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Russia: inverno-inferno 1942/1943

(Memorie di un ventenne sopravvissuto: Sante Mucchietto)


LA GIOVINEZZA - LA PARTENZA PER LA RUSSIA - VERSO IL FRONTE - SUL DON
NATALE DI GUERRA - L'ADDIO AI COMPAGNI - CERKOVO: LA VALLE DELLA MORTE
LA FUGA - ATTRAVERSO LA STEPPA - IL RITORNO - L'8 SETTEMBRE
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1 - La giovinezza
Prima di iniziare i miei 5 anni di guerra necessario risalire al 1935, l'anno che senz'altro
ha contrassegnato il mio destino proponendomi giorni irti, fatti all'ins, giorni di vita tutti in
salita. Frequentavo allora il III anno di ginnasio quando per mancanza di risorse
economiche dovetti abbandonare la scuola e rientrare in famiglia. Mio padre conduceva in
fitto il primo dei 14 mulini della valle e mio nonno fungeva da padrone. A lui era rimasta una
vecchia casa ed il piccolo podere della vigna, lasciatogli dal bisnonno Sante. Ma anche
questa sua propriet, l'anno successivo ebbe ad estinguersi per sanare i debiti. Erano
tempi molto duri e a mezzogiorno e a sera erano contate 13 bocche da sfamare. A
segnalare le ristrettezze economiche, e come ago della bilancia, era l'aringa arrostita dal
sapore di fumo e baciata dalla polenta. Avevo allora 14 anni e non mi rassegnavo a dover
perdere gli studi. Tanto che alcuni mesi dopo ritentai a riprendere la scuola come
privatista. Ma fu tutto inutile. Non c'erano i mezzi e fu allora che il nonno mi volle con s
beniamino, e lui per me fu il gran maestro, soprattutto maestro d'onest. Ultraottantenne, lo
chiamavano il "galantuomo" ed era sulla bocca di tutti; non per niente aveva fatto il
sindaco per diversi anni. Il 1935 era pure l'anno in cui l'Italia era andata a fare la guerra
all'Abissinia e l'anno seguente cantava vittoria e creava l'Impero. Agli occhi del mondo era
diventata grande e pi grande ancora era stata nell'anno 1938 diventando campione del
mondo per merito degli Azzurri di Pozzo.
Erano cose belle e piacevoli a sentirsi alla radio e per gli Italiani l'inizio del benessere. Per
me, invece, la vita non era migliorata, anzi direi, peggiorata. Non c'era nessuna alternativa
di miglioramento. Col nonno dovevo zappare la vigna, col padre dovevo essere sempre
pronto a fare l'asino. Venivo comandato ad andare per i casolari dei contadini sperduti tra
le colline del paese a ritirare il grano e riportare il macinato; sacco sulle spalle su e gi per
scorciatoie e sentieri tortuosi e sconnessi. Ero il secondo dei sette fratelli e forse quello
che sgobbava di pi.
Venne l'anno 1939 a farmi diventare giovane di leva, a farmi capire che potevo cambiare
mestiere e non essere pi di peso alla famiglia e, in certo qual modo, che potevo avvalermi
degli studi conseguiti gli anni prima. Sottoposto alla visita medica di leva e abilitato, non
esitai un istante ad esternare a quelle autorit il desiderio, la mia volont di arruolarmi
volontario. Fui esaudito e fu la mia liberazione. La cosa, non era stata bene accolta in
famiglia e tutti mugugnavano dandomi del matto e credevano ad uno scherzo. Solo dopo
alcuni mesi, vedendo arrivare la cartolina precetto, si resero conto della realt. Ed eccomi a
Vicenza. E' il 10 dicembre 1940. Fu il giorno in cui al Distretto militare lasciai i panni
borghesi per rivestire quelli in grigioverde. Mi fu dato un foglio di via e alla stazione, con
pochi soldi in tasca, salii sul treno con destinazione Bolzano IV Compagnia di Sussistenza.

Sul treno e durante il viaggio non sentivo alcun rimorso, alcun rimpianto per aver lasciato
la famiglia, i compagni di borgata, il paese. Mi sentivo sereno, fiducioso, convinto che avrei
cambiato la vita, che avrei trovato altri compagni, altre cose e che mi sarei trovato tra le
montagne e gente che parlava tedesco. Il colletto della giacca che indossavo era orlato da
un cordoncino dorato per indicare che sarei stato soggetto ad un corso di specializzazione,
quindi militare di carriera. I primi giorni, se pure un po' spaesato, non mi furono pesanti,
non mi fu difficile l'ambientamento con i soldati anziani e con la vita di caserma. Lo studio
di cose nuove mi piaceva ed i primi sei mesi passarono veloci. Grazie all'educazione avuta
a scuola ed ai consigli del nonno, avevo imparato, oltre che ad essere disciplinato e
rispettoso ad essere altruista con tutti. Era l'unico modo per farmi benvolere.
Superato brillantemente il 1 corso, iniziai il secondo e passai ai Magazzini Generali di
C.d'Armata, fuori citt, non tanto lontano dalla caserma. Il corso era teorico-pratico:
dovevo badare ai controlli meteorologici, di stoccaggio e di distribuzione. Al nono mese di
servizio mi furono dati i gradi di Sergente. Non avevo ancora compiuto i 20 anni e fui
avviato a frequentare il corso di logistica alla Scuola della Farnesina di Varna, vicino
Bressanone. Eravamo 21 allievi e ne uscii il solo promosso. Fui avviato al Quartier
Generale alla Sezione di Commissariato militare di Bolzano. I miei superiori erano allora il
Maggiore Margoglio ed il Maresciallo Piliteri. In un anno avevo bruciato tutte le tappe. Mi
pareva di essere diventato importante, quasi quanto un generale, godevo di libert di
servizio, di un speciale trattamento e rispetto, ma non mi sono mai montato la testa ....
2 - La partenza per la Russia
Ho l'ordine di presentarmi presso la Sezione di Commissariato Militare, dove il Colonnello
Pini, come un buon padre, mi comunica, mettendomi le mani sulle spalle, che la Patria ha
bisogno di me. Devo quindi essere trasferito, aggregato ad un reparto misto presso il 232
Reg.to di Fanteria dislocato presso Laives, e in seguito, dopo qualche giorno di
preparazione, essere inviato a raggiungere il Corpo di Spedizione Italiano in Russia
(C.S.I.R.). Sono assegnato alla 3^ Compagnia e faccio conoscenza con i nuovi compagni di
vario grado, in parte giovani ed in parte pi vecchi di me perch richiamati. Nei loro volti
non c' aria di allegria ma solo confuso disagio; l'attesa della partenza viene colmata da
lunghe marce giornaliere ed estenuanti esercitazioni.
Lo slogan ricorrente, infatti, ci vuole pronti, forti, coraggiosi, veri soldati.... Giovane
com'ero, impegnato ad eseguire e a far rispettare gli ordini, predisposto ad un facile
adattamento, non mi soffermavo certo a tante riflessioni; organizzai comunque una
protesta quando, dopo la pesante fatica delle marce, ai soldati della Compagnia, affamati,
in fila per il misero rancio, veniva distribuito solamente brodaglia con un po' di pasta e
pane ammuffito. E questo non aiutava certo a sollevare il morale... Finalmente ci viene
comunicata la partenza e, il 24 maggio, l'ordine di sfilare, con zaino in spalla, sotto il naso
delle alte autorit, per far vedere l'efficienza e ricevere il loro plauso e il loro saluto.
Qualche giorno dopo si sarebbe ripetuto il copione, con l'accompagnamento delle note
della fanfara, si sarebbe sfilato attraverso la citt e i sobborghi della periferia fino alla
stazioncina di Bronzolo, centro parco ferroviario di smistamento della citt di Bolzano. Su
un binario ci attendono una decina di carri merci ed una carrozza passeggeri che sar
riservata naturalmente al Comandante ed ai suoi Ufficiali. Nell'attesa della partenza,
qualcuno scrive le ultime cartoline, qualcun altro l'ultima lettera. Io sono assillato dal

pensiero del futuro e mi chiedo "come sar l'arrivo a quell'immensa pianura della lontana
Russia?". Con il calar della sera un trombettiere ci chiama all'adunanza e si ha l'ordine di
prendere posto. La sistemazione nei vagoni chiusi coincide con l'addio alla branda:
accovacciati, raggomitolati, si passa la notte a tu per tu senza la possibilit di guardarci in
faccia, fra il rumore di altri convogli che vanno e vengono fino al sorgere del giorno
quando, una locomotiva, con un grande scossone, viene a prendersi la merce umana. Sullo
spiazzo antistante la stazione c' il nostro comandante ed segnale che la partenza
imminente. Si sentono i martelli sferragliare sulle ruote mentre gli agenti controllano ogni
carro con il suo carico. L'attesa si fa spasmodica, snervante; ma ecco il capoccia con il
suo rosso berretto, ancora qualche minuto di silenzio, e il suo fischietto segnala che si
parte ... Il treno lungo, sono due locomotori a trascinarlo in una corsa non tanto veloce
anche perch la strada sempre a salire sino al Passo del Brennero.
Cos ha inizio l'odissea di un viaggio che sembrer non finire mai. Saranno 31 giorni
ininterrotti fatti di soste pi o meno prolungate, attese, scambi di precedenza per altri
convogli, corse al rilento, e noi l, con gli occhi rossi, gonfi, avidi di vedere, scrutare
paesaggi insoliti, nuovi, pianure distese, casolari sperduti nell'ondulazione dei prati, e
macchie d'alberi nelle vastit dei boschi. Spasimante sar pure la sinfonia del trantran del
treno che toglie il senso della realt e costringe ad una sonnolenza irrequieta confondendo
i ricordi con i sogni.... I giorni passano lenti, unico mio diversivo quello di consultare di
tanto in tanto il carteggio topografico per curare l'orientamento ed analizzare la situazione.
Arriveremo a Varsavia dove i segni della guerra sono evidenti: edifici sbriciolati, ponti
divelti, rottami di ogni genere testimoniano che c' stata battaglia e pi si andr verso nord
pi apparir l'orrore della distruzione. Nessuno venne a dirci che eravamo arrivati alle
retrovie del fronte Nord dove con maggior intensit infuriavano i combattimenti e dove
tutto era movimento di truppa, di blindati, di automezzi. Si vedevano pure squadre di
operaie, le donne del posto, mobilitate, militarizzate dal Reich, obbligate all'abbandono
delle loro case, all'abbandono dei figli, allontanate dai loro villaggi perch abili, e quindi
utili al ripristino delle strade, soprattutto quelle della rete ferroviaria.
Tutto e tutti dovevano contribuire al raggiungimento della vittoria. Era questo il motto, lo
slogan. Noi eravamo ancora abbastanza lontani dalle linee del fronte. Eravamo arrivati a
Brest. Non c'erano che vecchi e bambini spauriti e diventava consueto vedere donne
contrassegnate con la stella di David: erano destinate al lavoro forzato, sorvegliate dalle
S.S. Il loro calvario era segnato: erano condannate all'esaurimento fisico col lavoro; poi
quando le forze non le avrebbero pi rette, erano avviate ai lager della morte. Neppure
prigionieri si erano visti, e s che al sentire ne avevano fatti tanti, nella sacca di Minsk, al
nord della Bielorussia. L'impressione che si provava era tremenda, crudele ed in qualcuno
di noi incominciava a svanire la speranza di un ritorno. A consolarci, cos per dire, erano i
bollettini delle avanzate al sud, verso il Caucaso, delle colonne corazzate. Lo spirito dei
soldati tedeschi era alto e per loro la vittoria era vicina. Ma gli altri bollettini che
provenivano dall'Africa non erano altosonanti e per noi soldati italiani erano di tutt'altro
umore. Grande era cos in ognuno di noi la confusione e lo sconcerto, tant' che qualcuno
provava a canterellare ironicamente la canzone "Illusione dolce chimera sei tu." Sembrava
un paradosso; una prova si ebbe il giorno dopo quando ci fu cambiata la rotta e fummo
avviati al sud verso Kiev.

3 - Verso il fronte
La notte l'avevamo passata alla zona periferica di Brest; all'alba eravamo gi in movimento.
Il paesaggio era in parte offuscato dalla foschia e la visione dell'immensa pianura, del
terreno paludoso in ebollizione era grigia, misera, bruciacchiata. Il treno correva
lentamente, parallelamente al grande fiume, il corso del Dniepr e ci vollero ben quattro
giorni per superare la distanza dei 1200 km. tra Brest e Kiev. Le soste erano diminuite ed
avvenivano solo per il rifornimento di acqua e carbone alle locomotive. Infuriavano intanto
le battaglie per la conquista del bacino del Donetz e all'inseguimento delle truppe russe
che si erano sganciate e correvano ad assestarsi al Don. L'euforia dei Tedeschi per la
strepitosa vittoria di Kharkov non si era ancora spenta, era fortemente sentita per
l'annientamento delle armate sovietiche in quella sacca.
Avevano fatto 240.000 prigionieri. Il loro morale era alle stelle e facevano sfoggio del loro
credo e delle loro doti di superuomini invincibili. Lungo tutto l'arco del nostro
trasferimento, i segni della guerra divennero sempre pi evidenti e pi marcati
all'avvicinarsi a Kiev, la capitale dell'Ucraina. Lungo la ferrovia il terreno era divelto,
cosparso di buche profonde; in vicinanza alla citt si vedevano i caseggiati bruciacchiati,
distrutti. Era venuta la sera a cancellare col sopraggiungere dell'oscurit quello scenario di
desolazione, fatto di sagome astratte e di penombre ed era arrivata anche la pioggia a farci
sentire gli acri odori del fumo. Il passaggio della guerra in quella zona era stato violento,
quasi fulmineo. Lo si sentiva non troppo lontano perch durante le poche ore di sosta,
erano le pattuglie a sorvegliare, a trafficare nel dare ordini di partenza o a convogliare treni,
dirottarne altri, lanciare imperiosi comandi e rompere cos il lugubre silenzio. Ricordo che
non potevamo scendere dal nostro vagone e nulla potevamo vedere. Ogni cosa ci era
preclusa e cos avevamo perso la cognizione del tempo.
Il nostro interminabile viaggio ci port finalmente a Dnepropetrovsk, una grande citt che
non appariva tanto sconvolta, ma spenta, svuotata in parte dalla sua gente che se ne era
andata per non sottostare agli ordini dei Tedeschi. Dnepropetrovsk era un centro terminale,
sede di comando tappa, con parecchi quartieri adibiti a sedi dei vari comandi, e l
brulicavano come formiche i soldati dalle uniformi multicolori, di vari paesi: Tedeschi,
Ungheresi, Rumeni. I Tedeschi erano i padroni, a loro spettava la precedenza. Gli
Ungheresi con i loro cavalli trascinavano carrette, i loro carriaggi per il trasporto di
vettovaglie, e cos pure i Rumeni: dovevano seguire le guarnigioni che si erano impegnate
e battute per la conquista del bacino carbonifero, il Donetz.
Degli Italiani nessuna comparsa; solo un maggiore, alcuni sottufficiali e alcuni soldati
acquartierati in uno stanzone, un vecchio magazzino, davano istruzioni per
l'avvicendamento e le modalit per raggiungere il proprio reparto. Mi ci vollero ancora due
giorni per raggiungere la sede, sempre provvisoria dell'11 Compagnia di Sussistenza,
facente parte della Divisione Pasubio. Mi sembrava di essermi disperso in un mondo di
sogni . . . Ebbi comunque modo di rendermi conto della reale situazione e di assistere allo
smistamento di truppe, al passaggio di colonne motorizzate, camion colmi, stipati di
soldati, seguiti da autoblinda e da carri blindati, armati d'ogni genere, e tutti alla rincorsa
delle avanguardie che inseguivano i Russi in ritirata. A segnare le piste erano i canali di
fanghiglia e pozzanghere che si creavano con la persistenza delle piogge e della forte
umidit. Le ruote dei mezzi sprofondavano con facilit in quella rossa polenta, e pi di uno

rimaneva intrappolato, inchiodato fino a quando qualcun altro non fosse stato pronto a
dare una mano . . . Finalmente mi venne comunicato che dovevo aggregarmi ad una
colonna di una decina di automezzi, giusto appunto quella della undicesima Compagnia
Sussistenza che era venuta a fare in Dnepropetrovsk il carico di viveri.
Era il 12 luglio del 1942. La partenza avvenne con l'oscurit onde evitare possibili attacchi
aerei nemici; la visione all'intorno era quasi nulla e solo la flebile penombra delle mezze
luci ci permetteva di individuare la pista fangosa che ci portava a Stalino, capoluogo del
bacino carbonifero del Donetz, la regione che alcune settimane prima era stata felicemente
conquistata in un solo sbalzo in concomitanza con la battaglia per Kharkov. Dovevamo
attraversare piccoli e tortuosi saliscendi, eravamo sempre in tensione e avevamo grande
paura. Con continui sobbalzi e strattoni, ci lasciavamo alle spalle chilometri e chilometri
senza incontrare anima viva. Cos era passata la notte fino al sorgere dell'alba, quando
vinti dalla stanchezza e per la necessit di raffreddare i motori, si dovette fare sosta a
ridosso di alcune isbe di un villaggio. Spiccava fra queste il kolkos, una costruzione tipica,
fatta di mattoni il cui impasto alla luce risultava fatto con terra, paglia e sterco bovino, il
tutto ricoperto di bianca calce.
La sosta non fu lunga e si riprese a viaggiare con i favori del vento che in quella zona la
faceva da padrone e man mano che si andava avanti cambiava la morfologia del terreno: se
prima erano le pozzanghere a segnalare la pista, ora era la terra battuta da cui si sollevava
la scia di neri polveroni. Avevamo fatto una cinquantina di km e non ci pareva vero di
essere giunti nelle vicinanze di Stalino. A segnalarcelo furono le dune, i dossi, i cumuli di
carbone, i comignoli delle miniere disseminate lungo l'arco della periferia. Il paesaggio era
nero, tetro, senza vita, perch nulla si muoveva; tutto era lasciato all'abbandono.
Provvisori cartelli segnalavano la direzione delle varie localit ed altri cartelli con segni
convenzionali indicavano i vari corpi di appartenenza. Non fu difficile per noi trovare e
prendere la via per Rikovo.
Cos eccoci a percorrere una strada battuta, ghiaiosa, a cavallo di nude e sterili colline che
costituivano la regione del Dombass. Di tanto in tanto venivamo superati da mezzi
motorizzati: portaordini, ambulanze portaferiti. Si incontravano pure gruppi di soldati
intenti ad operare, controllare, stendere o sostituire linee telefoniche; di gente, di civili,
nessuna traccia, nessun segno. Apparve Rikovo in fondo all'orizzonte, all'est, un
agglomerato sempre pi grande, in evidenza. La si raggiunse in pieno giorno, quando il
sole picchiava forte e la sonnolenza ci investiva, ma si doveva stare sempre all'erta a
guardare all'ins che il cielo fosse libero, pulito, sgombro da quei puntini neri, o meglio da
quelle virgole che erano gli "apparecchi" sempre pronti e fulminei a piombarci sopra. Fra
una casa e l'altra si notavano costruzioni massicce dove fra i rossi mattoni spiccavano le
allegoriche effigi della stella rossa con falce e martello. Quelle erano le fabbriche Kolkos
dove alcuni mesi prima si lavorava ed ora erano l, macchiate, coi segni della distruzione
per il passaggio della guerra e tutto sembrava fermo, senza vita. Attorno c'erano
disordinati agglomerati di case basse, d'isbe costruite in parte con assiti di legno e altre
con terra e paglia imbiancate secondo l'usanza locale; Rikovo era una cittadina abbastanza
importante, distesa e disseminata lungo la rotabile che porta a Novo Gorlowka e
Voroshilovgrad. Avevamo scelto una radura e fra alcune isbe, una fattispecie di baracche, i
camion della colonna si erano sparpagliati come al gioco del nascondersi per prevenire
cos i possibili attacchi aerei. Tranne alcuni soldati posti a fare da sentinella, quasi tutti

riposarono; io avevo preso lo zaino ed ero andato ad accovacciarmi poco lontano ai piedi
di una parete ed all'ombra di cespugliosi prugnoli. Avevo sonnecchiato, ma pi che un
sonno era stato un dormiveglia, perch ero assillato dalla morbosa necessit di conoscere
il termine effettivo di quel continuo spostamento.
Mi sentivo abulico, avvertivo dentro di me un certo disagio; l'esuberanza dei miei vent'anni
era prigioniera, contenuta, ostacolata anche dalla mancanza di contatto con la gente.
Venne sera inoltrata e di conseguenza si ripart. Fu ancora lo stridore, il rumoreggiare dei
motori ad accompagnarci nella notte. Una sorda monotonia ne rompeva il silenzio e solo la
passionaria luce della luna ci era di buon auspicio: il suo apparire fra le nuvole mi aveva
invogliato a riattaccare discorso e a chiedere: "ma insomma dove sono questi Russi?" I
primi albori del giorno successivo ci vide a Voroshilovgrad. La zona era spaccata in due
dalla camionabile; i rioni parevano dispersi e le isbe adagiate su dolci pendii collinari. La
strada era trafficata, i palazzacci al suo ridosso erano sede centrale dei vari organi del
regime e negli spiazzi antistanti, degli scuri edifici erano adibiti a scuole o enti culturali. Fu
in uno di questi che si era provvisoriamente acquartierata l'Undicesima Compagnia di
Sussistenza e qui ebbe a finire il mio lungo viaggio di avvicendamento. In quei primi giorni
di permanenza, avevo avuto sentore di come era stata occupata la citt e di come erano
stati accolti i soldati italiani, ci malgrado la gente efficiente era scomparsa; la maggior
parte era fuggita all'occupazione, il restante era stata retata dai servizi ausiliari tedeschi.
Avevo preso una specie di viottolo che portava alla parte alta della collina, dove si
innalzava un raggruppamento di isbe e case basse. Erano costruite con assiti ed in parte
con tronchi d'albero, racchiuse da uno steccato che ne impediva la vista. Formavano un
semicerchio con al centro il portone tipico orientale di tipo cosacco come quelli che si
erano visti nel film di Taras Bulba. Una porticina al centro ne permetteva l'accesso ed io
avvicinandomi mi ero sporto a spiare. Ne rimasi sorpreso, soprattutto per la scena
rappresentata da un gruppo di quattro ragazze sedute su un lungo pancone, le quali
vedendomi erano quasi esplose di gioia. Una di esse mi era venuta incontro e prendendomi
per mano, sussurrando "mosna..." mi invitava a sedere fra le altre. Rimasi molto
imbarazzato fra l'allegro parlottare e da quella festosa accoglienza.
Quello fu il mio primo incontro con la gente. Bello, interessante, bellissimo per i miei
vent'anni. Lubda era il nome di quella ragazza. Ci ritornai giorno dopo giorno, sera dopo
sera. Fra me e lei si era instaurato un rapporto di affettuosa amicizia che serv a
dimenticare tutti i disagi di quell'interminabile viaggio che fino a qualche giorno prima
sembrava non finisse mai. E cos era scomparso il pensiero della guerra, quella guerra che
io dovevo servire, e che ormai ci lambiva perch vicina a pochi Km.... Nei pressi del nostro
accampamento, la nostra base, ho ancora viva la visione delle persone dallo sguardo
patito, non certo felice, con al seguito bambini piagnucolanti e sbrindellati. Erano i Russi, i
rimasti del posto che come accattoni, gesticolando, imploravano col porgere la mano, il
pizzico di Maquorka, il tabacco, durante il giorno della distribuzione delle sigarette.
Ognuno di noi aveva diritto alla razione giornaliera . Era cosa normale per me non fumatore
che ne facessi dono ai compagni e a Lubda, la mia amata e maestra di lingua russa. Ma
dov'erano le sue amiche e perch era sempre sola? Alla mia domanda, Lubda and a
prendersi un variopinto fazzolettone, una specie di foulard, se lo mise in testa facendosi
l'annodo alla nuca. In verit non sembrava pi lei, ma una ragazzina, una zingarella, per
non dire, una mocciosa. Quello era il trucco per non essere retata dai poliziotti tedeschi e

lo stesso trucco valeva per le sue amiche. Degli Italiani non aveva paura ma dei Tedeschi
s. Era rimasta a salvaguardare la casa con il nonno che di giorno era sempre alla ricerca di
cibo per mangiare. La mamma, ancor giovane era dovuta scappare al di l del Don, al
Volga, alla steppa dei Calmucchi, per non essere presa e deportata al servizio dei nemici.
"Questa guerra non bella n per me n per te", mi disse Lubda, guardandomi fisso negli
occhi. Quelle parole bastarono a farmi comprendere il suo dramma, il disagio e le bestialit
alle quali doveva sottostare o viceversa fuggire. Le sigarette che le donavo potevano
servire al nonno per il baratto, per avere il pane, il sale o il miglio.
Arriv l'ordine di partire per una missione di rifornimento viveri. Ci vollero un paio d'orette
per predisporre gli automezzi e formare la colonna: partimmo con destinazione
Dnepropetrovsk. Erano giorni di calura. Le voci di Radioscarpa dicevano che i reparti
combattenti della Pasubio avevano raggiunto il corso del fiume Don, quindi erano
impegnati in un lavoro di riorganizzazione e d'assestamento. Anche il cielo si manteneva
pulito: faceva caldo afoso di giorno, un po' meno di notte. Due giorni impiegammo per
l'andata ed altrettanti per il ritorno. Nelle pause giornaliere era necessario spogliarsi,
mettersi a torso nudo per vincere il caldo, ma soprattutto per spidocchiarsi. In tutta la zona,
dal Dniepo al Volga, fra la popolazione era persistente un'epidemia pidocchiale. Per
evitarne il contagio, si doveva stare lontani dalla gente. Ma chi era senza pidocchi? Tutti ce
li avevamo addosso. Era diventata cosa divertente lo sfotterci quando qualcuno, alla prima
pozzanghera, al primo acquitrino, si gettava dentro, si lavava e strizzava i panni. Ma la cosa
pi curiosa, ridicola, attraversando i villaggi, era la visione di come quelle "babuske"
davano la caccia ai pidocchi. Le vedevi accovacciate sulla soglia di casa o sulle panche al
sole, con le gambe divaricate e le ginocchia a mo' di morsa stringere teste d'altre donne o
testoline di bambini e raschiarle con lunghi pettini rozzi di legno, da sembrare zelanti
tessitrici. Era cosa veramente penosa, ma anche questo faceva parte di questa sporca
guerra.
4 - Presso il Don
I giorni a Olkovirok non passarono tanto bene: la vita si trascinava stanca e apatica.
Ognuno di noi aveva un compito diverso ma non c'era movimento: qualcuno si spogliava e
cacciava i pidocchi, qualcun altro si metteva ad arrostire al sole. I giorni passarono cos
fino a quando, un mattino di fine agosto, con l'arrivo di una dozzina di automezzi
proveniente da Millerovo, giunse l'ordine di evacuare la Sezione e di trasferirci a ridosso
del fronte. Lo sapevamo: accettammo il fatto come liberazione bench in fondo al cuore, in
ognuno di noi, si temesse l'incognita del domani. Due soli automezzi bastarono per il
carico di tutto l'equipaggiamento. Alcuni soldati avevano avuto il compito di andare a
Voroshilovgrad per il rifornimento di viveri e a me tocc l'ordine di portarli fuori dalla
steppa, guidarli verso il fiume. Avevo fatto tutto il possibile per anticipare l'oscurit durante
il passaggio del ponte. Avevo predisposto che in quel punto gli automezzi si tenessero a
distanza il pi possibile pur accelerando la marcia. Avevamo superato l'ostacolo ma, in un
baleno, due aerei da caccia presero di mira l'ultimo mezzo della colonna ed in un paio di
tornate lo fecero fuori con tutto il carico. Erano intervenute le batterie contraeree, ma non
fecero un granch. Noi ci eravamo sparpagliati, pancia a terra, e pregavamo il buon Dio che
ci scampasse dal pericolo. Si ebbe modo di ripartire con un'unit in meno, frastornati, con
ancora il fischio delle pallottole e gli scoppi nella testa e le vampate delle mitragliatrici
stampate negli occhi. La cosa migliore era non pensarci, affidarsi al coraggio ed alla buona

sorte.
Passammo la notte superando Olkovirok e, con marcia spedita, si arriv a Millerovo.
Avevamo percorso pi di 300 Km; Millerovo era un grosso centro di comunicazione
stradale, una citt cresciuta dove finiva la pianura, la steppa, ai piedi di una zona collinare,
oltre la quale, in un raggio di 200-300 km., correva la grande ansa del Don. Il corso del
fiume rappresentava la linea del fronte. La conformazione delle colline era simile a quelle
della nostra Toscana, liscia, brulla, con assenza di vegetazione arborea e quasi priva di
quella boschiva. La terra era rossiccia, come bruciata. Avevo fatto fermare la colonna per
far prendere fiato agli autisti e renderci conto della situazione. Sapevo che in Millerovo
aveva preso sede il quartier generale della Celere. Al grande incrocio stradale, al nord della
citt, ne avevo scorto il casco piumato. I Russi avevano battezzato i bersaglieri "soldat
kurke", soldati gallina, del resto quelli della Torino, col simbolo del toro, erano chiamati
"Division Corova" e quelli della Pasubio con il simbolo della lupa erano la "Division
Sabaca". Formavano le componenti del Corpo di spedizione italiano (SIR) attestatesi sul
Don per una lunghezza di fronte di 60 km. . . . L'insieme delle altre divisioni come la
Cosseria, la Sforzesca, la Ravenna ed il Corpo d'Armata Alpino formava L'ARMIR. C'era
grande movimento di truppa quel giorno; un grande afflusso era diretto sullo stradone al
sud-est che portava a Stalingrado, dove i Tedeschi con i Rumeni e gli Ungheresi erano
impegnati alla conquista del basso Don ed alla zona del Volga, con l'accerchiamento di
Stalingrado. A quell'incrocio c'era una selva di cartelli tedeschi, rumeni, ungheresi ed
italiani. La strada che portava alla localit di Ver Cruscelin, al oltre 200 km. da Millerovo, si
dipartiva con un lunghissimo rettilineo in terra battuta e costeggiava il digradare delle
colline da una parte ed il canneto acquitrinoso della steppa dall'altra.
Fu su questo tratto che incontrammo una lunga fila di prigionieri sotto scorta dei soldati
tedeschi. Li aizzavano a camminare e non concedevano grazia a quelli che, stanchi e sfiniti,
davano segni di non farcela e si accasciavano al suolo. Un colpo alla nuca era la loro
liberazione ed era segno vistoso della crudelt dei Tedeschi che indifferenti li lasciavano
insepolti. L'impressione nostra era tremenda, diventava atroce; non per niente da tempo
non correva buon sangue tra Italiani e Tedeschi e perduravano le divergenze fra le alte
sfere di comando. Quei prigionieri venivano dal fronte, dal campo di battaglia. Gli ultimi
giorni del mese d'agosto erano caratterizzati da violenti combattimenti. I Russi avevano
posto strategicamente fine alla ritirata ed il loro scopo era di contattarci, di assaggiare le
nostre difese che al di qua del Don miravano a consolidarsi in vista anche della stagione
invernale. Anche il paesaggio cambiava, man mano che ci si avvicinava al fiume la terra si
rinverdiva, perdeva quel suo colore bruciato e qua e l si vedevano cespugli di rovi ad
intervallarsi con tratti pianeggianti e dossi di collina. Fu verso sera che arrivammo a Ver
Cruscelin. La localit era rappresentata da poche case, isbe sparpagliate, disperse fra loro
in un terreno collinoso dove la pastorizia primeggiava. L'agricoltura non era ancora sentita.
La gente era originaria cosacca. I vecchi barbuti dimostravano una loro particolare
fierezza: con lo sguardo severo, non erano inclini a dialogare; cos pure le "babuske" che
non amavano farsi vedere e soprattutto badavano che le ragazze non avessero alcun
contatto con noi e tutti, dai vecchi ai bambini, calzavano stivaloni tipici di pelle e berrettoni
baschi di lana grezza. A Ver Cruscelin i giorni furono vissuti nella tranquillit. Le notizie che
arrivavano dal fronte erano scarse: si trattava di moderate attivit di pattuglie. La grande
massa d'acqua del fiume Don divideva gli opposti schieramenti e serviva a far tacere i

cannoni da una parte e le catiusce dall'altra . . .


5 - La mia isba
Raggiungemmo una localit prestabilita, a soli 7 km dalla linea del fronte. Era una borgata,
per cos dire, d'isbe, che davano inizio ad un esteso avvallamento, dove un fiumiciattolo,
con le sue acque, era di mezzo a disegnare un puzzle di stagni nei quali si specchiavano gli
sterpi insecchiti del canneto. Incaricato dei servizi logistici, scelsi la parte alta della zona,
da dove la vista poteva dominare tutta la valle. Tutte le isbe erano disabitate; la gente infatti
era fuggita o riparava in altre localit in quanto la zona, essendo a ridosso del fronte, ne
era strategicamente interessata. Avevo scelto per me l'abitazione di una "zinca", una
signora che per l'et assomigliava molto a mia madre. Viveva e tirava a campare, assistita
dalla figlia di qualche anno pi vecchia di me. Si chiamava Fiegna: era una ragazza di
poche parole, una vera cosacca, scaltra, che andava e veniva e non si sapeva cosa
facesse. Mi vedeva rientrare la sera e andarmene di mattino. Ci tenevo molto a conversare
con la giovane, a rendermi utile col portare qualche cosa da mangiare e cercavo il pi
possibile di non essere invadente. Ogni qual volta la donna mi vedeva, bestemmiava alla
guerra ed era sempre a dire: "ma perch, cos giovane, ti hanno mandato a fare la guerra,
questa guerra..." Lo spazio che occupavo in quella casa era un paio di metri, la lettiera.
Consisteva in un rialzo nel retro del camino che, come usanza locale, figurava al centro
della casa e consentiva di scaldarci al tiepido calore proveniente dal focolare e da quella
specie di forno al di sotto della lettiera. Una stuoia di molti colori serviva da materasso sul
quale si dormiva vestiti. Il fuoco era poca cosa. Era alimentato da pani di torba, rozzi,
semplici manufatti di risorsa locale che indicavano tutta la povert del posto. Nonostante
tutto, era funzionale e bastava per sopravvivere. Infatti i giorni grigi, ventosi avevano gi
cominciato a far sentire il freddo gelido di provenienza siberiana.
A dicembre la situazione climatica era gi molto difficile: il freddo ci costringeva a tapparci
fra le fragili pareti di paglia e di fango di terra e i soldati al fronte erano tappati nei bunker
sotto terra come talpe. Ero a conoscenza che i reparti in linea, nei mesi d'ottobre e
novembre avevano lavorato sodo nel costituire tre capisaldi di difesa ed erano battezzati
cifratamente con le ultime lettere dell'alfabeto. Il caposaldo Z era il pi avanzato, collegato
agli altri, non meno importanti. Lo spirito che correva in tutti era d'ottimismo ed
appartenere alla Pasubio era un orgoglio. Il valore di questa Divisione era conosciuto
attraverso i bollettini di guerra sia italiani che tedeschi. I giorni si alternavano con il
nevischio e con il vento della Siberia che a fasi alterne spazzava la nuvolaglia ed il
pulviscolo terroso ghiacciato della terra veniva schiaffeggiato in faccia, come tanti aghi
pungenti, che ferivano nella carne viva . . .
6 - Natale di guerra
I giorni trascorrevano veloci ed io gi contavo il mio terzo Natale di guerra. Il freddo si
faceva sempre pi forte e la temperatura sempre pi rigida. Dal fronte non trapelavano
notizie, il silenzio faceva presagire che qualcosa stava per accadere. Anche l'attivit aerea
si era fatta pi intensa, specialmente lungo la strada Bougusha-Millerovo. Al nord, sul
settore delle Divisioni Cosseria e Sforzesca, gi nel mese di settembre ed ottobre, i Russi
erano riusciti a crearsi una testa di ponte di l dal fiume e strenui combattimenti non
valsero a ricacciarli. Quella testa di ponte ed il fiume ghiacciato avevano loro giovato

moltissimo per ammassare ingenti forze in uomini e mezzi corazzati.


Con il giorno di Natale era iniziato un continuo, infernale martellamento d'artiglieria su tutto
l'arco del fronte tenuto dalla nostra 8 Armata, su quello tenuto dai Rumeni e sul fronte
della sesta Armata dei Tedeschi che tentavano di occupare Stalingrado. I nostri reparti
rispondevano al fuoco come potevano, ma la breccia era gi fatta, cos come al sud, sul
settore di Stalingrado. Il comando russo stava completando il movimento a tenaglia e per
noi Italiani, la sorte era ormai segnata. L'alba del giorno 26 sorgeva con gli echi del
frastuono delle cannonate e degli scoppi delle granate e col passare delle ore, il
rumoreggiare si faceva sempre pi distinto, sempre pi vicino . Noi, preoccupati
guardavamo le colline che cintavano l'avvallamento dietro le quali scorrevano le acque
ghiacciate del Don, e dove di tanto in tanto apparivano bagliori di fuoco, seguiti da nuvole
di fumo. La battaglia era in corso.
Verso l'una, un portaordini ci veniva a comunicare l'ordine di evacuare la zona, distruggere
tutto quello che non era possibile portarci addietro, e raggiungere il Quartier Generale.
Eravamo accerchiati! Gi dalla strada, in lontananza, si vedevano movimenti di soldati
appiedati, a piccoli gruppi e colpi d'artiglieria li seguivano e li disperdevano. Noi intanto ci
eravamo adunati: tutti i documenti e la contabilit della Sezione stavano scoppiettando nel
fuoco perch l'ordine era di bruciare qualsiasi cosa potesse essere utile al nemico. Solo il
libro protocollare mi ero infilato nello zaino assieme a quattro scatolette ed al quadrello di
pane nero che mi doveva sfamare per i dieci giorni a seguire e che, poco prima, ero corso a
prendermi a casa di Fiegna. Lei e sua madre erano gi fuggite e a loro avevo lasciato parte
del mio vestiario, anche per alleggerirmi del peso. Intanto cominciavano a cadere le
bombe: l'isba che quaranta giorni prima avevo adibito a sede era in fiamme; non c'era
tempo da perdere e dietro ordine del Tenete Rocchi, raggiungemmo la strada che gi
brulicava di soldati sbandati; ci fu molto faticoso fare quel tratto in salita perch pareva ci
avessero tagliato le gambe. Eravamo un gruppo di quindici unit; ci tenevamo in contatto
chiamandoci per nome, in quanto si doveva stare sparpagliati per non fare da bersaglio.
Eravamo mischiati ad altri soldati e non c'era tempo di guardarci in faccia. Alcuni avevano
iniziato a camminare gi dalle prime ore della notte, qualcun altro s'era messo in cammino
di mattino.
Tutti avevamo addosso il silenzio della disperazione. Qualcuno imprecava, bestemmiava
contro la sorte ed i Comandanti e per la mancanza degli automezzi. I nostri due in
dotazione, che avevamo lasciato il giorno prima, erano adibiti, sembra, al trasporto dei
feriti. Eravamo quindi tutti appiedati e grande era la confusione. C'era gente stanca, sfinita,
che stentava a tenere il passo e noi a rincuorarli, dicendo loro: "Dai, ce la faremo".
Eravamo in marcia gi da un paio d'ore e la strada era in salita. Il Vendrame, Il Carletto, lo
Zanni, il Rombaudi, dietro a me, ogni tanto mi chiamavano ed io, voltandomi a cercarli con
lo sguardo, non potevo evitare di vedere lo spaventoso scenario di disgregazione, di
disordine. La strada era diventata come un biscione d'esseri umani sospinti a fuggire agli
orrori della guerra. E non mancavano i caccia a seminare maggior scompiglio ed ancora
morte e disperazione. Era terribile dover sottostare indifesi ai mitragliamenti feroci,
assassini, vedere quei caccia abbassarsi e passare sopra a volo radente.
Non rimaneva altro che chiudere gli occhi, tappare gli orecchi e considerarsi gi all'altro
mondo. Io che ho vissuto quei momenti, non li posso certo dimenticare. Eravamo

sull'imbrunire di una sera grigia e la nostra marcia non poteva arrestarsi: mancavano una
decina di km. per raggiungere il Quartier Generale. Intanto il buio era calato e ci
proteggeva, ci salvava. Faceva freddo, ma non si sentiva, non si sentiva neppure la fame,
solo il bisogno, il coraggio di andare avanti e di restare ammutoliti. Al nord c'erano quelli di
Kantarmirowoka e pi in gi, ma pi vicino, quelli di Cerkovo. Tra i bagliori ed i fumi, si
sentivano sinistramente gli scoppi dei barattoli e gli odori delle conserve; poi ancora si
vedeva il lampeggiare delle pallottole traccianti dei carri blindati, strategicamente
appostati. Erano visioni d'angoscia, di terrore e quel che peggio, era il sapersi accerchiati
e non avere scampo. Era quasi notte quando raggiungemmo la zona, il punto d'incontro.
Era un'altura molto estesa, coperta dal brulicare di reparti vari, gruppetti d'uomini
frammisti in un ammasso fra slitte stracariche di zaini e d'esseri umani, morti nello spirito,
sfiduciati, con pochissimi mezzi di trasporto. Generali, Colonnelli, Maggiori ed altri ufficiali:
eravamo diventati tutti uguali. Migliaia erano i soldati e non c'era pi baldanza in alcuno:
tutti erano costretti a tacere, a meditare una rassegnazione ingloriosa, immeritata; tanti,
tantissimi erano quelli che avevano perso tutto e vagavano con i soli pastrani stracciati a
ripararsi dal nevischio e dal vento gelido, pungente, tenendosi stretti, ammucchiati. Altri
soldati invece si stavano cercando spauriti, disperati . . .
7 - L'addio ai compagni
Fu un vero miracolo incontrarmi col Pierantoni, il caro amico di sempre. Ero seguito dal
Vendrame, mentre gli altri facevano gruppo appartato col Tenente Rocchi. Eravano noi tre a
discutere sul da farsi e fu cosa unanime lo stesso pensiero: tentare di svincolarsi, non
arrendersi prigionieri. Tanto ormai la sorte era segnata e valeva la pena giocarsi la vita. Il
Vendrame era un esperto conoscitore di macchine, di automezzi e poteva fungere da
autista; il Piera era un buon conoscitore di quadrupedi ed io, meglio ancora, potevo
districarmi col linguaggio, dialogare con la gente. L'accordo fra noi fu unamime, completo:
ci recammo dal Superiore ad avanzare le nostre proposte e ci fu dato il permesso di
andarcene. Ci fu l'abbraccio, ed a torto, il nostro voltafaccia inconsueto, crudele, verso
tutti, compagni e superiori; un voltafaccia vergognoso, di addio, a quelle migliaia d'uomini
impotenti e pieni di disperazione. E noi ci lanciammo di corsa in direzione sud-ovest verso
la valle di Cerkovo.
Si venne a saper pi tardi l'epilogo della gloriosa Pasubio, la sorte dei suoi due reggimenti,
il 79 Verona e l'80 del Mantova e relativi reparti. La valle di Cerkovo cambi nome e fu
chiamata la valle dei morti. Pochissimi si salvarono; gli altri invece furono ricordati
giustamente nel regno della gloria.

8 - La fuga
Avevamo studiato meticolosamente tutte le cose; minimo e quasi nullo risultava
l'equipaggiamento, ma tutti e tre avevamo una carabina e alla cintola bombe a mano, era
comunque indispensabile avere il senso d'orientamento, essere decisi ed astuti.
Prendemmo la direzione sud-ovest puntando dritto su Millerovo; era essenziale agire,
muoversi, fare presto. Si decise di scartare la vallata dove correva la strada e si punt

verso la pianura. Avevamo camminato tutta la notte, non badando all'immane fatica e non
tenendo conto del tempo, delle soffiate gelide del vento e delle spruzzate di nevischio che
ci arrivavano addosso. Ogni tanto ci fermavamo coll'orecchio teso a percepire movimenti,
rumori, gli occhi rimanevano puntati in un continuo scrutare per poterci muovere sul
terreno sporco e ghiacciato, scansando quello bianco e innevato che poteva essere una
trappola perch ci si poteva affondare. Eravamo guidati dall'istinto e da una forza invisibile,
sovrumana. Il colore, la luce del giorno che giungeva non era tanto diversa da quella della
notte. Era s pi sbiadita, ma sempre grigia e sempre la stessa; il cielo era coperto, anche il
sole ci aveva abbandonato.
Raggiungemmo un percorso segnato da scie di automezzi passati da poco; nascosti fra le
poche isbe avevano trovato rifugio due automezzi della Croce Rossa. Erano stracolmi di
feriti. I conducenti ci raccontarono che la sera precedente s'erano trovati fra l'inferno: la
strada, subito dopo Cerkovo, era intasata di ogni sorta di veicoli ed i Russi, occupate le
alture, avevano concentrato il fuoco con mortai e carri armati creando uno sbarramento e
seminando morte e distruzione. Le previsioni non sembravano tanto rosee; si diceva che il
giorno prima i Russi avevano sfondato il fronte e stavano prendendo alle spalle l'ottava
Armata italiana.
A nord avevano riconquistato Kantarnirowka e Cerkovo ed ora puntavano su Millerovo per
tagliare ogni possibilit di fuga. Noi eravamo l a consultarci: attraverso i documenti
topografici sapevamo che Millerovo non era lontana e che potevamo continuare la marcia.
Avevamo recuperato le energie e avevamo l'opportunit di proseguire a bordo di automezzi
anche se frammischiati ai feriti. Mi infilai in un cantuccio facendo da appoggio alle braccia
martoriate di un compagno e cos pure gli altri due, il Piera ed il Vendrame, si erano
sistemati alla meno peggio. La giornata era proprio pessima, il tratto impraticabile e pieno
di buche ed allora si sentivano le urla, i lamenti dei feriti e ogni genere di imprecazioni.
Intanto si avvicinava la sera ed era il momento pi propizio e atteso per tentare la sortita.
Aggirata una balza, il vento ci fece riudire il crepitio delle mitragliere, i colpi di mortaio,
intervallati da quelli degli anticarro. Evidentemente eravamo nel vivo della battaglia. Era
stata necessaria una pausa per capire che dovevamo superare l'ultima barriera, la collina,
per rivedere la Millerovo dalle tante strade. Ci fermammo per un po' di tempo attendendo le
ombre della notte che ci avrebbero portato un po' di calma. Non si trovava la forza di
parlare: erano solo gli occhi a leggere in ognuno di noi lo sgomento di dover subire una
guerra ed essere invischiati nelle sue spire di morte e atrocit. Provammo a muoverci, ma
fatti appena 300 metri una scarica di mitraglia inchiodava i nostri due automezzi e fu allora
che capimmo che era arrivato il momento di giocare la nostra vita, il nostro destino.
Decidevamo cos di lasciare quegli sventurati alla loro sorte; ci buttammo a terra carponi,
strisciando nel buio e osservando che due erano le postazioni che controllavano lo sbocco
della strada spazzando il fondovalle con tiri incrociati. Avevamo intuito che solamente 200
metri ci separavano dagli avamposti tedeschi, accorsi per fermare l'avanzata dei Russi. E
cos si ebbe modo di osservare l'inferno dei due schieramenti che non riuscivano a
prevalere l'uno sull'altro. Noi intanto ci portavamo sempre pi sotto sfruttando i punti pi
oscuri e vivendo minuti che sembravano eternit. Le traiettorie degli spari si vedevano
partire ed arrivare in un contorno d'immensa confusione. Fiammate di fuoco, sventagliate
di mitragliatrici, vampate di esplosioni davano l'idea dell'inferno. A notte inoltrata, quando
pareva ci fosse un momento di calma, ci si accorse che eravamo in vista dei Tedeschi che,

rintanati come noi, attendevano l'urto dei tanks: i carri armati. Mi venne spontaneo gridare
"Italianisc camarad" per sentirci salvi, felici d'essere riusciti a eludere il cerchio di fuoco.
Ma era un'illusione: venimmo, infatti, accompagnati alla presenza dell'ufficiale tedesco
Comandante, una vera peste poich riconosciutici Italiani, manifest subito il suo
disprezzo ed in modo frenetico ci affianc ai suoi soldati con l'ordine di preparare una
trincea di sbarramento. Il lavoro appariva febbrile, non era certo facile creare trincee
all'istante, ma pistola in pugno, il tedesco minacciava chiunque si dimostrasse poco
zelante. Vennero i blindati russi a portare scompiglio travolgendo tutto e scompaginando
ogni cosa. In quel frangente capimmo quanto i Tedeschi ce l'avessero con noi Italiani.
Mentre l'armata rumena al sud era travolta, anche la Sesta Armata di Von Paulus si trovava
accerchiata e costretta a difendersi contro forze preponderanti e contro il freddo del
generale inverno, uno dei pi rigidi che segnarono la storia. Nel frattempo, a notte fonda,
riapparivano, alla testa della colonna russa, i tanks cingolati da 35 tonnellate. Ogni difesa
contro quei mostri era nulla. I Tedeschi se ne erano accorti e con mossa fulminea,
lasciavano la periferia per rintanarsi al centro citt. E cos i pochi automezzi a disposizione
erano presi d'assalto perch tutti tentavano di servirsene per accelerare la fuga e
svincolarsi dal nemico. Nella ressa c'erano anche soldati italiani. Noi, evitando la
confusione, ci eravamo allontanati seguendo l'anello stradale della periferia ma avevamo
notato in che modo i Tedeschi si rifiutano di dare assistenza ed aiuto ai nostri compagni: a
coloro che si aggrappavano agli automezzi erano riservate le pestate alle mani coi calci dei
fucili e poco importava di far vedere la loro tracotanza e vigliaccheria. Cercammo di
allontanarci il pi possibile da quella zona che rimaneva teatro di continui scontri. I
Tedeschi vi facevano affluire numerose truppe provenienti anche dal Caucaso ma i Russi
erano ormai padroni della situazione. Noi cercavamo di guadagnare chilometri su
chilometri per sfuggire alla loro avanzata ed avere cos un buon margine di sicurezza. Non
si pensava a niente, n alla fame, n alla stanchezza e tanto meno alle avverse condizioni
del tempo. Si tirava avanti con l'unico scopo di allontanarci, di correre verso sud-ovest,
verso il Donez, costeggiare il mare e risalire verso l'Ucraina. Sulla strada intanto il traffico
aumentava frenetico e caotico. Non eravamo ben visti da coloro che incontravamo e che
risalivano verso Millerovo, contesa, accerchiata. Ma a noi poco importava degli altri e si
continuava nella marcia, badando a scansare eventuali incontri ed a non dar nell'occhio ai
camerati tedeschi.
In un attimo di sosta il Vendrame si accorse di alcuni automezzi abbandonati: una DKV 350
giaceva seminascosto e non era all'asciutto di benzina. Ci pareva di sognare e gridammo al
miracolo. Il Piera in un balzo aveva preso posto rannicchiandosi sulla carrozzella con le
carabine ed i nostri zaini mentre io salivo sulla sella posteriore avvinghiato al Vendrame
per difendermi dal freddo cane. Ci mettemmo in corsa, una corsa dissennata, tanto veloce
quanto consentiva il fondo stradale; era un continuo sobbalzo, una bestiale tesa di nervi, di
forza, di resistenza. Avevamo percorso s e no una ventina di chilometri quando un
agglomerato di isbe si intravide ad una certa lontananza. Finiva l il sogno, la corsa: si era
esaurita la benzina e con essa la speranza di alleggerire ulteriormente il percorso. Ci
avviammo verso il villaggio che sembrava vicino ma che era maledettamente lontano:
bench stanchi morti dovevamo raggiungerlo per trovare qualcosa da mangiare e passare
la notte al riparo dalle intemperie.
Ci si arrancava, ubriachi di sonno e di sfinimento ma confortati dal pensiero di trovarci

ancora vivi, solo perch aggrappati al nostro coraggio. Noi, infatti, eravamo i soli a
camminare controsenso ed a vedere la strada delinearsi dritta, spazzata dal vento gelido e
pungente che soffiava proveniente dal Volga, dalla steppa dei Calmucchi e poich
scendeva la sera, la temperatura toccava i meno quaranta gradi e pi sottozero. I nostri visi
erano mascherati dai ghiaccioli che si formavano respirando ma era indispensabile non
fermarsi per nessun motivo per non diventare statue od esseri ghiacciati. Era quasi buio
quando si arriv al villaggio: il silenzio dominava sovrano e pareva che non ci fosse segno
di vita e che tutto fosse in abbandono. Si buss alla porta di parecchie isbe, senza che
alcuno si facesse vedere, sembrava fossero disabitate. Ci spostammo verso il centro e
bussando alla porta con il calcio del fucile, finalmente una "babusca" ci venne ad aprire
con aggrappati alla gonna, spauriti pi che mai, alcuni bambini. Non ci vollero molte
parole: erano le nostre misere condizioni a dirle che si veniva dal fronte esausti, stanchi,
affamati, pieni di sonno. La donna aveva capito ed abbassando il capo, col cenno della
mano, ci invit ad entrare. Un'icona appesa alla parete, un pancone ed al centro un tavolo
rustico con a fronte il camino, mettevano in evidenza la povert. S'era subito discosta a
rabbonire e sistemare i bambini in un cantuccio, al riparo di un tramezzo ed una stuoia che
serviva a toglierli dalla nostra curiosit. Poi venne verso di noi indicando che potevamo
accomodarci sulla lettiera dietro il camino che consisteva in un piano rialzato allungato a
coprire il forno, il cuocivivande. Noi increduli, seguivamo i suoi movimenti; ci toglievamo
finalmente le armi e gli zaini che per giorni e notti ci erano stati di peso mentre lei aveva
tolto dal forno due teglie annerite di terracotta per metterle sul tavolo. "Kartoske", patate
lessate ed una brodaglia calda di miglio: era tutto ci che poteva offrirci dimostrando la
sua generosit ed il buon cuore di quella gente.
Senza tante parole, aveva intuito che eravamo italiani e forse anche per questo ci
soccorreva. "Italiaski carasci", italiani brava gente, diceva, mentre ben altro sentimento
ed altre parole usava per definire gli altri, Tedeschi, Rumeni ed Ungheresi. Smorzata cos la
fame, il Piera ed il Vendrame furono lesti a buttarsi sulla lettiera, vinti, stracciati dal sonno
ed a me non rimaneva altro che vegliare. Uno strano sgabello mi serv per poggiare la
schiena contro il muro ed osservare quella donna infagottata che con il tremolio delle mani
mostrava una vita tribolata. Era la nonna dei bambini, obbligata ad accudirli ed a pensare a
loro, a salvaguardare la casa, in quanto la figlia era dovuta scappare al di l del Volga e il
compagno sessantenne era stato deportato dai Tedeschi nei campi di lavoro a Rostov sul
mar Nero. Era una realt che gi conoscevo, comune a tutta quella gente, che lei nel suo
linguaggio mi borbottava come la recita di un rosario fin tanto che mi addormentai. Mi
risvegliai al mattino quando ormai era giorno, sentivamo ancora la stanchezza per le
fatiche ed i disagi patiti, ci sentivamo spenti; ci nonostante, armi alla mano e i quattro
stracci in spalla, salutammo riconoscenti quella santa donna e ripartimmo fra gli sguardi
mortificati di quelle creature. Inconsci, avevamo ripreso a camminare fra le intemperie di
un giorno sconvolto dal tempo. Freddo intenso, gelido nevischio, eravamo quasi sospinti
dalle ventate il cui freddo ci penetrava nelle ossa e ci costringeva a muoverci per non
diventare fantasmi di ghiaccio. Si doveva rifare parte del percorso del giorno prima, diretti
verso Voroscilovgrad poich la strada che portava a sud a Rostov era troppo lunga e
trafficata.
Si camminava uno dietro l'altro, con la sola forza del nostro coraggio, in un'abulia fisica
che ogni tanto ci costringeva a far sosta e ad aver cos modo di guardarci negli occhi e

cercare di indovinare i pensieri dell'uno e dell'altro poich non c'era tanta voglia di parlare.
La nostra mente era confusa cos come la nostra situazione. Si era persa completamente la
cognizione del tempo: era solo la luce a guidarci nel rigore del terribile inverno. Si
camminava nello squallore di una zona pianeggiante, segnata in parte dalla continuit del
nevischio ed in parte dai miseri, bruciacchiati ciuffi d'erba; si camminava nella solitudine
pi completa, senza poter contare le ore e sempre con gli occhi rossi, tesi nel miraggio di
scoprire le prime sparute isbe come avvisaglia di territorio abitato, le cui distanze fra i
villaggi contavano dai 50 ai 100 chilometri ed anche pi. Ci consolava solamente il fatto
che eravamo diventati padroni del nostro tempo e della nostra volont, sguinzagliati in
libert per aver saputo sfuggire agli orrori di una guerra che noi non sentivamo pi. E
vennero a calare le ombre della sera quando si arriv al villaggio. Oramai per me era
diventato come un gioco bussare, chiedere pane o qualcosa che ci potesse sfamare e pure
un riparo per la notte onde sfuggire il rigore del freddo.
9 - attraverso la steppa
Ci si svegli quando il sole era gi alto e con il chiacchierio di due vecchi barbuti, impalati
come statue, poco lontani, che ci dava occasione di attaccar discorso. Per loro, la nostra
presenza non era una sorpresa in quanto altri soldati italiani ci avevano preceduto molti
giorni prima. Noi eravamo i ritardatari, con la differenza che quelli, venendo dalle retrovie,
avevano avuto la fortuna di essere rimasti fuori dell'accerchiamento; noi invece portavamo
addosso i segni, i ricordi di un'incredibile odissea. Si era sulla strada buona, ci
assicurarono, ma con una previsione di tre giorni pieni di cammino per arrivare a
Voroscilovgrad. Era una tremenda mazzata per i compagni, specialmente per il Vendrame, il
pi vecchio. Con la stanchezza, dai loro volti trasparivano anche i segni della delusione e
questo valeva anche per me. Ma una cosa avevo notato conversando con i due vecchi: la
loro disponibilit. Scrutando all'intorno, mi venne il coraggio di chiedere se ci fosse
qualche cavallo. La zona era povera, d'accordo, ma la pastorizia era vegeta e praticata. Il
Piera, trasognato, mi stava guardando negli occhi mentre io fissavo il suo orologio da
polso. I vecchi annuirono e ci accompagnarono dallo "Starosta" il capo del villaggio e del
Kolkos. Nel breve tragitto, ammiccavo ai due compagni, particolarmente al Piera, facendo
loro capire d'essere indulgenti e lasciarmi fare. Lo Starosta chiese quale fosse la
contropartita: siamo Italiani e non siamo dei ladri come i Tedeschi, gli dissi, il nostro scopo
quello di raggiungere velocemente Voroscilovgrad e sfuggire cos alle pattuglie tedesche
per non cadere nelle loro mani, poich ci impiegherebbero contro i soldati e le popolazioni
russe. L'affare fu fatto: in cambio dell'orologio ci fu lasciato un cavallo al tiro di una piccola
slitta. Passammo il resto della serata in compagnia dei vecchi e delle loro mogli che, prese
a compassione per il nostro stato, ci sfamarono con brodaglia calda di kapusta e kartoske
(verze e patate).
Tutto sommato le circostanze di quel giorno ci davano nuova linfa e buonumore e forza per
riprendere il viaggio. Sotto la paglia come la notte precedente, fummo vegliati dallo
sguardo del cavallo di cui non sapevamo nemmeno il nome,e anche lui come noi, votato
all'arrembaggio, all'avventura. Alle prime luci dell'alba, riprendemmo il cammino alleggeriti
degli zaini e dei fucili che avevamo caricato sulla slitta. In essa non c'era posto per tutti,
cos ce lo scambiavamo di volta in volta. La strada, o meglio la pista, si confondeva nella

pianura grigia e squallida, patinata di nevischio e battuta dal vento e sembrava non avesse
termine. I chilometri non si contavano, senza incontrare alcun essere, nel silenzio rotto
solamente dal monotono sibilare del vento, si procedeva cos incitando il cavallo che non
doveva fermarsi. All'orizzonte, la zona collinare pareva irraggiungibile. In essa c'era
Voroscilovgrad la nostra meta, il nostro sogno, la fine di un incubo. Per noi voleva dire
salvezza, non pi guerra ma vita. Ed io, come del resto il Piera, eravamo smaniosi di
rivedere care conoscenze .io la Lubda e lui la "Maruscina scerzen", la Mariuccia del cuore.
Si accarezzava veramente quel sogno.
Le prime ore della sera stavano per prendere consistenza e il giorno moriva. Arbusti e
giunchi richiamavano la nostra attenzione: se n'era accorto pure il nostro amico cavallo
che di tanto in tanto si fermava a morderne la scorza. Aveva fame anche lui e come noi era
sfinito, soverchiato dalla stanchezza. La maratona non era ancora finita e ci pesava molto
l'aver cucito migliaia di passi con l'attraversamento della steppa. Eravamo approdati nei
paraggi del Donez, il fiume che segnava i confini: di qua l'immensa pianura, la steppa, il
Don, il Volga; di l la zona montuosa, le colline del Donez, l'Ucraina. Per un po' lasciammo
quella povera bestia cibarsi della corteccia degli scheletriti arbusti e spigolare i pochi fili
d'erba che fuoriuscivano dalla coltre di ghiaccio. Era quanto la natura potesse offrire in
quel gelido clima invernale. Ci si rimise in marcia ed ecco apparire le prime isbe
abbandonate. Trovammo rifugio in una di esse e passammo la notte al riparo dal freddo e
dal vento. Per quanto riguarda la povera bestia, il brocco, cos l'aveva battezzato il Piera, fu
sciolto e lasciato libero, al riparo delle intemperie ed al margine di residui di giunchi e resti
di canneto che potevano servire da biada; ma anche lui era svogliato, ridotto a mal partito,
stracciato per lo sforzo sostenuto.
Era stata una giornataccia ma fondamentale per esserci portati fuori dal raggio d'azione
delle pattuglie ausiliari tedesche. Cos, avvinghiati l'uno all'altro, rannicchiati, avvolti nei
nostri stracciati pastrani e nella misera coperta, eravamo in attesa di essere vinti dal
sonno, mentre il nuovo giorno si avvicinava. A darci la sveglia furono i morsi della fame.
Lasciammo quel posto in cui non esisteva vita, manco un cane e la solitudine era padrona
assoluta. Il brocco pareva essersi ripreso e noi ci rimettemmo in marcia. La pista ora dava
l'impressione che stessimo lasciando l'immensa pianura. Anche la fisionomia del terreno
era cambiata: una vegetazione spoglia ma pi intensa. Camminammo per qualche ora, poi,
finalmente, ecco l'approssimarsi di un grosso villaggio con le sue isbe disseminate su di
un terrapieno, oltre il quale si sviluppava la zona alveare del Donez. Fu quasi un obbligo
sostare soprattutto perch ci eravamo accorti di essere spiati. Non c'era alcun movimento,
ma i pochi rimasti erano tappati in casa ed erano i soliti anziani coi bambini dagli occhi
sgranati, curiosi all'inverosimile nel vedere facce di soldati stranieri, se pure di passaggio,
aggirarsi nelle loro terre, nei loro villaggi. Andando ad elemosinare qualcosa da mangiare,
ricordo che una donna, nel vedermi cos giovane, ebbe a maledire chi mi aveva mandato a
fare la guerra; diceva che in me vedeva suo figlio e non esit a pormi una ciotola di
brodaglia calda e a riempirmi le tasche di pane e patate. Questi ricordi, a distanza di
cinquant'anni hanno dell'incredibile e sembra non esistano pi.
Riprendemmo di buona lena la nostra marcia, risalendo la strada a fianco al fiume fino a
ritrovare il ponte di barche e passare all'altra sponda. Il guaio era che il nostro brocco non
ce la faceva pi, dava i segni dell'esaurimento e vane erano le incitazioni. Fortuna volle che

in lontananza, verso di noi, arrivasse un gruppo di profughi civili. Anche loro erano al
seguito di uno sgangherato carretto, colmo di masserizie, trascinato da un cavallo.
Evidentemente facevano ritorno al villaggio, liberato dalla guerra, dai Tedeschi. Ci
fermammo per dar fiato al "brocco". Il Piera intanto mugugnava: gli bruciava la storia
dell'orologio e la cosa non gli andava gi. Eravamo angustiati, cos senza mezzi termini,
imposi loro l'alt e quindi chiesi al vecchio il cambio del cavallo. A nulla valsero gli ostinati
"nicevu" del vecchio, n le grida delle babusche o il pianto della ragazzina. Mentre il Piera
riattaccava il cavallo alla slitta, il Vendrame consegnava il brocco al vecchio che, impietrito,
mani sulla testa ed occhi al cielo, malediva la guerra e le sue conseguenze. Sinceramente
devo dire che tale atto, anche se necessario, mi lasci amareggiato, dispiaciuto, non certo
orgoglioso. Allora, per accattivarmi un po' di benevolenza, aprii lo zaino dove tenevo un
paio di mutandoni di lana e rivolgendomi alla giovinetta ed al vecchio li donai loro perch
non volevo essere un vigliacco. Quei mutandoni li avevo ricevuti pochi giorni prima
dell'inizio della ritirata: mi erano stati spediti dalla mamma.

10 - Lubda
Non pensammo due volte a rimetterci in marcia .... Lasciammo quella zona che limitava il
corso del fiume e prendemmo la pista che continuava a salire e superare il dosso di
squallide e nude alture. Gli occhi erano fissi verso nord a scrutare lo stradone che uscendo
dalla valle, portava a Millerovo. Su quella direttrice si riversava il traffico confuso dei
rinforzi tedeschi ed era bene starcene lontana. Pass il tempo in lunghe ore di marcia e
vennero le prime ombre della sera. Voroscilovgrad era vicina. Tenemmo duro. Arrivammo a
notte inoltrata, giungendovi dalla parte alta della citt, a sud-est. Non c'erano luci,
sembrava una citt spenta, morta. Il silenzio era rotto solamente dal rumoreggiare degli
automezzi e dei blindati che a fondovalle percorrevano la camionabile. Raggiunta una
piccola conca, stressati, non ci pareva vero essere arrivati. Ci sentivamo felici, consapevoli
del coraggio e della forza avuta: avevamo vinto la pi grossa delle battaglie, quella della
sopravvivenza. Gli orrori, i mille guai passati, l'insonnia, la fame, il freddo e l'estenuante
fatica delle marce forzate, era tutto alle spalle come un ricordo. Ora sapevamo di essere
salvi e non c'importava pi di nulla, manco il fatto di doverci consegnare ai vari Comandi,
come prescriveva il Codice Militare.
Sette mesi prima, quando picchiava il solleone, eravamo baldanzosi, corteggiati con
devozione dalle ragazze ed ora, come fuggiaschi, le ricercavamo per rincuorarci e ricevere
il loro aiuto. Io avevo conosciuto Lubda, il Piera una certa Marusca. Le loro case non erano
tanto lontane: si decise di andarle a trovare con l'accordo di ritrovarsi all'imbrunire del
giorno seguente. Ripercorsi il sentiero che, seguendo lo steccato, portava alla casa di
Lubda. Mi ritrovai davanti allo sgangherato vecchio portone, col cuore che mi batteva forte.
Facendomi forza, aprii la piccola porta e, attraversato il cortile, bussai al vetro della
finestrella a lato della casa. Provai attimi d'ansia, d'angoscia e quando me la vidi davanti
non capii pi niente. Lei, sbigottita, mi scrutava da capo a piedi, le sembravo un fantasma!.
Pi di un mese prima tutti gli Italiani se n'erano andati.... Mi prese per mano e mi
accompagn presso il camino, quel camino testimone un tempo degli abbracci e delle sue
amorevoli effusioni. All'intorno tutto era come prima: il battipanni, i fiori di carta colorata

che ornavano l'icona alla parete, la panca e l'angolo delle scartoffie; non era cambiato
nulla. Mi accorsi pi tardi per che era cambiata lei e pure io...., il suo sergentino,
mortificato pi che mai, vinto, fuggiasco, sporco, impidocchiato... , ero ai suoi piedi e le
chiedevo aiuto. Rimase per un po' ad ascoltare il racconto delle mie peripezie, poi, forse
mossa a compassione, m'invit a spogliarmi. Mi fu servito un secchio d'acqua, una vera
manna... Mi lavai ed ebbi cos modo di liberarmi della sporcizia che, a causa delle svariate
vicissitudini, mi portavo addosso. Mi mise a disposizione il suo letto castigato e
m'addormentai tosto, vinto dalla stanchezza. Non era ancora l'alba quando, alla chetichella,
venne a baciarmi, a lasciarmi il suo ricordo dolce, buono, umano, pietoso.
Giuro che sarei voluto rimanere e che stavo per ribellarmi a tutto. Non m'importava pi
niente della Patria, dell'Italia, della famiglia, dei compagni e dei sei mila chilometri di
lontananza da casa mia.... Con un nodo alla gola la lasciai, correndo dall'altra parte della
collina ove ritrovai gli amici, il Piera ed il Vendrame, quest'ultimo febbricitante, stanco. Lo
incoraggiammo, dopo tutto raggiungere Rikovo non era un gran problema: erano 40
chilometri di marcia, volenti o nolenti, con una temperatura che volgeva al disgelo.
Camminammo tutto il giorno lasciandoci alle spalle Novo Gorlowoka. Era sera inoltrata,
buio pesto quando si arriv a Rikovo e, seguendo i cartelli di segnalazione, si giunse al
Centro di raccolta superstiti italiani. Consisteva in un salone, nel cuore di una vecchia
fabbrica. Ci trovammo una decina d'Italiani, alcuni soldati rumeni ed altri ungheresi, anche
loro sopravvissuti alla battaglia del Don. Non c'era molta organizzazione: valeva solo la
parola "arrangiarsi". Quasi tutti, ammutoliti, coprivano sdraiati, parte del pavimento e nei
loro volti si leggevano i patimenti della fame, del freddo e di una malcelata sofferenza. Era
trascorsa la mattinata senza che i miei compagni decidessero il dafarsi ed io, spazientito,
proposi di non indugiare; dovevamo in qualche modo avvicinarci ad uno scalo ferroviario e
l cercare uno dei tanti convogli-tradotta che ci portassero a Dnepropetrovsk. La distanza
non era un gran che e quello era il modo migliore di raggiungerla senza doverla fare a
piedi. Nessuno s'interessava al caso nostro e questa fu la ragione che ci spinse a partire.

11 - il convoglio
Non si aveva alcunch da mangiare ed il problema era come vincere la fame. Arrivammo
cos in un piccolo borgo di una decina di isbe, disseminate per un centinaio di metri lungo
la strada e, conoscendone l'ubicazione, sapevo che attorno c'era l'orticello e qualche
recinto dove erano rinchiuse le galline, al sicuro dai ladri notturni. Ci appostammo
nell'attesa di una maggiore oscurit fino al momento di agire; la faccenda sembrava tanto
facile, ma non fu cos: la porta era ben chiusa, tanto che il Piera dovette armarsi di fucile
per far leva ed il Vendrame impegnarsi manualmente e tirare a fondo onde creare un varco.
Naturalmente spett a me entrare, a fare il predone. Mi trovai in un pandemonio: le galline,
spaventate, svolazzandomi attorno, creavano un turbinio di piume e di penne. Ne afferrai
una prima, una seconda, poi una terza badando nel frattempo a tirare loro il collo e a
passarle fuori ai compagni. Alla fine riuscii a prenderne una quarta. Ma nel tirare il collo a
quest'ultima, forse con troppa violenza, mi rimase in mano la testa che non era possibile
abbandonare l, in quanto sarebbe stata simbolo di malaugurio per la credenza popolare.
Dovetti quindi metterla nella tasca del pastrano badando a non lasciare tracce di sangue

lungo la strada. Aspettammo che le galline si chetassero e restammo in ascolto.


Riprendemmo la strada verso una pista da dove provenivano rumori di convogli di treni.
Tutto sembrava andare liscio. Ma ecco che una pattuglia tedesca ci intercetta e ci impone
l'alt. Con un guizzo mi assesto fra i compagni, zoppicando e trascinato da loro, fingo di
essere ferito. Il pastrano sporco di sangue ed facile far loro credere di essere stati
sorpresi in un'imboscata di partigiani e quindi di aver necessit di essere medicato. I
Tedeschi abboccarono e corsero ad ispezionare quell'immaginario luogo da noi descritto e
naturalmente in direzione opposta. Quanto abbiamo riso per quella beffa! Proseguendo
verso la zona abitata, incontrammo un mezzo barbone, un anziano civile che ci forn di ogni
sorta di informazioni. Si cap che anche lui, come noi, aveva fame. Ci accompagn a casa
sua, una stamberga, dove si accese il fuoco e si arrostirono ben due galline. Divenne una
serata insolita, piena di allegria, fatta apposta per dimenticare l'insofferenza, la noia, tutti i
guai che avevamo patito, la nostra vitaccia. Il vecchio viveva solo: non disdegn a offrirci il
rimasuglio di vodka di una vecchia "butilka". Si rise, si chiacchier, poi infine fummo vinti
dal sonno e cos, in quella stamberga, su quattro stracci, passammo la notte.
Al mattino fu il vecchio stesso a svegliarci: ci mettemmo in viaggio alla ricerca della
ferrovia. Arrivammo alla periferia di Stalino raggiungendo la zona dove avvenivano gli
scambi dei convogli diretti a Dnepropetrovsk. Ci fermammo ad osservare il movimento:
non c'erano ostacoli e la sorveglianza era inesistente. Pochissimi erano gli addetti
manovratori, tutti civili; ne incontrammo uno del posto che, a suo dire, se ne fregava della
guerra e dei Tedeschi e che ci fece salire su un convoglio di ritorno. Il treno era
inverosimilmente lungo, composto per la maggior parte da pianali fatti apposta per il
trasporto dei vari automezzi. Trovammo posto su uno di questi e fummo costretti a stare
sdraiati per non dare nell'occhio. La posta in gioco era davvero importante: volevamo
porre termine alla nostra ritirata, alle nostre sventure. Finalmente il treno si mise in moto:
dapprima pian piano, poi aumentando la velocit. Il percorso non offriva nulla di
particolare: era tutta pianura ed ogni tanto si notavano acquitrini paludosi, canneti e
cespugli, poi la zona divenne boschiva. Non si videro villaggi; solo di tanto in tanto doppi
binari permettevano il passaggio dei convogli provenienti in senso contrario. Il pi delle
volte, era il treno del ritorno, quello vuoto, ad avere la precedenza, quello che
strategicamente doveva andare a ricaricarsi e far s che la guerra continuasse..
12 - centro raccolta
Si giunse finalmente a Dnepropetrovsk. Una densa foschia, prima dell'arrivo dell'oscurit,
si lev su quello scalo grande, come grande era la citt e pesante l'atmosfera, nera come i
locomotori a vapore che stavano pronti a dare il cambio agli ultimi arrivati e che
sbuffavano e vomitavano fumo e caligine. Altri, invece, erano a ricaricarsi di carbone o
sotto un tubo ricurvo a fare il pieno d'acqua. Attraversammo parecchi binari per portarci
dall'altra parte dove pochi punti di flebile luce segnalavano il centro direzionale ed altri
centri di comando inerenti al settore della regione, l'Ucraina meridionale. Fra il personale
che andava e veniva c'erano i civili, gli addetti a dare e portare ordini e, fra questi, i soldati
della Todt di guardia e di ronda. Ad uno di questi chiedemmo dove fosse il Comando di
tappa italiano, in quanto superstiti eravamo obbligati a ripresentarci e darne

comunicazione. Un carabiniere venne a prelevarci e fummo condotti all'Ufficio: lo


presiedeva un tenente che, data l'ora insolita, bad a soccorrerci con una bevuta di caff, a
sfamarci e a predisporre un locale adiacente per passare la notte. Solo al mattino, in sua
presenza, riferivamo le nostre generalit e la nostra odissea. L'espressione dell'Ufficiale
era apatica; provai un senso di ribellione. Egli stabil che io e l'amico Pierantoni,
incorporati all'XI Sezione di sussistenza in forza al Quartier Generale della Divisione
Pasubio si dovesse raggiungere il Centro di raccolta reduci e superstiti dell'ARMIR,
costituito dopo la disastrosa ritirata nella Russia Bianca e precisamente nella zona di
Mozyr, ad una trentina di chilometri da Gomel. Tutt'altro trattamento era riservato al
compagno Vendrame che, alquanto sofferente e malconcio, era avviato all'Ospedale
militare per essere in seguito rimpatriato. A malincuore ci salutammo e ci separammo,
ognuno andando verso il proprio destino e portando con s i ricordi dei 70 giorni di ritirata
e dei duemila chilometri di marcia. Del Vendrame, trentacinquenne, soldato scelto
appartenente al Gruppo investigativo delle Camicie Nere, non si saputo pi niente.
La nostra libert era finita: a fatica e di malavoglia dovevamo cercare la forza di reinserirci,
di adoperarci per il bene degli altri compagni e tenere alto il nome della Patria lontana,
nonostante per noi che avevamo patito fatiche immani per una guerra sbagliata, non
avesse pi senso. Con il foglio di trasferimento e una razione di viveri - pane nero duro e
stomachevole margarina -, ci fu dato l'ordine di partire per Kiev e raggiungere poi Mozyr.
Arrivammo al piccolo villaggio, un borgo su un declivio, non toccato dalla guerra e dove
una linda chiesetta col suo piccolo campanile dominava una rosa di casupole. Fuori del
borgo, alcuni fabbricati a ridosso di un'ampia radura erano adibiti a scuole e delimitati dal
campo base sede del Centro di raccolta italiano ARMIR. Fummo alquanto sorpresi nel
vedere un soldato fare il piantone, la guardia alla porta del fabbricato, ma pi ancora nel
notare il sopraggiungere di una Compagnia di soldati, seguita da una seconda e poi da una
terza, in pieno assetto di guerra. Erano di ritorno da una delle solite marce, comandati da
un odioso ufficiale che esigeva una disciplina da legionari. La sede era diretta da un
capitano e l'organico consisteva in un centinaio di soldati, appartenenti alla varie divisioni
Ravenna, Sforzesca, Pasubio, Cosseria, Torino, che arrivavano e ripartivano, nell'attesa di
essere rimpatriati secondo le disposizioni dei superiori. A me tocc il compito di capo
pattuglia poich era necessario salvaguardare, in accordo con il comando tedesco, la linea
ferroviaria vicina che serviva per andare a Gomel. Era vero che i civili partigiani avevano
creato il cosiddetto terzo fronte ed operavano all'interno con atti di sabotaggio su convogli
e linee di comunicazioni, ma era anche vero che noi, con quello che avevamo passato, non
eravamo entusiasti di riprendere le armi e a me quel compito non andava proprio gi.
Affiancato ad un caporale e a quattro soldati, partii comunque, per un pattugliamento,
scendendo per un sentiero sino a raggiungere un canneto. Da l proveniva uno strano
frusciare che a tratti si fermava per poi riprendere. Eravamo all'erta: una sagoma scura
avanzava verso di noi. Stavo per premere il grilletto ma un mugolio mi fece desistere;
apparve cos un bellissimo esemplare di femmina setter dal pelo fitto, lungo, color oro, con
un collare. Fui particolarmente attratto dalla mansuetudine che manifestava nel leccarmi le
mani: ci veniva dietro quieto ed ogni qualvolta ci fermavamo, col muso mi sfregava le
gambe. Era un animale addestrato, intelligente, dallo sguardo mite, che scodinzolando

esprimeva il suo affetto. Decisi di tenerlo con me e lo chiamai Lilla: avrei capito in seguito
che la sua presenza mi portava un immenso beneficio perch quando mi coricavo, veniva
lesto ad accovacciarsi ai miei piedi e mi riscaldava. La temperatura era sempre sottozero e
il freddo si sentiva ...
I giorni passavano svelti e mentre i compagni sottostavano alla marcia quotidiana e ad una
disciplina insensata, il Piera era in attesa della partenza ed io ero impegnato a preparare le
razioni viveri e a fare la contabilit. I viveri di scorta erano quelli lasciati dalla 282^
Divisione tedesca dislocata a Gomel; consistevano in pane nero, scatolame di margarina,
krup, semi di miglio, orzo, surrogati di caff, sigari e sigarette. Un pane nero dalla forma
rettangolare e dal peso di 800 grammi, doveva bastare al soldato per cinque giorni, cos
pure una scatola di margarina, al tutto si aggiungeva una brodaglia giornaliera di kruf o di
orzo e l'acqua tinta del surrogato di caff. Con la partenza del Piera l'organico si era quasi
dimezzato. Avevo perso un amico ma ne avevo trovato un altro, Lilla, la cagna che,
dovunque andassi mi seguiva sempre, obbediente. Avevo fatto amicizia anche con i soldati
rimasti che, rassegnati come me, passavano abulicamente i giorni, fregandosene della
disciplina e del tenente, tanto ormai si sapeva che il rimpatrio era questione di giorni.
13 - Il rimpatrio
Era il mattino del 15 marzo quando mi fu dato l'ordine di distribuire l'ultima dispensa. Fu
singolarmente ricca e ci era preavviso di partenza per il rientro in Italia e motivo di tanto
entusiasmo in noi. Mi avevano ordinato inoltre il compito di catalogare la giacenza viveri e
portarne copia al Comando di zona della 282^ Divisione tedesca a Gomel. In pratica dovevo
fare il trapasso di consegna. La cosa mi aveva messo a disagio: mi puzzavano quei 30 Km.
da fare. Avrei voluto starmene nel gruppo a scanso d'eventuali sorprese e quindi chiedevo
ai compagni chi di loro volesse farmi compagnia in cambio della mia razione di sigarette.
Un certo Zugliani e il Mori si offrirono di accompagnarmi; partimmo subito puntando verso
la ferrovia. Eravamo tre uomini e con noi c'era anche Lilla: formavamo cos una pattuglia
speciale, autonoma, indipendente. Il modo migliore per arrivare a Gomel era la ferrovia e
poich un convoglio stava per sopraggiungere, approfittammo della sua lenta corsa, per
salire e sistemarci. Il treno era lungo: al seguito della locomotiva a vapore c'erano due
vecchie carrozze ed alcuni carri che servivano da trasporto di autoveicoli e mezzi bellici.
Questo significava che la linea era di particolare importanza dal punto di vista strategico e
quindi era oggetto di attentati da parte dei partigiani. Il percorso non era lungo ma
attraversava una zona paludosa, con macchie boschive: siccome correva voce che fossero
saltati i binari e il ponte, subivamo un continuo rallentamento e interminabili soste. Pur di
non lasciar passare altro tempo, tenuto conto che Gomel non era poi tanto lontana, decisi
di riprendere lo zaino in spalla e ci rimettemmo in marcia. Nonostante le notevoli difficolt,
badavamo a non mettere piede fuori della linea dei binari poich i sentieri laterali potevano
essere minati. Giungemmo alla sede del Comando di Tappa italiano. L passammo la notte
fra i rumori e il trambusto dei convogli in corsa e le spinte dei vagoni dei treni in
formazione; poi, fattosi giorno, andammo ad espletare le pratiche conclusive.
Finalmente ero libero! Con un gran respiro di sollievo potevo gridare contro quella
maledetta guerra e i capoccioni che l'avevano voluta. La tradotta che stavano formando era
certo uno degli ultimi treni in allestimento per il rimpatrio dei resti del materiale e delle

truppe: ci che rimaneva dell'ARMIR, l'armata italiana, erano le migliaia di caduti e di


prigionieri. Il 16 marzo non fu un giorno come gli altri ma un giorno di spasmodica attesa:
le ore passavano e la sera stava per sopraggiungere quando finalmente apparve uno
sbuffante locomotore che trascinava una lunga fila di vagoni. Noi eravamo l, trasognati,
mentre rivedevamo i compagni che avevamo salutato e lasciato due giorni prima. Si
susseguirono i controlli, le verifiche dei superstiti, degli automezzi e del materiale. In testa
al treno c'era il locomotore, poi il postale ed una carrozza passeggeri che faceva da sede,
ufficio, mensa e dormitorio esclusivamente per gli Ufficiali. Seguivano due vagoni chiusi,
come quelli che nell'anteguerra erano adibiti al trasporto degli animali e che servivano ora
al trasporto delle bestie-soldato. Il convoglio terminava con una lunga fila di carri piani,
sovraccarichi di automezzi tra cui spiccavano i camion con i segni della Crocerossa e fra le
cui cabine noi trovammo posto.
Fu il 18 marzo 1943 che inizi finalmente il viaggio di ritorno e del rimpatrio, ma solo dopo
ben 31 lunghissimi giorni e dopo 5.000 chilometri di tran tran e di stanca vita sedentaria
volse al termine. Fra l'oscurit della notte in cui veloci ombre si susseguivano, noi stavamo
rannicchiati e ci lasciavamo trastullare dai sussulti della corsa e vincere dalla sonnolenza,
pensando ai ricordi dei giorni trascorsi. Di giorno, il paesaggio appariva sempre lo stesso:
prati e radure, betulle e conifere fuggivano al nostro passaggio e tali visioni rivivono
ancora nella mia mente. Si viaggi nella zona centrale della Russia Bianca e si giunse
verso sera a Minsk dove il treno ferm la sua corsa in una selva di binari. Zelanti guardie
locali ci proibirono di scendere fino a quando il treno raggiunse finalmente il terminal, di
fronte ad un ampio caseggiato che era il Campo contumaciale. In quel luogo, come derelitti
che potevano essere portatori di infezioni coleriche o di tifo petecchiale, fummo costretti a
scendere con tutti i nostri stracci e in fila, aspettando il nostro turno, a subire, tramite
forbici e rasoi, la completa eliminazione di tutti i nostri "peli". Il trattamento si concludeva
con una doccia e col rivestimento dei nostri indumenti che nel frattempo erano stati
bolliti. .. Lasciato quel terminal, inizi la corsa alla volta di Brest, verso sud-ovest, il confine
polacco: fu l'inizio di un lunghissimo rosario fatto di innumerevoli soste forzate per dare la
precedenza ai treni che, in senso contrario, andavano e venivano ad alimentare il fronte del
nord-est. Furono necessari 30 giorni e 30 notti per superare il percorso che va da Minsk
toccando Brest, Varsavia, Kiev, Cracovia, e attraversando la Slovacchia e l'Austria, giunge
a Tarvisio confine, il suolo della Madrepatria. Il susseguirsi delle visioni delle rovine di
Brest e Gracovia prima e dell'immensa pianura della Slovacchia e dell'Austria poi, non
furono sufficienti a distrarci e a far vincere la noia. Era una sofferenza continua
l'incessante numero delle fermate di giorno e di notte durante le quali noi ci sentivamo
abbandonati da tutti e colpevoli per essere sopravvissuti..
Avvicinandoci all'Italia il tempo si manteneva benigno. Le previsioni erano buone e il vento
era quello di primavera; si presagiva aria di festa perch l'eco dei rintocchi delle campane
si propagava fra le montagne annunciando che la Pasqua era vicina. Il nostro cruccio era
quello di non poterla festeggiare in famiglia. Finalmente il treno ferm la sua corsa a
Tarvisio Dogana. Una certa euforia si manifest: eravamo in Italia e si compiva l'odissea. I
finanzieri ci accorsero calorosamente e alcuni di loro ci accompagnarono al piazzale della
stazione dove una Compagnia di militari rendeva gli onori di rito al suono della banda e
alcune ragazze, con cestini di fiori e sorrisi, festeggiavano il rimpatrio degli ultimi
superstiti. Finita la cerimonia, due pullman ci accompagnarono a Camporosso in un
Campo di contumacia dove le autorit ed altri militari ci schedarono minuziosamente e ci

tennero in "caotica" prigionia per 15 giorni, da trascorrere con giochi, divertimenti vari,
spettacolo di riviste condotte da intraprendenti donnine con lo scopo, simile a un lavaggio
del cervello, di farci dimenticare i patimenti della campagna di Russia. Era il 18 aprile,
vigilia di Pasqua. L'uscita era preclusa in modo assoluto e i giorni erano diventati
opprimenti: la voglia di tornare al paesello, di rivedere la famiglia, i fratelli, i compagni, si
faceva sempre pi pressante mentre del "can-can" non me ne importava nulla. Venne
finalmente l'ultimo giorno. Mi fu data una nuova divisa, nuovi indumenti, nuovo zaino e con
una licenza straordinaria di 30 pi 10 giorni, fui accompagnato alla stazione di Tarvisio. Mi
furono consegnati i documenti di viaggio.
Era il 3 maggio 1943. Durante l'ultimo tragitto in treno, immaginavo la gran sorpresa che
avrei fatto ai famigliari; infatti, del mio ritorno nessuno era stato informato. Scesi a Treviso
e trovai la coincidenza per Vicenza dove arrivai verso le quattro del pomeriggio. Avevo due
ore di attesa per il trenino della Riviera Berica detto "la vacca mora" e quindi per ingannare
il tempo, m'incamminai verso il Santuario del Monte Berico, dedicato alla Madonna, per una
visita di ringraziamento. Con me c'era Lilla al guinzaglio che avevo lasciato di guardia allo
zaino nella piazza antistante la chiesa e che roteandogli intorno, teneva a bada i curiosi
offrendo cos lo spettacolo della sua intelligenza. Dopo aver preso il trenino arrivai
all'imbrunire alla fermata del paese "Ponte di Mossano" e i tre chilometri che mi dividevano
da casa li superai con passo svelto, senza sentire alcuna stanchezza. L'incontro con i
famigliari fu indescrivibile: i pianti di gioia, le manate sulle spalle, gli sguardi compiaciuti
delle zie, dei vicini e pi ancora quelli del nonno, esprimevano la fortuna ed il miracolo nel
rivedermi vivo e sano, nuovamente fra loro.
Ma non era finita!
Dopo il rimpatrio, fui nuovamente assegnato al Q.G. Sezione Commissariato di Bolzano.
La guerra ora infuriava non in Russia ma in Italia. Il 25 Luglio viene "liquidato" Mussolini.
"La Guerra continua", diceva il comunicato di Badoglio! Poi l'8 settembre! La fuga dei capi,
con il sovrano in testa. La "Guerra continua" ma non si sapeva contro chi. L'esercito allo
sbando.
A Bolzano in poche ore gli eventi precipitarono: fatto prigioniero dai tedeschi, fui sbattuto
nel greto del torrente Talvera; ci attendeva la deportazione in Germania; dopo cinque giorni
- e fu un vero miracolo- sono riuscito a fuggire. Poi....e poi....
Sante Mucchietto
Prosegue il redattore di queste pagine: Dopo certe esperienze iniziano i silenzi, si diventa
muti, per giorni, per mesi, per anni. Con nessuna voglia di raccontare.
Per Sante Mucchietto, in Italia, come per molti italiani, ebbe inizio una seconda fase di vita,
molto pi dura di quella trascorsa in Russia. Per lui essere vivo in Italia -lo ha detto- gli
sembr quasi un miracolo, dopo che molti suoi compagni da quel campo di
concentramento in via Resia, messi su un carro-bestiame finirono deportati in Germania.
Quella tragica esperienza in Russia e poi anche quell'umiliazione di essere catturato a
Bolzano dagli stessi tedeschi, l'aveva portato ad un totale mutamento di carattere, e vide
cos nascere in lui una feroce avversione verso la guerra, e verso... (verso chi, lo possiamo

benissimo immaginare: "quelle altre "nobili" e "onorevoli" fughe!).


Ma non finiva l. Si sentiva circondato da un doppio nemico: da uno era ricercato come
disertore, mentre l'altro (e questo fu per molti un dramma senza via d'uscita) se non
disertava diventava lui il bersaglio preferito, come se fosse solo lui il responsabile del "
disastro".
Riuscendo a sfuggire pi volte ai rastrellamenti, si un e collabor in modo autonomo con
gruppi di partigiani del Vicentino e del Padovano e per quel periodo che va sino alla
liberazione ebbe a dire: "Feci il vero uccel di bosco, cos da vivere da bestia tra le bestie".
Al posto degli affetti (a quanti, dopo aver sofferto, accaduto la stessa cosa!) c'erano le
ritorsioni; il padre, lo zio, i compagni di scuola erano filofascisti, alcuni anche componenti
della X MAS e della nota "S.Marco". Dunque, di chi fidarsi? La casa, il paese erano occupati
della SS Tedesche. Dove andare, con chi, contro chi e a far che cosa?
Fin in Italia come sappiamo da altre pagine, anche questo oscuro periodo. A liberazione
avvenuta Sante Mucchietto ebbe una croce al merito per la campagna di Russia. Negli anni
successivi collabor prima per rimettere in sesto le condizioni della famiglia, in seguito
decise di cambiare vita e di crearsi una famiglia, un'attivit. Da anni pensionato e il suo
tempo libero occupato da due hobbies particolari: collezionare minerali e scolpire
materiale ligneo. Per arricchire la sua collezione, partecipa a incontri e a mostre di
scambio, alternandosi nello studio e in approfondite ricerche; inoltre un instancabile
lavoratore e sostiene che il lavoro stesso gli restituisce la giovinezza amaramente vissuta
ed come buon medicinale per scordare le esperienze e gli orrori della guerra.
Sante Mucchietto nato il 1 novembre 1921 a Mossano,
piccolo comune del Vicentino noto quale Paese dei 14 Mulini.

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