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dal titolare del brevetto (tra dette cause non rientra però la mancanza di mezzi finanziari).
Salvo il caso di diritti acquistati da terzi con la registrazione o con l'uso, la decadenza non
può essere fatta valere qualora tra la scadenza del quinquennio di non uso e la proposizione
della domanda o eccezione di decadenza sia iniziato o ripreso l'uso effettivo del marchio
almeno tre mesi prima della proposizione della domanda o eccedecadenza (art. 24 c.p.i.).
2) Se viene cioè meno il requisito della liceità quindi il marchio è contrario all’ordinamento
ed al buon costume (art. 26; 122 c.p.i.): 3) Il marchio si estingue per il venir meno del
requisito della originalità nell’ipotesi di «volgarizzazione», ossia quando il marchio, a causa
della sua diffusione, ha perduto la sua capacità distintiva (art. 13 comma 4 c.p.i.: es .
«aspirina» «caffè hag»); 4) Il marchio si estingue anche per il venir meno del requisito della
novità quando, venga registrato, come marchio uguale o simile relativo a prodotti dello
stesso genere, un marchio successivo, ma destinato ad avere effetto da data anteriore. 5) Il
diritto al marchio per registrazione ha poi durata limitata nel tempo: dieci anni dalla data di
deposito della domanda di registrazione (art. 15 comma 4), ma può esserne chiesta la
rinnovazione prima della scadenza per eguale periodo (di decennio in decennio) (art. 15, 16
c.p.i.); se poi il marchio continua ad essere usato, il diritto al marchio permane secondo la
disciplina del marchio non registrato. INSEGNA (art.22 D.Lgs 30/2005) Può essere
nominativa, cioè costituita solo da parole; emblematica, costituita solo da figure o anche da
numeri; mista, quando è costituita insieme da parole e da figure. Per godere di tutela
giudiziaria, l'insegna deve avere capacità distintiva. Anche l'insegna deve possedere il
requisito della novità, cioè non deve essere uguale o simile a quella di altro imprenditore. Il
diritto di utilizzare l'insegna in modo esclusivo si acquista - al pari del diritto alla ditta -
mediante l’uso. Le parole che costituiscono la ditta possono essere riprodotte - se sussistono
i requisiti di novità e di originalità - anche nell’insegna, nel marchio e nel nome a dominio
aziendale, ed allora il contenuto dei diversi segni distintivi viene a coincidere (art. 22
c.p.i.). LA TUTELA GIUDIZIARIA DEI SEGNI DISTINTIVI - Ai segni distintivi si applica una
particolare disciplina di tutela giudiziaria, che nelle sue linee fondamentali è comune a tutti
i diritti di proprietà industriale (art. 117 ss. c.p.i.). Pertanto, anche il diritto
all’utilizzazione esclusiva dei segni distintivi è tutelabile davanti all’autorità giudiziaria con
un’azione di natura reale (della stessa natura, cioè, dell’azione di rivendicazione) diretta ad
impedirne la violazione ad opera di terzi. In particolare, il titolare della ditta (o
dell’insegna) che l’ha usata per primo (o che per primo ha iscritto la ditta nel registro delle
imprese commerciali) può pretendere che nessun altro imprenditore, anche se ha il nome
identico, usi una ditta o una insegna uguale o simile alla propria, quando tale uso può creare
confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata: il concorrente
dovrà perciò modificare o integrare la ditta (o l’insegna) con indicazioni idonee a
differenziarle (art. 2564 per la ditta, art.2568 per l’insegna). Il titolare del marchio può
pretendere che nessun altro lo sopprima durante la circolazione del prodotto (è infatti
vietato al commerciante di sopprimere nel prodotto il marchio del produttore: art. 2572
c.c., art. 20 comma 3 c.p.i.). Può inoltre agire contro chi adotti un marchio uguale o simile
per prodotti dello stesso genere. Chi è titolare di un marchio di rinomanza (dandone prova)
può impedire che un terzo possa apporlo su qualunque prodotto, anche di genere diverso. Si
può chiedere la condanna dell’usurpatore a cessare dall’uso e a risarcire l'eventuale danno:
il giudice può inoltre disporre la distruzione dei marchi contraffatti e, ove necessario, dei
prodotti da essi contraddistinti, purché gli stessi non appartengano a chi in buona fede ne fa
uso personale o domestico. Il marchio registrato è difeso anche mediante una tutela penale.
Tutti i segni distintivi sono inoltre tutelati dalla disciplina, dettata per la repressione della
concorrenza sleale. BENI IMMATERIALI: LE OPERE DELL’INGEGNO e LE INVENZIONI
INDUSTRIALI Le invenzioni industriali sono ricomprese nel concetto di proprietà industriale
(Cod. Proprietà Industriale) LE OPERE DELL’INGEGNO sono ricomprese nel concetto di
proprietà intellettuale (Legge diritto d’autore n.633/41). Si possono ambedue considerare
beni immateriali tipicamente aziendali: il diritto esclusivo del proprietario alla loro
utilizzazione economica («privativa») di solito si attua attraverso l'esercizio di una impresa,
o direttamente o attraverso la concessione del diritto patrimoniale ad un imprenditore artt.
2575 ss. Formano oggetto del diritto di autore (art. 2575) le opere dell’ingegno (cioè le
idee) purché siano dotate di un minimo di originalità espressiva (anche le opere
fotografiche). Non bisogna confondere il proprietario della copia del libro o dello spartito
(beni materiali) e il proprietario dell’opera dell’ingegno (bene immateriale): questi è colui
che ha creato l’opera e che, a seguito della creazione, è divenuto a titolo originario titolare
del diritto di autore (art. 2576). Il diritto d’autore ha un contenuto complesso: patrimoniale
e morale (art. 2577). Sul piano patrimoniale l’autore è proprietario dell’opera che ha
creato; solo egli ha il diritto esclusivo di produrre i beni o i servizi nella cui composizione
entra l’idea (ad es., di stampare la musica o riprodurla in un concerto; o di trasferirlo ad
altri concedendo un diritto, reale o personale (art. 2581). Così gli autori concedono agli
editori il diritto di stampare le loro opere, ottenendo in compenso una determinata somma
di denaro (contratto di edizione): se il diritto di utilizzazione economica non è stato trasfe-
rito (il trasferimento deve essere provato per iscritto), il proprietario dell’opera può
chiedere al tribunale di impedire (c.d. inibitoria) la prosecuzione dell’attività illecita (art.
156 l.d.a.), nonché il risarcimento dei danni e la distruzione dei beni abusivamente prodotti
dal terzo (art. 158 l.d.a.). Il diritto di proprietà sulle opere dell’ingegno (comprese le opere
fotografiche) dura per tutta la vita dell’autore e per settant’anni dopo la sua morte (artt.
25, 32-bis L.633/41). Sul piano morale l’autore di ogni idea, in seguito alla creazione della
stessa, acquista il diritto di paternità dell’idea, diritto che è intrasferibile e che serve a
garantire l’interesse alla fama e alla notorietà che può derivargli dalla sua creazione (art. 20
ss. L.633/41). In forza di tale diritto morale, l’autore può decidere se pubblicare o meno
l'opera (diritto d’inedito), pubblicarla sotto il suo nome (o in anonimo), pretendere che
l’idea non venga deformata, mutilata o modificata, che non venga diffusa priva del suo
nome, che altri non se ne attribuisca la paternità (plagio): anche in tutti questi casi l’autore
può adire l'autorità giudiziaria per ottenere la cessazione del fatto lesivo, l'eliminazione
delle conseguenze nocive e il risarcimento degli eventuali danni sofferti. Innovazioni
normative.Con successive modifiche apportate alla legge sul diritto d’autore, sono state
espressamente qualificate opere dell’ingegno, riconoscendogli la corrispondente protezione
giuridica: a) software b) le banche di dati; c) i disegni industriali (con carattere creativo e
valore artistico). LE INVENZIONI INDUSTRIALI Sono costituite dalle idee: a) di beni materiali
nuovi (cioè non ancora ideati e prodotti: ad es., i primi calcolatori elettronici). b) di
processi nuovi per produrre beni già conosciuti. c) invenzioni di minore rilievo: i c.d.
MODELLI INDUSTRIALI. Questi si distinguono in: modelli di utilità (ad es., ad una poltrona per
dentista si dà una forma particolarmente efficace per l'uso a cui deve servire) e disegni e
modelli (ad opera dei c.d. designers) che consistono in idee che danno ai prodotti (ad es.,
mobili, stoffe, oggetti vari) una forma o una combinazione di linee o di colori di particolare
carattere individuale (ad es., la forma della fanaleria di un’automobile o della rubinetteria
di un bagno) (art. 31 c.p.i.). Per essere proprietario dell’invenzione, non basta avere creato
l’idea ma è necessario richiedere, prima di divulgare l'idea, la concessione del BREVETTO. La
materia è regolata dal D.Lgs 30/2005 che adegua e coordina la normativa interna con quella
internazionale (Convenzione costitutiva dell’Unione di Parigi - disciplinata dal Trattato di
Cooperazione Internazionale del 1970 - dall’accordo TRIP.s (Agreement on Trade-Related
Aspects Intellectual Property Rights) del 1995, e da due convenzioni: sui «brevetti europei»
e sul «brevetto comunitario». Si hanno pertanto: brevetti nazionali, la cui concessione
attribuisce al titolare il termine di un anno per chiedere il brevetto anche negli altri Stati
aderenti all’Unione di Parigi: c.d. diritto di priorità; brevetti europei, che conferiscono al
titolare, in ciascun Stato contraente per il quale il brevetto è stato concesso, gli stessi diritti
che gli conferirebbe il brevetto nazionale concesso in quello Stato; brevetti comunitari, che
possono essere rilasciati solo per l'insieme di tutti gli Stati aderenti alla Comunità. I brevetti
europei e comunitari sono definiti regionali, per distinguerli dai: brevetti internazionali che
vengono concessi sulla base di un’unica «domanda internazionale». Anche i disegni e i
modelli industriali possono formare oggetto di un deposito internazionale con effetti
giuridici anche in Italia. BREVETTI NAZIONALI Per avere il diritto di ottenere il brevetto è
necessario: che l’idea sia nuova (cioè, non sia ancora conosciuta): un’invenzione è
considerata nuova se non è conosciuta allo stato della tecnica (art. 46 c.p.i. - c.d. novità
estrinseca); che l’idea sia dotata di un minimo di creatività (secondo l’art. 48 c.p.i. deve
arrecare un progresso o un miglioramento nel campo della tecnica industriale - c.d. novità
intrinseca); che l’idea sia adatta ad avere un’applicazione industriale (compresa quella
agricola) (art. 49 c.p.i., 2585 c.c.: c.d. industrialità); che l’oggetto prodotto mediante
l’idea o il processo produttivo non sia contrario all’ordine pubblico o al buon costume (art.
50 c.p.i.: c.d. liceità). Possono costituire oggetto di brevetto anche le invenzioni di
medicamenti e i processi per la loro produzione ma non i metodi di diagnosi o i metodi per il
trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale (art. 45 c.p.i.). Il TITOLARE
DEL BREVETTO, in quanto proprietario dell’invenzione, ha: il diritto esclusivo di utilizzazione
economica (art. 66 comma 1, c.p.i.). il titolare dell’invenzione può vietare ai terzi, se
oggetto dell’invenzione è un prodotto di produrlo, usarlo, metterlo in commercio, venderlo
o importarlo e lo stesso per un procedimento brevettato (art. 66 com. 2 lett. a e b); Il
titolare del brevetto ha però l’onere di attuare l’invenzione, e l’attuazione non deve essere
gravemente insufficiente rispetto ai bisogni del paese (art. 69 c.p.i.); per l’attuazione
dell’invenzione, il titolare del brevetto può trasferire ad altri il diritto di produrre gli
oggetti brevettati (c.d. «contratto di licenza»). In caso di mancata attuazione entro tre anni
dalla data del rilascio del brevetto per cause dipendenti dal titolare del brevetto il Ministero
delle attività produttive può concedere una licenza obbligatoria ad ogni interessato che ne
faccia richiesta: se l'invenzione non viene attuata entro due anni dalla concessione della
prima licenza obbligatoria, si verifica la decadenza del brevetto e il diritto di proprietà si
estingue (art. 70 c.p.i). TUTELA GIUDIZIARIA: se gli oggetti brevettati vengono prodotti
abusivamente da terzi, il titolare del brevetto e i suoi aventi causa possono agire in giudizio
chiedendo misure cautelari (quali la descrizione degli oggetti, il loro sequestro, la c.d.
inibitoria, cioè un provvedimento che ne vieti la fabbricazione), nonché la loro distruzione,
oltre al risarcimento dei danni (art. 124 ss. c.p.i). Sono brevettabili anche le nuove varietà
vegetali (art.104-105-106 c.p.i.) e i modelli di utilità (art. 82 c.p.i.); mentre invece non
sono brevettabili i disegni e i modelli, topografie di semiconduttori il cui diritto esclusivo di
utilizzazione economica deriva dalla loro registrazione presso l'Ufficio brevetti e marchi . La
proprietà sulle invenzioni industriali dura per venti anni (comprese le nuove varietà
vegetali). La proprietà dei modelli di utilità e delle topografie di semiconduttori dura dieci
anni; quella dei disegni e dei modelli cinque anni, prorogabili sino a venticinque anni (di
quinquennio in quinquennio). In genere, i diversi termini di durata dei diritti di proprietà
industriale iniziano a decorrere dalla data di presentazione della domanda di brevetto o di
registrazione. Trascorsi tali periodi di tempo, cessa la protezione giuridica dei diritti di
proprietà industriale, e quindi le idee inventive possono essere liberamente utilizzate da
tutti. Non è invece soggetto a termini di durata ed è intrasferibile (art. 2589, 2590, cod.
civ., 62 c.p.i.) il diritto morale dell’inventore al riconoscimento della paternità della
scoperta. LE INFORMAZIONI SEGRETE - È interesse generale che le idee inventive siano
conoscibili da chiunque; di qui, la disciplina della brevettazione. L’inventore può tuttavia
preferire mantenere l’invenzione segreta: con il rischio che essa, se conosciuta da terzi, non
sia più brevettabile per mancanza del requisito della novità; ma con la speranza, se il
segreto viene mantenuto, di poterla utilizzare economicamente per un periodo più lungo di
quello assicuratogli dalla brevettazione. Anche l'interesse al segreto è in qualche misura
tutelato dall’ordinamento, che protegge le informazioni segrete, intendendo per tali le
informazioni tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, che non siano note o
facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore; che abbiano valore
economico in quanto segrete; che siano sottoposte, da chi ne ha il legittimo controllo, a
misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete (art. 98 c.p.i). Pertanto
anche le informazioni aziendali riservate si possono considerare oggetto di un diritto di
proprietà industriale che è tutelato anche dalla disciplina della concorrenza sleale. IL
PRINCIPIO DI CONCORRENZA (la sua storia) Entriamo nell’ottica dell’insieme di imprese e del
loro operare simultaneo. In questa visione si collocano: a) la collettività delle persone coi
loro bisogni da soddisfare: è la domanda di beni e servizi con aspirazione al benessere; b) un
flusso continuo di beni e di servizi: (il c.d. prodotto nazionale) è l’offerta di beni e servizi;
c) il luogo dove domanda ed offerta s’incontrano: il mercato. Il rapporto tra mercato e
produzione è visto come un rapporto dinamico à quindi “mercato dinamico” Il modello
dinamico del mercato si afferma con il nascere ed il diffondersi della teoria liberale (i cui
valori base sono il singolo individuo ed il progresso sociale). La teoria dinamica riconosce
che l'organizzazione della società non può essere considerata come stabile, perché i conflitti
sociali non possono essere eliminati. Il progresso economico è cioè frutto di una gara tra le
imprese, gara che giova alla collettività se i mezzi di lotta sono adeguati alla realizzazione
del progresso in quanto consistono nelle innovazioni tecniche, nella riduzione di costi e
prezzi, nella capacità di prevedere e soddisfare i desideri dei consumatori (giudici della
gara). Il mercato dinamico è quindi un “MERCATO CONCORRENZIALE”. Le sue caratteristiche
sono: - libertà anzitutto nel mercato dei fattori produttivi (materie prime, credito, lavoro);
- libertà di iniziativa economica; - potere di gestire l’impresa (rischio – potere – profitto -
accumulazione del profitto e suo reinvestimento); - libero gioco della concorrenza; -
sovranità del consumatore costituito giudice della gara, e quindi profitto = premio; -
conseguente valorizzazione di quelle differenze sociali che possono essere giustificate col
diverso contributo al progresso sociale; - pluralità adeguata di imprese ed assenza di
imprese giganti; - Stato che rimuova tutti gli ostacoli ad una equilibrata concorrenza e
realizzi l’uguaglianza che serve per la libertà nella gara; - si giunge così al mercato che
attraverso il giudizio dei consumatori decide la quantità e la qualità dei beni da produrre e il
successo o il fallimento dei singoli imprenditori. E’ cosi che il mercato condiziona l’assetto
produttivo. Non è stato però sempre così; anche nella storia del NOSTRO PAESE ci sono stati
ostacoli rilevanti all’economia dinamica, tra cui: - il mercato del lavoro e quello del credito
sono stati quasi sempre caratterizzati da mancanza di libertà e di elasticità; - la presenza
nella prassi di intese anticoncorrenziali favorite nella legislazione attraverso la disciplina dei
cartelli e dei consorzi. In Italia, soprattutto a causa delle difficoltà intrinseche del sistema
perfettamente concorrenziale, si è passati da un capitalismo concorrenziale ad un
capitalismo oligopolistico. LE RAGIONI di questo passaggio sono fondamentalmente: - libertà
ed uguaglianza sono due valori difficilmente conciliabili; - la concorrenza genera un
processo di concentrazione, per cui le imprese più abili e fortunate espellono dal mercato o
assorbono le altre (diventa quindi un mercato con prevalenza di grandi imprese). Quindi in
Italia si passa da un “primo capitalismo concorrenziale” a un “mercato del cosiddetto neo-
capitalismo” (mercato oligopolistico. Il “MERCATO OLIGOPOLISTICO” ha le seguenti carat-
teristiche: - difficoltà di entrare nel mercato per la necessità di possedere mezzi
tecnologici,finanziari,politici di cui difficilmente può disporre una nuova impresa. -
difficoltà di essere espulsi dal mercato poiché la grande impresa crea intorno a sé una serie
tale di interessi che poi si tramuta in interesse generale; - ricorso a mezzi concorrenziali
(ipertrofia di pubblicità con caratteristiche deteriori); - rarefazione del ricorso alle armi
concorrenziali (riduzione dei prezzi e la informazione del consumatore); - politica
concorrenziale che aumenta il livello della domanda ma non aumenta il livello di
soddisfazione dei consumatori; - nella grande impresa si presenta gravemente alterato il
rapporto tra rischio e potere, perché il cosiddetto pacchetto di comando è rappresentato
generalmente da una frazione relativamente piccola del capitale. La presenza sul mercato
di un numero relativamente piccolo di imprese affievolisce sempre la lotta concorrenziale e
spesso questo danneggia i consumatori (limitazione della produzione, limitazione degli
investimenti, limitazione allo sviluppo tecnico, limitazione del progresso tecnologico): in
questo clima si configurano facilmente intese anticoncorrenziali ed abusi di posizioni
dominanti. GLI SCOPI che si prefigge la c.d. disciplina antimonopolistica sono quindi quelli di
eliminare o almeno contrastare le intese anticoncorrenziali, gli abusi di posizione dominante
e le concentrazioni industriali. IL PRINCIPIO DI CONCORRENZA NELLA NORMATIVA La
concorrenza è volta a soddisfare l’interesse generale ed in particolare l'interesse dei
consumatori. E’ quindi naturale che la norma che proclama la concorrenza si rapporti al
principio di tutelare il consumatore. Vedasi art. 2595 “limiti legali alla concorrenza” – Cost.
artt. 41 e 43 “libertà di iniziativa economica comunque subordinata all’interesse generale” –
2597 “obbligo del monopolista di contrattare in parità di trattamento” – 1679 “obbligo del
concessionario di pubblico esercizio di trasporto alla parità di trattamento delle varie
richieste di trasporto”. Altri limiti solo genericamente previsti nell’art. 2595, sono stati posti
con norme dispositive art. 2105 (divieto di concorrenza del prestatore di lavoro nei confronti
dell’imprenditore) - art. 2301 – 2315 (divieto di concorrenza dei soci nelle società in nome
collettivo ed in accomandita semplice) - art. 2390 – 2455 (divieto di concorrenza degli
amministratori di società azionarie) - 2557 (divieto di concorrenza del proprietario e del
locatore dell’azienda in caso di affitto od usufrutto). LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA
SLEALE La disciplina della concorrenza sleale può essere interpretata secondo due opposte
filosofie: a) LA FILOSOFIA SOLIDARISTICA: parte dall’idea di fondo che gli imprenditori
formano una categoria professionale e sociale tenuta a rispettare i vincoli di colleganza. Si
può ricostruire in senso garantista la disciplina della confusione ritenendo illecita
l’imitazione di comportamenti dell’impresa imitata (non è lecito appropriarsi dei risultati
conseguiti dall’impresa imitata). Si può ricostruire in senso garantista la disciplina della
pubblicità ritenendo illecita la pubblicità comparativa. Si può ricostruire in senso garantista
la disciplina della denigrazione ritenendo illecita la diffusione di notizie ed apprezzamenti
che pur corrispondono a verità. b) LA FILOSOFIA FILO CONCORRENZIALE: parte dall’idea base
che la stessa è volta a potenziare il potere di scelta del consumatore, in modo che lo stesso
si orienti in senso giusto e premi i migliori. In conseguenza si restringe l’ambito di illiceità
degli atti di imitazione, ritenendosi: - illecita la pubblicità menzognera e certe pratiche di
vendite aggressive - lecita la pubblicità comparativa veritiera anche se determina discredito
purché sia fondata su dati rigorosamente veri ed oggettivamente verificabili; si riconosce ai
consumatori ed alle loro associazioni il carattere di soggetti legittimati a richiedere
l’applicazione della disciplina. TUTELA GIUDIZIARIA I mezzi con cui la concorrenza viene
esercitata devono corrispondere all’etica professionale, nel senso che nessun imprenditore
può adottare modalità di concorrenza che appaiono scorrette, ovverosia sleali. Di fronte ad
atti di concorrenza sleale è pertanto attribuita ad ogni imprenditore contro il concorrente
scorretto un’azione giudiziaria: la disciplina repressiva della concorrenza sleale è perciò una
disciplina tra imprenditori commerciali, che tutela il diritto di costoro a pretendere che i
concorrenti adottino un comportamento corretto. Nel C.C. il divieto della concorrenza
sleale è posto nell’art. 2598 (vietati “atti di confusione”, “atti di denigrazione” , “atti di
vanteria” , “qualsiasi atto contrario alla correttezza professionale”). Direttamente lo stesso
legislatore, peraltro, vieta gli atti che consentono a terzi di acquisire informazioni
sull’azienda di un concorrente quando l’imprenditore ha adottato misure adeguate a
mantenerle segrete e che, proprio a causa della loro segretezza, hanno un valore economico
(ad es., il c.d. know how). In attuazione della disciplina comunitaria, è stata introdotta
nella legislazione italiana una disciplina che, per realizzare adeguate finalità informative,
stabilisce il contenuto minimo dei dati che devono essere riportati, in modo chiaramente
visibile e leggibile, sui prodotti e sulle confezioni dei prodotti destinati ai consumatori,
indicandone le caratteristiche rilevanti (art. 6 ss. cod.cons.). È stata anche ammessa la
pubblicità comparativa, lecita se non è denigratoria o ingannevole: tuttavia, in presenza di
atti di pubblicità comparativa illecita, o comunque di pubblicità ingannevole anche se non
comparativa in concorso con l’azione giudiziaria di concorrenza sleale può intervenire in
sede amministrativa anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (c.d. Autorità
anti-trust) la quale può inibirne la continuazione su richiesta non solo degli imprenditori
concorrenti, ma anche di singoli consumatori, delle loro associazioni, del Ministro delle
attività produttive o di altra pubblica amministrazione; in sede giudiziaria, contro le
decisioni dell’Autorità anti-trust si può ricorrere al giudice amministrativo (art. 19 ss.
cod.cons.). L’art. 2599 indica che una volta accertati con sentenza gli atti di concorrenza
sleale è la stessa sentenza che ne inibisce la continuazione, mentre l’art. 2600 indica che in
caso di concorrenza sleale la colpa è presunta ed in base a questo si può ottenere il
risarcimento del danno. LIMITI CONVENZIONALI ALLA CONCORRENZA - I CARTELLI Al momento
dell’introduzione del codice del 1942 la prassi conosceva sia il contratto bilaterale, con cui
una sola delle parti si obbligava verso l'altra dietro compenso a non svolgere concorrenza
(restrizione unilaterale), sia il contratto plurilaterale denominato cartello, con cui più
imprese disciplinavano, limitandola, la reciproca concorrenza. Le limitazioni potevano
essere le più varie. Spesso si creava un’organizzazione comune per dare attuazione ai patti
limitativi della concorrenza ed allora i cartelli venivano denominati consorzi. Nel codice del
1942 venne introdotto l’art. 2596. La norma venne riferita al contratto di restrizione
unilaterale della concorrenza e giudicata accettabile in quanto lasciava all’obbligato la
possibilità di svolgere un’attività (la restrizione doveva riguardare alternativamente o una
determinata zona o una determinata attività) e stabiliva un limite massimo di tempo
abbastanza contenuto (cinque anni). I contratti di cartello, ritenuti non regolati, vennero
definiti atipici; prevalse però un indirizzo interpretativo favorevole ad ammettere la liceità
di ogni cartello. Per la prevalenza di detto indirizzo ebbe verosimilmente a giocare un ruolo
decisivo la disciplina di favore dettata per i contratti di consorzio (in particolare la
previsione come contratto lecito del consorzio di contingentamento - art. 2603 comma 3).
Ma nel del codice la disciplina di favore dei consorzi trovava una giustificazione nella
previsione della necessità di approvazione del contratto da parte della autorità governativa
(art. 2618) e nel controllo pubblico a cui i consorzi erano sottoposti (art. 2610). Questa
situazione di favore per i cartelli ed i consorzi ha contribuito non poco a togliere dinamicità
al nostro mercato. Questa situazione si è risolta con l’entrata in vigore della legislazione
antimonopolistica comunitaria e nazionale. La liceità di tutti i contratti di cartello e dei
contratti di consorzio di disciplina della concorrenza, oggi in vigore in Italia, viene ad essere
oggetto di esame da parte della nostra Autorità garante della concorrenza e del mercato –
ANTI -TRUST (artt. 2 – 10 - 12 della Legge 10 ottobre 1990 n.287). I CONSORZI Nel primo
operare del codice del 1942 il consorzio venne considerato come una struttura volta a realiz-
zare un’intesa e quindi avente funzione anticoncorrenziale. Quindi c’era una uguaglianza di
funzione tra cartelli e consorzi ma vi erano vantaggi del consorzio sul cartello sia per la
possibilità di convenire una più lunga durata, dieci anni al posto di cinque (art. 2604) sia per
la maggiore certezza della disciplina (si trattava di un contratto nominato). Nella prassi: Più
imprenditori si consorziavano per svolgere in comune determinate fasi delle rispettive im-
prese. Il consorzio apparve così uno strumento di cooperazione interaziendale adeguato a
ridurre determinati costi e quindi a rendere più competitive imprese medie e piccole e a
favorirne la permanenza o l’entrata nel mercato, così aumentando la dinamicità della
concorrenza. Con la Legge 377 del 10/05/1976 di riforma della disciplina codicistica, si
favorirono i consorzi di cooperazione interaziendale: a) venne modificata la nozione di
consorzio, in modo da renderla comprensiva del consorzio interaziendale: i contraenti
vennero indicati come imprenditori e non più come imprenditori esercenti la medesima
attività economica o attività connesse; b) lo scopo dell’organizzazione comune non venne
limitato alla disciplina dell’attività d’impresa, ma esteso allo svolgimento (in comune) di
determinate fasi delle rispettive imprese. c) venne modificata la disciplina del contratto
soprattutto aumentandone la durata e facilitandone l’organizzazione (il nuovo testo
art.2604 non pone alcun limite di durata a mano che non vi sia silenzio del contratto su tale
durata); mentre l’art. 2615 comma 1 stabiliva la responsabilità solidale ed illimitata, per le
obbligazioni del consorzio, delle persone che agissero in nome dello stesso, il nuovo testo ha
soppresso tale responsabilità. Per i consorzi interaziendali sono state poi previste
agevolazioni tributarie e creditizie con la L. 1976/374 emanata contestualmente alla legge
di riforma della disciplina codicistica (agevolazioni che si ritrovano anche in successive leggi
speciali). La distinzione tra i consorzi si ha in base alla loro modalità di organizzazione: a)
CONSORZI CON ATTIVITA’ INTERNA Svolgono la loro attività solo all’interno del gruppo, cioè
tra gli stessi consorziati, controllando che costoro adempiano le obbligazioni assunte. b)
CONSORZI CON ATTIVITA’ ESTERNA In essi gli organi consortili svolgono la loro attività
entrando in rapporti coi terzi; e nei consorzi interaziendali è proprio attraverso i rapporti
coi terzi che vengono poste in essere le fasi svolte in comune per conto delle imprese
consorziate. Si ha così una disciplina comune che si applica a tutti i consorzi e una disciplina
particolare che si applica ai consorzi con attività esterna. Disciplina COMUNE (vedi art. 2603
– art.2606 – art. 2607 – art.2610 – art. 2609 – art.2611) Disciplina particolare applicabile solo
ai CONSORZI CON ATTIVITÀ ESTERNA (art.2612 – art.2615/bis comma 3 – art.2615/bis commi
1-2 – art.2613 – art.2614 – art.2615) LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA (ANTI-TRUST) La
legislazione antimonopolistica prima entrata in vigore è contenuta nei Trattati costitutivi
della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (C.E.C.A.) (e riguarda quindi solo le
imprese produttrici e distributrici di carbone e acciaio: artt. 65 e 66 del Trattato) e della
Comunità europea (C.E.) e riguarda tutte le imprese operanti nel mercato comune (artt. 81
e 82 del Trattato). Per il mercato nazionale italiano la legislazione antimonopolistica si è
avuta con L. 287 del 10/10/1990. Questa legge affida il controllo del rispetto della
legislazione antimonopolistica nel mercato nazionale ad un’Autorità amministrativa
indipendente: l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (l’autorità amministrativa
di controllo nel mercato comune, dove opera soltanto la disciplina antimonopolistica dei
Trattati comunitari, è la Commissione delle Comunità europee: l’Autorità garante coopera
con la Commissione per gli accertamenti nel territorio nazionale delle infrazioni di
competenza della stessa Commissione (art. 54 Legge 6 febbraio 1996 n. 52). I fenomeni
pericolosi per il mercato, che la legislazione antimonopolistica pone sotto il suo controllo,
sono tre: a) le INTESE; b) gli ABUSI DI POSIZIONE DOMINANTE; c) le CONCENTRAZIONI
D’IMPRESA. Si ha INTESA quando si è di fronte ad un comportamento d’impresa concordato
tra le imprese stesse. L’uniformità di comportamento può essere, o meno, frutto di un
accordo;se i comportamenti uniformi sono frutto di accordo siamo di fronte ad un’intesa.
Non tutte le intese sono vietate, ma solo quelle che hanno per oggetto o per effetto di
impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza (art. 81
comma 1 tratt. C.E.; art. 2 comma 2 Legge 287/1990). Le intese vietate sono nulle di pieno
diritto (art. 81 comma 2 tratt. C.E.; art. 2 comma 3 legge 287/1990), sia nella disciplina
comunitaria che nella disciplina italiana con conseguente irrogazione delle sanzioni
pecuniarie previste (art. 15 Legge 287/1990). Competente a dichiarare la nullità per
entrambe le discipline è l’autorità giudiziaria nazionale, che può anche condannare i
ricorrenti al risarcimento del danno provocato alle imprese concorrenti. Entrambe le
discipline (art. 81 co. 3° tratt. CE; art. 4 Legge 287/1990) prevedono la possibilità di
autorizzare (autorizzazione in deroga), per un periodo limitato, intese che, contribuiscono a
realizzare un sostanziale beneficio per i consumatori. Tale provvedimento può essere
derogato, previa diffida, se gli interessati abusano dell’autorizzazione ovvero se viene meno
alcuno dei presupposti sui quali l’autorizzazione era stata concessa (art. 4 comma 2 Legge
287/1990). Tutte le intese (cartelli e consorzi di disciplina della concorrenza) sono
assoggettate al controllo della Commissione o dell’Autorità, d’ufficio o su richiesta degli
interessati. La legge 287/1990, per spingere gli interessati a dare notizia esatta e completa
all’Autorità delle intese realizzate stabilisce che per giungere ad un provvedimento di
condanna dell’intesa l'Autorità deve aprire una istruttoria, ma la stessa non può più essere
avviata decorsi centoventi giorni dalla comunicazione a meno che questa sia incompleta o
non veritiera. Nel caso venga aperta l'istruttoria, prudenza vuole che non si esegua l'intesa
per non correre il rischio delle sanzioni previste nell’art. 15. Per far conoscere all’Autorità
le intese non comunicate, la legge prevede (art. 12 legge 287/1990) l'iniziativa della
Pubblica Amministrazione e di ogni interessato, comprese le associazioni rappresentative dei
consumatori. Si tratti di intese comunicate o meno, se l'Autorità decide di aprire
l'istruttoria, (art. 14 legge 287/1990) notifica il provvedimento alle imprese interessate,
fissando un termine per la loro audizione potendo altresì richiedere informazioni e
documenti, disporre ispezioni perizie ed analisi economiche e statistiche e il segreto
d’ufficio su tutti i dati dell’istruttoria. Se l'Autorità ritiene che l’intesa sia tra quelle
vietate, ne proibisce l'attuazione; se l'intesa è già stata attuata, fissa agli interessati un
termine per l'eliminazione delle infrazioni e, se le stesse sono gravi, commina una sanzione
pecuniaria. La Legge 287/1990 prevede e sanziona l’ ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE da
parte di una o più imprese. Secondo la Corte di giustizia delle Comunità Europee per
impresa in posizione dominante deve intendersi quella impresa che, grazie alla sua potenza
economica, può ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato e tenere
comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti e dei consumatori
(praticando prezzi non giustificati dai costi e dalla realizzazione di un equo profitto,
limitando a danno dei consumatori produzione, sviluppo tecnico e progresso tecnologico
ecc). – vedi art.3 della L.287/1990. L’Autorità svolge un’istruttoria analoga a quella prevista
in tema di intese e se accerta l'esistenza di abusi, infligge le sanzioni (solitamente)
pecuniarie di cui all'art. 15. La legge antitrust regola infine le CONCENTRAZIONI: si ha
concentrazione (ai sensi dell’art.5 Legge 287/1990): 1. quando due o più imprese si
fondono; 2. quando una impresa o un soggetto non imprenditore, che però ha già il controllo
di un’impresa, acquistano il controllo di una o più imprese; 3. quando due o più imprese
costituiscono una impresa sociale comune. Eccezione particolare per le banche, istituti
finanziari ed assicurazioni (vedi art. 16 comma 2, Legge 287/1990). L’operazione di
concentrazione diventa RILEVANTE (art.16 comma 1) quando le imprese interessate alla
fusione raggiungono un elevato livello di fatturato annuo (così anche nel Reg.C.E.
1989/4064) (dov’è si trova la sede dell’impresa non è rilevante). Se si tratta di
concentrazioni rilevanti, prima di eseguirle le imprese interessate devono darne
comunicazione all’Autorità; se si effettua un’offerta pubblica di acquisto la comunicazione
all’Autorità deve essere contestuale ad altra comunicazione inviata alla Consob (art.16
comma 5). Se l'Autorità ritiene di dovere indagare sulla liceità della concentrazione, deve
aprire l'istruttoria (art.16 comma 7), il provvedimento deve essere emanato entro trenta
giorni dal ricevimento della notifica o dal momento in cui l'Autorità ha avuto conoscenza
della concentrazione e deve provvedere nel merito entro 45gg (art.16 comma 8). Se
l'Autorità non ritiene necessaria l’istruttoria, ne dà comunicazione alle imprese interessate
ed al Ministero delle attività produttive; di fronte a tale comunicazione o, comunque,
decorsi trenta giorni dalla notifica, gli interessati sono sicuri che l'Autorità non potrà più
avviare l'istruttoria, sempre che la comunicazione fatta dalle imprese sia stata esatta e
completa. L’Autorità, nel far luogo all’istruttoria, può ordinare alle imprese interessate di
sospendere la realizzazione della concentrazione fino alla conclusione della istruttoria
(art.17). L’istruttoria dell’Autorità può chiudersi (ai sensi dell’art 18): 1. in senso favorevole
alla concentrazione dandone immediata comunicazione alle imprese interessate ed al
Ministero delle attività produttive; 2. in senso contrario alla concentrazione: l’Autorità deve
vietare la concentrazione se questa a suo giudizio comporta la costituzione o il
rafforzamento di una posizione dominante. Se l'operazione di concentrazione è già stata
eseguita, l'Autorità prescrive le misure necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza
effettiva e ad eliminare gli effetti distorsivi. In caso di provvedimento contrario alla
concentrazione se le imprese non hanno adempiuto l'obbligo di comunicazione preventiva o
se poi la concentrazione vietata viene eseguita, o non si ottempera quanto prescritto è
prevista una sanzione pecuniaria (art 19). Eccezionale autorizzazione di concentrazione (art
25) - Il potere di concedere tale autorizzazione viene attribuito all’Autorità da un
provvedimento del Consiglio dei Ministri che indica i criteri in base ai quali l'autorizzazione
può essere concessa: la concentrazione viene autorizzata per rilevanti interessi generali
dell’economia nazionale nell’ambito dell’integrazione europea. Da sottolineare la
particolare importanza di una norma di carattere processuale, l’art. 33, il quale da un lato
stabilisce che i provvedimenti dell’Autorità possono essere impugnati dinanzi al T.A.R. del
Lazio. Dall’altro lato stabilisce che la competenza per giudizi di nullità e di risarcimento del
danno è dell’autorità giudiziaria ordinaria (Corte di appello) competente per territorio (si
omette pertanto il primo grado di giudizio davanti al tribunale civile). SERVIZI DI PUBBLICA
UTILITA (Legge n.481 del 14/11/1995) Al fine di perseguire la promozione della concorrenza
e dell’efficienza nei settori dei c.d. servizi di pubblica utilità (energia elettrica e gas;
telecomunicazioni), la legge prevede l’istituzione di altre «Autorità» pubbliche, preposte
alla regolazione e al controllo del settore di propria competenza. Dette Autorità, hanno
obbligo di segnalare le violazioni della disciplina antitrust all’Autorità (generale) garante
della concorrenza e del mercato (art.2 comma 33 della L.481/1995). Dalla L.egge 297/1997
è stata istituita l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, con funzioni di vigilanza sui
sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo: in tali settori è stabilita la nullità delle
intese e delle operazioni di concentrazione che consentono la costituzione di posizioni
dominanti. AUSILIARI SUBORDINATI (art.2094 – 2095) - AUSILIARI AUTONOMI (art.2222 – 2195
n.5) Per svolgere la sua attività economica, l'imprenditore commerciale ha normalmente
bisogno dei servizi di altre persone, che diventano perciò i suoi collaboratori o ausiliari, e
che si distinguono in due grandi categorie: ausiliari subordinati (art.2094 – 2095) ed ausiliari
autonomi (art.2222). Spesso gli ausiliari autonomi sono a loro volta imprenditori e con la
loro impresa forniscono un determinato servizio agli imprenditori di cui sono ausiliari (art.
2195 n. 5): tale servizio di solito consiste nel procurare affari o anche nel concludere
contratti stipulandoli a proprio nome, ma per conto degli imprenditori committenti). Tra gli
ausiliari autonomi il codice disciplina l'attività esercitata da: gli agenti di commercio, i quali
procurano degli affari a un solo imprenditore per ogni ramo d’industria (ad es., gli agenti
delle compagnie di assicurazione art. 1753); i mediatori, i quali procurano affari a tutti gli
imprenditori che richiedono la loro opera e che si pongono in una posizione di imparzialità
nei confronti dei due contraenti, di cui procurano l’incontro (art.1754); i commissionari, che
concludono contratti di compravendita in nome proprio, ma per conto di altri; gli spedi-
zionieri, i quali concludono contratti di trasporto in nome proprio, ma per conto d’altri. Altri
ausiliari possono svolgere la loro attività in modo autonomo o subordinato: sono i promotori
finanziari, i quali promuovono il collocamento fuori sede, nell’interesse di banche ed
imprese di investimento, di strumenti finanziari e servizi di investimento. I POTERI DI
RAPPRESENTANZA DEGLI AUSILIARI SUBORDINATI Tra gli ausiliari subordinati, particolare
importanza rivestono quegli ausiliari che sono muniti di poteri di rappresentanza, cioè del
potere di compiere in nome e per conto dell’imprenditore determinati atti giuridici i cui
effetti appartengono al patrimonio dell’imprenditore. Detto potere di rappresentanza è
regolato da norme particolari (che quindi fanno parte anch’esse dello speciale statuto
dell’imprenditore commerciale) volte soprattutto a consentire ai terzi, che entrano in
rapporto con i rappresentanti di un imprenditore commerciale, di conoscere con particolare
rapidità e sicurezza gli esatti poteri di questi rappresentanti, conseguendo pertanto una
tutela per l'acquisto dei propri diritti più sicura di quella che deriverebbe dall’applicazione
delle disposizioni generali (art. 1387 ss.) in tema di rappresentanza (si agevola così il
traffico giuridico anche nell’interesse dell’imprenditore). La direttiva, cui si ispira la
normativa del potere di rappresentanza, è la seguente: il collaboratore ha tutti i poteri di
rappresentanza necessari o utili per svolgere il compito, che nell’organizzazione
dell’impresa gli è stato affidato, con esclusione di quei poteri che gli siano stati sottratti in
modo conoscibile dai terzi o comunque quando dell’esclusione i terzi siano venuti a
conoscenza. I rappresentanti commerciali si distinguono in: 1) rappresentanti generali, che
hanno il potere di compiere «tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa» con
eccezione di quelli espressamente esclusi dalla legge o dalla procura (ISTINTORI e
PROCURATORI) 2) rappresentanti particolari, che hanno il potere di compiere solo
determinati atti (COMMESSI). INSTITORE (art.2203 - 2204 – 2205 – 2206 – 2207 - 2208) è il
rappresentante generale dell’imprenditore preposto all’esercizio dell'intera impresa
commerciale o di un ramo particolare di essa, nella sede principale o in una sede secondaria
(es, il direttore generale della filiale di un’impresa automobilistica). All’institore è quindi
affidata o l’intera attività d’impresa o una parte della stessa che costituisca un’unità
organica (ramo, sede secondaria dell’impresa). PROCURATORE (art.2209 – 2206 – 2207) Il
procuratore (figura diffusa soprattutto nelle imprese bancarie) è un altro rappresentante
generale dell’imprenditore. Anch’egli, come l'institore, ha il potere di compiere tutti gli atti
di esercizio dell’impresa che non siano espressamente eccettuati nella procura: differisce
però dall’institore perché non è preposto all’esercizio dell’impresa e quindi vi è un altro
soggetto -lo stesso imprenditore o un institore - cui sono riservate le decisioni di vertice
dell’impresa (art. 2209). COMMESSO (art.2210 – 2211 – 2212) I commessi (art. 2210): ad es., i
fattorini del tram hanno il potere di concludere col pubblico i contratti di trasporto; i
commessi del cinema. A tutela dei clienti art. 2212.