You are on page 1of 1

c 

dir. g 

2009 FRA 150min.


 l͛ultimo film di Jacques Audiard, Gran Premio della Giuria a Cannes 2009, non devia dal
canovaccio classico del film dietro-le-sbarre. Come al solito, ancora più del solito, il regista francese prende
un plot di originalità non eccessiva e lo domina con stile sicuro ed asciutto, puntando più sull͛intensità
recitativa dei suoi personaggi che sulla sorpresa narrativa. Come con il Mathieu Kassovitz di  
 

 

 ed il Vincent Cassell di 


 
, anche nella prigione francese Audiard mostra la
sua capacità di creare personaggi con modalità divina, cioè di plasmarli nella creta cinematografica per poi
indietreggiare, rinunciando ad un controllo ossessivo da regista-burattinaio, piuttosto sedendosi a
contemplare le sue intuizioni prender forma, con orgoglio ed apprensione. E cosi accade che i personaggi
sembrino agire con naturalezza ed imprevedibilità, sfuggendo facili categorizzazioni etiche e morali,
͚naturalmente͛ rompicapi per lo spettatore, che fino a film avanzato tentenna tra simpatia e riprovazione,
compassione e disprezzo. Ci troviamo ad essere noi stessi, gli spettatori, ingabbiati nella prigione di
Audiard, ad osservare Malik, Arabo assoldato dai Corsi, con tanto d͛omicidio commissionato a mò di rito
d͛iniziazione, farsi strada a fatica nelle routine e nelle eccezioni della vita in cattività, unico a scivolare
trasversalmente tra le rigide divisioni etniche del carcere. La prigione per lui non è istituzionalizzazione,
lento irrigidimento entro modalità di pensiero ͚ingabbiate͛, quella ͚sindrome da cattività͛ temuta ed alla
fine sconfitta da Morgan Freeman in un classico del genere,      
 La prigione per Malik, al
contrario, è socializzazione, lento ingresso nei modi e costumi di una comunità tutto sommato speculare a
quella dei cosidetti ͚liberi͛, similmente attraversata da sofferenze e soddisfazioni, crudeltà e rispetto,
similmente effimera, corrotta e ciecamente divisa.

Insomma un sofisticato, ma ennesimo, prison-movie? Si, e no. La particolarità del tocco di Audiard in
effetti, più che nell͛immergersi in uno stile particolare, sta nella trasversalità di un film sospeso a mezz͛aria
tra le prigione holliwoodiane e la diversità
! . La potenza del film sta nella capacità di prendere un
genere consumato e ri-proporlo con inusitata modernità, giostrando diversi registri attraverso un realismo
a tratti crudo e sconvolgente, una fede assoluta nella macchina da presa, una recitazione sempre adeguata.
Qua e là, come pennellate impressioniste, Audiard interpunta il flusso narrativo con intuizioni oniriche,
telecamere in soggettiva con una sorta d͛effetto-palpebra ad offuscare la visione, il corpo dell͛assassinato,
infiammato, che vive e parla con Malik a mò di demone custode, e ancora surreali, nonchè profetiche
visioni di cervi in corsa per la strada. Come per le soggettive sonore di 
  
 dove si giocava a
confondere il volume del film e dell͛apparecchio acustico della protagonista, si tratta anche qui d͛incursioni
improvvise nella psiche di personaggi e spettatori, momenti non di comprensione ma d͛impressione, che
incrinano e ricalibrano sottilmente la prospettiva, aprendo verso 
  distanti dallo squallore molesto
della prigione, quanto basta per suggerire un͛altro piano, narrativo ed emotivo. Questa capacità di
accennare apparentemente senza sforzo all͛ 
, supportata da un͛ironia sottile e tagliente, è la chiave
del talento di Audiard. La sua prigione è decisamente un posto dove val la pena passar due ore e mezza di
pura soddisfazione cinefila.

You might also like