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La monarchia normanno-sveva

2.1

I Normanni e lunificazione politica del Mezzogiorno

Gli storici da sempre hanno considerato i Normanni importanti per la storia di paesi quali lInghilterra, la Russia, la Francia, lItalia. Oggi per la storiografia pone laccento anche sul carattere pi largamente europeo della loro espansione, dato che essa influ non soltanto sulla vita delle regioni che ne furono direttamente investite, ma su un territorio molto pi vasto, contribuendo a mettere in crisi gli ordinamenti politici preesistenti, soprattutto quelli che erano nati dalla dissoluzione dellimpero di Carlo Magno, le cui contraddizioni interne esplosero proprio sotto lincalzare delle continue incursioni dei Vichinghi o Normanni. Essi, partendo dalla Scandinavia, dominarono nei secoli IX-X i mari del Nord, colonizzando lIslanda e la Groenlandia, giungendo probabilmente in Canada e fondando lungo il corso del Volga il principato di Kiev, da cui ha avuto origine la Russia. La loro espansione non avvenne secondo un piano preordinato di conquista n sotto la guida di un grande condottiero. I Normanni non ebbero un Alessandro Magno o un Napoleone, ma operarono attraverso una molteplicit di gruppi di guerrieri, sotto la guida di vari capi, che presero direzioni diverse, mantenendo sempre piena autonomia di azione. Uno di questi gruppi si insedi agli inizi del X secolo in quel territorio della Francia del Nord, che da loro prese appunto il nome di Normandia e dal quale giusto un secolo dopo partirono i cavalieri alla volta dellItalia meridionale con la speranza di farvi fortuna, mettendo la loro abilit militare al servizio delle formazioni politiche locali, in perenne lotta tra loro. Si trattava in genere di membri dei rami cadetti di grandi famiglie feudali o di persone appartenenti comunque al gruppo dei guerrieri detentori di terre. A spingerli alla partenza dovettero intervenire anche motivi di ordine politico e il desiderio di avventura, ma la causa principa-

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le fu rappresentata dallaccresciuto indice di natalit delle famiglie nobili, con conseguente rischio di impoverimento di quelle pi numerose. Tra i capi delle varie bande normanne, che operavano indipendentemente luna dallaltra, il primo ad emergere fu Rainulfo Drengot. Combattendo a favore del duca di Napoli Sergio IV contro il principe di Capua Pandolfo IV, egli ottenne da lui in feudo nel 1029 con il titolo di conte il piccolo centro di Aversa, che divenne ben presto una citt sede vescovile. Da Aversa i suoi successori puntarono sulla stessa Capua, che Riccardo Quarrel (10461078) cinse ripetutamente di assedio, finch non la conquist il 21 maggio del 1062. Come racconta il cronista Amato di Montecassino, i Capuani cercarono di convincerlo a desistere dallassedio della citt offrendogli delloro, ma egli lo rifiut, dicendo che voleva la signoria di coloro che avevano loro e che a spingerlo alla guerra era il desiderio di ritagliarsi un proprio dominio. Contemporaneamente andavano emergendo altri capi tra le bande normanne che operavano al servizio dei principi di Salerno contro i Bizantini, ai quali, partendo da Melfi nel 1041, finirono col togliere buona parte della Puglia e della Basilicata (allora il nome Puglia comprendeva entrambe quelle regioni). Per sottrarsi alle loro mire espansionistiche, i Beneventani non trovarono di meglio nel 1051 che mettersi sotto la protezione del papa, al quale nel 1077, dopo la morte del principe Landolfo VI, conferirono definitivamente la signoria della citt, destinata a restare dominio pontificio fino allUnit dItalia nel 1860. Fra i Normanni impegnati nella lotta contro i Bizantini in Puglia emersero ben presto i fratelli Altavilla, prima Guglielmo Braccio di Ferro e Unfredo, e poi Roberto, detto il Guiscardo (cio lAstuto), che fu il vero artefice delle fortune normanne in Italia meridionale. Intanto siamo ormai verso la met dellXI secolo la minaccia normanna cominciava a diventare evidente a tutti; fu tuttavia il pontefice Leone IX a farsi promotore di una coalizione contro i temibili cavalieri francesi: coalizione, che fu rovinosamente sconfitta nel 1053 a Civitate, in Puglia, e lo stesso pontefice fu fatto prigioniero. Fu liberato dopo quasi un anno, quando si decise a riconoscere le conquiste di Riccardo Quarrel e di Unfredo in cambio del loro appoggio politico e militare. Lintesa fu perfezionata nellagosto del 1059 a Melfi, dove il successore di Unfredo, il gi citato Roberto il Guiscardo, e Riccardo giurarono fedelt al nuovo pontefice Niccol II, ottenendo, il primo, il titolo di duca di Puglia, Calabria e Sicilia (questultima ancora da conquistare), e il secondo quello di principe di Capua. Forte dellinvestitura papale, il Guiscardo cerc di consolidare il suo dominio in Puglia e Calabria, avviando nel 1061 anche la conquista della Sicilia musulmana, che poi affid, con il titolo di conte, al fratello minore Rug-

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gero, soprannominato in seguito il Gran Conte. Nel 1071 conquistava Bari, ultimo possedimento bizantino in Italia; nel 1073 gli si sottometteva Amalfi e il suo dominio si estendeva su buona parte dellAbruzzo; nel 1076 cadeva nelle sue mani Salerno e il suo ultimo principe Gisulfo, cognato del Guiscardo, prendeva la via dellesilio a Roma. Tutto questo era, per, ancora poco per il bellicoso duca, che nel 1081 si lanci alla conquista di Costantinopoli. Poco dopo dovette precipitosamente far ritorno in Italia, per domare una rivolta dei baroni pugliesi e per difendere i suoi domini dallimperatore Enrico IV, che a Roma cingeva di assedio Castel SantAngelo, dove si era asserragliato il pontefice Gregorio VII. Liberato il papa e portatolo con s a Salerno, nellautunno del 1084 era di nuovo in viaggio per lOriente, ma il 17 luglio del 1085 mor sulla sua nave al largo dellisola greca di Cefalonia.
Soana Viterbo Ascoli Spoleto Teramo Atri Rieti Chieti Sulmona Montecassino Lucera Troia

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STATO DELLA Roma CHIESA

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Anagni

Capua Gaeta Benevento Aversa Napoli Melfi Matera Salerno Potenza Sorrento Amalfi Capaccio Pisticci Diano Policastro Castrovillari

Siponto Barletta Trani Bari

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Brindisi Taranto Lecce Nard Otranto

Trapani Mazara

Palermo Monreale

Cefal Troina Enna

Messina

Reggio

Catania Siracusa Noto

Primi feudi normanni Altre conquiste nellXI secolo Conquiste nel XII secolo

Girgenti (Agrigento)

Lespansione normanna in Italia meridionale tra XI e XII secolo

Squillace

IO

Catanzaro

Crotone

IO

MAR TIRRENO

Rossano Cosenza

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La sua scomparsa rimise in discussione la fragile costruzione politica da lui creata, dato che i suoi successori Ruggero Borsa (1089-1111) e Guglielmo (1114-1127) si trovarono in condizione di grave debolezza nei confronti sia dei nobili sia delle citt, che avevano accettato il dominio normanno, ma conservando spazi pi o meno ampi di autonomia. Ad imprimere una svolta decisiva alla storia dellItalia meridionale fu il figlio del Gran Conte, Ruggero II. Padrone incontrastato della Sicilia, alla morte senza eredi del nipote Guglielmo rivendic il titolo di duca di Puglia e Calabria, scontrandosi con lostilit dei baroni meridionali e del pontefice Onorio II, decisamente contrari alla formazione di un forte potere che comprendesse lintera Italia meridionale. La lotta fu dura e senza esclusione di colpi, ma alla fine Ruggero II la spunt e nel 1130, approfittando della crisi scoppiata allinterno della Chiesa dopo la morte di Onorio II, si fece incoronare re di Sicilia dallantipapa Anacleto II.

2.2 I caratteri del Regno di Sicilia


Eliminata lultima sacca di resistenza con la sottomissione di Napoli nel 1139, Ruggero II pot concentrarsi sullorganizzazione del suo regno, che si configur in breve tempo come uno dei meglio organizzati del tempo e del quale, mettendo a frutto le risorse umane e le potenzialit economiche delle diverse aree che lo componevano, tent di fare una potenza marittima al centro del Mediterraneo: una potenza in grado di attuare una politica espansionistica a vasto raggio ai danni sia dei potentati del mondo islamico (alcuni dei quali furono costretti a versare tributi in segno di soggezione) sia dellimpero bizantino e dei Veneziani, gi da tempo protesi verso il dominio dellAdriatico. Quale fosse la natura di questo organismo politico, fondato da esponenti della feudalit francese ma tutto proiettato nel Mediterraneo, ancora oggi oggetto di vivace discussione tra gli storici: con il suo apparato burocratico prefigurava gi lo Stato moderno o fu una tipica realt feudale? Nel passato gli storici hanno posto laccento soprattutto sui suoi caratteri di modernit. Ed effettivamente Ruggero II ed i suoi successori Guglielmo I (1154-1166) e Guglielmo II (1166-1189) seppero sfruttare a fondo le strutture di governo ereditate dagli Arabi in Sicilia e dai Bizantini in Puglia e Calabria, dotando il loro regno di una efficiente amministrazione, che si articolava in uffici centrali operanti presso la corte di Palermo e in uffici periferici. Questo diede loro una capacit di produrre leggi e di procurarsi entrate fiscali nonch il controllo dellapparato ecclesiastico, che avvicinava il Regno di Sicilia pi agli Stati del mondo arabo-bizantino che a quelli dellEuropa, con lunica eccezione del regno normanno dInghilterra. Del resto, che i so-

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vrani siciliani guardassero con ammirazione al mondo arabo-bizantino, dimostrato dal clima complessivo che si respirava alla corte di Palermo, dove si assisteva ad una forma di esaltazione della maest regia del tutto estranea al mondo occidentale e dove gli alti funzionari ostentavano titoli arabi e greci. A ci da aggiungere che, con il progredire degli studi nel campo sia della storia economica sia di quella letteraria e artistica, si va affievolendo sempre di pi la convinzione che la conquista normanna abbia stravolto i tradizionali quadri di riferimento delle popolazioni meridionali: non solo larrivo degli uomini del Nord non provoc la rottura dei rapporti con il mondo islamico e bizantino, ma per certi versi li increment, per cui il regno, nonostante lorientamento continentale affermatosi per ragioni politiche al tempo di Guglielmo I, mantenne pur sempre un carattere ambivalente, sospeso come stato scritto tra i due emisferi che si fronteggiavano nel Mediterraneo. I sovrani normanni non erano, per, solo alla testa di un efficiente apparato burocratico, ma costituivano nello stesso tempo il vertice di una piramide feudale, in cui erano inseriti a vari livelli i discendenti degli antichi conquistatori. Questi, nonostante i consueti conflitti interni al mondo cavalleresco del tempo, erano solidali tra di loro di fronte alle popolazioni sottomesse, sulle quali esercitavano poteri di natura signorile come corrispettivo del servizio militare che prestavano al sovrano. N erano solo i feudatari ad esercitare poteri di natura pubblica. Di ampie autonomie giurisdizionali godevano anche le antiche abbazie di Montecassino, S. Vincenzo al Volturno, Cava, S. Lorenzo di Aversa nonch quelle pi recenti fondate dagli stessi Normanni, tra cui la SS. Trinit di Venosa e Monreale. A questo da aggiungere che le citt, soprattutto le maggiori, ma non solo esse, godevano di margini pi o meno grandi di autonomia, che risalivano al momento della loro sottomissione. Ad esse il sovrano aveva imposto un modello organizzativo, che vedeva alla loro guida un funzionario regio generalmente denominato baiulo (stratigoto a Salerno, Amalfi e Messina, compalazzo a Napoli, catapano a Bari ed in altre citt pugliesi), responsabile della gestione dei beni demaniali e della riscossione dei servizi e dei tributi nonch dellamministrazione della giustizia civile, ma a volte anche di quella criminale; era questo il caso di Napoli, ai cui abitanti Ruggero II aveva concesso il privilegio di non doversi recare fuori della citt per presentarsi davanti ad un tribunale regio. A lui si affiancava per un collegio di giudici, che erano s nominati dal sovrano, ma erano proposti o comunque espressi dalla comunit cittadina, che pertanto non era del tutto priva della capacit di prendere iniziative nelle questioni di interesse locale e di partecipare alle scelte pi importanti che la riguardavano.

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Allinterno di questo ordinamento tipo si ponevano, tuttavia, tutta una serie di situazioni particolari, che risalivano, come si detto, alle condizioni pattuite al momento della resa: condizioni che Ruggiero II e i suoi successori cercavano al momento opportuno di superare, ma che ci nondimeno rendevano le citt del regno diverse luna dallaltra. Si trattava di concessioni non di poco conto: rispetto delle consuetudini locali (Castellaneta, Troia), baiulo scelto tra i cittadini (Gaeta, Atina, Bari), esenzione dal servizio militare per terra e per mare (Bari, Cefal, Benevento), limitazioni nellimposizione di tributi, controllo delle fortificazioni cittadine (Amalfi, Salerno) nonch franchigie varie. Senza contare, infine, i margini di movimento legati alla presenza sulle loro cattedre vescovili di presuli in grado di svolgere un ruolo di equilibrio e di mediazione tra apparato regio e istanze locali: mediazione ovviamente non facile, data la dialettica politica assai vivace in atto nelle citt, che laccettavano nella misura in cui se ne ritenevano avvantaggiate, ma che non esitavano a rifiutare in caso contrario. Considerando tutto questo, si comprende come la struttura politicoamministrativa del regno fosse tuttaltro che omogenea e uniforme. La sua peculiarit deriv, piuttosto, dalla capacit dei sovrani di realizzare un equilibrio tra forze locali e autorit regia, per cui sempre e dovunque i funzionari pubblici furono in grado di esercitare un controllo sulle prerogative di feudatari, enti ecclesiastici e comunit cittadine. Se, perci, con lespressione Stato feudale intendiamo non una situazione di disordine politico e di assenza di poteri centrali, ma semplicemente uno Stato che prevedeva, nel contesto della sua costituzione politica, lesistenza dei rapporti feudovassallatici e la delega ai feudatari di poteri di natura pubblica, possiamo senzaltro considerare tale il Regno di Sicilia. Ma quale ruolo svolsero le istituzioni feudali nel complesso della vita del regno? Si tocca qui uno dei problemi fondamentali della storia del Mezzogiorno. opinione prevalente tra gli storici che lintroduzione dei rapporti feudo-vassallatici si sia rivelata alla lunga dannosa per lo sviluppo della societ e delleconomia del Mezzogiorno, soprattutto in un periodo in cui il resto dellItalia si andava orientando, con la formazione dei Comuni, verso istituzioni politiche capaci di suscitare maggiore partecipazione e una pi vivace dinamica politico-sociale. da tener presente, tuttavia, che questi esiti in et normanna erano ancora fuori da qualsiasi possibilit di previsione e che i rapporti feudo-vassallatici, opportunamente disciplinati dallautorit regia, si rivelarono, in Italia meridionale come in Inghilterra, uno strumento efficace di governo.

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2.3 Il passaggio dai Normanni agli Svevi


Con la morte di Guglielmo II (1189) inizi per il Mezzogiorno un periodo di grande incertezza politica, destinato a protrarsi per circa un trentennio, fino a quando cio Federico II non prese saldamente in pugno le sorti del Regno. Lultimo sovrano della dinastia normanna degli Altavilla, infatti, era morto senza lasciare eredi diretti, per cui la successione sarebbe spettata a sua zia Costanza, figlia di Ruggiero II e moglie del futuro imperatore tedesco Enrico VI di Hohenstaufen. La prospettiva di un assoggettamento del Regno allImpero valse per a far nascere resistenze fortissime allinterno del baronaggio e soprattutto delle popolazioni cittadine, che contrapposero al pretendente tedesco un candidato nazionale nella persona di Tancredi, conte di Lecce e discendente, per parte paterna, di Ruggiero II, fondatore della monarchia normanna. Questa ripresa di iniziativa politica da parte delle citt, soprattutto campane e pugliesi, non deve destare meraviglia, perch gli sforzi compiuti dalla monarchia normanna per dare al paese un assetto politico tendenzialmente unitario, poggiante su una rete di funzionari pubblici e di giurisdizioni feudali, non avevano cancellato affatto, come si visto, gli spazi pi o meno ampi di autonomia, che le citt si erano costruiti nel corso dellXI secolo e che gli Altavilla avevano dovuto riconoscere al momento della conquista. Ne era nata una situazione del tutto nuova rispetto al passato prenormanno e a quella che nel frattempo si veniva delineando in Italia centrosettentrionale: una situazione che vedeva, accanto al persistere o al rafforzarsi dello spirito civico e della coscienza cittadina, la nascita di un sentimento nuovo, attraverso la consapevolezza, via via sempre pi diffusa, di far parte ormai di una patria comune, il Regno appunto. Lo si vide in maniera chiara in occasione dei gravi torbidi che scoppiarono alla morte di re Guglielmo, quando le popolazioni cittadine, pur approfittando del momento favorevole per recuperare lautonomia di cui avevano goduto nel passato o addirittura per acquisirne una maggiore, nel complesso non misero in discussione lordinamento esistente. A sottolinearlo stato, ormai pi di un decennio fa, Mario Caravale, il quale ha ricondotto ad una superata lettura dei sistemi monarchici medievali la concezione tradizionale di un insanabile contrasto tra potere monarchico e realt territoriali, quali i feudi e le citt: Se, al contrario, cerchiamo di interpretare in maniera meno conflittuale la dialettica tra sovrano e potest territoriali del suo Regno, ci accorgiamo che lunit istituzionale monarchica era costituita da varie sfere di competenza re, feudatari, dignit ecclesiastiche, citt tutte egualmente essen-

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ziali al governo del territorio su cui il Regno si estendeva e che la monarchia trovava la propria ragione di esistere nella sua capacit di assicurare protezione e giustizia agli ordinamenti particolari; il che fece s che nonostante la crisi dellautorit monarchica i magistrati locali continuassero ad impersonare quella istanza istituzionale unitaria che il potere del sovrano esprimeva e che le giurisdizioni territoriali [] dovevano, nella grande maggioranza, considerare necessaria per la migliore protezione dei loro diritti e dei loro interessi. In questa prospettiva interpretativa va collocato anche il comportamento di quelle citt Termoli, Molfetta, Bisceglie, Bari, Brindisi, Gaeta che conclusero trattati di commercio o di amicizia con Ragusa, Venezia e Marsiglia. Indubbiamente esse operarono con grande autonomia nei riguardi di un potere monarchico in crisi, ma anche da tener presente che quegli accordi furono sottoscritti non solo dagli esponenti degli organismi municipali, ma anche da funzionari regi a livello cittadino o provinciale, dei quali evidentemente continuavano a riconoscere lautorit. In altri termini, quei trattati, se miravano a tutelare gli operatori economici locali e le oligarchie dominanti nelle citt, non per questo si configuravano necessariamente come atti di contestazione del potere monarchico. Un caso particolarmente interessante quello di Gaeta, citt dotata di una grande coscienza di s e che godr sempre di forme di autonomia tra le pi avanzate dellItalia meridionale. Gi infatti al momento della sua resa a Ruggiero II, nel 1140, aveva ottenuto di conservare la sua costituzione e quindi il diritto di eleggere consoli, senza dover chiedere di volta in volta il consenso regio; ad essi il re avrebbe affiancato un baiulo come suo rappresentante, ma scegliendolo tra gli stessi Gaetani. probabile tuttavia che in seguito il sovrano normanno, analogamente a quel che fece altrove, abbia cercato di svuotare di contenuto lautonomia concessa, nominando baiulo uno stesso dei consoli, dato che nel 1149 compare in un documento privato un tal Bono console e baiulo del re. Certo che nel 1191 i Gaetani, nello schierarsi dalla parte di Tancredi, oltre a farsi concedere lampliamento del demanio cittadino attraverso la donazione dei due castelli di Itri e Maranola, ottennero anche la conferma del loro ordinamento politico, ma con la precisazione che il baiulo non potesse essere scelto n tra i consoli n tra i membri del consiglio cittadino. Nel 1208 poi la citt stipul un patto di amicizia con Marsiglia, e nel 1214 fece lo stesso con Pisa. Con questultimo i consoli di Gaeta si impegnarono per venticinque anni, a nome dei loro concittadini, a stare in pace con i Pisani, a rendere loro giustizia se fossero stati offesi da un cittadino di Gaeta e a non accogliere nel loro porto navi ostili alla citt toscana.

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2.4 Patriottismo cittadino a Napoli


I decenni di transizione dai Normanni agli Svevi segnarono anche il trionfo dellautonomia di Napoli, che mostr di meritare gli ampi privilegi ottenuti da Tancredi nel 1190, opponendo lanno successivo una strenua resistenza agli assalti di Enrico VI, il quale, visti vani i suoi sforzi a causa anche di unepidemia di dissenteria che, nel gran caldo estivo, stava decimando il suo esercito, verso la fine di agosto abbandon lassedio e fece ritorno in Germania. Anche a Napoli cera un baiulo o compalazzo di nomina regia, ma il re si impegnava a sceglierlo tra i cittadini stessi ed i suoi poteri erano fortemente limitati dallesistenza di un collegio di consoli, ai quali veniva addirittura concesso il diritto di amministrare la giustizia, espressamente sottratta alla competenza del giustiziere regio, mentre la ripartizione tra i cittadini delle cariche pubbliche sarebbe avvenuta sulla base dei patti stabiliti gi in precedenza tra nobilt e popolo. La citt si vedeva inoltre riconosciuto il diritto di coniare una moneta dargento e di conservare il possesso dei territori sottratti ad Aversa, che invece si era schierata con il partito filotedesco. Ai Napoletani, infine, che viaggiavano per terra e per mare in qualsiasi parte del Regno, veniva concessa, unitamente alla piena libert di movimento e di traffico, lesenzione da dazi di vario genere. In questo contesto si colloca un episodio assai discusso dagli storici che si sono occupati di storia napoletana, vale a dire la concessione agli Amalfitani, nel maggio del 1190, di un privilegio da parte delluniversus populus, con il quale essi, in considerazione dei benefici che arrecavano alla citt con i loro traffici e le loro attivit produttive, erano ammessi a godere della stessa libert e degli stessi diritti riconosciuti ai cittadini napoletani, per cui avrebbero potuto eleggere propri consoli e dirimere davanti ad essi le loro contese sulla base delle antiche consuetudini amalfitane. Unaltra citt campana favorita da Tancredi fu Sessa, al pari di Gaeta e Napoli importante per la difesa della parte settentrionale del Regno dagli attacchi di Enrico VI. Anchessa fu dichiarata soggetta direttamente alla Corona ed ebbe la garanzia che mai sarebbe stata data in feudo n da lui n dai suoi successori. La politica filocittadina di Tancredi non sort per leffetto sperato di controbilanciare il sostegno che la maggioranza dei conti e dei feudatari si erano affrettati ad offrire allimperatore, per cui dopo la sua morte, avvenuta il 20 febbraio del 1194, lo schieramento antitedesco si sfald rapidamente e la regina Sibilla, reggente per il figlio Guglielmo III, si vide costretta a rinunciare al tentativo di contrastare sul continente il ritorno offensivo di Enrico VI e ad a-

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spettare in Sicilia larrivo dellesercito imperiale. Tra le citt che abbandonarono il fronte antisvevo ci fu anche Napoli, che nel luglio del 1194 invi ambasciatori a Pisa, dove gi era arrivato limperatore, per trattare la resa; ed effettivamente il 23 agosto si sottomise alle avanguardie dellesercito imperiale, giunte in Campania su navi genovesi e pisane, mentre Enrico VI procedeva via terra. Questo per non valse a sottrarre Napoli al destino di tante altre citt, tra cui Capua, di cui limperatore fece abbattere le mura, sia per punirle dellappoggio dato in precedenza a Tancredi sia per dare un severo ammonimento a quanti nutrissero eventuali propositi di rivincita. La sua vendetta si abbatt soprattutto su Salerno, che non solo aveva osato far prigioniera limperatrice Costanza e consegnarla nelle mani di Tancredi, ma aveva anche tentato di resistergli in occasione del suo ritorno nel Regno: la citt fu devastata, mentre gli abitanti, come racconta con un po di esagerazione lAnonimo cassinese, vennero parte uccisi, parte incarcerati, parte mandati in esilio. Fu risparmiata invece Aversa, grazie ad uno speciale privilegio imperiale. Lordine dellabbattimento delle mura di Napoli fu eseguito dal cancelliere Corrado di Querfurt, futuro arcivescovo di Hildesheim, che ne ha lasciato testimonianza in una lettera inviata al preposito del monastero di Hildesheim, nella quale, oltre a descrivere la citt e i dintorni, parla anche delle opere magiche attribuite dai Napoletani a Virgilio. Si tratta della leggenda, di origine popolare, di Virgilio mago e protettore di Napoli: leggenda che acquister forma definitiva nella cosiddetta Cronaca di Partenope, testo in volgare dei primi decenni del Trecento, ma che nel suo nucleo centrale era pienamente formata gi nel XII secolo. Racconta infatti il cancelliere, il quale non era certo uno sprovveduto, che i Napoletani attribuivano a Virgilio la costruzione delle mura, a protezione delle quali aveva posto un piccolo modello della citt racchiuso in una bottiglia dal collo strettissimo; se il palladio non aveva funzionato, perch si era prodotta una screpolatura nel cristallo che lo conteneva, come gli stessi imperiali avevano potuto constatare. N si trattava solo di questo. Sempre dalla lettera di Corrado apprendiamo che i Napoletani attribuivano a Virgilio anche un cavallo di bronzo capace di mantenere sani i cavalli, una mosca di bronzo col potere di allontanare le mosche, un macello nel quale la carne poteva mantenersi intatta per sei settimane. Inoltre, essendo le grotte ed i sotterranei della citt infestati da un gran numero di serpenti, il poeta-mago li concentr tutti sotto una porta detta Ferrea, davanti alla quale gli imperiali esitarono prima di abbatterla, temendo di liberare i serpenti che vi erano imprigionati. Virgilio pens anche a difendere Napoli dalla minaccia del Vesuvio, costruendo una statua di bronzo, che rappresentava un uomo con larco te-

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so e la freccia pronta a scoccare in direzione del monte, per tenerlo sotto controllo. Un giorno per un contadino, incuriosito da quellarco sempre teso, fece scoccare la freccia, che colp lorlo del vulcano, rimettendolo cos in attivit. Unaltra prova delle premure che Virgilio ebbe nei riguardi dei Napoletani era rappresentata dai bagni pubblici che cre a Baia e Pozzuoli, dotandoli di immagini di gesso che rappresentavano le varie malattie ed indicavano quelli adatti a ciascuna di esse. Infine Corrado dichiara di aver verificato di persona la fondatezza della credenza popolare, secondo la quale le ossa di Virgilio, custodite in un castello circondato dal mare, se vengono esposte allaria, provocano loscuramento del cielo e linsorgere di una tempesta. Se abbiamo indugiato sulla leggenda virgiliana, stato non solo perch essa consente di cogliere aspetti importanti della mentalit medievale, che non conosceva un confine netto tra favola e storia, ma anche perch essa si configura come unespressione di quel patriottismo civico che, alimentato dalle continue lotte sostenute nel passato contro Longobardi, Saraceni e Normanni, era ancora pi che mai vivo e operante, pur essendo la citt ormai da tempo inserita in un organismo politico pi grande. Il patriottismo cittadino, a sua volta, non si alimentava solo delle favole e dei ricordi del passato, ma traeva impulso anche e soprattutto dal momento favorevole che la citt stava attraversando tra XII e XIII secolo, nel contesto di una fase espansiva allora in atto in tutto il Mezzogiorno e nellEuropa occidentale nel suo complesso: fase espansiva che tuttavia non si manifestava ovunque con la stessa intensit e con lo stesso ritmo, ma che anzi provocava o accentuava le differenze economiche tra le varie aree e, al loro interno, tra le varie citt. Se non si tiene presente tutto questo, si corre il rischio di non cogliere la reale portata di scelte, che sembrano dettate dal solo calcolo politico, ma che invece hanno una maggiore pregnanza. Si vuole alludere qui alla scelta, che far in seguito Carlo dAngi, di Napoli come capitale del Regno: scelta che considerata giustamente il motivo principale del suo decollo definitivo, ma che possibile cogliere in tutta la sua portata, se si tiene presente la crescente importanza economica e politica della citt gi sul finire del XII secolo, e il suo progressivo innalzarsi su centri concorrenti, quali Capua e Salerno. quanto emerge da studi recenti di storia economica tra gli ultimi quelli di Alfonso Leone e Bruno Figliuolo , dai quali Napoli appare inequivocabilmente, a partire dallultimo quindicennio del XII secolo, come la meta preferita dei Genovesi per i loro rapporti commerciali con il Mezzogiorno continentale.

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2.5 La penetrazione nel Mezzogiorno dei mercanti stranieri


La penetrazione al Sud di operatori economici stranieri, soprattutto genovesi, pisani e veneziani, aveva acquistato una certa consistenza a partire allincirca dalla met del XII secolo e nasceva dalla convergenza di diversi fattori: linteresse degli ultimi re normanni Guglielmo I e Guglielmo II, timorosi di uninvasione del Regno da parte di Federico Barbarossa, di guadagnarsi laiuto o, per lo meno, la benevola neutralit delle repubbliche marinare italiane mediante la concessione di ampi privilegi commerciali; il desiderio, forse, di quei sovrani di incrementare il commercio dei prodotti dellagricoltura e in particolare quelli degli estesi possedimenti regi; le esigenze delle citt dellItalia centro-settentrionale, allora in piena espansione demografica, di trovare uno sbocco alla loro produzione industriale ed una base per il loro approvvigionamento, rivelandosi la produzione agricola dei rispettivi contadi sempre pi insufficiente. I Genovesi, per i loro traffici con il Mezzogiorno, mostrarono allinizio un interesse quasi esclusivo per la piazza commerciale di Salerno, ma gi a partire dal 1184 i loro occhi si vanno appuntando su Napoli, la quale appena due anni dopo compare come principale meta di viaggio nel 5,52% del totale dei contratti stipulati a Genova dagli operatori economici di quella citt, e per investimenti di una certa consistenza. Questo non significa ovviamente che Salerno sparisce dal raggio di azione dei Genovesi, ma solo che diventa uno scalo secondario, toccato in soste intermedie lungo la rotta per la Sicilia o il Nord-Africa. Lo dimostra anche il fatto che non sono attestati, pur essendo assai ricca la documentazione salernitana fino al XIV secolo, casi di Genovesi insediatisi in maniera pi o meno stabile in citt o proprietari di beni terrieri nei dintorni, contrariamente a quel che avveniva altrove, e soprattutto in Sicilia. Un ruolo analogo sembra svolgere, sul finire del XII secolo, anche Amalfi, il cui destino deve essere considerato distinto da quello delle fiorenti colonie di Amalfitani, presenti in tanti centri urbani del Mezzogiorno e della Sicilia, nei quali svolgevano un ruolo propulsivo sul piano economico e sociale. La citt campana si configura infatti sul finire del XII secolo come uno scalo, se non di natura tecnica, certamente non di primaria importanza, dove era possibile rifornirsi di prodotti del luogo (nocelle, castagne, legname) e completare cos il carico delle navi sia nel viaggio di andata sia in quello di ritorno. A ci da aggiungere che nei rapporti tra Genova e Amalfi liniziativa appare gi alla fine del XII secolo destinata a passare nelle mani dei Genovesi, che assumono progressivamente il controllo del mercato a-

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malfitano, ma senza stabilirvisi in maniera definitiva e senza tentare di inserirsi nellambiente locale. Nello stesso tempo sono documentati Amalfitani a Genova, ma essi, oltre ad essere pochi, non sempre sono certamente dediti al commercio e, in ogni caso, non lo praticano in maniera diretta con la madre-patria, apparendo piuttosto pienamente inseriti nella societ genovese e quindi nella struttura degli scambi di quella citt con gli altri mercati. Tutto quanto si detto finora per Genova vale nel complesso anche per Pisa, la quale aveva avuto nei decenni precedenti il ruolo di maggiore rilievo nellinterscambio con i centri della costa tirrenica del Regno, ma che si trovava ora su un piano di sostanziale parit con la sua rivale, talch, preparandosi alla spedizione in Italia meridionale, limperatore Enrico VI volle assicurarsi lappoggio di entrambe. In quelloccasione fu rinnovato il patto, che con Pisa aveva gi stipulato nel 1162 suo padre Federico Barbarossa in vista di una guerra di conquista, che poi non fu pi attuata. Orbene, quel patto prevedeva la concessione in feudo a Pisa della met di Palermo, Messina, Napoli e Salerno nonch della met delle entrate dei loro porti e di altre imposte, oltre che delle intere citt di Gaeta, Mazara e Trapani: condizioni, come si vede, eccezionalmente favorevoli a Pisa, che Enrico VI, una volta condotta a termine limpresa, si guard bene dal rispettare. Ma quello che preme osservare in questa sede il criterio con cui i Pisani scelsero le citt da chiedere in feudo: tralasciando quelle siciliane, la cui importanza dal punto di vista commerciale era allora da tutti riconosciuta, da notare la presenza, tra i centri della Campania, di Gaeta, Salerno e Napoli, ma non di Amalfi, per la quale evidentemente i Pisani non nutrivano pi linteresse di qualche decennio prima.

2.6 Nuova ripresa delle autonomie cittadine


I progetti espansionistici di Enrico VI in Italia meridionale, dalla quale aveva in animo di lanciarsi alla conquista dellOriente bizantino, si inserivano, come si vede, in un contesto mediterraneo in piena espansione ed avevano dei riflessi immediati sul piano economico. La morte dellimperatore nel 1197 rimise per tutto in discussione, ponendo fine a quellunione tra Regno e Impero che aveva incontrato forti resistenze nel Papato e negli ambienti ecclesiastici in generale. Leredit di Enrico VI in Italia meridionale tocc al piccolo Federico Ruggero, il futuro Federico II, sotto la reggenza della madre Costanza prima e del pontefice Innocenzo III poi. Questo per non valse ad evitare un periodo di anarchia, durante il quale il paese rimase in balia dei comandanti militari tedeschi, che rivendicavano il diritto di esercitare

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la potest tutoria sul piccolo sovrano. La Campania divenne cos il teatro delle operazioni di Diopoldo di Hohenburg, conte di Acerra, il quale aveva come basi Salerno e Acerra, e non chiaro se operassero in accordo con lui gruppi di sbandati tedeschi, che costituivano una continua minaccia per i centri abitati di Terra di Lavoro. La necessit di provvedere in proprio alla difesa fu un ulteriore stimolo allo sviluppo delle autonomie cittadine, ma anche in questa fase di rinnovata crisi del potere regio le citt continuarono a muoversi nel quadro dellordinamento monarchico. Ancora una volta lesempio pi chiaro fornito da Napoli, citt che la congiuntura politica faceva ora trovare schierata dalla stessa parte di Aversa, lantica rivale. Entrambe infatti erano esposte alle scorrerie provenienti da Cuma, diventata un vero e proprio covo di ladri e masnadieri, ed entrambe si erano schierate dalla parte del Papato contro i capi tedeschi che operavano in Campania. Matur cos il progetto di unazione comune per distruggere Cuma: progetto ritardato dallemergere di contrasti sullassetto da dare alla citt una volta conquistata. Essa infatti era appartenuta almeno fino al 1044 a Napoli, ma nel 1134 era diventata feudo di un barone aversano; allora, agli inizi del Duecento, appariva priva di un signore legittimo, ma aveva un vescovo suffraganeo dellarcivescovo di Napoli, citt nella quale si era rifugiato appunto il vescovo Leone, evidentemente perch impossibilitato dai nuovi venuti ad esercitarvi il suo ministero. Se pertanto Aversa accampava diritti in base al recente possesso di quel territorio, Napoli si richiamava a sua volta sia alla situazione dei secoli precedenti sia soprattutto alla dipendenza di quella sede vescovile dalla Chiesa napoletana: unargomentazione, questultima, da sottolineare, perch costituisce uno dei pochi esempi in Italia meridionale di rivendicazioni territoriali fatte dalle citt sulla base dei diritti giurisdizionali dei propri vescovi, mentre casi analoghi sono molto pi frequenti nellItalia centro-settentrionale. Non il caso di richiamare in questa sede i particolari della vicenda, che si concluse nel 1207 con la distruzione di Cuma da parte dei Napoletani, i quali agirono con il pieno accordo di tutte le componenti sociali (tam populus quam milites) e probabilmente anche dellarcivescovo Anselmo, il quale svolse in quegli anni un ruolo assai importante per mantenere nel rispetto della sovranit regia il regime autonomistico napoletano, di cui peraltro non si conosce per quegli anni la precisa configurazione: non sono attestati infatti n consoli n funzionari regi, ma appaiono in ruoli eminenti il conte Pietro Cottone, forse fratello di quellAligerno Cottone, che aveva sottoscritto come compalazzo il privilegio a favore degli Amalfi-

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tani, e Goffredo di Montefuscolo, parente dello stesso Pietro Cottone, grazie alla cui influenza fu nominato capitano in occasione della spedizione contro Cuma e della lotta con Diopoldo di Hohenburg. N luno n laltro ebbero per poteri assimilabili a quelli di un podest o di un signore, sembrando piuttosto larcivescovo per il momento il principale punto di riferimento della citt. Egli agiva in piena sintonia con la politica legittimistica di Innocenzo III, fermamente deciso a salvaguardare i diritti del piccolo Federico e a cacciare i Tedeschi dal Regno, tanto vero che proprio lui era stato inviato dal papa al seguito delle truppe pontificie, che il 21 luglio del 1200 avevano sconfitto in Sicilia Marcovaldo di Annweiler, il pi potente dei capi tedeschi rimasti in Italia meridionale. Lintesa tra larcivescovo e la citt non era per destinata a durare a lungo, anzi sfoci nel 1211 in lotta aperta quando Napoli per ragioni che non sono del tutto chiare, ma riconducibili probabilmente alle prime avvisaglie dei progetti di restaurazione dellautorit monarchica, manifestati dal giovane Federico appena uscito di minorit nel dicembre del 1208 gli si ribell, approfittando dellarrivo in Italia meridionale dellimperatore Ottone IV. Larcivescovo condann duramente liniziativa, lanciando contro la citt linterdetto, che successivamente fu confermato dallo stesso Innocenzo III. vero che gi nel 1213 il gravissimo provvedimento risulta revocato, probabilmente in occasione di un temporaneo ritorno dei Napoletani allobbedienza di Federico II, ma ci nondimeno lepisodio dimostra come anche al Sud, cos come accadeva nel resto dellItalia, il potere o linfluenza del vescovo potesse dispiegarsi con tutta la sua efficacia allinterno di comunit cittadine dinamiche e socialmente articolate, quale era appunto Napoli, solo nella misura in cui era in grado di tutelarne gli interessi. A tutto questo si univa una dialettica politica assai vivace allinterno della citt tra nobilt e popolo: dialettica che dato di ritrovare anche in altre comunit cittadine, le quali nelle turbinose vicende di quel trentennio si schierarono in un campo o nellaltro a seconda della fazione che riusc ad imporsi (Gaeta, Capua, Aversa, San Severo, Messina).

2.7 Citt, feudalit e potere regio in et sveva


Alla ricostruzione della monarchia si accinse Federico II subito dopo il suo ritorno dalla Germania, dove si era recato per contendere ad Ottone IV la corona imperiale, e poi da Roma, dove era stato incoronato da Onorio IV il 22 novembre del 1220. Nel dicembre seguente gi convoc infatti la curia generale di Capua, nella quale fu decisa la rivendicazione di tutti

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i diritti regi che erano stati usurpati nel trentennio precedente: fu pertanto ridimensionata la potenza dei feudatari, dei quali si decise di abbattere i castelli costruiti abusivamente, e vennero annullate le pi avanzate forme di autonomia cittadina, sulla base di un progetto politico tendente, pur nel dichiarato proposito di rispettare le buone consuetudini del tempo di Guglielmo II, a ridurre le diversit, in termini di autonomia, esistenti in precedenza tra le varie citt. Lobiettivo era quello di ricondurle tutte ad un modello unico, incentrato sul ruolo determinante del rappresentante regio, il baiulo, e su una partecipazione minima dei cittadini, i quali avevano innanzitutto lobbligo di cooperare con i funzionari regi, in particolare per la ripartizione delle imposte in sede locale. Le citt tuttavia, indicate allora comunemente con il nome di universit, non persero la loro fisionomia di organismi con una propria individualit e con esigenze particolari, essendo documentato per il Vallo di Diano che esse potevano quanto meno farsi rappresentare dal proprio sindaco nelle cause con altre universit e con persone private nonch imporre dei tributi ai propri membri, per soddisfare i loro bisogni: la costruzione di una fontana, di un ponte o di un ospedale, la pavimentazione di una strada. Una novit assoluta dellet sveva fu costituita certamente dalla partecipazione, a partire dal 1234, dei rappresentanti delle citt alle curie regionali che si tenevano due volte lanno, l1 maggio e l1 novembre. Non si trattava, beninteso, del riconoscimento di un potere consultivo o deliberativo, quanto piuttosto dellobbligo, per i nuncii delle citt, di contemplare la serenit del volto dellimperatore e riferire ai loro concittadini gli ordini da lui impartiti. Questo valeva per anche per gli esponenti della feudalit e del mondo ecclesiastico, ai quali ugualmente la volont dellimperatore si imponeva in maniera assoluta. Anzi, le rare volte in cui Federico accenna, sia pur genericamente, a decisioni prese dopo essersi consultato con altri, non manca di far riferimento, oltre che ai prelati, ai conti e agli aristocratici, anche alle citt, come in una lettera in cui fa riferimento ad alcune deliberazioni adottate nella curia di Melfi del 1231 de consilio prelatorum, comitum, procerum et multorum civium regni. Che le citt costituissero una delle realt territoriali fondamentali del Regno, dimostrato del resto dalla cura con cui limperatore volle garantirsene il pieno controllo, rafforzando i castelli in esse esistenti, soprattutto l dove la popolazione si era mostrata nel passato particolarmente irrequieta, come ad esempio a Gaeta, a Napoli e ad Aversa. N pu dirsi che le sue preoccupazioni fossero infondate, come si vide di l a poco a Gaeta, che, incoraggiata dal pontefice Gregorio IX, dal quale Federico era stato scomuni-

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cato per non aver assolto allimpegno di partire per la crociata, si ribell nel 1229 al sovrano, distruggendo il castello da poco costruito e gettandone a mare le macerie. Mandati in esilio gli esponenti del partito filoimperiale, i ribelli riconobbero il dominio del pontefice in qualit di signore feudale del Regno, ottenendone il 21 di giugno di quellanno un privilegio, con il quale si concedevano alla citt le stesse ampie libert di cui godeva Anagni, tra cui la possibilit di coniare moneta e creare giudici, notai e altri ufficiali, e con la sola imposizione di un podest forestiero, a quel che sembra di nomina papale, ma su proposta dei cittadini. E si trattava, evidentemente, di concessioni assai vantaggiose, se i Gaetani mostrarono una grandissima determinazione nel difenderle, respingendo ancora nel 1232 gli appelli del papa, che, riappacificatosi ormai con il sovrano, aveva inviato nella citt il suo cappellano, per indurla a venire a patti. In questa circostanza Napoli se ne stette tranquilla, ma altre citt seguirono lesempio di Gaeta, mostrando cos come il vigile controllo dellimperatore su tutta la vita del Regno non ne avesse fiaccato affatto la vitalit; e ci soprattutto l dove cera una tradizione di autonomia cittadina anteriore allarrivo dei Normanni, come appunto a Gaeta. Qui, come si visto, non tutti avevano aderito alla rivolta, ma alcuni avevano cercato di impedirla, pagando la loro scelta con lesilio e, probabilmente, anche con la confisca dei beni. Allorigine di essa non da escludere che ci fosse una tenace fedelt allimperatore, ma la vicenda da inserire piuttosto in quelle divisioni interne alle comunit urbane, che si portati a credere peculiari del mondo dei comuni dellItalia centro-settentrionale, ma che invece erano largamente presenti anche al Sud. Ne aveva consapevolezza lo stesso Federico II, il quale, nellordinare nel 1232 lintervento dei rappresentanti delle citt ai parlamenti generali, richiese che essi non fossero coinvolti in lotte interne.

2.8 Progettualit politica e gestione del territorio


Dopo aver ridefinito lassetto complessivo del Regno con le Costituzioni di Melfi del 1231 e mentre tentava di venire a capo della resistenza delle citt, il sovrano si preoccupava anche delle condizioni economiche del paese, con un interesse ed una continuit certamente nuovi per i regnanti del tempo: furono cos regolamentati i monopoli, le dogane e tutta lattivit mercantile, mentre gli scambi furono facilitati attraverso lapertura di nuove fiere nelle principali citt (Sulmona, Capua, Lucera, Bari, Taranto, Reggio), la vigile manutenzione delle strutture portuali esistenti, la costruzione di nuovi porti,

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il potenziamento della flotta mercantile oltre che di quella militare, ma soprattutto mediante limpegno con cui furono garantite la sicurezza delle strade e lincolumit dei mercanti. Nello stesso tempo il sovrano promosse la fondazione di nuove citt (Augusta, Gela, Altamura) e procedette al potenziamento dellapparato pubblico attraverso il reclutamento di uno stuolo di funzionari centrali e periferici tra i ceti borghesi e tra le famiglie della piccola nobilt: funzionari per la cui formazione fond lo Studio di Napoli. Basta tutto questo per parlare di totale cancellazione di ogni spazio di autonomia? Generalmente si risponde di s, ma sulla scorta degli studi di Mario Caravale prima citati siamo portati a credere che lo Stato federiciano, pur essendo indubbiamente il meglio organizzato del tempo e quello che esprimeva la pi alta progettualit politica, non fosse affatto in condizione di operare prescindendo completamente dai poteri locali, che era possibile comprimere temporaneamente, ma non cancellare del tutto. Una prova rappresentata dai giudici cittadini, i quali erano s di nomina regia, ma continuarono ad essere eletti dai cittadini e da loro proposti al re o ai suoi funzionari. Si tratta di una questione assai importante, ma la cui soluzione appariva gi chiara agli inizi del nostro secolo ad uno storico della letteratura dellUniversit di Napoli, Francesco Torraca, il quale, occupandosi di Guido delle Colonne, affront la questione dei giudici cittadini, dimostrando sulla base sia delle Costituzioni di Melfi sia di alcuni documenti che essi, dopo essere stati eletti dai cittadini, dovevano presentarsi allimperatore o a un suo delegato, muniti di lettere testimoniali dei loro concittadini attestanti la loro idoneit a ricoprire lincarico: idoneit sia di carattere morale sia relativa alla conoscenza delle consuetudini locali. Delle Costituzioni di Melfi il Torraca richiamava la 79 del libro I (De iudicis et notariis), nella quale si dice appunto che le universit demaniali debbono eleggere i giudici e inviarli cum testimonialibus litteris alla curia regia, dove saranno esaminati e ordinati, cio nominati. Si tratta chiaramente di una formula di compromesso, che salvaguardava il diritto delle citt di eleggere i propri giudici, ma anche le prerogative del sovrano, dispensatore unico della giustizia, dato che il giudice, una volta da lui nominato, agiva non pi per conto della comunit cittadina che lo aveva eletto, ma in nome dellimperatore. Lo si evince con assoluta certezza da uno dei documenti citati dal Torraca, che consente di conoscere nei dettagli tutta la procedura. Si tratta di una lettera del 1239 nella quale Federico II, rivolgendosi ai cittadini di una universit di cui non si conosce il nome, comunica di aver approvato lelezione del loro giudice, basandosi appunto sulle lettere testimoniali esibitegli

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dalleletto, e quindi di averlo immesso nella carica, esortandoli nello stesso tempo a prestargli il dovuto rispetto come a un giudice nominato dal sovrano e che agisce in suo nome. Non sempre per le cose andavano cos. Lo dimostra un mandato del 14 novembre di quello stesso anno, con il quale Federico II, dopo aver espresso al giustiziere del Principato, Tommaso di Montenero, il suo sconcerto per lelezione a giudice di Salerno di Matteo Curiale, mercante illetterato e assolutamente inadatto a tale ufficio, gli ordina di rimuoverlo dalla carica e di porre al suo posto un altro uomo, capace, fedele e sufficientemente istruito. Dal tenore del mandato si capisce chiaramente che lerrore del giustiziere, il quale aveva agito per conto del sovrano, allora a Lodi, era consistito nellaver approvato lelezione di una persona non idonea a svolgere le funzioni di giudice. Ma, qualora si avesse ancora qualche incertezza sulla questione, c un altro documento, la cui interpretazione non pu dare adito a dubbi. Si tratta di un atto notarile rogato a Canosa, in Puglia, il 4 giugno 1266, con il quale il notaio Simeone fa autenticare dal giudice e dal notaio della citt una lettera inviatagli dal giustiziere di Terra di Bari, Pandolfo di Fasanella. Con essa il funzionario regio, in esecuzione di un mandato di Carlo dAngi, gli ordina di recarsi personalmente in alcune localit per richiamare i giudici eletti dai cittadini allobbligo di presentarsi al giustiziere per essere investiti del loro ufficio: prassi, questa, che poi risulta ampiamente documentata a partire dal 1270 in tutte le province del Regno. Orbene, se si considera che dalla battaglia di Benevento (26 febbraio 1266) erano passati appena tre mesi, logico pensare che in cos poco tempo non si sia potuto mettere mano ad una riforma delle amministrazioni locali e che la prassi alla quale si richiamava Pandolfo di Fasanella fosse gi in vigore in et sveva; tanto pi se si considera che, al di l dei proclami e delle dichiarazioni ufficiali, Carlo dAngi si poneva, per quel che riguardava le prerogative del potere regio, su una linea di assoluta continuit con la politica di Federico II, per cui le novit che si ebbero progressivamente e, in ogni caso, in maniera assai lenta in et angioina nellambito delle autonomie cittadine furono fondamentalmente scelte obbligate dei suoi successori, legate alla crisi di direzione politica della dinastia. Se ancora oggi circolano al riguardo idee diverse, per la perdurante e, peraltro, meritata autorevolezza di Francesco Calasso, il quale oper una troppo rigida distinzione tra et normanno-sveva ed et angioino-aragonese, elaborando uno schema interpretativo di suggestiva efficacia, ma, come sempre accade, non del tutto aderente alla realt storica. Che Federico II non volesse e non potesse prescindere nella sua azione politica dalle realt locali, ma le considerasse, sia pur su un piano di subal-

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ternit, parte integrante della sua azione di governo, dimostrato anche dal ruolo che attribuiva alle consuetudini che ne regolavano la vita. Esse, gi confermate, come si detto, nella Curia generale di Capua, avevano un posto ben preciso nella gerarchia delle fonti del diritto codificata nelle Costituzioni di Melfi, le quali ne riconoscevano la piena validit in tutte le materie non regolamentate in maniera completa dalle costituzioni imperiali e dal diritto comune. Anzi, in qualche caso, come ad esempio a Palermo, limperatore assicur che esse sarebbero state considerate valide anche per quanto riguardava le citazioni giudiziarie e la procedura civile e penale, che pure erano state regolamentate a Melfi. Questo non impediva che i funzionari pubblici, in buona o cattiva fede, operassero tentativi di prevaricazione ai danni delle comunit locali, tentando di conculcare i loro diritti o che i castellani delle fortezze poste a presidio delle citt facessero sentire la loro presenza pi di quanto non prevedessero le costituzioni melfitane e le ripetute disposizioni regie, le quali vietavano loro ogni ingerenza nelle amministrazioni cittadine. Ma in tali casi era possibile far appello alle autorit superiori, vale a dire ai giustizieri, e allo stesso sovrano, nonch esprimere lagnanze, come si detto, in occasione delle curie regionali. Il sovrano, del resto, si muoveva instancabilmente attraverso il regno per controllare di persona che tutto funzionasse a dovere e per far sentire direttamente la sua presenza sul territorio. Gina Fasoli ha ricostruito i suoi spostamenti nella primavera del 1240 sulla base delle tante lettere e circolari che partivano dagli uffici di cancelleria, i quali si spostavano regolarmente insieme al sovrano: il 19 marzo era ad Antrodoco (Rieti), il 22 a Pescara, il 28 ad Apricena (Foggia), il 28/29 a Foggia, il 30 a Tressanti (Cerignola), il 31 a Salpi, l1 aprile a Orta, il 3 a Lucera, fra l8 e il 15 di nuovo a Foggia, il 16 a Lucera, il 17 a Celano, in Abruzzo; tra il 20 e il 27 era ancora a Foggia, il 27/28 a Orta, il 28/29 a Coronata (Apricena), l1 maggio di nuovo a Orta, il 3 a Foggia, il 26 a Napoli. Ma cerano citt per le quali aveva una particolare predilezione e alle quali attribuiva un ruolo pi importante nel contesto dellordinamento del regno? Di recente stata riproposta la vecchia tesi di Napoli come seconda capitale del regno e ad essa ne stata aggiunta anche una terza, Foggia, per cui le capitali sarebbero state addirittura tre: Palermo, Napoli e Foggia. Non crediamo che la questione possa porsi in questi termini, e ci non solo perch allo stesso titolo potrebbero legittimamente aspirare, con argomenti vari, anche altre citt e a quel punto si vanificherebbe il concetto stesso di capitale, gi peraltro discutibile nellipotesi di tre citt capitali , ma soprattutto perch lidea di capitale ci sembra fuori dellorizzonte mentale del so-

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vrano svevo, il quale mir non a concentrare ruoli e funzioni in una o in due-tre localit, ma a distribuirli sul territorio. Negli anni 1235-50 si vennero cos delineando allinterno del regno tre grandi poli: larea campana incentrata sul triangolo Capua-Napoli-Salerno, la Capitanata e la Terra di Bari con Foggia, Barletta e Brindisi, e la Basilicata con Melfi. Larea pugliese, che fu in assoluto quella pi frequentata dallimperatore, svolgeva il ruolo di polo economico del regno e, diremmo oggi, di laboratorio delle sue sperimentazioni agrarie e produttive. larea delle grandi masserie regie, cerealicole e armentizie, i cui prodotti alimentavano le speculazioni commerciali del sovrano. Questarea aveva indubbiamente quello che oggi chiameremmo il suo centro direzionale a Foggia, dove limperatore fece iniziare nel 1223 la costruzione di una sua residenza (domus) e dove avevano casa non pochi funzionari ed esponenti della curia. Nella citt inoltre si svolsero anche le curie generali del 1232 e del 1240, e nel 1238 vi furono convocati tutti i giustizieri per organizzare la riscossione della colletta generale. Foggia per non fu la sede di tutti gli organismi di governo dellarea pugliese n tanto meno monopolizz le attenzioni del sovrano, che punt invece a valorizzare anche altri centri. Cos, quando nel 1234 cre le gi citate curie regionali, per la Puglia e la Lucania fu scelta come sede Gravina e non Foggia. N pu dirsi che allora valsero considerazioni di carattere geografico, essendo Gravina in posizione pi centrale rispetto allintera area pugliese e lucana, perch una considerazione del genere non varrebbe poi per Salerno, scelta come sede per la curia regionale di Principato, Terra di Lavoro e Molise: province rispetto alle quali si trovava chiaramente in posizione molto eccentrica. A Barletta, invece, fu insediata nel maggio del 1240 la Curia dei maestri razionali, ufficio di grande importanza nel contesto dellorganizzazione dello Stato federiciano, essendo preposto al controllo dei conti di tutti i funzionari pubblici. vero che qualche anno dopo questa magistratura contabile, per meglio assolvere ai suoi compiti, fu decentrata in tre sedi, ma allufficio di Barletta rimase la competenza per le province di Terra di Bari e Terra dOtranto, mentre la Capitanata insieme alla Basilicata faceva capo alla sede di Melfi. A Barletta inoltre fu istituita la regia zecca per la coniazione delle monete doro. Per quelle dargento continu invece la produzione nella zecca di Brindisi, unaltra citt che ricevette le cure dellimperatore, soprattutto a causa dellimportanza del suo porto, dove si imbarcavano i viaggiatori e i crociati diretti in Oriente e dove venivano caricati i prodotti delle masserie regie destinati al mercato estero; venne perci potenziato il suo arsenale, al punto da poter ospitare fino a venti navi (per avere un termine di confronto, si

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consideri che il porto di Napoli, anchesso ingrandito al tempo di Federico II, ne poteva contenere tra sei e otto). La Basilicata, con i vari castelli, palazzi e residenze per la caccia, si configurava nella mente di Federico come il polmone verde del regno, il luogo del riposo e dello svago. Il centro pi importante era certamente Melfi, sede, come si detto, della Curia dei maestri razionali per la Capitanata e la Basilicata, oltre che luogo in cui vennero promulgate le famose Costituzioni del 1231. La Campania, infine, appariva come il polo culturale del regno, larea che, per essere prossima alla frontiera con i domini pontifici, era anche la pi adatta ad ospitare le rappresentazioni simboliche del potere. Questo ruolo non era assegnato per ad una sola citt, ma almeno a tre: Capua, Napoli e Salerno. Capua, con la sua famosa porta carica di significati simbolici e con le sue tradizioni culturali, soprattutto in ambito retorico-letterario, peraltro valorizzate proprio da esponenti di rilievo della corte federiciana, primo fra tutti Pier delle Vigne, fu anche la sede delle Assise del 1220 e la citt nella quale, dopo Foggia, limperatore risiedette pi di frequente. Salerno era nota come centro di cure mediche fin dallXI secolo, e proprio nei primi decenni del Duecento vi si form la famosa Scuola medica attraverso lunificazione di precedenti scuole private di medicina, frequentate da studenti che venivano anche dallestero: operazione che avvenne probabilmente per impulso dello stesso sovrano, il quale rese obbligatorio lesame davanti ai maestri di medicina salernitani per coloro che aspiravano ad ottenere dalla curia regia lautorizzazione allesercizio della professione medica. Forse fu proprio per il suo prestigio culturale, e nonostante la sua posizione geografica non adatta, che la citt, come si detto pocanzi, fu scelta a sede della curia regionale per le tre province di Principato, Terra di Lavoro e Molise, rispetto alle quali era Napoli ad essere collocata in posizione pi favorevole. Infine Napoli, sede dello Studio e di due importanti conventi mendicanti, quello di S. Domenico e quello minoritico di S. Lorenzo, entrambi dotati di uno Studio teologico, nel primo dei quali studi probabilmente Tommaso dAquino, nonch citt che si gloriava di annoverare tra i suoi protettori non solo martiri e confessori famosi, ma, come si visto, anche Virgilio, la cui leggenda di mago e di nume tutelare di Napoli doveva certamente essere nota negli ambienti della corte sveva, fortemente sensibili al fascino della romanit. Napoli, infine, era la citt nella quale Federico II volle farsi rappresentare nel ruolo al quale egli attribuiva maggiore importanza, quello di dispensatore della giustizia.

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Come si vede, funzioni e ruoli distribuiti tra i maggiori centri della regione e non concentrati in un solo luogo: un modello molto diverso rispetto a quello che poi si sarebbe imposto a partire dal secolo seguente e che in prosieguo di tempo avrebbe portato ad un grandioso sviluppo di Napoli ed al concentramento in essa di una parte notevole delle risorse economiche e culturali del regno. Gli storici ritengono per lo pi che queste misure siano state in parte vanificate da un esasperato fiscalismo, che mirava ad accrescere le entrate dello Stato, per permettere al sovrano di condurre una politica di potenza in Italia centro-settentrionale, estranea agli interessi del paese; si tratta per di una valutazione, per la quale assai difficile trovare un convincente riscontro nelle fonti del tempo, le quali registrano s le lamentele dei sudditi per il notevole carico fiscale, ma non forniscono elementi per capire se esso fosse oggettivamente insopportabile o se non si trattasse piuttosto della comprensibile resistenza di fronte alla novit di un apparato statale, capace di fornire sul piano dellordine interno, dellamministrazione della giustizia e del sostegno alle attivit economiche servizi per quantit e qualit fino ad allora sconosciuti in Occidente e quindi pi costosi per i contribuenti. In ogni caso, quella delle citt del regno svevo era la condizione normale dei centri abitati che si trovavano allinterno dei maggiori organismi politici del tempo (regni, principati e stati territoriali in generale); il che non imped ad alcuni di essi (si pensi, ad esempio, a Barcellona e a Marsiglia) di conseguire un notevole rilievo sul piano economico.

2.9 I progressi dellagricoltura meridionale


Una diversa valutazione rispetto a quella tradizionalmente prevalente tra gli storici merita anche la politica commerciale di Federico II, al quale si rimprovera di aver contribuito in maniera decisiva a dare alleconomia del Sud unimpronta di tipo coloniale, da un lato promuovendo nelle masserie regie non solo la coltivazione dei cereali, ma anche quella della vite, dellolivo e degli alberi da frutto, e dallaltro favorendo lapertura del paese agli operatori stranieri, in particolare toscani, genovesi e veneziani, rendendo cos il paese dipendente dallesterno sia per il rifornimento dei prodotti dellindustria e dellartigianato sia per la collocazione sui mercati esteri del grano e degli altri prodotti dellagricoltura. In realt, ad un esame pi attento, il disegno di quel sovrano si rivela in tutta la sua grandiosit e preveggenza, finalizzato comera ad inserire il regno in quel grande spazio economico euromediterraneo dellOccidente, che, come ha osservato Mario Del Treppo, si

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stava allora formando attraverso la disponibilit di capitali e il bagaglio di conoscenze tecniche, geografiche e ambientali dei mercanti dellItalia centrosettentrionale. In quello spazio, nellambito del quale venivano facilmente valicati i confini politici e si realizzava lintegrazione delle aree economiche regionali, il Mezzogiorno venne a configurarsi come fornitore di materie prime agricole e importatore di prodotti lavorati esteri, ma questo non dipese dalla politica di Federico II, quanto piuttosto dal diverso potenziale produttivo dei paesi mediterranei. Merito di quel sovrano fu invece quello di aver accresciuto il peso del regno nel contesto internazionale e di aver stimolato leconomia locale, favorendo il potenziamento di quelle colture che alimentavano le pi significative correnti di traffico. Tra queste un posto di primo piano occupavano certamente i grani, e il frumento soprattutto, per la cui esportazione erano necessarie apposite licenze, dette tratte, che costituiranno sempre unentrata essenziale per lo Stato. Come noto, la sua importanza nellagricoltura e nelle abitudini alimentari delle popolazioni urbane e rurali del Mezzogiorno si era mantenuta sostanzialmente immutata anche nei secoli dellAlto Medioevo, durante i quali nel resto dellItalia si era avuto invece, non solo un arretramento della cerealicoltura di fronte alleconomia di tipo silvo-pastorale, ma anche un deciso sopravvento dei cosiddetti grani inferiori (segala, spelta, orzo, miglio, panco, sorgo). Ma gi a partire dallXI secolo la sua produzione era in crescita particolarmente in Puglia e in Sicilia, aree con maggiore vocazione alla cerealicoltura, sotto la spinta dellincremento demografico e del conseguente fabbisogno alimentare nonch della richiesta dei mercanti pisani, genovesi e veneziani, ai quali si aggiungeranno poi fiorentini e catalani. Si trattava di un fenomeno di lungo periodo, che non si vede come un sovrano del Duecento potesse o dovesse contrastare. La scelta pi saggia non poteva non essere invece quella di sfruttarlo nellinteresse non solo dello Stato, del quale concorreva ad accrescere sia le entrate fiscali sia quelle prodotte dalle sue aziende agrarie, ma anche dei produttori privati. Che Federico II avesse una visione ampia del problema, dimostrato anche dal fatto che il suo sostegno and nello stesso tempo allincremento quantitativo e qualitativo di altri prodotti dellagricoltura meridionale, che attiravano al Sud i mercanti stranieri. Tra essi innanzitutto le castagne, le nocciole, il vino e lolio. Per quanto riguarda le prime, proprietari e coltivatori della zona tra Cava e Salerno appaiono gi nellXI secolo impegnati ad aumentarne la produzione e a migliorarne la qualit attraverso la selezione di quelle migliori e la loro propagazione per innesto, come emerge chiaramente dai sempre pi numerosi contratti agrari, nei quali le operazioni da svolgere per linnesto

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vengono descritte con minuziosit e precisione; da essi risulta che verso la met di quel secolo erano state gi individuate tre variet: le zenzale, destinate a conseguire una grande rinomanza per la loro dolcezza, le robiole e le granacce. Un aumento della produzione ed un incremento della qualit si riscontrano, sia pur con il ritardo di un secolo, anche in altre due aree della Campania: la Costiera amalfitana e lIrpinia. Nella prima, in particolare, possibile cogliere attraverso i patti agrari una grande trasformazione del paesaggio agrario, che vide lintroduzione, prima, delle colture arboree, e della vite in particolare, e poi, a partire dalla seconda met del XII secolo, quella del castagno, che in qualche luogo giunse anche a prendere il posto della vite. I contratti prevedevano sia in Costiera sia nella zona di Cava che il coltivatore cedesse al proprietario del terreno la met delle castagne secche e che lessiccazione fosse fatta ad gratem, vale a dire su un graticcio collocato probabilmente sotto la cappa del camino. Tuttavia agli inizi del Duecento nei documenti di Cava si fa spesso menzione del palearium, in cui il concessionario doveva raccogliere ed essiccare le castagne e che appare come una normale dotazione del fondo, unitamente allarea in cui si raccoglieva il frumento e al palmentum in cui si produceva il vino. Probabilmente il palearium, un locale fatto di legno e frasche, di cui dovevano essere dotati solo i coltivatori che avevano un raccolto pi abbondante, aveva una struttura simile alla grat della Valtellina, una piccola baita, a met altezza della quale era collocato un graticcio su cui veniva disposto uno strato di castagne; sul pavimento vi era un braciere in cui ardevano ceppi e bucce secche, che producevano molto calore e fumo, provocando cos lessiccazione delle castagne, che venivano poi sbucciate mediante la battitura con una mazza chiodata. Orbene, che le castagne secche prodotte in Costiera fossero in buona parte destinate al mercato, dimostrato dal fatto che alcuni proprietari chiedevano che la parte del raccolto loro spettante fosse consegnata dal coltivatore vicino al mare, anche se il luogo di produzione si trovava alquanto distante. Del resto, che se ne facesse un intenso commercio confermato anche dalle istruzioni di Federico II ai gestori dei fondachi dei porti di Siponto, di Napoli e della Sicilia (12 agosto 1231), nelle quali le castagne accanto a nocciole, noci e mandorle, altri prodotti tipici dellagricoltura campana sono esplicitamente menzionate insieme ad altri frutti, sui quali gravava un dazio di esportazione di un tar a salma. E infatti le Pratiche di mercatura del Trecento menzionano spesso le castagne sia secche sia fresche nonch la stessa farina di castagne, prodotti che venivano immessi sul mercato di Napoli non solo e non tanto per il consumo locale, quanto piuttosto per essere esportati verso il

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Nord-Africa e il Medio Oriente, che fin dagli anni intorno al Mille costituivano uno sbocco tradizionale della produzione agricola campana. Nella prima met del Trecento il Balducci Pegolotti indica Tunisi, Costantinopoli, Acri di Siria e Alessandria come mercati delle castagne campane oltre che di noci e nocciole, ma quantitativi non irrilevanti partivano da Napoli, da Gaeta e dai porti minori anche in direzione di Genova, Pisa, Firenze e delle citt della costa spagnola, in questultimo caso ad opera di navi maiorchine. Per quanto riguarda le nocciole, a quel che si detto finora da aggiungere che la coltivazione di esse era particolarmente diffusa in Campania sia nella valle di Cava sia nella zona vesuviana, in alcuni centri della quale (Marigliano, Nola, Palma) ancora oggi costituisce la nota dominante del paesaggio agrario. Se si considera che dalle sole terre dipendenti dallabbazia della SS. Trinit di Cava se ne raccoglievano a met del Duecento ben mille quintali, si comprende come esse figurassero addirittura al primo posto nellelenco dei prodotti che le navi di Gaetani, Napoletani, Sorrentini, Amalfitani, Ischitani, Calabresi, Siciliani, Pisani, Genovesi e Romani venivano a caricare nei porti di Vietri e Cetara. Rispetto alle castagne e alle nocciole, gli agrumi alimentavano correnti di esportazione decisamente minori, ma ci nondimeno essi uscivano dallambito puramente locale. Cedri, limoni, aranci amari (detti cetrangoli; quelli dolci si diffonderanno solo alla fine del Quattrocento) divennero nel corso del XIII secolo sempre pi presenti sia allinterno delle citt sia nelle zone circostanti, oltre che in Sicilia, anche lungo le coste della Puglia e della Campania, ed in particolare nella Costiera amalfitana, alla quale conferirono un aspetto rimasto praticamente immutato fino ai nostri giorni. La diffusione della coltivazione degli agrumi diede vita a Trani alla consuetudine del lancio, da parte dei giovani, di arance nei giorni di carnevale: consuetudine di cui si ha conoscenza per il fatto che nel 1270 il gioco degener in rissa e nel lancio di pietre (ma linconveniente, prima e dopo quellanno, dovette essere tuttaltro che raro).

2.10 Produzione e commercio del vino e dellolio


Unaltra pianta tipica dellagricoltura meridionale era la vite, oggetto di attente cure da parte dei proprietari fondiari e dei coltivatori gi prima del Mille, quando appare assai diffuso il contratto di pastinato che, prevedendo alla scadenza contrattuale lassegnazione al colono di una parte del terreno sottoposto a miglioria, diede un contributo fondamentale alla diffusione della piccola propriet contadina proprio nelle zone pi vicine alle citt e ai cen-

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tri abitati in genere, in cui i vigneti erano pi concentrati, al punto da dar vita in non pochi casi a vere e proprie colture specializzate. Fino a tutto lXI secolo probabile che solo una piccola parte del vino prodotto fosse destinata al commercio, ma gi fra XI e XII secolo la situazione doveva essere in parte cambiata, per effetto dellaumento della popolazione urbana e della sua maggiore articolazione interna, che facevano delle citt qualcosa di molto diverso rispetto alle comunit di piccoli e medi proprietari terrieri dellAlto Medioevo, i quali producevano direttamente il vino di cui avevano bisogno. Certo che nel corso del Due-Trecento la fornitura di vino al mercato cittadino fu uno dei problemi pi scottanti che rendevano agitata la vita delle citt, inserendosi lo si vedr pi avanti nel contesto delle lotte sociali per la conquista e la gestione del potere locale. Il fatto che leconomia del Mezzogiorno stava vivendo, a partire dalla prima met del Duecento, ma con ritmo sempre pi intenso nei secoli seguenti, un generale processo di commercializzazione, che coinvolse quasi ogni angolo del paese, alimentando unintensa circolazione non soltanto di prodotti di lusso e dellartigianato, ma anche di generi alimentari e di prima necessit, che erano di produzione pressoch generale. Tra questi figura anche il vino, che viaggiava non soltanto per mare ma anche per le strade dellinterno, e ci nonostante gli ostacoli frapposti dai produttori locali, che cercavano di impedire lingresso in citt di prodotti forestieri. Nel Due-Trecento una quota consistente della produzione vinicola meridionale fu destinata al commercio estero, soddisfacendo la richiesta di un vasto mercato che andava dallInghilterra al mare dAzov e comprendeva la stessa Francia, i cui vini della Linguadoca e di Provenza gi godevano di grande rinomanza nel corso del Quattrocento. Gli autori di questinserimento del vino meridionale in un circuito nazionale e internazionale furono inizialmente, ma in piccola misura, gli Amalfitani, presenti in Africa e a Costantinopoli fin dalla fine del X secolo, ai quali si sostituirono nel corso del Duecento operatori economici forestieri, via via pisani, genovesi, marsigliesi, catalani e soprattutto fiorentini, che furono in grado, a partire dagli inizi del Trecento, di gestire operazioni di grossa portata. Prima ancora per che la loro penetrazione nel Sud diventasse assai massiccia, il vino costituiva uno dei prodotti che alimentavano le speculazioni commerciali del primo sovrano angioino, oltre che tutto lo lascia credere di Federico II, sembrando arduo pensare che nel 1268, a soli due anni dalla conquista del Regno e mentre era ancora in atto la repressione della rivolta provocata come si vedr pi avanti dalla discesa di Corradino, Carlo dAngi avesse il tempo e la voglia di impiantare dal nulla non solo lo sfruttamento di vigne re-

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gie, ma anche la commercializzazione allestero dei loro prodotti. Infatti per il 1242 o 1243 siamo informati dellarrivo ad Alessandria della nave Mezzo Mondo, che oltre ad un ambasciatore di Federico II aveva a bordo un grosso carico di vino, nonch di olio, cacio, miele e altre derrate alimentari. Da un rendiconto finanziario di Matteo Rufolo di Ravello, titolare della secrezia e della portolania di Puglia dal settembre del 1268 allagosto del 1269, apprendiamo inoltre che fu allestita nel porto di Brindisi una nave regia, la Sancta Cecilia, per il trasporto e la vendita fuori del regno di vino ed olio, prodotti dalle masserie regie o comprati sul mercato locale. Oltre che nei porti pugliesi il vino veniva caricato anche lungo le coste campane, dove importanti centri di imbarco erano Castellammare di Stabia e Torre del Greco, ma soprattutto Napoli, principale porto vinicolo del Mediterraneo, dove affluiva non soltanto il famoso vino greco delle adiacenti zone vesuviane, ma anche quello della Costiera sorrentina e amalfitana, di Salerno, del Cilento, destinato ad un mercato che nei primi anni del Trecento andava da Parigi a Costantinopoli, e comprendeva Maiorca, Tunisi, Marsiglia, Genova, Pisa, Firenze, Rodi, Cipro, la Siria: mercato che solo in maniera marginale poteva essere turbato dai consueti atti di pirateria, che non risparmiavano neanche il vino. Sappiamo cos di corsari pisani che catturarono nel 1271 una nave napoletana carica di vino e di corsari genovesi che nel 1283 fecero lo stesso con una nave pisana o amalfitana diretta a Porto Pisano. La continuit di questo movimento commerciale del porto napoletano pu essere esemplificata da due dati di natura quantitativa: il 19 giugno 1248 due mercanti marsigliesi noleggiarono da Napoli a Marsiglia ben 425 barili; in occasione del maremoto del 25 novembre 1343, come ci informa Giovanni Villani, la violenza del mare trascin via dai magazzini botti di vino e quantit di nocciole del valore di pi di duecentomila fiorini. Una parte della produzione della Calabria, in piena crescita fin dallXI secolo, confluiva invece nei porti di Scalea, Tropea e Crotone, e tutto lascia credere che questo avvenisse gi nella prima met del XIII secolo, se non anche nel secolo precedente, essendo documentata fin dallXI secolo la commercializzazione di vino prodotto dalle terre al confine tra Calabria e Lucania. Da Scalea, comunque, sappiamo per certo che nel 1278 il vino arrivava a Tunisi, mentre per Tropea siamo informati della partenza, nella primavera del 1396, di ben 550 botti, pari a hl 1.760, alla volta di Pisa (e di qui a Firenze), ma anche di Genova, della Provenza, della Linguadoca, di Barcellona, Valenza, Palma di Maiorca, Londra e Bruges. Apprezzati erano anche i vini delle zone di Potenza (fin dal tempo del viaggiatore arabo Idrisi, a met del XII secolo), di Melfi e Rapolla (fine XIII secolo) in Lucania, ma non possibile dire se fossero espor-

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tati e da quale porto. Vini siciliani di Messina, Palermo, Patti, Siracusa sono documentati tra Due e Trecento a Tunisi, Malta, Acri, Costantinopoli. Un altro prodotto dellagricoltura meridionale in piena crescita fin dallXI secolo e che aliment gi nel secolo seguente un crescente movimento commerciale allinterno del regno e verso lestero fu lolio, la cui esportazione, al contrario del vino, avvenne solo da alcune aree ben determinate: da Gaeta (fin dal 1129 per Costantinopoli, Cipro, Tunisi), da Napoli (per Costantinopoli, Cipro, Bugia), ma soprattutto dalla Puglia, la cui ricchezza gi nel 1070 veniva individuata nella sua produzione di frumento, vino e olio. Il migliore era considerato quello della Terra di Bari, che veniva imbarcato nei porti di Barletta, Molfetta, Giovinazzo, Bari, Brindisi, da cui raggiungeva un mercato coincidente praticamente con lintero Mediterraneo, dato che si estendeva da Maiorca, Tunisi e Bugia a Costantinopoli, passando per Maiorca, Genova, la Sardegna, Alessandria dEgitto, Venezia, Ragusa, Rodi, Creta, Cipro, Acri. Nel porto di Bari nel 1051 and a fuoco una nave carica di olio, diretta a Costantinopoli. Limportanza che allolio e al vino pugliesi attribuiva Venezia dimostrata dal trattato che impose nel 1234 a Ravenna, per garantirsene il monopolio della distribuzione in tutta larea padana. Nel corso del Quattrocento lolio pugliese arriver anche a Londra, a Bruges, a Parigi e nei mercati del Mar Nero, quello campano raggiunger dai porti di Gaeta e di Napoli il Mare del Nord.

2.11 Una lucida capacit di programmazione


Se, parlando dei prodotti dellagricoltura in et sveva, abbiamo anticipato sviluppi dei secoli successivi, stato per mostrare come il Mezzogiorno fosse allora certamente in una fase di crescita e come gli operatori stranieri, che gi vi erano da tempo inseriti e che vi si inseriranno in maniera via via pi sistematica, erano diventati, con i loro acquisti di derrate alimentari, un fattore propulsivo nelleconomia del paese, per cui nelle citt pugliesi la loro assenza, in coincidenza con le difficolt di alcune congiunture politiche, determinava un crollo sia dei prezzi dei prodotti agricoli sia degli affitti. Un elemento significativo della politica economica di Federico II erano le masserie da lui create e gestite attraverso maestri massari in varie zone del Mezzogiorno, e soprattutto in Puglia. Esse, diversamente da quello che si continua stancamente a ripetere, non erano caratterizzate sempre e dovunque dalla monocultura cerealicola, la quale era piuttosto una scelta legata al contesto ambientale. Inoltre avevano unit e razionalit di gestione, erano basate sullimpiego di manodopera salariata e producevano

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per il mercato. Tutto questo nel linguaggio corrente e in quello scientifico si chiama capitalismo. comprensibile che appaia arduo coglierne i primi esempi nella cosiddetta economia dominata del Mezzogiorno medievale, ma non vedo come si possa negare il carattere capitalistico delle masserie regie fondate da Federico II. Naturalmente nessuno avrebbe imbarazzo nel riconoscerlo, se la storia del Mezzogiorno in et moderna fosse stata diversa da quella che stata e la sua economia avesse registrato un deciso sviluppo in senso capitalistico: tutti sarebbero concordi, in tal caso, nellosservare che le lontane premesse della crescita del Paese erano da cercare nella politica economica di Federico II, che poi Carlo dAngi si guarder bene dal sovvertire. Non solo infatti non smantell le masserie impiantate dallimperatore svevo, ma cerc di trarne il massimo profitto, estendendone la superficie, creandone di nuove e inasprendo le norme che ne regolavano la gestione, tra le quali quelle relative al falso in bilancio e al conflitto di interessi. Non ci sembra perci che abbia forzato la realt dei fatti Mario Del Treppo, quando ha individuato nella sua politica economica una notevole capacit di programmazione. In ogni caso i problemi con cui egli si trov alle prese sarebbero diventati di l a poco quelli di tutti i monarchi europei, i quali, come stato osservato da Giuseppe Petralia, dovevano necessariamente ricorrere al sostegno dei servizi e delle attivit commerciali di mercanti e banchieri toscani, per uno sfruttamento il pi possibile vantaggioso di quelle risorse economiche, produttive e finanziarie dei loro regni, sulle quali fondavano ogni opportunit di efficace azione politica e militare. A questo da aggiungere che limperatore non intese mortificare affatto gli operatori locali, ai quali si aprirono anzi in et sveva due nuovi campi di attivit: da un lato, infatti, essi vennero ad occupare le posizioni che si aprivano tra mercanti stranieri e produttori locali, soprattutto i grandi signori fondiari laici ed ecclesiastici; dallaltro ebbero la possibilit di mettere le loro capacit ed i loro capitali al servizio dello Stato, assumendo lappalto dei vari tipi di imposte introdotte dal sovrano svevo e versandone alla monarchia le entrate prima ancora che venissero riscosse. Il collegamento tra Corona e borghesia mercantile, al quale Federico II mir soprattutto nellultimo quindicennio del suo lungo regno e che si realizz appieno al tempo di suo figlio Manfredi (1258-66), si coglie assai bene attraverso le vicende della famiglia della Marra che, originaria di Ravello, aveva spostato il suo campo di attivit in Puglia, fissando la sua residenza a Barletta. Il primo a mettersi al servizio dello Stato era stato Angelo, il quale, pur continuando a svolgere la sua professione di banchiere, fu procuratore ed e-

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secutore dei nova statuta per la Campania, appaltatore della gabella della seta per la Calabria, amministratore del tesoro e infine capo della Camera dei maestri razionali (una specie di moderna Corte dei conti). I figli seguirono le sue orme: Iozzolino fu maestro razionale prima di Manfredi e poi di Carlo dAngi, mentre il fratello Riso, dopo essere stato secreto in pi province, divenne tesoriere alla corte del predetto Carlo. Analoga lesperienza di Giacomo Rogadeo, anchegli originario di Ravello, ma trapiantato a Bitonto, il quale, dopo essere stato maestro procuratore e portolano di Puglia negli anni 1261-63, fu sotto la dinastia angioina vicesecreto di Abruzzo (1270), secreto di Puglia insieme a Berardo Maramuli di Napoli, Giacomo Pallino, Ursone Scazato di Scala e Ursone Bembo di Amalfi (1279-80), maestro portolano di Terra dOtranto (1285-86) e infine maestro della zecca di Messina (1291). Orbene, se si scorre lelenco dei funzionari dellamministrazione finanziaria negli ultimi anni di Federico II e in quelli di suo figlio, si nota come essi fossero nella stragrande maggioranza amalfitani (nel senso di originari del Ducato di Amalfi, e quindi anche ravellesi e scalesi), seguiti da Salernitani, Capuani e Pugliesi (di Bari, Trani, Barletta, Siponto, Manfredonia); il che mostra chiaramente come non sia legittimo parlare di un generalizzato atteggiamento antisvevo degli Amalfitani. In realt questi, diventando sempre pi corto il respiro della loro attivit commerciale per effetto della concorrenza straniera, gi dagli anni trenta del XIII secolo avevano individuato nellappalto degli uffici finanziari un campo di attivit che prometteva facili e lauti guadagni. Il cambio di dinastia, da questo punto di vista, non comport nessun trauma, come mostra il comportamento dei figli di Angelo della Marra, prima menzionati. In seguito la situazione in parte cambier e questi due campi di attivit tenderanno a restringersi, perch i mercanti stranieri penetreranno anche nellinterno e anzi cercheranno di assumere il controllo diretto della produzione, acquisendo feudi e beni terrieri, e radicandosi nelle realt locali, dove si dedicheranno anche al commercio al minuto. Nello stesso tempo si sostituiranno ai regnicoli nel ruolo di funzionari-banchieri, avendo una disponibilit di capitali, che consentiva loro di anticipare alla monarchia somme pi elevate. quello che speriment Carlo dAngi, il quale allinizio del suo regno fece un sistematico ricorso a prestiti, spesso forzosi, di mercanti locali e di piccoli risparmiatori, e ci non soltanto in citt di antica tradizione commerciale, come Napoli, Salerno, Amalfi, Ravello, Scala, Atrani, Sorrento, Gaeta, Bari e altre citt della costa pugliese, ma anche in centri quali Gragnano, Tramonti, Altavilla Irpina, Venafro, Sessa Aurunca, Avellino. Le sin-

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gole quote rastrellate dalla Regia Curia, che venivano regolarmente rimborsate, andavano da pochi tar (cinque ne diedero nel dicembre del 1270 alcuni abitanti di Conca dei Marini, presso Amalfi) alle trenta-quaranta once dei mercanti amalfitani, e complessivamente dovevano formare importi di una certa entit, insufficienti per a far fronte ai bisogni dello Stato, considerate anche la lentezza e la dispendiosit della raccolta, laddove dai mercanti-banchieri forestieri era possibile ricevere subito grosse somme. La penetrazione degli operatori economici stranieri anche nelle zone dellinterno e la loro sostituzione ai locali nel ruolo di finanziatori dello Stato sono tuttavia sviluppi successivi, non riconducibili alla responsabilit di Federico II, e per giunta non ebbero effetti catastrofici sulla vita delle popolazioni meridionali, come si continua a ripetere stancamente. Il fatto che per let angioina, oltre che per quella sveva, non abbiamo una documentazione che permetta di cogliere il tipo di attivit, che svolgevano nel Mezzogiorno gli operatori stranieri, con la stessa chiarezza con cui ha potuto farlo Mario Del Treppo per let aragonese, durante la quale ha dimostrato che i mercanti-banchieri toscani esercitavano un forte stimolo sulleconomia locale, coinvolgendo nelle loro attivit un gran numero di uomini di affari e di imprenditori meridionali. Se per ci si libera dal pregiudizio, di carattere ideologico, dello sfruttamento coloniale del Nord industrializzato ai danni del Sud sottosviluppato, si potr cogliere la realt pi autentica di un Mezzogiorno, fatta di luci ed ombre, come del resto accadeva in tante altre realt dellEuropa del tempo, ma certamente non sentita n dai regnicoli n dai contemporanei come una condizione di arretratezza. Non solo, ma si potr anche capire meglio perch il controllo dellItalia meridionale fosse ambito dalle maggiori potenze europee e perch le entrate della Corona suscitassero linvidia dei governanti del tempo. Chi aveva contribuito in maniera decisiva a creare unorganizzazione finanziaria e fiscale capace di ricavare il massimo dalla ricchezza del paese era stato Federico II, il quale per si preoccup nello stesso tempo di potenziare lorganizzazione dello Stato nel suo complesso, puntando sul coinvolgimento del ceto borghese per il funzionamento non solo degli uffici finanziari, ma anche della cancelleria e degli organi centrali in generale, e lasciando alla piccola aristocrazia le funzioni di carattere militare e giurisdizionale nonch le cariche ecclesiastiche. Certo, non tutto riusc secondo i suoi desideri, e forse pretese troppo dai suoi sudditi e collaboratori, ma da considerare inaccettabile lopinione di chi ha considerato la sua politica apportatrice pi di danni che di vantaggi per il Mezzogiorno.

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