, nella filosofia e nelle arti figurative
evoca limmagine di una discesa agli inferi, di un mondo che si sta sfaldando, di una
patria che non pi riconosciuta dai suoi abitanti, di un significante che non ha pi
alcun significato: insomma di un cosmo che precipita nel caos.
A parere di de Martino il documento dellarte contemporanea ci permette di capire
quanto profonde siano le radici del male e quanto grave sia il pericolo della fine del
mondo82, per questo ne daremo un veloce e breve cenno.
Linferno irrompe nel mondo dellarte contemporanea: se larte classica esibisce la
proporzione, lordine e larmonia umana, la nuova arte combatte contro ci che
propriamente umano, e mostra linferno, la morte, il caos, eleva a materia del dipingere
tutto ci che non appartiene ai caratteri delluomo. Da Bosch a Brueghel, da Goya a
Munch: larte rappresenta lorrore, il mostruoso, il demoniaco, linfernale.
Se prima linferno era oggettivato nellal di l e la sua irruzione in questo mondo era un
evento temporaneo che tentava il santo o che possedeva lo scellerato, in Goya linferno
diventa immanente nel mondo inabita nelluomo, luomo demonizzato e sia luomo
che il suo mondo sono esposti alle forze demoniache83. Il manicomio, le descrizioni di
guerra e le tauromachie: tutti i temi di Goya mostrano la disumanizzazione delluomo,
(non pi limmagine di Dio), limbestiamento e il delirio delle masse.

2.15 Il pensiero della fine


La lotta contro il normale, il domestico, il familiare, l abituale caratterizza in
modo eminente la congiuntura culturale moderna e contemporanea manifestandosi
nellarte, nella poesia, nella filosofia, nel costume. Lanormale, lo spaesato, lestraneo,
82
83

E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, cit., p.474
Id., p.486

45

il mostruoso, il gratuito senza senso attuale, il convenzionale e il meccanico stanno


come argomento centrale della cultura in tutte le sue manifestazioni.84
Il tema dellapocalisse non pervade solo larte ma caratteristico anche della filosofia,
del teatro, della poesia, della narrativa, della sociologia e, con la teorizzazione freudiana
dellistinto di morte e della supremazia dellinconscio, anche della psicologia.
La medesima tematica rinvenibile persino nella fisica dove la legge dellentropia, la
crisi del principio di causalit, il principio di indeterminazione e la relativit di Einstein
ci riportano ad un mondo caotico, irrazionale, indistinto e confuso: tutto viene
interpretato e letto nel quadro di una imminente apocalisse.
Ma la tematica apocalittica domina, e si fa palese, soprattutto nella documentazione
letteraria. De Martino segnala una grande variet di opere incentrate sul problematico
rapporto tra lio e il mondo, tra lio e gli altri, tra soggetto e oggetto; tutti questi
documenti letterari risultano essere variamente pervasi, se non ossessionati, dal pensiero
della fine.
Dalla nausea di Sartre, allassurdo di Camus e di Beckett, da Kafka alla malattia
degli oggetti e alla noia di Moravia: quello che si evince la preoccupante diffusione
di un malessere esistenziale profondo e generale, di un sintomo di crisi che ha
contagiato la intera civilt occidentale.
La crisi della presenza che si sviluppa in questo periodo manifesta dei caratteri
totalmente inediti; le opere letterarie vengono valutate da de Martino ora come sintomi
di una malattia, ora come conati di reintegrazione, ora come documenti clinici85 e
lanalisi porta alla diagnosi di un morbo culturale diffuso quanto pericoloso.
soprattutto nellopera di Sartre86 che emerge il sentimento di spaesamento e di crisi
della patria culturale che caratterizza lodierna civilt occidentale e che porta
inevitabilmente al minaccioso restringersi di qualsiasi orizzonte di un futuro operabile
comunitariamente secondo umana libert e dignit.87

84

Id., pp.474-5
Id.,p.466
86
Jean-Paul Sartre (1905-1980) scrittore e filosofo francese, lopera cui facciamo riferimento La Nause, pubblicata
nel 1938
87
Id.,p.479
85

46

Scrive de Martino commentando Sartre: La nausea il rischio della nuda esistenza,


spogliata della presentificazione valorizzante umana, di tutte le memorie operative della
cultura, di tutti i nomi evocanti queste memorie, di tutti gli abiti che rendono familiare il
mondo: quindi il rischio del nulla, della fine del mondo, dellannientarsi di qualsiasi
margine rispetto al mondo.88

2.16 Lapocalisse senza escaton


Nella societ del capitalismo maturo, nellet della tecnica totalmente dispiegata, si
avverte tangibilmente lidoleggiamento del contingente, del privo di senso, del mero
possibile, del relativo, dellirrelato, dellirriflesso, dellimmediatamente vissuto,
dellincomunicabile, del solipsistico.89
La disposizione annientatrice insita nella societ borghese trova il suo infausto
coronamento nel terrore atomico della fine, cio nella prospettata possibilit che
lumanit si autodistrugga90. Il rischio concreto e catastrofico di una guerra nucleare
costituisce allo stesso tempo la realt e il simbolo di una societ che pu totalmente e
irreversibilmente perdersi.
A differenza di tutte le altre apocalissi culturali, lapocalisse dellOccidente non realizza
in s stessa il suo proprio superamento, non orientata nella direzione del futuro e del
valore, ma svolge piuttosto unoperazione di carattere distruttivo, di annientamento.
Lapocalisse che caratterizza questo tempo cio una apocalisse culturale anomala, una
apocalisse che presenta la sola faccia del disastro. La crisi della presenza (cio la
fine del mondo) non si verifica pi in momenti critici o in circostanze eccezionali ma
sembra aver assunto, oggi, un carattere permanente. Non si tratta pi di un episodio
ciclico od occasionale, ma di un evento che pervade la quotidianit, che impregna
lordinario, di una situazione che si fa routine, drammatica abitudine.
Nellapocalittica del presente non c discernibilit tra polo della crisi e polo del
riscatto: la crisi gi ripetizione e la ripetizione non si discosta realmente dalla crisi91,
88

Id.,p.529
Id.,pp.471-2
90
Id.,p.468
91
Paolo Virno, Promemoria su Ernesto de Martino, in Studi culturali,cit.
89

47

per cos dire, laltalena della presenza non si stabilizza. La presenza diventa anzi quello
stesso moto oscillatorio e non perviene ad una risoluzione stabile, non trova lequilibrio
per lazione (o per il discorso) culturale. Lapocalisse non attinge cio al suo termine:
quello di ricostituire pienamente la presenza (e, con essa, il mondo).
Lapocalisse dellOccidente pervasiva, ubiqua e perenne, ma non si chiude. Incapace
di far finire la fine in nuovo inizio si rivela priva di una interna energia di riscatto, si
rivela cio priva di escaton ,e pertanto, inconclusiva.
La mancata prospettiva di una reintegrazione culturale e il finire vissuto come catastrofe
in atto rendono lapocalisse dellOccidente pericolosamente analoga a quella
psicopatologica. Proprio per tale allarmante contiguit lapocalisse senza escaton si
presta, in modo elettivo, ad innestare un prolifico confronto tra apocalissi culturali e
apocalissi psicopatologiche, altres rivelando il valore euristico di questultime.

2.17

Apocalissi

psicopatologiche

apocalissi

culturali:

confrontare

per

differenziare
Nellottica di de Martino, le strategie culturali di resistenza possono essere
adeguatamente comprese e proficuamente recepite solo alla luce del confronto con le
crisi prive di riscatto appartenenti allambito della psicopatologia. Il ricorso al
documento psicopatologico si rivela dunque uno strumento di fondamentale importanza
per illustrare la genesi e il funzionamento dei dispositivi reintegrativi culturali, magici e
religiosi.
La psicopatologia accede alluniverso della crisi in atto, le cui molteplici manifestazioni
forniscono la materia su cui si modellano le tecniche religiose di destorificazione e di
reintegrazione92. Presentando il rischio -della crisi della presenza e della fine del
mondo- nella sua forma pi estrema ed esasperata, il dato psicopatologico risalta per
forza di contrasto e per opposizione polare quelle reintegrazioni culturali, quei simboli
variamente religiosi, che hanno combattuto questo rischio.93

92
93

E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, cit., p. XVI
Id.,p.15

48

De Martino qualifica i due tipi di forme apocalittiche proprio mettendole luna di fronte
allaltra, intendendole per contrasto, identificandole mediante (e nella) loro differenza.
Analizzando le analogie che intercorrono tra i due tipi di apocalisse mira a farne
risaltare le fondamentali differenze di sostanza, i differenti esiti, il dinamismo di
direzione opposta che le caratterizza: Chi sale e chi scende una rampa di scale si
incontrano necessariamente su un certo gradino: ma quel loro incontrarsi non significa
che, nel momento in cui poggiano il piede sullo stesso gradino, le istantanee relative
della loro identica posizione hanno lo stesso significato dinamico, poich luno sale 94 e
laltro scende.95
Il confronto non si riduce dunque alla mera registrazione dei punti di convergenza (che
pure sussistono) ma tende piuttosto a far emergere, con nitore, le divergenze e i criteri
discriminanti che consentono di distinguere le due formazioni apocalittiche.
Usando il linguaggio di de Martino potremmo dire che, con luso sapiente del
documento psicopatologico, si utilizza il morboso per rischiarare il processo del farsi
sano, o che si comprende il sano nel suo farsi sano oltre il rischio dellammalarsi.
Tuttavia lo studioso ci tiene a specificare che non si tratta di spiegare il sano con il
malato, piuttosto di mostrare come le apocalissi culturali costituiscano -o possano
costituire- il rimedio terapeutico, la medicina omeopatica contro il rischio della nuda
crisi psicopatologica.

2.18 La fine del mondo come esperienza psicopatologica


Il vissuto della fine del mondo che appartiene alla fisiologia di una vita culturale
riprende e reintegra il rischio della fine secondo valori intersoggettivi e comunicabili.
Ma quando gli orizzonti culturali vengono a mancare e il rischio resta un vissuto privato
e incomunicabile ci troviamo nella sfera della psicopatologia individuale, della fine del
mondo come patologia di una data biografia, di un determinato individuo.
Lanalisi concernente i vissuti di fine del mondo in ambito psicopatologico ha il valore
metodologico di mettere in evidenza quel rischio antropologico permanente -il rischio
94

Mentre nelle apocalissi culturali il rischio sta come momento di una dinamica di ripresa e di reintegrazione,
e quindi si sale il gradino perch opera il riscatto, nella malattia psichica il rischio resta nudo, senza ripresa e
reintegrazione efficaci, e dunque si scende.
95
Id.,p.63

49

di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile- nella sua forma pi acerba,
priva di una qualsivoglia elaborazione culturale e storica, e dunque priva di
reintegrazione e di ripresa.
Nel delirio di fine del mondo il malato esperisce come prossima a s una catastrofe
apocalittica dalle dimensioni cosmiche: lorizzonte mondano si destruttura, la catastrofe
coinvolge tutti gli ambiti percettivi, irreversibilmente crolla quello sfondo di ovviet e
di domesticit delle cose che permette la progettazione comunitaria dellutilizzabile.
Quello che de Martino vuole qui presentare la fine del mondo non pi come figura
culturale, ma come bruciante, tragica, esperienza vissuta. La fine come esperienza
psicopatologica, lapocalisse come tema delirante, rappresenta infatti una sorta di
grado zero dellesistenza, costituisce la nitida immagine della nuda crisi, del rischio
della presenza nella sua forma pi cruda ed essenziale.
Nel vissuto della fine ci che finisce , innanzitutto, il significante, loperabile
secondo valori, la progettazione comunitaria intersoggettiva e comunicabile, la potenza
dellandar sempre oltre rispetto alla situazione emergendo come esistenza operante e
progettante, aperta alla valorizzazione, alla intersoggettivit e alla comunicazione.
Questo finire [] si dispiega come crollo della stessa energia del definire su tutto il
fronte della possibile valorizzazione.96

2.19 La crisi della presenza nella psicopatologia: derealizzazione e


depersonalizzazione
Ci che crolla con la fine del mondo lo stesso esserci; il finire dellordine mondano
significa infatti il venir meno della presenza come agire e la caduta della capacit umana
di trascendere. Vivere la fine del mondo coincide col vivere la catastrofe della propria
presenza, la fine del proprio s, del dispiegarsi della propria attivit in un mondo
sociale, culturale e storico.
Se non si agisce si agiti, se la presenza in crisi si esperisce lalienazione: lessereagito-da (il Gemachtsein) e la radicale estraneit di ci da cui si agiti sono i due
momenti che caratterizzano il vissuto di alienazione. Quando una presenza alienata il
96

Id.,p.86

50

s si estranea da s, si perde il sentimento dellio, si verifica uno spossessamento del


pensare, del volere, del sentire97, un diventar tuttaltro delle funzioni psichiche, non
soltanto il divenire mondano perde la sua fluidit, progettabilit e operabilit, ma lo
stesso divenire psichico vissuto in atto di incepparsi.98
Nellampio quadro del vissuto di alienazione rientrano molteplici psicopatologie,
che riflettono tutte la crisi della presenza alla sua sola polarit negativa : dalla
derealizzazione e dalla depersonalizzazione alle psicosi maniaco-depressive, dalle fobie
alle schizofrenie.
Se nel delirio di fine del mondo la incombente minaccia apocalittica grava su tutti gli
oggetti ed enti intramondani, e quindi riguarda il mondo esterno, nella derealizzazione e
nella depersonalizzazione ad essere annientato il proprio corpo, la propria persona;
abdica la stessa presenza e la sua energia presentificante.
Nella depersonalizzazione si perde il proprio ego, si esperisce un senso di estraneit nei
confronti dei propri processi mentali, dei propri atti, delle proprie azioni e percezioni:
lio diventa estraneo a se stesso, il soggetto disancorato da s. Anche il proprio corpo
viene avvertito come distaccato, come non proprio e non familiare; gli oggetti del
mondo esterno si rivelano parimenti estranei e irreali, come se fossero percepiti da
qualcun altro.
Nella derealizzazione il mondo esterno appare privato del carattere di realt e di
coloritura affettiva, anche gli ambienti pi familiari sono avvertiti come estranei,
lontani e irreali. Lio derealizzato non riconosce la propria identit, si sente fuori dalla
realt e non appartenente a ci che dice e a ci che fa.
Nella derealizzazione e nella depersonalizzazione a crollare non il mondo, ma
lesserci nel mondo, il mondo in quanto mio. Quando viene a mancare il rapporto
simpatetico fondamentale tra uomo e mondo, -rapporto che precede ogni conoscere ed
ogni volere e che costituisce la base di tutti gli atti cognitivi ed operativi-, la presenza
non pu dispiegare la propria attivit, non pu esserci.

97
98

Id.,p.74
Ibidem

51

2.20 Catatonia e destorificazione irrelativa


Ogni momento del divenire nuovo, e quindi critico per la presenza. Langoscia del
divenire costituisce un vissuto psicopatologico che coinvolge tutti i momenti del
divenire stesso, indipendentemente dal loro contenuto. La difesa estrema da questa
angoscia costituita dal rifiuto di ogni rapporto con il mondo e dalla totale passivit
psicomotoria: ovvero dallo stato della catatonia.
Il rischio di non mantenersi come presenza nel divenire e di essere travolto dal flusso
storico delle situazioni, si esprime nella difesa estrema del catatonico, che tenta
disperatamente di ridurre il divenire alla permanenza dellessere (ad esempio praticando
la flessibilit cerea, limitazione speculare o la stereotipia)99.
Lo stato catatonico genera una paradossia: il sistematico rifiuto di ogni rapporto col
mondo lascia trasparire un rifiutare che ancora, inevitabilmente, immerso nel mondo.
Vale a dire, lo stesso rifiuto sistematico del divenire inserito nel divenire, e a suo
modo diviene.
Il rifiuto di qualsiasi rapporto con la realt e la negazione del divenire messa in atto dal
catatonico costituiscono un esempio di cattiva destorificazione, una forma di difesa
non compatibile con la civilt, ma attinente allambito della psicopatologia.
Nella destorificazione socializzata ed istituzionalizzata, dunque nella destorificazione
che costituisce a tutti gli effetti una valida e fisiologica forma di difesa culturale, ad
essere critici sono solo alcuni momenti del divenire, e non il divenire nella sua
totalit. Questa modalit di destorificazione permette di lasciare libere, cio
profanamente operabili, le altre parti di storia; la negazione del divenire non si rivela
cos una sua soppressione radicale, ma piuttosto un modo di rendere mediatamente
possibile il concedersi al divenire stesso, il dischiudersi, sia pure a patto, alla storia.100
La difesa estrema del catatonico invece non alcun carattere culturale, non sana in
quanto il rischio non socializzato ma esperito unicamente dal singolo individuo.
Inoltre langoscia per il divenire non circoscritta a determinati segmenti del tempo,
non superata con il ricorso alla memoria retrospettiva collettiva e ai dispositivi
99

La flessibilit cerea consiste nellassunzione di una determinata posizione del corpo che viene mantenuta anche per
lunghissimo tempo, si tratta di una sorta di negativismo fisico. La stereotipia pu essere cinetica o verbale e consiste
nella rigida ripetizione di un gesto o di parola, senza alcuno scopo o funzione apparente.
100
Id.,p.139

52

difensivi forniti dalla tradizione culturale: anzich aprire il cammino verso il futuro,
questo tipo di occultamento della storia segnala un regresso, una perdita senza
compenso.
La destorificazione operata dal catatonico presenta dunque tutti i caratteri della
patologia: non socialmente disciplinata, non sorretta da un orizzonte culturale, cio
non istituzionalizzata, ma piuttosto una insorgenza spontanea e totalmente
incontrollata del singolo individuo. La negazione del divenire perseguita dal catatonico
si rivela una destorificazione irrelativa, un conato che, rimanendo imprigionato
nellincomunicabilit di un singolo e internato nellindividualit di una psiche, non pu
trovare ri-soluzione.

2.21 Schizofrenia e mentalit primitiva


Proseguendo con il confronto tra apocalissi psicopatologiche e apocalissi culturali, de
Martino recupera da Alfred Storch101 una significativa comparazione tra le
caratteristiche appartenenti allo schizofrenico e quelle tipiche della mentalit primitiva.
La legge di partecipazione, per cui possibile essere una persona e
contemporaneamente unaltra, la non validit del principio di identit e di non
contraddizione e del principio di causalit sono tutte caratteristiche che abbiamo visto
essere presenti nella cosiddetta mentalit prelogica dei primitivi102, e che ritroviamo,
praticamente inalterate, nella mentalit dello schizofrenico.
Per il primitivo, come per lo schizofrenico, lidentit personale non incompatibile con
una dualit o una pluralit di persone; lio estremamente labile, la presenza incerta e
precaria, e i confini tra soggetto e mondo non sono definiti.
Lautonomia del primitivo, cos come quella dello schizofrenico, continuamente
minacciata dal mondo esterno, sempre rimessa in questione: tutti gli eventi diventano
profondamente significativi in quanto contribuiscono a sostenere lessere della persona
o a insidiarlo pericolosamente. Entrambe le tipologie di individui vivono una crisi di

101

Alfred Storch (1888-1962) psichiatra tedesco che, servendosi di unanalisi analitico-esistenziale, indag gli stadi
iniziali della schizofrenia.
102
Cos come stata teorizzata da Levy-Bruhl.

53

oggettivazione: non hanno cio la capacit di rappresentare, di gettare davanti a s


loggetto, ma ne sono piuttosto invasi, posseduti.
Il primitivo e il soggetto schizofrenico non vivono in un mondo sicuro: per dirla con
Laing103, la loro condizione esistenziale quella di una insicurezza ontologica primaria.
Se tutto costituisce una minaccia per la propria esistenza, lindividuo schizofrenico e
primitivo- deve continuamente escogitare dei modi per mantenersi vivo e presente, per
conservare la propria identit: deve cio lavorare continuamente per impedire a se stesso
di perdersi. Ma soltanto uno di loro riesce ad assicurarsi lintegrit della propria
presenza.
Il mondo magico del primitivo un mondo culturale, caratterizzato da uno sfondo di
attivit comune e di reciproca comprensione linguistica: qui il magico opera collettiva
innestata nel mondo dello stare insieme. Luomo primitivo dunque un essere sociale,
immerso in una civilt e partecipe di una determinata tradizione. Egli interagisce
attivamente coi membri della comunit, ha alle spalle una memoria collettiva che
sostiene ed orienta i suoi comportamenti: il primitivo sotto la protezione dello stare
insieme, del Miteinender.
La sfera del Miteinender, dellagire e dello stare insieme, invece la grande assente del
mondo schizofrenico. Lo schizofrenico gettato fuori dallessere-con, vive nella
chiusura dellisolamento e nellincomunicabilit. Il mondo c solo per lui, non per gli
altri, il mondo non segue dalla storica continuit col passato ma emerge da un mutato
trovarsi: la esistenza strappata dalla sua continuit storica, derubata dal suo stare
insieme, esposta senza protezione alle scosse delle situazioni limite.104

103

Ronald D. Laing (1927-1989). Il concetto sopracitato di insicurezza ontologica primaria trattato nel terzo
capitolo dellopera Lio diviso. Studio di psichiatria esistenziale (1960)
104
Id.,p.44

54

III. LE MANIFESTAZIONI LINGUISTICHE DELLA


CRISI DELLA PRESENZA

Il linguaggio la casa dellessere


e nella sua dimora abita luomo.
Martin Heidegger

Luomo si differenzia dalle altre specie animali per la sua propriet di linguaggio.
Il discorso verbale parte integrante della nostra costituzione biologica: luomo un
animale parlante. Lesserci si caratterizza e si qualifica per la sua facolt di linguaggio,
per lenunciazione di atti di parola.
Una presenza tale quando agisce nel mondo (difatti in crisi quando agita-da),
e, come ci ricorda anche Wittgenstein, le parole sono azioni: il linguaggio
una attivit. Ogni enunciazione, ripercorrendo le tappe dellantropogenesi, fonda e
ricostituisce la presenza umana nel mondo.
Se lesserci si identifica col linguaggio, se il linguaggio la casa dellessere, ne
consegue che una presenza in crisi non pu non riportare conseguenze sul piano
linguistico -piano per definizione appartenente allontologia e alla biologia umana.
Se essere presenti coincide con lessere in grado di eseguire atti linguistici, ecco che la
crisi della presenza significa la paralisi di questa naturale attivit umana, lanomalia
della discorsivit linguistica: leccesso o il difetto di semanticit.

55

3.1 Afasia della contiguit


Un discorso si sviluppa secondo due differenti direttrici semantiche: un tema conduce
ad un altro sia per similarit sia per contiguit. Nellafasia luno o laltro di questi due
processi fortemente indebolito o completamente bloccato.
La deficienza nella strutturazione del contesto tipica di un disturbo che potremmo
definire come disturbo della contiguit. Questo tipo di afasia altera la facolt di costruire
proposizioni, cio di combinare unit linguistiche pi semplici in unit pi complesse,
determinando pertanto una riduzione della lunghezza e della variet delle frasi.
Non c una perdita totale delle parole, ma anzi la parola la sola entit linguistica a
rimanere integralmente intatta. Ad essere abolita piuttosto la gerarchia delle unit
linguistiche, i loro legami di coordinazione e di subordinazione, di accordo e di
reggenza. Le parole che dipendono grammaticalmente dal contesto sono le prime ad
essere dissolte: spariscono le congiunzioni, le proposizioni, i pronomi e gli articoli;
resiste invece il soggetto, la parola nucleo.
Caratteristica di questo disturbo della contiguit la soppressione della flessione: cos
appare linfinito in luogo delle diverse forme verbali finite, il nominativo al posto di
tutti gli altri casi. Analogamente vi sar una tendenza ad omettere le parole derivate
dalla stessa radice: grande, grandezza, grandioso saranno semanticamente congiunte
per contiguit.
Il malato conserva solo unimmagine integrale e indissolubile di ogni parola familiare,
tutte le altre sequenze foniche, o gli appaiono estranee ed oscure, oppure le ingloba in
parole familiari, ignorando le deviazioni fonetiche. La regressione del sistema
fonematico comporta uninflazione di omonimi e un impoverimento del vocabolario;
tale regressione graduale e ci presenta, al processo inverso, lordine delle acquisizione
fonematiche del bambino: come se il malato regredisse alle fasi iniziali dello sviluppo
linguistico infantile.
Nei casi pi avanzati lincapacit fonematica e lessicale si accentua ulteriormente, fino
ad arrivare a far coincidere la parola con un unico fonema. Quando lultimo livello ad
essere conservato quello distintivo del fonema, la separazione tra le due funzioni del
linguaggio (luna distintiva e laltra significativa) dissipata: la parola perde la sua

56

funzione e il suo valore significativo, il soggetto dimostra un deficit nella propria


capacit semantica, esibisce cio un difetto di semanticit.

3.2 Afasia della similarit


Mentre nel disturbo della contiguit la funzione contestualizzante gravemente
compromessa, e dunque il processo di formazione del contesto disintegrato, nel disturbo
della similarit, al contrario, il contesto costituisce il fattore indispensabile e decisivo,
mentre la deficienza riguarda le capacit e le operazioni di selezione e di sostituzione
(che invece persistevano nellopposto disturbo).
Per un afasico di questo tipo quanto pi il discorso inserito nel contesto, e quanto pi
le espressioni dipendono da esso, tanto pi avr successo nel suo compito verbale. Egli
non in grado di formulare una frase che non risponda alla replica di un interlocutore
o alleffettiva situazione del momento: il suo discorso un fatto essenzialmente reattivo;
lespressione piove non pu essere realizzata se il soggetto non vede che fuori piove
realmente.
Posto di fronte a frammenti di parole o di frasi li completa facilmente, ma risulta
particolarmente difficile, per il malato di questo disturbo, iniziare un dialogo, cos come
formulare o comprendere un discorso chiuso come il monologo. Le frasi sono concepite
come sequenze ellittiche che si completano da frasi precedentemente dette, oppure
immaginate, dallafasico stesso, o da lui ricevute da parte di un interlocutore reale o
immaginario.105
Le parole che comportano un preciso riferimento al contesto, come i pronomi e gli
avverbi pronominali, e quelle che dipendono dalle altre parole della frase, come le
congiunzioni e gli ausiliari, si mantengono saldamente e sono stabili, mentre lagente
principale, cio il soggetto, tende ad essere omesso.
Un afasico che soffre del disturbo della similarit, partendo da una parola non riesce a
passare ai suoi sinonimi n ai suoi eteronimi, o alle equivalenti circonlocuzioni: la sua
funzione sostitutiva gravemente danneggiata. Analogamente se qualcuno gli indica un
oggetto, egli non sar in grado di dire il nome delloggetto indicato: se un segno gi
105

Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, 2008, pp.29-30

57

stato usato da qualcuno, laltro segno (il suo sinonimo) gli appare infatti ridondante e
superfluo e pertanto lo eviter; invece di dire questa chiamata matita aggiunger
piuttosto unosservazione sul suo uso, come serve a scrivere.
Anche la semplice iterazione di una parola pronunciata dallesaminatore sembra al
malato del tutto inutile e ridondante, perci sar incapace di ripeterla. Lafasico ha perso
la capacit di commutare il codice, pertanto il suo modo di parlare diventa la sola
realt linguistica da lui riconosciuta e compresa, mentre il discorso dellaltro gli appare
formulato in una lingua sconosciuta.
In altre parole allafasico ci che manca il metalinguaggio, necessario per il
funzionamento ordinario del linguaggio, oltre che per il suo processo di acquisizione.
La carenza afasica della capacit di denominare costituisce proprio il riflesso della
perdita del metalinguaggio e dellincapacit di ricorrere ad esso.
In tali condizioni in cui alterata la funzione sostitutiva, mentre rimane intatta quella
contestuale, tutte le operazioni che implicano similarit cederanno a favore di quelle
basate sulla contiguit. Ogni raggruppamento semantico sar cio guidato dalla
contiguit spaziale o temporale piuttosto che dalla similarit. La capacit semantica del
soggetto risulta ridotta in tale direzione.

3.3 Linguaggio e crisi della presenza nella schizofrenia


Per poter avere un rapporto da essere umano con unaltra persona, per poter interagire
con un altro-da-me, necessario un solido senso della propria identit e della propria
autonomia. Se cos non , ogni rapporto con laltro costituisce una minaccia per
lesserci, e il rischio di perdere la propria presenza.
Lio dello schizofrenico, che abbiamo visto essere una formazione particolarmente
incerta e precaria, non riesce a sostenere un confronto (fisico o verbale) con altre
presenze senza esserne ontologicamente turbato. Per questo lo schizofrenico si isola,
vive immerso in un mondo tutto suo, un mondo diverso e incomunicabile.
Lo schizofrenico vive nel terrore costante di essere com-preso: essere capito, parlare lo
stesso linguaggio, significano per lui essere risucchiato, essere inghiottito, essere

58

fagocitato dallaltro, per lappunto essere com-preso: preso-con laltro, e quindi


perso. Lincertezza e la precariet che caratterizzano il suo esserci comportano
dunque delle rilevanti ripercussioni sul piano linguistico: la crisi della presenza esperita
dallo schizofrenico si riflette in dei deficit del linguaggio, in delle anomalie linguistiche,
e in delle alterazioni di semanticit.
Un soggetto schizofrenico comprende senza problemi il significato letterale di un
enunciato, ma ha difficolt a capire le intenzioni del soggetto parlante: quando, ai fini
della validit e dellefficacia della comunicazione, c da tenere conto della conoscenza
e delle intenzioni del parlante, il locutore schizofrenico puntualmente fallisce nella
comunicazione. I problemi emergono dunque sugli aspetti espressivi del linguaggio,
piuttosto che su quelli ricettivi.
La componente sintattica mantenuta intatta, le frasi costruite dallo schizofrenico sono
linearmente ben collegate tra di loro, ma manca una corretta connessione tra di esse,
manca cio il senso e la coerenza del discorso. Senso e coerenza sono infatti
componenti che la sola capacit grammaticale non in grado di apportare al discorso,
ma per le quali necessario un bagaglio di conoscenze extralinguistiche, una
conoscenza del contesto in cui si parla: una pragmatica.

3.4 Il deragliamento linguistico


Questa anomalia, per cui le frasi sono linearmente correlate ma malamente connesse al
nucleo centrale del discorso, viene conosciuta come il fenomeno del deragliamento.
Gli schizofrenici non sono in grado di fornire una descrizione e/o una narrazione
compatta e coerente, senza includere nel discorso parole inappropriate, inusuali e
devianti, senza perdersi in frasi inadeguate e superflue, malamente collegate tra di loro.
Il locutore schizofrenico si rende conto che lascoltatore ha bisogno di maggiori
informazioni per comprendere il proprio discorso, ma risulta ugualmente incapace di
comprendere quali informazioni vadano fornite. Nel deragliamento le idee e le parole
deviano in una direzione non apparentemente collegata con il concetto di partenza.

59

Il soggetto schizofrenico, sprovvisto delle norme sociali convenzionali, utilizza dei


rimandi che non sono socialmente riconosciuti, ma che appartengono al suo solo
mondo, e che quindi hanno senso solo per lui. Il significato infatti una nozione
collettiva e pubblica, che implica una fruibilit transindividuale e una comprensione
intersoggettiva. Adottando le parole di Wittgenstein, lo schizofrenico parla un
linguaggio privato che, proprio in virt di tale caratteristica, non pu considerarsi un
vero linguaggio (sociale e pubblico per definizione).
Nei casi pi gravi il discorso dello schizofrenico pu essere cos fortemente
disorganizzato e incoerente da risultare quasi incomprensibile: si parla in questo caso di
schizofasia, ovvero di una disgregazione radicale del linguaggio e di una estrema
dissociazione semantica in luogo della quale leloquio viene sostituito da una insalata
di parole prive di significato.
Secondo Frith106 il fenomeno del deragliamento riflette un deficit dellautocontrollo
delle intenzioni del parlante, un venir meno dellintenzionalit, e di conseguenza della
progettazione, del soggetto, della presenza. Sembra che lo schizofrenico, piuttosto che
agire il discorso ed esserne il centro, si lasci agire da esso. Lincapacit di comprendere
le altrui intenzioni, e quindi di assumere socialmente il ruolo dellaltro, la mancanza di
autocontrollo e la perdita di intenzionalit sono manifestazioni linguistiche che
riflettono la crisi della presenza di cui il soggetto schizofrenico vittima.

3.5 Le parole come cose


Unaltra anomalia linguistica appartenente alla sintomatologia schizofrenica la
tendenza a trattare le parole come cose. Nella schizofrenia vi un predominio del
materiale verbale su quello oggettuale; tale predominio, per cui lo schizofrenico attua
uno slittamento tra parole e cose, si manifesta in pi modi. Nella schizofrenia infatti le
parole sono trattate come cose in sensi diversi: nel senso che vengono prediletti i
significati concreti e letterali dei termini, nel senso che le parole si traducono
immediatamente in fatti, e nel senso che il piano del linguaggio scollegato dal mondo
e costituisce una realt a s stante.

106

Il testo cui facciamo riferimento Neuropsicologia cognitiva della schizofrenia (1995) di Christopher Frith.

60

Lapparente astrattezza del linguaggio schizofrenico, in realt, non che la conseguenza


del fatto che il soggetto schizofrenico intende le parole in maniera radicalmente
letterale, e dunque opera ad un livello estremamente concreto. Usando la locuzione le
forze dellespressione dei sentimenti di odio e di amore per designare gli artisti,
lo schizofrenico non si serve di un astrattismo, ma opera piuttosto una restrizione
dellalone semantico delle parole. Questa formulazione normalmente non designerebbe
soltanto gli artisti, (poich possiede infatti un alone semantico molto pi vasto), ma
luso che ne fa lo schizofrenico rende lespressione molto pi concreta e ristretta.
Il linguaggio dello schizofrenico sembra astratto ma in realt si svolge ad un livello
astrattivo inferiore: usando termini astratti come se fossero concreti, gli schizofrenici
operano un restringimento del campo semantico delle parole, presentano cio un difetto
di semanticit.

3.6 Devianza semantica e neologismi


Per questa tendenza a trattare le parole come cose, lo schizofrenico non riesce ad andare
oltre il significato letterale dei termini, non riesce cio a comprendere gli enunciati
metaforici. La metafora infatti una violazione di regole allinterno di un dato contesto,
intenzionalmente sgrammaticata.
Lo schizofrenico, incapace di comprendere le intenzioni e il contesto extralinguistico,
non coglie il significato delle metafore e le interpreta letteralmente: tende cio a
preferire i significati denotativi, che si riferiscono immediatamente al referente, rispetto
a quelli connotativi, pi lontani dal referente immediato.107
Si potrebbe dire che gli schizofrenici evitano un uso del linguaggio che si riferisca a
qualsiasi cosa che si collochi al di fuori del sistema del linguaggio stesso.108 Questo
uso autoreferenziale del linguaggio si concretizza in una variet di manifestazioni che
vanno dalla devianza semantica alla formazione di neologismi, dai giochi di parole alle
risposte per assonanze.

107

Gi Wittgenstein ha evidenziato come luso delle definizioni ostensive, ovvero dei termini meramente denotativi,
oltre a conservare una certa ambiguit nella denotazione, risulti vacuo dal punto di vista semantico.
108
J. Cutting, I disturbi del linguaggio nella schizofrenia, in M.R.Monti-G.Stanghellini, Psicopatologia della
schizofrenia, Milano, Raffaello Cortina, 1999, p.49

61

Una peculiarit linguistica della schizofrenia la frequente presenza di neologismi.


Lo schizofrenico, avvertendo linsufficienza del vocabolario a disposizione, conia
volontariamente nuovi termini, per riuscire ad esprimere una particolare situazione od
esperienza che resterebbe altrimenti inesprimibile: vengono formate intenzionalmente
parole nuove per indicare sensazioni o cose per le quali il linguaggio non ha parole.109
I neologismi sono di solito formati dallalterazione pi o meno marcata di parole gi
esistenti; lo schizofrenico per coniare nuovi termini attua cio una deviazione, o una
distorsione, semantica. Il problema e il limite di questi neologismi che sono
caratterizzati da una simbologia personale ed esclusiva: il termine adottato dallo
schizofrenico ha un carattere altamente privato, idiosincratico e spesso criptico, pertanto
risulta incomprensibile agli altri.
Il vocabolario comune racchiude il linguaggio di una presenza certa e salda, sicura di s;
ecco perch lo schizofrenico, vittima di una radicale crisi della presenza, avverte
linadeguatezza e la insufficienza di questo vocabolario. Esperendo la labilit e la
precariet della propria identit e presenza, lo schizofrenico vive il suo essere immerso
nel mondo in maniera diversa, la sua esperienza altra ed ha pertanto bisogno di un
altro linguaggio per poter essere espressa. dal linguaggio infatti che scaturisce la
nostra esperienza del mondo, la nostra esperienza di noi nel mondo. Non
secondariamente nel linguaggio, ma primariamente come linguaggio, appare nellopera
intellettuale una modificazione dellindividuo e della sua esperienza110.
Ogni tipo di linguaggio caratterizza lappartenenza ad una determinata forma di
vita111; ogni diverso linguaggio ha cio un diverso mondo, una diversa presenza sul
suo sfondo. Linguaggio e presenza sono dunque profondamente collegati: latto
linguistico germina da un individuo, scaturisce da un io, e attraverso di esso si manifesta
lessere ch dietro la persona.

109

K. Jaspers, Psicopatologia generale, 1913


K. Jaspers, Psicopatologia generale, 1913
111
In Wittgenstein la padronanza o meno di un gioco linguistico caratterizza lappartenenza o meno ad una
determinata forma di vita.
110

62

3.7 Dissociazione semantica


La devianza semantica indica lo spostamento del significato dal segno originale ad un
nuovo aggregato fonetico (il neologismo appunto), ma vi sono casi in cui la devianza
degenera in una vera e propria dissoluzione, o dissociazione, semantica. In queste
circostanze la dimensione semantica viene completamente a saltare e lattenzione del
parlante patologico rivolta esclusivamente allaspetto fonico delle parole.
La dimensione acustica diventa laspetto preponderante e in base al quale viene
espletata la discorsivit linguistica. Una ragazza schizofrenica afferma mia madre mi
fece una domanda cui risposi con una frase rimata che non aveva senso 112, o ancora
non mi sforzavo di inventarle [le parole]; venivano spontaneamente e non
significavano nulla per conto loro; erano il tono, il ritmo e la pronuncia che
possedevano un senso.113
Nella dissociazione semantica la relazione semantica delle parole attenuata fino ad
essere persa: il segno fluttuante e completamente autonomo in relazione al contesto
comunicativo. Questo uso, che potrebbe definirsi ludico, del linguaggio esclude
qualsiasi finalit comunicativa ed espressiva.
Gli schizofrenici possono giocare con le parole combinandole tra di loro senza alcun
interesse per il significato, ma basandosi esclusivamente su associazioni per assonanze.
In questi casi i locutori patologici conferiscono al suono della parola maggiore
importanza che al suo significato; il loro discorso procede cio sulle linee delle
associazioni esterne anzich interne della presentazione della parola.114
Un esempio classico riportato da Piro: a me non piace la televisione, piacerebbe la tele
ma non la visione, pi la sione che la vi, perch la vi mi ricorda la lettera V che nella
TV che significa televisione e a me non piace.115 La dissociazione semantica comporta
la totale perdita di intenzionalit comunicativa: al suono di una parola viene associato il
significato di unaltra parola scelta per mera assonanza con la prima; vi un

112

Tratto da P. Bertrando, Vivere la schizofrenia, Torino, Bollati Boringhieri, 1999


M.A.Sechehaye, Diario di una schizofrenica, Firenze, Giunti, 2000, p.93
114
Sigmund Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con linconscio, Roma, Newton Compton, 1976, p.127
115
Sergio Piro, Parole di follia. Storia di persone e linguaggi alla ricerca del senso e del significato nella schizofrenia,
Milano, Franco Angeli, 1992, p.44
113

63

appiattimento del significato sul significante e una conseguente dissoluzione del livello
semantico.

3.8 Linguaggio e presenza


La variet di anomalie linguistiche, che abbiamo visto essere caratteristiche dello stato
schizofrenico, non devono essere lette come unesclusiva sintomatologica della
specifica patologia; si tratta piuttosto di una serie manifestazioni che caratterizzano il
piano linguistico di ogni presenza che stia esperendo una radicale crisi. Le alterazioni di
semanticit presenti nello stato schizofrenico vanno cio considerate come il genere di
una specie, dove la specie quella della crisi della presenza.
Abbiamo visto come il neologismo serva a tradurre a parole dei vissuti ineffabili, delle
esperienze altrimenti indicibili: quelle esperienze di crisi e di fine del mondo esperite da
un soggetto sullorlo del baratro; vissuti che non possono essere compresi da una
presenza certa e garantita, e che non possono essere detti dal linguaggio normale,
appartenente a questa salda presenza.
Il neologismo dello psicotico dunque non un errore ma un bisogno di natura
ontologica116, il prodotto linguistico di una presenza in crisi, che avverte il mondo
mutato e che cerca di esprimere questo radicale mutamento di significato che la
riguarda. Le alterazioni di semanticit, il suo eccesso o il suo difetto, coincidono con
unalterazione sul piano ontologico.
Neologismo, paralogismo, giochi di parole e di assonanze significano limpegno in un
mondo diverso, in un mondo nuovo, poich il mondo comune, il mondo di tutti non
pi familiare, sta crollando. Il significato consueto non ha pi un significante e il
significante non trova pi un significato univoco: vi un allargamento della trama di
referenza117, un aumento (o una contrazione) dellalone semantico delle cose e degli
eventi.

116
117

A. Pennisi, Psicopatologia del linguaggio, Roma, Carocci, 1998


S.Piro

64

La dissociazione semantica, leccesso e il difetto di semanticit costituiscono dunque


reazioni -linguistiche cos come ontologiche- di fronte alla perdita di un mondo
familiare e domestico, di fronte ad un significato che si fa cosmico e catastrofico.

3.9 Wahnstimmung e intenzione di significato


Una presenza in crisi una presenza alienata, cio una presenza fuori-di-s e che riporta
necessariamente la sua alienazione nel rapportarsi al mondo. La crisi della presenza
investe del carattere alienante e

delirante tutta la realt percepita, tutte le

rappresentazioni e le esperienze vissute.


Il termine delirio legato allesser-fuori-di-s della presenza alienata; letimologia del
termine (de-lira) ci riporta a questo andare fuori: la lira infatti era lantico nome
dellaratro e il suffisso de esprime lallontanamento, il movimento trasbordante,
insomma la fuoriuscita dal solco dellaratro118.
In tedesco delirio dato dal termine Wahn119, derivante dallantico wahna, che
significa vagare. Lo psichiatra e filosofo tedesco Jaspers120, per descrivere lo stato
delirante della presenza in crisi, conia il termine Wahnstimmung, dove Stimmung pu
essere tradotto con atmosfera.
Lo stato delirante della presenza, cio il vissuto della Wahnstimmung, porta con s una
modificazione radicale della coscienza di significato: alle percezioni viene attribuito un
significato abnorme, profondo, sovraccarico e intenso, spesso interpretato nel senso
dellautoriferimento. La percezione effettiva del mondo la medesima, le impressioni
quantitative e qualitative sono registrate esattamente, tuttavia niente pi lo stesso, tutto
diventato non domestico, spaesato (unheimlich).
Il mutamento, che ha lesperiente per centro (res tua agitur), concerne il pi banale
accadere quotidiano; lambiente di tutti i giorni cambiato, ma non dal punto di vista
sensibile, (le percezioni sul piano sensoriale sono infatti rimaste immutate), si tratta

118

Dunque, letteralmente, delirio significa andar fuori dal solco.


Eloquente il fatto che tuttoggi, nel tedesco, si utilizzi questa parola sia per indicare il delirio che la follia.
120
Karl Jaspers (1883-1969), psichiatra e filosofo tedesco tra i maggiori esponenti dellesistenzialismo. Lopera cui
facciamo principalmente riferimento in questambito Allgemeine Psychopathologie (1913)
119

65

bens di una alterazione semantica, di una modificazione di significato delle cose che
d luogo ad unatmosfera incerta e oscura.
La Wahnstimmung consiste in una disposizione umorale di non-domesticit sinistra,
nella quale si muove in modo occulto e inesprimibile una minaccia decisiva, totale:121
lesperienza di un mutamento oscuro e radicale che interviene nel percepire e nel
percepito, e nella quale il soggetto si sente spaesato e perduto; ogni cosa acquista un
nuovo significato, indefinito quanto minaccioso e inquietante.
Le cose si mettono improvvisamente a significare qualcosaltro, c qualcosa ma non
si sa che-cosa. Oggetti ed eventi assumono un significato spropositato e
angosciosamente indeterminato, vacuo e opprimentemente indefinito: la disposizione
danimo delirante non ha ancora trovato un determinato contenuto da tematizzare, il
delirio non si ancora concretizzato in qualcosa di definito, delirio senza soggetto e
senza oggetto.
Gli oggetti che abitualmente occupano il nostro spazio quotidiano, permettendo che
questo risulti riconoscibile e confermante la nostra identit, non risultano pi utilizzabili
in base alla rete di rimandi significativi che normalmente aprono; hanno perso il loro
carattere strumentale ed operativo, la loro memoria di condotte possibili, la loro
funzione di essere appunto un rimando, un qualcosa per, e di conseguenza hanno
perso la loro utilizzabilit, la loro Zuhandenheit.122
Come suggerisce Bergson, la maniglia tuttuno con il significato dellaprire la porta;
una volta aperta la porta, essa cade nel buio, e, in questo senso, non significa pi, e
anche non c pi. Nella Wahnstimmung c lintenzione, tuttavia, essa non ancora
intenzione-di, non ancora intenzione di un soggetto, n intenzione di un oggetto; non
ancora intenzione piena n vuota ma pura apertura alla Erfllung, potenza indecisa
della Bedeutung, dunque vuoto, Leere, che per essere pronto ad ogni significato non ne
ha alcuno.123 Nella Wahnstimmung lintenzione di significato non si compie, non si
conclude, il mondo perde il suo carattere di utilizzabilit, si riduce a puro esistere
cosale, privo di connessioni funzionali, fluttuante, privo di significato compiuto.

121

E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, cit., p.49
Termine heideggeriano che, alla lettera, pu essere tradotto con essere-alla-mano riferito alle cose
123
F. Leoni, Senso e crisi. Appunti sulla Fine del mondo in Bruno Callieri ed Ernesto de Martino, p.90
122

66

Nellindividuo che presenta una Wahnstimmung siamo sempre di fronte ad una


coscienza di significato: potremmo dire che si tratta di una semplice intenzione di
significato senza compimento di significato, e che, quindi, per questo sembra
indeterminata, fluttuante vaga. [] proprio in questa diffusione abnorme, specificit e
genericit dellintenzione di significato che risiede la caratteristica strutturale pi
importante della Wahnstimmung. Ci determina una trasformazione, una sfocatezza ed
un capovolgimento del significato di tutto quel che ci circonda: lesperienza del mondo
si carica di rapporti potenziali multipli, contrastanti, equivoci. [] Nella
Wahnstimmung tutto il percepito e il percepiendo ha perduto il suo significato abituale e
non ha ricevuto nessun altro significato che possa, sia pure transitoriamente,
sostituirlo.124

3.10 Eccesso e difetto di semanticit


Questa mutamento dellesperienza di significato oscilla tra un troppo e un troppo
poco di semanticit. Il mondo nasce e si mantiene grazie allimpegno di una presenza
che gli conferisce un significato compiuto; il venir meno di questo conferimento porta al
crollo del mondo: il mondo si avvia verso il finire perch si avvia verso il finire la
presenza chiamata ad iniziarlo e a mantenerlo sempre di nuovo (il firmamento crolla
perch Atlante pi non lo regge125).
In questa crisi la presenza vive unangoscia senza contenuto: langoscia per il suo stesso
abdicare; questansia, immensa quanto vuota, si carica di intenzioni di significato rivolte
al mondo, intenzioni che vengono a poggiare su complementi di significato abnormi,
quanto privati e tragicamente personali:
Appunto perch caduta in crisi la stessa potenza alterificante []
in tutte le cose del mondo si muovono intenzioni oscure, e questo il segno che
oscurata lunica intenzione capace di illuminare il mondo, lintenzione umana, onde
nelle oscure intenzioni delle cose si riflette in realt la stessa possibilit di una decisione
umana che cerca se stessa, lalienazione radicale di questa possibilit126.

124

Id., pp.91-92
E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, cit., pp.58-59
126
Id.,p.152
125

67

Queste intenzioni di significato, prive dello sfondo di una salda presenza che le indirizzi
e che le sorregga, non trovano la loro direzione, cio il loro compimento, sfociando
pertanto nelleccesso o nel difetto di semanticit.
Il significato oscilla allora intorno al (suo) nulla: intorno al nulla del suo senso. []
Il significato, lesperienza del significato, il mobile equilibrio tra intenzione di
significato e compimento di significato. Nellintenzione di aprire la porta, per riprendere
lesempio bergsoniano, mi si rivela il mondo nella prospettiva dellaprire, e la maniglia
come centro prospettico di quel mondo. Ecco la presenza concomitante, rispondentecorrispondente, della mia mano che la afferra e della maniglia che afferrata. Ecco il
compimento del significato []. Esperienza il gioco ritmico del senso e del
significato: del venire alla luce di un significato entro lindeterminata (rispetto al
significato stesso) potenzialit del senso []. Anastrofe e catastrofe, dice anche,
genialmente, De Martino []. Anastrofe dellesperienza dal senso al significato, in
direzione cio della cultura nel senso demartiniano; e catastrofe dellesperienza come
naufragio

del

significato

nel

senso,

di

cui

reca

traccia

il

crollo,

il

Weltuntergangserlebnis, la nuda crisi, lesperienza pura.127


Ci che accade nel vissuto del mutamento, nellesperienza della metamorfosi del
significato dunque lacquisto, da parte del mondo, di un troppo o di un troppo
poco di semanticit.
Per un verso lintenzionalit che non ha trovato il suo compimento vaga liberamente, in
un vuoto oltre onniallusivo e minaccioso che travaglia ogni ambito percepito. In questo
eccesso di semanticit luniverso in tensione: gli ambiti percepiti partecipano a tutto il
reale e a tutto il possibile, senza sosta e senza mai offrire un appiglio operativo.
Ogni percepito accenna disordinatamente a tutti gli altri; in cerca di semanticit si
destruttura, annichilito nello stesso, e dallo stesso, penetrante alone semantico.
Gli ambiti percepiti vanno cio oltre in modo irrelato, caoticamente onniallusivi, carichi
di una tensione verso un vuoto che minacciosamente, e sterilmente, allude-a tutto. Ogni
cosa deborda dal suo ordine, gli oggetti fuoriescono dai loro limiti domestici, perdono la
loro operabilit consueta e la loro memoria di condotte possibili per farsi indici di un
oltre indeterminato e vacuo, indici-di, senza un termine di riferimento.
127

F. Leoni, Senso e crisi. Appunti sulla Fine del mondo in Bruno Callieri ed Ernesto de Martino, cit., pp. 89-90

68

Nella vana ricerca del suo oltre ogni percepito, suscettibile di diventare qualsiasi cosa,
si deforma mostruosamente, si disf, dilaniato da una cieca forza in cerca di significato
che lo spinge a trasformarsi perpetuamente in altro. Ogni percepito pura potenza senza
atto, e mai trova riposo in una percezione autentica e definita. Ogni percepito un oltre,
possibilit, ma senza realt, indeterminazione che non si determina, significante che
non si curva in un significato, quodditas che non si fa quidditas, insomma potenza senza
atto.
Leccesso di semanticit equivale dunque ad uno stato di potenzialit informe che, sul
piano del linguaggio, si esprime in una progressiva indeterminazione della parola; il
discorso, svincolato da riferimenti univoci, si carica di unallusivit plurima ed oscura.
In questo universo teso nella ricerca di un significato, in questo eccesso di semanticit
che dilaga, ma mai si risolve in significati determinati, la presenza cade vittima di un
incontrollabile vortice inflazionistico: anzich oggettivare il mondo, e quindi
conquistarlo, il mondo che irrompe minacciosamente in essa, che la attraversa e che
la invade. La presenza defluisce nel mondo, e il mondo la riassorbe nel suo caos, un
caos informe perch soltanto potenziale.
Il decorso opposto, il vissuto polare e antinomico rispetto a quello del troppo di
semanticit, quello del troppo poco di semanticit. Se nelleccesso di semanticit
lintenzionalit di significato una tracotanza che annulla ogni confine e vaga irrelata,
nel difetto lintenzionalit si sclerotizza, passiva e assente: gli ambiti percettivi sono
investiti da una tragica inerzia e, impartecipi di qualsiasi oltre che li collochi in un
ordine, si fanno finti, rigidi, teatrali, artificiali.
Il discorso ridotto ad una serie delimitata di segnali monocordi, il segno regredisce a
mero segnale, prevale la ripetizione coatta delle stesse formule e degli stessi gesti. Gli
oggetti perdono corposit, si chiudono in se stessi, diventano intoccabili, fuori dogni
intenzionalit e relazione possibile. Le cose si fanno inconsistenti, meccaniche e
insignificanti, cadono dal quadro dei possibili progetti operativi: si perde cio
lautentico oltre delle cose, il loro consueto orizzonte di operabilit e di progettabilit.
Tutti gli ambiti sono immobili, irrigiditi, senza significato e senza oltre, senza uno
sfondo che li renda esperibili. Ogni percepito un irrelativo, un fuori posto isolato; il

69

mondo lontano, perduto in unalterit radicale e irraggiungibile, e la presenza


separata da esso, distaccata, senza alcuna possibilit di comunicazione significante.
Luniverso, che nel troppo di semanticit era in tensione, nel troppo poco di
semanticit si fa sclerotico, rigido, cristallizzato, un universo di gomma, un universo gi
morto. La presenza si contrae, sprofonda in una sorta di eterno presente, il mondo
rinsecchisce e si semplifica, non c oltre possibile: ci sono atti, ma non c potenza.

3.11 Troppo e troppo poco


Eccesso o difetto di semanticit, potenza senza atti, atti senza potenza: ecco i due
speculari modi in cui si concretizza il demartiniano rischio della fine del mondo, in cui
si d a vedere la regressione del processo antropogenetico.
Troppo o troppo poco di semanticit: o il mondo si allontana lasciando una intimit
vuota, privatissima, incomunicabile, raggelata, sprofondata in una solitudine miserabile,
oppure irrompe non lasciando margine per le pi piccole possibilit di ripresa, di
appropriazione, di scelta valorizzante.128
In entrambi i casi quello che si esperisce il vissuto di unalterit radicale: il mondo
mutato o, meglio, il mondo sta mutando. Entrambe le polarit, di tensione e di
immobilit, di forza onniallusiva e di rigidezza, portano il segno dellalienazione e
dellessere-agito-da. Ambedue i vissuti manifestano il diventar altro di ci che sta alla
radice dellio e del mondo, lannientarsi della energia valorizzante della presenza, il
non poter emergere come presenza al mondo e lesperire la catastrofica
demondanizzazione del mondo, il suo finire. 129
Nelleccesso e nel difetto di semanticit la mondanit diventa radicalmente altra, e
tale mutamento esperito come unalterazione che ha un senso personalissimo: qui
come non mai, tua res agitur: alcunch di radicale investe le radici stesse della
persona, riguarda questa persona, allude perentoriamente ad essa.130

128

E. de Martino, La fine del mondo. Contributo allanalisi delle apocalissi culturali, cit., pp. 89-90
Id.,p. 631
130
Id.,p. 59
129

70

Alla ricerca di un significato la semanticit erra, carica di tutto e di nulla, e schiaccia


per questa sua estrema sovrabbondanza fatta di estrema miseria.131 Nel mondo che
diventa tuttaltro, nellimpossibilit di conferire un senso ed un significato, la presenza
vive il suo non poter oltrepassare il limite nel valore, vive il suo morire.132
Il catastrofico flettersi dellenergia relazionale e semantica fa s che il morire di cui si
patisce non indicabile, ma si tratta di un morire che ha investito la stessa potenza
chiamata a superare e ad oltrepassare i diversi morire storici, quella potenza che
permette alla presenza di trapassare la situazione nel valore, e quindi di essere presenza;
nonch la medesima potenza in luogo della quale il mondo assume un significato, cio
effettivamente mondo.

131
132

Id.,p. 631
Ibidem

71

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