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ITALIANO CARLO M.

MARTINI, "Gli esegeti del tempo di Galileo"

CARLO M. MARTINI GLI ESEGETI DEL TEMPO DI GALILEO in Nel quarto centenario della nascita di Galileo Galilei, ("Pubblicazioni dell'Universit Cattolica del Sacro Cuore. Contributi - Serie terza. Scienze storiche, 8"), Vita e pensiero, Milano 1966, pp. 115-24 Costretto dai suoi avversari e spinto insieme da una profonda visione di fede, Galileo tent pi volte di precisare secondo quali principi ermeneutici egli intendeva conciliare alcune conclusioni derivanti dalle proprie scoperte con particolari aspetti del linguaggio della Sacra Scrittura. Celebri sono a questo proposito le lettere a don Benedetto Castelli, a mons. Pietro Dini e alla granduchessa Cristina di Lorena. Le riflessioni di Galileo si svolgono secondo due direttrici: la prima tende a porsi sul terreno dell'avversario, mostrando che la Sacra Scrittura non solo non contraddice al sistema copernicano, ma addirittura rende insostenibile l'opposto sistema. Di tale tipo per esempio la trattazione che nella lettera alla granduchessa Cristina egli fa sul passo di Giosu Fermati o sole1. In tali esegesi l'ingegno e l'acume dialettico del Galilei hanno modo di manifestarsi, ma la discussione rimane totalmente sul terreno dei suoi contraddittori, cio su una interpretazione letteralistica dei dati della Scrittura riguardanti il mondo naturale, e come tale ha perso per noi ogni interesse. Diverso il giudizio sulle riflessioni che egli espone riguardo ai principi generali di interpretazione della Scrittura nei suoi rapporti con la scienza. Galileo parte, come sincero credente, dal principio della inerranza della Scrittura: ... Parmi primieramente da considerare, essere santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire2. Un tale principio per lui indubitato e rester sempre alla base di ogni sua considerazione3. Tuttavia si affretta a soggiungere che non cosa facile sapere sempre ci che la Sacra Scrittura vuol dire. Essa non pu mentire tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento, il qual non credo che si possa negare esser molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole. Perci non si pu, nell'esporre la Scrittura, fermarsi sempre nel nudo suono litterale. Vi sono casi in cui essa ha manifestamente usato modi di dire traslati o accomodati alla capacit del vulgo assai rozo e indisciplinato. Di ci Galileo pu portare esempi nelle espressioni antropomorfiche con cui la Scrittura parla di Dio, attribuendogli per esempio e piedi e mani ed occhi, e non meno affetti corporali ed umani4 . Ora, quando la Scrittura parla di realt naturali di terra, d'acqua, di Sole o d'altra creatura, sembra usare di un linguaggio parimenti adattato alla capacit di uomini rozzi per non aggiungere confusione nelle menti di quel medesimo popolo5. Queste e simili riflessioni, alcune delle quali ci stupiscono ancor oggi per il vigore e l'acume con cui sono espresse, cadevano su un terreno preparato? In altre parole, gli esegeti del tempo di Galileo erano in grado di poter raccogliere gli elementi di verit in esse contenuti e avviare un dialogo fruttuoso tra la mentalit scientifica che si veniva allora formando e la tradizione esegetica rinvigoritasi (almeno nella quantit delle opere prodotte) dopo il Concilio di Trento? Questo dialogo stato almeno abbozzato in opere esegetiche di quegli anni?
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La lettera si trova nella edizione nazionale delle opere di Galileo, voi. V, Firenze 1932, pp. 309-348. Le considerazioni menzionate sono alle pp. 343 seguenti. 2 Opere, V, 315. 3 Per questo P. Grelot non riassume in maniera felice il pensiero di Galileo scrivendo recentemente: "La Bible contient une erreur, disait Galile..." (tudes sur la thologie du Lvre Saint, "Nouvelle Revue Thologique" 95 (1963), p. 803). 4 Opere, V, 315. 5 Opere, V, 316.

ITALIANO CARLO M. MARTINI, "Gli esegeti del tempo di Galileo"

Mi propongo di presentare alcuni dati utili alla soluzione di questo problema, ricercando come gli esegeti della prima met del secolo XVII, cio del periodo che vide divampare la controversia sul moto della terra, abbiano affrontato l'esame di quegli specifici passi biblici che venivano ordinariamente coinvolti nella questione. Non intendo quindi riferirmi alle dottrine generali di ermeneutica biblica del tempo. Sarebbe infatti facile, sulla scorta particolarmente del De Verbo di Bellarmino6, mostrare che esistevano alcune premesse teoriche che avrebbero reso possibile di discernere gli elementi validi contenuti nei ragionamenti del Galilei. Ma dal punto di vista storico soprattutto interessante percepire con quale mentalit concreta e con quali limiti di fatto gli esegeti del tempo di Galileo operassero sul passi biblici connessi con la controversia, e ci pu apparire soltanto facendo passare in rassegna i commenti scritti nella prima met del Seicento. In realt qualche accenno ai riflessi esegetici della questione si ha gi nel secolo precedente. Nei Commentarla in librum Job dell'eremitano spagnolo Diego da Zugniga (Astunica), pubblicati a Toledo nel 1584, a proposito di Giobbe IX, 6, si sostiene che il passo non si pu spiegare pienamente se non nella sentenza di Copernico. Diego si pone l'obiezione che altri luoghi della Scrittura parlano di un moto del sole, ma la risolve dicendo che tali luoghi motus terrae in sermonibus soli assignant, cos come avviene nel linguaggio ordinario anche dei copernicani, che spesso parlano del corso del sole intendendo il moto della terra. In questa posizione, se da una parte si ha il tentativo di trarre la Scrittura a una determinata concezione fisica, che sar fonte in seguito di tanti malintesi, si ha anche un felicissimo accenno alla soluzione del linguaggio ordinario in uso presso gli uomini, da cui la Scrittura non si discosta. Vedremo come nessun esegeta nei cinquanta anni che seguono riprender considerazioni di questo secondo tipo, mentre parecchi si mostreranno invece rinchiusi nella prima problematica, di una ricerca di testimonianze bibliche per una determinata visione delle realt naturali. Non sembra tuttavia che, all'infuori dello Zugniga, altri si siano occupati intensamente del problema nell'ambito di un commento biblico fino alla fine del 1500. Anche un erudito come il gesuita Emanuele Sa, prima insegnante di filosofia in Portogallo e Spagna, quindi lettore di teologia e Scrittura nel Collegio Romano fin dai primi anni della sua istituzione, e che si occup anche della correzione della Volgata, non fa ancora parola del problema nelle sue Notationes in tota in Scripturam (1598), che pure accennano, sia pure in maniera brevissima, tutte le principali difficolt esegetiche dibattute a quel tempo. Ma gi pochi anni dopo l'insegnamento romano del Sa appare chiaro che la questione entrata nell'ambito degli interessi degli esegeti. Se ne occupa infatti a lungo il gesuita tedesco Nicola Serarius, in un prolisso studio in due tomi dedicato alla figura biblica di Giosu, Josue ab utero ad ipsum usque tumulum, pubblicato a Magonza negli anni 609-1610. Venendo a discutere il capitolo decimo del libro di Giosu, dove i descrive la battaglia di Aialon, si pone il problema: An hoc in proelio steterit sol et luna?7. Adduce le varie opinioni che vorrebbero interpretare il fermarsi del sole come apparente, ma conclude on santAgostino che si tratt di un arresto reale. Ed ecco sorgere qui, espressamente nominata, l'obbiezione tratta dal sistema di Copernico: come pu trattarsi di un arresto del sole, se esso gi di natura sua immobile al centro dell'universo? Di fronte a questa obbiezione l'esegeta non ritorna a considerare il testo, per vedere se forse la sua interpretazione precedente non fosse affrettata: ma oppugna direttamente e teorie copernicane, dichiarando con risolutezza: Non video quemadmodum ab haeresi esse possent immunes. Semper enim Scriptura terrae quietem, et soli ac lunae motum tribuit: aut si quando quiescant sidera, magno id fieri miraculo significat . E cita Ecclesiaste 1,4, Salmo XLIL1 e Salmo X, 5. Quindi il Serarius aggiunge una ragione che 51 pu dire del "consenso universale" Accedit quod opinationem istam exsufflant ac damnant omnes Philosophorum omnium, praeter Nicetam et
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cfr ROBERTI BELLARMINI, Opera Omnia, voi. I, Napoli 1856, specialmente pp. 101-103. Op. cit., tomo II, pp. 235 ss.

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Pythagoreos paucos, familiae; omnia sanctorum Patrum effata; omnia Theologorum omnium gymnasia. Neque vero tutum aut decorum in rebustam certis ac perspicuis falsa commisceri ac tueri problemata. interessante notare la data di questa presa di posizione, cio il 1610. l'anno in cui viene pubblicato il Sidereus Nuncius, dove Galileo descrive le scoperte fatte col cannocchiale, e in cui egli fa sapere al granduca di Toscana che sta meditando una grande opera De systemate seu constitutione mundi, concetto immenso e pieno di filosofia, astronomia e geometria8. L'anno seguente, in trattenendosi a Roma con alcuni studiosi e con alcuni Padri del Collegio Romano, Galileo a risaltare chiaramente le conseguenze di quelle ultime scoperte: esser necessario mutare la gi concepita costituzione del mondo, non potendo in conto alcuno pi sussistere9. Le elucubrazioni del Serarius fanno comprendere in quale atmosfera venissero a cadere le asserzioni di Galileo, e sono indicative per gli sviluppi della questione. Infatti nelle affermazioni del Serarius si ritrovano gi i testi che resteranno fondamentali per la controversia, specialmente Giosu X,12 e Udesiaste 1,4. Inoltre si preannuncia la piega dottrinale e non specificamente esegetica che prender il dibattito: l'obiezione non d motivo per un approfondimento esegetico, ma suscita una risposta generale che in fondo un ritorno puro e semplice a quel senso che l'esegeta ha creduto per la prima volta di dover dare alle parole bibliche. Infine si delinea chiaramente il clima di diffidenza in cui gli esegeti ascoltavano i placiti di una teoria opposta a tutta la mentalit filosofica corrente. probabilmente lo scetticismo con cui venivano accolte le nuove teorie che spiega come illustri esegeti che scrivono poco dopo il Serarius, cio negli anni pi fervidi della controversia galileiana, non prestino attenzione ai problemi sollevati dalle nuove teorie. Cos il portoghese Cosma Magaliano s.j., che nel 1612 pubblica due tomi in folio. In sacram Josue historiam, pur occupandosi a lungo dell'arresto del sole e degli aspetti fisici del miracolo, sembra ignorare del tutto la possibilit di una spiegazione nuova. Anche l'acuto esegeta belga Guglielmo Estio, morto nel 1613, nelle sue Adnotationes in praecipua ac difficiliora Sacrae Scripturae loca, pubblicate postume ad Anversa nel 1621, difende una reale stasi del sole magnum, insolitum et universale miraculum, contro una stasi apparente sostenuta da dottori ebrei, basato sull'autorit degli Hebraeorum doctiores, et Christiani omnes interpretes10. Non fa cenno al problema copernicano, e viene subito scartata l'ipotesi di un linguaggio iperbolico. Alla problematica antica rimane ancora pienamente legato anche o spagnolo Giovanni Mariana s.j., che, all'et di 83 anni, pubblica nel 1619 a Madrid i suoi Scholia in Vetus et Novum Testamentum, dedicati al cardinale Roberto Bellarmino. Nello stesso anno esce un commento all'Ecclesiaste di 1224 pagine in folio del gesuita spagnolo Giovanni de Pineda11. All'autore, a differenza dei tre esegeti ora ricordati, sono certamente giunti echi delle nuove teorie sulla costituzione dell'universo, perch nel commentare Eccl. 1,4 affronta risolutamente il problema dei Physica dogmata subtiliter hac sententia a Salomone indicata, dichiarando fin dall'inizio: Affirmo... hunc nostrum Ecclesiastae locum ... inter alia potissimum Terrae stabilitatem omnis expertem motus constituere12. Non basta infatti per dar ragione del passo biblico escludere dalla terra generazione e corruzione. L'Ecclesiaste intende senza dubbio definire e spiegare una realt fisica, contro l'insipienza di antichi e futuri filosofi disposti ad ammettere un moto circolare della terra. Un argomento dato, secondo il de Pineda, dall'uso che la Volgata fa della parola stare (Terra autem in aeternum stat). infatti la parola tecnica con cui i filosofi latini (sono citati Seneca e Cicerone) trattavano il problema del moto della terra. Lo stesso si deduce dalla radice ebraica
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cfr Lettera del Galilei a Belisario Vinta in Firenze, del 7 maggio 1610. Nella edizione dei Frammenti e Lettere a cura di Giovanni Gentile, Livorno 1917, p. 212. 9 Opere, V, 328. 10 Nella terza edizione delle Adnotationes, Anversa 1652, a p. 110. 11 In Ecclesasten Commentarorum liber unus, Hispali 1619. 12 12 Op. cit., p. 128.

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'amad. Passi come Salmo XVII, 37, 2 Re XXII, 37, Salmo XCV, 10, 1 Par. XVI, 30, confermano la dottrina che la terra immobile. Inoltre la terra detta nella Scrittura sede di Dio e sgabello dei suoi piedi (Is. XL, 2; LXVI, 1): dunque deve essere ferma. Si aggiunge l'autorit degli scienziati, tra cui ultimo Cristoforo Scheiner, professore a Ingolstadt, che nelle Disquisizioni Matematiche sulle controversie e novit astronomiche disputate nel 1614 penitus disiecit prostravitque Copernicanum illud commentum, provando con splendidi argomenti sia fisici sia matematici l'assurda falsit del sistema celeste copernicano13. Sempre secondo il Pineda l'Ecclesiaste ci insegna anche la causa pi profonda della stabilit della terra, causa che non riuscirono a scoprire gli antichi filosofi: la terra infatti immobile perch sta nel suo luogo proprio, nel suo stesso centro. Inoltre essa deve essere immobile perch, come dice spesso la Scrittura, il luogo dove tutte e altre cose sono generate, e deve perci essere quieto. Vengono ora in scena gli avversari (tra cui un medico di Londra, Gilberto)14 descritti dal de Pineda con un linguaggio particolarmente aspro, perch osano opporsi alle Scritture e ai dotti di ogni tempo: bene notare tuttavia che anche il linguaggio di Gilberto, di cui sono citate alcune espressioni, era lungi dall'esser pacato. Vengono esposti e refutati gli argomenti del medico inglese, ma la discussione rimane sempre sul terreno fisico. L'interpretazione della Scrittura non viene riesaminata: secondo il de Pineda essa esige inequivocabilmente il moto del sole. Se Gilberto tralascia di menzionare questa difficolt contro la sua opinione, ci avviene vel quia Scripturis non credit; vel quia non vidit; vel quia non intellexit15. Nella discussione il tono si fa poetico, e il de Pineda trova la verit del moto del sole contenuta tra l'altro anche misteriosamente nella radice ebraica erez (terra): essa deriverebbe dal verbo rruz (correre), e significherebbe il correre delle sfere celesti come uno sposo preso al desiderio della sposa. Ho riportato pi a lungo le idee dell'esegeta spagnolo perch esse sono indicative, come gi quelle del Serarius, della mentalit esegetica del tempo: persuasione che la Scrittura sostenga e insegni quelle verit di ordine fisico che fanno parte della visione allora corrente dell'universo: scetticismo verso le nuove teorie, che molti scienziati del tempo ancora respingono; ricerca nella Scrittura non per discutere sulla possibilit che il suo linguaggio vada preso in senso non scientifico, accomodato al parlare comune degli uomini, ma unicamente per trovare n essa nuovi e sottili argomenti e misteriose conferme alle proprie opinioni. Siamo dunque agli antipodi degli argomenti espressi dal Galileo nella lettera alla granduchessa di Toscana. Si ha l'impressione he per questi esegeti una costituzione cos salda e fissa dell'universo sia in qualche modo un elemento che appartiene alla immagine del mondo come Dio ce l'ha rivelata. probabile che al de Pineda non siano ancora giunti echi della presa di posizione dell'autorit romana sul problema di Copernico nel 1616, altrimenti ne avrebbe certamente fatta menzione nei suoi argomenti. Il primo esegeta che vi accenna probabilmente Cornelio a Lapide, i cui Commentaria in Scripturam Sacram16 ebbero un influsso notevole soprattutto nella predicazione dei secoli seguenti. La Lapide (van den Steen), dopo 29 anni di insegnamento di Sacra Scrittura a Lovanio, era stato chiamato alla cattedra del Collegio Romano. Mor a Roma nel 1637. Nel commento al capitolo X di Giosu non fa accenno alle controversie di quegli anni, preferendo dilungarsi, secondo il suo costume, in spiegazioni allegoriche ad uso dei predicatori del tempo. Una eco invece della problematica copernicana si ha nel commento a Ecclesiaste I, 4, di cui la interpretazione maxime genuina et litteralis la seguente: Terra est quasi centrum... circa oc centrum immobile moventur et gyrant assidue... sol et codi17.
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Op, cit., p. 131. Si tratta dello scienziato inglese Gilbert William (1540-1603), che pubblic a Londra nel 1600 un trattato dal titolo De magnete. E' a quest'opera che allude il de Pineda. 15 DE PINEDA, op. cit, p. 134. 16 Furono pi volte ristampati in diverse edizioni. Leggo l'edizione di Parigi del 1866, in 21 volumi, a cura di A. Crampon. 17 Op. cit., voi. VII, pp. 26 e 29.
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Questa interpretazione da ritenersi contra veteres quosdam philosophos e anche contro autori pi recenti, tra cui cita il De Magnete i Gilbertus Anglus, il quale afferma che la terra gira su se stessa in 4 ore: ma, conclude l'a Lapide, rationes eius frivolae sunt. Inoltre questa sentenza ripugna non solo alla filosofia, ma anche alla Scrittura: sono citati Salmo XCII, 2, Giosu X, 12, Ecclesiastico XLVIII. 26. Infine appare anche il giudizio autoritativo sulla controversia: Denique congregatio Cardinalium sub Paulo V, anno Christi 1616, die quinta martii, praesente Cardinali Bellarmino, ex hoc Salomonis loco damnavit Copernici sententiam, quae docet terram moveri18. L'atmosfera esegetica dunque ancora quella del Serarius e del de Pineda. Gli argomenti per il moto della terra non preoccupano troppo l'esegeta, che vi vede una novit senza fondamento solido. Perci l'opposizione della nuova teoria alla Scrittura affermata senza bisogno i nuovi approfondimenti esegetici. Il giudizio autoritativo infine dispensa da ogni ulteriore ripensamento. forse la condanna romana del 1616 che spiega perch gli esegeti che scrivono negli anni successivi al 1620 non facciano pi neppure menzione del problema, considerandolo definitivamente risolto nel senso di una testimonianza indubbia della Scrittura a favore della posizione tolemaica. Cos ad esempio Giovanni Fernandez, domenicano, che pubblica a Roma nel 1621 un Commentarius in lbrum Ecclesiastes, studiose elaboratus ..., a proposito di Ecclesiaste I, 4, parla con stile ampio e verboso del sole, dello zodiaco ecc., dando una vera summa di astronomia biblicoaristotelica, senza alcuna obbiezione riguardo al senso genuino del passo biblico. La stessa situazione nei Commentarii in libros historicos del vescovo Fabrizio Paulutius (Paulucci), pubblicato a Roma nel 1625, che discute ampiamente se fu pi lungo il giorno di Giosu o quello di Ezechia di cui parla 4 Re XX, 11. Anche il gesuita Giovanni Stefano Menochius (Menochio), che pubblica a Colonia nel 1630 i suoi Commentarii totius Scripturae ex optimis quibusque auctoribus collecti non stima opportuno riprendere dai commentatori precedenti gli elementi di una polemica che egli probabilmente considera superata. Nel 1631 esce a Parigi un esteso commento di Giacomo Bonfrerius (Bonfrre) s.j. (1573-1642), noto per le teorie ardite avanzate riguardo all'ispirazione della Scrittura, dal titolo Josue, Judicum et Rut commentario illustrati. Ma evidentemente il ripensamento da lui fatto sulla dottrina dell'ispirazione non ha avuto alcun influsso sulla esegesi i Giosu X, in cui tratta prolissamente dell'arresto del sole con sfoggio di erudizione fisica e astronomica, citando anche il Serarius, ma senza mostrare dubbi sulla fondatezza della interpretazione corrente. Se un trattatista ampio e informato come il Bonftre non sente il problema, ovvio che non vi accenneranno n il breve commento a utta la Bibbia uscito a Parigi nell'anno seguente 1632 del gesuita scozzese Giacomo Gordonus (Gordon) Biblia Sacra cum commentariis ad sensum litterae, n il pi noto Commentarius in Vetus et Novum Testamentum del gesuita belga Giacomo Tirinus, pubblicato ad Anversa nello stesso anno della Bibbia del Gordon, e neppure gli Analecta in Proverbia, Ecclesiasten ... del famoso Cornelio Giansenio, apparsi a Lovanio nel 1644. Uno sguardo riassuntivo alla esegesi di quei decenni offerto dal cappuccino Giovanni de la Haye nella sua veramente monumentale Biblia maxima, uscita a Parigi nel 1660 come ampliamento della Biblia magna dello stesso autore apparsa nel 1643. Nei diciannove volumi in folio dell'opera l'autore ha raccolto tutto quanto stato detto dai commentatori precedenti, ma nel commento a Giosu X e Ecclesiaste I ha scartato ogni accenno fatto dai predecessori come Serarius, de Pineda o Cornelio a Lapide, a una visione dell'universo diversa da quella corrente. chiaro che il ripensamento della ordinaria esegesi di quei testi non gli si imposto come un elemento degno di essere ritenuto. Perch tuttavia questa rassegna non si chiuda con un bilancio troppo negativo, riporter ancora l'opinione di un esegeta che appartiene allo stesso periodo e in qualche modo lo chiude, anche se per confessione religiosa e per metodo esegetico si differenzia dagli autori sopra citati.
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Op, cit, voi. VII, p. 31.

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Si tratta di Ugo Grozio (van Groot) che nel 1644 pubblica a Parigi le u Annotationes in Vetus Testamentum. Nel volume I, a proposito i Giosu X, stima non improbabile la sentenza di Maimonide, che interpreta l'arresto del sole come frase poetica quasi sol expectasset. donec occso hostum perfectaforet. Nota poi che la Lettera agli Ebrei al capitolo II non recensisce questo miracolo tra i grandi miracoli operati dalla fede, e conclude: Haec ita non mprobablter dici possunt, quamquam impossbile Deo non est Solis cursum morari19. Parimenti degno di nota ci che egli scrive a proposito di Ecclesiaste I, 4, il testo preferito dal de Pineda, come s visto, per provare con argomenti biblici l'immobilit della terra: Non hic agitur de terme statu aut motu, sed de duratione apposita singulorum hominum durationi20. Le prese di posizione di Grozio emergono cos notevolmente tra quelle degli esegeti contemporanei. Invece di buttarsi a capofitto nel problema scientifico, cercando di decidere a quale teoria fisica dia ragione la Scrittura, egli propone una soluzione di carattere letterario, derivata dalla considerazione dello stile dell'autore. Si visto come nessuno degli esegeti dei trent'anni che intercorrono tra la lettera di Galileo e il Grozio ha mai pensato di applicare queste considerazioni a proposito dei passi suddetti. tempo di concludere la nostra rassegna. Da essa mi sembrano risaltare i punti seguenti: 1. Non appare che sia esistito un vero dialogo tra Galileo e il mondo degli esegeti contemporanei, al di fuori delle polemiche intorno al caso personale e delle consultazioni teologiche connesse. L'ambiente esegetico pi vasto sembra non ritenere il problema come importante, e non appare che gli argomenti esposti da Galileo abbiano avuto un riflesso nei commenti scritti in quegli anni.

2. Quali sono i motivi di questo mancato dialogo? Dalla rassegna degli autori sopra citati emergono i seguenti: a) L'assenza di ogni dubbio serio riguardo alla concezione geocentrica. Essa costituisce per questi esegeti uno schema mentale di valore praticamente indiscutibile, fondato filosoficamente, strettamente connesso al modo di parlare ordinario della Bibbia. Leggendo gli esegeti del tempo s acquista la sensibilit dell'enorme sforzo psicologico che avrebbe richiesto un ripensamento di tale concezione. b) La mancanza di una chiara impostazione del problema letterario nell'esegesi dei testi. All'infuori di Grozio nessun esegeta prende sul serio la possibilit che in un libro di aspetto narrativo possano esistere espressioni poetiche. In realt soltanto una percezione concreta della esistenza di vari generi letterari nella Bibbia, anche nei libri narrativi, che permetter un progresso decisivo nell'affrontare la questione. Ma tale percezione doveva affermarsi solo molto pi tardi e non senza controversie e difficolt.

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Op, cit, vol. I, p. 190. Op Op. cit, vol. I, p. 435.

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