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Storie di Vampiri
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Storie di Vampiri

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Da Polidori a Stoker, da Maupassant a Conan Doyle, oltre settanta autori ci accompagnano alla scoperta di una tra le figure più celebri della letteratura dell'orrore

Edizioni integrali

Sono raccolti in questo volume oltre settanta tra romanzi brevi e racconti di vampiri: storie di sangue, amore e morte in cui il Principe delle Tenebre, che continua a sedurre con il suo incredibile fascino milioni di lettori, è il protagonista assoluto. L'antologia contiene la letteratura nota e meno nota sull'argomento, riscoprendo autori che già prima del celebre Dracula di Stoker avevano creato storie di vampiri e proponendo i racconti di molti altri che, sulla scia dell'autore del famoso «pallido Conte» e di un ricchissimo repertorio cinematografico che ne ha immortalato la figura, hanno appassionato i lettori fino ai nostri giorni. Completano questa raccolta filmografia, bibliografia, schede sugli autori e anche, naturalmente, l'inconfondibile brivido di terrore che solo la figura del vampiro riesce a suscitare.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2013
ISBN9788854133471
Storie di Vampiri

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    Storie di Vampiri - AA.VV.

    EC227_Storie_Vampiri_EBook.png

    Indice

    Il Vampiro. Introduzione di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco

    PARTE PRIMA

    Prima di Dracula

    Il Vampiro (John William Polidori)

    Vampirismus (E.T.A. Hoffmann)

    Clarimonde (Théophile Gautier)

    La sera della vigilia di Ivàn Kupàla (Nikolaj Vasil’evic Gogol’)

    Il Vij (Nikolaj Vasil’evic Gogol’)

    La visita (Thomas Preskett Prest)

    I Vurdalak (Aleksej Konstantinovic Tolstòj)

    La bella vampirizzata (Alexandre Dumas)

    Le Horla (Guy de Maupassant)

    Carmilla (Joseph Sheridan Le Fanu)

    Un mistero della campagna romana (Anne Crawford)

    Cristina (Francis Marion Crawford)

    PARTE SECONDA

    L’avvento di Dracula

    L’ospite di Dracula (Bram Stoker)

    Il Vampiro del Sussex (Arthur Conan Doyle)

    La tomba di Sarah (Frank George Loring)

    Il Conte Magnus (Montague Rhodes James)

    Mrs. Lunt (Hugh Seymour Walpole)

    Il Dottor Nero (Daniele Oberto Marrama)

    La stanza nella torre (Edward Frederick Benson)

    Un Vampiro irlandese (Richard Stanley Breene)

    Quattro paletti di legno (Victor Rowan)

    Il volto (Edward Frederick Benson)

    Il Vampiro della brughiera (Robert Ervin Howard)

    Nellie Foster (August Derleth)

    Una storia di Vampiri (Edward Frederick Benson)

    Rivelazioni in nero (Carl Richard Jacobi)

    Vampiro (Clark Ashton Smith)

    Oltre il fiume (Peter Schuyler Miller)

    La vendetta (William Hope Hodgson)

    In un cimitero (Eando Binder)

    Fiocchi di neve (August Derleth)

    Un Vampiro spagnolo (Ernest Hoffmann Price)

    La croce di fuoco (Lester Del Rey)

    Il canale (Everil Worrell)

    PARTE TERZA

    Gli eredi di Dracula

    La signora Lorriquer (Henry Stanley Whitehead)

    I Vampiri di Henshawe (James Hall)

    Il sole splende luminoso (Edward Everett Evans)

    La capanna dei Carker (Hermann Mudgett)

    Il castello (Manly Wade Wellman)

    Vampiri e affini (Seabury Quinn)

    La Dama di Glengarrion (Clark Douglas Stuart)

    L’immortale (Edward Everett Evans)

    Nicea (Clark Ashton Smith)

    Quel Vampiro di Lovecraft (Robert Bloch)

    Notte dei morti (Thorp McClusky)

    Il risveglio del Vampiro (John Ballincourt)

    Vampiri (Randall Garrett)

    La Dea-Vampiro (Clifford Ball)

    Il lungo sonno (Charles Horn)

    L’insolita modella (Edward Everett Evans)

    La Signora in Grigio (Donald Wandrei)

    Il sangue della vita (Tom Rawson Hilbourne)

    Araxe (Jean Bouquet)

    Nell’abisso dei Vampiri (Laurence Manning)

    PARTE QUARTA

    Dracula domani

    Sogno scarlatto (Catherine Lucille Moore)

    Un’avventura di Poe (Manly Wade Wellman)

    La città dei Vampiri (Alfred Elton Van Vogt)

    Il campo sterile (Ives Theriault)

    La valle dei Non-Morti (Helen Weinbaum)

    Orrore e raccapriccio (Thorp McClusky)

    La strada dell’immortalità (Rog Phillips)

    Il viaggio (F. L. Wallace)

    Luella Miller (Mary Wilkins Freeman)

    Il Signore di Malinbois (Clark Ashton Smith)

    Leonora (Everil Worrell)

    L’amuleto del Vampiro (Robert Leonard Russell)

    Il Vampiro della Torre Nera (Clifford Ball)

    Akivasha (Robert Ervin Howard)

    Il marziano e il Vampiro (Edward Everett Evans)

    APPENDICI

    Appendice i. Apollonio di Tiana e la Vampira

    Appendice ii. Relazione scientifica sui Vampiri

    Appendice iii. Dal Dictionnaire Infernal,

    di Jacques Collin de Plancy

    Filmografia

    Bibliografia

    Schede degli autori

    Prime pubblicazioni e copyrights

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    227

    Le traduzioni dei testi contenuti in questo volume sono tutte di Gianni Pilo,

    con l’eccezione di: J. W. Polidori, Il Vampiro e

    A. Crawford, Un mistero della campagna romana, traduzione di Erberto Petoia;

    N. V. Gogol’, La sera della Vigilia di Ivàn Kupàla e Il Vij, traduzione di Leone Pacini

    Savoj; G. de Maupassant, Le Horla, traduzione di Lucio Chiavarelli;

    S. Le Fanu, Carmilla, traduzione di Roberta Formenti; B. Stoker, L’ospite di

    Dracula, traduzione di Riccardo Reim.

    Prima edizione ebook: luglio 2011

    © 2009, 2010 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-541-3347-1

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura della geco srl

    Storie di Vampiri

    Da Polidori a Stoker, da Maupassant a Conan Doyle,

    oltre settanta autori ci accompagnano alla scoperta

    di una tra le figure più celebri della letteratura dell’orrore

    A cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco

    Edizioni integrali

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    Il Vampiro

    IL GIUDICE: Ma lei che cosa voleva fare di quella bambina?

    LÉGER: Vostro Onore, mangiarla.

    IL GIUDICE: E perché ha bevuto il suo sangue?

    LÉGER: Vostro Onore, ebbi sete.

    (Dalla deposizione del vampiro Antoine Léger, ghigliottinato nel 1824 in seguito a sentenza del Tribunale di Versailles.)

    Riferisce San Gregorio di Tours (nella sua Historia Francorum, I / 47, scritta nel 561 d.C.) che, al funerale della moglie Scolastica, il superstite, l’inconsolabile coniuge Ingiurioso, gentiluomo d’Alvernia, provò l’impulso di ringraziare pubblicamente il Signore per avergli, sia pure per breve tempo, affidato quel «tesoro di purezza» che lui ora gli restituiva «intatto come l’aveva ricevuto». A tali parole, la defunta si rizzò di scatto nel sarcofago, dicendo con voce nella quale vibrava una nota di protesta: «Perché, marito mio, disveli a tutti faccende che dovrebbero riguardare noi due soli?». Poi si riaccomodò nella tomba, e si lasciò seppellire. Ingiurioso, forse per lo spavento, il giorno dopo era morto anche lui, e fu inumato insieme con la consorte, in un cenotafio accanto a quello di lei. Al mattino, i guardiani del cimitero notarono del disordine fra i sepolcri: la tomba del notabile era vuota, mentre in quella di Scolastica si ritrovarono ambedue i cadaveri, l’uno nelle braccia dell’altro. La morte, che – come diceva il Principe de Curtis – livella molte cose, aveva evidentemente consentito che venisse riparata un’omissione commessa nella vita. Dopo il fatto, avvenuto a Clermont nel 390 d.C., la tomba di Scolastica venne indicata come «Il letto degli amanti»¹.

    Vita sessuale dei morti

    L’idea ancestrale che post-mortem sia possibile in determinati casi la prosecuzione di talune attività precipue dell’esistenza in vita, è all’origine della leggenda del Vampiro.

    Due sono le attività tipiche dei vivi che – in diversa ma consimile forma – si pensava potessero essere trasferite anche nel mondo dei trapassati: il sesso e l’alimentazione. L’attività sessuale dei defunti, in particolare, era considerata piuttosto intensa e, ad evitare che il morto la soddisfacesse al di fuori del sepolcro, lo si forniva di una compagna simbolica (o, in taluni casi, reale). È questa l’origine delle cosiddette «concubine di pietra» ritrovate nei sepolcri dell’antico Egitto, della Mesopotamia e di varie altre località: statuette femminili, tutte senza piedi perché non potessero fuggire, tutte segnate da una tipica ipertrofia degli organi e delle caratteristiche corporee aventi funzione erotica.

    Il timore della riapparizione di un morto insoddisfatto nel mondo dei vivi – fa notare J.O. Frazer ² – è diffuso in tutti i tempi e in tutte le culture, fin dal Neolitico, quando i cadaveri erano arsi e chiusi in urne, o sepolti strettamente legati in avelli serrati da pesanti lastre di pietra. Ancora in tempi moderni, tra popolazioni appena entrate in contatto con l’uomo bianco, gli antropologi registrarono delle strane usanze. Presso gli Shuswap della Colombia Britannica, per esempio, vedovi e vedove restavano a lungo isolati dalla comunità, dormendo su giacigli di spine per scoraggiare visite indesiderate da parte del compagno defunto; i vedovi maschi della Nuova Guinea erano usi tener sempre presso di sé un’accetta da guerra con cui difendersi dalla moglie morta; gli Herero dell’Africa Sud-Occidentale troncavano la spina dorsale ai cadaveri prima del seppellimento, onde impedirne la deambulazione e il ritorno al forzatamente abbandonato talamo.

    Questo indebito ritorno era peraltro temuto anche dalle antiche popolazioni dell’area mediterranea. I Mesopotami avevano specifici rituali e scongiuri per tener lontani i familiari defunti. I Lucumoni etruschi chiudevano i corpi dei parenti scomparsi in un’apposita intercapedine tra le pareti della loro residenza, e la facevano costantemente vigilare. Meglio dotati di spirito pratico, i Romani antichi avevano, dal canto loro, raggiunto un modus vivendi con i familiari trapassati, cui accordavano un breve periodo di tempo (da uno a tre giorni l’anno) in cui era loro permesso di circolare liberamente tra i vivi. In quei giorni, i membri della famiglia si astenevano da qualsiasi occupazione pubblica e non trattavano alcun affare, evitando anche di uscire di casa; allo spirare del periodo concesso, il pater familias gettava alle proprie spalle una manciata di fave nere come tributo agli insoliti ospiti casalinghi, nonché segnale perché ritornassero alle proprie sedi.

    Altre popolazioni impiegavano metodi più drastici per garantirsi contro il ritorno dei morti. Persiani, Medi, Parti e Iberni, per esempio, li davano in pasto alle belve; allo scopo, i Batriani allevavano appositamente una razza di cani robustissimi, di cui erano molto orgogliosi. Presso molti popoli nomadi – come i Ciuvasci della Russia – era uso inchiodare i cadaveri nelle bare mediante lunghi ferri appuntiti che venivano fatti passare attraverso la testa e il cuore, per evitare che seguissero le tribù nei loro spostamenti. Definitivo il sistema usato nel Camerun da certe tribù del corso superiore dell’Ogowe: chiudere il corpo in un sacco di cuoio, ridurlo in poltiglia a bastonate, e abbandonarlo ai piedi di un albero nella foresta.

    Tutto ciò, peraltro, talvolta poteva non essere sufficiente: tanto che sono infinite le leggende di ogni paese narranti i casi di defunti tornati presso i vivi per esigere il loro tributo. La più nota, forse, è quella della Fidanzata di Corinto, celebrata da Goethe e tradotta da Benedetto Croce, nella quale la fanciulla Filinnio, alla quale la madre aveva impedito, in vita, di unirsi al promesso sposo, torna da morta a reclamare il compimento dell’amplesso: «Dalla tomba mi levo a ricercare / il bene, che mi manca, dell’amore; / il mio sposo perduto ad abbracciare, / ed a suggere il sangue del suo cuore» ³.

    Costumi alimentari dei trapassati

    L’accenno al sangue salda in unico cerchio l’attività sessuale dei morti con quella, già citata, di tipo nutritivo.

    Anticamente, la fame dei trapassati veniva placata con periodiche offerte alimentari (come l’oblazione di latte, miele e farina in uso nel mondo classico), ovvero richiudendo nelle loro tombe varie provviste di cibo reali o simboliche, queste ultime sotto forma in genere di affreschi e figurine di terracotta dipinta. Che il cibo reale venisse effettivamente utilizzato, risulta da varie testimonianze, anche in tempi relativamente recenti, giusta ragguardevoli trattati quali la Dissertatio Historico-Philosophica de Masticatione Mortuorum di Philip Rohr (1679) e il più celebre De Masticatione Mortuorum in Tumulis di Michel M. Raufft (1734), nei quali sono riportati vari esempi, risalenti a diverse epoche, sull’attività manducatoria nei sepolcri: morti (o presunti tali) che divorano ciò che era stato posto nel cenotafio e rodono i sudari, giungendo a divorare le proprie stesse membra. E, in effetti, secondo parecchie testimonianze, quando le riserve alimentari funebri venivano meno, o erano giudicate insufficienti, il morto provvedeva da solo.

    Le leggende nelle quali si scopre l’inopinata presenza di un defunto fra i convitati a un banchetto, sono numerose. Presso certe comunità era uso – specie nelle più solenni occorrenze – far sedere a capotavola un cadavere mummificato: si pensava che in tal modo, vedendo il posto già occupato, un eventuale risurgente desistesse dal tentativo di assidersi anch’egli a mensa.

    Peraltro, secondo una folta serie di tradizioni, quello preferito dai trapassati è un cibo del tutto particolare, che non si ammannisce solitamente nei banchetti tra i vivi: la carne umana. Nei miti più antichi, questa era considerata infatti l’alimento vivificante per eccellenza, il «cibo degli dèi» in grado di saldare la frattura tra la vita e la morte. La Lamia che, come riferisce Filostrato nella Vita di Apollonio di Tiana, aveva sedotto un giovane filosofo con l’intenzione di suggergli il sangue e poi divorarlo, ammise di scegliere per le sue necessità alimentari sempre «giovani belli e forti, perché essi hanno il sangue assai fresco» ⁴. L’amplesso che precedeva il divoramento aveva del pari funzione vivificante, sulla base dell’intuitivo principio secondo cui l’attività sessuale è fonte di vita (Vedi «Appendice I».)

    Il collegamento vita d’oltretomba-sesso-sangue, è presente in molte remote tradizioni e in un ampio spettro di culture. Si chiamava Lamashtu, presso gli antichi Babilonesi, il dèmone femminile, larva di una prostituta, che attirava gli uomini per berne il sangue, e strappava il feto dal grembo delle donne incinte: colei, si legge in uno scongiuro, «che mi ha preso, notte e giorno mi travaglia, / prosciuga le mie carni, tutto il giorno mi stringe, / tutta la notte non mi lascia». Aluqa, ovvero «Succhiasangue», chiamavano gli Ebrei la larva che assaliva i viandanti persi nel deserto per suggerne l’alimento vitale: non solo il sangue, ma anche lo sperma. Un essere simile era detto Empusa dai Greci: in apparenza era una splendida fanciulla che col suo aspetto seduceva gli incauti, mentre in realtà era un orrido mostro con un piede di bronzo e l’altro di sterco d’asina.

    D’altronde, bere il sangue, oltre che operazione volta ad acquisire una speciale forza di vita, può essere visto anche come piacere. Si legge nei Nibelunghi che i guerrieri di Hagen di Tronje, intrappolati in una sala cui era stato appiccato il fuoco, per spegnere l’arsura bevvero il sangue che stillava dai corpi dei caduti: «Disse Hagen di Tronje: Nobili cavalieri, / chi soffre per la sete, beva di questo sangue. / Non c’è vino migliore per questa grande arsura. / In un momento come questo, non c’è nulla di meglio». Un cavaliere fece la prova, e si dissetò alle ferite di un agonizzante: «Dio vi compensi, Hagen, – disse il guerriero stanco, / – per il vostro consiglio mi sono ben dissetato. / Non mi fu mai servito un vino migliore. / Finché sarò vivo, ve ne sarò sempre grato» ⁵.

    Verso la fine del Medio Evo, gli inquieti morti europei avevano ormai affinato questi concetti, sintetizzando le loro attività sessuali e vivificanti in una sola operazione: succhiare il sangue dei vivi. Con ciò, ne assorbivano l’energia essenziale, quella che la Bibbia chiama «vita» (ma talune vulgate traducono «anima»), e di cui più volte si proibisce esplicitamente di cibarsi. Per esempio, in Genesi, IX – 4 e 5: «Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue. Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto»; Levitico, XVII – 11 e 14: «La vita della carne è nel sangue... Il sangue è la vita d’ogni carne»; e Deuteronomio, XII – 23: «Non ti nutrirai di sangue perché il sangue è la vita: e tu non devi mangiare la vita insieme con la carne».

    L’assorbimento del sangue di una persona, preferibilmente di sesso opposto – per aggiungere all’operazione l’ulteriore carica vitale insita nella sessualità – finì in tal modo per sostituirsi vantaggiosamente a ogni altra forma di commistione fra il mondo dei viventi e il mondo dei trapassati ⁶.

    Nella gran parte delle leggende vampiriche posteriori al Medio Evo, il bacio del morto seduttore scivola dunque dalla bocca alla gola della vittima e, mentre la forza vitale di quest’ultima viene aspirata insieme col sangue, si consuma un vero atto erotico: tanto che, apparentemente, il godimento dei due partecipanti è lo stesso.

    La stirpe dei Vampiri

    «Vampiro», il termine che individua il morto bevitore di sangue, è di origine slava: dall’Europa baltico-balcanica, infatti, proviene la maggior parte delle leggende relative giunte fino a noi. Secondo molti, la parola va messa in relazione con il lituano wempti, «bere», e il turco uber, essere diabolico: il senso sarebbe dunque «dèmone che beve». Il Vampiro propriamente detto è, difatti, un defunto che, per concessione infernale, sopravvive alla propria morte succhiando il sangue sottratto ai viventi: il che gli concede un osceno e pauroso simulacro d’esistenza.

    Secondo uno dei nostri massimi slavisti, il professor Evel Gasparini, la radice slava della tradizione vampirica è legata alla particolare forma di religiosità pagana praticata da quei popoli. Una religiosità dalle radici profonde, se si considera che gli ultimi a essere cristianizzati (con la forza), gli slavi baltici, rinunciarono al paganesimo soltanto alla fine del XII secolo, e che comunque – nei villaggi – i riti ancestrali continuarono a lungo a essere praticati, clandestinamente o in forme commiste con le cerimonie religiose cristiane. Residui ritualistici delle antiche festività pagane vennero registrati dagli antropologi in varie regioni dell’Europa slava, ancora nei primi decenni del presente secolo.

    La religione degli slavi pre-cristiani (rimasta a lungo difficile da analizzare per l’assenza di fonti scritte) aveva una forte tinta manistica: prevedeva, cioè, un particolare culto dei morti. Presso quelle popolazioni, la vita d’oltretomba era considerata come una specie di risvolto negativo della vita di questo mondo. Si credeva che i morti vivessero nelle stesse condizioni dei vivi, e per questo (come peraltro facevano varie popolazioni antiche) si disponevano presso i cavaderi provviste di cibo, e armi e oggetti di cui si pensava che il defunto potesse aver bisogno nell’Aldilà. Si riteneva inoltre che il morto si separasse malvolentieri dalla sua gente: per cui, i parenti prendevano delle precauzioni, vegliando il cadavere e cercando di distrarlo con canti e danze. Dei morti di morte violenta e dei giovani vergini si temeva in particolare il ritorno: si pensava infatti che questi defunti fossero ancora avidi delle gioie di cui il prematuro trapasso li aveva privati, e potessero ripresentarsi a pretenderle, con rischio e spavento per i vivi.

    Onde assicurarsi circa la «tranquillità» dei defunti, era perciò in uso presso quelle popolazioni il rito delle esequie ripetute. In pratica, a intervalli di tempo stabiliti – tre, cinque, sette anni – i sepolcri venivano riaperti, le ossa lavate con balsami, i resti riavvolti in teli funebri. Quando, nel corso di queste cerimonie – prolungatesi per secoli – un corpo per qualche motivo veniva trovato non decomposto, o in condizioni di preservazione diverse da quelle che ci si aspettava, si credeva che nel frattempo fosse tornato periodicamente nel mondo dei vivi a suggere sangue per prolungare la propria esistenza terrena. Allora, lo si impalava o lo si bruciava ⁷.

    La tipologia del Vampiro variava peraltro a seconda del popolo di appartenenza, e del pari il nome subiva varianti. I Polacchi lo chiamavano Upir, e lo accreditavano di una lingua affilata come un pungiglione. Nella Piccola Russia era detto Mjertovjek, ed era considerato figlio di un lupo mannaro e di una strega. Per i Serbi e i Montenegrini aveva nome Vurdalak, e in vita era stato un uomo dalla condotta riprovevole. Da Morlacchi e Macedoni era detto Vrukolak, ed era molto temuto, perché il suo richiamo notturno causava la morte di chi gli rispondeva, specie i parenti. Sampir lo chiamavano gli Albanesi, Norferat i Bulgari, Ogoljen i Boemi, Gierach i Prussiani. La nomenclatura è comunque assai vasta: la specialista Ornella Volta, nel suo saggio Il Vampiro (Milano, 1964), raggruppa una cinquantina di denominazioni diverse distribuite fra altrettante località non solo europee, ma di tutti i continenti.

    Malgrado le differenziazioni, esistono tuttavia numerose caratteristiche comuni che ne permettono agevolmente l’identificazione. Il Vampiro ha in genere un viso emaciato, pallido come il marmo. Ha folti capelli e il corpo villoso al punto da avere sovente peli anche sulle palme delle mani. Il colore degli occhi è slavato, le labbra sono gonfie, spesso tumefatte e, sollevandosi, scoprono canini mostruosamente lunghi e aguzzi. Il Vampiro ha inoltre le unghie sempre lunghissime e livide, le orecchie appuntite e mobili come quelle dei pipistrelli, l’alito orrendamente fetido. Teme l’odore dell’aglio (che infatti è noto come agente antiparassitario), l’esposizione prolungata alla luce del Sole (è creatura notturna), la visione dei simboli sacri (caratteristica, questa, comune a tutti gli adepti delle Potenze Infernali). Il suo morso è anestetico, tanto che la vittima che lo subisce durante il sonno, non si desta. Nel succhiare il sangue, emette un suono caratteristico per il quale il vampirologo Pierre Thyraeus de Neuss ha, nel 1700, coniato un termine apposito: poppysma ⁸. Il suo morso è inoltre contagioso: chi ne muore, diviene Vampiro a sua volta.

    Nel corso dei secoli, tutta l’Europa, a ogni latitudine, fu percorsa in varie riprese da epidemie di vampirismo. L’islandese Saga degli uomini di Eyr, che tratta eventi svoltisi fra l’Ottocento e il Novecento d.C., narra la storia di Torolf Gambastorta, alla cui morte si cominciarono a verificare misteriosi decessi di uomini e animali. Si udivano rumori strani, e talvolta appariva anche il cadavere dello stesso Torolf. Si riaprì allora la sua tomba e lo si trovò perfettamente conservato, «con un aspetto truce». Intorno al suo sepolcro venne allora eretta un’alta palizzata per tenerlo confinato ma, dopo qualche tempo, ripresero le uccisioni. Riesumato nuovamente il corpo, lo si trovò ancora incorrotto, e allora si decise di bruciarlo; dopodiché, il Vampiro non comparve più.

    Similmente, Saxo Grammaticus, nel XIII secolo, racconta nella Danica Historia che, durante una pestilenza in Danimarca, si attribuì la morìa all’opera di un uomo assassinato il cui cadavere si aggirava nottetempo per le campagne. Il Vampiro venne esumato, decapitato, e trafitto al cuore con un palo; in seguito a ciò, la peste si estinse ⁹. Intorno all’anno 1100, riferisce William di Newburgh nella Historia Rerum Anglicarum, venne esumato in Inghilterra il corpo di un «Succhiasangue», e si dovette darlo alle fiamme per impedirgli di nuocere.

    A partire dalla seconda metà del Seicento, le documentazioni aumentano enormemente. Epidemie di vampirismo con ampia e certificata casistica si hanno in Moravia (1662 e 1685), Istria (1672), Grecia (1701), Prussia Orientale (1710 e 1721), Ungheria (dal 1725 al 1732), ancora in Prussia Orientale (1750), Slesia (1755), Valacchia (1756) e Russia (1772), per citare soltanto alcuni focolai. Nel 1731, in Serbia, gli abitanti del villaggio di Medwegya furono addirittura attaccati in massa dai Vampiri che, come si legge in una relazione dell’epoca, «fecero morire parecchie persone succhiando loro il sangue».

    Risale a quel tempo l’applicazione al pestifero risurgente dell’appellativo di «Vampiro». La prima volta che si incontra il termine è nel 1725, nei documenti parrocchiali di Barn in Moravia: la salma di un certo Andreas Berge – vi si legge – non trovava pace perché era Vampertione infecta.

    Nel secolo successivo, il fenomeno diminuì, tant’è che – nel 1824 – il Parlamento britannico si risolse ad abolire l’annosa legge che prescriveva di trafiggere con un cuneo di legno i cadaveri dei suicidi e dei morti «sospetti», a scanso di possibili rischi. Una legge analoga, peraltro, rimase in vigore fino ai primi anni del secolo presente nello Stato americano del Rhode Island, sede nella seconda metà del Settecento dell’unica epidemia di vampirismo documentata sul territorio degli attuali Stati Uniti (lo scrittore H.P. Lovecraft ne trasse lo spunto per uno dei suoi più celebri racconti orrorifici, The Shunned House).

    Dalla seconda metà dell’Ottocento al secolo attuale, il vampirismo sembra aver perduto il carattere contagioso, e da fenomeno epidemico si è ridotto a casi sporadici. Ancora nel 1909, peraltro, un castello della Transilvania fu dato alle fiamme dai contadini locali, secondo i quali un Vampiro che vi aveva sede aveva causato una morìa di bambini nel villaggio vicino. La notizia venne riportata dal Neues Wiener Journal del 10 giugno di quell’anno.

    La straordinaria concentrazione di fenomeni vampirici verificatasi a metà del Settecento, in pieno secolo dei lumi e in gran parte sui territori dell’Impero austro-ungarico, generò un fiume di scritti sulla stampa dell’epoca, nonché una serie di relazioni, atti pubblici, verbali, trattati, da parte dei più dotti illuministi dell’epoca: un copiosissimo materiale dal quale si sedimentò il sostrato delle leggende vampiriche moderne, fornendo la documentazione di base ai narratori che, in seguito, fecero uscire il Vampiro dall’ambito delle affabulazioni popolari, trasformandolo in soggetto letterario.

    S’interessarono al caso personalità di grande ascendente, come Voltaire e Rousseau: il primo dicendosi scettico, e attribuendo l’origine delle dicerie ai Gesuiti; il secondo affermando che «se c’è mai stata una storia al mondo garantita e dimostrata, è quella dei Vampiri», ma concludendo che tutta la società umana era basata sullo sfruttamento e il vampirismo: e dunque, per ognuno di noi, «il nostro Vampiro sono gli altri».

    Dovette infine intervenire la stessa Imperatrice Maria Teresa che, nella sua visione razionale di una sovranità tesa a debellare ignoranza e superstizione, inviò Wabst, Primo Medico dell’Imperial Regio Esercito, e Gasser, professore di anatomia a Vienna, a indagare sulle ragioni che spingevano i contadini a dissotterrare ed impalare i morti.

    Risultato dell’inchiesta fu l’autorevole relazione di Gerard Van Swieten, Archiatra delle Cesaree Maestà: Remarques sur le vampyrisme de l’an 1755. L’illustre clinico attribuì i comportamenti dei villici a superstizione, e la presunta incorruttibilità di taluni cadaveri riesumati a certe proprietà naturali dei terreni di sepoltura.

    La risposta dell’Imperatrice non si fece attendere: «...è nostro graziosissimo ordine per il futuro che in simili situazioni non si prenda alcuna decisione da parte degli Ordini Religiosi senza l’autorità politica ma, nel caso in cui si verifichino simili eventi di spiriti, stregoni, risurgenti o di qualcuno che si pretenda invasato dal demonio, ciò sia denunciato all’Istanza Politica e quindi da quest’ultima il caso sia esaminato con l’assistenza di un ragionevole esperto medico...» (dal Rescritto sui Vampiri, 1755). (Vedi «Appendice II».)

    Anche la Santa Sede intervenne in materia. Il clero era fra i grandi accusati – da parte dei razionalisti – della diffusione del fenomeno: i preti di campagna, ignoranti quanto i loro assistiti, erano infatti i primi a diffondere la credenza che i morti potessero risorgere a vita maligna dietro diretto influsso satanico. In ciò confortati, peraltro, da testi nei secoli precedenti tenuti in gran conto, quali il Malleus Maleficarum (Norimberga, 1494), di Sprenger e Kramer, la Demonomania (Parigi, 1580) di Jean Bodin, le Disquisitionum Magicarum (Lovanio, 1599) di Anton Martin Delrio, il Compendium Maleficarum (Milano, 1608) di Francesco Maria Guaccio, e molti altri, nei quali tale ipotesi era sostenuta e dimostrata col conforto di citazioni dalle Scritture e dalla patristica.

    A raccomandare prudenza nell’accogliere le dicerie dei villici, si levò il dottissimo Cardinale Prospero Lambertini, in seguito Papa Benedetto XIV, che, anche da Pontefice, raccomandò di trattare le voci sui risurgenti come superstizioni popolaresche, alimentate dalla credulità e dall’ignoranza del basso clero.

    Se ciò fu sufficiente a convincere le persone colte (e infatti, dopo qualche anno, sulle gazzette, di vampirismo non si parlò quasi più), non bastò certo ad avere efficacia particolare sulle genti di campagna. Nei borghi, il fenomeno rimase a lungo più vivo che mai: tanto più che secoli di pratiche esumatorie in presenza di preti e magistrati locali, avevano ormai codificato un vero e proprio modus operandi per condurre le azioni volte ad affrontare ed estirpare la presunta piaga dei risurgenti.

    L’accusa di vampirismo nei confronti dei defunti sospetti di tale illecita attività doveva essere mossa davanti al magistrato, il quale istruiva un processo preliminare tendente a dimostrare che davvero i cadaveri accusati «vengono a travagliare i viventi, succhiano il sangue, appariscono, fanno fracasso alle porte e per le case, e infine talvolta cagionano la morte» (Augustin Dom Calmet, Dissertation sur les Apparitions des Esprits et sur les Vampires et Revenants, Parigi, 1746).

    Al processo venivano ascoltate le testimonianze dei parenti perseguitati, dei compaesani e del parroco, sulla base delle cui dichiarazioni il magistrato decideva se proseguire o meno nell’istruttoria. In caso affermativo, prima di procedere alla sentenza, accertava che, dinanzi a una commissione ufficiale di esperti giuridici, ecclesiastici e militari, il cadavere accusato si dimostrasse effettivamente refrattario ai sintomi della morte, sopravvenutagli mesi o anni prima: per esempio, ostentando integrità dalla decomposizione, membra flessibili e intatte, oppure continuando a lasciarsi crescere, dopo il decesso, unghie, barba e capelli, trasudando sangue dal naso, dalle orecchie e dai pori:

    L’Uffiziale Imperiale andò con la Corte di Gradisca a Kisolova e, fatto dissotterrare quel cadavere, lo trovarono che non esalava alcun odore cattivo, ch’era intiero come se fosse in vita, fuorché la cima del naso che pareva un po’ appassita e disseccata; che gli erano cresciuti i capelli e la barba, e nate unghie nuove, in luogo di altre che erano cadute; che sotto la prima cute, la quale pareva come morta e biancastra, ne traspariva una nuova, sana, e di color naturale, che i piedi e le mani erano intieri, quanto potevano esser quelli di un vivo; e gli osservarono nella bocca del sangue fresco, che il popolo credeva essere da questo Vampiro stato succhiato agli uomini da lui fatti morire [A. Dom Calmet, op. cit., a proposito dell’esumazione del Vampiro Pietro Plogojovits, nel 1725, nel villaggio di Kisolova in Ungheria].

    Soltanto dopo un simile accertamento il magistrato emanava la sentenza di morte definitiva, che veniva applicata mediante l’infissione di un cuneo di legno – possibilmente frassino – nel cuore, il taglio della testa e, se necessario, la cremazione:

    I ministri prendendone esatta informazione, e formandone un giuridico processo, ne vengono a una sentenza finale contro al suddetto Vampiro, mediante la quale viene solennemente e con tutte le forme legali decretato che il pubblico carnefice portatosi al luogo ove si trova il Vampiro, apra il sepolcro, e con una sciabola, o larga spada, a vista di tutto il popolo spettatore, recida al Vampiro il capo, e dopo con una lancia gli apra il petto e trapassi col legno da parte a parte il cuore del Vampiro, strappandoglielo dal seno e poi ritorni di nuovo a chiudere l’avello. In tal maniera, cessa affatto più di comparire il Vampiro, quantunque molti altri di questi che non erano ancora stati giustiziati, né esecutoriati, non cessavano di comparire e di produrre i calamitosi effetti come i primi. Ma quel ch’era da notarsi, e motivo di meraviglia insieme, si era che molti de’ detti Vampiri giustiziati si trovavano ben colorati, rubicondi, con gli occhi aperti e turgidi di vivo sangue, come se fossero attualmente vivi, e di prospera salute, a segno tale, che alcuni di questi, al colpo della lancia, che loro veniva inflitto, mandavano uno spaventoso grido, e scaturiva dal petto un copioso ruscello di sangue, il quale per la copia arrivava a innaffiare non solo il catafalco ma, spargendosi al di fuori, giungeva a bagnare il terreno prossimo [Estratto dalla relazione del Cardinale Vescovo di Olmütz, sui processi istruiti nella sua Diocesi, pubblicata nella Dissertazione sopra i Vampiri di Giuseppe Davanzati, Arcivescovo di Trani, a Napoli nel 1774].

    Lord Ruthven e i suoi successori

    Se è su documenti di questo genere che si sostanzia la leggenda moderna del Vampiro, la sua immagine letteraria discende da una circostanza di tutt’altro genere, nella quale si trovarono coinvolti non più magistrati, ecclesiastici e boia, ma narratori e poeti. All’origine c’è una scommessa, dalla quale sarebbe nato il Romanzo dell’Orrore anglosassone.

    Il luogo è Villa Diodati a Ginevra. Nella splendida dimora, il giugno del 1816, è radunato un gruppo di intellettuali: i poeti inglesi Byron e Shelley, il primo in compagnia dell’amante Claire Clairmont e del segretario e medico personale John William Polidori, il secondo dell’amante – e futura moglie – Mary Wollstonecraft Godwin, all’epoca diciannovenne; con loro, erano anche il letterato e uomo politico John Hobbhouse, il pittore Scrope Davies e lo statista italiano Pellegrino Rossi.

    «Quell’estate fu fredda e uggiosa», scriveva in seguito la giovanissima Mary, «e piogge interminabili ci costrinsero spesso in casa per giorni e giorni. Trovammo per caso alcuni volumi di storie di fantasmi, tradotti dal tedesco in francese... Scriveremo ciascuno una storia di fantasmi, disse un giorno Lord Byron. E la proposta fu accettata.» ¹⁰ Si cominciò dunque a discutere le varie trame, e ciascuno propose la sua: ma, per la maggioranza dei presenti, l’impegno si esaurì in lunghe conversazioni sui princìpi della Narrativa Soprannaturale. Lo stesso Byron, che aveva lanciato l’idea, si limitò a buttar giù lo schema e le prime pagine di una storia che lasciò interrotta.

    Ma due dei presenti – sia pure con intenti e impegno profondamente diversi – presero sul serio la scommessa. La prima fu proprio lei, l’amante-bambina di Shelley, che cominciò a scrivere quello che risulterà uno dei massimi capolavori della letteratura fantastica: quel Frankenstein pubblicato anonimo nel 1818, che oggi viene riconosciuto come capostipite tanto del Romanzo d’Orrore Soprannaturale, quanto della moderna Narrativa di Fantascienza. Il secondo a prendere sul serio la scommessa fu John William Polidori, il quale scrisse e pubblicò – sia pure con qualche ritardo e in modi stravaganti – una novella che diede vita anch’essa a un particolare modulo letterario: The Vampyre.

    In poco più di venti pagine, il racconto di Polidori ridisegna completamente il personaggio del Vampiro, così com’era noto dalle leggende dell’epoca. Da povero contadino ignorante, persecutore di vacche e parenti prossimi, frutto di superstizioni nate nei campi, Polidori lo trasforma in figura a tutto tondo, con il prestigio e il vigore di un archetipo. Il suo Lord Ruthven, tenebroso nobile inglese condannato dai suoi delitti a succhiare il sangue dei vivi, è – innanzitutto – un aristocratico: tratto questo profondamente originale rispetto alla tradizione vampirica precedente, fatta di villici analfabeti (in tutte le migliaia di documenti relativi al vampirismo, l’unico nobile citato fu un certo Barone Joseph von Wollschläger, ritenuto origine di un focolaio di infezione vampirica manifestatosi nel 1750 nel villaggio prussiano di Jacobdorfs). Poi, non è un mostro ripugnante, un cadavere animato da una scintilla di vita satanica, che compie azioni disgustose e agisce in modo inconsapevole: al contrario, è un personaggio d’aspetto virile, intelligente e ricco di un fascino sottile e irresistibile, che attira le fanciulle come la fiamma le falene. Infine, non si limita a battere nottetempo desolate campagne picchiando all’uscio dei casolari, ma è perfettamente inurbato, e frequenta con disinvoltura la migliore società del tempo. Da questo schema deriverà la matrice sulla quale verranno modellate tutte le successive filiazioni letterarie del Vampiro, sia in veste maschile che femminile.

    La felice intuizione letteraria di Polidori sembra sia nata dal desiderio di dipingere una caricatura denigratoria di Lord Byron, con il quale era entrato in feroce contrasto, per rivalersi delle frustrazioni che l’eccentrico poeta inglese lo aveva costretto a subire. Lo proverebbe la scelta stessa del nome: Ruthwen Glenarvon si chiamava infatti una incarnazione «satanica» di Byron uscita poco tempo prima dalla penna di una sua amante delusa. Inoltre, non contento di prestare al suo Vampiro aspetto e atteggiamenti byroniani, Polidori fece pubblicare il suo racconto (nel 1819) a firma dello stesso Byron.

    Non si conoscono i motivi di questa scelta: probabilmente, l’intenzione era ancora una volta denigratoria. Se è così, l’effetto fu opposto: il racconto ebbe immediatamente un successo straordinario, e nessuno dubitò che fosse di mano del poeta. Venne tradotto in tutte le lingue d’Europa, e Goethe lo ammirò tanto da affermare che si trattava dell’opera migliore di Byron. Da quel momento, il Vampiro uscì dall’anonimato, rivendicò quarti di nobiltà, e fece il suo ingresso nell’Olimpo dei personaggi letterari.

    John William, il suo nuovo «padre letterario», non ne trasse però fortuna. Proveniente da una famiglia di qualche merito intellettuale – il padre Gaetano era stato segretario di Vittorio Alfieri, e una sorella, andata sposa a Gabriele Rossetti, fu madre del poeta Dante Gabriele – il giovane Polidori aveva stupito l’Inghilterra laureandosi a soli diciannove anni in medicina a Edimburgo, e sembrava destinato a una brillante carriera sia scientifica che letteraria. L’incontro con Byron gli fu fatale. Travolto dalla vita disordinata del poeta, che se lo trascinò appresso – fra continui litigi – per mezza Europa, quando questi lo abbandonò, non fu più in grado di risalire la china. Morì suicida nel 1821, a soli 26 anni, per non poter saldare un debito di gioco, inghiottendo «un sottile veleno di sua composizione».

    Gli sopravvisse il suo personaggio (nel frattempo Byron aveva smentito recisamente d’esserne l’autore) che, come si è detto, ebbe subito grande successo tra gli intellettuali d’Europa. In Francia, già nel 1820, Charles Nodier mise in scena a Parigi, con straordinaria fortuna, una pièce teatrale tratta dal racconto di Polidori, intitolata Le Vampire; qualche anno dopo, scrisse un seguito al racconto, Lord Ruthven et les Vampires, nel quale faceva morire il sinistro personaggio mediante il classico impalamento su una pubblica piazza di Modena. Nel 1828, poi, il suo dramma generò il libretto di un’opera dallo stesso titolo musicata dal tedesco H.A. Marschner, alcune delle cui arie, come la Chanson à boire du Vampire, divennero popolarissime (ma già nel 1801 un certo A. de Gasparini aveva messo in scena a Torino un dramma lirico intitolato Il Vampiro).

    In breve, quasi ogni autore romantico dell’Ottocento si cimentò con la sinistra figura del Principe delle Tenebre, con opere sia narrative che poetiche, spesso da annoverare tra i capolavori della Narrativa Fantastica. Vampirismus (1828) è il titolo di un racconto di E.T.A. Hoffmann del ciclo dei Fedeli di San Serapione in cui si riattualizza il tema classico dell’Empusa. Variazioni vampiriche sono presenti in Nikolaj Gogol’, che con Il Vij (1835) produce la sua novella più perfetta. Clarimonde, la morte amoreuse (1836) di Théophile Gautier è un racconto nel quale realtà e sogno si mescolano in una trama originale che piacque moltissimo a Baudelaire (nella cui poesia, peraltro, corrono potenti vene vampiriche). Molte ballate ispirate a Vampiri vennero incluse da Prosper Mérimée in La Guzla (1827), centone di composizioni liriche popolareggianti presentate (falsamente) come traduzioni dall’illirico; lo stesso Mérimée affermò di essere stato testimone oculare, nel 1816, di un caso di vampirismo a Varbesk, in Serbia ¹¹. E l’ombra del Vampiro aleggia su tutti i Chants de Maldoror (1868) di Lautréamont.

    Intanto, in Inghilterra, patria del Romanzo Gotico, il Vampiro era entrato nei ranghi dei personaggi della nascente stampa popolare con una serie di dispense a puntate, Varney the Vampyre, pubblicate anonime ma dovute probabilmente a Thomas Preskett Prest e/o James Malcolm Rymer: in esse, a partire dal 1847, l’ennesimo nobile succhiatore di sangue trascinava per 868 pagine, suddivise in 220 capitoli, le sue atroci vicende di non-morto.

    Del 1872, infine, è il romanzo breve Carmilla dell’irlandese Sheridan Le Fanu, uno dei maestri riconosciuti della Narrativa Soprannaturale, nel quale tutta la tematica ormai classica del Vampiro – le nobili origini, il maniero perduto nella foresta, il sottofondo erotico (in questo caso legato a un sorprendente, per i tempi, tema lesbico), la vittima inconsapevole, la tradizionale fine cruenta – sono concentrati e riassunti. E proprio la lettura di Carmilla sembra abbia ispirato, alla fine del secolo, la nascita del più celebre Vampiro di tutti i tempi.

    Entra il Conte Dracula

    Tre furono gli spunti di cui si valse l’irlandese Bram Stoker per tracciare la figura di Dracula, personaggio che con gli anni sarebbe diventato una delle icone più cospicue dell’immaginario orrorifico moderno.

    Il primo fu, come detto, la lettura di Carmilla, che gli suggerì il tema vampirico; il secondo fu la figura dell’attore vittoriano Henry Irving, di cui Stoker era segretario, che gli servì come modello per il Principe delle Tenebre, in vista di una possibile riduzione scenica della trama che andava progettando. Il terzo fu un sogno, che a quanto sembra è all’origine di tutto, e che ispirò l’ambigua sottotraccia erotica che costituisce un elemento fondamentale del romanzo.

    Era una notte di marzo del 1890 quando Stoker, svegliatosi da un incubo, tracciò in fretta queste righe su un foglio di carta:

    Un giovane esce, e vede tre fanciulle.

    Una di loro cerca di baciarlo, non sulle labbra ma sulla gola.

    Il vecchio Conte interviene.

    Con rabbia e furia diaboliche.

    «Quest’uomo mi appartiene. Io lo voglio».

    L’esile traccia così trascritta era quanto restava della visione notturna che aveva fatto svegliare di soprassalto lo scrittore. Il foglietto, ritrovato fra le sue carte, è oggi conservato a Filadelfia nella Rosenbach Library, che in un apposito fondo custodisce tutte le testimonianze note relative all’autore di Dracula. Chi ha letto il romanzo, riconoscerà peraltro la scena: si trova nel terzo capitolo.

    Nel 1890, all’epoca del sogno, Stoker era già una persona di qualche rilievo nell’ambiente culturale inglese. Nato a Dublino nel 1847, dopo un’infanzia malaticcia compensata da una giovinezza nel corso della quale era divenuto campione d’atletica, si era laureato in Giurisprudenza, e per dieci anni aveva fatto parte dell’apparato amministrativo britannico, segnalandosi per capacità fra i civil servants dell’Impero (gli si deve anche un manuale di procedura per i funzionari); nel contempo, tuttavia, aveva coltivato la sua passione per il giornalismo e il teatro, con diversi scritti e varie colonne di critica sulla stampa quotidiana.

    Nel 1878, l’incontro con Sir Henry Irving, forse il più acclamato attore dei suoi tempi, lo convinse ad abbandonare la noiosa attività impiegatizia per il più affascinante mondo della scena. Divenne prima segretario, quindi impresario, e infine direttore del teatro di Irving, e cominciò a frequentare il mondo intellettuale, sposando fra l’altro una fanciulla legata in precedenza a George Trilby e Oscar Wilde.

    Irving (cui Stoker rimase legato per ventisette anni), era quel che si dice un «gigante della scena». Imponente nella figura, con uno sguardo magnetico e una voce tonante, interpretava sempre ruoli sopra le righe: l’Ebreo Errante, Mefistofele, l’Olandese Volante, sulla base di un repertorio scritto in genere appositamente per lui. Dracula – secondo le note lasciate da Stoker – nacque appunto come possibile personaggio di una pièce teatrale che doveva averlo quale protagonista. L’attore tuttavia non si fece convincere dal progetto, talché Stoker si risolse a trarre dalla sua ispirazione un romanzo epistolare, genere che all’epoca era assai gradito dal pubblico.

    Con la meticolosità dell’ex funzionario, lo scrittore passò sette anni a documentarsi sui Vampiri nella biblioteca del British Museum: lesse certamente il libro di Dom Calmet, dal quale trasse nozioni quali l’effetto repellente dell’aglio sui Vampiri, la loro capacità di tramutarsi in animali notturni quali lupi e pipistrelli, l’intolleranza alla luce del Sole e ai simboli religiosi, e così via. Si documentò inoltre sulle leggende tradizionali slave, sulla storia e la geografia balcaniche, sui riti del sangue e sui culti di morte e resurrezione. Lesse anche la precedente letteratura vampirica. Dal Varney di Prest riprese, con tutta probabilità, l’immagine del Vampiro che giunge in Inghilterra a bordo di una nave fantasma e sparge morbi immondi con la terra infetta del suo sepolcro.

    In pratica, nel suo romanzo Stoker finì per accogliere e concentrare tutte le precedenti connotazioni narrative della tematica vampirica. In primo luogo, ne confermò l’origine balcanica, collocando il suo personaggio in Transilvania (un nome dal sapore mitico: la terra al di là delle foreste...), e facendone il Signore di un castello cupo e inaccessibile. Accolse altresì tutti i connotati tradizionali del Vampiro, quali erano apparsi dal racconto di Polidori in poi: la maledizione eterna, la natura satanica, la sete di sangue, i poteri soprannaturali, i legami col mondo delle tenebre. Ne accettò anche il modello – sempre tracciato da Polidori – di «nobile maledetto».

    Gli mancava un nome. A suggerirglielo fu Arminius Vambery, singolare figura di scienziato-viaggiatore, Docente di Tradizioni Slave all’Università di Budapest, che gli parlò della figura del Voivoda di Valacchia e Transilvania Vlad Basorab detto Tepes, ossia «l’impalatore», terrore dell’Europa centrale nel quindicesimo secolo, fiero nemico dei Turchi e al centro di leggende che ne tramandano tuttora la crudeltà indescrivibile e danno per certo che avesse stretto diversi patti infernali. Costui aveva avuto l’appellativo patronimico di «Dracula», cioè figlio di Dracul, poiché il padre era affiliato all’Ordine cavalleresco del Drago. Una radice del termine valacco per «demonio», insita nell’appellativo, fece sì che il personaggio in questione, di fama spaventosa per le sue inenarrabili efferatezze, passasse anche per figlio del Diavolo.

    Il libro uscì nel 1897, e fu un successo immediato: di tali proporzioni, anzi, da sollecitare in seguito interi studi dedicati ad analizzare le motivazioni di tanta presa sul pubblico di tutto il mondo, in un’epoca in cui il positivismo aveva già scosso radicalmente gli opposti fascini del cielo e dell’inferno. Fu Chesterton, peraltro, a notare che, quando gli uomini smettono di credere in Dio, finiscono non col credere in nulla, ma col credere a tutto: e probabilmente, proprio l’aver fatto emergere il suo personaggio dalle nebbie più cupe della superstizione medievale, permise a Stoker di affascinare col suo libro – malgrado gli evidenti limiti tanto letterari quanto di struttura – un mondo ormai già rassicurato nel suo materialismo.

    Un’altra motivazione del successo va ricercata, poi, nella sotterranea ma sempre palpabile venatura erotica del racconto. Anche l’analisi della sensualità di Dracula ha prodotto fiumi di saggistica del più diverso valore, in genere tendente a interpretare la figura del Vampiro come simbolo liberatorio nei confronti delle repressioni vittoriane in materia di sesso.

    Dracula è, in effetti, espressione di una sessualità totalmente deviata, vista come Male assoluto e assoluta perdizione. È il seduttore infernale che viola l’innocenza con una malvagità così turgida e totalizzante da essere irresistibile. L’unione con lui non significa soltanto perdita della purezza, ma remissione completa del sé, assorbimento completo nella non-vita dei non-morti, e quindi esclusione sia da questo mondo che dall’altro. Nel suo disordine totale, la sessualità del Vampiro è ambigua, onnivalente.

    All’inizio del romanzo, Dracula concupisce apertamente lo sciagurato Jonathan Harker che aveva commesso l’imperdonabile sbadataggine di ferirsi in sua presenza, versando sangue dal viso: l’atto di tentata suzione che ne consegue è una metafora oscena fin troppo evidente ¹². In seguito, quando tre vampire, sorelle e, a quanto si sospetta, amanti di Dracula, tentano anch’esse di sedurre il giovane, il Conte interviene furibondo: «Come osate toccarlo? Via di qui! Quest’uomo mi appartiene». Un analogo senso di possesso, sempre in direzione omosessuale, figurava già nella Carmilla di Le Fanu, in cui la vampira sussurrava nell’orecchio a Laura, la sua vittima: «Tu sei mia. Tu devi essere mia; tu e io dobbiamo essere una cosa sola, per sempre». Il sesso vampirico diviene così contaminazione assoluta, espressione di un disordine universale in cui non soltanto i limiti della comune morale sessuale, ma perfino gli intoccabili confini fra morte e vita vengono a cadere, in una specie di stupro cosmico contro le leggi stesse della natura.

    Se il tema erotico era tuttavia – come s’è visto – connaturato già in epoca classica con la leggenda stessa del Vampiro, e ripreso da molti autori, nel suo romanzo Stoker aggiunge di suo un tratto originale derivante proprio da quel positivismo vittoriano così pesantemente vulnerato dal sorgere stesso del Principe delle Tenebre. Pur accettando l’origine soprannaturale, satanica, del mostro, Stoker cerca di razionalizzarne i comportamenti, li analizza sulla base delle leggi naturali, tenta di prevederli al lume della ragione, e di combatterli in nome della scienza.

    Alla fine, sarà proprio uno scienziato, il medico van Helsing – che oltre ai metodi tradizionali come picche e spicchi d’aglio, si serve anche di strumenti «moderni» (1897) quali fonografi e macchine fotografiche – a distruggere l’incarnazione del Male, il mostro diffusore della più pestilenziale forma di contagio che si possa mai concepire.

    Stretto fra questi due poli – l’origine oscuramente medievale della tematica e la trattazione lucidamente positivistica degli eventi – il Dracula di Bram Stoker finisce per diventare una figura potentemente simbolica: è colui che si ribella all’ordine naturale delle cose, l’incarnazione del rifiuto totale di sottomettersi alle leggi divine e umane. Nella sua triplice qualità di non-morto, di stregone e di entità diabolica, Dracula è l’erede delle forze animalesche che giacciono sul fondo della ragione, pronte a emergere, come l’antica Bestia dell’Abisso, quando le tenebre e l’incubo aprono crepe nel muro della realtà.

    Questa fortissima suggestione è anch’essa uno degli ingredienti che sono alla base del successo del romanzo, da quasi un secolo costantemente ristampato, infinite volte imitato, fonte di una sterminata serie di trasposizioni in tutti i media possibili, dal cinema ai fumetti, dal teatro alla televisione. Con esiti talvolta inquietanti: Dracula è forse l’unico personaggio puramente letterario che, alla stregua di certe figure storiche (Napoleone, Giovanna d’Arco, Garibaldi, ecc.), abbia inciso sulla fantasia dei nevropatici al punto di provocare in loro un processo di identificazione.

    Dalla Transilvania alle stelle

    Il romanzo di Bram Stoker fa da spartiacque nella storia della letteratura vampirica, che può essere suddivisa in una fase pre-Dracula e una post-Dracula. Il successo della creatura dello scrittore dublinese è apparso subito tanto vasto e radicato, e il paradigma letterario da lui posto tanto potente, da sconsigliare i grandi scrittori dall’affrontare ancora il tema del Vampiro. Nell’Ottocento, ai «risurgenti» avevano dedicato pagine di straordinaria efficacia autori quali Gogol’, Goethe, Dumas, Gautier, Hoffmann, Mérimée, Nodier, Maupassant. Dopo Dracula, nessuno scrittore importante ha più avuto il coraggio di fare del Vampiro una nuova figura-simbolo di scandalo e deviazione. In pratica, a intrecciare nuove trame sulle vicende dei non-morti, sono rimasti gli scrittori specializzati nel Soprannaturale, e quelli che già frequentavano sottogeneri narrativi affini, quali la Fantascienza e il Poliziesco.

    Anch’essi, inoltre, non hanno mai osato creare un «nuovo Dracula», un personaggio altrettanto suggestivo in grado di sfidare la popolarità del sinistro Conte transilvano: piuttosto, per cercare un modo inedito di scrivere sui Vampiri, hanno preferito invece agire sulla tematica vampirica in se stessa, alla ricerca di connotazioni diverse e originali.

    C’è stato chi, come Chelsea Quinn Yarbro, ha spostato radicalmente il contesto storico e geografico, trasferendo la leggenda in epoca romana e bizantina, con una serie di romanzi (il Ciclo di Olivia, dal nome della protagonista) segnati da un forte senso innovativo. Altri autori, come Theodore Sturgeon, hanno invece affrontato il vampirismo dal punto di vista dell’alterazione nevrotica della personalità, lasciando sullo sfondo la tematica soprannaturale. Il romanzo Some of Your Blood (1961), in questo senso, è un libro di straordinaria efficacia analitica e di profonda suggestione narrativa.

    Un radicale mutamento prospettico è stato proposto da un autore di grande talento, Richard Matheson, con quello che da molti è ritenuto il suo romanzo migliore, I Am Legend (1954). Il vampirismo vi è ricondotto a una causa interamente naturale: l’infezione prodotta da un microorganismo sconosciuto. Una mutazione improvvisa lo rende particolarmente virulento, tanto che tutta l’umanità ne risulta contagiata. Il protagonista, che narra in prima persona, si trova, per una sua immunità naturale, a essere esente dalla malattia, in un mondo popolato ormai solo da Vampiri. Lotta a lungo per conservare la propria identità, fino a quando non si rende conto che la realtà è ribaltata: i mostri non sono i succhiatori di sangue che vivono nella notte, perché ormai essi costituiscono l’aspetto nuovo che ha assunto la specie umana; a essere contro natura è invece lui stesso e i pochissimi come lui, che vivono nella intollerabile luce del giorno, sfuggiti e temuti da tutti. Il Vampiro non è più una leggenda, conclude il narratore: «La leggenda sono io».

    Con il romanzo di Matheson, il tema vampirico assume un connotato decisamente fantascientifico, che si ritrova peraltro già in alcuni racconti notevoli di scrittori precedenti (per esempio, C.L. Moore con Scarlet Dream, del 1933; Paul Anderson con Garden in the Void, del 1950; Robert Sheckley con The Leech, del 1951), e in due romanzi di assoluto rilievo: Siege of the Unseen (1946) di A.E. van Vogt e Space Vampires (1979) di Colin Wilson. Il primo fornisce una radicale trasposizione «geografica» al tema, ponendo l’azione in una dimensione parallela alla nostra, cui si può accedere modificando i meccanismi della visione. In questa realtà alternativa, van Vogt immagina una società nella quale il vampirismo è elevato a sistema di vita: il sangue, versato in contenitori speciali, subisce un’alterazione chimica che lo trasforma in una droga inebriante, che dà forte assuefazione. Il protagonista si ritrova in una «città vampira» in cui mendicanti di sangue chiedono il dono di qualche goccia del fluido vitale, che è il loro unico modo per sopravvivere.

    I «vampiri spaziali» concepiti da Colin Wilson provengono, invece, da un altro pianeta, e suggono non il sangue, ma direttamente la forza vitale. La loro presenza scatena sulla Terra ondate di follia collettiva e, per liberarsi di loro, si dovrà ricorrere al solito, collaudato sistema: un colpo di picca in mezzo al cuore.

    Più tradizionale l’accostamento al genere di uno dei più popolari autori fantastici del momento, Stephen King, che con Salem’s Lot (1975) descrive la «vampirizzazione» di una cittadina del Maine. Vera «regina» dei risurgenti è poi considerata la scrittrice Anne Rice, che nel 1976 ricevette l’astronomico anticipo di un milione di dollari per il romanzo vampiresco/psicanalitico Interview with a Vampire, primo di una saga comprendente tre titoli, più altri probabilmente a venire. Altri titoli di qualche merito sono The Hunger (1981) di Whitney Strieber, Vampire Junction (1984) di S.P. Somtow, in cui il vampiro è una «rockstar», Sunglasses after Dark (1989) di Nancy Collins.

    Il successo del film di Coppola tratto dal Dracula di Stoker, apparso in America nel 1992, ha poi sollecitato una nuova «infornata» di variazioni sul tema vampirico, nessuna degna di particolare nota. Il romanzo più originale degli ultimi anni si deve peraltro a un «veterano» della Fantascienza, Brian W. Aldiss, che in Dracula Lord of Time (1991) racconta di uomini del futuro che tornano nella Londra ottocentesca per chiedere aiuto a Bram Stoker contro un Dracula rivelatosi inopinatamente personaggio reale, e non frutto di fantasia.

    Il Vampiro: istruzioni per l’uso

    Non esistono bibliografie esaurienti, ma è certo che in oltre 170 anni di letteratura vampirica – dalla novella di Polidori a oggi – sono diverse centinaia, forse migliaia, le opere narrative in ogni lingua aventi come protagonisti i succedanei del sinistro Lord succhiatore di sangue. Un vero fiume incontenibile, che si è ingrossato ulteriormente alla fine del secolo scorso, con l’apparizione del Conte Dracula, ed è divenuto una vera e propria cateratta negli ultimi cinquant’anni, dopo le trasposizioni filmiche, televisive e fumettistiche, delle vicissitudini del tenebroso transilvano e dei suoi consimili.

    Quando un fenomeno letterario assume proporzioni di questo genere, finisce quasi sempre per manifestare l’inquietante tendenza a non rimanere confinato nei mondi della fantasia, concedendosi inattese escursioni nel territorio della realtà.

    Se nel 1961 il noto giornalista, scrittore e critico cinematografico Emilio de’ Rossignoli poté affermare, nel suo volume Io credo nei Vampiri, di conoscere personalmente un non-morto e di averlo intervistato più volte, oggi la situazione è sensibilmente mutata: i succhiatori di sangue disponibili al colloquio sono ormai varie centinaia. Lo assicura (e come non credergli?) nientemeno che il direttore del Vampire Research Center di Elmhursta, New York, Stephen Kaplan, autore di un recente saggio appropriatamente intitolato Vampires Are (I Vampiri esistono).

    Per la verità, gran parte di essi non sono Vampiri veri e propri, ma persone che credono di essere Vampiri, e quindi si comportano come tali: in pratica, paranoici che vanno in giro mordendo la gente sul collo, o mendicando da parenti e amici qualche goccia di sangue da succhiare da un dito punzecchiato con uno spillo. Tuttavia, sempre secondo Kaplan, esistono anche i Vampiri veri, i cadaveri animati della tradizione medievale. Uno di essi, una donna, gli ha telefonato (anche i non-morti si aggiornano) rivelandogli di essere nata in Inghilterra nel 1540 e raccontandogli molti particolari della sua vita di secolare succhiatrice di sangue.

    Particolari importanti sull’eziologia vampirica sono stati poi rivelati a un’altra ricercatrice, Norine Dresser, da una bevitrice di sangue di nome Kristin. Il suo caso è descritto nel volume American Vampires Kristin sostiene che lei e quelli come lei hanno nel sangue una particolare cellula, detta «cellula V», che trasmettono col morso e che impone loro i noti comportamenti.

    Non è solo materia per facezie: a quanto sembra, la «paranoia da Vampiro», ovvero una specie di feticismo del sangue che porta a condursi come i succhiatori della tradizione letteraria, si sta diffondendo sempre di più, sospinta soprattutto dal fascino morboso esercitato dai Vampiri cinematografici e televisivi. Sarà un caso, ma il titolo più venduto della Dracula Press (una casa editrice americana specializzata in testi sull’argomento) è un manuale dal titolo non proprio rassicurante: Come diventare Vampiri in sei semplici lezioni. Autrice, una certa Madeline X.

    Appare evidente che in realtà, ancora oggi come già nella Slesia di Maria Teresa, la gente vuole credere nei Vampiri. Forse per il fascino esercitato dal terrore, o forse perché l’esistenza del Vampiro dimostra che, sia pure in maniera contorta e terribile, esiste una possibilità di vita dopo la morte.

    Non si spiegherebbe in altro modo il successo di iniziative come il «Dracula Tour», offerto da un’agenzia turistica americana. Un viaggio in Transilvania sulle orme di Jonathan Harker (la prima vittima di Dracula nel libro di Stoker), con visita notturna alla Rocca di Bran, un tempo maniero avito del Principe delle Tenebre, e apparizione subitanea di quest’ultimo che obbliga i turisti a bere sangue di prigionieri turchi. Che peraltro rivela un sapore praticamente indistinguibile da un noto vino rosso locale.

    Né si spiegherebbe il costante flusso di visitatori che affollano ogni giorno il Dracula Museum (New York, Fifth Avenue), la cui direttrice, Jeanne Youngson, di professione psicologa, oltre a essere presidente del Count Dracula Fan Club è anche autrice di un Libro di cucina del Conte Dracula, ispirato al menù offerto allo sventurato Harker nel fatale castello.

    Il club della Youngson non è comunque l’unico del settore. Sempre restando in territorio americano, c’è la Count Dracula Society (sede a Los Angeles) e la Dracula Society (ancora a New York). Poi ci sono le riviste di appassionati: per esempio, il Vampire Information Exchange, che pubblica testimonianze su contatti con i risurgenti (esce a Brooklyn), il Journal of Vampirology, che dedica largo spazio ai Vampiri extra-europei e si pubblica a Los Angeles, il bollettino Transfusion, con brevi racconti e miscellanea di informazioni varie, pubblicato nel New Jersey.

    Per chi del vampirismo fa una religione, c’è poi un culto in piena regola: The Order of the Vampire (sede a Saint Louis nel Missouri), composto da dissidenti di una setta satanista. L’Alta Sacerdotessa si chiama Lilith Aquino, e sostiene che il suo Ordine si sforza di studiare i modi per conferire anche ai non Vampiri i poteri soprannaturali attribuiti ai Signori del Buio.

    Ben altra la motivazione dei membri del Vampire Hunters Club (Boston), che viceversa hanno fatto voto di liberare il mondo dal flagello dei bevitori di sangue e di tanto in tanto si fanno sorprendere dalla polizia nei cimiteri, mentre frugano fra le tombe armati di picche e martelli.

    Il Medio Evo è passato da un pezzo ma, a quanto sembra, il mito del Vampiro è ancora più vivo che mai.

    GIANNI PILO-SEBASTIANO FUSCO


    1 Riportando l’episodio nel suo saggio Il Vampiro (Milano 1964), Ornella Volta ricorda che ad esso si ispirò il poeta francese Guerrier de Dumast per un componimento intitolato Le Tombeau des deux amants de Clermont. Prima di leggerlo pubblicamente, pronunciò un’allocuzione che così conclude: «Nell’incertezza che regna a questo proposito, e che non siamo certo in grado di dissipare, è per noi dolce e consolante poter pensare che una storia tanto patetica non ha in sé nulla di impossibile».

    2 In The Fear of the Dead in Primitive Religions (Londra 1934), da cui sono tratte le notazioni riportate.

    3 La vicenda della giovane Filinnio venne raccontata per la prima volta dal liberto di Adriano, Flegone, nei suoi Mirabilia, che se ne disse testimone oculare. In seguito, la vicenda venne ripresa più volte: fra gli altri, da Lutero nei Discorsi a Tavola, da Delrio nelle Disquisitionum Magicarum, da Anatole France nelle Noces Corinthiennes. Goethe, rielaborando l’episodio, sottolineò la sua connotazione vampirica, aggiungendovi una nota inquietante, del resto in linea con le tradizioni slave: la vergine divenuta Vampiro afferma che, una volta spenta la vita del fidanzato, si rivolgerà ad altri giovani per suggere il sangue.

    4 Nella tradizione classica, le Lamie erano mostri femminili che si nutrivano del sangue degli infanti e dei giovani vergini, nonché delle carni dei cadaveri. Erano seguaci di Ecate, la Dea della Morte degli arcaici culti lunari mediterranei. Nella Roma antica, esisteva un collegio di sacerdoti con lo speciale ufficio di combatterle, e lo Jus Pontificum proibiva di «lasciare i morti esposti alle Strygae e alle Lamie». Gli studiosi delle religioni tracciano connessioni tra le Lamie e il dèmone Lilith che, secondo la tradizione rabbinica, sarebbe stata la seconda moglie di Adamo, genitrice di una stirpe di Vampiri. In antico, si diceva che territori particolarmente infestati dalle Lamie fossero la Tessaglia, la Siria e la Libia.

    5 I Nibelunghi, Avventura XXXVI; a cura di Laura Mancinelli (Torino 1972).

    6 L’idea che il sangue possa fungere da «porta di comunicazione» tra il mondo dei morti e quello dei vivi è assai antica. Nell’Odissea, Ulisse comunica con i trapassati facendo bere alle loro larve il sangue di un montone sacrificato.

    7 Evel Gasparini, voce «Slavic Religion», par. «The Belief in Vampires», Encyclopaedia Britannica, 15th Edition.

    8 Pierre Thyraeus de Neuss, De terrificationibus nocturnis (Brema 1700). Il termine peraltro si ritrova già in Marziale (Epigr. VII, 18), ove ha significato osceno: è il rumore che si produce nel coito.

    9 «Saga degli uomini di Eyr», in Antiche saghe islandesi, a cura di Marco Scovazzi (Torino 1973); Sassone Grammatico, Le imprese dei Danesi (Torino 1993).

    10 Mary Wollstonecraft Shelley, «Prefazione» a Frankenstein, or A Modern Prometheus, ed. 1831.

    11 L’episodio avvenne a Varbesk, in Serbia, nella casa in cui era ospite Mérimée. Nottetempo, una fanciulla di nome Khava fu vista correre urlando fuori della propria stanza. «Disse di aver visto la finestra aprirsi e un uomo, pallido e avvolto nel sudario, gettarsi su di lei, mordendole il collo... Nel Vampiro, aveva riconosciuto un certo Wieczany, defunto da una quindicina di giorni. Khava», prosegue Mérimée, «aveva sul

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