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MERIDIONALISMO E POLITICA DELLA CITT IN FRANCESCO COMPAGNA

Ricordava spesso Francesco Compagna (la nota autobiografica nellIntroduzione al saggio Meridionalismo liberale (Ricciardi 1975) che dovendo rispondere ad una sollecitazione, pi volte reiterata, di Gaetano Salvemini sullopportunit e necessit di insegnare nella pi antica, e per lunghi secoli unica, Universit del Mezzogiorno continentale, una disciplina che gli consentisse di parlare del Mezzogiorno e della questione meridionale, decise di rivolgere la sua attenzione alla geografia politica ed economica. Perch alla geografia? Perch non solo gli scritti di Giustino Fortunato la questione come condanna della storia e come conseguenza di una sorta geografia del destino ma anche la lettura di Tocqueville, attraverso gli studi di Vittorio De Caprariis, avevano influito sulla sua formazione culturale e aveva scoperto lo studio della geografia come richiamo della cultura politica al senso della realt. Tocqueville dava notizia, nel 1829, al suo amico Gustave de Beaumont, di una nuova e singolare scoperta, maturata dopo un viaggio in Sicilia. Certamente conosco i fatti-scriveva- ma ci che li ha prodotti, le risorse che lumanit ha fornito ai protagonisti di tali fatti, lo stato in cui le rivoluzioni hanno trovato i popoli e quello in cui li hanno lasciati, la loro classificazione, i loro costumi ed istinti, le loro risorse attuali, la divisione e la ripartizione di queste risorse: tutto questo lignoroV tuttavia una disciplina che per molto tempo ho disprezzato e che riconosco adesso non solo utile, ma assolutamente necessaria al mio scopo: la geografia. Attraverso la geografia, come richiamo della cultura politica al senso della realt, con una concretezza tutta salveminiana, e senza rinchiudersi, come apertamente dichiara, nei confini formali della disciplina, veniva dipanando quello che Guido Dorso, non senza ironia, aveva chiamato il mitico filo dArianna della questione meridionale. Filo che, pur mantenendo una sua unitariet, si svolgeva lungo pi direzioni. Affrontando i problemi connessi sono sue parole con la sistemazione e la valorizzazione del territorio nella realt non pi immobile delle nostre regioni meridionali e l emigrazione verso il triangolo industriale con I terroni in citt (Laterza 1959); nella Questione meridionale (Garzanti 1962), analizzando la crisi dei vecchi insediamenti e la nuova e pi moderna realt territoriale che la politica di preindustrializzazione lasciava intravedere; con lintegrazione del Mezzogiorno nellEuropa comunitaria con il saggio su LEuropa delle regioni (ESI 1964); con la questione urbana, eredit del vasto e infermo Regno, sedente nel mezzo dei tre mari in La politica della citt (Laterza 1967); e quasi profeticamente affermando, negli scritti raccolti nel volume Le regioni pi deboli (Etas-Kompaas 1971) che, di fronte alle delusioni della programmazione nazionale e allincerto esito della riforma regionalista, ai primi sintomi della contestazione operaia e studentesca, al rallentamento di una lunga e favorevole congiuntura 1

economica, per il Mezzogiorno questo degli anni 70 debba essere e non possa non essere il decennio decisivo. E attraverso la geografia, con la guida preziosa di Lucio Gambi, la storia, o meglio attraverso la storia del territorio e dellambiente, come un geografo che vede nei contenuti del paesaggio nientaltro che una forma di estrinsecazione visibile dei processi storici, Compagna dipanava il mitico filo seguendo le tracce e gli insegnamenti del meridionalismo classico. Di quel meridionalismo lontano dal meridionalismo di potere e che rappresentava ai suoi occhi ( ed ancora lo rappresenta ai nostri), la reincarnazione del malgoverno, contro il quale il meridionalismo classico aveva costantemente ed instancabilmente combattuto le sue battaglie di denuncia. N un meridionalismo di complemento dunque, n un meridionalismo di Stato, ma un meridionalismo mobilitato dal senso dello Stato e illuminato dal senso della realt. Luno e laltro tessuto, da lunga data, dagli illuministi napoletani e ripreso dai meridionalisti della prima e della seconda generazione: da Genovesi a Filangieri a Galanti fino a Fortunato, a Salvemini, a Nitti, Dorso, Rossi-Doria, Saraceno. Filoche tutti costoro e molti altri avevano dipanato individuandone, di volta in volta, i nodi nella bonifica e liquidazione del latifondo, nella mancata nascita dellimpresa contadina, nello squilibrio tra costa e interno, tra pianura e montagna, tra citt e campagna, nellindustrializzazione e cosi via di seguito. Per tutti costoro, come per Compagna, il realismo delle analisi, la concretezza delle osservazioni sullambiente e sulle collettivit umane meridionali, non aveva fatto mai venir meno la dimensione etico-politica, unita al senso concreto dellosservazione della realt. Possiamo aggiungere, che tutti e molti altri, sia meridionali che settentrionali, hanno rappresentato il meridionalismo nella sua pi alta e nobile accezione, nonch come ha ricordato Sergio Zoppi il luogo e gli uomini di riconoscimento dellidentit intellettuale e politica dei gruppi dirigenti italiani (Diciotto voci per lItalia unita, Il Mulino 2011). La geografia dunque come occasione per la conoscenza concreta della realt sociale e territoriale del Mezzogiorno, per intendere la questione meridionale come si era venuta formando nei lunghi secoli dall incoronamento di Ruggero II allUnit dItalia, e come e perch si era aggravata dal 1860 in poi. La storia per spiegare il diverso divenire delle due Italie, per comprendere le ragioni della cesura e delle differenze socio-culturali che si erano venute accentuando nei due diversi contesti naturalistco-ambientali. Si deve a Rosario Romeo laver sottolineato con forza che si era formato come intellettuale e come uomo di cultura nellambito degli studi storici, che disponeva di un bagaglio intellettuale profondamente radicato nellambiente della cultura storica; cosi come le sue letture, le sue meditazioni, il suo metodo erano quelli storici ( Storia del Mezzogiorno e meridionalismo nel pensiero di Francesco Compagna, in Atti del seminario in onore di Francesco

Compagna, Soc. Geo. It. 1983). Romeo sottolinea che vichianamente, analizzava i problemi sociali di cui si occupava seguendone la genesi, la guisa del nascimento. E sia la prima che la seconda, sia la geografia che la storia, sembravano indicare, nel secondo dopoguerra, alla riflessione di Compagna, la necessit della modernizzazione dello spazio e della societ meridionale, modernizzazione che non poteva che scaturire dalla citt. Dal luogo cio in cui si era formata in epoca moderna, ma che era stata assente nel Mezzogiorno, ed in cui si era affermata la libert politica e economica. Modernizzazione che in quegli stessi anni la Svimez di Morandi e Saraceno prospettava come occasione offerta dalla riforma agraria, dal completamento della bonifica, dalla preindustrializzazione operata dalla Cassa, per inserire il Mezzogiorno nel processo di ricostruzione dellindustria del paese, raggiungendo in tal modo, a distanza di quasi un secolo dalla unit formale della penisola, anche una sostanziale unit politica, sociale e civile. Per cui la guisa del nascimento la rinveniva in Benedetto Croce, nella Storia del Regno di Napoli in cui nel rifiuto del determinismo geografico di stampo positivista vi erano, a suo giudizio, le fondamenta e le ragioni dell azione meridionalista. La storia, aveva sostenuto Croce, non si spiega con ununica causa, n con molteplici ragioni, ma solo con ragioni interne, come sforzo spirituale: sforzo che urta in ostacoli e li supera e se ne fa sgabello, e ne talora sopraffatto e si risolleva per superarli daccapo. Per cui condizioni geografiche, infrastrutturali, etniche, sono indispensabili mezzi e strumenti tra cui e su cui si travaglia lo sforzo spirituale. E ciascuna di esse pu (e questo cosa nota) divenire, secondo i casi, forza o debolezza ; la povert ingenerare vigore e ardimento o per contrario sfiducia o abbattimento, la ricchezza corruttela o migliore sanit. Croce conclude, citando Hegel, che il medesimo clima accoglie indifferente le opere degli Elleni e lozio dei Turchi, anche se, dobbiamo aggiungere, che anche il clima ha la sua storia e che non poco ha influito sulla storia stessa del Mezzogiorno. Il pensiero e linsegnamento crociano, quindi, accanto a Salvemini e a Fortunato nella sua formazione, in cui si fa strada anche ladesione al pensiero e allazione di quanti si rifacevano, per cosi dire, all intelligenza tecnica di Francesco Saverio Nitti. nella confluenza di questi diversi filoni di pensiero in un unico alveo, le cui sponde sono tenute ben salde e coerenti dal suo spirito liberale e risorgimentale, che Compagna individua nella citt e nella diffusione dei suoi effetti il bandolo per dipanare il filo dArianna. Un pensiero questo che si delinea fin dai primi anni Cinquanta negli scritti raccolti nel volume Labirinto meridionale (Neri Pozza 1955) e prima ancora nel saggio La lotta politica italiana nel secondo dopoguerra e il Mezzogiorno ( Laterza 1950), ove in Premessa dichiara che il presente lavoro vuole essere uno sforzo di onesta critica politica, svolto secondo questa nostra amara prospettiva meridionale, pensiero e prospettiva che non verranno mai meno. 3

Si chiede, infatti, come mai nel Mezzogiorno a una cosi alta tradizione culturale non abbia corrisposto che una mediocre tradizione politica,impedimento alla coscienza civile di svolgersi e di dispiegarsi fra la rissa degli interessi particolaristici. La risposta la rinviene, fin dai primi convincimenti di solide acquisizioni del suo pensiero, proprio nella carenza nel Mezzogiorno di un urbanesimo civile, moderno. Confessa che, insieme a quanti collaborarono alla nascita e alla lunga vita di Nord e Sud, la rivista da lui fondata, fu proprio Carlo Levia definire questo gruppo come quello dei meridionalisti di citt, chiusi o sordi nei confronti di talune suggestioni della civilt contadina meridionale. Pu darsi che questo fosse vero, aggiunge, quel che certo che noi abbiamo dato una valutazione dei problemi meridionali, e del rapporto fra le due Italie , assai diversa da quella che veniva data dai troppo moralisti e populisti che sono partiti alla scoperta della civilt contadina. Ma c stato soprattutto, chiarisce, un punto darrivo: limportanza che i geografi moderni attribuiscono ai rapporti tra citt e campagna, alla diffusione e ramificazione delle istituzioni cittadine, quando si vuole accertareil livello di sviluppo cui pervenuta questa o quella regione; e laggiornamento di alcune tesi meridionaliste sulla base delle esperienze della bonifica e della riforma agraria non meno che sulla base dei nuovi problemi relativi alle politiche regionali di sviluppo economico ( La geografia applicata e la politica meridionalista, in G. Ciranna e E. Mazzetti -a cura di -, Il meridionalismo liberale Laterza 1988). Ha giustamente affermato Calogero Muscar ( Atti del seminario, cit..) che la citt con cui si incontra la citt come regno della ragione mediata dalla storia ed regno della libert come finalizzazione della storia, il regno cio della stessa civilt occidentale. Ed aggiunge che, il suo meridionalismo non che la sua traduzione in termini dazione politica e civile, per il riscatto del Mezzogiorno, dellaspirazione risorgimentale allUnit dItalia. Inoltre, ancor prima del saggio Labirinto meridionale, suggerisce Giuseppe Galasso (La scelta meridionalistica di Francesco Compagna, in Il Mezzogiorno da questione a problema aperto, Lacaita Editore), la scelta meridionalistica di Francesco Compagna nel momento stesso in cui si manifestarono in lui linteresse e la passione politica non fu una scelta casuale. Non fu nemmeno una scelta parziale o settoriale. Chi legga il suo primo volume pubblicato da Laterza nel 1950, La lotta politica italiana nel secondo dopoguerra e il Mezzogiorno, lo capisce subito. Lo capisce, anzi fin dal titolo, nel quale lattenzione al Mezzogiorno posta in completo ed esplicito riferimento con il complesso della questione politica italiana. La centralit, dunque, della questione meridionale nel processo stesso di formazione e consolidamento dello Stato nazionale alla base delle sue riflessioni e la questione urbana come centrale, come corollario indispensabile, nellaffrontare la questione meridionale. Due aspetti di una stessa medaglia con sullo sfondo, ma non su uno sfondo lontano, l Europa. NellEditoriale del 4

primo numero di Nord e Sud (dicembre 1954) veniva posto in modo esplicito che non si intendeva trattare della contrapposizione sterile tra aree pi sviluppate e regioni pi povere, ma piuttosto si intendeva trattare dei termini elementari in cui si riassumono oggi tutti i problemi italiani, come problemi dintegrazione fra Settentrione e Mezzogiorno dItalia, nel quadro delle pi moderne esigenze dintegrazione fra lEuropa occidentale continentale ed Europa meridionale mediterranea. Bisogna ricordare che, in apertura dello stesso numero, Ugo La Malfa chiariva la specificit dellarretratezza meridionale che non vuol dire soltanto area depressa e sottosviluppata, ma vuol dire area depressa e sottosviluppata nellambito di una storia e di una civilt delle quali si fatta diretta parte, per comprendere il Mezzogiorno essenziale non trascurare questa particolarit. Si trattava pertanto, per La Malfa come per Compagna, non solo di integrare le regioni meridionali in un pi compiuto processo unitario nazionale, ma anche di riportare in Europa il Mezzogiorno, come un Occidente decaduto. Ci richiedeva innanzitutto il rovesciamento della questione meridionale da questione agraria a questione urbana, e valutare in questa diversa prospettiva lemigrazione dal Mezzogiorno e lesodo contadino. In un contributo del 1957 alla rivista Studi Politici ( Emigrazione e industrializzazione nella politica meridionalista, n.3) sottolineava la connessione e la complementariet e non lalternativa, tra emigrazione, esodo dalle campagne e industrializzazione. Comunque, scriveva, industrializzazione ed emigrazione non devono essere intese come soluzioni alternative che si escludono; ma come soluzioni complementari, come leve necessariamente interdipendenti di una coordinata politica meridionalista, e non solo meridionalista, perch convergono entrambe verso il principale obiettivo della politica di sviluppo economico dellintero paese: alleggerire lenorme pressione demografica in agricoltura, creare sbocchi vicini ( lindustrializzazione) e lontani (emigrazione) allinevitabile e inarrestabile esodo rurale, nella consapevolezza che non si pu e non si deve mantenere ad ogni costo sulla terra una densissima popolazione agricola a bassi livelli medi di produttivit del lavoro e di remunerazione reale, perch ne soffre tanto la campagna che la citt. Tale consapevolezza gli veniva dalla vicinanza e dal rapporto con Manlio Rossi-Doria che in modo lucido aveva denunziato che non di agricoltura si trattava , ma di follia e che, come Compagna, aveva fatto una scelta di vita, cosi come ricorda (La gioia tranquilla del ricordo. Memorie 1905-1934, Il Mulino 1991) che la decisione di considerare il Mezzogiorno come il campo in cui esercitare il mio impegno civile e lagricoltura come il settore al quale dedicare il mio impegno professionale nata sul terreno di una coerente interpretazione politica. Quindi, ritenevano entrambi che non lesodo era un male in s, ma il modo in cui si attuava, modo sempre doloroso e spesso tragico, cosi come Compagna denunziava ricordando i dolori e le tragedie dellemigrazione e tra queste i morti di Marcinelle. Per di pi, non poteva non sottolineare laspetto, 5

per cosi dire, reazionario della difesa della cosiddetta civilt contadina. Gli era sembrato, infatti, di dover reagire allantistorica riproposizione della questione meridionale come questione agraria, concezione fatta propria dal fascismo tra le due guerre e riproposta come tale, nel dopoguerra, da larghe frange dei partiti dopposizione. Nel 1960, in un contributo ( Geografia sociale e questione meridionale, Atti dellAccademia Pontaniana di Napoli), notava che si parlato di una civilt contadina del nostro Mezzogiorno, incontaminata nei suoi valori autoctoni, non corrotta dalla fuligginosa economia industriale e non turbata dalle tentacolari ramificazioni della citt moderna. Si parlato di un Mezzogiorno fuori della storia; ma non per denunciare che anche essosi muove troppo lentamentebens per affermare che la storia non aveva potuto corrompere i valori autoctoni, non aveva potuto contaminare la civilt contadina. Oggi, a tanti anni di distanza delle roventi polemiche che aveva suscitato il bellissimo Cristo di Levi, oggi che quel mondo contadino quasi del tutto scomparso e lurbanizzazione, ma non sempre anche lurbanesimo, si diffusa nelle campagne meridionali, forse possibile guardare a quella ancestrale sapienza che Riccardo Musatti coglieva, ancora negli anni Cinquanta, lungo La via del Sud e che i contadini meridionali portarono nelle periferie delle grandi citt italiane ed europee, con un pi sereno distacco. Quanto sopravvive di quella ancestrale sapienza frutto di una storia complessa e difficile si come inabissata, interiorizzata, anche se a volte riemerge, forando lo strato non sempre profondo della nuova cultura cittadina. La storia ha sconfitto i contadini del Sud di Rocco Scotellaro, una storia che si presentava con tutta una serie di problemi sociali ed economici secolari non risolti e che lemigrazione in parte risolse. Sconfitta che nel lungo periodo, spesso, si trasformata in vittoria, osservando i non pochi casi di successo fuori dal Mezzogiorno e il ritorno estivo lungo le coste e nelle campagne di molti figli e nipoti di quegli emigranti. Tuttavia, un fatto che, negli anni Cinquanta e Sessanta, come notava Rossi-Doria, ricordando il lavoro intellettuale di Scotellaro, che la cultura italiana sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro intimo comportamento culturale e religioso colto nel suo formarsi e modificarsi presso il singolo protagonista. Non bisognava per indulgere, aggiungeva, oltre la giusta e necessaria collocazione storica di un mondo straordinario. Sentirci nostalgicamente orfani della sapienza immaginifica e della cultura materiale della civilt contadina. Rimpiangere un mitico mondo immaginifico, rovesciare il rapporto storico necessitato tra le terre meridionali e la modernit. Compagna non pens mai come ancora oggi viene proposto da qualche sociologo la modernit alla luce del Sud e dei mille colori che si possono percepire solo quando la vita rallenta, perch luce e colori rischiaravano soltanto un passato misero e infelice di una terra senza citt, con i suoi dormitori contadini, i suoi latifondi e il suo minifund; ma senza le sue citt , nel senso moderno e vitale della sua parola. 6

Il suo meridionalismo e quello di Nord e Sud, scriveva, insieme a Giuseppe Galasso, ( Autobiografia di Nord e Sud, n. 145, 1967), si poneva i problemi della modificazione dei rapporti fra citt e campagna nel Mezzogiorno, della trasformazione del vecchio Mezzogiorno contadino in un nuovo Mezzogiorno cittadino; e significava che si dovevano considerare gli interventi straordinari della Cassa per dotare il Mezzogiorno di infrastrutture, e degli Enti di riforma agraria per modernizzare lagricoltura, come interventi, gli uni e gli altri, non fini a se stessi, non sociali, ma diretti a creare le condizioni dellindustrializzazione. Un filone, una linea di pensiero che coglieva una continuit con i problemi posti dalla formazione dello Stato risorgimentale, dalla cui soluzione e rimozione riteneva che derivasse, sia limpulso culturale che la strumentazione tecnica, che il quadro istituzionale indispensabili allazione meridionalista, la possibilit concreta per il formarsi di una cultura moderna nel Mezzogiorno nel passaggio da una realt contadina ad una condizione cittadina. Riportare il Mezzogiorno in Europa era pertanto, prima ancora che un disegno di geografia volontaria, un impegno politico. Bisognava evitare che si coltivasse lillusione, a lungo perseguita nel periodo fascista, di uno sviluppo economico e civile guardando al Mediterraneo e volgendo le spalle allEuropa. Necessitava a tal fine una strategia che mirasse ad una diversa organizzazione territoriale dello spazio europeo, in cui inserire e raccordare la politica per il Mezzogiorno. Di qui l impegno, per cosi dire professionale, di un geografo che approda alla disciplina non solo, come si accennato, attraverso l eretico Lucio Gambi e la sua idea di regione funzionale, ma anche attraverso, o meglio soprattutto, la geografia francese di Pierre George, di Jean F. Gravier, di Jean Labasse e in particolar modo di Jean Gottmann. Geografia che pensava e operava nei confronti dello sviluppo economico in termini di organizzazione del territorio, di regionalizzazione. Non perch, aggiungeva Compagna nellEuropa delle regioni, si pretenda astrattamente realizzare il sogno di unEuropa disegnata come di un giardino alla francese , con le sue regioni ben equilibrate, le sue popolazioni armoniosamente distribuite, i suoi bilanciamenti fra attivit industriali ed agricole, i suoi poli di sviluppo che si corrispondano da un capo allaltro del vecchio continente; ma perch ci si preoccupa di rimodellareun complesso di condizioni ambientali in forza delle quali popolazioni e risorse tendano a distribuirsi, quantitativamente e anche qualitativamente, in modo da provocare fenomeni di depressione e congestione sempre pi aberranti. Per cui, nota Ernesto Mazzetti, sottolineando lintervento di Compagna al XX Congresso geografico italiano (Roma 1967), dal significativo titolo Esperienze di geografia

applicata nel quadro della politica meridionalistica, che emerge sempre pi il ruolo del geografo, capace meglio di altri specialisti, e grazie allo spirito di sintesi che proprio della cultura geografica, dei metodi della geografia sia di fornire una visione globale della situazione 7

ambientale sulla quale ci si propone di intervenire, per modificarla, sia di tracciare un quadro dinsieme di questa situazione, quale potrebbe e dovrebbe configurarsi dopo che gli interventi predisposti nel quadro di un programma di sviluppo risulteranno attuati ( Il meridionalismo di Compagna, in G. Ciranna e E. Mazzetti, cit.) Dalla scuola geografica francese, dallapproccio pi generale al physical planning di matrice anglosassone, che riguarda non solo la razionale organizzazione dello spazio, della pianificazione urbana, delle attivit produttive, ma anche la funzione e il ruolo della pianificazione delle infrastrutture e delle reti che connettono il territorio, recepiva e utilizzava le indicazioni sugli effetti territoriali della citt motrice, dei poli e degli assi di sviluppo nel determinare i fattori agglomerativi per lindustria e lindustrializzazione nelle regioni periferiche. E quindi sottolineava linfluenza urbana, o se si preferisce leffetto citt che si allarga, per cui pi moderni assetti territoriali si formano, secondo uno schema funzionale di una determinata area o regione, secondo una gerarchia che va dai centri di servizio locali alle citt medie, alle metropoli regionali e nazionali. Prospettava cio una societ qualitativamente e quantitativamente in crescita, in cui la citt riesce ad imporre i suoi stili di vita, i suoi valori, ed motrice di modernizzazione secondo uno schema, un rapporto di causa-effetto urbano-industriale. Bisogna notare che, gi negli anni Sessanta, leffetto crescente agglomerativo cedeva il passo alleffetto calante di risparmio per agglomerazione nelle aree congestionate delle regioni pi sviluppate e industrializzate dEuropa. Di qui unoccasione e una strategia per lindustrializzazione e per lo sviluppo del Mezzogiorno di geografia volontaria, che per il geografo di frontiera come amava definirsi presupponeva una certa dose, magari alquanto forte, di politica dirigista. Non solo quindi un geografo di frontiera, ma anche un liberale di frontiera: pi vicino a Benedetto Croce che a Luigi Einaudi nella nota distinzione tra liberismo e liberalismo. Fu sempre favorevole infatti allintervento dello Stato a favore delle aree depresse, anche, ovviamente, condannandone sprechi e errori, come nel caso emblematico del fallimentare centro siderurgico nella piana di Gioia Tauro e del pi generale pacchettoper la Calabria e fu sempre contro le distorsioni localizzative e gestionali delle industrie a partecipazione statale, affermando che noi non pretendiamo affatto che lindustrializzazione del Mezzogiorno sia portata avanti con iniziative improvvisate, a carattere pi o meno assistenziale, e comunque in conflitto con quelle esigenze di produttivit e di competitivit delle quali tanto si parla e giustamente si parla. E lo fu perch riteneva, da liberale, che oramai diffusa la convinzione che una politica liberista non pu non provocare proprio quei risultati di congestione per talune zone e di deterioramento progressivo per altre che fatalmente comporterebbero larresto di ogni processo di sviluppo economico, nazionale e comunitario. 8

Sono daltronde gli anni del miracolo economico italiano, dellimperante keynesismo della programmazione economica nazionale, degli orizzonti lunghi del Progetto 80, quasi un et di Pericle se raffrontata con quella dei decenni successivi. Una visione di concreto illuminismo, di riformismo rivoluzionario attraversava e pervadeva le forze di governo e solo un attento dissenso riguardava la maggiore forza di opposizione. Compagna vive e respira temi e speranze del suo tempo, ne raccoglie gli stimoli, partecipa alla formazione dei primi, condivide le seconde. Ma guarda anche lontano; fautore di una organizzazione territoriale, in Italia come nel resto dellEuropa, che faccia perno su regioni funzionali, sufficientemente grandi e che siano centrate su una metropoli regionale o su una potenziale metropoli. Regioni funzionai, regioni programma, o al contrario pi semplicemente le regioni cosi come disegnate dalla Costituzione. Nella discussione, nelle diverse ipotesi che si discutono, ammonisce, specifica subito, memore delle riserve di Fortunato e dei ripensamenti di Salvemini sullintroduzione delle regioni nellordinamento statuale, che si devono chiarire due punti. Anzitutto riflettere, pensando al Mezzogiorno, se tutte le regioni della nostra Costituzione sono capaci di effettiva autonomia politica, civile, economica, e in secondo luogo fino a che punto esse coincidono con le pi convenienti circoscrizioni territoriali fra quelle che potremo identificare ai fini della politica di piano. Sulla prima questione, sul decentramento istituzionale, Compagna non dovette attendere a lungo per vedere concretizzati i timori di Fortunato e cio che attribuire ai corpi locali, pi o meno autonomi, vere e proprie funzioni di Stato significava avere la certezza di veder crescere a mille doppi i guai delloggi, linfeudamento e il prepotere delle consorterie locali e il loro equo ed anche iniquo procedere in tutte le manifestazioni della vita amministrativa ( Le regioni,in Il Mezzogiorno e lo stato italiano, Vallecchi 1973). Non si tratt, nel caso di Compagna, di una chiusura e di una posizione di un mero conservatorismo. Al contrario, il timore e i dubbi sullautogoverno locale nascevano dallacuta intelligenza di istituti e uomini del Mezzogiorno. Era presente e prevaleva in lui la lezione crociana sulla debolezza storica del ceto civile meridionale, era cosciente della fragilit funzionale e del costante pericolo di inquinamento dei rapporti sociali, civili, produttivi del Mezzogiorno, temeva lemergere di quanto vi era di negativo in quello che noi oggi potremmo definire come capitale sociale. Al contrario, indicava come faro e come esempio la tradizione degli uomini di cultura dellItalia meridionale come la sola di cui essa possa trarre lintero vanto. In secondo luogo, ancora pi complessa si presentava, ai fini di una integrazione nazionale ed europea, la questione delle ancora deboli regioni meridionali. Si trattava di renderle a tal fine autonome e funzionali. Sufficientemente grandi e dotate di unaltrettanto articolata armatura urbana e della presenza di citt che devono essere investite di una funzione centripeta, per qualificarsi progressivamente come metropoli regionali. Di qui la proposta, nel saggio LEuropa delle regioni, 9

di un ritaglio funzionale dello spazio meridionale per sopperire alla debolezza di regioni come lAbruzzo, la Basilicata, la Calabria. Specificava che ogni considerazione sullinvestitura delle metropoli regionali ci induce a riproporre insieme, e non separatamente, i due punti di cui si diceva, quello della capacit effettiva di autonomia delle regioni storiche italiane recepite dalla Costituzione come circoscrizioni-base dellordinamento regionale e quello della maggiore o minore coincidenza con le circoscrizioni territoriali pi convenienti e pi coerenti ai fini della politica di piano. Certo, si trattava di una proposta, smembrare la Basilicata tra Campania e Puglia, il Molise aggregato alla Campania, lAbruzzo ridimensionato tra Lazio e Marche, ispirata ad una certa idea, per cosi dire, funzionalista dello spazio, che scontava un comportamento razionale delle istituzioni, che sembrava voler sottovalutare le, a volte presunte, incrostazioni identitarie. Inoltre, rivedere secondo criteri di geografia volontaria i confini delle regioni previste dallarticolo 113 della Costituzione, sembrava provenire, da un lato, dalla migliore tradizione dellilluminismo meridionale, e dallaltro da Gambi che aveva sottolineato ( Lequivoco tra compartimenti statistici e regioni costituzionali, in Questioni di geografia, ESI, 1964) il peso di quellinerzia tipicamente italiana che solidifica le prassi radicate , i compartimenti del Maestri ridipinti col nome di regioni nella Carta Costituzionale, malgrado le delimitazioni territorialmente irragionevoli di essi. Compagna aggiungeva, alle considerazioni di Gambi, che peraltro son diventate or qua or l ancor pi irragionevoli, in conseguenza dei nuovi rimodellamenti intervenuti con i progressi dellindustrializzazione e delle comunicazioni. Auspicava che fosse fatta chiarezza sullequivoco dei compartimenti statistici divenuti regioni costituzionali, equivoco, concludeva, che potrebbe essere chiarito attraversa la progressiva regionalizzazione delle politiche di piano e la tendenza allidentificazione di grandi regioni funzionali e coerenti in base alla localizzazione delle metropoli, e alla consistenza della rete delle citt di raccordo, da cui si diffonde o si pu diffondere una civile urbanizzazione del territorio. Possiamo aggiungere che non difficile, ancora oggi, constatare che malgrado la crescita demografica e terziaria di capitali regionali come Campobasso, Potenza e Catanzaro, il Molise, la Basilicata e la Calabria non sono diventate regioni coese e funzionali. Ci pu forse rassicurare il localismo di Massimo Guaini circa i limiti e linattualit del

volontarismo di Compagna, definito poco geografico e molto astratto, incline alle ragioni di uno spirito anticipatamente globalista, oltre che, a suo dire, contrastante con una emergente filosofia mediterranea ( M. Guaini, Cescita, decrescita e territorio. Dal laboratorio ligure una riflessione sui modi dello sviluppo, in Tante Italie. Una Italia, Angeli 2011). Compagna temeva che dall attuazione dellordinamento regionale, secondo i confini del Maestri, potessero scaturire implicazioni negative sullo sviluppo economico delle regioni pi deboli ed il rafforzarsi dello squilibrio territoriale tra le due Italie. E a questo riguardo fu quanto mai 10

profetico circa gli effetti delle politiche territoriali perseguite nei decenni successivi, effetti che ruppero lunitariet di una complessiva visione dello spazio meridionale, e alla forza di ununica macroregione sostituirono tante parcellizzate debolezze. Fin dalla met degli anni Sessanta, Compagna aveva sottolineato ( Il Giorno, marzo del 1966) che le regioni non sono n un pericolo per la Repubblica, n un toccasana miracoloso per i mali del paese e dello Stato. Sono uno strumento utile e se bene adoperato, molto utile ai fini della politica di piano e del decentramento amministrativo. La regione cio come uno spazio di giusta ampiezza per un inquadramento terziario, funzionale, del territorio. Temeva il fallimento, come effettivamente accaduto, di unindustrializzazione debole e diffusa per pi poli e pi regioni, mantenuta in vita artificialmente, non sostenuta da assi di comunicazione e trascinamento dello sviluppo in grado di guidare una ordinata diffusione di una civile urbanizzazione e di una infrastrutturazione altrettanto civile. Temeva inoltre, come si cercato di dire, che l emergente filosofia mediterranea evocata da Guaini, e in modo inconcludente richiesta dalle regioni meridionali, allontanasse il Mezzogiorno dallEuropa, facendolo sprofondare nelle sue limacciose economicamente e non sempre politicamente limpide acque. Temeva, infine, come effettivamente anche accaduto, una parcellizzazione paralizzante dei poteri locali sul territorio, quasi uno spazio fatto da tanti coriandoli impotenti nella migliore delle ipotesi, piccoli centri di arbitrio e soprusi nella peggiore. Si pu aggiungere che, forse, riponeva una eccessiva fiducia nella nascita e nella crescita di un nuovo ceto politico-amministrativo locale, in moderni policy makers, a suo giudizio, probabilmente assai pi inclini a valutare i problemi dellassetto territoriale-amministrativo del paese in termini di gravitazione pi conveniente verso questa o quella metropoli, o citt intermedia di raccordo, che non in termini di vanit municipale e di boria delle regioni tradizionali, cosi come, al contrario, di l a poco, nel momento dellistituzione delle regioni, i disordini in Abruzzo e in Calabria, per lindicazioni delle capitali regionali, avrebbero dimostrato e lo avrebbero indotto a ricredersi. Tuttavia, malgrado ritardi e insipienze, uomini e terre del Mezzogiorno ed i loro apparati amministrativi comunque rompevano la quasi uniformit e continuit spaziale della storica arretratezza civile. Compagna ne coglieva i prodomi, ne seguiva le tracce, per cui oggi, uomini e terre del Mezzogiorno presentano una discontinuit e una differenziazione di gran lunga maggiore rispetto alla continuit e uniformit di un misero e povero paesaggio culturale di un passato non molto lontano. Come, ad esempio, la quasi completa rottura dellisolamento geografico che rappresenta, in uno con linnalzamento dei redditi e dei consumi, laspetto pi rilevante. Attraverso tracce e prodomi offriva a uomini e a terre meridionali il sentimento del futuro. Nella citata Autobiografia di Nord e Sud richiamava, infatti, in chiusura, la necessit di dare al Mezzogiorno 11

quello che non ha mai avuto: il sentimento del futuro, la volont di immaginarlo per poterlo dominare. In questo forte e razionale sentimento prefigurava scenari urbani e industriali pi moderni, dopo i successi della preidustrializzazione, dopo il recupero delle piane attraverso la bonifica, dopo la riforma agraria, dopo linfrastrutturazione civile del territorio. Ma questi scenari solo qua e l si sono sia pure parzialmente concretizzati. Non ha fatto seguito, dal basso, nelle singole regioni, dagli anni Settanta in poi, una moderna e autonoma cosi come auspicava Compagna- civilt urbano-industriale. Il Mezzogiorno ha subito prima una sorta di controrivoluzione industriale e quindi una quanto mai contraddittoria rivoluzione ambientale. rimasto come sospeso tra un mondo tradizionale che si dissolto e uno nuovo che non si diffuso. In questo limbo si smarrita ed rimasta sospesa anche la modernizzazione civile del suo spazio attraverso una politica della citt. Politica che invece aveva reclamato Compagna fin dagli anni Cinquanta, sottolineando come lItalia meridionale ha avuto la sua capitale, ma non le sue citt. A Napoli vi sono delle regge, ma non un antico palazzo comunale come nelle antiche citt dellItalia centrale e settentrionale. Proponeva, pertanto, lesigenza e la necessit, seguendo Carlo Cattaneo, di attrezzare, anche nel Mezzogiorno, la citt come fattore di incivilimento, affinch anche nel Mezzogiorno, al pari del Centro-Nord, fungesse da principio ideale della storia italiana. Riteneva che si potesse, nel nuovo contesto territoriale che lintervento straordinario creava, cogliere l occasiona storica di un mondo cittadino da fondare, si poteva cio rimuovere la storica condizione di una terra senza citt e aprire una prospettiva di un mondo cittadino da fondare. Fin dai suoi primi scritti sottolineava la circostanza ( Geografia delle sedi e pianificazione urbanistica nel Mezzogiorno dItalia, Napoli 1959), che sotto la spinta dei problemi posti dallesodo rurale e, naturalmente, dalle esigenze di una politica di localizzazione industriale affiorata per il Mezzogiorno una prospettiva nuova, sulla quale prima non si era portata che saltuariamente lattenzione, volta tutta alla descrizione, se non addirittura alla contemplazione, della cosiddetta civilt contadina. Tale prospettiva quella che deriva dalla presa di coscienza di un antico squilibrio o tensione del rapporto tra citt e campagna nel Mezzogiorno; e quindi dallesigenza di una politica per la citt, tale da assicurare in tutte le regioni meridionali una diffusione di istituzioni cittadine, una redistribuzione degli insediamenti, una pi rapida e intensa mobilit sociale, professionale, territoriale. Il tema viene ripreso, prima nella citata La questione meridionale edita da Garzanti nel 1963, in cui coglie la modernit della funzione delle citt medie come luoghi di intelligente localizzazione industriale e di redistribuzione della popolazione sia per tipi di insediamento che per tipi di attivit. Tema che viene riproposto e ampliato, in modo pi organico e diffuso, qualche anno dopo (1967) 12

nel saggio La politica della citt, in cui questione urbana, questione meridionale, sviluppo economico e civile del paese si intrecciano strettamente. Si tratta, scrive, di aprire un discorso nuovo sul piano storico, sul piano geografico, sul piano sociologico e naturalmente sul piano politico intorno alla formazione squilibrata e quindi intorno ai problemi di equilibrio, del sistema urbano che abbiamo ereditato da una vicenda della quale sono state gi principali protagoniste alcune citt in talune regioni, ma della quale, in altre regioni, sono state invece protagoniste alcune dinastie, per cosi dire, pi che le citt: secondo quanto abbiamo potuto apprendere dalla lettura di Carlo Cattaneo per il Nord e di Benedetto Croce per il Sud. E dalluno e dallaltro, anche attraverso la mediazione della lezione storica di Giuseppe Galasso, ricavava il convincimento che il grande tornante storico dellincipit delle differenze tra le due Italie andava ricercato nella fioritura della civilt comunale nel Centro-Nord da un lato, e nellinstaurazione del feudalesimo nel Sud dallaltro, con il conseguente spegnimento delle libert comunali di citt mercantili che pure si erano venute formando tra la costa campana e quella pugliese. Si spezza, senza pi ricomporsi, sottolineava, innanzi tutto quel principio di pi organica associazione fra citt e campagna, e di prevalenza della prima sulla seconda, per cui, per secoli, la campagna meridionale rest segregata dalla citt e questa fu soffocata in uno spazio angusto senza possibilit di espansione. In questa crisi dalle lontane origini, ma dagli effetti di lunga durata, delle citt meridionali dopo linstaurarsi della monarchia normanna e con linstaurazione tardiva dellordinamento feudale, molte delle ragioni storiche, per cui la crisi del Mezzogiorno dura da secoli; e le ragioni per cui le luci nella storia del Mezzogiorno, le molte luci che ci sono e che in certi momenti splendono degnamente, regrediscono assai spesso. Se non addirittura quasi sempre, davanti alle molte ombre. Di recente Giuseppe Galasso ha precisato, anche tenendo conto dellavanzamento degli studi storici sullurbanesimo meridionale ( Prefazione a Le citt del Regno di Napoli nellet moderna. Studi storici dal 1980 al 2010, Editoriale Scientifica, Napoli 2011) che il Mezzogiorno ha avuto la cittMa ha avuto la sua citt, quella che la sua storia, la sua struttura culturale, sociale, civile, consentivano e richiedevano, al di fuori di una modellistica statica ed esterna, per cui o si conformi a siffatti modelli o si privi di determinazioni storiche, anche fondamentali, essenziali, come quella dellesperienza cittadina. Certo, questa sembra essere la questione: il Mezzogiorno ha avuto la sua citt, ma non una citt da cui sia uscita linnovazione che modernizz le campagne e il progresso che incivil lo spazio al di fuori delle mura. Cosi come ha avuto una grande citt, ma si trattato di una capitale parassitaria e non produttiva, tale fin dal suo instaurarsi, con gli Angioini, se gi alcuni secoli prima del mostro demografico dellet moderna, il maggiore storico delle finanze meridionali, Ludovico Bianchini, notava che gli Angioini solleciti che tutto si riunisse 13

nella citt di Napoli, niuna cura si ebbero delle citt di provincia: il che diede origine ad immensa sproporzione nella circolazione delle ricchezze e nella popolazione. E se, ancora agli inizi dellOttocento, al loro ingresso nel Regno, scrive Angelantonio Spagnoletti ( Storia del Regno delle Due Sicilie, Il Mulino, 1997) i francesi trovarono le province storiche, ma non i capoluoghi, non trovarono cio delle citt che, collocate al vertice di una gerarchia urbana di ambito provinciale offrissero quadri burocratici, supporti logistici, facilit di relazioni viarie e commerciali. Dopo il decennio francese , nel 1816, tra Napoli e la seconda citt del Regno, Foggia, vi era una differenza demografica di circa trenta volte, 323 mila abitanti contro circa 21 mila. E ancora nei primi decenni successivi allUnit, nota Lucio Gambi ( Il reticolo urbano in Italia nei primi ventanni dopo lunificazione, in La formazione della citt industriale, Quaderni Storici, 27/1974), che negli anni post unitari ci che pare evidenziarsi meglio la forte disparit nella frequenza e nella regolarit dei centri coordinatori dellimpalcatura urbanistica tra le regioni del Nord e le regioni della penisola e insulari: ma la situazione di quegli anni era imputabile solo in misura contenuta al diverso o al nessun grado di inserimento in una struttura capitalistica, e invece in buona parte era una eredit della storia degli ultimi cinque secoli. Compagna richiama, a tale riguardo, le considerazioni di Gaetano Filangieri: una testa, la Capitale, che si ingrandita a dismisura a danno del corpo, il Regno. E la prima divenuta il tutto, e il secondo, lo Stato non pi niente. Per cui, il numerario, questo sangue delle nazioni, vi si funestamente arrestato, e le vene che dovrebbero trasportarlo nellinterno dello Stato, si sono rotte o appilate. Il Regno e la sua Capitale gli apparivano, pertanto, ancora come il paradigma storico dellarretratezza meridionale: il primo non ha avuto capacit e possibilit di autonoma accumulazione, la seconda ha avuto unabnorme crescita, ma non anche funzioni e rapporti

produttivi con lo spazio meridionale. Aspetti ripresi e fortemente sottolineati da Francesco Saverio Nitti, nel porre in relazione, come due aspetti di una stessa medaglia, agli inizi del secolo scorso ( Napoli e la questione meridionale, Napoli 1902), lesasperata arretratezza della agricoltura del Mezzogiorno pi arretrato e il gigantismo patologico del vertice della sua rete urbana: Napoli e la Basilicata sono dunque, scrive, i due termini estremi della questione meridionale, la citt popolatissima e la campagna spopolata. Se vero pertanto, come si afferma nei pi recenti studi sulla storia dellurbanesimo meridionale, che anche nel Mezzogiorno, in et moderna, sia possibile identificare citt con un tasso relativamente elevato di funzioni urbane,che hanno un rapporto assai intenso con centri commerciali stranieri, e che, oltre ad entrare in circuiti economici assai ampli, esercitano anche una notevole capacit di coordinazione territoriale, costituiscono cio il centro di gravitazione del loro hinterland ( A. Musi, N anomalia n analogia: le citt del Mezzogiorno in et moderna, in Le 14

citt del Regno..,cit.), se studi recenti, come si accennava, giungono a queste conclusioni, si afferma anche nelle stesse pagine che i tratti urbani dei centri meridionali tendono comunque a conservare una facies rurale. La conclusione che la citt meridionale, in quanto realt extra rurale o superrurale non per questo verso lelemento trainante della vita provinciale, ancora si tratta di una citt plasmata e penetrata dalla campagna e che non dispone che di limitati poteri su di essa. Proprio da questi limiti storici della citt meridionale, o meglio da questa distorsione storica e dalla contrapposizione territoriale tra civilt metropolitana e civilt provinciale, prendono avvio il ragionamento e le indicazioni di Compagna sui termini metropolitani della questione urbana, come questioni e problemi propri del suo tempo e che la cultura urbanistica e della pianificazione territoriale europea sembravano proporre, come modello, allItalia e in special modo al Mezzogiorno. La lezione delle cose, lo spingeva verso due direzioni di politiche urbane. La prima riguardava i pericoli e le distorsioni insiti in un assetto territoriale basato solo e soltanto su alcune megalopoli, poich malgrado esse siano un fatto positivo, un elemento di progresso civile ed economico, si deve comunque evitare che ne derivi una degradazione demografica ed economico-sociale delle regioni marginali. La seconda riguardava questultime, poich, scriveva, vi sono servizi superiori, attivit quaternarie, che non necessariamente debbono trovare localizzazione nelle metropoli capitale. Vi sono al contrario sedi di attivit quaternarie che devono essere presenti e operanti in tutte le citt che concorrono o possono concorrere a formare il cosiddetto livello superiore delle armature urbane Di qui lesigenza e la necessit di una politica di attrezzatura di citt medie, di metropoli regionali con funzioni di equilibrio, come importanti punti di riferimento per unefficace organizzazione del territorio. La lezione delle cose mostrava, in Europa, in Italia, nel Mezzogiorno, che un equilibrato sviluppo regionale richiedeva che al vertice di ogni rete urbana funzionale vi fosse una capitale regionale in grado di assolvere funzioni metropolitane e che questa, a sua volta, fosse in grado di essere contromagnete di equilibrio nei confronti della forza di attrazione della metropoli, o della megalopoli al vertice della gerarchia nazionale. In Europa problemi simili di equilibrio metropolitano, riguardavano (e possiamo aggiungere riguardano), ad esempio, la Gran Bretagna che, sottolineava Compagna, ( La politica della citt) deve misurarsi con il problema di Londra, dellipersviluppo nellagglomerazione che fa capo a Londra, e anche nellintera conurbazione, o megalopoli che dir si voglia, dilatatasi per tutto il Sud-est. Riguardavano (e riguardano), del pari, lesagono francese e quindi le metropoli dequilibrio come obiettivo di politiche di riequilibrio territoriale. Come strumento di geografia volontaria, nello spazio francese, come contromagneti per rianimare la desertificata provincia, che il gigantismo della capitale ha progressivamente dissanguato, onde una serie di fenomeni e di 15

squilibri dai quali la polemica antigiacobina, da Tocqueville a Gravier, ha ricavato motivi di costante aggiornamento e la geografia delle citt, da Vidal de la Blache a George e a Labasse, motivi di stimolante attualit. Da un approccio di politica territoriale, per cosi dire, girondino in Francia, nei confronti dellipertrofia della capitale, ad uno giacobino in Italia, in quanto nel nostro paese il tema delle metropoli dequilibrio , e non pu che essere, la conclusione meridionalistica del discorso sulla questione urbana. Del discorso, aggiungeva, che vuole definirsi come una provocazione ai fini di un approach di tipo nuovo alla questione meridionale. Approccio di tipo nuovo, secondo

contenuti di geografia volontaria, lontana da forme di sociologia comportamentale e intrisa, al contrario, di una concretezza che nasceva dai risultati del primo tempo dellintervento straordinario e sembrava dover essere sostenuta da una politica di pianificazione dello spazio nazionale. Ci sembra, concludeva nelle ultime pagine della Politica della citt, di poter costruire lipotesi di sviluppo equilibrato del nostro sistema urbano sulla constatazione che lasse Roma-Napoli risulta ormai dotato di notevoli requisiti per assolvere a livello nazionale una funzione di equilibrio, di contrappeso, rispetto allasse Milano-Torino: in modo tale da consentire allItalia centrale, che oggi gravita quasi esclusivamente verso il Nord-ovest del paese, di assumere.. una nuova fisionomia, come regione di collegamento fra due grandi e forti assi; e soprattutto in modo tale da poter stimolare per certi aspetti e direttamente provocare per altri aspetti un processo di intensa e rapida propagazione dellindustrializzazione e dellurbanizzazione in altre aree del Mezzogiorno lungo nuovi allineamenti di poli e nuclei urbani, ed industriali, ramificazioni, propaggini e sfioccamenti dellasse dominante. Oltre dieci anni dopo, in un Colloquio internazionale di geografi a Bergamo ( C. Muscar - a cura di- Megalopoli mediterranea, Angeli 1980), Compagna riproponeva, in chiusura dell incontro, il suo convincimento, il suo schema per uno sviluppo equilibrato dello spazio nazionale. Ma gi avvertiva che il rallentamento delleconomia italiana, dalla met degli anni Settanta in poi, non poteva che essere esiziale non solo per le sorti del Mezzogiorno, ma anche per quelle dellintero paese. E quanto pi vigorosa fosse e continua, auspicava, in un giorno speriamo non lontano, la ripresa degli investimenti, e quindi dello sviluppo economico e civile del nostro paese, tanto pi si allargherebbe il ventaglio di queste scelte: e delle possibilit, quindi, che ci sia dato di perseguire contestualmente lordinata crescita della megalopoli padana e la fondazione di un Mezzogiorno cittadino che risulti via via sempre pi omogeneo con il resto del Paese: anche nel suo quadro di civilt materiale . Ma vi di pi. Compagna intuiva e anticipava quanto le pi recenti

conclusioni sulle attuali politiche urbane sostengono. E cio che la nuova economia urbana, la nuova base economica della citt, e quindi anche quella delle citt medie e grandi del Mezzogiorno, 16

dovesse orientarsi sempre pi sul binomio cultura e conoscenza. Ricerca scientifica, risorse culturali e ambientali, come occasione di rivitalizzazione di citt antiche, cultura e conoscenza per la nascita di distretti industriali specializzati in settori specifici in quella che oggi si definisce produzione cognitivo-culturale. Tuttavia, allinizio degli anni Ottanta,, era anche perfettamente consapevole che i termini del problema non erano pi quelli, per il Mezzogiorno, dei gloriosi trentanni tra la fine della seconda guerra mondiale e la met degli anni Settanta. Il contenuto tecnico della Cassa veniva sempre pi scemando fino a degradarsi a sportello finanziario delle imprese a partecipazione statale o di progetti delle neonate regioni, progetti pi a vantaggio di quello che stato definito esercito elettorale di riserva, piuttosto che del Mezzogiorno o dellItalia nel suo complesso. Era perfettamente consapevole che queste ultime, le regioni meridionali, esprimevano una burocrazia e una dirigenza politica, sempre pi interessate alla gestione e non alla programmazione delle risorse territoriali, gestione peraltro entro confini e spazi non sempre funzionali; mentre in alcune regioni del Centro e del Nord-Est iniziava a fiorire uno sviluppo locale che mostrava anche uno egoismo locale, sviluppo fondato sulla piccola e media impresa che aggiungeva allo storico dualismo nordsud la nuova realt di una terza Italia, e presentava, nellarea padana, una quasi inedita, fino alla fine degli anni Settanta, questione settentrionale. Era ben cosciente, inoltre, che la nascita di un Mezzogiorno cittadino era intessuta di numerosi se e di diverse condizioni. Anzitutto, se non si fosse provveduto, con unazione diretta, ad investire le citt del Sud di funzioni animatrici ed organizzative nei confronti delle regioni e sub-regioni che ad esse facevano capo. In secondo luogo, se lindustrializzazione si fosse risolta in un fenomeno di urbanizzazione meramente quantitativa. Infine, se gli investimenti per la preindustrializzazione e lindustrializzazione non si fossero inquadrati in un impegno coordinato per la qualificazione funzionale dei sistemi urbani a carattere regionale del Mezzogiorno, e per lintegrazione di tali sistemi nellarmatura urbana del paese. Ed anche se a tali condizioni e presupposti solo di rado stata data una risposta coerente, tuttavia si pu affermare che le intuizioni e i suggerimenti di Compagna hanno trovato, nel concreto svolgersi della realt, nel concreto svolgersi dei fatti, accanto a tante ombre e distorsioni, non poche conferme positive nellorganizzazione dello spazio meridionale. Se osserviamo la tela a pi colori che oggi lo contraddistingue, se rivolgiamo lo sguardo ai tanti mezzogiorno che pure si sono formati e che hanno ulteriormente frazionato lunitariet del suo sottosviluppo e luniformit del suo ritardo, sembrerebbe che si stia configurando un quadro urbano-territoriale pi moderno.

Lammodernamento del sistema infrastrutturale e la sua ulteriore articolazione ha rotto, in larga misura, lisolamento delle zone interne appenniniche, ha ridotto le distanze tra i vari versanti, ha 17

migliorato laccessibilit delle conche e delle piane interne chiuse dai massicci montani. Tutto ci ha promosso una configurazione pi policentrica dello spazio meridionale. Ne scaturisce, ulteriormente ridimensionata, la storica funzione accentratrice di Napoli. Sembra emergere un policentrismo che trova nelle citt centrali di Bari e Pescara e nelle citt medie dellinterno appenninico, divenute capoluogo di regione, una crescita e una qualificazione pi funzionale, sia pure prevalentemente terziaria, della rete urbana. Dalla differenziazione puntuale e isolata di luoghi diversi sembra emergere una divaricazione-integrazione tra spazi pi ampi. Si tratta di regioni e sub regioni, in cui il filo di Arianna della storica questione che in quasi trentanni di scritti e saggi di Nord e Sud, Compagna ha dipanato, sembra condurci in spazi pi rischiarati, lasciando intravedere sentieri diversi di crescita e comunque meno in salita rispetto al passato. L Abruzzo e non solo quello costiero, ma anche le conche interne. Il Molise, lungo la direttrice trasversale Isernia- Compobasso-Termoli. La Campania, ma limitatamente ad alcune penetrazioni vallive tra Caserta e Benevento, tra Salerno e Avellino. La Puglia, lungo la cimosa costiera e in particolare nel triangolo Barletta-Trani-Andria e nel Salento raccordato dalla nuova centralit culturale di Lecce. La Basilicata, tra il Metapontino e il Materano, dove i danteschi, infernali gironi, dei Sassi sembrano aver dato luogo ad una, anche in questo caso, citt culturale. Anche alcuni spazi della pi arretrata Calabria, tra il solco del Crati, Cosenza e i suoi casali, guardando verso la piana di Sibari, mostrano segnali di crescita. Egualmente la Sicilia orientale, rafforzando in tal modo lo storico policentrismo regionale. Infine, si pu aggiungere che anche i capoluoghi di provincia, non assurti al rango di capoluoghi di regione, presentano una maggiore articolazione sociale, cosi come non pochi centri minori, sembrano voler assumere un volto di vere e proprie micropoli e comunque a voler configurare un paesaggio culturale ben diverso e pi moderno rispetto a quello infranto del Mezzogiorno contadino. Ma, tracce di questultimo si rinvengono largamente in aree molto estese, anche se scarsamente popolate, dove lagricoltura tradizionale, dopo lesodo, lungo la spina dellAppennino, dal Gran Sasso allAspromonte, tende a strutturarsi pi come risorsa ambientale che come comparto produttivo. Per cui la tradizionale tripartizione dellagricoltura meridionale tra zone estensive, promiscue e intensive, ha visto le prime e le seconde le pi colpite dallesodo modernizzate sia pure in parte da forme di un neocapitalismo uscito dalla citt che si lentamente formato e di cui Compagna indicava il rafforzamento. Al contrario, in altre aree, meno estese, ma di gran lunga pi popolate, ove le fratture di una modernizzazione patologica ha infranto antichi equilibri senza crearne dei nuovi, lassenza di una politica della citt sembra aver vanificato le indicazioni riformiste di Compagna. Sembra che si siano smarriti quei valori culturali ed etico-politici su cui aveva fatto affidamento per ricomporre la frattura tra le due Italie e ricondurre il Mezzogiorno in 18

Europa. Per cui se questultimo ha rotto il recinto della tradizionale cultura contadina entro cui la storia e la geografia lo avevano confinato, non si pu anche affermare che, nel contempo, in diverse aree, abbia conseguito anche valori propri di una civilt moderna. Si tratta in particolar modo delle estese frange periferiche delle quattro aree metropolitane di Napoli, Bari, Palermo e Catania, ove si aggravata non solo la storica arretratezza economica, quanto soprattutto quella civile. Ci ha riguardato e riguarda, non solo le grandi aree metropolitane, ma anche molte citt medie in cui lindustrializzazione passata come una meteora distruttrice, o sono cresciute solo quantitativamente anche senza questa illusione: ad esempio Taranto e Brindisi nel primo caso, la conurbazione dello Stretto tra Reggio e Messina nel secondo. In vero Compagna aveva largamente intuito, e di alcuni casi, come si accennato, era stato testimone, che lindustrializzazione del Mezzogiorno spesso avveniva male e comunque in ritardo. Male perch lo sforzo maggiore veniva fatto, negli anni Sessanta, con una forte presenza dellindustria a partecipazione statale e una contemporanea assenza di quella privata. E per la prima notava che dopo che erano stati portati avanti nei settori delle industrie di base i progetti molto impegnativi di Taranto, di Gela, della Valle del Basento, non erano stati predisposti progetti altrettanto impegnativi nei settori dellindustria manifatturiera (Il Mezzogiorno tra due legislature, Il Saggiatore 1968). In ritardo, perch il suo meridionalismo, il meridionalismo dellindustrializzazione e

dellurbanizzazione modernizzatrici si era, per cosi dire, impantanato tra i dubbi, le remore e i timori della Confindustria e linerzia della palude clientelare del Sud. Se dunque il malessere del Mezzogiorno ancora oggi un malessere delle sue grandi agglomerazioni urbane perch agli errori e ai ritardi degli anni Sessanta e Settanta, denunziati da Compagna, si sono sommati poi, negli anni Ottanta, quelli della deindustrializzazione, effetto della rivoluzione tecnologica che il Mezzogiorno non riuscito a cogliere. La precoce scomparsa ha risparmiato a Compagna questulteriore aspetto negativo della condizione del Mezzogiorno, in cui da questultimo decennio in poi, alla pi antica disoccupazione urbana dei centri storici di Napoli, Palermo, Bari e di altre citt di medie e grandi dimensioni, si aggiunta quella pi recente delle nuove periferie e delle nuove generazioni. Il tutto, come scrive Piero Barucci, ha finito con il dar luogo a forme di intermediazione impropria dai sevizi pi semplici a quelli pi complessi e elevati. Il mercato divenuto opaco o non funziona, predominano rapporti di tipo familistico/amicale che ne minano la capacit di crescere economicamente e di essere unarea dove stabilmente assicurata una vita democratica ( Mezzogiorno e intermediazione impropria, Il Mulino 2008). Il binomio urbanizzazione-industrializzazione, proposto da Compagna per la modernizzazione dello spazio meridionale, sembrerebbe dunque venuto a meno a causa della crisi del secondo termine del 19

rapporto e ha prodotto una miscela che deflagrata in due direzioni. Nella ripresa dellemigrazione sulle lunghe e medie distanze, non pi definitiva, ma spesso pendolare, verso le regioni del CentroNord e verso lEuropa, di giovani qualificati con un ulteriore impoverimento del capitale umano meridionale. Nellarruolamento nelle piccole e grandi attivit illegali e informali, arruolamento non contrastato dagli ammortizzatori dello stato sociale. Per cui la modernizzazione auspicata apparsa, in seguito, smarrita per chi pone laccento, come chi scrive, sul mancato aggancio alleconomia post industriale; squilibrata per chi sottolinea ( Barbagallo) le caratteristiche contraddittorie di uno spazio dove il vecchio e il nuovo si intricano in vario modo e il moderno fatica a consolidarsi nelle strutture e nei comportamenti; apparente per chi nota ( Zoppi ) che non investe le basi economiche e le strutture sociali, i modi di partecipazione alla vita collettiva. Una modernizzazione, che tale, nelle sue diverse sfaccettature, perch, si sottolinea infine, (Galasso), si trattato di un processo di dipendenza culturale e strutturale in cui si per gran parte risolto il processo di modernizzazione degli ultimi decenni. Tuttavia, possiamo ipotizzare che Compagna suggerirebbe, che da questo Mezzogiorno cosi come e per quello che c, che bisogna riprendere le mosse; riprendere la trama dalla questione urbana, fine e mezzo per la creazione di una economia della conoscenza nel Mezzogiorno, per una

valorizzazione delle risorse locali, per una connessione materiale e immateriale della rete urbana al fine di garantirne laccessibilit interna e internazionale. Sarebbe favorevole ad un ritorno al centro per le politiche urbane e territoriali, cosi come si diceva in premessa, citando Tocqueville, a proposito della funzione della geografia, come richiamo della cultura politica al senso della realt; ritorno al centro al fine di razionalizzare e controllore le parcellizzate e inquinate autonomie locali, limitando le ricordate intermediazioni improprie. Laltro estremo della questione meridionale, accanto alla campagna spopolata, era dunque, rappresentata per Compagna, dalla questione napoletana, cio dai temi e problemi della citt popolatissima. Dei due aspetti di profonda differenziazione dei due fenomeni ne coglieva, in tutta la loro interezza, la forte, storica, interdipendenza. Napoli non solo grande divoratrice di uomini, lespressione di Ruggiero Romano, lungo i secoli che vanno dal Viceregno al Regno, ma anche una necropoli di poveri diavoli immigrati, come tante altre citt. Ma a differenza di queste ultime, con la tara di una forte contraddizione tra la sproporzionata crescita demografica e la debole consistenza economico-sociale. Anche in questo caso, sulla scorta dellinsegnamento che gli veniva dalla storia, aveva maturando una certa idea di Napoli, di una Napoli non pi capitale e alla ricerca di un ruolo nel contesto della nuova realt urbana che si era creata in Italia e nel Mezzogiorno, e andava riflettendo sulle difficolt del presente e sulle incognite del futuro, presente e futuro di questa che la mia citt. 20

Rifletteva ancora una volta nel saggio Una certa idea di Napoli ( in Meridionalismo liberale, cit.) sulla capitale decaduta, dopo che aveva affrontato il tema Napoli e la questione meridionale in apertura del volume collettaneo Napoli dopo un secolo (ESI 1961) e riproposto argomenti e soluzioni lanno successivo con la dispensa, dallo stesso titolo, approntata per i suoi studenti di Scienze Politiche, ricordando il monito di Salvemini e saldando, almeno in parte, il suo debito intellettuale. Ed infine, indicando una prospettiva, per la capitale decaduta, di metropoli regionale nel volume da lui curato Campania in trasformazione ( Mondatori, 1968). Aveva preso le mosse dalla considerazione che di Napoli, della citt e dei suoi abitanti, si scritto troppo e troppo poco: troppo delle sue vere o presunte glorie,troppo poco dei suoi effettivi problemi e di coloro che sono responsabili per il fatto che tali problemi, non essendo stati risolti, si sono aggravati. Troppo della capitale; troppo poco della citt.Troppo, infine, dei suoi rapporti con lAfrica e il Mediterraneo; troppo poco dei suoi rapporti con il Mezzogiorno e con la questione meridionale. L incipit poneva, pertanto, ad un tempo una questione morale e una questione politica. La prima riguardava la corrotta incarnazione del municipalismo borbonico, come ai suoi occhi si presentava il laurismo; la seconda riguardava la qualit dei ceti dirigenti napoletani, di certo, aggiungeva, non, come suol dirsi, allattacco dei grandi problemi cittadini e regionali. Riteneva che per affrontare sia la prima che la seconda questione, occorresse sprovincializzare lorizzonte culturale della citt, procedere dalla considerazione che Napoli non pi, sotto nessun aspetto, la capitale del Mezzogiorno, ma soltanto il capoluogo della Campania. Solo se si prende coscienza di tale stato di fatto e si opera di conseguenza, ci sono alcune premesse per la promozione di Napoli da un ruolo parassitario a una funzione dinamica, regionale e nazionale; pu significare cio che vi sono tutte le condizioni per uno sviluppo come citt produttiva, come metropoli regionale e come centro vitale intorno a cui possano annodarsi molteplici relazioni interregionali, con altre regioni del Mezzogiorno e non solo del Mezzogiorno. Si trattava, quindi, di inserire Napoli in un nuovo e diverso rapporto con lo spazio meridionale, bisognava superare il distacco storico con la Campania e le altre regioni del Mezzogiorno. Al tempo stesso si trattava di rimuovere la sua tirannia accentratrice di servizi e di attivit urbane. Si trattava di promuovere un sistema cittadino diffuso, articolato, moderno, poich, sottolineava, sar sempre pi facile e sicura la vita di una citt, quando essa non risulti isolata al centro, o anche ai margini, di un esteso territorio; quando essa appartenga ad un sistema cittadino moderno; quando le attivit di una o pi regioni possano circolare speditamente dalluno allaltro centro, alimentandosi a vicenda. Certo, si trattava di un compito n semplice, n facile, anche perch non scorgeva un milieu, n culturale n civile, per trovare, e magari inventare, nuove funzioni da attribuire alla

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nostra citt. Occorrono ben altre menti, scriveva, di quelle che hanno pensato di alzare i grattacieli sui vicoli. Tuttavia, armato delle sue letture e degli innesti che la cultura urbanistica e geografica pi avanzata gli offriva, nonch, come si accennato, forte dell occasione che il mutato contesto politico gli prospettava, e che guardava alla pianificazione come strumento di modernizzazione e di riforma dellassetto territoriale del paese, guardava, a sua volta, all arcipelago metropolitano e allo spazio regionale, come alla dimensione ottimale per affrontare e risolvere i nodi urbanistici e

occupazionali di Napoli. Proponeva una decompressione delle aree centrali, dei quartieri storici della citt ove da secoli si ammassava un sottoproletariato numeroso e povero. Si trattava quindi, ad un tempo, di attenuarne la congestione demografica e creare nuovi posti di lavoro. La terapia non poteva che riguardare lindustrializzazione, ma una nuova industrializzazione o delocalizzazione di quella pi antica inquinante o senza prospettive, oltre le zone industriali a ridosso della citt, per aprire la citt a quella che, con nuovo linguaggio, Alberto Aquarone indicava come area metropolitana. Una terapia dellindustrializzazioneche riprendeva le indicazioni di cinquant anni prima di Nitti, ma con uno sguardo rivolto non solo alla citt, ma allintero spazio metropolizzato della regione, dal momento che Napoli gli appariva ancora come la citt pi orientale dell Occidente e il Napoletano costituisce, scriveva, una metropolitan area assai pi simile a quella dei paesi sottosviluppati che non a quella dei paesi sviluppati occidentali. Si rendeva conto, ovviamente, della difficolt di dare concretezza al suo disegno modernizzatore, di passare dalla citt introversa alla citt estroversa, indicava un futuro in cui fosse possibile

percorrere, con successo, strade nuove in un contesto territoriale ove, ancora oggi, a distanza di oltre cinquanta anni, il quadro territoriale privo di coordinamento ed aumentato il suo tasso di congestione. Per cui non smise mai di raccomandare di non perdere di vista due punti fermi: unindustrializzazione che fosse non solo cittadina, napoletana, ma che fosse in grado anche di avere riflessi di propagazione in tutto il Mezzogiorno; di connettere inoltre il sistema urbano dellarea metropolitana sempre pi con quello meridionale e con quello nazionale. Ed anche in questo caso, guardando lontano, concludeva il suo saggio su Napoli e la questione meridionale, sottolineando che questi due punti fermi, apertura della citt e industrializzazione, dovessero costituire la terapia da prescriversi per tutti i grandi comuni del Mezzogiorno, e per Napoli in primissimo luogo,..per far si che le citt residenziali e di consumo diventino centri di una produzione quantitativamente e qualitativamente differenziata, come le citt dellItalia settentrionale. Opera e impegno, ribadiva con malcelato pessimismo, di pi di una generazione di capaci amministratori e dirigenti. Per iniziare questo lungo cammino, concludeva, era necessario liquidare gli orpelli della retorica municipalistica e le lusinghe di quella populistica, fondare 22

quelle prospettive napoletane per il Mezzogiorno e quella funzione nazionale per Napoli che purtroppo, allo stato doveroso riconoscerlo mancano del tutto. Napoli dunque metropoli regionale, sgombrando il campo dalla retorica fascista di capitale del Mediterraneo e da quella laurina e neoborbonica di capitale del Mezzogiorno. Al contrario, nella Prefazione al saggio Campania in trasformazione, ribadiva che il potenziamento della funzione metropolitana di Napoli il problema stesso dello sviluppo economico e civile della Campania; e in questo senso lefficacia della terapia dellindustrializzazione risulta in Campania condizionata da quel particolare aspetto della questione meridionale che Gaetano Salvemini chiamava la questione napoletana e che oggi si pone in termini di promozione e di esaltazione dei valori metropolitani della vecchia capitale parassitaria. Intellettuale e politico, nel senso migliore e pi alto del significato, profondamente intriso di cultura storica, liberale e geografo di frontiera, lontano dalle mitologie meridionali, sia dai suoi presunti primati che dallesaltazione della cultura contadina, riconobbe nella citt i valori propri della civilt moderna a cui anche i meridionali avevano il diritto di partecipare. Non fu un cammino facile il suo, non lo fu sul piano del confronto politico e intellettuale, non solo con quanti erano collocati alla sua destra, ma anche con quanti erano collocati alla sua sinistra, non lo fu sul piano accademicodisciplinare con quanti lo accusavano di non avere un completo possesso della geografia. A costoro, a questi accademici aristotelici, incapaci di cogliere la realt al di fuori del loro angusto recinto disciplinare, al loro corifeo pi blasonato, Compagna rispondeva ( La ricerca geografica e i problemi territoriali della politica di sviluppo, in Nord e Sud, n.96/1962) con laffermazione di uno dei maggiori esponenti della scuola di geografia umana francese, Maurice Le Lannou. Il raggruppamento dei fatti che costituiscono la materia della geografia si realizza del tutto naturalmente nel quadro del problema o della questione; e tale problema o tale questione si pongono a proposito di una persona geografica totale, una regione un fiume, una via di comunicazione. Rivendicava, dunque di essere e di essere stato, una persona geografica totale che si era identificata con il Mezzogiorno dItalia, anzitutto il Mezzogiorno dItalia,..perch un impulso di ordine morale e politico mi ha spinto a studiare sistematicamente la nostra questione meridionale.

ITALO TALIA Napoli, giugno 2012

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