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La notte del 25 novembre 1120 la partì per l'Inghilterra e naufragò al largo
di Barfleur causando la morte di tutti coloro che erano a bordo, tranne uno. Il vascello
rappresentava l'ultima novità in fatto di trasporti marittimi, ed era dotato di tutte le at-
trezzature conosciute alla cantieristica del tempo. La notorietà del naufragio è dovuta
al numero elevatissimo di personaggi illustri imbarcati sulla nave: oltre al figlio ed
erede del re c'erano due bastardi reali, numerosi conti, nobili, e gran parte del seguito
del sovrano; la conseguenza storica fu che Enrico rimase privo di erede, e il risultato
conclusivo fu la successione contestata e il periodo di anarchia che seguì la morte di
Enrico.
A.L Poole 

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
I bambini vennero presto per assistere all'impiccagione.
Era ancora buio quando i primi tre o quattro uscirono furtivamente dai casolari,
silenziosi come gatti nei loro stivali di feltro.

Uno strato di neve fresca copriva il paese come una nuova mano di colore e le loro
orme furono le prime a intaccarne la superficie immacolata. Passarono tra le casupole
di legno camminando sul fango ghiacciato delle viuzze e raggiunsero la piazza del
mercato dove attendeva la forca.
I bambini disprezzavano tutto ciò che gli adulti tenevano in considerazione.
Spregiavano la bellezza e schernivano la bontà. Ridevano fragorosamente alla vista di
uno storpio e se vedevano un animale sofferente lo uccidevano a sassate. Si vantavano
delle loro ferite e ostentavano le cicatrici con orgoglio, e riservavano il massimo
rispetto alle mutilazioni: un ragazzetto privo di un dito poteva essere il loro re.
Amavano la violenza; erano capaci di percorrere miglia e miglia per vedere il sangue, e
non mancavano mai a un'impiccagione.
Uno di loro pisciò alla base del patibolo. Un altro salì i gradini, si portò i pollici alla
gola e finse di accasciarsi torcendo la faccia nella macabra parodia del soffocamento;
gli altri gettarono grida di ammirazione e due cani giunsero abbaiando sulla piazza. Un
bambino piuttosto piccolo cominciò sfacciatamente a mangiare una mela, e uno dei più
grandi gli diede un pugno sul naso e gli portò via il frutto. Per sfogare la rabbia, il più
piccolo tirò un sasso a un cane che fuggì guaendo. Non c'era nient'altro da fare e
perciò tutti si accovacciarono sul pavimento asciutto del portico della grande chiesa
aspettando che succedesse qualcosa.
Le luci delle candele palpitavano dietro le imposte delle solide case di legno e pietra
intorno alla piazza, dove abitavano artigiani e bottegai benestanti: le sguattere e gli
apprendisti accendevano il fuoco, scaldavano l'acqua e preparavano il porridge. Il cielo
trascolorava dal nero al grigio. La gente usciva dalle case avvolta in pesanti mantelli di
lana ruvida e scendeva rabbrividendo al fiume per attingere l'acqua.
Poco dopo un gruppo di giovani, inservienti, operai e apprendisti, comparve
baldanzosamente sulla piazza. Scacciarono i bambini dal portico della chiesa a sberle e
calci, si appoggiarono alle arcate e cominciarono a grattarsi, a sputare per terra e a
parlare con studiata sicurezza della morte per impiccagione. Se è fortunato, disse uno,
gli si spezza il collo appena cade, e allora è una morte rapida e indolore; se no, resta
appeso e diventa rosso e apre e chiude la bocca come un pesce fuori dall'acqua fino a
che crepa soffocato. E un altro disse che per morire in quel modo poteva occorrere lo
stesso tempo che un uomo impiegava a percorrere un miglio; e un terzo disse che
poteva andare anche peggio, perché una volta ne aveva visto uno che quand'era morto
aveva il collo lungo un piede.
Le vecchie formavano un gruppo a sé dalla parte opposta della piazza, lontano il più
possibile dai giovani che erano capacissimi di lanciare lazzi volgari alle loro nonne. Si
svegliavano sempre presto anche se non avevano più bambini di cui occuparsi ed erano
le prime a spazzare i camini e ad accendere il fuoco. La più rispettata di tutte, la
muscolosa vedova Brewster, le raggiunse facendo rotolare un barile di birra con la
stessa facilità con cui un bambino fa rotolare un cerchio. Prima ancora che potesse
togliere il coperchio, aveva già intorno una piccola folla di clienti che aspettavano con
secchi e brocche.
L'aiuto sceriffo aprì la porta principale e fece entrare i contadini che abitavano nei
sobborghi, nei casolari addossati alle mura del paese. Alcuni portavano uova e latte e
burro fresco da vendere, altri venivano per comprare birra e pane, e altri ancora si
fermavano in mezzo alla piazza per assistere all'impiccagione.
Ogni tanto tutti giravano la testa come passeri incuriositi, e guardavano il castello in
cima alla collina. Si vedeva il fumo che saliva dalla cucina e, ogni tanto, il bagliore di
una torcia dietro le feritoie. Poi, verso l'ora in cui il sole cominciava a sorgere dietro le
dense nubi grigie, i grandi battenti di legno si aprirono e uscì una processione. Per
primo veniva lo sceriffo in groppa a uno splendido cavallo nero, seguito da un carro
trainato da un bue che trasportava il prigioniero legato. Dietro il carro cavalcavano tre
uomini e, sebbene a quella distanza non si scorgessero bene i loro volti, gli abiti
indicavano che erano un cavaliere, un prete e un frate. Due armigeri chiudevano il
corteo.
Il giorno prima erano stati tutti presenti al giudizio, svoltosi nella navata della chiesa. Il
prete aveva sorpreso il ladro in flagrante; il frate aveva riconosciuto il calice d'argento
che apparteneva al suo monastero; il cavaliere era il signore del ladro e l'aveva
identificato come un fuggiasco e lo sceriffo l'aveva condannato a morte.
Mentre il corteo scendeva dalla collina, gli abitanti del paese si raccolsero intorno alla
forca. Tra gli ultimi ad arrivare c'erano i cittadini più eminenti: il macellaio, il fornaio,
due conciapelli, due fabbri, il coltellinaio e il fabbricante di frecce, tutti in compagnia
delle mogli.
Lo stato d'animo della folla era strano. Di solito ci si divertiva a un'impiccagione. Il
condannato era quasi sempre un ladro, e tutti odiavano i ladri con l'accanimento di
coloro che hanno guadagnato con grande fatica ciò che possiedono. Ma questo era un
caso diverso. Nessuno sapeva chi fosse il ladro o da dove venisse. Non li aveva
derubati, aveva commesso un furto in un monastero lontano venti miglia. E aveva
rubato un calice ingemmato, un oggetto dal valore così ingente che sarebbe stato
impossibile venderlo... e non era come rubare un prosciutto o un coltello nuovo o una
bella cintura, la cui perdita danneggiava qualcuno. Non si poteva odiare un uomo per
un reato così futile. Si sentirono alcuni fischi e rimproveri quando il detenuto entrò
nella piazza del mercato, ma erano insulti svogliati e solo i bambini lo schernivano con
vero entusiasmo.
In maggioranza, gli abitanti del paese non avevano assistito al giudizio, perché i giorni
dei processi non erano festivi, e tutti dovevano guadagnarsi da vivere; e quella era la
prima volta che vedevano il ladro. Era giovane, tra i venti e i trent'anni, di statura e
taglia normale, ma a parte questo aveva un aspetto strano. La pelle era bianca come la
neve sui tetti, aveva gli occhi sporgenti di un verde sorprendente, e i capelli del colore
di una carota pelata. Le ragazze pensavano che era molto brutto; le vecchie provavano
pietà per lui; e i bambini ridevano fino a rotolarsi per terra.
Lo sceriffo era un personaggio conosciuto, ma gli altri tre che avevano segnato il
destino del ladro erano estranei. Il cavaliere, un uomo corpulento dai capelli gialli, era
senza dubbio importante, perché montava un cavallo da guerra, un bestione enorme
che costava quanto poteva guadagnare in dieci anni un carpentiere. Il frate era molto
più vecchio, aveva cinquant'anni o più, era alto e magro e stava curvo in sella come se
la vita fosse per lui un peso opprimente. Il più notevole era il prete, un giovane dal
naso aguzzo e i capelli neri e lisci, che vestiva di nero e cavalcava uno stallone baio.
Aveva un'espressione vigile e pericolosa, come un gatto nero che sente l'odore di un
nido di topolini.
Un bambino prese la mira con cura e sputò contro il prigioniero, centrandolo fra gli
occhi. Il condannato ringhiò un'imprecazione e cercò di avventarsi, ma fu bloccato
dalle corde che lo legavano alle sponde del carro. L'episodio non aveva nessuna
importanza, se non per il fatto che aveva parlato nel francese dei normanni, la lingua
dei nobili. Era di famiglia aristocratica, quindi? Oppure era semplicemente molto
lontano dalla patria? Nessuno lo sapeva.
Il carro si fermò sotto la forca. L'aiuto sceriffo salì sul pianale con il cappio in mano. Il
condannato cominciò a dibattersi. I ragazzi proruppero in applausi e acclamazioni;
sarebbero rimasti delusi se avesse conservato la calma. I movimenti erano limitati dalle
corde che gli stringevano i polsi e le caviglie, ma girava la testa a scatti per sfuggire al
cappio. Dopo un momento l'aiuto sceriffo, che era un colosso, si scostò e gli tirò un
pugno allo stomaco. Il condannato si piegò in due, senza fiato, e l'aiuto sceriffo gli
passò la corda sopra la testa e strinse il nodo scorsoio. Poi balzò a terra e tese la corda,
ne fissò l'altro capo a un gancio alla base della forca.
Era il momento decisivo. Se il condannato si fosse dibattuto ancora, sarebbe morto
anche prima.
Gli armigeri gli slegarono le gambe e lo lasciarono solo sul carro, con le mani legate
dietro la schiena. Sulla folla scese il silenzio.
A questo punto c'era quasi sempre un po' di trambusto. La madre del condannato si
metteva a urlare, oppure la moglie estraeva un coltello e accorreva per tentare di

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