skin scrive a un certo punto che si cav di pi dalle rovine di Ninive che dalla ricostruita Mila- no. Ovviamente mi accingo a fare un uso oppor- tunistico di questa sentenza: Ruskin alludeva alla Milano capitale dellImpero Romano dOcciden- te, e quando scriveva la Milano cinquecentesca era ancora in gran parte esistente, anche se gi se- gnata dallintensa attivit edilizia del primo Otto- cento. Dopo venne la nuova Milano monumen- tale di fine secolo, il piano regolatore, le bombe, la ricostruzione. Sicch oggi il centro antico di Milano davvero una citt ricostruita, e della Milano del Cinquecento rimangono poche vesti- gia, molto alterate o restaurate (cio, secondo Ruskin, distrutte nel peggiore dei modi). Non sorprende quindi che la storia del modo di costruire appaia oggi, a Milano, in ritardo ri- spetto ad altri contesti: non si tratta tanto di una disattenzione degli studiosi, quanto della ogget- tiva difficolt di riscontrare sul reale gli indizi forniti dai documenti darchivio. I riscontri sul reale possono essere svolti inda- gando le zone nascoste, meno soggette a manu- tenzioni, dove si possono perfino trovare muratu- re non intonacate e mai rimaneggiate; per appa- re davvero difficile ricostruire un quadro com- plessivo del costruire storico, che non si limita ai muri, ma comprende le finiture, soggette natural- mente a usura e, pi recentemente, a cicli di so- stituzione. Cos appare ancora difficile avere un quadro dei serramenti e delle pavimentazioni, e in gran parte le strutture lignee sono perdute, in particolare nelle coperture, devastate dagli incen- di seguiti ai bombardamenti del 1943, e poi ge- neralmente sostituite, anche quelle che si erano potute riparare, con strutture in cemento armato. Queste premesse giustificano lo stato dellar- te sul modo di costruire del Cinquecento mila- nese: gli studi sono per lo pi recenti, e il tema si affermato non come altrove, ad esempio a Ge- nova, quale estensione agli edifici di et moderna dei metodi dellarcheologia medievale, ma stret- tamente a partire dalle indagini archivistiche, con una ben precisa finalit esegetica. Si trattato cio inizialmente di capire i termini tecnici usati nei documenti relativi alla storia dellArte, cer- cando Bramante e trovando Amadeo, pi che di fondare un diverso punto di vista nella storia del- larchitettura, una storia speciale con i suoi sta- tuti disciplinari e i suoi limiti. Quindi gli studi specificamente dedicati alla costruzione nel Cin- quecento lombardo non sono molti, e poich ri- sentono di questa matrice documentaria riguar- dano gli aspetti organizzativi e i risvolti economi- ci, o la trasmissione del progetto dallideatore al- lesecutore, piuttosto che le questioni strettamen- te tecniche e le pratiche costruttive. Pertanto questo mio intervento, essendo prematura qualsiasi affermazione perentoria, tender soltanto a fornire spunti e formulare ipotesi di lavoro: compito dal quale lo stato del- larte che ho descritto non esime. In particolare vorrei impostare alcune dire- zioni di ricerca, o per meglio dire di verifica, su tendenze che le conoscenze attuali sembrano in- dicare, ma soltanto studi specificamente impo- stati potranno confermare, smentire o meglio definire. Parlo di tendenze perch in generale prediligo una visione dinamica dei fenomeni storici, anche in quel campo del cantiere edilizio che sembra regolato da un tempo lento e da fe- nomeni di lungo periodo. Subito dopo la met del secolo, ledilizia milanese scossa dallarrivo di architetti forestieri al servizio di committenti pi ambiziosi. Allora la curiosit di sapere come le cose sono fatte, perch tra laltro ci serve per averne efficacemente cura, assume in questo ca- so anche il fascino di un problema storiografico elegantemente complesso. Ci chiediamo se, co- Stefano Della Torre Tecnologia edilizia e organizzazione del cantiere nella Milano del secondo Cinquecento 1. Pellegrino Tibaldi, Progetto per il Battistero del Duomo di Milano (Biblioteca Ambrosiana di Milano, F 251 Inf., n. 15), particolare della struttura nascosta della trabeazione.
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 300 me appare verosimile, le novit formali ebbero un corrispettivo sul piano della scelta dei mate- riali, dei metodi per la loro posa in opera, della organizzazione del cantiere, della composizione sociale dellambiente dei costruttori. Le tesi che propongo si possono sintetizzare in tre punti: nel secondo Cinquecento a Milano si riscontre- rebbe una generalizzata pratica della costruzio- ne alla moderna, un maggior uso della pietra in funzione decorativa, una progressiva conqui- sta del mercato delledilizia, o almeno di un set- tore di esso, da parte di famiglie di costruttori e specialisti provenienti dalla vicina regione dei laghi: ovvero intelvesi e ticinesi. La costruzione alla moderna La struttura di S. Fedele, che sembra essere il ca- so limite, cos giocata sulla riduzione degli spes- sori murari da sorprendere se confrontata con al- tre architetture coeve; ma non si tratta certo di un caso isolato, n le volte a vela accoppiate esibisco- no audacia costruttiva, o rispondenza goticheg- giante della forma allo schema statico. Quindi dubito che nel caso di Pellegrino si possa parlare propriamente di una immaginazione strutturale nuova: semmai il suo atteggiamento consente di portare alla ribalta una tendenza generale del se- colo, ovvero la costruzione alla moderna. Traggo questa espressione dalle categorie con cui gli archeologi classificano le murature. Muratura alla moderna quella, non a caso apparsa tra Quattro e Cinquecento, in cui lap- parecchio apparentemente meno curato, meno rispondente alla logica propria di ciascun ele- mento, eppure svolge perfettamente la sua fun- zione di muro portante, solido quanto lopera di un provetto muratore-scalpellino medievale. Spesso questo modo di costruire viene condan- nato, descritto come uno scadimento qualitati- vo. Quando restaur il palazzo Spinola devasta- to dal bombardamento, il Cassi Ramelli lament le marachelle del capomastro Pietro da Lona- te, che aveva fissato i pezzi di ceppo del corni- cione non con opportuni voltini di laterizi e malta ma con la sbrigativa disposizione di travi di castagno, e aveva fornito una sconsolante qualit di malta nelle porzioni di muro verso cortile 1 . appena il caso di notare che queste marachelle, da affiancare alluso generalizzato di tiranti lignei annegati nelle murature, non avevano impedito alla struttura di stare in piedi per quasi quattrocento anni. In un siffatto contesto tecnologico succede che larchitettura allantica recupera gli ordini e le proporzioni della classicit, ma non lantico modo di costruire per masse murarie: si costrui- sce invece secondo pratiche che rispondono al regime economico del tempo, e di fatto si tradi- sce la logica strutturale ostentata come ideale dellarchitettura. Si verifica cio uno scarto tra la forma visibile e la struttura che la materializza. La forma classica rappresenta di per s unidea costruttiva, ma la sua costruzione reale risponde a unidea diversa, a un funzionamento struttura- le che non quello esibito, ma quello ottenuto attraverso una serie di artifici, che costituiscono il sapere non dei trattatisti ma dei pratici, non dei disegnatori ma della gente di cantiere curio- sa non tanto di teoria quanto, semmai, di mec- canica. Nella maggior parte dei casi, larchitetto vive a cavaliere di questa contraddizione, non lavverte o non la confessa: ma si vale del saper costruire alla moderna per adattare il linguag- gio classico alle esigenze contingenti. Nel Cinquecento milanese lesempio forse pi clamoroso di questo dissidio la questione insorta attorno al battistero del Duomo di Mila- no. A proposito di questo progetto di Pellegri- no, Vignola pronunci la famosa, e perentoria, sentenza: le fabriche bene intese, vogliono reg- gersi per se stesse, & non stare attaccate con le stringhe 2 . Una sentenza che avrebbe comporta- to la condanna della quasi totalit degli edifici rinascimentali, e che sembra figlia dellipocrisia, perch vero che nel corso del Cinquecento le catene intradossali vengono in molte fabbriche 2. Milano, S. Fedele, fianco verso Casa Professa, dettaglio dellammorsamento di una semicolonna lapidea nella muratura laterizia.
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 301 evitate, ma non per questo si rinunciava alluso generalizzato di catene nascoste, estradossali e spesso a braga. La questione notissima, e fu chiamato in causa anche Palladio il quale, coe- rentemente con la propria impostazione, appog- gi lidea di un progetto diverso, con interassi minori; per val la pena di esaminare con atten- zione la risposta data da Pellegrino alle conte- stazioni. Chiamato a dare conto per qual causa habbiati posto tanta quantit di ferramento neli architravi del battistero, Pellegrino rispose chel battistero non ha se non li ferramenti ne- cessari per tenerlo si fortemente legato insie- me..., con dui ligati di ferro: uno nascosto so- pra delle architravi, che per esser loro de quat- tro pezzi, gli conviene detto legamento per te- nerli insieme, et laltro alla somit di tutta lope- ra, ch nascosto sopra della cornice, chessendo lei de molti pezzi, non vi vole manco rimedio; ed ambidui si vanno ad incatenarsi con le stanghe che suono sopra le quattro colonne.... E ag- giunse: Ma se si fosse saputo con quanta dili- genza et arte si sia provisto, che li detti architra- vi restino forti et perpetui, non si sarebbe... cre- duto che io li avessi... indeboliti, perch s pro- visto per la perpetuit sua di fare, che tutti li marmi che suono sopra di s non aggravano n sappoggiano sopra li detti architravi, se non al dritto delle colonne; anzi il carico che vi sopra come frigio, cornice et frontespicio, s accomo- dato con tal arte, che se bene li architravi si vo- lessero rompere solo per la sua propria gravez- za, non potrebbono, perch il peso di sopra tie- ne per forza il detto architrave solevato, et quan- to pi detto architrave pesa, tanto pi la forza di quello di sopra diventa magiore per sostentare detto architrave, et come dimostra il presente disegno conforme a lopera 3 . Il disegno cui Pellegrino allude quello del fondo F 251 Inf dellAmbrosiana (ill. 1), che mostra questa invenzione trovata per realizzare una trabeazione su intercolumnij che passano di sei grossezze di colonna. In sostanza, il fre- gio nasconde una struttura a doppio puntone, chiusa inferiormente dal tirante metallico; il sot- tostante architrave collegato a tale struttura mediante un tirantino, che in pratica ne dimez- za la luce 4 , e lo stesso effetto ottenuto per la cornice, che trova un appoggio centrale. stato scritto che in un secolo nel quale im- pervers la varianza egli ordini mentre pochi o nulli furono gli avanzamenti nel campo delle strutture... il Pellegrini, entro i limiti delle sue possibilit, imperson lesigenza di rimettere in moto limmaginazione strutturale 5 . A me pare che lapporto di Pellegrino non giunga a un rin- novamento delle concezioni strutturali, ma sia sta- to tutto compreso in quella ricerca di far quadra- re le forme classiche con la costruzione alla mo- derna che fu comune al suo secolo, a partire dallo stesso Bramante. Per un precedente si pu pensa- re alle alterne fortune di Jacopo Sansovino come strutturista, e alla icastica frase con cui Pietro Aretino comment il crollo della incatenatissima volta della Libreria: Gli abiti de le architetture antiche non si confanno ai dossi delle moderne 6 . significativo che la capriata pellegriniana sia tutta compresa nel fregio del battistero, a di- mostrare quanto larchitetto ci tenesse ad armo- nizzare la propria invenzione con la logica degli ordini. Tuttavia il brano che abbiamo letto mo- stra anche come il compiacimento di Pellegrino per la propria invenzione si esprimesse quasi nei termini del gusto per la meraviglia, per lesperi- mento che sorprende, per il paradosso apparen- te, che non tale per chi conosce e pratica la meccanica. Il pensiero corre ai contemporanei repertori di macchine, come quello di Agostino Ramelli. Se il Trattato pellegriniano offre scarsi elementi per unindagine in tal senso, nuovi in- dizi vengono dal catalogo della biblioteca pelle- griniana, reso noto da Marzia Giuliani 7 . Si veri- fica la presenza di due volumi di Euclide, Gale- no e Plinio; inoltre nella biblioteca si conserva- vano manoscritti pellegriniani oggi perduti, tra cui un trattato di scienza militare che poteva ben diffondersi nel campo delle invenzioni di mec- canica, e lascia ipotizzare un aspetto della cultu- ra pellegriniana finora sottovalutato. Limpressione comunque che simili ricer- che e invenzioni fossero patrimonio diffuso, an- che se forse non generale, e che semmai Pelle- grino sia stato, soprattutto a Milano, portatore di un pensare in grande che finiva per richie- dere innovazione tecnologica nelluso dei mate- riali, nelle dimensioni e nelle ambizioni. A Milano invece non sembra aver trovato spa- zio una riproposizione integralista del modo di 3. Sezione del muro laterale della chiesa di S. Fedele di Milano.
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 302 costruire degli Antichi, fondata sulluso di grandi masse murarie senza le stringhe condannate dal Vignola. Lo stesso Martino Bassi, che si fece pa- ladino di una stabilit discendente soltanto dalle corrette proporzioni, a S. Lorenzo fin per sentir- si rinfacciare da Tolomeo Rinaldi, architetto emergente che si faceva forte della propria for- mazione romana, proprio luso delle catene, e con le stesse parole di Vignola che nei Dispareri ave- va divulgato: Che m. Martino abbia produto fal- se propositione veggasi per el libro fatto contra di m. Pellegrino, dove con fede de tanti valenthomi- ni lo condanna dicendo che le opere ben intese vogliono per se stesse mantenersi et non star at- taccate con le stringhe et oggi in San Lorenzo vol per principal fondamento et resistenza siano li ap- parenti et nascosti incatenamenti 8 . Per saperne di pi avremmo bisogno di qual- che caso controverso accompagnato da una ar- gomentata documentazione. Purtroppo gli indi- zi trovati sul crollo in corso dopera del tiburio di S. Vittore non hanno finora portato a cono- scere meglio i termini della questione: alla fine il crollo viene imputato a fondazioni insufficienti, e si ripara allargandole e inserendo nei pilastri delle pietre di collegamento. Molto ricca sembra essere soltanto la documentazione sulla ricostru- zione di S. Lorenzo, caso interessantissimo per la presenza delle quattro torri antiche a con- trafforte della cupola, che meriterebbe uno stu- dio specificamente orientato che vada oltre i li- miti di quello compiuto pochi anni fa da una quipe dellUniversit di Firenze 9 . I materiali La seconda questione che intendo discutere se nel secondo Cinquecento ledilizia milanese ve- da qualche significativo cambiamento nellim- piego dei materiali. La struttura muraria degli edifici milanesi del secondo Cinquecento costituita, secondo la tradizione padana, prevalentemente di mattoni. Le forniture venivano pagate a numero, un tan- to al migliaio di pezzi. In particolare sappiamo che il prezzo delle costruzioni era aumentato dalla peste in qua (cio dopo il 1576), per la ca- restia delle materie 10 : secondo una testimonian- za dellepoca i prezzi dei laterizi erano passati da circa 18 a circa 22 lire al migliaio 11 . Di solito i contratti di fornitura ne specificavano la qualit con la formula pro medietate fortium et pro medietate albasiorum. La distinzione, funzione della temperatura di cottura, garantiva al forni- tore laccettazione di prodotti meno riusciti nel- la percentuale fissata, e al committente la certez- za che almeno una parte della fornitura avrebbe avuto caratteristiche ottimali. Le fornaci da laterizio erano diffuse in tutto il circondario di Milano, ma le condizioni pi fa- vorevoli per impianti destinati a fornire un gran- de mercato si avevano dove oltre allargilla era possibile disporre a buon prezzo di sabbia e di legname da ardere, e soprattutto dove era possi- bile accedere a comode vie di comunicazione verso la citt: sicch le fornaci si ritrovavano pre- valentemente lungo gli assi costituiti dai Navigli, tanto che in taluni contratti si precisa se i lateri- zi dovessero provenire dal Naviglio Grande, o da quello di Bereguardo, o da quello di Martesa- na. Lindustria e il mercato dei materiali da co- struzione e della pietra, a Milano, si bas sempre sulle infrastrutture create in et medievale. Il si- stema dei Navigli consentiva il trasporto a Mila- no di materiali da costruzione provenienti da un vasto settore della regione prealpina, dal lago Maggiore allAdda, e la struttura produttiva creata per costruire il Duomo con il marmo del- le cave di Candoglia, donate dal Duca alla Vene- randa Fabbrica, costituiva il modello. Mi pare che questo sia un esempio convincente di quan- to lo studio della costruzione riesca a connettere lesame delle cose, la rievocazione di fatti e lo studio delle vocazioni territoriali. Per i laterizi, Milano costituiva un mercato con i suoi luoghi di produzione e i suoi magaz- zini; soltanto nelle campagne, lontano dalle vie navigabili, sopravvisse, anche nei secoli successi- vi, luso di impiantare fornaci temporanee, i co- siddetti pignoni, appositamente per il cantiere che si andava ad aprire. Nel 1560 troviamo un decreto che stabilisce la misura dei mattoni e delle altre principali tipologie di laterizi. I mat- toni comuni, o pietre grosse, dovevano misu- rare, prima della cottura once 6 per 3 per 1,5, cio circa cm 30 per 15 per 7,5. Tali misure, do- po un tentativo nellultimo decennio del Cin- quecento di aumentarle, contro il parere sia dei fornaciai che degli ingegneri, furono conferma- te da successivi decreti per tutto il Seicento. Na- turalmente un mercato come quello milanese presentava tutte le condizioni perch i fornaciai non si attenessero a tali decreti, tanto pi che per lunghi periodi il prezzo dei mattoni fu fissa- to a sua volta per decreto, mentre variavano ta- lune voci di costo. Una ricerca recentemente conclusa 12 ha dimostrato come nellarco di due secoli, a dispetto delle leggi, i mattoni prodotti a Milano abbiano avuto una significativa diminu- zione di spessore: lo spessore medio rilevato at- torno al 1460 di cm 7,2, nel 1580 si gi scesi a 6,4, nel 1700 a 5,6. Invece la lunghezza, pi fa- cile da controllare, rimane costante, e accusa an- zi una leggera crescita, di circa un centimetro lungo larco dei due secoli studiati. Tale dato, sorprendente, pu essere attribuito a un minor ritiro dovuto a una minor temperatura di cottu- ra. In altre parole, non potendo rubare sulla quantit di argilla, i fornaciai avevano trovato il modo di risparmiare sul combustibile, a scapito naturalmente della qualit del prodotto.
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 303 I tetti venivano generalmente coperti con cop- pi. Soltanto per le chiese quae insigni structura exaedificantur le Instructiones borromaiche pre- scrivevano limpiego di tegole di rame o almeno di piombo, secondo antiche memorie: per la chie- sa di S. Fedele, tuttavia, va segnalato un brano di lettera, in cui si dice che il tetto era in corso di realizzazione, e non sarebbe stato coperto nella consueta maniera lombarda, di coppi mal fatti, bens di tegole e canali con le sue pianelle sotto, alla romana 13 . Nel suo trattato Pellegrino parla ripetutamente di coperture a coppi et ombresi (embrici), specificando anche il consiglio che i travelli squadrati si posano non pi lontani che comodamente ve si possi coprire con tavolete o pianelle di terra cotta poste in calcina, acci che, penetrando delle ombreci alcune goce, possi so- pra esse pianelle passare alli stelicidi senza trovar fessatura da penetrar in lo edeficio 14 . Il cotto era anche una soluzione frequente per le pavimentazioni; in alcune fabbriche importanti la provenienza dei laterizi destinati alla pavimen- tazione era differenziata rispetto a quelli ordinari, nella ricerca di materiali pi resistenti al calpestio. Le forniture pi ricercate a tal fine provenivano, attraverso il Naviglio della Martesana, dalla pia- nura bergamasca e in particolare da Caravaggio, tanto che nei documenti si trova spesso la locu- zione breve suolo di Caravaggio. La finitura del pavimento in cotto poteva essere pi o meno raf- finata: nei capitolati lo standard migliore sembra essere quello in cui gli elementi venivano stilati et fregati, equivalente, in linea di principio, al tagliati et rodati dei documenti romani. Sembra che nel Cinquecento milanese fosse peraltro gi in uso il seminato (astrico alla ve- neziana), e naturalmente il commesso di pietre colorate, perfettamente esemplificato dal pavi- mento del Duomo, sul quale esiste una notevo- lissima documentazione tecnica. La produzione e il mercato della calce aveva una organizzazione economica e una dislocazio- ne geografica non dissimile da quella vista fino- ra: talvolta le fornaci erano le stesse in cui cuo- cevano i laterizi, ma pi interessante il caso in cui si produceva calce a piedi delle cave, utiliz- zando il materiale di scarto. Ad esempio esiste- vano attivissime fornaci ad Angera. La calce pro- veniente dal Lago Maggiore era del resto molto apprezzata, e quella prevalentemente impiegata a Milano; alla luce delle conoscenze odierne ci significativo, in quanto spesso tali calci risulta- vano dalla cottura di dolomie e contevano quin- di una rilevante percentuale di carbonato di ma- gnesio 15 . Del resto studi in corso portano a pen- sare che anche in altre zone si preferisse, appena possibile, utilizzare calci magnesiache. Mattoni e calcina erano gli ingredienti per la costruzione delle murature (ill. 3-5). Secondo do- cumenti coevi 16 , per metter in opera un migliaio di mattoni e fare un muro finito si impiegavano cinque centenara di calcina, mentre ne bastava- no quattro o quattro e mezzo lasciando il muro non rebocato. Secondo un altro documento 17 , un quadretto cubo di muro comprende settanta- due mattoni. Inoltre il muro richiedeva qua e l degli elementi lapidei di rinforzo e collegamento, che prendevano il nome di ligati. A tal fine si impiegavano blocchi appena sbozzati di pietra dAngera, di sarizzo 18 o di granito, che venivano forniti dagli scalpellini insieme con le pietre lavo- rate. Il termine ligati designava anche i tiranti di ferro o di legno che si disponevano dentro il mu- ro, detti anche chiavi morte, mentre chiavi vive erano dette le catene lasciate in vista allin- tradosso degli archi. A questo riguardo possiamo registrare che in molti dei capitolati pellegrinia- ni da noi reperiti e studiati sono citati ligati de rogore 19 , e che Pellegrino dedica nel suo Trat- tato 20 un ampio passo a questa pratica costrutti- va, considerata dagli altri trattatisti non confor- me alle regole del buon costruire, e quindi igno- rata o condannata 21 . Sembra accertato che nel secondo Cinque- cento ledilizia milanese affidi alla componente lapidea una importanza maggiore di quanto non avvenisse nel Quattrocento e nel primo Cinque- cento. Si tratta evidentemente di unaffermazio- ne un po grossolana, che molti esempi potreb- bero smentire in tutto o in parte, ma credo che in qualche misura possa reggere. Divengono in- fatti sempre pi rare le fabbriche di qualche am- bizione che si possano definire totalmente rea- lizzate in laterizio; scompare la terracotta stam- pata, i cornicioni sono in pietra o, se in mattoni composti a formare gli aggetti, in malta sagoma- ta a imitare la pietra. Nelleconomia di un can- tiere, il costo della fornitura lapidea spesso del- lo stesso ordine di grandezza della fornitura e posa in opera della struttura muraria, ed gene- ralmente oggetto di un appalto separato. Inoltre si amplia la gamma delle pietre impiegate, delle quali converr fare una ordinata rassegna, tacen- do solo del marmo di Candoglia, riservato per ducale privilegio alla costruzione del Duomo. Via via pi raro divenne limpiego in elemen- ti dimportanza del sarizzo ricavato dai massi er- ratici di cui pullulava lalata pianura lombarda, spesso vicini alle strade e quindi comodi da car- reggiare una volta ridotti a pezzi semilavorati. Invece nel secondo Cinquecento si persegu limpiego di pietre pi belle e pi simili a quelle esotiche impiegate nei monumenti della Roma antica. Di qui, ritengo, la fortuna, per le innu- merevoli colonne dei tipici cortili milanesi, del granito di Baveno, pietra bella e resistente, di fa- ticosa lavorazione, dapprima quindi molto co- stosa, poi sempre pi accessibile grazie al siste- ma economico impiantato dagli intraprendenti
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 304 scalpellini 22 . Il punto di svolta nellimpiego di questa pietra, gi presente ad esempio nei chio- stri di S. Ambrogio, fu la realizzazione dei fusti delle grandi colonne dellinterno di S. Fedele, a partire dal 1569. Alte quasi otto metri e mezzo, esclusi base e capitello, esse rappresentano cer- tamente un richiamo allantico, ed in particolare alle colonne di granito dei monumenti romani: in seguito il mito della colonna gigante si leg al sogno di trasfigurare alla romana il Duomo, finch il fallimento del trasporto della prima co- lonna non impose di abbandonare il progetto di Pellegrino per la facciata 23 . Mentre lesecuzione delle prime colonne sembra aver comportato per gli appaltatori nu- merose difficolt 24 , anche a giudicare dal ritardo con cui si pervenne alla consegna, gli scalpellini devono aver poi tratto profitto dalla specializza- zione tecnologica, o almeno organizzativa, cos maturata. Si trattava di mettere a frutto i conso- lidati rapporti con i cavatori locali e con i tra- sportatori, ma probabilmente anche di ammor- tare una serie di investimenti per utensili, arga- ni, legnami, funi e cos via, che sarebbe stato as- surdo ed antieconomico utilizzare soltanto per le colonne di S. Fedele. In quegli stessi anni per- tanto gli stessi scalpellini, Scala e Boni, presero altri appalti o subappalti per grandi colonne di granito: ad esempio per S. Agostino di Piacen- za 25 , per la colonna che avrebbe dovuto costitui- re la Croce di Porta Tosa a Milano 26 , per due la- ti del cortile del Collegio Borromeo 27 . Per cono- scere il mondo di queste cave prezioso il trat- tatello scritto da Federico Borromeo in vista del taglio e trasporto delle grandi colonne per la fac- ciata del Duomo. Da esso apprendiamo che il metodo era quello delle tagliate, fatte non con i cunei lignei gonfiati dallacqua, ma con cunei di ferro battuti a giusto tempo 28 . Una volta incisa, la colonna doveva essere sollevata, con cunei o leve, e poi trasportata, via Ticino e Naviglio Grande, fino solitamente al Laghetto, cio alla darsena della cerchia dei navigli vicina allOspe- dale Maggiore, che era un punto dapprodo pri- vilegiato per la sua centralit e la sua vicinanza alla Cassina della Fabbrica del Duomo 29 . Le colonne uscivano dalla cava gi sgrossate e arrotondate, ma giungevano sul cantiere ancora bisognose di lavori di finitura. Secondo il capito- lato del 14 settembre 1570 per S. Fedele 30 , gli scalpellini dovevano consegnare i fusti forniti et saldi et senza machula. Nel contratto con i lu- stratori si precisa che le colonne sarano lassate dali scharpellini... lavorate ordinariamente et for- nite deli tasselli principale come luso suo ordi- nario comporta. Anche se i documenti non lo dicono esplicitamente, del tutto verosimile che lespressione lavorate ordinariamente signifi- chi che i fusti avessero effettivamente subito una prima lavorazione alla martellina. Comunque ai lustratori competeva di ribatter le dette colonne de minuto, dove il de minuto dovrebbe signi- ficare altre due mani di martellinatura 31 . Succes- sivamente si sarebbe dovuto fregarli unitamente et spoltigliarle in modo fregate che le dette colo- ne tornino tutte hunite et del lustro che lo esempio dato dali detti maestri fatto sopra di una delle dette colone in la detta fabrica: per questa operazione sembra che venissero usati non stru- menti metallici ma abrasivi in polvere o in pasta. Inoltre toccava ai lustratori empir minutamente di schaiole et stuchi fortissimi dove sarano li bu- si profondi et levar li altri difetti che possino ofender il lustro et la loro perfecione. La lustra- tura delle colonne avveniva a pie dopera, ed in tale operazione esse dovevano essere girate fin- ch fosse lustra tutta quella parte che sarebbe sta- ta in vista, secondo il giudizio dellarchitetto. La facciata e il fianco di S. Fedele, ma anche la facciata di S. Raffaele, mostrano limpiego di unaltra delle pietre caratteristiche del panorama milanese: la pietra dAngera, una dolomia cavata presso le rive del lago Maggiore 32 . Nel periodo che ci interessa le principali cave di Angera erano pos- 4, 5. Diverse soluzioni di apparecchiatura dei mattoni nei voltini dei camminamenti nel muro laterale della chiesa di S. Fedele di Milano.
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 305 sedute da membri della famiglia Besozzi, che die- dero un certo impulso allo sfruttamento, tanto da causare a fine secolo le rimostranze dei Borromeo, possessori della Rocca sovrastante, preoccupati che lo scavo non ne compromettesse la stabilit 33 . Il ceppo (ill. 6), detto cieppo di Vaprio nei documenti per S. Sebastiano 34 e per il Palazzo dei Giureconsulti 35 , ma largamente utilizzato an- che in Palazzo Marino e in S. Lorenzo, un conglomerato di origine fluviale e fluvioglaciale, i cui clasti, costituiti prevalentemente da quarzo e da feldspato, muscovite e frammenti di rocce sedimentarie 36 , provengono dallerosione dei monti attorno alle valli dellAdda e del Brembo: infatti le cave che rifornivano Milano erano col- locate appunto nella zona di Vaprio, Trezzo e Paderno, appena a valle della confluenza del Brembo nellAdda, dove tra laltro si stacca dal- lAdda il Naviglio della Martesana. A seconda della granulometria dei clasti, si distingue in ceppo rustico, mezzano e gentile, questultimo del tutto assimilabile a unarenaria. La pietra di Viggi una pietra calcarea, che si ricava nel territorio dei comuni di Brenno Useria, Viggi e Saltrio 37 . Come preda di Bren si trova indicata nei documenti relativi al Palazzo dei Giureconsulti 38 , al Collegio Borromeo 39 , ai capi- telli delle grandi colonne interne di S. Fedele, ma anche alla Cappella Trivulzio in S. Stefano, dove se ne prospetta luso in alternativa con la pietra dAngera, e al Santuario di Saronno. Il calcescisto di Ornavasso fu usatissimo a Milano sotto la denominazione di marmo ba- stardo. Lo Scamozzi ricorda che il marmo Ba- stardo di color biggio; come il Macigno; ma di grana viva, e durissimo... e di esso si servono quasi universalmente per far base, e capitelli, & ornamenti di porte e finestre per la Citt... la sua cava parimente sul Lago Maggiore, e dirim- petto a quelle del marmo del Duomo di Mila- no 40 . Tipica era lassociazione di basi e capitelli di calcescisto con fusti di colonna di granito di Baveno (ill.7). Un discorso a parte meritano i marmi e le pietre pi ricercate, impiegati nella costruzione di strutture decorative, come gli altari. Qui si trovavano le rare pietre dimportazione, tra cui il marmo bianco di Carrara, usato soprattutto per gli elementi figurativi. Questo materiale di mag- gior pregio veniva acquistato sulla piazza di Ge- nova; di l veniva portato a Milano attraverso un itinerario che, dovendo valicare gli Appennini, comprendeva necessariamente un lungo tratto stradale, con tutte le conseguenti difficolt. Nel caso di partite pi consistenti, peraltro, il marmo non era disponibile nelle sostre genovesi, ma di l si poteva ordinarlo dalla cava. Ovviamente la vicenda poteva essere lunga ed il costo finale del materiale portato a Milano risultava assai alto, specialmente al confronto dei prezzi ai quali si potevano avere gli analoghi, ma certo non al- trettanto belli, marmi bianchi provenienti dalle montagne lombarde. Un allargamento del mercato, ed un conse- guente maggior impiego di pietre di provenien- za lontana, si sarebbe verificato nel corso del Seicento: si impiegheranno marmo rosso di Ve- rona e marmo di Carrara, alabastri, broccatello di Spagna, pietra nera e gialla di Portovenere, rosso di Linguadoca... Importante fu nellarchitettura milanese lo- pera dei Ferrari di Arzo, principali fornitori del- le pregiate pietre policrome cavate nei monti del loro paese, ma anche accreditati di qualche me- rito per la capacit di innovazione tecnologica: sul loro conto si registra una testimonianza di Lelio Buzzi 41 : Tutti i marmi mischi che sono in opera in Domo sono stati dati tutti dalli detti Domenico e Giovanni Maria (Ferrari di Arzo), i quali hanno anco trovata linventione di segarli con lacqua 42 . La macchia vecchia di Arzo la pietra che, lucidata, imita le brecce dellantichit nelle colonne e nei fregi del battistero del Duo- mo e in innumerevoli altari e balaustre. 6. Milano, S. Sebastiano: particolare del paramento in ceppo dAdda del primo ordine. Laltezza dei giunti, evidenziata dalle stuccature del recentissimo restauro (1998), era prescritta dal capitolato. 7. Milano, S. Sebastiano: dettaglio del portale con la tipica associazione di pietre diverse: granito di Baveno per il fusto della colonna, calcescisto di Ornavasso per il capitello, ceppo dAdda per lelemento di trabeazione. 8. Milano, S. Sebastiano: la ripresa dal ponteggio evidenzia come, per un leggero eccesso di altezza delle colonne, larchitrave si incassi nel muro senza appoggiare sul capitello della controlesena.
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 306 noto, ma i documenti milanesi danno loc- casione di rilevarlo e ribadirlo, che lultima fini- tura dei pezzi si eseguiva sui ponteggi. Questo per almeno due motivi. Pellegrino stesso avverte che le pietre di marmo o daltre pietre vive da cavo impediscono molto le fabriche, quando tut- te si vogliono lavorare for de lopera, perch la- vorandole impedir a altri lochi. Nel condure e pore in opera molto si scantonano e si rompano con dano della borsa e della bellezza della opera e molto perdimento di tempo, che meglio sar a far infender li giusti piani delle pietre e di sopra e di sotto e della parte onde vano comesso una presso a laltra. Nel resto che apar de fuori si las- sino roze con tanta pietra che li venghi netti tut- ti li resalti e sporti delli ornati che si vol far, abondantemente tanto che basti, e por cos a la- voro, e poi in opera lavorare tutto quello che apa- re de fuori: risalti, capiteli, base o tonde o quadre, cornize e qual si voglia cosa che resti atacato alla muraglia 43 . Daltra parte non facile, e gli scal- pellini lo sapevano bene, preparare a pie dopera pezzi perfettamente combacianti (ill. 8). Perci i pezzi venivano predisposti di misura leggermen- te maggiore, per poi rifilarli in opera, come af- ferma lo stesso Michele Scala: Io quando metto una preda in opera et che la lavoro la lasso sem- pre uno poco pi lunghetta della misura perch molto meglio che sia lunga, perch se ne pu taliare via, che corta perch non si pu slongare ma bisogna farli taselli cosa che sta male, et se li picapredi harano iudicio tutti farano a questo modo perch come la pietra in opera sendo agor- da se li leva quello poco et si comoda seconda la misura benissimo et chi fa altrimenti non sano la- vorare 44 . Questa prassi contribuisce a spiegare le discrepanze tra liste di misure in opera e a pie dopera che si riscontrano nei documenti. Altra questione cruciale nella realizzazione di un paramento lapideo quella dellaggrappaggio dei pezzi alla muraglia retrostante (ill. 2): ovvio che un incastro troppo debole andrebbe a pre- giudizio della stabilit, mentre un incastro ecces- sivo comporterebbe uno spreco di materiale co- stoso. I costruttori erano anche perfettamente coscienti degli effetti deleteri del peso dei rivesti- menti lapidei, in particolare delle facciate, sulla stabilit delle fabbriche: il che suggeriva efficaci commessure in verticale, affinch i pezzi posasse- ro uno sullaltro, e non fossero semplicemente appesi come mensole alla muratura. I giunti poi dovevano essere sottili per motivi estetici, ma daltra parte le pietre vive non dovevano essere a contatto tra loro in superficie, poich ci avreb- be potuto dar luogo a concentrazioni di sforzo con il pericolo di rotture locali non meno antie- stetiche e pregiudizievoli per la durata dellopera. Si denuncia coscienza di questo problema in un capitolato del 1582, probabilmente ispirato da Pellegrino, per S. Sebastiano: Avertendo ancho- ra di non mettere in opera pietre de vivo che ser- ri le commissure in superficie di fuori, anci dette commissure non serri ma solo il serramento sii alla volta del mezzo del muro aci il carico posi nel mezzo et non nelle superficie 45 . Ad un giun- to invisibile, cio di altezza minima, era dun- que preferibile un giunto pi alto, da stuccare, e dunque visibile, ma sicuro. Un altro importante aspetto della tecnica del- lo scalpellino la scomposizione dei pezzi in par- ti separate, per razionalizzare la lavorazione ed il montaggio. Ad esempio nei capitolati per S. Fe- dele si prevede che i capitelli delle grandi colon- ne interne possino essere di pezi 3 luno, per lal- teza compiendo per ogni pezo tutta la circonfe- renza de la foglia et caulicoli 46 ; ma anche i capi- telli dellordine superiore esterno sono costituiti di due parti assemblate. Perfino il collarino della cornice dimposta esterna suddiviso in una par- te liscia congiunta ad una parte elaborata che for- ma cavetto, listello e astragalo: in questo caso evidente come si separasse la parte di pi facile esecuzione da quella pi difficile, cos da poterle affidare a maestranze di differenti abilit. Laspetto che i documenti meglio evidenziano quello del prezzo delle pietre e dei criteri di sti- ma. La questione offre diversi aspetti degni din- dagine: in primo luogo, sar da distinguere il ca- so in cui la pietra fornita dagli scalpellini, in tal caso appaltatori, da quello in cui gli scalpellini lavorano materia prima fornita da committenti: in tal caso gli scalpellini sono semplici imprendito- ri. Poi sono significativi il metodo usato per mi- surare lopera, ed i parametri di apprezzamento. Nella Milano del Cinquecento non si pratica- va un solo metodo di misura per le pietre da ope- ra, e la determinazione del prezzo era riferita a di- versi parametri che nelle varie occasioni potevano assumere pesi maggiori o minori. Inoltre il prez- zo di una pietra lavorata si componeva di pi vo- ci: la materia prima, la lavorazione, il trasporto, i dazi... Mentre per quanto riguarda le forniture di granito di Baveno Scala e soci figurano sempre come appaltatori, invece per la pietra dAngera ri- sultano modalit diverse, cio fasi in cui i gesuiti trattano direttamente con i padroni delle cave per avere fornite navate di pietra grezza, e fasi in cui agli scalpellini viene pagata sia la pietra che la manifattura: di conseguenza cambiano le mo- dalit delloperazione di misura e stima. In generale, dai documenti si pu osservare che alcuni pezzi, quelli ben individuabili, veniva- no pagati a numero, ad un prezzo concordato preventivamente o definito a posteriori dallo sti- matore: cos le colonne, i piedestalli. Nel caso invece di elementi seriali continui, in cui si po- tesse riconoscere una dimensione prevalente sulle altre, si pagava a quantit, mediante una misura lineare. In altri casi i pezzi si pagavano a peso. Ad esempio a S. Fedele nel documento del
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 307 22 dicembre 1581 i pezzi di sarizzo venivano s descritti attraverso le loro tre dimensioni massi- me, ma caratterizzati attraverso il loro peso, espresso in libbre e centenara 47 , e valutati ad un prezzo, di 30 soldi, riferito al centenaro: per li pezi numero 4 ciave di sarizo: primo pezo brac- cia 2 oncie 10 longo, largo oncie 19, grosso on- cie 7 da centenara numero 22 libre 25 a soldi 30 per centenaro.... Questo criterio di stima del resto ampiamente documentato in altri casi 48 . In alcuni casi il prezzo delle opere si riferisce alla sola manifattura, essendo la pietra fornita dal- la committenza o pagata a parte; in altri casi si os- serva che il prezzo si compone di preda e di fa- tura. Questo significa che la fornitura della ma- teria prima era appaltata anchessa agli scalpellini. anche importante notare che, ad esempio, il rivestimento del fianco di S. Fedele non tutto di pietra dAngera, ma comprende anche parti, e se- gnatamente le semicolonne dellordine superio- re, in mattoni rivestiti da intonaco, probabilmen- te fin dallorigine un intonaco a finta pietra, se- condo un uso ampiamente attestato. Tuttavia sul- lintonaco in ambiente milanese le ricerche ap- paiono particolarmente arretrate, sicch non ancora possibile darne conto in questa sede. Qualche maggiore precisazione pu essere fornita a proposito delluso dello stucco, la cui an- tica arte era stata riproposta dallarchitettura rina- scimentale, in particolare, secondo Vasari, nella cerchia di Raffaello per merito di Giovanni da Udine 49 . Non si pu certo affermare che si debba a Pellegrino lintroduzione dello stucco nella Mi- lano cinquecentesca, ma non sembra fuori luogo ricordare la fama che Pellegrino si era guadagna- ta come stuccatore grazie alle opere eseguite a Bologna ed Ancona 50 , e lampio uso da lui fatto di questa tecnica in opere milanesi quali lo scurolo del Duomo o la cupola di S. Ambrogio. interessante che i principali imprenditori di opere in stucco siano anche imprenditori di opere in pietra: Antonio Abbondio fa gli stucchi in S. Ambrogio e gli Omenoni della casa di Leone Leo- ni, Bernardo Paranchino fa gli stucchi in S. Fede- le e innumerevoli imprese da scalpellino tra lo stesso S. Fedele, il Duomo, la cappella Trivulzio... Limpiego dello stucco riguarda sia la decora- zione architettonica realizzata attraverso gli ordini che le figure antropomorfe o zoomorfe che ten- dono al tutto tondo. Pellegrino indica che la stuc- catura anche un rivestimento superficiale: ... stuco, cio calcina di marmo et, incontro di arena, marmor pisto. Con questo non solo si copron le mura, ma ancor le pietre vile e roze di natura, co- me tufi et altre simili (e) le pietre delicate 51 . Quanto alla composizione, nelle opere di maggior corpo si nota la presenza della polvere di matton pesto, che ha funzione idraulicizzan- te per consentire alla massa del modellato di far perfettamente presa in tempi rapidi, cos da con- sentire lapplicazione del velo superficiale di marmorino. Il mercato del lavoro Il quadro tracciato si completa con una organiz- zazione del lavoro corrispondente a quella per- fettamente descritta da Luisa Giordano negli at- ti del convegno di Tours sul cantiere del Rinasci- mento 52 . Tuttavia, rispetto alla crescente impor- tanza delle opere in pietra o in stucco, un dato storiografico significativo che nella Milano del secondo Cinquecento si assiste alla conquista di questo settore del mercato da parte di imprendi- tori provenienti dalla regione dei laghi: cam- pionesi, luganesi, intelvesi, viggiutesi... In altre situazioni, le regole dei paratici degli scalpellini instaurarono delle vere e proprie poli- tiche protezionistiche, facendo pagare ai forestie- ri una soprattassa: il caso di Brescia e di Rezza- to per fare un esempio, e analoghe restrizioni vi- gevano a Milano da parte dellUniversit dei mu- ratori. Per larte degli scalpellini non esisteva a Milano un vero e proprio paratico, ma possiamo affermare con ragionevole sicurezza che tale fun- zione era svolta dalla confraternita dei Santi Quattro Coronati, che raccoglieva gli scalpellini operanti attorno al cantiere del Duomo. Su questa istituzione un recente studio 53 ha evidenziato alcuni fatti rilevanti. Allinizio del Cinquecento gli iscritti alla Scola sono lom- bardi, provenienti da svariate localit. A fine Cinquecento la confraternita non risulta pi at- tiva, ma viene ricostituita nel 1622. A questo punto, e per tutto il Seicento, sar del tutto ec- cezionale che uno scalpellino non provenga dal- la vicine montagne, parte delle quali, ricordia- mo, non apparteneva al Ducato. Soltanto nel 1716 fu restaurato lantico statuto che impone- va ai forestieri il pagamento di una tassa. Gli scalpellini operanti in Milano al tempo di Pellegrino erano comunque gi prevalentemente originari dei dintorni del Lago di Lugano, e vi- vevano in citt nella condizione tipica degli im- migrati, lontani dalla famiglia, bench il loro paese distasse in realt non pi di tre giorni di cammino. Ad esempio Jeronimo Quadrio scar- pelino danni 32, da identificare proprio col bra- vo intagliatore operoso a S. Fedele, risulta abita- re nel 1574 come pisonante (affittuario) in una casa nelle vicinanze del Castello, insieme con al- tri sette conterranei e colleghi darte, tra i quali il giovanissimo Fulgenzio Muttoni, che diverr famulo di Pellegrino negli anni a venire 54 . Ancora non disponiamo di ricerche mirate sulle cause e le conseguenze di questa nuova si- tuazione del mercato. Possiamo ben immagina- re che i magistri dei laghi abbiano messo in campo sia la loro competenza tecnica e intra- prendenza, che la loro capacit di organizzarsi economicamente e sorreggersi mutuamente at-
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 308 traverso gli inestricabili grovigli delle fideius- sioni. Levento scatenante sembra poi essere sta- ta la riforma imposta da Pellegrino alla Cassina del Duomo, dove fu quasi del tutto abolito il pa- gamento a giornata, pagando invece a incanto e a stima, cos da innescare una competizione tra gli scalpellini che mise fuori gioco i meno abili e i meno solidi economicamente. Anche tra gli scalpellini vale quanto stato osservato in gene- rale a proposito dei lavoratori delledilizia; e cio che nella dinamica storica si produsse, di fatto, una gerarchia sociale che vedeva maestri muratori economicamente forti e quindi in gra- do di assumere il ruolo di imprenditori, accanto a maestri egualmente qualificati dal punto di vi- sta professionale, ma economicamente deboli e quindi destinati a prestare lavoro come mano dopera salariata 55 . I maestri che compaiono negli atti notarili, dunque, appartengono alla prima di queste categorie. Ma alle loro dipen- denze operavano, oltre agli apprendisti che an- cora non si potevano fregiare del titolo di ma- gister, molti altri scalpellini dei quali soltanto per vie traverse e un po casuali ci stato tra- mandato il nome, in qualche caso accompagna- to da brevi note che ne lasciano intravedere la collocazione sociale e la sostanza umana. Per capire quel che accadde a Milano biso- gner forse verificare qui i modelli interpretati- vi con cui stato spiegato, ad esempio, il suc- cesso dei costruttori ticinesi nella Roma baroc- ca, da Domenico Fontana a Carlo Fontana 56 . Non sembra per che a Milano succeda tra i co- struttori quel che si verifica per i lapicidi e stuc- catori, anche se qualche famiglia di costruttori svizzeri, almeno dorigine, avrebbe assunto un ruolo determinante nel primo Seicento. Le fabbriche pellegriniane sono appannaggio di un gruppo abbastanza ristretto di capimastri: i Ciocca, i Piantanida, i Cucchi, i Motella... Come noto nel secondo Cinquecento Mila- no si dot di un paratico dei muratori e di un Collegio degli ingegneri-architetti, entrambi connotati da norme fortemente protezionistiche e da un chiaro sistema di regole deontologiche che doveva garantire la distinzione tra appaltato- re e ingegnere-architetto, quello al quale non converrebbe prendere le fabbriche sopra di s. Ci non impediva la presenza di muratori forestieri, eventualmente in qualit di salariati. Troviamo ad esempio un Cantoni, forse di pas- saggio da Genova, a S. Maria della Passione, e un personaggio come il valsoldese Domenico Mariano q. Francesco di Puria, che aveva fre- quentato Pellegrino in Bologna, in Ancona, in Pavia et qua a Milano, dove poteva dire di es- sere stato quello che ha murato tutte due le porte laterale del Domo, la volta della capella del Arcivescovato, la porta della Canonica verso il Domo et solo dello scurolo fatto di cotto, per poi trasferirsi a Vigevano lavorando per la regia Camera 57 . Evidentemente il Mariano era una creatura di Pellegrino, il quale si inser su un ambiente consolidato, ma portando certamente alcuni compaesani al seguito: va ricordata anche lapparizione del fratello di Pellegrino al cantie- re della Canonica degli Ordinari, apparizione fugace, forse, proprio perch era ai limiti della deontologia che Pellegrino progettasse e il fra- tello prendesse in appalto le opere. La figura dellingegnere collegiato milanese, la posizione privilegiata di Pellegrino, le affer- mazioni albertiane raccolte nel suo Trattato, il suo modo di mettere in pratica il primato del disegno sono argomenti gi trattati in unam- pia e spesso ottima letteratura. Vorrei quindi in- sistere soltanto sullaspetto che mi sembra an- cora da chiarire, che quello dei rapporti eco- nomici reali che si instauravano tra queste varie categorie cooperanti nel settore delledilizia. Pellegrino si era posto in pochi anni al centro della produzione edilizia milanese, dal momento che praticamente tutti i progetti di una certa im- portanza passavano per le sue mani; il processo del 1582/85, se port ad un verdetto di assolu- zione, fece comunque chiaramente emergere le relazioni di solidariet che si erano create tra lar- chitetto ed alcuni artigiani ed impresari. Potrem- mo anche affermare, con buona probabilit, che gli operatori vicini a Pellegrino erano i pi qua- lificati, quelli in grado di gestire i cantieri mag- giori e di realizzare le opere pi raffinate. Tuttavia esisteva certamente una pi vasta rete di relazioni e di scambi, che costituiva il ve- ro tessuto connettivo dellattivit edilizia mila- nese. Era frequentissima la costituzione di so- ciet, in cui il ruolo di un socio poteva essere anche limitato alla fornitura di materiali, o alla sua capacit di garantire facilitazioni di qualsi- voglia genere; daltra parte le varie clausole contrattuali degli appalti per cui era necessaria la figura di un fideiussore finiva per dar luogo ad una sequenza infinita e intricata di relazioni economiche tra gli operatori. Ma i rapporti po- tevano anche essere di natura pi semplice: il prestito di attrezzi, il noleggio di macchine, la cessione di materiali. Qual era il ruolo degli in- gegneri, e di un Pellegrino, in queste iniziative economiche? Il pagamento degli ingegneri av- veniva soltanto in proporzione al valore dello- pera disegnata o stimata, o vi erano regole non scritte sui donativi? Quale assetto aveva assunto il mercato immobiliare 58 , e chi ne muoveva le fi- la? Queste, per quanto ne so, sono domande an- cora senza risposta, alle quali forse non si trove- ranno mai risposte esplicite. Credo per che sar utile tenerne conto per una pi profonda comprensione degli aspetti organizzativi che so- stanziarono il contesto dellarchitettura milane- se del secondo Cinquecento.
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 309 1. A. Cassi Ramelli, Vita e rinascita del Pa- lazzo Spinola a Milano, in Idee, progetti, realizzazioni per Milano. Studi in onore di Cesare Chiodi, Milano 1957, p. 193. 2. Riportato in Martino Bassi, Dispareri in materia darchitettura et perspettiva, Brescia 1572, p. 46. 3. Trascritto in G. Rocco, Pellegrino Pelle- grini. Larchitetto di S. Carlo e le sue opere nel Duomo di Milano, Milano 1939, p. 45. 4. Un precedente romano di questo espediente adottato da Pellegrino pu essere indicato nella loggia di Villa Lan- te: cfr. P.N. Pagliara, Le tecniche di costru- zione nel XVI secolo, in Il Palazzo dei Con- servatori e il Palazzo Nuovo in Campido- glio. Momenti di un grande restauro a Ro- ma, Pisa 1997, p. 62. 5. G. Rocchi, Di alcune architetture attri- buite a Pellegrino Tibaldi: valutazione, in Arte lombarda, 94/95, 1990, p. 46. 6. G. Lupo, Gli abiti de le architetture an- tiche non si confanno ai dossi de le moderne: il crollo della volta della Libreria Marciana di Jacopo Sansovino, in S. Della Torre (a cura di), Storia delle tecniche murarie e tu- tela del costruito. Esperienze e questioni di metodo, Milano 1996, pp. 31-51. 7. M. Giuliani, Nuovi documenti per la bio- grafia e la formazione culturale di Pellegri- no Pellegrini, in Studia Borromaica, 11, 1997, pp. 47-69, in particolare pp. 56-58. 8. Biblioteca Ambrosiana di Milano, S 130 Sup., c. 243. 9. Vedi Milano ritrovata. La Via Sacra da San Lorenzo al Duomo, a cura di M.L. Gatti Perer, Milano 1991, pp. 85-140. 10. Archivio della Curia Arcivescovile di Milano (dora in poi ACAM), X, Metro- politana, vol. 60 q. 8. 11. ACAM, X, Metropolitana, vol. 63, c. 108; la calce era salita a 25-26 soldi il centenaro. 12. L. Casolo Ginelli, Indagini mensiocro- nologiche in area milanese, in Archeologia dellarchitettura, III, 1998, pp. 53-60. 13. Cfr. S. Della Torre, R. Schofield, Pellegrino Tibaldi architetto e il S. Fedele di Milano. Invenzione e costruzione di una chiesa esemplare, Como 1994 (dora in poi Della Torre-Schofield), p. 205 e p. 354. La definizione della copertura alla romana offerta, tra gli altri, dallo Sca- mozzi: Hoggid gli edifici di Roma, e la dintorno, quasi comunemente si cuoprono di tegole piane alla Romana, e di sopra gli orli dalcuni coppi ristret- ti, e gluni e glaltri di terra cotta, mes- si in malte: Vincenzo Scamozzi, Lidea dellarchitettura universale, Venezia 1615, p. 353. 14. Pellegrino Pellegrini, Larchitettura, a cura di G. Panizza e A. Buratti Mazzotta, Milano 1990, p. 114. 15. Per la produzione e il commercio della calce del Verbano cfr. Fornaci da cal- ce in Provincia di Varese. Storia, conserva- zione e recupero, atti del convegno (Ispra 28 ottobre 1995), Varese 1995. 16. ACAM, X, Metropolitana, vol. 63, c. 108. 17. Contratto del 1573 relativo alle nava- te di S. Maria della Passione: cfr. C. Ba- roni, Documenti per la storia dellarchitet- tura a Milano nel Rinascimento e nel Baroc- co, vol. II, Roma 1968, p. 70, doc. 468. 18. Roccia ignea intrusiva (diorite quar- zifera), di aspetto simile al granito, di co- lore grigio scuro e grana uniforme. Dif- ficilmente lavorabile, era per molto im- piegata sia per le sue caratteristiche mec- caniche che per lampia disponibilit in forma di massi erratici diffusi in tutta lalta pianura lombarda. Il termine desi- gnava anche il ghiandone (granodiorite) e talvolta il granito stesso, nonch i vari tipi di gneiss originati per metamorfismo di tali rocce, a loro volta ampiamente di- sponibili in forma di massi erratici. 19. Archivio di Stato di Milano (dora in poi ASMi), Notarile, 14348, rog. 1568 marzo 26 relativo alla fabbrica della chie- sa di S.Vittore di Milano. 20. Pellegrini, Larchitettura, cit. [cfr. no- ta 14], pp. 311-312. 21. Sullargomento cfr. S. Della Torre, Alcune osservazioni sulluso di elementi li- gnei in edifici lombardi dei secoli XVI-XVII, in Il modo di costruire. Atti del I Seminario internazionale, Roma 1990, pp. 135-145. 22. Sullo sfruttamento, fino a tempi re- centi, di questa pietra cfr. G. Margarini, C.A. Pisoni, Il granito di Baveno. Un pio- niere: Nicola Della Casa, Verbania 1995. 23. Sullargomento segnalo tre atti del 1617 che illuminano la fase iniziale della realizzazione della prima colonna, tutti in ASMi, Notarile, 25902, notaio Cri- stoforo Sola: il 1 marzo la V. Fabbrica del Duomo stipula convenzioni con la Comunit di Baveno; il 21 marzo con gli scalpellini Antonio Rossone e Antonio Ferrari detto il Balerna; il giorno seguen- te questi ultimi si associano con Antonio Adamo di Baveno. 24. Michele Scala si era impegnato a for- nire sei colonne di miarolo anche per un Palazzo Annoni (Della Torre-Schofield, Pellegrino..., cit. [cfr. nota 3] p. 220). 25. ASMi, Notarile, 17975, rog. 1578 aprile 17 e ottobre 13 di Gio. Paolo Ai- cardi; ASMi, Notarile, 17978, rog. 1581 marzo 18 di Gio. Paolo Aicardi. Cfr. an- che B. Adorni, Larchitettura farnesiana a Piacenza 1545-1600, Parma 1982, pp. 371-408. 26. Cfr. P. Ghinzoni, La Colonna di Porta Vittoria a Milano, in Archivio Storico Lombardo, a. XIV, 1887, pp. 90-94; se- condo il Latuada la colonna fu disegnata da Pellegrino, ma secondo i documenti il col- laudo era affidato a Giovan Battista Lonati. 27. C. Baroni, Il Collegio Borromeo, in Bollettino della Societ Pavese di Storia Patria, 1, 1937-38, pp. 85-87: cfr. ASMi, Notarile, 14403, rog. 1581 luglio 11 di Gio. Pietro Scotti. ASMi, Notarile, 17978, rog. 1581 luglio 24 e 1581 agosto 10, che rimanda ad un rog. del settembre 1580 del notaio di Pavia Gio. Giacomo Medici della Stradella; ASMi, Notarile, 14807, rog. 1583 luglio 11 di Gio. Gia- como Crivelli. 28. Interessante nel discorso del Borro- meo laccenno al rischio che luso dei cu- nei anche per sollevare la colonna indu- cesse, nel caso che la frequenza delle on- de elastiche indotte dalla battitura dei cunei si trovasse a coincidere con la fre- quenza propria del banco di roccia, il fe- nomeno della risonanza (strambo) con la conseguente rottura della colonna pri- ma ancora che fosse sbozzata: cfr. F. Bor- romeo, Le colonne per la facciata del Duo- mo, Milano 1986, p. 30. 29. L. Bisi, Il sistema dei navigli a Milano, in Quaderni del Dipartimento di Pro- gettazione dellarchitettura, 6, 1987, pp. 86-96. 30. Della Torre-Schofield, Pellegrino..., cit. [cfr. nota 3], pp. 213-214 e fonti ivi citate. 31. Nei documenti milanesi dei secc. XVI-XVII si usano per la martellinatura i sinonimi battere e frapare: cfr. S. Della Torre, I. Giustina, Documenti nota- rili per la storia del cantiere seicentesco, in La Ca Granda di Milano. Lintervento conser- vativo sul cortile richiniano, Milano 1993, p. 114. 32. Cfr. G. Alessandrini, Le pietre del mo- numento, in La Ca Granda..., cit. [cfr. no- ta 31], pp. 173-205. 33. Cfr. Della Torre-Schofield, Pellegri- no..., cit. [cfr. nota 3], pp. 208-209. 34. Baroni, Documenti.., cit. [cfr. nota 17], vol. II, p. 162. 35. Baroni, Documenti.., cit. [cfr. nota 17], vol. II, p. 337. 36. G. Alessandrini, R. Bugini, R. Peruz- zi, Palazzo dei Giureconsulti in Milano. I materiali lapidei, il degrado, la conservazio- ne, in TeMa, 4, 1993, pp. 22-24. 37. Per le caratteristiche litologiche cfr. ibidem, p. 24. 38. Baroni, Documenti.., cit. [cfr. nota 17], vol. II, p. 330. 39. Baroni, Il Collegio Borromeo..., cit. [cfr. nota 27], p. 49. 40. Scamozzi, Lidea dellarchitettura..., cit. [cfr. nota 13], p. II, pp. 188-189. 41. ACAM, X, Metropolitana, vol. 69, c. 119. 42. Sulluso di seghe per marmi in Lom- bardia cfr. Pellegrini, Larchitettura, cit. [cfr. nota 14], p. 187. I Ferrari ebbero anche in gestione la cava di marmo bianco di Mergozzo dove apprestarono la via per condurre i marmi al basso dov la sega: ACAM, X, Metropolitana, vol. 60, q. 8. 43. Pellegrini, Larchitettura cit. [cfr. nota 14], p. 418; cfr. anche p. 189. 44. ACAM, X, Metropolitana, vol. 63, c. 140. Si noti la differenza tra questa ri- sposta dello Scala e quella che ad una analoga domanda aveva dato Pellegrino nel 1574: Io non faccio lavorare corni- ce n altra cosa pi longa di quello che fa bisogno per scurtarle, anzi non si fa co- sa, se prima oltra al disegno picciolo et modelli, non si segni in grande come lo- pera va o sopra li muri o sopra li pavi- menti, dalle quali linie il capo maestro regola et cava le soe misure et sagome; s che errandosi in trasportare le misure sopra li sassi, sarebbe difetto del capo maestro... (Rocco, Pellegrino Pellegri- ni..., cit. [cfr. nota 3], p. 47). 45. ASMi, Notarile 16466, rog. 1582 maggio 21 di Marcantonio Torriani. 46. Della Torre-Schofield, Pellegrino..., cit. [cfr. nota 3], p. 338. 47. Il centenaro corrisponde a cento lib- bre grosse, e ciascuna libbra grossa mila- nese valeva Kg 0.7625. 48. Si veda ad esempio il celebre docu- mento relativo al sepolcro di Giovan Giacomo Trivulzio, in Baroni, Documen- ti..., cit. [cfr. nota 17], vol. II, pp. 136- 137. 49. L. Scolari, La finitura delle opere in stucco: per una ricerca tra fonti documenta- rie e manufatti, in Scienza e beni culturali. Manutenzione e conservazione del costruito fra tradizione e innovazione, Padova 1986, pp. 197-205. Interessanti, anche se rife- rite a tempi pi recenti, le notazioni tec- nico-linguistiche raccolte in C. Patoc- chi, F. Pusterla, Cultura e linguaggio della Valle Intelvi, Senna Comasco 1983, pp. 183 sgg. 50. Ad esempio nuove informazioni sui lavori in Ancona sono fornite in J. Alexander, Documentation of the Loggia dei Mercanti in Ancona, 1556-1564, in Stu- dia Borromaica, 11, 1997, pp. 193-238. 51. Pellegrini, Larchitettura cit. [cfr. nota 14], p. 178. 52. L. Giordano, I maestri muratori lom- bardi. Lavoro e remunerazione, in Les Chantiers de la Renaissance, Actes du Collo- que tenu Tours en 1983-84, ed. J. Guil- laume, Paris 1991. 53. O.L. Fossi, La Scuola dei Santi Quat- tro Coronati nel Seicento. Una fonte per la storia del lavoro nellarchitettura milanese, tesi di laurea, Politecnico di Milano, Fac. di Architettura, rel. prof. L. Patetta, cor- rel. prof. S. Della Torre, a.a. 1995/96. 54. ACAM, X, Milano, S.Fedele, vol. 47, Stato delle anime della Parrocchia di S. Protaso in Campo lanno 1574. 55. Giordano, I maestri muratori lombar- di..., cit. [cfr. nota 52], p. 166. 56. Cfr. in particolare L. Spezzaferro, Dalla macchinazione alla macchina, in G. Curcio, L. Spezzaferro, Fabbriche e archi- tetti ticinesi nella Roma barocca, Milano 1989. 57. ACAM, Sez. X, Milano citt, Metropo- litana, vol. 63. 58. Per il periodo precedente vedi E. Sai- ta, Case e mercato immobiliare a Milano in et Visconteo-Sforzesca (secoli XIV-XV), Milano 1997.
10-11|1998-99 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org