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Ulteriore casistica giurisprudenziale in tema di responsabilità

RISARCIMENTO DEL DANNO DA SCORRETTO ESERCIZIO DELLA DIREZIONE E


COORDINAMENTO E LA TEORIA DEI VANTAGGI COMPENSATIVI
(Appunti)

1. Generalità - 2. Le societa' o gli enti che... -3.... Esercitando attività di direzione e coordinamento
di società...- 4. Agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui... - 5. Natura della
responsabilità e significato della violazione dei principi di corretta gestione societaria ed
imprenditoriale - 6. Come funziona la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c.? Che significa "solo
se"? 7. Competenza in caso di fallimento 8. Interesse e legittimazione ad agire.- 9. Onere della
prova -10. La teoria dei vantaggi compensativi- 11. La teoria dei vantaggi compensativi nella
giurisprudenza civile - 12. La teoria dei vantaggi compensativi nella giurisprudenza penale

1. Generalità
Art. 2497 c.c.
1. Le societa' o gli enti che, esercitando attivita' di direzione e coordinamento di societa', agiscono
nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione
societaria e imprenditoriale delle societa' medesime, sono direttamente responsabili nei confronti
dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditivita' ed al valore della partecipazione
sociale, nonche' nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrita' del
patrimonio della societa'. Non vi e' responsabilita' quando il danno risulta mancante alla luce del
risultato complessivo dell'attivita' di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato
anche a seguito di operazioni a cio' dirette.
2. Risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio
conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio.
3. Il socio ed il creditore sociale possono agire contro la societa' o l'ente che esercita l'attivita' di
direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla societa' soggetta all'attivita' di
direzione e coordinamento
4. Nel caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria di
societa' soggetta ad altrui direzione e coordinamento, l'azione spettante ai creditori di questa e'
esercitata dal curatore o dal commissario liquidatore o dal commissario straordinario

- Dall'attività di direzione e coordinamento possono derivare responsabilità nei confronti dei soci e
responsabilità nei confronti dei creditori sociali
- In entrambi i casi si tratta, in prima battuta (art. 2497, comma 1, c.c.), di una responsabilità della
società e non degli amministratori persone fisiche, a differenza di quanto previsto dall'art. 90 D.Lgs.
270/99
- La responsabilità prescinde dal fatto che la situazione di direzione e coordinamento sia stata resa
pubblica ai sensi dell'art. 2497 bis c.c., è necessario solo che vi sia la direzione e coordinamento,
anche in fatto, e che queste siano state condotte con violazione dei principi di corretta gestione
societaria ed imprenditoriale.
- E' difficile verificare in concreto la violazione di questi principi di corretta gestione
imprenditoriale, anche perché le scelte imprenditoriali non sono mai sindacabili nel merito. Ogni
volta bisogna sforzarsi di distinguere quelle che sono le conseguenze derivanti dalla normale alea di
ogni attività d'impresa e quelle che sono le conseguenze dannose derivanti dalla mancanza
colpevole di diligenza e dal mancato rispetto di regole di buona amministrazione
- Il danno per il socio riguarda il valore della sua partecipazione sociale, il danno per il creditore
sociale la lesione dell'integrità patrimoniale. Il danno per il creditore sociale sostanzialmente
coincide con quello dell'art. 2394, con la particolarità che, in virtù dell'art. 2497, comma 3, c.c.,

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l'attore, cioè il creditore sociale, non deve provare l'insufficienza patrimoniale, bastando che
dimostri di aver preventivamente richiesto il pagamento del proprio credito alla debitrice e di non
averlo conseguito o potuto conseguire.
- L'ultimo comma dell'art. 2497 c.c. attribuisce il potere di azione al curatore fallimentare in caso di
fallimento della controllata
- Il problema vero riguarda la tutela del socio per la diminuzione o azzeramento della sua
partecipazione sociale, vale a dire la tutela dello shareholder value. Sotto questo profilo, l'art. 2497
c.c. costituisce un'innovazione del sistema perché non prevede il risarcimento del danno a favore
della società né prevede il risarcimento del danno a favore del socio per un danno diretto al suo
patrimonio come fal'art. 2476, comma 6, c.c. nelle società a responsabilità limitata. Qui, non si
risarcisce la società, ma il socio per il danno riflesso.
- Novità (apparente) dell'introduzione della teoria dei vantaggi compensativi. Va precisato che
l'onere di allegazione e prova dei benefici indiretti connessi ai cd. vantaggi compensativi e la loro
idoneità a bilanciare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta,
grava su chi sia stato convenuto nell'azione di responsabilità
- Vaghezza della nozione di vantaggi compensativi, sotto il profilo temporale. Differenza rispetto
all'art. 2634, comma 3, c.c., dove la responsabilità penale è esclusa se i vantaggi compensativi sono
prevedibili all'inizio dell'operazione, mentre ai fini dell'esenzione civilistica è necessario che gli
stessi siano concretamente realizzati.
- Ravvedimento operoso, esercitabile finché la causa non sia stata decisa
- L'azione del socio non si può dirigere contro la propria società perché vige il principio della
postergazione del suo credito restitutorio alla soddisfazione dei creditori sociali. Il patrimonio della
società cui appartiene è destinato a soddisfare le ragioni dei creditori e solo successivamente alla
restituzione dei conferimenti. Pertanto, il socio ha sì l'onere di chiedere alla sua società, ai sesi
dell'art. 2497, comma 3, c.c., ma per poi agire contro la capogruppo che è l'unica eputata a stanziare
i fondi per la soddisfazione delle ragioni del soci.
- Né nel caso dell'azione del socio né nel caso dell'azione del creditore sociale è necessario convenie
in giudizio la società il cui socio o il cui creditore sociale agisce in giudizio.
- Ai sensi dell'art. 2497, comma 2, c.c. sono responsabili in proprio gli amministratori (ed
eventualmente gli organi di controllo) della capogruppo; gli amministratori (ed eventualmente gli
organi di controllo) della singola società del gruppo cui sia imputabile di aver concorso nell'attività
esecutiva delle illecite direttive impartite dalla capogruppo o di non essersi opposte ad esse; la
stessa società soggetta all'altrui direzione e coordinamento, nella misura in cui l'immediata paternità
di quegli atti sia giuridicamente ad essa riferibile
- L'azione ex art. 2497 c.c. potrebbe nella pratica intrecciarsi con quella degli artt. 2392 e ss. c.c. per
le società per azioni e dell'art. 2476 c.c. per la società a responsabilità limitata. Il quadro che viene a
delinearsi appare complesso e, a tratti, contraddittorio: a) il socio ha nel caso dei gruppi più potere
che rispetto alla singola società dove incontra i limiti dell'art. 2395 e dell'art. 2476, comma 6, c.c.;
b) i creditori sociali hanno, nel caso dei gruppi, più potere che rispetto alla società a responsabilità
limitata, dove l'art. 2476 c.c. sembrerebbe escludere l'azione dei creditori sociali; c) gli
amministratori, per i medesimi fatti, potrebbero trovarsi esposti a pretese risarcitorie concorrenti
- Sulla base della relazione di accompagnamento, la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c. ha natura
aquiliana sia rispetto ai soci che rispetto ai creditori sociali. Se ciò non presenta difficoltà
concettuali per i creditori sociali perché manca ogni relazione diretta tra creditori e capogruppo,
problemi si pongono rispetto ai soci. Infatti, nel rapporto tra controllante e controllata vi sono degli
obblighi di correttezza che vanno al di là del neminem laedere
- Problema dell'ammissibilità dell'azione di responsabilità della stessa società danneggiata nei
confronti della controllante
- Natura (apparentemente) aquiliana della responsabilità nei confronti dei soci; natura (in realtà)
contrattuale della responsabilità nei confronti dei soci

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- Sebbene non vi sia una previsione specifica, l'azione dell'art. 2497 c.c. si prescrive in cinque anni a
partire dal momento in cui si verifica l'evento lesivo che genera il diritto al risarcimento. Ciò
sicuramente per i soci, perché si rientra nell'art. 2949, comma 1, c.c., mentre meno sicuramente per i
creditori sociali , giacché l'art. 2949 c.c. riguarda l'azione nei confronti degli amministratori, mentre
invece, l'azione dei creditori sociali non è nei confronti degli amministratori bensì della società.
Tuttavia, facendo leva sulla natura aquiliana della responsabilità nei confronti dei creditori sociali, il
termine di prescrizione è pur sempre quinquennale.

1. Le societa' o gli enti che...

A) Rientrano in quest'espressione le persone fisiche?


E' noto che la giurisprudenza, prima della riforma del 2003 che ha introdotto l'art. 2497 c.c. per
disciplinare la responsabilità nei gruppi, ha, in più di un'occasione, risposto positivamente al
quesito.
Sull'argomento, non si può prescindere dalla famosa sentenza Caltagirone, Cass. 26 febbraio 1990,
n. 1439, co-est. A. Rocchi e G. Bibolini, così massimata per la parte di interesse: In ipotesi di
"holding" di tipo personale, cioè di persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di
titolare di quote o partecipazioni azionarie, e che svolga professionalmente, con stabile
organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime (non limitandosi
così al mero Esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), la configurabilità di un'autonoma
impresa, come tale assoggettabile a fallimento, postula che la suddetta attività, sia essa di sola
gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero pure di natura ausiliaria o finanziaria
(cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio,
quindi fonte di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a
perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili
all'attività medesima).

La sentenza è importante perché, pur non affrontando il problema della responsabilità, fissa il
concetto di gruppo e delinea la differenza tra la direzione unitaria e il controllo.

[...] Deve, così, ritenersi incontroverso che ciascuno dei due fratelli Caltagirone, la cui posizione è
ora soggetta ad esame, era il "sostanziale beneficiario" delle attività di uno dei due gruppi sociali,
rispettivamente costituiti da 65 (per Gaetano Caltagirone) e 37 (per Francesco Caltagirone)
società, partecipate "direttamente o indirettamente" (vedi le già ricordate affermazioni dei ricorsi).
Deve darsi per ammesso che ciascuno dei due fratelli disponesse di un'organizzazione stabile, di
mezzi e di persone (la contestazione in ordine alla sussistenza di detta organizzazione, svolta dai
ricorrenti nei precedenti gradi, non viene più ribadita in questa fase, ancorché in via interpretativa
si contesti la funzione dell'organizzazione nell'ambito della tipica qualificazione di impresa),
organizzazione di cui ciascuno del sig.ri Caltagirone si avvaleva per lo svolgimento di una serie di
attività elencate nella sentenza della Corte di merito (v. pag. 41, 43, 44, 45 e 47 della sentenza).
Dette attività vengono dichiarate dai ricorrenti come pacificamente ammesse o, comunque, non
sono contestate nella loro obiettività, ancorché oggetto di rilievo siano le modalità di espletamento
(in nome proprio ovvero in nome delle società). Dette organizzazioni e dette attività costituivano
(secondo le indicazioni della sentenza di primo grado, richiamate dalla Corte di merito), due
centrali operative aventi la funzione di indirizzo, di controllo e di coordinamento, ed inoltre
(secondo autonoma indicazione della Corte di Roma) costituivano attuazione di un disegno di
controllo e di governo delle società. L'accento della motivazione della sentenza della Corte di
Roma è stato posto, in particolare, su una serie di attività ritenute "servizi" o "attività ausiliare",
non esclusa l'attività finanziaria variamente espletata vuoi con il conferimento di garanzie per
favorire erogazioni finanziarie alle società, vuoi con il percepimento diretto da parte delle persone
fisiche dei Sig.ri Caltagirone dei finanziamenti erogati alle singole società e da essi poi destinati

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alle provviste finanziarie sia delle società che ne erano beneficiarie secondo i contratti con le
banche, sia di altre società di ciascun gruppo, secondo valutazioni di esigenze operate dagli stessi
Caltagirone, sia di società di nuova costituzione. Inoltre, dal richiamo da parte della Corte di
merito dell'impostazione di base della sentenza resa dal tribunale di Roma in sede di opposizione
alla dichiarazione di fallimento, e nella quale la posizione di ciascuno degli attuali ricorrenti viene
qualificata come "holding" o capogruppo, emerge che i fratelli Caltagirone, da una parte non si
limitarono a svolgere attività meramente ausiliarie all'esercizio delle imprese sociali ne', d'altra
parte, si limitarono, con la disposizione delle quote e-o dell'azioni delle società di ciascun gruppo,
ad esercitare i poteri corporativi ed i diritti patrimoniali che le quote o le azioni loro conferivano.
Essi esercitarono una vera e propria attività di direzione strategica o di governo, del gruppo che a
ciascuno dei due fratelli faceva capo, secondo piani operativi globali, cui seguivano i piani e le
disposizioni finanziarie e tecniche.
L'indagine, quindi, deve essere volta a valutare il fenomeno delle aggregazioni imprenditoriali, e
si svolge, da una parte, nella scelta, tra i molteplici fenomeni che il sistema dell'aggregazione
delle imprese ha assunto nella pratica economica, delle situazioni più aderenti al caso di specie;
dall'altra di fronte alla mancanza di una generalizzata regolamentazione normativa del
fenomeno del gruppo di imprese e dell'impresa capogruppo, nella necessità di individuare quelle
norme che consentano, o no, di qualificare il capo di un gruppo di imprese sociali sotto il profilo
dello statuto dell'impresa. Esulando, per difformità strutturale dalle situazioni in esame, sia le
aggregazioni societarie su base contrattuale (i c.d. gruppi contrattuali), sia per la holding mista o
per la holding di tipo industriale, la situazione di principio più adeguata al caso di specie deve
essere costruita sulla base della "holding pura" o della "holding operativa" quanto meno per il
carattere sintomatico che a figure di tale genere attiene, nell'ambito della individuazione o no, di
un'autonoma figura imprenditoriale, proprio sotto i profili dell'autonomia operativa e
funzionale, posta come elemento essenziale del dibattito di questa fase processuale.
Si intende a tale fine per "holding pura" quel tipo di aggregazione societaria che assolve una
funzione puramente strumentale e che mediante il possesso di uno o più pacchetti azionari, e
l'esercizio dei poteri inerenti esplichi l'attività di direzione e di controllo del gruppo.
Nell'ipotesi, inoltre, in cui le aziende detenute in portafoglio siano più di una, tale tipo di capo
gruppo assume di norma i tratti tipici della holding operativa la quale esplica l'attività direttiva
anche mediante l'esercizio di funzioni economiche e finanziarie nei confronti delle società
possedute, ponendo così uno stretto legame tra il grado di diversificazione degli investimenti della
holding ed il ruolo che questa può assumere nel coordinamento finanziario del gruppo.
La scienza economica, delle cui risultanze ci si può avvalere per descrivere il fenomeno,
comunemente configura il gruppo come un'aggregazione di unità produttive, giuridicamente
autonome, ma collegate sul piano organizzativo al fine di una migliore attuazione degli obiettivi
perseguiti dal complesso. La direzione economica unitaria e l'autonomia formale delle imprese
partecipanti al gruppo costituiscono momenti qualificanti del fenomeno. Con la direzione
unitaria si consegue il risultato di imprimere unità di indirizzo e di azione alle diverse imprese
aggregate; con l'autonomia formale si persegue il vantaggio di conferire all'organismo
economico, unitariamente considerato, flessibilità strutturale e delimitazione dei rischi. La
direzione unitaria si differenzia dal semplice controllo, in quanto quest'ultimo costituisce una
situazione potenziale di esercizio di influenza dominante, mentre per l'esistenza del gruppo è
necessario l'esercizio effettivo di detta potenzialità. Inoltre la direzione unitaria del gruppo,
ancorché alla sua base vi sia il fenomeno del controllo, si evolve rispetto ad esso con una
diversificazione qualitativa, se non altro perché il controllo è un fenomeno che può riguardare
un'unica controllante ed unica controllata, mentre la direzione unitaria del gruppo ha come
caratteristica essenziale la pluralità delle controllate, coordinate dall'unica controllante in
un'organizzazione imprenditoriale complessa (dal punto di vista economico).
Al riguardo non deve ritenersi che la direzione unitaria, tipica delle aggregazioni di gruppo
secondo il tipo per ultimo indicato, pur non essendo oggetto di specifica previsione normativa (in

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quanto il nostro ordinamento sembra informato ad una visione atomistica della funzione societaria
e dell'autonomia delle società quali centri autonomi di decisione), non adempie ad un
funzionamento meritevole di tutela sul piano dell'economia negoziale (art. 1322 c.c.) ovvero sia
contraria a regole inderogabili vigenti in diritto societario. Sotto il primo profilo si rileva anche il
modello organizzativo delineato, pur se costituisce una novità, nel suo assetto organizzativo,
rispetto alla concezione atomistica dell'impresa societaria da cui muove il nostro codice civile, non
solo costituisce quello generalmente attuato dai più importanti gruppi privati italiani, ma ad esso si
ispira anche la struttura dei nostri gruppi pubblici, corrispondendo alle più moderne esigenze
organizzative e funzionali delle imprese di grandi dimensioni in un'economia di mercato in fase
avanzata. L'utilità che da esso deriva sul piano della pianificazione e dello sviluppo della
produttività dell'imprese, può in linea generale fare ritenere meritevole di tutela giuridica la
sussistenza di quelle aggregazioni imprenditoriali che allo schema indicatosi uniformino; ne' le
possibilità elusive, da valutare e sanzionare caso per caso, possono annullare l'utile funzione,
nell'evoluzione di una economia avanzata, del modello strutturale ed operativo indicato.
Sotto il secondo profilo, inoltre, non deve necessariamente ritenersi che la struttura organizzativa
di gruppo, secondo il tipo indicato, sia contrario a principi inderogabili del nostro ordinamento, in
considerazione del fatto che il centro decisionale delle strategie, e soprattutto delle strategie
finanziarie del gruppo, venga posto al di fuori delle singole società operative. La necessità degli
organi delle società operative di uniformarsi alle più generali scelte globali e gestionali di gruppo,
formulate dagli organi gestori della controllante, non comporta necessariamente la subordinazione
degli interessi delle controllate ad interessi a loro estranei, potendo essere gli obiettivi di gruppo
perfettamente compatibili con gli interessi delle singole controllate. Queste, dalla appartenenza al
gruppo vedono potenziare le loro possibilità operative, potendo essere non pochi i vantaggi che
alle controllate derivano non solo sotto il profilo dell'immagine e di conseguente credito di cui le
società operative possono godere sul mercato, ma anche, in forma più immediata, in termini di
utilizzazione dei servizi di comune interesse e di realizzazione di economie di scala. È normale,
infatti, nelle aggregazioni di gruppo che attività e prestazione di generale interesse, quali attività di
studio e pianificazione, ricerche tecnologiche di mercato, pubblicità e relazioni esterne, vengono
accentrate presso la controllante, senza che per questo venga meno la funzione direttiva
caratterizzante la figura del gruppo. I programmi finanziari e produttivi di gruppo vengono
elaborati dalla capogruppo nella veste di titolare delle partecipazioni di controllo; le decisione
adottate a livello dell'organo gestorio della controllante vengono trasmessi, attraversi le
deliberazioni assembleari, o altri mezzi meno formali, alle singole controllate, le quali sono tenute
ad uniformare agli obiettivi di gruppo le loro realtà operative. Questo modello organizzativo e
strutturale non contrasta necessariamente con l'interesse delle società del gruppo, essendo
necessario, perché scatti la tutela degli interessi che alla singola società fanno capo, non solo la
potenzialità di un conflitto di interessi, ma l'effettività del conflitto di interessi idoneo a causare
danno alla società del gruppo.
Il vincolo dell'organo amministrativo della società di gruppo, quindi, trova il limite della
conformità dell'interesse sociale della società di gruppo, dovendosi i suoi amministratori
astenersi dall'eseguire delibere ed indirizzi che possano danneggiare la società stessa.Come è
stato autorevolmente sostenuto, in un'organizzazione del tipo indicato, non vi è nulla di
irrimediabilmente in contrasto con il vigente sistema normativo, purché si rispetti il limite che le
deliberazioni esecutive non devono causare pregiudizio alle singole controllate. Il limite del
vincolo, rispetto alle direttive della holding, per gli amministratori delle società controllate,
quindi, sta proprio nella tutela dell'interesse della singola società, apprezzato dai suoi stessi
amministratori.
Si tratta, ora, di valutare come la realtà economica della holding pura e del gruppo operativo
possa inquadrarsi sotto il profilo dello statuto dell'impresa.
Indubbiamente il gruppo in quanto tale, ancorché organizzato secondo il modello descritto, non
diventa un unico soggetto di diritto.

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I risultati della scienza economica che individuano le caratteristiche essenziali della figura nella
direzione unitaria, da una parte, e nella pluralità soggettiva dall'altra, e che in questa unità
direzionale nella pluralità soggettiva individuano, non solo le caratteristiche del tipo, ma i
vantaggi che al gruppo in quanto tale ed alle singole società controllate possono derivarne, si
coordinano, sotto questo profilo, con le qualificazione traibili dalla nostra legislazione societaria
e di impresa. Ciascuna società controllata continua ad essere ed a esistere come società
autonoma rispetto alle altre componenti del gruppo, e rispetto alla capo gruppo ciascuna è un
distinto soggetto di diritto.
Il punto fondamentale della disamina si sposta, di conseguenza, sulla capo gruppo, dovendosi
domandare se il soggetto holding, sia per ciò stesso (sia cioè in virtù del potere direttivo esercitato
sulla base di una posizione di controllo acquisita a livello di partecipazione nelle varie società del
gruppo, secondo il modello e le implicazione indicate), a sua volta un'impresa; ovvero possa o no,
essere impresa solo in virtù delle attività accessorie ed ausiliarie, che al modello normalmente
attengono, ma non necessariamente ad esso ineriscono.
Si tratta, in sostanza, di rilevare se, sotto il profilo dell'impresa, la holding sia una realtà
meramente economica (o, come da taluno ritenuto, una società senza impresa), risolventesi sotto il
profilo giuridico nella pluralità dei soggetti che la compongono, da considerarsi nella loro
autonomia, ovvero se la stessa holding, proprio in virtù dell'attività di coordinamento e di direzione
delle varie imprese controllate, si qualifichi anch'essa come impresa.Nella letteratura giuridica, da
tempo si discute sulla possibilità di riconoscere alla holding la qualità imprenditoriale, la quale
richiede l'esercizio di un'attività di produzione o di uno scambio di beni o di servizi, secondo la
qualificazione dell'art. 2082, in relazione alla tipologia dell'art. 2195 c.c.. È, noto, in questa
direttiva, l'indirizzo secondo cui la holding, pur non esercitando direttamente alcuna attività di
produzione o scambio di bene e di servizi (a parte la holding mista che qui non interessa), essa pur
tuttavia realizza un'attività di partecipazione ad attività di produzione e di scambio, con la
conclusione che lo scopo di partecipare ad attività imprenditrice può essere sufficiente, non solo ai
fini dell'art. 2247, ma anche a quelli dell'art. 2082 e 2195 c.c., facendo qualificare come
commerciale lo scopo della società.Correlando questo indirizzo al concetto "fase dell'attività di
impresa", attingendolo dall'art. 2602 c.c., nel testo modificato dalla L. n. 377 del 1976 (laddove il
consorzio tra imprenditori viene definito come l'organizzazione costituita per lo svolgimento di
determinate "fasi" delle rispettive imprese), potrebbe considerarsi l'attività di direzione e di
coordinamento della holding alla stregua di una fase dell'attività imprenditoriale, e potrebbe
affermarsi che la holding è imprenditore in quanto professionalmente, e con adeguata
organizzazione svolga (accentrandola presso di sè), una fase delle imprese esercitate dalla società
operative, ed è imprenditore commerciale qualora l'attività nel suo ciclo si inserisce abbia natura
commerciale. Peraltro, di fronte a questa costruzione, alcuni rilievi appaiono insuperabili e,
cioè:a) se una società esercita una fase dell'attività svolta da altra società, l'oggetto della prima
finisce per coincidere almeno parzialmente con quello della seconda; se poi la fase esercitata dalla
holding si concretizza nel governo e nella direzione dell'attività della società operativa, finisce per
esservi coincidenza tra l'oggetto dei due tipi di società.b) per l'individuazione dell'impresa
commerciale non è sufficiente l'esercizio di una fase di attività qualificante, ex art. 2082 e 2195
c.c., ma l'attività in quanto tale;
c) anche nei consorzi, ciascune delle imprese consorziate conserva la qualità di imprenditore pur
esercitando direttamente alcune fasi soltanto della propria impresa, ma ciò in quanto le altre fasi
dell'impresa, destinate a completare detta attività economica, sono da esse esercitate tramite il
consorzio
Peraltro, se da un lato è insufficiente ricostruire la figura imprenditoriale della holding sulla base
del solo concetto di "fase" di attività, d'altro lato appare incongruo riportare l'imprenditorialità
della entità dominante del gruppo, non al fattore caratterizzante il fenomeno, ma alla semplice
prestazione di servizio o all'attività ausiliaria. D'altronde l'attività di coordinamento e di direzione
del gruppo ben difficilmente può essere qualificata come "servizio", prodotto e scambiato, secondo

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la previsione dell'art. 2082 c.c., anche sotto il profilo delle attività ausiliarie che, pur
frequentemente presenti nello operare della holding, non ineriscono necessariamente al fenomeno,
non sono espressione essenziale del modello organizzativo e funzionale in cui l'operatività del
gruppo coordinato si esplica.Maggior concretezza assume il diverso indirizzo che coglie
l'imprenditorialità della capogruppo nel concetto di attività mediata.Si è già detto dalla normativa
sui consorzi (art. 2602 c.c., nel testo modificato dalla Legge n. 377-76) si tragga il concetto di
esercizio di "fase" dell'attività di impresa e come la spiegazione della imprenditorialità delle
componenti del consorzio, operante in una struttura di coordinamento della produzione e degli
scambi, possa darsi proprio con il concetto di attività esercitata in via mediata, cioè esercitata in
prima persona dal consorzio, ma riflettentesi nei suoi effetti direttamente sulle consorziate.
Concetti analoghi, in tema di attività mediata, possono assumersi nel fenomeno del controllo
societario, a mezzo di situazioni traibili degli artt. 2361 e 2429 bis c.c..Per l'art. 2361 c.c., gioca la
previsione del divieto di assunzione di partecipazione in altre imprese "se per la misura e per
l'oggetto della partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato l'oggetto sociale determinato
dall'atto costitutivo". Dal testo normativo può dedursi una modificazione dell'oggetto della società
partecipante, in quanto l'attività della società cui si riferisce la partecipazione diventi essa stessa
oggetto della società partecipante. Il fenomeno della partecipazione, in sostanza, può fare si che
l'oggetto della partecipata influisca su quello della partecipante, divenendo oggetto della stessa.
Ciò significa che una data attività di produzione e scambio può integrare l'oggetto sociale, sia
come oggetto immediato (società operativa), sia come oggetto mediato (holding). Il che significa,
ulteriormente, che l'imprenditorialità della holding non deriva dal fatto che essa svolga l'attività di
partecipazione e di coordinamento tecnico finanziario, in sè e per sè considerata, ma deriva dalla
specifica attività di produzione e di scambio che formano oggetto delle società operanti ed il cui
esercizio, in forma indiretta tramite la direzione ed il coordinamento ed a mazzo della
partecipazione di controllo, è attuabile dalla capogruppo.Inoltre, l'art. 2429 bis c.c., nel testo
derivato dalla c.d. miniriforma del 1974, ha sviluppato il concetto, prevedendo che la relazione
degli amministratori al bilancio, deve illustrare l'andamento della gestione nei vari settori in cui la
società ha operato "anche attraverso altre società da essa controllate", ribadendosi la rilevanza,
nel controllo societario, della operatività mediata.
Nel settore del controllo societario, quindi, che non esaurisce il fenomeno del gruppo, ma che è alla
base del modello strutturale del gruppo di società, l'esercizio dell'attività di impresa in via mediata
trova adeguati agganci normativi, spiegando come l'interesse e l'oggetto sociale si coordinano tra
di loro: attraverso la controllata la controllante soddisfa il proprio interesse, in quanto è attraverso
la controllata che essa svolge, sempre in modo mediato ed indiretto, una propria attività
economica.
La capogruppo, quindi, è imprenditore, per il fatto di esercitare attività imprenditoriale nella sua
completezza, in una fase in via diretta, in altra fase in modo mediato ed indiretto.La nozione
economica, inoltre, che individua nel gruppo sostanzialmente un'unica impresa articolata su più
soggetti, può trovare una corrispondente qualificazione giuridica sulla base indicata, individuando
nel gruppo in quanto tale un'unica impresa articolata, alla quale peraltro non corrisponde un unico
imprenditore ma, mediante l'incidenza dell'attività indiretta, una pluralità di imprenditori, quanti
sono i soggetti del gruppo, e tra essi la capo gruppo.
Il riflesso dell'oggetto sociale della controllata sull'oggetto della controllante, governante l'attività
del gruppo, finisce per operare sia sullo scopo tecnico da questa perseguito, sia sull'interesse
sociale. Ed invero, se l'impresa è un'attività (un complesso di atti diretti ad un fine) e se l'oggetto
sociale è il programma tecnico dato dai soci alla società, ne risulta che lo scopo tecnico qualifica
l'attività nell'ambito del programma e quindi, se compreso nelle categorie dell'art. 2195 c.c., come
attività di impresa commerciale; l'interesse sociale qualifica la stessa attività come attività
economica e, pertanto, ancora, come attività di impresa sotto il profilo del diverso requisito
dell'economicità.
In secondo luogo, stante la stretta connessione concettuale tra oggetto sociale, scopo tecnico,

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interesse sociale, l'impronta dell'imprenditorialità della controllata sull'oggetto della controllante
si riflette necessariamente, non solo sulla qualificazione in termini di imprenditorialità dell'attività
della controllante, ma sulla qualificazione in termini di economicità della stessa attività, e
sull'interesse sociale della controllante, interesse che della economicità della attività costituisce lo
scopo.Il fatto che fra l'interesse delle società operative del gruppo e l'interesse della capogruppo vi
sia una situazione di coincidenza di realizzazione, è il portato tipico ed originale della
partecipazione dominante esercitata con funzione direttiva e di coordinamento. L'economicità
dell'impresa, intesa come attitudine a produrre un risultato economico per chi agisce, e quindi
come carattere oggettivo dell'attività inerente al metodo economico di cui la stessa è espressione, si
esplica nel gruppo di società con una modalità originale che è diretta conseguenza dell'attività
direttiva e di coordinamento.Si è già indicato come, dal punto di vista della scienza dell'economia,
lo scopo dell'attività direttiva e di coordinamento del gruppo deve individuarsi nella più efficiente
operatività economica del gruppo nel suo insieme e, pertanto, nell'attitudine alla realizzazione di
vantaggi economici del gruppo nel suo insieme e nelle sue componenti; vi è quindi nel modello
operativo e strutturale del gruppo un'attitudine a produrre risultati economici che sono la diretta
conseguenza proprio del fattore caratterizzante il gruppo e, cioè, nella direzione e del
coordinamento unitario espletato dalla holding. Questa attitudine, costituente la ragione stessa
giustificatrice della costituzione del gruppo, si riflette anche, dal punto di vista giuridico, sulla
qualificazione dell'imprenditorialità della holding, consentendo di ravvisare nell'attività diretta
della stessa la fonte di risultati economici che, senza detta attività direttiva, non si
realizzerebbero, risultati che, in quanto tali, vanno ascritti in via diretta proprio all'operare della
capogruppo. Il fatto che, poi, i risultati di detta caratteristica attitudine dell'attività diretta della
capogruppo incidono sul patrimonio delle controllate, non escludono l'attribuibilità degli stessi
alla capogruppo, sia in virtù della indicata derivazione diretta del fenomeno, sia in virtù della
unicità dell'impresa espressa nella pluralità soggettiva degli imprenditori, che riflette
automaticamente, e con immediatezza, i risultati realizzata dalla partecipante sul patrimonio
della controllante.Anche sotto questo profilo, in definitiva, sarebbe erroneo ritenere l'attitudine
alla realizzazione dei risultati economici da parte della holding come inidonea alla integrazione
della fattispecie imprenditoriale, in virtù del ritenuto carattere mediato della acquisizione del
risultato.
Volendo ora chiarire quali caratteristiche debba avere l'azione imprenditoriale mediata, al fine
evitare con qualificazioni terminologiche similari si confondano fenomeni diversi, che pure in
termini di imprenditorialità indiretta sono stati espressi, si rileva:
A) Innanzi tutto, l'attività indirettamente esercitata dalla copogruppo, è un'attività direttamente, ed
in nome proprio, esplicata dalle singole controllate; parallelamente, se l'attività della capogruppo
integra quella delle controllate, essa è espressione diretta e personale della stessa holding.
Conseguentemente, ciascuna delle entità separate esplica in nome proprio l'attività direttamente
attribuitale.Una prima caratteristica, quindi, emerge, e cioè: l'attività della holding, sia essa
attività di direzione e di coordinamento in sè e per sè considerata (holding pura) sia essa l'ulteriore
attività in campo finanziario ed ausiliario con cui il coordinamento si esplichi con espressioni
negoziali (holding operativa), debbono essere esplicate in via diretta e, di conseguenza, in nome
proprio della capogruppo, così come l'attività di produzione e di scambio delle società operative
deve essere esplicata in nome proprio delle stesse.B) Una seconda caratteristica consiste nel fatto
che l'autonomia soggettiva e patrimoniale delle singole componenti del gruppo, non solo non viene
superata, ma costituisce altro momento caratterizzante del modello operativo del gruppo
societario. Il fatto che nel gruppo, con deduzione delle disposizioni normative indicate, si sia giunti
all'affermazione dell'unità dell'impresa esercitata anche con attività mediata, pure in presenza
della pluralità di imprenditori, non giustifica il venire meno delle autonomie soggettive e
patrimoniali delle singole componenti in cui il modello si articola. Conseguentemente, ciascuna
società, sia essa controllata, sia essa la controllante, assume la responsabilità patrimoniale

8
connessa alle obbligazioni effettivamente e direttamente assunte, alle attività negoziali direttamente
ed in proprio come escplicate.
C) Eventuali responsabilità della holding per le obbligazioni delle società operative può tutt'al più
individuarsi in base all'art. 2362 c.c., sempre la capogruppo assume la veste, effettiva ed
apparente, di socia unica delle società controllate. D) La holding, in base ai fattori indicati, si
distingue dal socio tiranno, sia perché questa figura, quanto meno nella formulazione della dottrina
più accreditata, è caratterizzata non da un'agire economicamente improprio ed in prima persona, o
anche in prima persona, del socio dominante, ma dell'adozione in via esclusiva attraverso gli
organi delle società dominate, ed inoltre dalla creazione di confusione tra i patrimoni del socio
dominante e della società dominata, con la carenza, rispetto alla figura della holding, delle
caratteristiche essenziali sopra indicate sub A) e C). D'altra parte quand'anche una holding,
decampando dai limiti indicati dalla figura tipizzata (tipizzata, ovviamente, dalla prassi) del
gruppo, ma pur in presenza del fattore caratterizzante dell'attività di coordinamento e di direzione
operata tramite il dominio delle azioni, eludesse i limiti propri dell'autonomia patrimoniale e
personale delle società componenti, operando con abuso di maggioranza, con usurpazione di poteri
gestori o di controllo, con inosservanza delle regole di vincolo sulla disponibilità del patrimonio
sociale (tutte situazione che riscontrano nell'operare del socio tiranno), non per questo verrebbe
meno l'autonomia delle componenti, dovendo dette situazioni trovare disciplina e sanzione in forme
tipiche della singola attività e diverse dalla responsabilità patrimoniale per obbligazioni sociali. E)
La holding, infine, si distingue dalla pura e semplice gestione patrimoniale del portafoglio
azionario, in quanto essa non si limita all'esercizio dei poteri e dei diritti che dalle azioni
conseguono, ma a mezzo di detti poteri esercita l'attività caratterizzante di direzione e di governo,
eventualmente anche finanziario, già descritta.
Individuati così, i fattori caratterizzanti distintivi del gruppo come impresa e della società holding
come imprenditrice, non si ritiene sussistano fattori impeditivi all'estensione delle caratteristiche e
delle stesse qualificazione imprenditoriali, al capo gruppo-persona fisica. È pur vero che, dando
accoglimento all'indirizzo per ultimo richiamato, si è tratto argomento all'individuazione della
società holding come imprese da norme concernenti l'oggetto sociale, e nell'impresa individuale
non è richiesta l'enunciazione preventiva e la pubblicazione di un programma tecnico ed
economico di azione quale componente costitutiva. È altresì vero, però, che sia
nell'imprenditorialità sociale, sia nell'imprenditorialità individuale, ciò che caratterizza
l'imprenditore è il genere di attività svolta e le modalità operative inerenti. Sul piano dell'attività,
la direzione ed coordinamento tecnico finanziario del socio dominante il gruppo (quale fase di
attività di impresa direttamente esercitata parte del socio dominante il gruppo); il riflesso
dell'attività di impresa delle società operative sull'attività del capogruppo, cui danno oggetto e
contenuto; l'attitudine del coordinamento del capogruppo ad operare con modalità economiche, si
presentano con identiche modalità e con identiche funzioni nelle due figure della società e della
persona fisica holding. La differenza attiene essenzialmente alla prova delle varie componenti
dell'impresa, non all'assenza della figura dell'impresa complessa e dell'imprenditore singolo. [..]
In presenza dei requisiti indicati, della partecipazione dominante, dell'organizzazione stabile e
della professionalità, la figura della holding - imprenditore individuale ben sarebbe ipotizzabile
ed il riflesso delle attività delle società operative sull'oggetto dell'attività diretta delle holding
consentirebbe il superamento della fondamentale eccezione svolta dai ricorrenti, concernente la
asserita mancanza di un utile autonomo delle holding, così come consentirebbe di superare la
asserita violazione della autonoma personalità e dell'autonomia patrimoniale delle società
dominate. [...]
Sotto il secondo profilo, qualora l'attività direttiva non entri nello schema organizzativo
dell'imprenditore capogruppo per non avere le caratteristiche essenziali indicate, ma
l'imprenditorialità dello stesso si individui solo in collaterali attività di servizi ed accessorie,
queste distinte attività debbono a loro volta essere espressione diretta e personale del soggetto cui
la qualifica imprenditoriale si intenda attribuire, ed inoltre l'attitudine dell'economicità di detta

9
attività deve essere individuata in via autonoma, indipendentemente dall'economicità dell'attività
delle società che solo lo schema organizzativo della holding sopra illustrato, (con l'incidenza
dell'attività direttiva, cui l'attività delle società conferisce caratteristica di economicità e di
attitudine imprenditoriale sotto il profilo della produzione e dello scambio di beni), consente di
connettere all'interesse sociale delle società del gruppo.[...]
Il giudice di rinvio, nella valutazione delle situazioni oggetto di dibattito sul punto ora in esame, si
atterrà in particolare ai seguenti principi:
A) l'attività di reazione strategica o di governo di ciascun gruppo di società affermata come
sussistenza nella sentenza della Corte di Roma oggetto dei ricorsi, in tanto ha l'attitudine a
qualificare ciascuna persona fisica capogruppo come imprenditore individuale, in quanto in essa si
individuino le seguenti condizioni:1) gli atti, soprattutto negoziali, nei quali la direzione del gruppo
si esplica, devono essere posti in essere dal capogruppo in nome proprio;
2) detta attività, astrattamente e aprioristicamente considerata, deve avere l'attitudine a produrre
un incremento di risultati economici del gruppo nel suo insieme e nelle sue componenti, risultati
che appaiano diretta derivazione dell'attività di governo e che non altrimenti siano ipotizzabili in
assenza dell'attività qualificante indicata; questa situazione essenziale dovrà essere valutata alla
luce di tutti gli elementi probatori offerti.
B) Nell'ipotesi in cui, invece, l'attività direttiva, per mancanza dei citati requisiti essenziali, non
entri in gioco quale fattore unificante l'impresa, nella pluralità dei soggetti imprenditori e come
tale non determini di per sè lo schema organizzativo dell'imprenditore capogruppo, l'analisi
dell'imprenditorialità dello stesso, sulla base delle sole attività collaterali di servizio ed accessorie
dovrà individuare le seguenti caratteristiche essenziali:1) gli atti debbono essere ancora
espressione diretta e personale del soggetto della cui imprenditorialità si tratti;
2) l'attitudine dell'economicità di detta attività deve essere individuata in via autonoma,
indipendentemente dall'economicità dell'attività delle società che solo lo schema organizzativo
della holding di cui al punto A) consente di connettere all'interesse del capogruppo e deve essere
valutata nella completezza dei mezzi probatori offerti.[...]
A questa sentenza hanno fatto seguito sullo stesso tema, in termini, Cass. 9 agosto 2002, n. 12113,
est. S. Di Amato; Cass. 13 marzo 2003, n. 3724, est. M.R. Cultrera; Cass. SU 29 novembre
2006, n. 25275, est. G. Vidiri, secondo cui "È configurabile una holding di tipo personale
allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o
partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il
controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei
poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione
del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta
holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi,
di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili
risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività
medesima. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la corte territoriale avesse correttamente applicato
il principio di cui in massima riconoscendo, in controversia per differenze retributive per lo
svolgimento di mansioni dirigenziali, la legittimazione passiva del datore di lavoro, convenuto in un
giudizio in proprio e quale rappresentante delle società che ad esso facevano capo e che egli
sostanzialmente controllava influenzandone le decisioni e le scelte gestionali)" [mass.uff.].

Dopo l'introduzione dell'art. 2497 c.c. non constano prese di posizioni della Cassazione sul punto,
invece nella giurisprudenza di merito, si veda:
Trib. Roma, 21 novembre 2011, www.ilcaso.it, secondo cui non vi sono ragioni per escludere che
la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c., in tema di responsabilità dell'ente controllante verso i
creditori delle società soggette all'attività di direzione e coordinamento, possa essere ravvisata in
capo ad una persona fisica, posto che il concetto di direzione unitaria consente di identificare

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fenomeni di gruppo ulteriori rispetto a quelli identificabili in base ai criteri di controllo azionario e
contrattuale;
nonché, sotto il profilo dell'insolvenza:
App. Bologna Sez. I, 23 maggio 2007, Società, 2008, 316, secondo cui la persona fisica può essere
qualificata come holding e, come tale, dichiarata fallita, purché abbia agito in proprio nome,
perseguito un autonomo scopo economico e versi in stato d'insolvenza. L'inammissibile
coinvolgimento della società interponente nella situazione di insolvenza della società interposta, in
virtù dell'autonomia della holding, soggetto giuridico distinto dalla società fiancheggiata, preclude
ai creditori di quest'ultima di insinuarsi efficacemente al passivo del fallimento della società di fatto
(ossia dell'impresa a latere), potendo essere ammessi al passivo di questa soltanto i creditori nei cui
confronti la stessa società di fatto o i singoli soci in proprio hanno assunto obbligazioni.
App. Milano, 17 luglio 2008, Fall., 2009, 2, 169, secondo cui una persona a capo di più società di
capitali può dar vita alla figura della "holding" personale a condizione che svolga
professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle
società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A
tal fine è necessario che la suddetta attività (di sola gestione del gruppo - c.d. "holding" pura -
ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria - c.d. "holding" operativa) si esplichi in atti, anche
negoziali, posti in essere in nome proprio e fonti, quindi, di responsabilità diretta del loro autore,
nonché idonei a perseguire utili risultati economici per il gruppo e le sue componenti.
Trib. Napoli 8 gennaio 2007, Fall., 2007, 4, 407, secondo cui, nell'ipotesi di "holding" di tipo
personale, cioè di persona fisica che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o
partecipazioni azionarie e svolga professionalmente, attraverso una stabile organizzazione,
l'indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società medesime (non limitandosi al mero esercizio
dei poteri inerenti alla qualità di socio), è configurabile un'autonoma impresa, come tale
assoggettabile a fallimento, qualora la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (holding
pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria ("holding" operativa), si esplichi in atti, anche
negoziali, posti in essere in nome proprio e, dunque, fonte di responsabilità diretta del loro autore,
presentando un'obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue
componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima.

In dottrina si è sostenuto, ai fini dell'azione di responsabilità, che l'art. 2497 c.c. non riguarda le
persone fisiche, giacché la norma ha subito nelle battute finali un'importante modifica: mentre nello
schema presentato dal Governo il 29.9.2002 [pubblicato in Soc. 2002, 12] chiunque poteva essere
chiamato a risarcire soci e creditori della società controllata, nel testo definitivo questa previsione è
stata circoscritta e limitata alle società e agli enti, in cui rientrano le associazioni, le fondazioni, gli
enti pubblici, ma non rientrerebbero le persone fisiche (in questo senso Patti, Badini-Confalonieri-
Ventura, Bassi, Angelici, Galgano, Patti, Sbisà; contra Guerrera, Esposito, Fimmanò, Sacchi;
Guglielmucci ritiene che la persona fisica è comunque sempre perseguibile attraverso l'art. 2043
c.c., Montalenti e Rordorf ritengono che la persona fisica possa essere perseguita ai sensi dell'art.
2497, comma 2, c.c., ma non ai sensi dell'art. 2497, comma 1, c.c.).

B) Rientrano in quest'espressione le Pubbliche Amministrazioni?


Secondo un orientamento dottrinale (Cariello e Guaccero) siccome si parla di interesse
imprenditoriale, allora è esclusa l'applicazione del'art. 2497 c.c. nei casi in cui l'ente agisca per
finalità sociali o pubbliche.
Secondo un altro orientamento (Fimmanò, Ibba, Rordorf), invece, non solo l'aggettivo
imprenditoriale si può riferire ai servizi pubblici a prescindere dall'economicità o meno del modello
di gestione, ma non necessariamente l'interesse imprenditoriale dev'essere proprio dell'ente, potendo
essere proprio della società eterodiretta.
E' certo comunque che l'imprenditorialità non dev'essere una caratteristica propria dell'attività di
direzione e coordinamento. In altri termini, non c'è bisogno di scomodare la sentenza Caltagirone

11
dove la Cassazione ha qualificato come imprenditoriale la stessa attività di direzione e
coordinamento e l'ha assoggettata a fallimento, perché nella dizione dell'art. 2497 l'imprenditorialità
attiene ad un interesse esterno alla fattispecie e non interno.
Nonostante la delicatezza della materia, non v'è stato un intervento normativo preciso e dettagliato,
ma solo una norma di interpretazione autentica che ha escluso dall'applicazione dell'art. 2497 c.c. lo
Stato, inteso come Amministrazione centrale e non nelle sue articolazioni periferiche. L'art. 19, c. 6,
d.l. 1.7.2009 n. 78, convertito in l. 3.8.2009 n. 102 ha stabilito che: «L'art. 2497, c. 1, c.c. si
interpreta nel senso che per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che
detengono la partecipazione sociale nell'ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per
finalità di natura economica o finanziaria».
Ci sono molti problemi connessi alla responsabilità ex art. 2497 c.c. nel caso in cui l'attività di
direzione e coordinamento sia esercitata da una Pubblica Amministrazione. Il primo di questi
problemi è, per così dire, ideologico: se la PA ha il diritto-dovere di dettare gli indirizzi politico-
amministrativi cui si deve uniformare la società partecipata, può entrare nel merito della gestione
societaria? E poi, quando l'art. 2497 c.c. parla della violazione dei principi di corretta gestione
societaria ed imprenditoriale si riferisce agli indirizzi politico amministrativi o alle decisioni
gestionali volte a perseguire gli interessi del gruppo? In che limiti può, quindi, configurarsi la
violazione di cui all'art. 2497 c.c. in capo alla PA?

Su questi problemi, si propone una breve rassegna della giurisprudenza contabile e di legittimità.

Gli amministratori della società pubblica eterodiretta rispondono civilisticamente e


contabilmente
- CIVILISTICAMENTE, ai sensi dell'art. 2497, comma 2, c.c. Va precisato che civilisticamente
rispondono tutti gli amministratori delle società pubbliche eterodirette senza distinzioni (con la sola
eccezione dello Stato), nonché in via esclusiva i soggetti che sulla base dell'art. 16 bis del d.l. 31
dicembre 2007, n. 248 (decreto milleproroghe) relativo alla Responsabilità degli amministratori di
società quotate partecipate da amministrazioni pubbliche non possono rispondere contabilmente.
L'art. 16-bis ha infatti escluso l'azione di responsabilità amministrativa per le società con azioni
quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre
amministrazioni o di enti pubblici, inferiori al 50%, nonché per le loro controllate, con la
precisazione avvenuta in sede di conversione con la legge 31/08 che per questi soggetti esentati dal
controllo contabile, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme
del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del
giudice ordinario.
- CONTABILMENTE, ancorché si tratti di un ente pubblico economico e purché lo stesso si
inserisca nell'iter procedimentale dell'ente pubblico diventando compartecipe dell'attività a fini
pubblici per Cass. SU 22 dicembre 2003, n. 19667, ord., secondo cui nella specie, il giudizio di
responsabilità per danno erariale era stato promosso dal procuratore regionale della Corte dei conti
nei confronti del presidente e degli altri componenti del consiglio di amministrazione nonché di
dipendenti del Consorzio comprensoriale del Chietino per la gestione di opere acquedottistiche -
istituito tra vari Comuni ai sensi dell'art. 25 della legge 8 giugno 1990, n. 142 - per fatti attinenti
allo svolgimento di un'operazione finanziaria dell'Ente, e dunque all'attività imprenditoriale dello
stesso e per Cass. SU 26 febbraio 2004, n. 3899, secondo cui l'affidamento, da parte di un Comune
(nella specie: quello di Milano) ad un ente privato esterno (nella specie una società per azioni,
avente un capitale detenuto in misura assolutamente maggioritaria dallo stesso Comune), della
gestione del servizio relativo agli impianti e all'esercizio dei mercati annonari all'ingrosso di
Milano, integra una relazione funzionale incentrata sull'inserimento del soggetto privato controllato
nell'organizzazione funzionale dell'ente pubblico e ne implica, conseguentemente,
l'assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità patrimoniale
per danno erariale, non rilevando, in contrario, ne' la natura privatistica dell'ente stesso, ne' la natura

12
privatistica dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il rapporto in
questione. (Nel fare applicazione di tale principio, riferito a un procedimento relativo alla
responsabilità per <tangenti> percepite da alcuni amministratori del Comune di Milano e della
società controllata dall'ente pubblico, la Corte ha escluso la rilevanza di quelli affermati nella
sentenza della Suprema Corte n. 19667 del 2003).
Si era appena consolidato questo orientamento che la Corte dei Conti, sez. giurisd. Lombardia,
22 febbraio 2006, n. 114, è intervenuta, precisando, con riferimento alla vicenda Enelpower, che
sussiste la giurisdizione della Corte dei Conti nelle controversie volte all'accertamento degli
illeciti erariali commessi dai dipendenti delle società per azioni partecipate dagli enti pubblici
(Enel) ovvero di società per azioni controllate dalle medesime (Enelpower ed
Enelproduzione), facendo derivare il relativo potere, tra l'altro (gli argomenti in sentenza sono
molteplici e se ne riportano solo alcuni) dall'art. 7 della legge 97/2001 che impone al giudice
ordinario di comunicare al Procuratore regionale della Corte dei Conti la sentenza pronunciata
contro il pubblico dipendente affinché il Procuratore eserciti l'azione di conto, dalla portata
immediatamente precettiva dell'art. 103 Cost., dal costante orientamento di legittimità secondo cui
la trasformazione delle amministrazioni pubbliche in enti pubblici economici e in società per azioni
non ne fa venir meno la natura pubblicistica, dall'orientamento della Corte cost. 28 dicembre 1993,
n. 466, secondo cui spetta alla Corte dei Conti il controllo sulle società per azioni derivanti dalla
trasformazione dell'IRI, ENI, INA ed ENEL fin quando permanga una partecipazione esclusiva o
maggioritaria dello Stato al capitale azionario di tali società. In definitiva, discostandosi dal
tradizionale orientamento che vede nel rapporto di servizio il presupposto per la giurisdizione
contabile, la Corte dei Conti, sez. Lombardia, ha affermato che, all'esito del processo di
privatizzazione ed aziendalizzazione avviato dagli anni '90 (D. Lgs. 29/93, 80/98, 165/01) e tenuto
sempre presente l'art. 103 Cost., assume rilievo non tanto l'elemento formale della qualificazione
soggettiva del soggetto chiamato innanzi alla Corte dei Conti, e il rapporto di servizio fra il soggetto
stesso e l'amministrazione danneggiata, quanto l'elemento sostanziale della qualificazione
oggettivamente pubblica delle risorse finanziarie gestite dal soggetto convenuto in giudizio e in
relazione alle quali si configura il danno patrimoniale di cui alla pretesa risarcitoria oggetto del
giudizio. Con riferimento alla possibile interferenza tra responsabilità contabile e responsabilità
societaria, la citata sentenza ha osservato che il giudizio contabile è connotato dall'officiosità e da
elementi di natura sanzionatori, mentre quello societario è facoltativo, su impulso di parte e ha
finalità recuperatorie; inoltre, la maggior tutela prevista per gli azionisti privati, che cumulano alle
normali azioni previste dalla normativa civilistica quelle di stampo pubblicistico, connesse alla
funzione giurisdizionale della Corte dei Conti, non si sostanzia in un'irragionevole disparità di
trattamento, ma bilancia i minori poteri dei medesimi azionisti privati statutariamente posti in una
posizione minoritaria all'interno della compagine sociale. E' evidente poi che se una delle due azioni
ha esito pienamente satisfattivo, si pone il problema della prosecuzione dell'altra, a causa del
pericolo di violazione del principio del ne bis in idem.
L'importante principio enunciato dalla Corte dei Conti (e prima ancora dalla sez. Molise 234/02) è
stato poi sviluppato da Cass. SU 1° marzo 2006, n. 4511, secondo cui il baricentro per discriminare
la giurisdizione ordinaria da quella contabile si è, infatti, spostato dalla qualità del soggetto - che
può ben essere un privato o un ente pubblico non economico - alla natura del danno e degli scopi
perseguiti, cosicché ove il privato, cui siano erogati fondi pubblici, per sue scelte incida
negativamente sul modo d'essere del programma imposto dalla P.A., alla cui realizzazione esso è
chiamato a partecipare con l'atto di concessione del contributo, e la incidenza sia tale da poter
determinare uno sviamento dalle finalità perseguite, esso realizza un danno per l'ente pubblico -
anche sotto il mero profilo di sottrarre ad altre imprese il finanziamento che avrebbe potuto portare
alla realizzazione del piano così come concretizzato ed approvato dall'ente pubblico con il concorso
dello stesso imprenditore -, di cui deve rispondere davanti al giudice contabile (fattispecie relativa
ad un giudizio per danno patrimoniale, cagionato alla Regione Abruzzo, promosso per l'indebita
richiesta, e conseguente corresponsione di finanziamento - nell'ambito dell'attuazione del

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programma operativo multiregionale-Patti territoriali per l'occupazione, a valere sugli accordi con
l'Unione europea nel contesto dell'obiettivo 1, sottoprogramma n.9 Sangro-Aventino di cui al
decreto n. 967 del 29/1/99 del Ministero del tesoro, già approvato dalla Commissione della
Comunità europea - ad una società a responsabilità limitata per la realizzazione di un impianto per
l'innevamento programmato; dagli accertamenti eseguiti era infatti emerso che, nonostante il
progetto ammesso al finanziamento prevedesse l'installazione di macchinari nuovi di fabbrica, un
certo numero di macchine erano state, invece, dapprima acquistate dalla detta società e,
successivamente, previo finalizzato ristorno, simulatamene riacquistate).
Nello stesso senso anche Cass. SU 20 giugno 2006, n. 14101, secondo cui spettano alla
giurisdizione della Corte dei conti i giudizi di responsabilità amministrativa promossi nei confronti
di amministratori e dipendenti di enti pubblici economici per i fatti commessi dopo l'entrata in
vigore dell'art.1, ultimo comma, della legge 14 gennaio 1994, n.20; nell'attuale assetto normativo,
infatti, il dato essenziale che radica la giurisdizione contabile è rappresentato dall'evento dannoso
verificatosi a carico di una P.A. e non più dal quadro di riferimento - pubblico o privato - nel quale
si colloca la condotta produttiva del danno.
Sennonché, la Cassazione SU 19 dicembre 2009, n. 26806, quando si è andata a pronunciare sulla
legittimità della sentenza della sezione giurisdizionale centrale della Corte dei Conti che aveva
rigettato gli appelli avverso la sentenza della Corte dei Conti in primo grado che aveva parzialmente
accolto il ricorso del Procuratore della regione Lombardia in merito alle responsabilità derivanti
dalla vicenda Enelpower, ha detto che spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine
all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di
condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti (nella specie, consistenti nell'avere accettato
indebite dazioni di denaro al fine di favorire determinate imprese nell'aggiudicazione e nella
successiva gestione di appalti), non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma
personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare
della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a
radicare la giurisdizione della Corte dei conti. Ciò in considerazione del fatto che nell'attuale
disciplina societaria, l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità non è più monopolio
dell'assemblea, potendo nella società per azioni una minoranza qualificata dei partecipanti alla
compagine e nella società a responsabilità limitata addirittura ciascun singolo socio tutelarsi
adeguatamente. Ne deriva che scatta la giurisdizione contabile quando il rappresentante dell'ente
partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso socio pubblico abbia
colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore
della partecipazione. (Nell'affermare l'anzidetto principio, le S.U hanno altresì precisato che in
quest'ultimo caso l'azione erariale concorre con l'azione civile prevista dagli artt. 2395 e 2476, sesto
comma cod. civ). Conformi a questa pronuncia Cass. SU, 15 gennaio 2010, n. 519, ord, e 23
febbraio 2010, n. 4309, secondo cui il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale
che è idoneo a far scattare l'azione di responsabilità di tipo societario, non comporta
automaticamente la responsabilità contabile perché il danno è alla società e cioè ad un soggetto
privato e solo di riflesso al socio pubblico. Per questo motivo, la responsabilità contabile scatta solo
laddove gli organi amministrativi del socio pubblico non abbiano intrapreso le opportune azioni a
tutela delle proprie ragioni.
Dopo quest'importante precisazione dei giudici di legittimità sulla distinzione tra il patrimonio della
società che è sempre privato e la posizione del socio pubblico, la Corte dei Conti, chiamata a
pronunciarsi sull'appello proposto da uno dei manager di Enipower S.p.A. ha dichiarato il proprio
difetto di giurisdizione sul danno sofferto da un soggetto privato (la società appunto) riferibile al
patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci, pubblici o privati, i
quali sono unicamente titolari delle quote di partecipazione e i cui originari conferimenti risultano
confusi ed assorbiti nell'unico patrimonio sociale (Corte dei Conti, sez. III, app., 9 aprile 2010, n.
261
L'orientamento della Cassazione nel 2009 ha avuto successive conferme in

14
Cass. SU 5 luglio 2011, n. 14655, La controversia riguardante l'azione di responsabilità a carico
degli amministratori (o dei terzi che hanno concorso con loro nel cagionare il danno) di una società
per azioni a partecipazione pubblica anche se maggioritaria o, come nella specie, totalitaria (in capo
a più enti), per il danno patrimoniale subito dalla compagine sociale a causa delle condotte illecite
di tali soggetti è assoggettata alla giurisdizione del giudice ordinario e non del giudice contabile
atteso che, da un lato, l'autonoma personalità giuridica della società porta ad escludere l'esistenza di
un rapporto di servizio tra amministratori, sindaci e dipendenti e P.A. e, dall'altro, il danno
cagionato dalla "mala gestio" incide in via diretta solo sul patrimonio della società, che resta privato
e separato da quello dei soci;
Cass. SU 12 ottobre 2011, n. 20941, In tema di rapporti tra giurisdizione ordinaria e contabile,
nella società di diritto privato a partecipazione pubblica, il pregiudizio patrimoniale arrecato dalla
"mala gestio" dei suoi organi sociali non integra il danno erariale in quanto si risolve in un "vulnus"
gravante in via diretta esclusivamente sul patrimonio della società stessa, soggetta alle regole di
diritto privato e dotata di autonoma e distinta personalità giuridica rispetto ai soci; l'azione di
responsabilità per danno erariale, può, invece, configurarsi nei confronti di chi, essendone
incaricato, non abbia esercitato i poteri ed i diritti sociali spettanti al socio pubblico al fine
d'indirizzare correttamente l'azione degli organi sociali o di reagire opportunamente agli illeciti da
questi ultimi commessi. (Nella specie, è stata dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario in
relazione alla responsabilità dell'amministratore delegato di una società partecipata interamente da
una Regione per la stipula di un contratto di consulenza con il proprio predecessore);
Cass. SU 12 ottobre 2011, n. 20940, Sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in ordine
all'azione risarcitoria proposta nei confronti del rappresentante di un ente pubblico non economico
(nella specie Croce Rossa Italiana), titolare di una partecipazione totalitaria in una società di
capitali, che abbia esercitato, in nome e per conto dell'ente, i diritti e le facoltà inerenti alla
posizione di socio, in modo non conforme al dovere di diligente cura del valore di tale
partecipazione, così causando un pregiudizio diretto al patrimonio dell'ente. (Nella specie, il
procuratore contabile aveva proposto domanda di risarcimento del danno patrimoniale a carico
dell'ente pubblico titolare della partecipazione sociale e, per traslato, della Amministrazione
regionale, relativo agli emolumenti versati ad un revisore contabile che, ancorché privo dei requisiti
di eleggibilità previsti dalla legge, era stato nominato con il voto determinante del rappresentante
del socio pubblico Croce Rossa Italiana).
In definitiva, bisogna distinguere caso per caso, verificando chi sia il soggetto danneggiato,
Pubblica Amministrazione- socio (giurisdizione contabile e giurisdizione ordinaria),
patrimonio della società (solo giurisdizione ordinaria).

Nel caso delle cd. società in house providing dove l'Ente locale costituisce una società ai sensi
dell'art. 113, comma 5, lett. c, Dlgs. 267/2000 (TUEL) per affidarle la gestione del servizio pubblico
direttamente e senza gara, è necessario il cd "controllo analogo". Cioè in tanto l'Ente locale può
affidare il servizio alla società in house in quanto, tra gli altri requisiti, eserciti un controllo analogo
a quello che eserciterebbe se gestisse il servizio in proprio, sulle modalità con le quali viene
effettuato il servizio. Le società in house devono essere legate all'Ente locale da una forma speciale
di controllo, analogo a quello che l'Ente esercita sui propri servizi. L'art. 113 TUEL Gestione delle
reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, riprendendo i concetti già
affermati dalla sentenza della CGCE, sez. V, 18 novembre 1999 C-107/98 Teckal, ha stabilito che
l'erogazione del servizio pubblico locale può prescindere dall'evidenza pubblica, purché sussistano
tre requisiti tutti necessariamente concorrenti: a) la società deve avere capitale interamente
pubblico, b) l'ente locale deve esercitare su di essa un controllo analogo a quello svolto sui propri
servizi e c) la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti che la
controllano. Orbene, per il controllo analogo, dice la Teckal, non basta il semplice esercizio degli
strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario, ma
è necessario che il controllo si concretizzi in un assoluto potere di direzione, coordinamento e

15
supervisione dell'attività del soggetto partecipato e che riguarda l'insieme dei più importanti atti di
gestione del medesimo. In questo modo, il soggetto partecipato è solo formalmente distinto
dall'Amministrazione, perché in concreto ne fa direttamente parte. La CGCE ha inoltre
successivamente chiarito che è necessaria non solo la partecipazione pubblica totalitaria ma anche
la possibilità per l'ente di esercitare un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle
decisioni importanti della società, ben al di là dei normali poteri spettanti al socio in assemblea.
(CGCE 11.1.2005 C-26/03, Stadt Halle e Trea Leuna, FI 2005, IV, 134; 21.7.2005 C-231/03,
Co.Na.Me e 13.10.2005 C-458/03, Parking Brixen GmbH, ibidem 2006, IV, 76; C.G.C.E. 6.4.2006
C-410/04, Anav e C.G.C.E. 11.5.2006 C-340/04, Carbotermo, ibidem 2006, IV, 511).
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in data 3 marzo 2008, riprendendo la giurisprudenza
comunitaria, ha detto che per aversi controllo analogo è necessario:
a) l'attribuzione all'ente pubblico di poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario
riconosce normalmente alla maggioranza sociale;
b) il vaglio preventivo da parte dell'ente affidante delle decisioni più importanti;
c) la mancata acquisizione da parte della società di una vocazione commerciale che renda precario il
controllo pubblico
E' di tutta evidenza che questo controllo analogo è del tutto sovrapponibile alla previsione dell'art.
2497 c.c. e ciò spiega la recente pronuncia della Corte dei Conti, sez. Piemonte, 19-01-2012, n. 3,
Azienditalia, 2012, 3, 245, secondo cui In base al principio sancito per le società di capitali
dagli articoli 2325 e 2462 cod.civ., deve ritenersi applicabile la responsabilità dell'ente pubblico nei
confronti dei creditori sociali ai sensi dell'art. 2497 cod. civ., atteso che il controllo analogo
determina l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento nell'interesse istituzionale dell'ente
pubblico e non nell'interesse esclusivo della società controllata. L'obbligo di pagare i creditori
sociali, riguardando soltanto i debiti non soddisfatti nel corso della liquidazione della società in
house, non si pone in contrasto con il divieto di ripianamento delle perdite sancito dall'art. 6, c. 19,
del D.L. n. 78/2010 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122/2010, che è stato previsto per
perseguire " una maggiore efficienza delle società pubbliche".

2. ...Esercitando attività di direzione e coordinamento


Non si sa esattamente cosa sia il gruppo e che cosa significhi con precisione "direzione e
coordinamento". Montalenti, però, in un articolo sul Conflitto di interessi nei gruppi di società e
teoria dei vantaggi compensativi, comparso su Giur. comm. nel 1995, 5, 710, richiamando e
parafrasando un giurista di common law, Blumberg, ha affermato che It has been accepted that the
existence of the parent corporation's control over the decision making of the subsidiary, even when
combined with the presence of common officers and directors, is not decisive in and of itself. These
cases go further and inquire into the extent that such control has been exercised. they are
particularly concerned as to whether there has been an excessively intrusive intervention by the
parents and its personnel into the decision-making of the subsidiary when compared to normal
management patterns in the contemporary business world.
In definitiva, va valorizzato il dato di fatto dell'ingerenza direttiva (la direzione presuppone
l'esercizio di attività di indirizzo "verticali", quali ordini di servizio, istruzioni, regole di
comportamento, meri fatti idonei comunque ad influenzare significativamente le scelte gestionali
della società) e di coordinamento (consistente in un'attività orizzontale con atti formali a carattere
negoziale quali deliberazioni o accordi contrattuali) e verificata l'estensione di quest'ingerenza.

Un'interessante applicazione dell'art. 2497 septies c.c. in cui la direzione e coordinamento di società
è avvenuta sulla base di un contratto con le società o di clausole dei loro statuti.
Trib. Pescara 3 febbraio 2009, n. 128, in Giur. Merito, 2010, 11, 2740, con nota di P. SERRAO
D'AQUINO.

16
La vicenda Gli attori- con l'atto di citazione introduttivo del presente giudizio- hanno intrapreso
(come detto) l'azione di responsabilità ex artt. 2947 /2497 septies c.c. nei confronti degli odierni
convenuti, assumendo che:
- Erano stati soci- dall'anno 2000 al marzo dell'anno 2005- della KOINÈ S.A.S. (già KOINÈ
S.R.L.).
- La KOINÈ S.A.S - a partire dal 1992- era stata parte (quale affiliata) di una serie di contratti di
franchising stipulati con la NATUZZI S.P.A. (quale affiliante) ed aventi ad oggetto la vendita al
pubblico di prodotti per l'arredamento (nella specie divani con il marchio Divani & Divani).
- A partire dall'anno 2000, tuttavia, la affiliante NATUZZI S.P.A.- approfittando del penetrante
potere di direzione attribuitole (a loro dire) dai predetti contratti di affiliazione commerciale nei
confronti della affiliata KOINÈ - aveva iniziato a tenere nei confronti di quest'ultima (in attuazione
di un premeditata strategia, ed attraverso l'imposizione di una serie di "accordi vessatori e
irragionevoli") delle condotte "dolosamente" illecite e dannose per la affiliata in quanto volte, a un
lato, a salvaguardare il proprio esclusivo interesse economico e, dall'altro e correlativamente, a
ledere profondamente l'integrità patrimoniale della controparte la quale - per effetto di quelle
abusive condotte- era stata costretta a "farsi carico di tutta una serie di costi ed oneri".
- La finalità ultima (ed originaria) della NATUZZI S.P.A. - sottesa sin dall'origine alla decisione
della stessa di imporre alla KOINÈ, nell'esercizio abusivo del potere di "direzione unitaria" che il
contratto di franchising (a loro dire) conferiva alla prima nei confronti della seconda - era quella
di "aggravare lo stato di dissesto dell'affiliato, senza consentirgli di svincolarsi: ciò che aveva
portato la Natuzzi ad acquisire i negozi che erano di Koinè ed i soci di quest'ultima a cedere a
prezzo vile le proprie quote."
- Una tale continuativa condotta illecita, attuata in spregio del canone generale di buona fede,
integrava violazione del precetto di cui all'art. 2497 c.c..
- L'abuso di direzione unitaria sanzionato dalla norma di cui sopra e di cui si era resa colpevole il
franchisoor (sotto la direzione strategica del suo Vice Presidente D. S. G.) integrava una condotta
illecita "comunque ascrivibile allo schema della responsabilità da fatto illecito di cui all'art. 2043
c.c.".
- Il danno ingiusto (ex artt. 2043/ 2497 c.c.) nella specie riportato dagli attori (e di cui questi quivi
chiedevano il ristoro) in conseguenza della condotta illecita della affiliante consisteva nella lesione
del diritto alla redditività ed al valore della partecipazione sociale della affiliata ed ammontava-
come documentato da apposita perizia tecnica contabile allegata agli atti- ad euro
5.417.134,00[...]
Passando quindi all'esame del merito della causa [...]
È quindi pacifico che gli attori, in coerenza con i richiamati presupposti della fattispecie di
responsabilità di cui all'art. 2497 septies c.c. dagli stessi quivi invocata:
- Non denunziano alcun profilo di invalidità, di inefficacia o di illegittimità dei contratti di
affiliazione summenzionati (né di alcuna delle clausole ivi pattuite con la controparte) i quali- di
conseguenza- devono ritenersi (in questa sede) perfettamente validi ed efficaci.
- Non avrebbero potuto, peraltro, quivi proficuamente denunziarne alcun profilo di invalidità, di
inefficacia o di illegittimità, non avendone la "legittimazione attiva" (in quanto meri [ex]soci della
affiliata KOINÈ e quindi privi della veste di "controparte negoziale" della prima).
- Non deducono l'inadempimento del contratto di franchising da parte della affiliata né esercitano
alcuna ulteriore azione contrattuale, la quale (peraltro) sarebbe stata riservata- giusta la relativa
clausola del negozio di affiliazione- alla competenza territoriale esclusiva del Tribunale di Bari
(cfr. quanto già osservato al riguardo nella sentenza non definitiva del 19.9.07).
- Deducono per contro l'illiceità del comportamento continuativo della NATUZZI S.P.A. che- "
abusando, in occasione" dello svolgimento del rapporto di franchising in questione, del
penetrante potere di direzione attribuitole (a loro dire) dai predetti contratti di affiliazione
commerciale nei confronti della affiliata KOINÈ S.R.L. - avrebbe violato i più generali principi
di corretta gestione imprenditoriale della affiliata e di buona fede.

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- Pongono quindi ad espresso fondamento (causa petendi) della spiegata domanda di ristoro
pecuniario (petitum) non già la specifica violazione di una obbligazione contrattuale bensì il
principio del neminem laedere, in una prospettazione in fatto ed in diritto nella quale il rapporto
negoziale di franchising tra le due compagini societarie (franchisoor e franchisee) assurge a mero
presupposto estrinseco (a "base" per usare la terminologia di cui all'art. 2497 septies c.c.) del fatto
illecito dedotto in giudizio (costituito dallo "scorretto" e "doloso" esercizio del potere contrattuale
a danno della controparte). [...]
Nella sentenza non definitiva del 19.9.07 si è già sottolineato (ancorché ai limitati fini della
motivazione del rigetto- ivi pronunziato- della eccezione dei convenuti di incompetenza territoriale
del Tribunale adito) che dette norme:
- Sanzionano una condotta illecita ("esercizio di attività di direzione e coordinamento di società,
agendo nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione
societaria e imprenditoriale delle società medesime") causativa a terzi di un danno ingiusto
("pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonchè nei
confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società").
- Definiscono espressamente tale condotta illecita come "fatto lesivo".
- Legittimano all'azione risarcitoria (oltre ai soci della controllata, anche) soggetti (i creditori
sociali della controllata) privi di qualsivoglia rapporto contrattuale con la "scorretta" controllante,
conferendo quindi tutela extracontrattuale alle loro alle "aspettative di credito".
- Nell'ipotesi in cui la legittimazione all'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento di
società derivi da "un contratto con le società medesime o da clausole dei loro statuti", sanzionano
non già il contratto bensì l'"abuso del contratto", ossia il fatto illecito del "dannoso esercizio del
potere contrattuale ai danni della controparte che quindi- in quel rapporto negoziale (altrimenti
lecito)- può trovare il (mero) presupposto estrinseco.
- Tipizzano quindi con evidenza una ipotesi di fatto illecito ex art. 2043 e segg. c.c., il quale si
risolve- in tutte le forme codificate nel nostro ordinamento civile (cfr. Cass. S.U. n. 576/2008 in
motivazione; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 22586 del 2004 in motivazione) - nella descrizione di un
nesso, che leghi storicamente un evento dannoso (nella specie la lesione della redditività e del
valore della partecipazione sociale della società "controllata) ad un soggetto (il controllante)
chiamato a risponderne sulla base di una condotta antigiuridica (nella specie, l'avere perseguito un
interesse proprio violando i principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale della
controllata).
La considerazione della ratio della norma (individuabile nella volontà legislativa da un lato di
sanzionare la società responsabile dell'abusivo esercizio del potere di direzione e di coordinamento
perpetrato ai danni dell'altra società e dall'altro e correlativamente di tutelare il patrimonio di
quest'ultima che sia stato leso da quell'abusivo comportamento) non consente di riservare
(attraverso una interpretazione meramente letterale della norma) la legittimazione all'esercizio
della relativa azione di responsabilità soltanto a colui che sia (al momento dell'esercizio di tale
azione) ancora "socio" (ovvero creditore) della compagine societaria "scorrettamente etero-
gestita" e di escluderla in capo a chi- in quel momento- ne sia ormai un "ex socio": ciò che
infatti fonda la legittimazione ad agire (anche) di quest'ultimo è unicamente la prospettazione
(da parte dello stesso) della intervenuta consumazione (da parte della società "dominante" ed ai
danni della società "subordinata") del fatto illecito sanzionato dalla norma quando egli era socio
di quest'ultima", sì da averne subito (per l'effetto) le conseguenze patrimoniali dannose (ossia
proprio quelle conseguenze che la nuova norma codicistica vuole risarcire al danneggiato).
Quanto alla legittimazione passiva della azione di responsabilità in esame, si condivide la
posizione di autorevole dottrina per la quale la norma di cui al terzo comma dell'art. 2497 c.c.
(per cui "il socio ed il creditore sociale possono agire contro la società o l'ente che esercita
l'attività di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta
alla attività di direzione e coordinamento") pone soltanto un onere di preventiva escussione del

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patrimonio della società sottoposta all'altrui abusivo esercizio di direzione unitaria e non
riguarda l'azione di cognizione.
Venendo all'esame più specifico dell'abuso di posizione di direzione contrattuale quivi invocato
dagli attori, giova osservare che il legislatore, con una disposizione espressa (originariamente
ricompresa nell'art. 2497-sexies poi consegnata, con il D.lgs. 37/2004, all'autonomo articolo 2497-
septies) ha- come visto- disciplinato la fattispecie della direzione e coordinamento tra società
esercitata sulla base di un contratto o di clausole statutarie.
Al riguardo, è utile ricordare che l'art. 2359 c.c. prevedeva già, accanto al controllo azionario, il
controllo contrattuale, detto anche controllo esterno, che sussiste quando una società si trova sotto
l'influenza dominante di un'altra per effetto di specifici vincoli contrattuali.
Ma l'attività di direzione e coordinamento si distingue, ed è un quid pluris, rispetto al mero
esercizio del controllo, in quanto espressione di un potere di ingerenza più intenso rispetto al mero
controllo.
Una consolidata elaborazione dottrinale ha da tempo segnalato l'elemento della direzione unitaria
come tratto distintivo del gruppo rispetto al controllo.
La direzione è, dunque, nozione più ampia del controllo, che della prima è il genere prossimo.
Se è vero cioè che dalla presenza del controllo può inferirsi la sussistenza della direzione unitaria,
è anche vero però che, trattandosi di presunzione juris tantum, può essere fornita la prova
contraria, la quale non può che consistere, appunto, nella dimostrazione che, pur in presenza del
controllo, non sussistono tuttavia ulteriori elementi, tali da poter affermare l'esistenza anche della
direzione unitaria.
Si tratta allora di individuare quale sia la "differenza specifica", quali siano cioè i tratti distintivi
della fattispecie che, "addizionati" alla nozione di "controllo", concretano la nuova nozione
normativa, fermo restando quanto si dirà in tema di direzione unitaria contrattuale.
L'attività di direzione è comunemente intesa come l'esercizio di una pluralità sistematica e costante
di atti di indirizzo idonei ad incidere sulle decisioni gestorie dell'impresa, cioè sulle scelte
strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale, commerciale che attengono alla
conduzione degli affari sociali.
L'attività di coordinamento è comunemente intesa come la realizzazione di un sistema di sinergie
tra diverse società del gruppo nel quadro di una politica strategica complessiva, estesa
all'"insieme" di società. La direzione opera- potrebbe quindi dirsi- in senso verticale; il
coordinamento in senso orizzontale. Autorevole dottrina ritiene (correttamente ad avviso del
Tribunale) che si tratti di un'endiadi di cui il tratto caratterizzante è la direzione unitaria, dovendo
allora ammettersi la riconducibilità alla disciplina anche dell'attività esercitata su di un'unica
società, non foss'altro perché, in tal caso, si configura comunque un'attività di coordinamento tra
la società "dirigente" e la società "eterodiretta". Onde appare legittimo poter concludere nel senso
che per attività di direzione e di coordinamento debba intendersi l'esercizio di una pluralità
sistematica e costante di incisione sulle scelte gestorie della società subordinata, cioè sulle scelte
strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale, commerciale che attengono alla
conduzione degli affari sociali. Posto allora che la lettera dell'art. 2497-septies c.c. richiede sic et
simpliciter- come detto- la prova dell'esercizio di direzione e coordinamento su base contrattuale (o
di una conforme previsione statutaria), il problema allora si sposta alla individuazione di quali
siano gli "indici" da considerare rivelatori di un esercizio di direzione e coordinamento anche su
base contrattuale o statutaria.
Si è osservato in dottrina- in generale- che il potere di direzione ed il coordinamento delle varie
imprese di matrice contrattuale sussista quando ad esempio una parte abbia ex contractu il potere
di imporre alla controparte una determinata struttura finanziaria, ad esempio dettando dei requisiti
minimi patrimoniali, ossia una data proporzione minima tra la dotazione di mezzi propri e quella di
mezzi di terzi nell'impresa ma anche (sia pure per via indiretta) in altri rapporti contrattuali, dove
ci si preoccupa non tanto della dotazione patrimoniale, quanto dell'equilibrio finanziario, cioè di
una dotazione di risorse finanziarie coerente alle necessità e ai caratteri propri dell'attività

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d'impresa, e quindi di una stabilità sostenibile nel tempo. Anche la definizione ed imposizione delle
strategie di mercato da perseguire per la società da parte del soggetto che risulta legato alla stessa
solo da un rapporto contrattuale, ovvero sulla base di una clausola dello statuto sociale, sembra
poter essere reputata un indice dell'esercizio di direzione e coordinamento da parte dello stesso
soggetto.Ciò che è certo (perché espressamente affermato dalla norma) è che il potere di una parte
di dirigere e di coordinare l'altra parte debba trovare la propria "base" (rectius fonte, ex art. 1372
c.c.) nel contratto che lega l'una all'altra (cfr. l'art. 2497 septies c.p.c. "Le disposizioni del presente
capo si applicano altresì alla società o all'ente che, fuori dalle ipotesi di cui all'articolo 2497
sexies, esercita attività di direzione e coordinamento di società sulla base di un contratto con le
società medesime [...])".La possibilità di configurare un esercizio del potere di direzione e
coordinamento su base contrattuale implica- in altri termini e come rilevato da parte della
dottrina- la necessità di individuare clausole contrattuali che attribuiscano ad uno dei contraenti il
potere di incidere sulla politica di mercato dell'altro. Così, ad esempio, la programmazione
finanziaria deve essere intesa non come la semplice predisposizione di un progetto, che sia quindi
suscettibile d'essere rivisto e modificato dall'altro centro d'imputazione prima di recepirlo nella
propria impresa, ma come atto cogente, poiché l'esecuzione della decisione assunta risulta
doverosa, anche se solo dal punto di vista contrattuale.
Un'evenienza del genere può realizzarsi frequentemente quando uno dei contraenti può
determinare la politica dei prezzi dell'altro- come avviene di solito nei cc.dd. contratti di
distribuzione posto che in una situazione del genere, la presenza e persino la posizione sul mercato
della produzione dell'impresa è certamente soggetta contrattualmente all'attività dell'altra.
Pertanto, in tanto può validamente porsi un problema di riconducibilità di una qualsivoglia azione
della "parte dirigente/coordinante" (di cui all'art. 2497 septies c.p.c.) verso la "parte etero-
diretta/coordinata" ad una ipotesi di "mala gestio eteronoma" della prima ai danni della seconda
(nel senso di cui all'art. 2497 c.c.), in quanto quella azione costituisca- per chi la "subisce"- l'effetto
di una imposizione, ossia di un atto cogente dal punto contrattuale e non già (mancando il potere
contrattuale di imporla in capo al contraente asseritamente "apicale") di una libera scelta di
autonomia privata dell'altro contraente.
Se invece quelle "direttive" non fossero (sulla base del contratto) coercibili da parte dell'un
contraente nei confronti dell'altro, quest'ultimo che (ciò nonostante) vi si conformasse
(evidentemente per le più disparate ragioni sottese al campo della opportunità e della
discrezionalità imprenditoriale), lo farebbe sotto la propria responsabilità (rectius, nell'esercizio
della propria autonomia privata), assumendo come proprie, ad ogni effetto, le relative decisioni.
Onde lo stesso non potrebbe pretendere (a posteriori) di imputare alla controparte (e non al
proprio "rischio d'impresa") le conseguenze economiche e giuridiche di quelle scelte (non
obbligate) di cui invece avrebbe dovuto e potuto valutare (previamente) la portata e gli effetti.
Il rilievo sembra essere condiviso dagli attori, i quali (infatti) fondano la propria pretesa giudiziale
di sussumere nell'alveo della responsabilità di cui all'art. 2497 c.c. le condotte "abusive" e gli
accordi irragionevoli" imputati alla NATUZZI S.P.A. proprio sull'assunto che questi furono
"imposti" dalla stessa alla KOINE S.R.L. (che li dovette "subire") in virtù (o meglio in "abuso") del
potere negoziale di cui al contratto di affiliazione.
Ma la esistenza di una posizione di direzione unitaria (di fonte negoziale) di una parte verso l'altra
(nel senso prima richiamato) non è ovviamente sufficiente per addivenire ad un giudizio di
responsabilità ex art. 2497 septies c.c. della prima verso la seconda, occorrendo invece la prova
della sussistenza di comportamenti di "abuso" (nel significato "tipizzato" dall'art. 2697 c.c.) di
quella posizione contrattuale, i soli suscettibili di convertire quella situazione - di per sè non
illecita nel contesto della vigente disciplina codicistica (perché espressione della autonomia privata
e della libertà di iniziativa economica privata) - nella condotta "non iure" causativa, in tesi, del
danno di cui si pretenda il risarcimento (cfr. in questi termini Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12094 del
2001 anche in motivazione, con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 2359 c.c.).

20
La fattispecie di responsabilità di cui agli artt. 2497/2497 septies c.c. presuppone in particolare -
come detto- la prova (a carico dell'attore che quivi la invoca) della esistenza "cumulativa" non solo
della titolarità in capo alla contraente "dirigente/coordinante" - in forza ("in base") di un dato
contratto - di un potere di direzione e di coordinamento nei confronti della controparte negoziale
etero/ diretta coordinata, ma anche degli ulteriori elementi prima richiamati:
a) la violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale;
b) l'agire nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui;
c) il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione e/o la lesione cagionata
all'integrità del patrimonio della società;
d) il nesso di causalità.
Dall'esame comparato dei superiori elementi "strutturali" della fattispecie di cui all'art. 2497 c.c.
(dalla cui ricorrenza concorsuale deriva l'illiceità della "direzione unitaria contrattuale" ivi
tipizzata) e dei principi generali in materia di responsabilità civile, della autonomia privata e della
buona fede cd. "oggettiva" (cui quella fattispecie deve essere ricondotta) discende quindi che:
- Non è sufficiente (ai fini del riconoscimento della responsabilità civile di cui si discute) che una
qualche condotta della parte "dirigente/coordinante" (posta in essere sulla base della relazione
negoziale con la "eterodiretta/coordinata" ed in attuazione del potere negoziale di direzione in
questione) sia stata destinata al perseguimento di un esclusivo interesse della prima (ovvero di
terzi): una siffatta condotta, infatti, non sarebbe antigiuridica (perché- appunto- non lesiva di un
interesse altrui).
- è invece necessario (perché quella condotta si colori di antigiuridicità) che il perseguimento di
quell'interesse da parte della "dirigente/coordinante" sia incompatibile con gli interessi della
"eterodiretta/coordinata", sì da risultare (di conseguenza) da un lato contrario al dovere della
prima di gestire con correttezza il proprio potere negoziale sulla seconda ("mala gestio" ex art.
2497 c.c.) e, dall'altro (e parimenti di conseguenza), causativo a quest'ultima (come effetto
immediato e diretto ex artt. 1223/2056 c.c.) di un pregiudizio ("danno ingiusto" ex art. 2043 c.c.)
alla redditività ed al valore della propria partecipazione sociale (per la pacifica affermazione, da
parte della giurisprudenza di legittimità e con riferimento alla materia delle "invalidità
negoziali", del principio per cui "al fine di ravvisare un conflitto di interessi tra rappresentante e
rappresentato suscettibile di invalidare il contratto concluso dal primo ex art. 1394 cod. civ. - non
è sufficiente che il rappresentante persegua interessi propri o di terzi, ma è necessario che il
rappresentante persegua interessi propri o di terzi incompatibili con quello del rappresentato, da
dimostrare non in modo astratto od ipotetico ma con riferimento al singolo atto o negozio che,
per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell'utile di un soggetto mediante il
sacrificio dell'altro di talché all'utilità conseguita o conseguibile dal rappresentante per sè
medesimo o per il terzo, segua o possa seguire il danno del rappresentato", cfr. ex multis Cass.
Sez. 1, Sentenza n. 25361 del 17/10/2008; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23300 del 08/11/2007; Cass.
Sez. 3, Sentenza n. 3630 del 17/04/1996).
- Infatti, soltanto il fatto di avere perseguito un interesse proprio che fosse (o apparisse)
incompatibile con quello dell'altro legittimerebbe un rimprovero all'agente di avere agito in
violazione del principio generale di buona fede nell'esecuzione del contratto, ossia (cfr. Cass. Sez.
1, Sentenza n. 15669 del 13/07/2007; Cass. 2503/1991) senza "preservare gli interessi dell'altra
parte" e- quindi- senza rispettare quel canone generale e solidaristico (ex art. 2 Cost.) di condotta
che l 'art. 2497 c.c. (nell'attribuire espresso rilievo alla violazione dei principi di corretta gestione
societaria ed imprenditoriale) vuole precipuamente tutelare.
- è altresì necessario (in diretta connessione con quanto appena rilevato) e secondo la nota teorica
della colpa, che la dannosità di quella condotta della "controllante/coordinante" nei confronti
dell'interesse della "controllata/coordinata" (ovvero la potenziale dannosità di quella condotta, da
intendersi come valutazione qualitativa ex ante in termini di ragionevole prevedibilità del danno)"
emergesse già al momento della sua realizzazione (ossia ex ante), non potendosi altrimenti
muovere alla contraente "forte" alcun rimprovero di scorretta ed abusiva gestione imprenditoriale

21
della contraente "debole" per una azione che (nel momento in cui veniva posta in essere dalla
prima) apparisse (ad esempio) favorevole per la seconda.
E' infatti noto che la prevedibilità ed evitabilità del danno costituiscono requisiti essenziali nel
contesto dei criteri per l'imputazione a titolo di colpa e per giudicare la natura colposa della
condotta: da qui la necessità che il fatto (con giudizio ex ante e con il parametro della
conoscenza dell'uomo medio, ancorché che con riferimento alle condizioni concrete nelle quali
la condotta è tenuta) sia prevedibile, perché ciò che è imprevedibile è anche, per definizione, non
prevenibile (cfr. ex multis Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11609 del 2005; Cass. 02/12/1996, n. 10723;
Cass. 19/08/2003, n. 12124; Cass.31/05/2003, n.882.8). E, nel valutare se una siffatta dannosità
(o potenziale dannosità) in concreto sussistesse, è doveroso tener conto che la conduzione di
un'impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata
dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender
forma e ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti
(Cass., Sez. I 24. agosto 2004 n. 16707). Sicchè è perfettamente logico che anche la valutazione di
quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l'interesse della società non possa prescindere
da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto all'effetto patrimoniale
immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi
positivi che ne siano eventualmente derivati (o ne possano eventualmente derivare) in conseguenza
della partecipazione della singola società ai vantaggi che quell'atto abbia arrecato al gruppo di
appartenenza (Cass, Sez. I 24. agosto 2004 n. 16707 la quale correttamente evidenzia come una
siffatta eventualità sia oggi espressamente considerata in una disposizione del novellato art. 2497
c.c. -non però direttamente applicabile a fattispecie realizzatesi in epoca anteriore all'entrata in
vigore del D.lgs. n. 6 del 2003- per la quale "non vi è responsabilità quando il danno risulta
mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento ovvero
integralmente eliminato a seguito di operazioni a ciò dirette").
- Infine, posto che in tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal
principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un
altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della
cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar
rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili,
non sarà sufficiente che tra l'antecedente (nella specie, la condotta abusiva della società contraente
"dirigente") ed il dato conseguenziale (nella specie, il concreto depauperamento della società
contraente eterodiretta) sussista (ex post) un mero rapporto di sequenza "naturalistica",
occorrendo invece che tale rapporto integrasse ex ante, secondo un calcolo di regolarità statistica,
gli estremi di una sequenza possibile, per cui l'evento appaia come una conseguenza non
imprevedibile di quell'antecedente (cfr. per tutte Cass. cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 576 del
11/01/2008; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11609 del 31/05/2005; Cass. 26/03/2004).
In sintesi: il rapporto contrattuale di cui all'art. 2497 septies c.c può assumere esterno rilievo
giuridico (di responsabilità civile per contrarietà a buona fede) soltanto quando dà luogo a
direttive della parte contrattuale "forte" che- in quanto scorrettamente pregiudizievoli (nel senso
sopra precisato) per la parte contrattuale "subordinata" - escono dagli altrimenti insindacabili
confini dell'autonomia privata e della discrezionalità delle "scelte societarie".
[... Dal punto di vista probatorio, n.d.r.] È quindi un dato pacifico (perché- come detto- dato
documentale) che il contratto di affiliazione di cui è causa (che gli attori hanno espressamente
prospettato come fonte, in capo alla NATUZZI S.P.A.- del potere [di direzione verso la KOINE
S.R.L.] del quale hanno denunziato l'esercizio "abusivo" ex artt. 2497/2497 septies c.c.) non
conferiva in realtà alla prima (NATUZZI S.P.A.) il potere (appunto negoziale) di "imporre" alla
seconda (KOINE S.R.L.) quei comportamenti (l'aprire nuovi punti vendita in Marche; il vendere
i beni ai propri clienti al prezzo "dannoso" determinato dalla affiliante; il sostenere i costi per
l'acquisto dei cataloghi illustrativi ovvero i costi per la "formazione del personale" etc) che (a

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dire degli attori) avrebbero condotto il franchisee (il quale sarebbe stato costretto- ex contractu- a
subirli "passivamente") al progressivo tracollo economico [...]

4. ...Agiscono nell'interesse proprio o altrui...

Quest'espressione significa che l'attività di direzione e coordinamento è lecita solo se persegue gli
interessi del gruppo? Sussiste un “requisito minimo” od una “precondizione” della liceità
dell’attività di direzione e coordinamento, costituita dal “razionale perseguimento di un vantaggio
(di gruppo e, dunque, di tutte le società in esso coinvolte)? o i requisiti stabiliti dall’art. 2497
comma 1 c.c. sono piuttosto requisiti e presupposti della responsabilità derivante da illegittimo
esercizio di quell’attività?

Trib. Milano 2.2.2012, Società, 2012, 7, 746,


Il fatto: si tratta dell'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 2497 c.c. da parte degli azionisti di
minoranza degli Istituti Clinici Zucchi S.p.A. (ICZ), Gavazzi e Averla S.p.A., nei confronti del
Policlinico San Donato in qualità di controllante della ICZ, nei confronti del Presidente del
consiglio di amministrazione del Policlinico e di ICZ, nei confronti dell'Amministratore delegato di
ICZ, dei Componenti del collegio sindacale di ICZ e Policinico San Donato. I soci di minoranza
lamentano operazioni di svuotamento della liquidità della controllata a vantaggio della controllante
che avrebbe di fatto acquisito un finanziamento pagando interessi ad un tasso inferiore rispetto a
quello di un qualsiasi istituto bancario, nonché la messa in opera da parte della controllante di una
costante ed irragionevole strategia di accantonamento degli utili di esercizio maturati da ICZ in via
strumentale al transito di liquidità. Nel contesto della domanda principale, gli attori chiedevano di
esercitare anche il diritto di recesso ai sensi dell'art. 2947 quater, comma 1, lett. b) c.c.
Motivi della decisione:[...] III) Infondatezza delle domande attoree.- È preliminare alla
valutazione della fondatezza delle allegazioni in fatto, quella dell’inquadramento giuridico che
delle medesime è stato offerto da parti attrici. Queste, peraltro solo in memoria conclusionale,
hanno ricostruito la norma espressa dall’art. 2497 comma 1 c.c. affermando che dal riferimento
operato “nel tracciare i contorni dell’attività vietata alla società capogruppo, al suo agire
‘nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui’, deve trarsi la conclusione secondo cui presupposto
base (necessario ma non sufficiente) di liceità della direzione e coordinamento di altre imprese è il
perseguimento, da parte, della società suddetta, negli atti posti in essere con le società figlie, di un
interesse imprenditoriale di gruppo. Può dirsi con ciò chiarito, pertanto, che di fronte all’avvenuto
compimento di un atto di direzione societaria ... questo non possa in nessun modo considerarsi
lecito allorché non ne consti il coerente, preciso e specifico inserimento in un programma rivolto al
perseguimento di un vantaggio economico all’impresa ‘di gruppo’concretamente esercitata”.La
dottrina avrebbe perciò “negato la legittimità di atti insuscettibili di arrecare vantaggi
‘all’interesse di gruppo’ e rivolti invece al mero interesse della controllante”.Sussisterebbe, cioè,
un “requisito minimo” od una “precondizione” della liceità dell’attività di direzione e
coordinamento, costituita dal “razionale perseguimento di un vantaggio (di gruppo e, dunque, di
tutte le società in esso coinvolte)”.Si tratterebbe di una precondizione della legittimità dell’attività
di direzione e coordinamento necessaria - in quanto, in mancanza, tale attività diverrebbe già solo
per questo illegittima e foriera di responsabilità - ma non sufficiente, poiché anche “la direttiva
della società controllante, che pur persegua un interesse di gruppo, ma leda la ‘corretta gestione
societaria e imprenditoriale’, della singola società ‘di gruppo’ è fonte diretta di
responsabilità”.Addirittura “il requisito del rispetto della corretta gestione imprenditoriale della
controllata impone infatti alla capogruppo una valutazione ex ante della possibilità di un vantaggio
specifico della controllata in una data operazione oggetto di direzione, non bastando la
dimostrazione del perseguimento dell’interesse, del gruppo nel suo complesso”. Il Tribunale non
condivide siffatta interpretazione del dato normativo, tra l’altro all’evidenza animata da un intento
di ribaltamento dell’onere probatorio che, in queste azioni, incombe in parte preponderante

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sull’attore (v. postea).In realtà già da una piana lettura della norma - oltre che da evidenti
considerazioni sia di natura economico-aziendalistica (il gruppo si costituisce per ottimizzare
risorse organizzative, abbattere costi, ampliare quote di mercato, sfruttare economie di scala,
organizzare sinergie, ecc. situazioni tutte che, per essere realizzate, richiedono un’attività di
direzione e coordinamento) sia di natura costituzionale (art. 41 comma 1 cost.: “L’attività
economica privata è libera”) - si evince che il dato da cui partire per esaminare la norma è che
l’attività di direzione e coordinamento è in se stessa legittima. Dal che si desume che non esistono
precondizioni o requisiti di legittimità, che siano previsti dalla norma in questione, la quale
designa invece solo i limiti di quella liceità, cioè casi e situazioni in cui essa, in presenza di
determinate circostanze, diviene illegittima. Cioè i requisiti stabiliti dall’art. 2497 comma 1
c.c. sono requisiti e presupposti della responsabilità derivante da illegittimo esercizio di
quell’attività, non certo - declinati al contrario - requisiti della sua legittimità. Dunque l’inciso
“agiscono nell’interesse proprio o altrui” va letto in corrispondenza con il disposto dell’ultimo
periodo dello stesso comma (“Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce
del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente
eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette”) e determina la liceità di ogni operazione
compiuta nell’esercizio di attività di direzione e coordinamento che sia economicamente neutra
per la controllata, cioè o non dannosa o dannosa quando il danno sia compensato da vantaggi di
gruppo o eliso da specifiche operazioni di segno opposto. [...]L’inciso, dunque, non può esser
letto nel senso che la controllante “non deve agire nell’interesse proprio” o, addirittura “deve
agire nell’interesse del gruppo o nell’interesse della società del gruppo etero-diretta”. La norma
va invece letta nel suo complesso come concessiva della possibilità che la controllante agisca
anche nell’esclusivo interesse proprio, purché non rechi danno alle controllate o i danni causati
siano adeguatamente compensati, sicché l’attività di coordinamento dia, per le controllate, un
risultato almeno neutro. Si tratta appunto dell’individuazione del “punto di equilibrio” tra
interessi della controllante e delle controllate come sintetico requisito di liceità dell’attività in
questione, cui, nell’interpretare la norma, si è riferita autorevole dottrina. Del resto
l’interpretazione qui non condivisa, facendo assurgere l’interesse di gruppo o l’interesse delle
controllate a requisito di liceità dell’attività di direzione e coordinamento, acuirebbe notevolmente
le difficoltà ed incertezze applicative che la norma comunque presenta: si pensi all’estrema
difficoltà di individuare l’interesse di gruppo; alla valenza da riconoscere ai conflitti tra gli
interessi delle controllate tra loro; al difficile rapporto logico/giuridico tra il configurato requisito
di liceità ed il requisito di illiceità cioè la violazione dei principi di corretta gestione. Conviene
allora attestarsi sull’interpretazione che già questo Tribunale ha fornito della norma che ci
occupa, che vede entrambi gli elementi - l’azione della controllante nell’interesse proprio o altrui
e la violazione dei principi di corretta gestione - come componenti della complessa fattispecie che
designa la responsabilità della controllante verso le controllate: “In questo quadro assumono
rilevanza: - la condotta, cioè l’esercizio, da parte di una società, di attività di direzione e
coordinamento nei confronti di altre; - l’antigiuridicità della condotta, cioè l’esercizio di
quell’attività nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui, dunque estraneo a quello della
società soggetta alla sua direzione/coordinamento, e in violazione dei principi di corretta gestione
societaria e imprenditoriale delle società sottoposte ad essa; - l’evento dannoso, ovvero il
pregiudizio arrecato al valore od alla redditività della partecipazione; - il nesso di causalità tra
condotta ed evento. Tutti tali elementi, essendo costitutivi della responsabilità della società
controllante, devono essere provati dal socio della controllata, in base ai principi generali,
potendo la convenuta esimersi dalla responsabilità solo provando che l’inadempimento non le è
imputabile” (Trib. Milano, sez. VIII civile, 17.6.2011, r.g. 83454/2009)[...]

5. Natura della responsabilità e significato della violazione dei principi di corretta gestione
societaria ed imprenditoriale

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Trib. Milano Sez. VIII, 13 febbraio 2008, S.C.P. c. E.D.F. e altri, Massima redazionale, 2008
Con l'art. 2497 c.c, il legislatore ha inteso introdurre un regime speciale di responsabilità, della
quale sono precisati alcuni requisiti essenziali, tra cui i soggetti direttamente responsabili, la
condotta fonte di responsabilità, il danno, che per il socio è costituito dal pregiudizio alla redditività
e al valore della partecipazione sociale, e per il creditore nella lesione cagionata all'integrità del
patrimonio sociale.
Trib. Milano Sez. VIII, 23 aprile 2008, Cuden Enterprises L.L.C. c. Bayer S.p.A. e altri
Società, 2009, 1, 78 nota di FICO
Il nuovo art. 2497 c.c., nella sua formulazione strettamente letterale, fa riferimento ad un esercizio
attivo di funzioni di direzione e coordinamento, secondo condotta intenzionalmente orientata,
all'interno di uno schema che prevede, dunque, una influenza attiva sulla vita della controllata
consapevolmente esercitata dalla capogruppo ed una altrettanto consapevole cooperazione da parte
degli amministratori della controllata medesima.
Trib. Napoli Sez. VII Dec., 26 maggio 2008, Fallimento di Costruzioni Edili M.L. s.n.c. e altri
c. Fallimenti S.d.f. tra M.S. M.S. e M.F., Fallimento, 2008, 12, 1435 nota di CAGNASSO
La violazione del dovere di corretta gestione da parte della società che esercita il potere di direzione
e coordinamento integra un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale con riguardo ai creditori della
società eterodiretta. La misura del danno derivante ai creditori della società eterodiretta dalla
violazione del dovere di corretta gestione da parte della società controllante deve essere
commisurata al danno conseguente alle violazioni contestate.
Trib. Pescara, 2 febbraio 2009, Ampolo Rella c. Soc. Natuzzi, Società, 2010, 6, 683 nota di
ZANELLI
La responsabilità in capo alla società dominante ha natura aquiliana e deriva dal fatto illecito del
dannoso esercizio del potere contrattuale ai danni della società coordinata e gestita. Costituiscono
indici rivelatori della illiceità della condotta, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2497 c.c., la violazione
dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, l'agire nell'interesse imprenditoriale
proprio o altrui, il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione e/o la lesione
cagionata all'integrità del patrimonio della società ed il nesso di causalità.
Trib. Palermo Sez. I, 15 giugno 2011, De Simone e altri c. Soc. Coimpredil e altri, Foro It.,
2011, 11, 1, 3184
La responsabilità per violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale
nell'attività di direzione e coordinamento di società, di carattere diretto ed avente natura
extracontrattuale, deriva dal mancato rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede
imprenditoriali, tale da configurare un abuso nell'esercizio del potere di direttiva e di istruzione,
preordinato volutamente a soddisfare interessi propri della capogruppo o di altri soggetti, interni o
esterni al gruppo, in ipotesi sfavorevoli o pregiudizievoli per la società controllata.
Trib. Milano, 17 giugno 2011, R.P. c. H41 s.r.l. e altri, Società, 2011, 9, 1099, con nota di A.
STABILINI
La responsabilità per violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale
nell'attività di direzione e coordinamento di società ha carattere diretto e natura contrattuale,
presupponendo un preesistente dovere di protezione avente contenuto definito posto a carico della
società dirigente verso la società diretta ed i suoi soci. Le scelte gestionali connotate da
discrezionalità soggiacciono alla c.d. "business judgment rule", secondo la quale è preclusa al
giudice la valutazione del merito di quelle scelte ove queste siano state effettuate con la dovuta
diligenza nell'apprezzamento dei loro presupposti, delle regole di scienza ed esperienza applicate e
dei loro possibili risultati, essendo consentito al giudice soltanto di sanzionare le scelte negligenti, o
addirittura insensate, macroscopicamente ed evidentemente dannose "ex ante".

Cass. 28 febbraio 2012, n. 3003, est. Giuseppina Luciana Barreca


Si configura un fatto illecito da informazioni o da dichiarazioni false od inesatte a carico della
società controllante di una delle due parti contraenti, nell'ipotesi in cui tale società, terza rispetto al

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contratto ed al di fuori di qualsiasi dichiarazione di per sé vincolante e coercibile, con la sua
condotta scorretta, manifestata vuoi direttamente per il tramite dei suoi organi, vuoi mediante
direttive alla controllata, e consistente nell'indurre o rafforzare l'affidamento del creditore della
società controllata nella capacità di adempimento di quest'ultima, abbia cagionato un danno ingiusto
per lesione dell'affidamento dell'altra parte contraente, la quale abbia, per tale motivo, continuato ad
operare forniture alla controllata medesima, poi non adempiute. La responsabilità in questione ha
natura aquiliana, riconducibile alla clausola generale dell'art. 2043 cod. civ., per essere l'autore
dell'illecito estraneo al contratto stipulato a causa delle informazioni fornite e per non essere
configurabile l'inadempimento di specifiche obbligazioni gravanti sul dichiarante; ne consegue che
la parte danneggiata ha l'onere di provare tutti gli elementi, oggettivo e soggettivo, della fattispecie
dannosa. [massima ufficiale].
Il fatto: la Pantrem è società che opera nel settore dell'abbigliamento e si rifornisce dalla Devil's
Point Italia per i tessuti. La Devil's continua a rifornire la Pantrem, nonostante la gravissima
situazione di dissesto in cui versa perché fa affidamento sulla Gepi che controlla la Pantrem al 70%
e nel cui cda ha messo dei suoi professionisti di fiducia. Secondo la Devil's sia la Gepi che la
Pantrem sono responsabili dei danni che le sono stati arrecati. La sentenza impugnata, in estrema
sintesi, ritiene responsabile direttamente la Pantrem e la Gepi per concorso nell'illecito, a seguito
del rapporto di controllo per le dichiarazioni e comportamenti dei propri rappresentanti.
La Cassazione censura il lavoro nei gradi precedenti per non aver operato bene sulle qualificazioni
giuridiche delle fattispecie, e ritiene che non si tratta di lesione del credito, non si tratta di induzione
all'inadempimento, non si tratta di responsabilità ai sensi dell'art. 2497 c.c.
Motivi della decisione[...]Per poter configurare un' ingiusta lesione del credito imputabile, nel
caso di specie, alla Gepi, terzo rispetto al rapporto contrattuale intercorso tra Devil's Point Italia e
Pantrem, si dovrebbe assumere che la condotta della prima, specificamente nel ruolo di società
controllante di una delle società contraenti, sia stata tale da determinare l'impossibilità di
adempiere da parte di quest'ultima; si dovrebbe cioè assumere che l'interferenza della controllante
abbia in qualche modo compromesso la capacità di adempimento della controllata.
Orbene, la responsabilità della controllante per fatti di tal genere non risulta essere stata dedotta
in causa, dovendosi, in particolare, escludere che la società odierna resistente colleghi in via
immediata i danni, dei quali ha chiesto il risarcimento, alla lesione dell'integrità patrimoniale della
sua controparte contrattuale, per di più deducendone l'imputabilità alla controllante Gepi. Quindi,
nè di lesione del diritto di credito, ne' di induzione all'inadempimento si tratta (nè viene in rilievo la
fattispecie di responsabilità della capogruppo disciplinata dall'art. 2497 c.c., nel testo introdotto
dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in caso di relazione di controllo fra società che faccia presumere
un'attività di direzione e coordinamento, peraltro non direttamente applicabile ratione temporis).
Piuttosto, l'insolvenza della Pantrem rileva soltanto nel senso che, a detta della Devil's Point Italia,
se ne avesse conosciuto per tempo il pericolo relativo e se la situazione patrimoniale della società
non fosse stata in qualche modo celata ai suoi creditori, attuali e potenziali, essa Devil's Point
Italia si sarebbe diversamente comportata nello svolgersi della vicenda contrattuale. 4.2. - Pur a
voler riconoscere che, secondo l'assunto della danneggiata, questa sarebbe stata indotta a
contrarre un'obbligazione con una debitrice che non sarebbe stata in grado di adempiere, ovvero
non sarebbe stata in grado di adempiere esattamente, la situazione giuridica della quale si assume
la lesione non è certo il diritto di credito, bensì l'affidamento che la contraente ripose nelle
"assicurazioni" (così definite dal giudice a quo) della controparte contrattuale e della sua
controllante. Si viene così a configurare un illecito c.d. da informazioni (e/o dichiarazioni) false o
inesatte. Proprio un illecito siffatto sembra che la sentenza impugnata abbia voluto individuare
nella fattispecie in trattazione. [...]
4.3.- Piuttosto, si verte nell'ambito di dichiarazioni, rivolte, dalla controllata, su (pretese) direttive
della controllante, o direttamente da quest'ultima, ai creditori (e, sembrerebbe, in particolare ad
uno dei creditori) della società controllata, idonee ad ingenerare l'affidamento sulla capacità di
adempimento di quest'ultima (con riguardo a contratti da concludere e/o già conclusi).

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Non resta che fare riferimento alla generale tutela aquiliana apprestata dall'art. 2043 c.c.[...]

6. Come funziona la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c.? Che significa "solo se"?

Si e' molto discusso sul significato dei commi 1 e 3 dell'art. 2497 c.c.: da una parte c'e' un'azione
diretta nei confronti della controllante (primo comma), responsabile del danno, dall'altra si
subordina l'esercizio dell'azione alla preventiva insoddisfazione del credito rispetto alla societa'
controllata (terzo comma). Si e' condivisibilmente osservato che la previsione del terzo comma non
autorizza a ritenere che ci troviamo di fronte ad un beneficium excussionis o ad un beneficium
ordinis. Semplicemente, laddove il socio o il creditore sociale della controllata dimostrino che il
patrimonio della controllata e' incapiente, ad esempio perche' e' fallita e non ci sono possibilita' di
recupero del credito (secondo me anche laddove queste possibilita' di recupero sono estremamente
difficoltose, dubbie o lunghe) hanno diritto sulla base del primo comma ad agire direttamente ed
immediatamente nei confronti della controllante.
Il solo se del terzo comma, in realtà, e' la clausola per evitare il raddoppio di responsabilita',
giacche' non si puo' agire per lo stesso danno nei confronti della danneggiante indiretta
(controllante) e della danneggiante diretta (controllata).
Si tratta quindi di una limitazione della responsabilita' perche' ci sono due soggetti responsabili, ma
il danno e' uno. I titoli delle responsabilita' sono due: art. 2497 c.c. nei confronti della
controllante, artt. 2393-2394/2476 c.c. nei confronti degli amministratori della controllata

Va precisato che ai sensi dell'art. 2497, comma 2, c.c. oltre alla societa' o ente controllante risponde
chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia
consapevolmente tratto beneficio.
Cio' significa che risponde o puo' rispondere in proprio anche l'amministratore e/o il socio
della controllante nonche' un qualsiasi terzo che abbia consapevolmente tratto beneficio
dall'operazione (e quindi anche un eventuale acquirente o cessionario del bene che e' fuoriuscito
dalla societa')
Qual e' il senso dell'art. 2497 c.c.? Ha una sua specifica utilita' o e' inutile perche' c'e' l'art. 2043
c.c.? Se si osserva con attenzione, cio' che giustifica l'azione di responsabilita' del socio o del
creditore sociale nei confronti della controllante danneggiante e' la lesione del credito da parte di un
terzo. Ma questa categoria - la lesione del credito - dal caso Meroni in poi e' ben conosciuta: si tratta
infatti dell'art. 2043 c.c. nella sua massima espansione.
Qui, a differenza del caso Meroni, non c'e' il diritto al risarcimento del danno conseguente
all'impossibilita' materiale della prestazione (la morte del calciatore) ma piu' semplicemente
l'impossibilita' giuridica della prestazione (la redditivita' o il valore della partecipazione sociale per
il socio e' scemata mentre il creditore sociale vede ridotta o azzerata la garanzia patrimoniale
costituita dal patrimonio della societa' danneggiata).
Che cosa succede nella materia societaria?
L'art. 2393 e' norma speciale per cui, ogni qualvolta non e' sufficiente, si applica il 2043 o e'
norma eccezionale che mette fuori gioco il 2043? Analogamente, rispetto ai gruppi, se il
sistema e' chiuso e' necessario il 2497, altrimenti si puo' fare tutto con il 2043, come del resto
si è detto prima della riforma (Cass. 18 dicembre 1985, n. 6475, GI 1986, I, 1, 1650; Trib.
Orvieto 4 novembre 1987, GI 1988, I, 2, 501; App. Milano 10.3.1995, Soc 1995, 1437)
Ora bisogna riflettere su una circostanza, il giudice penale ha un'arma potentissima di
condanna, anche con riferimento alle statuizioni civili, che e' l'art. 110 c.p. - il concorso infatti
e' uno strumento micidiale. Il giudice penale non ci pensa due volte, non solo a condannare
penalmente il consulente fiscale come concorrente nella bancarotta, ma anche a condannarlo
civilisticamente laddove vi sia costituzione della curatela fallimentare. A fronte di questa
potentissima arma del giudice penale, il giudice civile si avvale dell'art. 2043 c.c. Sotto questo
profilo, il paracadute dell'art. 2043 c.c. funziona anche nel societario. Ciò nondimeno, il

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microsistema del societario è imprescindibile perche' bisogna contemperare la giusta liberta' degli
amministratori con la giusta protezione per i soci

Ore nella prospettiva storica, va rilevato che nella relazione di accompagnamento alla legge di
riforma si è detto «che il problema centrale del fenomeno del gruppo fosse quello della
responsabilità, in sostanza della controllante, nei confronti dei soci e dei creditori sociali della
controllata» e si è anche chiarito che la disciplina così introdotta non si sostituisce, ma si aggiunge,
a quella già esistente a tutela dei soci e dei creditori sociali prevista dagli artt. 2395 e 2394. I
precedenti legislativi più rilevanti sono legati alla disciplina dell'amministrazione straordinaria
delle grandi imprese in crisi. Dapprima l'art. 3, ultimo comma, d.l. 26/1979 (convertito in legge
95/1979) ha introdotto, con riferimento all'ipotesi di direzione unitaria di un gruppo di società, la
responsabilità degli amministratori della società capogruppo, in solido con la società in
amministrazione straordinaria, nei confronti della società stessa. Successivamente, l'art.90 D.lgs.
270/1999 ha stabilito che «nei casi di direzione unitaria delle imprese del gruppo, gli
amministratori delle società che hanno abusato di tale direzione rispondono in solido con gli
amministratori della società dichiarata insolvente dei danni da questa cagionati alla società stessa in
conseguenza delle direttive impartite». Secondo una parte della dottrina (Galgano), invece, il
modello di riferimento della responsabilità ex art. 2497 c.c. non andrebbe ricondotto al precedente
offerto dalla disciplina dei gruppi nella legge Prodi sull'amministrazione straordinaria delle grandi
imprese in crisi - ancora legata al tradizionale schema della responsabilità degli amministratori -
ma, piuttosto, al D.lgs. 231/2001 che ha introdotto nel nostro sistema la responsabilità da reato
delle persone giuridiche, «la cui peculiarità sta nel fatto che la persona giuridica risponde del reato
commesso nel suo interesse o per il suo vantaggio, a prescindere dalla individuazione tanto degli
autori materiali del reato quanto dei loro mandanti». Come nel D.lgs., così nella responsabilità qui
in esame, se è vero infatti che l'ente collettivo è formalmente il soggetto escusso dall'azione di
responsabilità, è vero anche che i suoi soci finiscono per essere i soggetti incisi, nella cui sfera
patrimoniale si riflette la condanna al risarcimento del danno, in termini di riduzione del valore
patrimoniale della partecipazione e di contrazione dell'utile distribuibile.

Trib. Milano Sez. VIII, 14 giugno 2006 Chart Limited c. Banca Intesa S.p.A. Massima
redazionale, 2006
La norma di cui all'art. 2497 c.c. ha lo scopo di escludere l'eventualità della duplicazione della
soddisfazione del socio o creditore per quella parte del danno per cui sia stato soddisfatto.
Pertanto, resta salva la possibilità di agire nei confronti della dominante per il residuo danno
derivante dalla perdita che il socio subisce dal fatto di essere soddisfatto dalla società da lui stesso
partecipata. A ciò consegue che, ove la domanda sia fondata, una parte del danno, che dia
fondamento alla procedibilità in sede di cognizione, non possa mai essere esclusa.
Trib. Pescara, 16 gennaio 2009, A.R.R. c. Natuzzi S.p.A. e altri, Società, 2010, 6, 683 con nota
di ZANELLI, secondo cui Quanto alla legittimazione passiva della azione di responsabilità in
esame, si condivide la posizione di autorevole dottrina per la quale la norma di cui al terzo comma
dell'art. 2497 c.c. (per cui "il socio ed il creditore sociale possono agire contro la società o l'ente che
esercita l'attività di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla società
soggetta alla attività di direzione e coordinamento") pone soltanto un onere di preventiva
escussione del patrimonio della società sottoposta all'altrui abusivo esercizio di direzione
unitaria e non riguarda l'azione di cognizione.
Trib. Milano, 17 giugno 2011, R.P. c. H41 s.r.l. e altri, Società, 2011, 9, 1099 e Società, 2012, 3,
258 nota di SIMONETTI, secondo cui la norma prevista nell'art. 2497, comma 3, c.c. pone in capo
al socio un onere di richiesta di soddisfazione, che ben può essere assolto anche citando in giudizio
la società controllata in chiave di "denuntiatio litis". La mancata soddisfazione da parte di questa
consente ai soci di agire verso la "holding" senza che debbano agire previamente verso la loro

28
società o, addirittura, escuterla infruttuosamente; la previa intervenuta soddisfazione dei soci
danneggiati da parte della loro società preclude loro la possibilità di agire verso la "holding".

7. Interesse e legittimazione ad agire

Trib. Pescara 16 gennaio 2009, A.R.R. c. Natuzzi S.p.A. e altri, Società, 2010, 6, 683 nota di
ZANELLI
L'azione di responsabilità per la violazione dei principi di corretta gestione societaria ed
imprenditoriale nei confronti della società che esercita il potere di direzione e di coordinamento di
altre società di capitali è proponibile anche da parte dell'ex socio, atteso che, ai fini della
legittimazione attiva, ha rilievo decisivo la qualità di socio al momento della realizzazione del
comportamento sanzionato e delle conseguenze patrimoniali dannose.
Trib. Milano, 17 febbraio 2011, G.G. e altri c. P.S., Società, 2012, 5, 577
I soci di minoranza della società controllata che agiscono per fare valere la responsabilità da attività
di direzione e coordinamento ai sensi dell'art. 2497 c.c. non hanno interesse e non sono legittimati a
sindacare l'utilizzo che la controllante abbia fatto delle risorse ottenute attraverso l'esercizio
dell'attività di direzione e coordinamento.

8.Competenza in caso di fallimento

Trib. Napoli Sez. VII, 28 gennaio 2009,R. e altri c. Fallimento FEM S.p.A. , Società, 2009, 11,
1413 nota di AMBROSINI
L'azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146 della legge fallimentare (e,
analogamente quella intrapresa ai sensi dell'art. 2497 c.c.) non rientra nell'ambito applicativo
dell'art. 24 della legge fallimentare -R.D. n. 267/1942 - ed è quindi sottratta alla competenza del
tribunale fallimentare, dovendosi applicare gli ordinari criteri di competenza per valore e per
territorio.

9. Onere della prova

Cass. 24 agosto 2004, n. 16707, est. Renato Rordorf


Non può, viceversa, sostenersi - come sembra fare la corte d'appello - che la mera appartenenza
della società ad un gruppo renda plausibile l'esistenza dei suddetti "benefici compensativi" e che,
pertanto, competa alla società la quale abbia agito contro il proprio amministratore l'onere di
dimostrarne l'inesistenza. Viceversa, la società attrice esaurisce il proprio onere probatorio
dimostrando l'esistenza di comportamenti dell'amministratore che ledono il patrimonio dell'ente e
perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo
amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allagare e provare gli ipotizzati benefici
indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare
efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta.
Cass. 11.12.2006, n. 26325, est. Luciano Panzani, conforme Cass. 24 agosto 2004, n. 16707
App. Napoli, sez. VII, 10 gennaio 2007, Fallimento Bionectar S.r.l. contro F.V. Ambrosio e
altri, inedita, conforme Cass. 24 agosto 2004, n. 16707
Trib. Roma, 17 luglio 2007, Massima redazionale, 2010
Per la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c. è necessario che siano provate: l'attività di direzione e
coordinamento esercitata in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale,
l'esistenza di direttive impartite dalla società che esercita la direzione, che l'esecuzione delle
direttive abbia cagionato un danno, il nesso causale tra il danno e l'attività di direzione e
coordinamento.

29
Trib. Roma Sez. III, 5 febbraio 2008, Cirio Finanziaria s.p.a. in ammin. straord. Società, 2009,
4, 491 nota di SCOGNAMIGLIO e Giur. It., 2009, 1, 109 nota di WEIGMANN, conforme Cass. 24
agosto 2004, n. 16707
Trib. Napoli, 9 aprile 2008, Fall.ti Costruzioni edili M.L. s.n.c. di Marino Raffaele c. Fall.ti
Soc. di fatto tra M. S., M. S. e M. F. e M. S., Dir. Fall., 2009, 2, 2, 235 nota di PENTA
La lesione dell'aspettativa di prestazione è annoverata nella più generale figura della lesione del
credito, che ricorre non soltanto quando il fatto doloso o colposo altrui abbia determinato
l'estinzione del credito, ma anche quando l'aspettativa del creditore sia vulnerata, pur non venendo
definitivamente meno la possibilità di esigere nel futuro le proprie prestazioni. La clausola
generale dell'art. 2043 c.c. ben si presta a fornire tutela aquiliana nell'ipotesi di concorso del terzo
nell'altrui inadempimento. Il diritto al risarcimento del danno sorge per effetto del danno che la
condotta attiva o omissiva dell'agente abbia causato; di talché il termine quinquennale comincia a
decorrere dal momento in cui la produzione del danno si manifesti all'esterno, divenendo
oggettivamente percepibile. Il curatore, nell'ipotesi di attività di direzione e di coordinamento, ha
l'onere di provare le specifiche condotte dannose, il nesso di causalità tra di esse ed il danno che
assume prodotto ed il preciso ammontare di quest'ultimo, non potendo limitarsi a richiamare
l'importo del passivo fallimentare.
Trib. Milano, 17 febbraio 2011, G.G. e altri c. P.S., Società, 2012, 5, 577
Sul socio della società controllata che agisce per fare valere la responsabilità da direzione e
coordinamento grava l'onere di provare: l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento;
l'antigiuridicità della condotta, vale a dire l'esercizio della predetta attività nell'interesse proprio o
altrui, dunque estraneo a quello della società soggetta alla direzione e coordinamento e in violazione
dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società sottoposte ad essa; l'evento
dannoso; il nesso di causalità.

10. La teoria dei vantaggi compensativi

Cosa c'è dietro la teoria della responsabilità dei gruppi: la necessità di porre un limite alle tecniche
abusive e alle pratiche di svuotamento delle controllate e ai trasferimenti fraudolenti di ricchezza.
Secondo Montalenti, il discrimen decisivo è lo stato d'insolvenza. E' in questa ipotesi che emergono
le frodi consumate ai danni dei creditori e il terreno delle garanzie infragruppo ne è stato il luogo
elettivo di coltura. In questa materia il punto critico consiste nell'individuazione di criteri ed indici
per stabilire i confini tra fisiologia e patologia, tra prestazione di garanzie in cui si realizza il
meccanismo compensativo e prestazione di garanzia con cui si opera un trasferimento fraudolento
di risorse.
1) La prestazione di garanzie anche gratuite da parte della controllante a favore delle
controllate può soddisfare un interesse economico, sia pure indiretto e mediato della società
garante
Secondo Cass. 14 settembre 1976, n. 3150, gli interventi gratuiti (nella specie: avallo di cambiali)
compiuti da una società a favore di un'altra società giuridicamente autonoma dalla prima - qualora
ricorrano particolari circostanze che rivelino irrefutabilmente unitarietà di finalità e di
amministrazione, e identità di interessi - debbono presumersi non già come espressione di spirito di
condiscendenza o di liberalità, bensì come atti preordinati al soddisfacimento di un proprio interesse
economico, sia pure mediato e indiretto, ma giuridicamente rilevante, e non possono pertanto, per la
semplice mancanza di controprestazioni contrattualmente esigibili, essere considerati contrari o
estranei al conseguimento dell'oggetto sociale della società che li ha compiuti.
Secondo Cass. SU 2 marzo 1964, n. 472, se il gruppo di società, aventi ciascuna autonoma
personalità ma costituite a tutela di comuni interessi economici (holding), può essere considerato
unitario sotto il profilo economico, ciò, invece, non può assolutamente ritenersi sotto il profilo
giuridico-tributario (è stata, nel caso, ritenuta applicabile l' ige in relazione alle somme versate alla
società amministratrice, dall'amministrata, in corrispettivo del servizio reso)

30
2) La prestazione di garanzie dalla controllata a favore della controllante, a causa del rapporto
di dominio, ingenera il sospetto di depauperamento. Ma anche in questo caso, dice Montalenti,
come nella crosstream guarantees, può verificarsi un vantaggio corrispettivo.
Es. la controllante insolvente impone alla controllata il rilascio di un'ipoteca a garanzia di un
finanziamento per estinguere il debito nei confronti della banca.
Es. nel caso della upstream o della crosstream guarantee rilasciata a garanzia di un finanziamento
diretto a promuovere un piano di ricerca tecnologica di cui fruiranno tutte le società del gruppo e
quindi anche la garante
(Intercorporate guarantees fall into three types: Up-stream guarantees (the subsidiary guaranties the
parent's debt); down-stream guarantees (the parent guaranties the subsidiary's debt); and cross-stream (the
brother corporation guaranties the sister's debt)
La teoria dei vantaggi compensativi nasce nei sistemi di common law negli anni '60 per rendere
lecite le operazioni depauperative di gruppo e, secondo Montalenti, è stata applicata per la prima
volta dalla Corte di New York nel caso Case v New York Central Railroad Company del 1964 (cd.
advantage/disadvantage test). Negli anni '90, la Cassazione ha in sostanza escluso la scriminante dei
vantaggi compensativi con un'interpretazione negativa dell'esistenza del gruppo.
Sempre secondo Montalenti bisogna avere una visione elastica delle politiche del gruppo, ritenendo
scriminata la condotta che reca danno alla società nell'ambito di una politica di gruppo di medio e
lungo termine da cui ragionevolmente può derivare un vantaggio alla singola società anche su piani
economici differenti, anche in tempi diversi rispetto al momento dell'operazione ed anche secondo
un parametro non rigidamente proporzionale, né necessariamente quantitativo.

11. La teoria dei vantaggi compensativi nella giurisprudenza civile

I precedenti:
Trib. Venezia 14 dicembre 1990 (decr.), Nuova giur. civ. comm. , 1992, I, 898, (caso DEKALB)
in cui i giudici hanno analizzato operazioni di compravendita tra controllante e controllata e
viceversa, a prezzi di trasferimento superiori o inferiori a quelli di mercato, valutando
analiticamente la sussistenza (nel caso di specie negata) di ragioni economiche che giustificassero
lo scostamento da prezzi correnti
Appello Milano 11 luglio 1991, in Società, 1991, 1664, (caso TETRAFIN) che ha statuito il
principio secondo cui il conflitto di interesse nei gruppi non si configura per il semplice fatto che la
società controllata abbia subito un pregiudizio, perché questo profilo non può essere valutato in
modo isolato, dovendosi invece tener conto dei vantaggi derivanti dal gruppo
Trib. Verona 31 gennaio 1991, in Società, 1991, 1086 (caso DIMA), in cui si riconosce la
legittimità della scelta dell'organo amministrativo di orientare l'attività nei confronti della
controllante o capogruppo, fissando nel contempo un limite nella circostanza che le relazioni
privilegiate non determinino uno svuotamento economico della controllata
Trib. Milano, 19 marzo 1993, in Società, n. 9/1993, p. 1249, confermato da App. Milano, 5
febbraio 1994, in Soc., 1994, p. 1062, (caso Scotti) in cui si valuta in termini di congruità delle
scelte di politica aziendale la rinuncia ai crediti nei confronti della controllata per favorire l'aumento
di capitale da parte del socio di riferimento della controllante e in cui si afferma che l'operazione
dev'essere analizzata per stabilire le condizioni in cui essa è avvenuta ... e se realizzi e in quale
modo un congruo bilanciamento tra sacrifici e vantaggi. La decisione d'Appello applica la business
judgement rule.
Cass. 8 maggio 1991, n. 5123, est. F. Favara, in Società, 1991, 1349 stabilisce che Il gruppo di
imprese non costituisce un soggetto giuridico o comunque un centro di interessi autonomo rispetto
alle società collegate e, pertanto, anche ai fini della responsabilità degli amministratori - quando
manchi la prova di un accordo fra le varie società, diretto a creare un'impresa unica, con direzione
unitaria e patrimoni tutti destinati al conseguimento di una finalità comune e ulteriore - va valutato
il comportamento che la legge e l'atto costitutivo impongono rispetto alla società di appartenenza,
31
talché essi rispondono verso la medesima società della inosservanza dei loro doveri, senza che sia
possibile, compensare, in una valutazione globale del loro comportamento, il pregiudizio cagionato
a quest'ultima, per effetto di "mala gestio", col corrispondente vantaggio di altra società del gruppo.
Dalla lettura dei passi più significativi della motivazione, si ricava che:
a) la Cassazione si occupa di un fenomeno di controllo piuttosto che di gruppo dominato da una
direzione unitaria;
b) in questa prospettiva, la Cassazione osserva il rapporto delle società atomisticamente e respinge
con decisione la teoria dei vantaggi compensativi che, non lo dice espressamente, ma lo si intuisce
allorché respinge le argomentazioni dei ricorrenti, non si applica al caso di specie proprio perché
non c'è il gruppo vero e proprio.
2 - Attraverso l'esame complessivo delle articolate censure proposte dai ricorrenti e sopra
riassunte, risulta evidente il tentativo di spostare sul piano dogmatico una situazione concreta che,
secondo gli accertamenti dei giudici del merito, evidenzia - sia pure nell'ambito di rapporti
intersocietari e di collegamento tra imprese appartenenti ad un medesimo gruppo - un'operazione
economica ingiustamente pregiudizievole per la SIAC. Come è noto, la disciplina legislativa che
attualmente regola l'attività sociale svolta da gruppi di società variamente collegate tra loro è
contenuta negli art. 2359, 2359 bis, 2360 e 2361 cod. civ., nel testo risultante dopo le modifiche
apportate con la L. 7 giugno 1974 n. 216 (c.d. leggi Prodi) e con il DPR 10 febbraio 1986 n. 30,
oltre che in talune altre disposizioni dello stesso codice (art. 2372 4 c., 2424 n. 10 e 2630 n. 2 e 4,
quest'ultima che stabilisce sanzioni penali a carico degli amministratori per violazione di obblighi
e divieti previsti dalle norme su citate). Si tratta peraltro di disciplina non organica, in quanto il
fenomeno sempre più diffuso del raggruppamento di imprese (con possibili partecipazioni
incrociate) è regolato in un ambito meno ampio, poiché si parla unicamente di società "controllate"
(di cui si indicano tre ipotesi) e di società "collegate", senza dare una nozione dell'impresa di
gruppo, che è quella che realizza unitariamente un interesse sociale attraverso l'attività economica
svolta (anche) dalle imprese raggruppate o controllate. Secondo la giurisprudenza di questa
Suprema Corte, richiamata nella sentenza impugnata, il gruppo di imprese non costituisce un
soggetto giuridico o comunque un centro di interessi autonomo rispetto alle società collegate, le
quali mantengono la loro piena autonomia sul piano giuridico (sentenze n. 3945-86, 1567-83 e, per
quanto concerne il rapporto di lavoro, n. 4283-86, 650-81 e 2756-86, che dà rilevanza al
collegamento quando si possa ritenere costituito un complesso unitario nell'ambito del quale sia
configurabile una continuità del rapporto di lavoro). In linea teorica non si nega la possibilità che
più società organizzino la propria attività economica proiettandola verso il conseguimento di un
interesse comune e ulteriore rispetto a quelli realizzabili dalla singola impresa. L'accordo, o la
situazione di raggruppamento (in forma di partecipazioni incrociate, di controlli o di altri tipi di
coordinamento o anche di dominio) è vicenda societaria diffusa, poiché, consente di utilizzare il
potenziale economico di varie imprese senza ricorrere allo strumento della fusione. Ma è evidente
che si tratta di fenomeno di fatto e che l'assetto degli interessi sociali delle singole imprese,
regolato convenzionalmente, in via preventiva o determinatoria successivamente, deve evitare che
da posizioni di preminenza o di egemonia dell'una società sulle altre possano derivare ingiusti
arricchimenti a favore della società controllante, o depauperamenti altrettanto ingiusti a danno
delle società controllate, per effetto di operazioni di finanziamenti senza ritorno o senza garanzia di
distacchi di personale a favore della società diversa da quella a cui carico restano gli oneri
economici, o di altri negozi che potrebbero trovare giustificazione solo nell'ambito di una totale
soppressione dell'autonomia soggettiva delle singole società del gruppo e di una effettiva
concentrazione dei patrimoni sociali, situazioni non previste ne' volute dal legislatore. Esiste cioè,
anche tra imprese che fanno parte di un medesimo raggruppamento come imprese collegate o
controllate, e fuori dell'ipotesi (che però è tuttora sfornita di disciplina positiva) dell'impresa di
gruppo in senso stretto, (che realizza una politica di gruppo, con direzione unitaria) una
situazione di conflitto di interessi che, se non regolata convenzionalmente, certamente non può
trovare giustificazione in un preteso - e non convenuto - interesse superiore della società

32
capogruppo (spesso invocato "a posteriori" per giustificare operazioni disinvolte).La nozione di
interesse sociale, come del resto quella di pregiudizio, deve essere, pertanto valutata tenendo
conto dell'autonomia soggettiva delle singole società del gruppo e dell'eventuale regolamento di
interessi intersocietari attuato in base ad essa. Perciò, contrariamente a quanto assumono i
ricorrenti, in relazione ai vantaggi che ciascuna di essa si propone di conseguire e alle limitazioni
che ha accettato, se compatibili col proprio fine di lucro. Ed anche ai fini della responsabilità
degli amministratori, va valutato il comportamento che la legge e l'atto costitutivo impongono,
cosicché essi rispondono verso la società di cui sono mandatari dei danni derivanti dalla
inosservanza dei loro doveri, senza che sia possibile stemperare in una valutazione globale il
pregiudizio derivato dalla "mala gestio" quando al danno della società amministrata corrisponda
il vantaggio di altra società del gruppo, non preventivamente accettato.Non può poi essere
condivisa l'argomentazione che i ricorrenti propongono col primo motivo d'impugnazione là
dove, allargando il discorso alle conseguenze occasionalmente favorevoli per una società
derivante dalla "mala gestio" degli amministratori di altra società del gruppo (qui prescindendo
dall'esaminare la posizione di dominante o di controllata che in concreto spetta all'una o all'altra
delle società collegate), accusano di astrattismo la nozione istituzionale dell'interesse sociale. Se
si esclude l'esistenza di un'impresa di gruppo con direzione unitaria e interesse sociale proprio e
ulteriore, in base al concreto assetto negoziale convenuto nei rapporti intersocietari, i vantaggi
indiretti o mediati che dall'attività di una società - ispirata al proprio esclusivo interesse -
possono prodursi per altra società collegata sono solo vantaggi occasionali e non conseguimento
dell'interesse sociale. Anche le norme invocate (l'art. 2358 C.C. che estende l'accesso allo
azionariato dei dipendenti anche a quelli delle società controllate; e l'art. 2429 bis C.C. che impone
agli amministratori di riferire anche sulla gestione svolta attraverso le società controllate) sono
prive di valore ai fini della tesi propugnata dai ricorrenti: se infatti si vuole trovare conferma della
rilevanza che ha ora nel sistema positivo il collegamento tra società, indubbiamente dette
disposizioni rappresentano un dato significativo; esse tuttavia non possono assolutamente indurre a
ritenere che esista una disciplina legale dell'impresa di gruppo che valga a superare lo schermo
della personalità giuridica delle singole società collegate, ne' tanto meno che, nello specifico tema
della responsabilità degli amministratori (che qui interessa) esistano deroghe al rigoroso regime
giuridico fissato dal codice civile, che anzi sanziona penalmente qualsiasi violazione delle norme
che tendono a circoscrivere l'ambito degli acquisti di azioni da parte delle società controllanti e
delle sottoscrizioni reciproche e perciò proprio quelle commistioni di capitali azionari che
ingegnerebbero confusione di gestioni e pregiudizio agli interessi particolari. Anche il richiamo
(fatto col secondo motivo del ricorso) al disposto dell'art. 2362 C.C. è inappropriato: la
parificazione tra società con unico azionista (per il venir meno della pluralità dei soci) e singola
società del gruppo che fa capo ad una società egemone e da questa interamente posseduta
(situazione che gli stessi ricorrenti riconoscono essere "inversa") è infatti del tutto inaccettabile ed
è perciò inidonea a consentire la proposta applicazione analogica dominata (al pari dell'unico
azionista) per una pretesa assenza di conflitto di interessi. Va al riguardo anzitutto considerato
che, come ha osservato una autorevole dottrina, la posizione dell'unico azionista non è tanto quella
di socio illimitatamente responsabile (in deroga al limite derivante dalla personalità giuridica della
società), quanto quella di fidejussore "ex lege" della società dopo il venir meno della pluralità dei
soci. Si tratta poi di responsabilità verso i terzi e non verso la società e perciò di situazione
paradigmaticamente incompatibile con quella della società egemone che usi della società dominata
per il perseguimento di fini suoi propri e anzi rivelatrice di quel conflitto di interessi tra le varie
società del gruppo che si assume, in tesi, inesistente. La posizione del socio unico nella fattispecie
regolata nell'art. 2362 C.C. (ed è anche controverso se il principio valga quando l'unico azionista
sia una s.p.a.) non è pertanto comparabile a quella del socio (o società) dominato quando
l'interesse di questo sia diverso, o in conflitto, rispetto a quello del socio (o società) egemone. Con
il che il problema ritorna al suo punto di partenza e cioè che occorre sempre rispettare la
soggettività giuridica distinta delle singole società del gruppo e tener conto dei rispettivi interessi

33
sociali. Non senza rilevare che la nozione dell'interesse di gruppo quale auspicata dai suoi
fautori non può essere avvilita in quella settoriale del rapporto particolare tra società
controllante e una singola società del gruppo (solo perché dominata), proponendo come interesse
del gruppo quello del socio tiranno. 3 - Si perviene così a quello che è il punto centrale della
questione e che il giudice del merito ha bene individuato. Al di là degli astrattismi e degli
argomenti "de jure condendo", al di là di quello che potrebbe essere lo schema per regolare i
rapporti tra le varie società collegate e organizzate in un'unica impresa di gruppo, si evidenzia
un'esigenza primaria, che è - nell'attuale sistema positivo - quella di tenere conto della
soggettività giuridica distinta di tutte le società del gruppo e di rispettare l'interesse sociale di
queste, che può essere coordinato, ma non conculcato, in vista di un interesse superiore del
gruppo, il quale deve essere ulteriore, ma non per questo confliggente, rispetto a quelle delle
imprese collegate. Il problema, esaminato in relazione al caso che interessa nel presente giudizio
della responsabilità degli amministratori, si risolve in termini piuttosto semplici, dovendosi
accertare in concreto se il comportamento o l'atto di gestione contestato abbia prodotto o meno
un danno per la società che li designò, considerando la situazione di vantaggio o svantaggio
quando non espressamente prevista e accettata dalla società controllata, in relazione all'interesse
sociale che gli amministratori erano stati chiamati a perseguire. Quando perciò, come si è
accertato nella specie, manchi la prova di un accordo di gruppo diretto a creare un'impresa
unica, con direzione unica e patrimoni tutti destinati al conseguimento di una finalità comune e
ulteriore (quello dell'impresa di gruppo), è vano ricercare nella disciplina di legge (che anzi mira
piuttosto a circoscrivere prudenzialmente l'ambito delle possibili commistioni di interesse, che
potrebbero danneggiare la società più debole) una regolamentazione non solo unitaria del
fenomeno, ma anche tale da portare deroga alle specifiche norme che vincolano l'attività degli
amministratori. A tali conclusioni sembrano aderire i ricorrenti in memoria, là dove riconoscono
che si configura un conflitto quando al vantaggio particolare della società controllante
corrisponda un danno al patrimonio della società controllata (che poi - erroneamente - escludono
essersi verificato in concreto); anche se poi si pretende che le operazioni (come quelle di
finanziamento) che, si svolgono all'interno del gruppo tra società collegate realizzano sempre, pur
se pregiudizievoli, quanto meno in modo indiretto e mediato l'interesse della società dominata. E
nel caso di specie, come risulta accertato dal giudice di merito e accettato dai ricorrenti, le
operazioni contestate risultano effettuate a danno della SIAC, società interamente posseduta prima
dalla MIAB e poi dalla CIS, questa ultima a sua volta controllata dalla SIARCA, mediante un flusso
finanziario in favore della CIS e della SIARCA (poi sottoposte a liquidazione coatta
amministrativa), a totale detrimento del patrimonio sociale della società posseduta, che - secondo
gli accertamenti della Corte di Milano - nessun vantaggio, neppure indiretto, risulta avere mai
conseguito.
4 - Al fine di sottrarsi a simili accertamenti di fatto operati dai giudici del merito - i quali hanno
ravvisato il pregiudizio nelle operazioni di finanziamento (senza recupero ne' garanzia) della SIAC
e SIARCA, imprese in stato di decozione, nonché nei pagamenti degli oneri retributivi e assicurativi
in favore del personale operante per dette imprese ma incluso nei libri paga della SIAC, i ricorrenti
sostengono (col terzo motivo) che l'apprezzamento della vantaggiosità della gestione è
assolutamente discrezionale e perciò sottratto al riesame "ex post" del giudice. È vero invece
precisamente il contrario, poiché ai fini dell'azione di responsabilità sociale promossa nei
confronti degli amministratori, i doveri degli stessi vanno considerati in rapporto all'interesse
della società per la quale essi operano, una volta esclusa l'esistenza di un interesse di gruppo. Ed
il sindacato dell'autorità giudiziaria, che certamente non si estende al merito, concerne la
valutazione del comportamento degli amministratori in base ai principi generali che regolano
l'adempimento in materia contrattuale e, in specie, in base ai principi fissati per il mandato, tra i
quali ha rilievo primario il dovere di ispirare la gestione sociale agli interessi della società
preponente; laddove nel caso in esame i comportamenti suindicati miravano a favorire altra
società, con pregiudizio della società amministrata. E la motivazione fornita dalla Corte di Milano

34
sulla "mala gestio" risulta esauriente e logica ed ispirata a corretti principi di diritto. Può
aggiungersi a quanto osservato di sopra che, il tema di responsabilità degli amministratori di
società collegate, solo in caso di gestione unitaria del gruppo, potrebbe aversi una visione
parimenti unitaria dell'interesse sociale e della conformità ad esso dei comportamenti degli
amministratori. E tale situazione nel caso di specie non ricorre.
Cass., 11 marzo 1996, n. 2001, est. Giuseppe Marziale, in Foro it., I, 1228 ss., secondo cui
l'assenza di corrispettivo, se è sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (così
distinguendoli da quelli a titolo oneroso), non basta invece ad individuare i caratteri della
donazione, per la cui sussistenza sono necessari, oltre all'incremento del patrimonio altrui, la
concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità) consistente nella consapevolezza di
attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, e di un elemento
di carattere obbiettivo, dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha assunto
l'obbligazione. Ne consegue che, quando un atto viene posto in essere da una società "controllata",
va esclusa la ricorrenza di una donazione e non è necessaria l'osservanza delle forme richieste
dall'art. 782 cod. civ. se l'operazione è stata posta in essere in adempimento di direttive impartite
dalla capogruppo o comunque di obblighi assunti nell'ambito di una più vasta aggregazione
imprenditoriale, mancando la libera scelta del donante. Inoltre, al fine di verificare se l'operazione
abbia comportato o meno per la società che l'ha posta in essere un depauperamento effettivo occorre
tener conto della complessiva situazione che, nell'ambito del gruppo, a quella società fa capo,
potendo l'eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente derivato aver trovato la sua
contropartita in un altro rapporto e l'atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben
preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto. [massima ufficiale]
Cass. 5 dicembre 1998, n. 12325, est. Giovanni Verucci, massima conforme a Cass. 11 marzo
1996, n. 2001

Dopo la riforma
Cass. 24.8.2004, n. 16707, est. Renato Rordorf, secondo cui in tema di responsabilità degli
amministratori di società di capitali verso la società stessa, appartenente ad un gruppo societario, ha
rilievo (anche a prescindere dal testo dell'art. 2497 cod. civ. come novellato dall'art. 5 D.Lgs. 17
gennaio 2003, n. 6) la considerazione dei cosidetti vantaggi compensativi derivanti dall'operato
dell'amministratore, riflettentisi sulla società in conseguenza della sua appartenenza al gruppo e
idonei a neutralizzare, in tutto o in parte, il pregiudizio cagionato direttamente alla società
amministrata; tuttavia non è sufficiente, al fine di escludere corrispondentemente la responsabilità,
la mera ipotesi della sussistenza dei detti vantaggi, ma l'amministratore ha l'onere di allegare e
provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro
idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta.
Il fatto Tra l'aprile ed il luglio del 1993 la Scotti Finanziaria s.p.a. citò in giudizio dinanzi al
Tribunale di Milano i propri ex amministratori, sigg. Florio Fiorini, Tiziano Mantovani, Fabio
Serena e Ratiber Philippe Bogislaw Peter Von Wussow. Li accusò di avere mal gestito la società,
nel periodo compreso tra la fine del 1988 ed il 1991, e di aver sacrificato l'interesse della Scotti
Finanziaria a beneficio sia della controllante Sasea Holding s.a., di cui il medesimo sig. Fiorini era
stato amministratore, sia di ulteriori società del medesimo gruppo in cui anche gli altri convenuti
avevano rivestito cariche. Chiese perciò la condanna di detti convenuti al risarcimento dei danni,
che inizialmente quantificò in L. 756.540.000.000, per poi, subito prima della decisione collegiale,
ridurre al minor importo di L. 1.000.000.000. La domanda fu rigettata in primo e secondo
grado.[...]
Motivi della decisione [...]. 3.4.1. La questione in esame, come accennato, si ricollega alla
cessione, per il prezzo di L. 200.000.000, da parte della Scotti Finanziaria alla Genaf s.r.l.,
dell'intera partecipazione di cui la prima era titolare nella Arvedi s.r.l. Ma alla Arvedi - in seguito
fallita - la medesima Scotti Finanziaria aveva pochi mesi prima trasferito immobili per L.
65.000.000.000, non ricevendo il corrispettivo (o ricevendone solo una esigua parte) e cosi

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rimanendo creditrice della Arvedi per un rilevante importo senza alcuna specifica garanzia.
Inoltre, la ricorrente assume che, successivamente, l'amministratore sig. Fiorini aveva rilasciato
una falsa attestazione di avvenuto pagamento del suddetto corrispettivo, di cui invece era stata
versata solo una rata di entità relativamente esigua, mentre il residuo credito era stato poi
costituito in pegno a favore di un terzo creditore verso la Sasea Holding ed altre società del
gruppo. La corte d'appello non ha ravvisato in questi fatti gli estremi di una qualche responsabilità
dell'amministratore della Scotti Finanziaria. Ha infatti osservato: che la falsa attestazione di
quietanza non avrebbe potuto avere di per sè effetti negativi, giacché il credito verso la Arvedi era
stato dilazionato; che neppure la dilazione poteva di per sè rappresentare un danno, non essendo
dimostrato che al momento di tale dilazione la debitrice Arvedi sarebbe stata invece in grado di
saldare l'intero suo debito;che la costituzione in pegno del credito di cui si tratta era avvenuta in
favore di un istituto bancario verso il quale le società del gruppo avevano esposizioni debitorie;
che non era stato spiegato sulla base di quali elementi l'amministratore della Scotti Finanziaria
avrebbe dovuto prefigurarsi il danno conseguente all'operazione da lui compiuta, di cui non era
dimostrata la negativa incidenza sul patrimonio della medesima società, non essendo stato chiarito
se il sacrificio immediato fosse o meno accompagnato dall'aspettativa di un beneficio futuro. Ma
tale motivazione, a parere della società ricorrente, sarebbe insufficiente ed illogica, giacché si
soffermerebbe su aspetti di dettaglio, mancando di cogliere invece il punto decisivo: consistente
nell'esser stata in tal modo la Scotti Finanziaria privata di un ingente patrimonio immobiliare a
fronte di un importo irrisorio, in assenza di garanzie e senza contropartite; una circostanza, questa,
che di per sè sola basterebbe a denotare il grave difetto di diligenza ed oculatezza
dell'amministratore sig. Fiorini, non certo bilanciato dall'astratta ipotesi di una non meglio
individuata aspettativa di benefici futuri.
3.5. La censura ora riferita, nei limiti che saranno appresso indicati, coglie nel segno.
3.5.1. Nel giudicare sul punto in esame la corte d'appello è partita da premesse giuridicamente
corrette, che in linea di principio vanno quindi senz'altro ribadite, con le precisazioni che seguono.
Non v'è dubbio che la responsabilità di amministratori di società presuppone immancabilmente la
violazione di doveri giuridici - di azione o di omissione - posti a loro carico dalla legge o dall'atto
costitutivo della società (art. 2392, comma 1, c.c.). Si suole talvolta affermare che gli
amministratori hanno anzitutto un dovere di diligenza (duty of care) cui è strettamente connesso il
dovere di operare nell'interesse esclusivo della società da essi amministrata (duty of loyalty). Che
la diligenza costituisca propriamente l'oggetto dell'obbligazione gravante sugli amministratori,
piuttosto che il metro per valutare il corretto adempimento del loro obbligo gastorio, è stato in
verità messo in dubbio, giacché anche il già citato primo comma dell'art. 2392 si riferisce (nella
formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 6 del 2003) alla diligenza del
mandatario come alla modalità con cui gli amministratori devono o adempiere i loro doveri. Ciò
non toglie che il tema della diligenza resti centrale, proprio perché è evidente che l'obbligo di
amministrare in via continuativa una società di capitali, ossia un'impresa creata a fini di lucro,
difficilmente si presta ad esser totalmente inadempiuto, ma piuttosto è suscettibile di dar luogo a
difformi valu-tazioni quanto al modo del suo adempimento: cioè, appunto, al grado di diligenza con
cui l'amministratore vi ha atteso. Si comprende perciò come la diligenza, in presenza di obblighi
aventi ad oggetto una prestazione solo genericamente definibile, finisca per assumere una funzione
di specificazione dei comportamenti dovuti è quindi, in questo senso, per identificarsi con l'oggetto
stesso dell'obbligazione. Quanto appena osservato - è bene sottolinearlo - non implica in alcun
modo che gli amministratori possano esser chiamati in responsabilità sol perché la gestione
dell'impresa sociale ha avuto un cattivo esito. La valutazione sull'eventuale responsabilità giuridica
dell'amministratore, come opportunamente la corte d'appello ha puntualizzato, non attiene al
merito delle scelte imprenditoriali da lui compiute. La sua responsabilità giuridica ben può
discendere, però, dal rilievo che le modalità stesse del suo agire denotano la mancata adozione di
quelle cautele o la non osservanza di quei canoni di comportamento che il dovere di diligente
gestione ragionevolmente impone, secondo il metro della normale professionalità, a chi è preposto

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ad un tal genere di impresa, ed il cui difetto diviene perciò apprezzabile in termini di inesatto
adempimento delle obbligazioni su di lui gravanti. Non può infatti prescindersi dall'ovvia
considerazione che la diligenza è qui, come del resto quasi sempre, espressione del fondamentale
dovere di correttezza e buona fede richiamato in termini generali dagli artt. 1175 e 1375 c.c.. Nel
caso degli amministratori di società, come in tutti i casi di gestione di interessi altrui, tale dovere
assume ancor più che altrove i caratteri del dovere di protezione dell'altrui sfera giuridica: il
dovere di prendersi cura dell'interesse di colui (individuo o onte) che ha incaricato il gestore
dell'amministrazione delle proprie attività e, per ciò stesso, lo ha investito di un compito con
indubbie connotazioni fiduciarie. Ma gli amministratori di società, pur essendo tenuti alla diligenza
del mandatario (secondo l'espressione adoperata nel testo originario del citato art. 2392), non sono
in senso proprio dei mandatari della società: sono, invece, titolari di un organo essenziale per
l'esistenza stessa dell'ente ed, in quanto tali, impersonano nell'impresa collettiva la figura
dell'imprenditore. La loro attività, traducendosi nella gestione di un' impresa commerciale cui è
connaturato il carattere professionale dell'esercizio di un'attività economica organizzata (art. 2082
c.c.), assume dunque i colori della professionalità che naturalmente si riverberano anche sul
parametro della diligenza (come del resto ora conferma anche il nuovo testo del medesimo art.
2392, riformato dal d. lgs. n. 6 del 2003). Quanto appena osservato implica anche, con ogni
evidenza, la centralità che nell'operato dell'amministratore assume il profilo della fedeltà
all'interesse della società da lui amministrata. È suo dovere primario di perseguire tale interesse,
sicché ogni sua azione o omissione che sia invece diretta a realizzare un interesse diverso, ed in
contrasto con quello, si configura immancabilmente come violazione del dovere di fedeltà
immanente alla carica:potenzialmente generatore di responsabilità civile, anche indipendentemente
dal vizio che ne possa derivare per la deliberazione consiliare e dal regime della relativa
impugnabilità ex art. 2391 c.c.. Della peculiare curvatura che talvolta può assumere questo dovere
di fedeltà dell'amministratore all'interesse sociale, in caso di società facente parte di un gruppo, si
avrà modo di far cenno in seguito. [...]La corte d'appello, nell'esaminare la vicenda di cui
specificamente si sta ora trattando, non sembra aver voluto discostarsi dalla ricostruzione dei fatti
prospettata dalla difesa della Scotti Finanziaria. Nulla almeno si legge, nell'impugnata sentenza,
che valga a porre in dubbio le circostanze dell'avvenuta vendita di un complesso immobiliare di
detta società in favore della controllata Arvedi a.r.l., del sorgere di un conseguente ingente debito
di quest'ultima per il pagamento integrale del corrispettivo, non assistito da garanzia veruna, e
della quasi immediatamente successiva cessione a terzi della partecipazione totalitaria della Scotti
Finanziaria nella Arvedi per un prezzo di gran lunga inferiore a quello della precedente vendita
immobiliare. Del pari incontestato è che la medesima Arvedi fu in seguito dichiarata fallita, onde è
quanto meno ragionevole la presunzione logica che il credito per il pagamento del prezzo di
vendita del complesso immobiliare dianzi menzionato, non assistito da alcuna causa di privilegio,
sia rimasto (in tutto o in parte) insoddisfatto.Questi essendo i fatti addotti dalla società a sostegno
della pretesa risarcitoria esercitata nei confronti dell'ex amministratore sig. Fiorini, che si assume
essere stato l'autore di tali operazioni, le principali questioni da dirimere erano (e sono): se tali
operazioni - non ciascuna separatamente considerata, ma nella loro apparente concatenazione -
siano espressione di un comportamento gestorio privo delle elementari cautele, indispensabili per
la salvaguardia dell'interesse della società amministrata, o addirittura tali da denotare l'intento
di piegare quell'interesse a beneficio di terzi; se l'eventuale violazione dei doveri di diligenza e
fedeltà imputabile all'amministratore abbia o meno arrecato un danno patrimoniale alla Scotti
Finanziaria; e se siano stati forniti da quest'ultima elementi sufficienti per la quantificazione e
liquidazione di tale danno.
3.5.3. La sentenza impugnata, viceversa, non si sofferma in modo esplicito a valutare la correttezza
del comportamento dell'amministratore; e non ha torto la società ricorrente nel rilevare
criticamente che la corte d'appello sembra aver appuntato la propria attenzione piuttosto su risvolti
secondari della vicenda - quale la dilazione di pagamento concessa all'acquirente della
partecipazione in Arvedi - che non sull'essenza delle descritte operazioni e sul fatto che, attraverso

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di esse, si direbbe esser stato sottratto alla Scotti Finanziaria il proprio patrimonio immobiliare
senza alcuna effettiva contropartita. In quest'ottica anche la circostanza che il sig. Fiorini (a
quanto si assume) abbia poi attestato falsamente l'avvenuto pagamento del prezzo di vendita degli
immobili ceduti dalla Scotti Finanziaria alla Arvedi non può essere logicamente accantonata in
base al solo rilievo che essa "non avrebbe potuto avere di per sè effetti negativi". Occorrerebbe pur
sempre valutare se quella circostanza - ove risponda al vero - non sia comunque indicativa di un
comportamento volto ad occultare precedenti responsabilità dell'amministratore; e se dunque essa
non assuma rilievo ai fini della prova della consapevole violazione, ad opera del medesimo
amministratore, nel compimento delle consecutive operazioni di vendita immobiliare e di cessione
di partecipazioni sociali sopra descritte, del suo dovere di serbarsi fedele all'interesse della società
da lui amministrata.Mal si comprende, poi, su quale base fattuale e logica riposi l'affermazione per
cui non sarebbe stata dimostrata "l'incidenza del comportamento addebitato all'amministratore sul
patrimonio della Scotti Finanziaria". Se le circostanze sopra riferite rispondono al vero - e si è
visto che la corte d'appello non sembra metterlo sostanzialmente in dubbio - l'incidenza negativa
delle descritte operazioni sul patrimonio della società evidentemente consisteva nella perdita di un
ingente patrimonio immobiliare a fronte dell'acquisizione di un credito di difficile esazione vantato
verso una società ormai fuori controllo; ed il rilievo è tale da rendere logicamente poco pertinente
e fianco scarsamente plausibile il dubbio, affacciato nell'impugnata sentenza, se l'amministratore
potesse o meno rappresentarsi ex ante il danno conseguente alla scelta intrapresa.
Non adeguatamente spiegata è altresì la ragione per cui la corte d'appello, ai fini di escludere la
responsabilità del sig. Fiorini nel contesto della vicenda sopra riferita, ha reputato rilevante la
successiva concessione in pegno al Credit Lyonnais del più volte menzionato credito vantato dalla
Scotti Finanziaria nei confronti della (ormai ex controllata) Arvedi per il residuo prezzo degli
immobili a quest'ultima venduti. Se la corte territoriale ha inteso ipotizzare che un tale utilizzo del
credito dimostrerebbe come la Scotti Finanziaria abbia comunque tratto vantaggio dall'operazione,
e come dunque essa non sia stata spogliata senza contropartita del suo patrimonio immobiliare,
sarebbe stato almeno necessario chiarire i termini sottostanti la menzionata dazione di pegno. Non
è chiaro, invece, in qual modo questa abbia potuto arrecare beneficio al patrimonio della Scotti
Finanziaria (ad onta del fatto che il credito dato in pegno, a causa del sopravenuto fallimento della
relativa debitrice, è rimasto probabilmente insoluto), dal momento che la medesima sentenza,
riferendosi al credito garantito dalla dazione di pegno, si limita a ricollegare la concessione di tale
garanzia all'esposizione debitoria che verso il Credit Lyonnais avevano la Sasea ed altre società
del gruppo, senza in alcun modo precisare se anche la Scotti Finanziaria fosse tra queste o
comunque sotto quale profilo la concessione di quel pegno potesse riflettersi a suo vantaggio.
3.5.4. Si ricollega a quanto appena osservato anche un'ultima considerazione della corte
d'appello: quella secondo cui non sarebbe stato "chiarito se il sacrificio immediato fosse del tutto
ingiustificato in quanto non accompagnato dall'aspettativa di un beneficio futuro". Il rilievo
riconduce al tema, cui già s'è fatto cenno, del cosiddetti "vantaggi compensativi" dei quali una
singola società sarebbe in grado di fruire in conseguenza della sua appartenenza ad un più
ampio gruppo di imprese e che, in quanto tali, potrebbero quindi neutralizzare l'apparente
pregiudizio ad essa arrecato da un' operazione vantaggiosa per il gruppo.
Una siffatta eventualità (oggi espressamente considerata in una disposizione del novellato art.
2497 c.c., non però direttamente applicabile a fattispecie realizzatesi in epoca anteriore all'entrata
in vigore del d.lgs. n. 6 del 2003) è da ritenersi sicuramente ammissibile.
L'autonomia soggettiva e patrimoniale che pur sempre contraddistingue ogni singola società
appartenente ad un gruppo impone all'amministratore di perseguire prioritariamente l'interesse
della specifica società cui egli è preposto; e dunque non gli consente di sacrificarne l'interesse in
nome di un diverso interesse che, se pure riconducibile a quello di chi è collocato al vertice del
gruppo, non assumerebbe alcun rilievo per i soci di minoranza e per i terzi creditori della società
controllata. Ciò però non esclude affatto la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla
conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati

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ingiustificatamente gli interessi delle singole società. E, nel valutare se un siffatto pregiudizio in
concreto sussista, è doveroso tener conto che la conduzione di un' impresa di regola non si
estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì
nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma e ad assumere
significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti. Sicché è
perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece
pregiudica, l'interesse della società non possa prescindere da una visione generale: visione in cui
si abbia riguardo non soltanto all'effetto patrimoniale immediatamente negativo di un
determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente
derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che quell'atto abbia
arrecato al gruppo di appartenenza.In un simile contesto, tuttavia, l'eventualità che un atto lesivo
del patrimonio della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall'appartenenza al
gruppo non può essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l'atto non risponde
all'interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito
nell'immediato un danno al patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo
amministratore deduca e dimostri l'esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche
quell'atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi; ma
occorre che una tal prova egli la dia. Non può, viceversa, sostenersi - come sembra fare la corte
d'appello - che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l'esistenza dei
suddetti "benefici compensativi" e che, pertanto, competa alla società la quale abbia agito contro
il proprio amministratore l'onere di dimostrarne l'inesistenza. Viceversa, la società attrice
esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l'esistenza di comportamenti
dell'amministratore che ledono il patrimonio dell'ente e perciò appaiono contrari al suo obbligo
di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo amministratore, se del caso, che deve
farsi carico di allagare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio
complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente
negativi dell'operazione compiuta. [...]
Cass. 11.12.2006, n. 26325, est. Luciano Panzani
L'atto compiuto dagli amministratori in nome della società è estraneo all'oggetto sociale se non è
idoneo in concreto a soddisfare un interesse economico, sia pure mediato ed indiretto, ma
giuridicamente rilevante della società. Sebbene l'appartenenza al medesimo gruppo societario
consenta, in linea di principio, di riconoscere connessioni economiche rilevanti tra gli interessi,
formalmente distinti, dei vari soggetti giuridici che compongono il gruppo (sì da giustificare attività
dirette al perseguimento di un interesse che esula da quello proprio e specifico delle singole società,
inteso in senso stretto, ma vi è ricompreso in senso mediato), tuttavia la mera ipotesi della
sussistenza di vantaggi compensativi non è sufficiente al fine di affermare la legittimità dell'atto sul
piano dei limiti imposti dall'oggetto sociale, ma l'amministratore ha l'onere di allegare e provare gli
ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a
compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta.
(Enunciando il principio di cui in massima, in fattispecie di costituzione di ipoteca volontaria
vincolante l'intero patrimonio immobiliare, formalmente estranea all'oggetto sociale, in favore di
società appartenente al medesimo gruppo, la Corte ha confermato la sentenza impugnata, la quale
era pervenuta a riconoscere il carattere "ultra vires" dell'atto, sottolineando che l'accertamento della
legittimità dell'atto, formalmente estraneo allo scopo sociale, in nome dell'interesse di gruppo e del
vantaggio che dal perseguimento di tale interesse può derivare alla società partecipata, deve essere
particolarmente rigoroso quando non vi sia rapporto di controllo, ma semplice rapporto di
collegamento, l'atto sia formalmente privo di corrispettivo per la società che eroghi la garanzia, e il
presunto interesse di gruppo non sia stato neppure enunciato al momento della costituzione della
garanzia e non emerga "aliunde") [massima ufficiale]
Cass. 14 ottobre 2010, n. 21250, est. Salvatore De Palma

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Nell'ipotesi di gruppo di società collegate tra loro in senso economico e dirigenziale, ma non anche
sotto il profilo giuridico, come in quello cosiddetto "orizzontale", la validità di atti compiuti
dall'organo amministrativo di una di esse in favore di altra è condizionata all'esistenza di un
interesse economicamente e giuridicamente apprezzabile in capo alla società agente, potendo
l'eventuale pregiudizio economico, che dall'atto sia direttamente derivato, trovare la sua
contropartita in un altro rapporto e l'atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben
preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto, della società. Pertanto, in caso di
prestazione di garanzie a titolo gratuito, tale gratuità non è, di per sé sola, circostanza determinante
per escludere la realizzazione di tale preciso interesse economico, che spetta, invece, al giudice del
merito positivamente accertare.
App. Napoli, sez. VII, 10 gennaio 2007, Fallimento Bionectar S.r.l. contro F.V. Ambrosio e
altri, inedita
[...] E' plausibile ritenere che l'omissione di qualsiasi iniziativa nei confronti della Italgrano
Industrie S.r.l. da parte dei convenuti costituisse un atto di obbedienza agli interessi dle gruppo
societario di cui la Bionectar faceva parte. Ciò non basta, tuttavia, per ritenere i convenuti esenti
da responsabilità, in mancanza di elementi idonei a fornire la prova - il cui onere incombeva sui
convenuti - dei benefici compensativi che il comportamento omissivo in questione portò alla
Bionectar indirettamente, attraverso il vantaggio dato da tale comportamento al gruppo cui questa
società apparteneva [...].
App. Napoli Sez. I, 17 marzo 2008, Fallimento della Al. S.p.A. c. Me. s.r.l. e altri, Massima
redazionale, 2008
In tema di società di capitali, l’atto compiuto dagli amministratori in nome della società è estraneo
all’oggetto sociale se non è idoneo in concreto a soddisfare un interesse economico, sia pure
mediato e indiretto, ma giuridicamente rilevante della società; sebbene l'appartenenza al medesimo
gruppo societario consenta, in linea di principio, di riconoscere connessioni economiche rilevanti tra
gli interessi, formalmente distinti, dei vari soggetti giuridici che compongono il gruppo, tuttavia la
mera ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi non è sufficiente al fine di affermare la
legittimità dell’atto sul piano dei limiti imposti dall’oggetto sociale, ma l'amministratore ha l'onere
di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo,
e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione
compiuta.
Trib. Roma Sez. III, 5 febbraio 2008, Cirio Finanziaria s.p.a. in ammin. straord. Società, 2009,
4, 491 nota di SCOGNAMIGLIO e Giur. It., 2009, 1, 109 nota di WEIGMANN
La società per azioni deve essere amministrata nell'interesse di tutti i suoi soci tutelando i diritti dei
creditori ed il suo inserimento in un gruppo può solo consentire che le operazioni per lei
pregiudizievoli, compiute nell'interesse di altre società controllanti o controllate da queste ultime,
non siano valutate isolatamente, bensì tenendo conto dei vantaggi compensativi derivanti, anche
indirettamente, dall'appartenenza al gruppo, vantaggi i quali devono essere concreti e specifici e non
meramente ipotetici e vanno provati dagli amministratori convenuti in responsabilità o dai soggetti
che con essi abbiano concorso nell'illecito.
La vicenda. Si tratta dell'azione di responsabilità intentata dall'Amministrazione straordinaria della
Cirio Finanziaria S.p.A. contro Cragnotti, Capitalia e altri. Il punto specifico che interessa è questo:
Banca di Roma, nell'ambito dell'operazione Eurolat, fa un finanziamento di £ 170mld a favore della
Cirio S.p.A. Poi avviene la cessione di questa partecipazione Eurolat alla Dalmata S.r.l. al fine di
pagare i debiti non già della Cirio S.p.A. bensì di Cirio Holding S.p.A., della controllata di questa,
Compagnia Mobiliare Italia S.p.A., della controllante della controllante, Bombril Cirio International
S.A. Alla fine le risorse trasferite ai danni della Cirio S.p.A. superano i 400 mld di lire. I convenuti
oppongono che nessun pregiudizio è derivato alla Cirio da tali operazioni perché:a)si sarebbe
trattato di operazioni favorevoli anche alla Cirio S.p.A., in quanto finalizzate al perseguimento del
superiore interesse di gruppo, ossia alla ristrutturazione del debito del gruppo Cragnotti e quindi
anche se si è trattato di pagamento di debiti altrui, comunque lo scopo ultimo era quello di ridurre

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l'indebitamento di tutto il gruppo ed evitarne l'insolvenza; b)le operazioni contestate sarebbero
servite per realizzare un programma imprenditoriale, ivi compreso l'acquisto delle partecipazioni
Bombril SA, volto a concentrare l'attività del gruppo nel settore conserviero (difesa di Cragnotti)
c)a movimenti finanziari infragruppo avrebbero fatto riscontro trasferimenti infragruppo di
partecipazioni (difesa di Capitalia) d)il finanziamento di £170 mld serviva per un'operazione di
leverage, e)alla fine di tutte le operazioni la Cirio si sarebbe avvantaggiata perché avrebbe acquisito
le partecipazioni della Bombril e non avrebbe pagato il residuo prezzo di £ 181 mld
Secondo il Tribunale di Roma, le asserzioni difensive non hanno riscontro ed anzi hanno trovato
una netta smentita nella documentazione. La singola società quand'anche inserita in un gruppo è
soggetto distinto dagli altri partecipanti ed i suoi amministratori continuano ad essere vincolati
dall'obbligo di perseguire gli interessi della stessa a beneficio di tutti i soci e dei creditori.
richiamando la giurisprudenza di legittimità formatasi sulla teoria dei vantaggi compensativi, il
Tribunale di Roma che precisa di regolare una fattispecie ante riforma afferma che l'esistenza dei
benefici non dev'essere meramente ipotetica, e non può quindi essere dedotta dalla semplice
appartenenza al gruppo, ma dev'essere concreta ed oggetto di specifica dimostrazione. Ne deriva
che se la società che assume di essere danneggiata deve provare il fatto lesivo e le sue conseguenze,
il soggetto che ha cagionato tale pregiudizio e il soggetto che vi abbia concorso (quindi
amministratore ed eventuali concorrenti nell'illecito) devono farsi carico di allegare e dimostrare i
prospettati vantaggi per la società ancorché indiretti, per la società, atti a compensare efficacemente
gli effetti negativi dell'operazione compiuta. Ciò premesso, ha ritenuto il Tribunale di Roma che il
finanziamento di £ 170 mld e il prezzo della cessione Eurolat sono andati a vantaggio di altre
società del gruppo e la Cirio S.p.A. non ha ricevuto né nell'immediato né successivamente, né
direttamente, né indirettamente, alcun effetto o idoneo vantaggio compensativo. Il dovere di fedeltà
dell'amministratore nei confronti della società che amministra non viene meno neanche nel caso in
cui la società faccia parte di un'aggregazione di gruppo, dal momento che i legami in cui essa si
estrinseca non fanno venir meno il distinto rilievo delle singole società e dei loro rispettivi interessi.
Pertanto ha ritenuto la responsabilità di Cragnotti e della Capitalia, mentre ha escluso la
responsabilità delle altre banche per le quali non v'era prova della consapevolezza del
depauperamento della Cirio a vantaggio delle altre società del gruppo.

12. La teoria dei vantaggi compensativi nella giurisprudenza penale

Art. 2634 c.c. Infedeltà patrimoniale. - Gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che,
avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sè o ad altri un
ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni
sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la
reclusione da sei mesi a tre anni.
La stessa pena si applica se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla
società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale.
In ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da
vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o
dall'appartenenza al gruppo.

Per i delitti previsti dal primo e dal secondo comma si procede a querela della persona offesa.
Si tratta di un reato introdotto dal D. Lgs. 61/02, relativo alla riforma del diritto penale societario
che ha anticipato il D.Lgs. 6/03 ed ha recepito la dottrina civilistica sulla teoria dei vantaggi
compensativi, di cui v'è traccia in una sola sentenza della Cass. pen., sez. III, 25 febbraio 1959. E'
esclusa l'ingiustizia del profitto tutte le volte che si determini una compensazione tra lo svantaggio
patrimoniale ed i benefici conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o
dall'appartenenza al gruppo. Si deve però trattare di vantaggi concreti, sicché l'amministratore è
tenuto a dare la prova del beneficio concretamente conseguito dalla società sacrificata o dalla

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ragionevolezza della sua previsione, secondo criteri di valutazione probabilistica secondo le regole
aziendali, economiche o finanziarie applicabili allo specifico contesto. Il controllo del giudice è
secondo il meccanismo della prognosi postuma, e cioè il controllo ex post sulla base delle
conoscenze e degli elementi di valutazione disponibili al momento in cui fu deliberato l'atto danoso
per il patrimonio societario.

Cass. pen. Sez. V, 23.6.2003, n. 38110, che ha ritenuto giustificabile l'atto dispositivo solo di fronte
alla quasi assoluta certezza del conseguimento del vantaggio compensato
Cass. pen. Sez. V, 18.11.2004, n. 10688, Dir. Pen. e Processo, 2005, 6, 747 nota di LEMME,
secondo cui, a partire dal 1° gennaio 2004, nel nostro ordinamento giuridico è ormai configurabile
l'impresa di gruppo. La direzione unitaria del gruppo vulnera il principio, finora imperante, di
autonomia patrimoniale delle singole società controllate, in quanto l'art. 2497 c.c. configura una
vera e propria responsabilità dell'impresa-holding (individuale o societaria), nei confronti dei soci
e dei creditori sociali delle società controllate, per fatti riferibili al loro patrimonio, ma
riconducigli ad una mala gestio unitaria del gruppo. In questo contesto, la norma di cui all'art.
2634 comma 2 c.c. costituisce una sorta di anticipazione del concetto unitario di gruppo e trova
oggi una piena coerenza sul piano civilistico e penalistico.[...]
Con riferimento al merito della tesi sostenuta con il ricorso, fino al 1/1/2004, data dell'entrata in
vigore delle disposizioni del decreto legislativo n. 6/2003, riguardante la riforma del diritto
societario, non era possibile sostenere resistenza di una disciplina legale della c.d. "impresa di
gruppo", idonea a superare la personalità giuridica delle singole società collegate, e, con riguardo
alla responsabilità degli amministratori, derogare al rigoroso regime dettato dal codice
civile.Infatti, la figura del gruppo di imprese acquistava rilievo giuridico solamente in materie e
nelle ipotesi espressamente disciplinate.Nel nostro ordinamento mancava una disciplina generale
del c.d. gruppo di società - al di fuori delle regole dettate in materia di società collegate e/o
controllate (art. 2359 C.C.) - per la quale il gruppo (a parte l'aggregazione per la realizzazione di
interessi economici comuni) costituisse un autonomo centro di imputazione di diritti, per cui
ciascuna società che lo componeva manteneva la propria personalità giuridica e il suo
amministratore autonoma qualità imprenditoriale, rilevante, in particolare, per l'accertamento
dello stato d'insolvenza, ai fini della dichiarazione di fallimento. Pertanto, non esisteva un interesse
superiore del gruppo rispetto agli interessi delle singole società. Invero, tra società facenti parte
dello stesso raggruppamento, da un lato, potevano sussistere conflitti d'interesse, non assorbibili nè
giustificabili in un interesse della capogruppo e, dall'altro, non era possibile riportare la
responsabilità degli amministratori ad una valutazione globale, prescindendo dalla tutela del
patrimonio delle singole società, valutando l'eventuale vantaggio conseguito da altra società del
gruppo. Quindi, per gruppo, doveva intendersi una impresa unitaria sotto l'aspetto economico, al
quale corrispondevano sul piano giuridico più società con autonomia patrimoniale, mentre la
responsabilità degli amministratori andava valutata in relazione alle singole società, anche quando
rivestivano tale qualità in diverse società del gruppo.In sostanza, va affermato che nell'interesse
del gruppo non era possibile sacrificare il patrimonio delle singole società che lo componevano,
ove non conseguisse - direttamente o indirettamente - uno specifico vantaggio da altra
operazione del gruppo. Ne consegue che risultava del tutto irrilevante l'eventuale legame di
controllo sussistente sulle società nonchè il rapporto di subordinazione che, in maniera più o
meno accentuata, legava le società appartenenti al gruppo. Ritiene, tuttavia, la Corte che la
posizione giurisprudenziale fin qui affermatasi (vedi per tutte Cass., Civ. sent. 21/9/1999, n. 521,
Doronzo), con la novella sul diritto societario portata dal decreto legislativo n. 6/2003, sia rimasta
radicalmente superata. Infatti, è stato dettato un complesso di norme (art. 2497-2497 sexies C.C.),
dedicate alla "Direzione e coordinamento di società" che, pur non offrendo una nozione di
"gruppo", ritenuta inadeguata rispetto all'incessante evoluzione della realtà sociale, economica e
giuridica (vedi relazione al decreto), tuttavia ne regolamenta - partendo dal fatto obiettivo
dell'esercizio di attività di direzione e coordinamento di una o più società da parte di un diverso

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soggetto - l'attività, con il limite "costituito dal rispetto dei valori essenziali del bene partecipazione
sociale", bene che la legge individua nella partecipazione all'esercizio in comune di una attività
economica al fine di divederne gli utili. Perciò, il momento caratterizzante diviene quello di
direzione e di coordinamento da parte di una società controllante sulla/e controllata/e, inteso come
centro autonomo di imputazione, quale sviluppo di un unico disegno imprenditoriale. La riforma ha
attribuito specifico rilievo alla "attività di direzione e coordinamento di società", considerandola,
in specie, come possibile fonte di responsabilità civile, con un ulteriore esplicito riferimento - ma in
termini differenziati rispetto alla norma penale - alla teoria dei vantaggi compensativi, prevedendo
che "non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo
dell'attività di direzione e di coordinamento". Invero, la possibilità di riconoscere l'esistenza di
un'unica impresa di gruppo e, quindi, di un "interesse di gruppo", sovraordinato a quello delle
singole società che lo compongono, non comporta automaticamente la piena liceità della direzione
unitaria e dell'emanazione di direttive di gruppo, con conseguente venir meno dell'autonomia delle
singole controllate. Il decreto ha chiaramente evidenziato come l'attività di direzione e di
coordinamento spetti a "società o enti", come sussista sempre la responsabilità "del controllante
nei confronti dei soci e dei creditori sociali della controllata".
Perciò, punto centrale di tale attività, diventa la responsabilità (art. 2497 C.C.), per cui le società e
gli enti coordinatori, dato che agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio ed altrui, in caso di
violazione dei principi di corretta gestione societaria, assumono la diretta responsabilità nei
confronti dei soci per il pregiudizio arrecato e nei confronti dei creditori sociali per la eventuale
lesione del patrimonio sociale della controllata.[...]
Tuttavia, si può parlare propriamente di gruppo, solo quando una pluralità di società, ovvero
amplius di imprese, risulta sottoposta alla guida unitaria che una di esse esercita sulle altre ed è,
altresì, opinione diffusa nella dottrina e nella giurisprudenza (Cass. Civ. 9/8/2002, n. 12113; Cass.
Civ 26/2/1990, n. 1439, Caltagirone) che la veste di "holding" - di soggetto, cioè, che in forza della
propria partecipazione di controllo, di diritto o di fatto, ovvero in forza di particolari vincoli
contrattuali, svolge detta funzione di guida unitaria - possa essere assunta, non soltanto da una
società (come di norma accade), ma anche da una persona fisica. La possibilità che a capo del
gruppo si trovi un'impresa individuale è del resto riconosciuta, a livello normativo, nell'ambito
della disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, di
cui al d.lgs n. 270/1999 (c.d. Prodi-bis: v. in part., art. 80, in riferimento agli articoli 2, 4 e 23).Il
solo fatto che una persona fisica si trovi in posizione di controllo rispetto ad una pluralità di
società, non implica, tuttavia, l'automatica configurabilità di un "gruppo". E ciò anche alla luce
della riforma del 2003, invocata dal ricorrente. Pertanto, rimane valida la conclusione per cui,
allorchè una persona fisica detenga partecipazioni di controllo in una pluralità di società, si
rende necessario stabilire - al di fuori di ogni presunzione, peraltro, di dubbia praticabilità nel
campo penale - se tale persona non sia altro che un azionista che gestisce il proprio portafoglio,
limitandosi al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio "di comando", ovvero un
soggetto che, per il tramite del controllo azionario, svolge una vera e propria funzione
imprenditoriale di indirizzo e coordinamento delle società controllate (c.d. holding pura),
eventualmente accompagnata anche da attività di natura. Invero, è rimasto accertato che il
GIAMMARINO era il sostanziale detentore del 75% del capitale sociale di entrambe le società e,
quindi, di amministratore di fatto di entrambe le società fallite, che gestiva, malgrado la presenza
dell'amministratore in carica, senza svolgere, per quel che risulta, una specifica funzione
imprenditoriale di indirizzo e coordinamento. Era stato proprio il GIAMMARINO a porre in essere
i plurimi atti di distrazione contestati e accertati e, in particolare, la fornitura di merci da parte
della OLII ZENITH, in favore dei creditori della PI.GE.GA a compensazione dei debiti di
quest'ultima, nonchè ad effettuare il prelevamento, tramite assegni tratti sulle società e girati a se
stesso, di denaro dalle banche. In sostanza, nella fattispecie, si era limitato al mero esercizio dei
poteri inerenti alla sua qualità di amministratore di fatto, mentre per la configurazione di una
autonoma impresa è necessario che l'attività svolta, sia essa di sola gestione del gruppo (holding

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pura), ovvero di holding operativa, venga esplicitata in atti, anche negoziali, posti in essere in
nome proprio e, perciò, come fonte di responsabilità diretta del loro autore, aventi
correlativamente una obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o per
le sue componenti, casualmente ricollegabili all'attività medesima, che nel caso difetta.
E' da aggiungere che, come è già stato affermato da questa Corte, il "vantaggio compensativo"
previsto dall'art. 2634.3 C.C., presuppone un conflitto di interessi, effettivo ed attuale, tra il
soggetto agente che compie l'atto dispositivo e la società. Il conflitto non può ritenersi in ogni
atto che vada a nocumento di una società ed a vantaggio di un'altra, collegata o facente parte del
gruppo. Il vantaggio compensativo non può, in ogni caso, andare oltre la sfera "dell'infedeltà
patrimoniale" per la quale è previsto. Deve quindi escludersi che, nella specie, potesse ritenersi
sussistente un "gruppo e che fosse applicabile l'art. 2634.3 C.C., non senza considerare che
potrebbe parlarsi di vantaggi compensativi, solo in presenza di vantaggi Infatti, "prevedibilmente
fondati" e, cioè basati su elementi sicuri e non aleatori o costituenti una semplice aspettativa
(Cass. Sez. 5^, sent 23/6/2003, n. 38110).[...]
Cass. pen., sez. V, 24.5.2006, n. 36764, secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta per
distrazione nell'ambito delle operazioni infragruppo, non basta per escludere il reato che si
appartenga al gruppo, perché è necessario che l'amministratore dia specifica e puntuale prova
dell'esistenza di benefici compensativi, sub specie di vantaggio che refluisca sulla società cui
afferisce l'atto dispositivo. In altri termini, i benefici indiretti per la fallita non solo devono essere
effettivamente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo, ma devono essere altresì idonei a
compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi del'operazione compiuta di modo da
non arrecare danno ai creditori.
Cass. pen., sez. V, 15.7.2008, n. 39546, Società, 2009, 7, 919 nota di TOSCANO, secondo cui il
trasferimento di risorse infragruppo, ovvero tra società appartenenti allo stesso gruppo
imprenditoriale, specialmente quando venga effettuato a vantaggio di una società già in difficoltà
economiche, non è consentito e deve essere qualificato come vera e propria distrazione ai sensi e
per gli effetti previsti dall'art. 216, comma 1, n. 1, l. fall. - R.D. n. 267/1942, giacché le società, pur
appartenendo allo stesso gruppo, sono persone giuridiche diverse e, pertanto, i creditori della società
depauperata mai potrebbero rivalersi dei loro crediti inseguendo i beni ceduti da una società ad
un'altra dotata di un'autonoma personalità giuridica, posto che la garanzia dei creditori è data
proprio dal patrimonio sociale, che viene depauperato dal trasferimento di quei beni ad altra società,
con conseguente diminuzione della garanzia.
Il fatto: S.L. e B.G. sono stati imputati del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale aggravata
nella loro rispettiva qualità di titolare e di amministratore di fatto della ditta individuale S.,
dichiarata fallita dal Tribunale di Padova il 12.5.1997, per avere, nel 1993, distratto dalla ditta fallita
la somma di L. 3 miliardi utilizzata per l'aumento di capitale della s.p.a. ITALMAB di cui la S. era
socia ed il B. amministratore. In primo e secondo grado sono stati condannati. Ricorre il B. e
sostiene che l'operazione secondo la quale nel 1993 la ditta individuale successivamente fallita
aveva ceduto ad una società di leasing per un corrispettivo di oltre L. tre miliardi tutti i suoi beni,
poi locati alla ITALMAB per la sua attività produttiva, e che aveva determinato la S., a finanziare
un aumento di capitale della s.p.a. già in difficoltà con la somma di L. tre miliardi, non era stata
attuata, nelle intenzioni del ricorrente, come attività di spoliazione e di sacrificio della ditta
individuale a vantaggio della società, ma al contrario come autofinanziamento della stessa
attraverso il versamento dei canoni di leasing per il riacquisto dei beni ceduti dalla ditta individuale,
tenuto conto che il fallimento era intervenuto poi 4 anni dopo l'operazione. Alternativamente
l'operazione potrebbe essere vista come grave imprudenza per ritardare il fallimento rilevante L.
Fall., ex art. 217. Osserva poi il ricorrente che in tema di bancarotta infragruppo rileverebbe il
nuovo disposto della L. Fall., art.223, in relazione all'art. 2634 c.c. così che chiave di volta del
sistema diventerebbe l'interesse del gruppo di società per individuare quel corrispettivo delle
operazioni infragruppo che toglierebbe dall'area della bancarotta fraudolenta la concreta operazione
posta in essere. Così se l'operazione di cui si tratta fosse stata compensata da vantaggi conseguiti o

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fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo non si potrebbe
ritenere integrato il delitto per cui s'è proceduto.
Motivi della decisione [...] La giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto, sia in epoca precedente
alla riforma del diritto societario sia successivamente all'introduzione delle nuove norme, che il
trasferimento di risorse infragruppo, ovvero tra società appartenenti allo stesso gruppo
imprenditoriale, specialmente quando venga effettuato a vantaggio di una società già in difficoltà
economiche, non è consentito e deve essere qualificato come vera e propria distrazione ai sensi e
per gli effetti previsti dalla L. Fall., art. 216, sul rilievo che le società, pur appartenendo allo stesso
gruppo, sono persone giuridiche diverse e, pertanto, i creditori della società depauperata mai
potrebbero rivalersi dei loro crediti inseguendo i beni ceduti da una società ad una altra dotata,
ovviamente, di una autonoma personalità giuridica, posto che la garanzia dei creditori è data
proprio dal patrimonio sociale. che viene depauperato allorchè vengano effettuati trasferimenti di
beni ad altra società, con conseguente diminuzione della garanzia. E' stato rilevato che
l'introduzione nel nostro ordinamento della norma di cui all'art. 2634 c.c., comma 3, non permette
di affermare che la presenza di un gruppo societario legittimi per ciò solo qualsiasi condotta di
asservimento di una società all'interesse delle altre società del gruppo. Anche dopo la riforma,
infatti, l'autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddistingue ogni singola società impone
all'amministratore di perseguire prioritariamente l'interesse della specifica società a cui egli è
preposto, non essendogli consentito di sacrificare l'interesse in nome di un diverso interesse anche
se riconducibile a quello di chi è collocato al vertice del gruppo e che non procurerebbe riflesso
alcuno a favore dei terzi creditori dell'organismo impoverito (vedi Cass. Civ., Sez. 1^, 24 agosto
2004 n. 16707; Cass., Sez. 5^, penale 22 febbraio 2007 - 15 marzo 2007, n. 11019, Pollice). Sono
del resto diversi gli interessi tutelati rispettivamente dalla L. Fall., art. 216, destinato a tutelare i
creditori sociali, e dall'art. 2634 c.c., destinato a tutelare il patrimonio sociale; e questa diversità
di oggetti giuridici spiega anche perchè la seconda fattispecie sia punibile a titolo di bancarotta
solo quando abbia determinato il dissesto, che finisce per incidere sulle ragioni dei creditori. E'
stato ritenuto dalla giurisprudenza della Corte (Sez. 5^, sent. n. 6140 del 16/01/2007 Ginestra; Sez.
5^, sent. n. 13110 del 2008 05/03/2008 Scotuzzi e altri) che la condotta di bancarotta patrimoniale
per distrazione, prevista dalla L. Fall., art. 216, che esige una finalità di danno per i creditori, è in
rapporto di specialità reciproca con quella di infedeltà patrimoniale, prevista dall'art. 2634
c.c. che presuppone un conflitto di interessi cui consegua un danno per la società ed esige una
finalità di ingiusto profitto per l'agente o di vantaggio per i terzi (Cass., sez. 2, 26 ottobre 2005,
Francis, m. 232525, con riferimento al rapporto tra infedeltà patrimoniale e appropriazione
indebita). In realtà è possibile non solo un'attività distratti va che non integri l'infedeltà
patrimoniale, per mancanza di conflitto di interessi, ma anche un'infedeltà patrimoniale che non
integri distrazione, come ad esempio la stipulazione, in situazione di conflitto di interessi, di un
appalto di servizi oneroso. La L. Fall., art. 223, d'altro canto, prevede innanzitutto, al comma 1,
che gli amministratori di società dichiarate fallite rispondano dei fatti di bancarotta previsti
dalla L. Fall., art. 216, inclusa la distrazione; e aggiunge poi, al comma 2, che rispondono a titolo
di bancarotta anche gli amministratori che abbiano cagionato il dissesto della società
commettendo alcuni fatti, tra i quali quello previsto dall'art. 2634 c.c.. Il ricorrente mette in risalto
la situazione della ditta individuale e tende a proporla come una sorta di reparto società di capitali
per evidenziare come l'interesse che veniva perseguito nell'operazione di cui si tratta fosse quello
generale dell'impresa gestita dal B. ed osserva come al momento dell'operazione, precedente di
alcuni anni il fallimento, vi fosse una fondata previsione di risultato favorevole della stessa per le
sorti della ITALMAB e che quindi non si trattasse di operazione da ricollegare al successivo
dissesto e da potersi ascrivere al prevenuto a titolo di bancarotta. Omette peraltro di rammentare il
ricorrente che, quale che fosse l'assetto operativo della produzione aziendale, era stata fatta la
scelta, per ragioni di convenienza che vengono ben sottolineate dai giudici del merito, di operare
per mezzo di due soggetti giuridici distinti a cui facevano capo per quel che interessa differenti
sistemi di rapporti di credito e debito che ciascuno dei due soggetti doveva garantire con il proprio

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patrimonio.Anche la considerazione della possibilità di formulare, al momento, nonostante la
suddivisione dei soggetti economici, una prognosi fausta dell'operazione - nel senso che ne
avrebbero potuto trarre benefici entrambe le imprese, con conseguente beneficio anche per i
rispettivi creditori - e che in tale situazione non si sarebbero potuti ravvisare, alla luce del nuovo
diritto societario, gli estremi per considerare quell'operazione come distrattiva, cede di fronte al
rilievo che quando si tratta di trasferimento di beni da una società già in difficoltà economica ad
altra società che versi in analoghe difficoltà l'operazione di trasferimento di risorse non può che
essere considerata distrattiva, in quanto, come ritiene la giurisprudenza di questa Corte, non
sarebbe fondatamente ipotizzabile alcuna prognosi positiva. [...]
Cass. pen., sez. V, 18.1.2011-20.6.2011, n. 24583, secondo cui anche la società capogruppo può
essere chiamata a rispondere del reato degli enti, ai sensi del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, con
riguardo ad un illecito commesso da soggetto inserito nell’organizzazione imprenditoriale di una
sua controllata: purché il reato sia commesso, almeno a titolo di concorso, da una persona fisica che
abbia un rapporto funzionale ed agisca per conto della holding, perseguendo anche l’interesse di
quest’ultima. Interesse e vantaggio devono essere “verificati in concreto, nel senso che la società
deve ricevere una potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere
patrimoniale, derivante dalla commissione del reato presupposto”.Il criterio dell’interesse o del
vantaggio per l’ente sono quindi il discrimine dell’imputazione di responsabilità.
Cass. pen. Sez. V, 10.11.2011, n. 4458, Società, 2012, 7, 841, secondo cui ai collegamenti della
società fallita nell'ambito del gruppo può essere attribuita incidenza anche nella valutazione della
configurabilità dei reati di bancarotta, avuto riguardo ad un'indicazione normativa (art. 2634 c.c.)
che comunque conferisce rilievo agli eventuali vantaggi compensativi in un'ottica riferibile al
giudizio sulla correttezza della gestione societaria. L'influenza di questi elementi dovrà tuttavia
essere esaminata nel rispetto dell'autonoma tutela delle ragioni creditorie specificamente riferibili
alla società fallita. Occorrerà che l'operazione produca per la fallita benefici, sia pure indiretti, i
quali si rivelino concretamente idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente
negativi dell'operazione stessa.
Cass. pen. Sez. V, 6.10.2011, n. 48518, secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta
patrimoniale, per escludere la natura distrattiva di un'operazione infragruppo non è sufficiente
allegare tale natura intrinseca, dovendo invece l'interessato fornire l'ulteriore dimostrazione del
vantaggio compensativo ritratto dalla società che subisce il depauperamento in favore degli interessi
complessivi del gruppo societario cui essa appartiene

Ubalda Macrì
(Giudice del Tribunale di Napoli)

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