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Corso di Analisi della concorrenza

prof. Andrea Stocchetti A.A. 13-14


Kevin Danieli

CAPITOLO 1 I LIMITI EPISTEMOLOGICI DELL'ANALISI ECONOMICA


Tre concetti rilevanti sono quelli di:
- economia come disciplina scientifica in senso stretto: disciplina coltivata da una nuova categoria
di studiosi rappresentata dagli economisti che svolgono tipicamente la loro attivit all'interno
dell'insegnamento universitario con l'obiettivo di trasmettere al corpo sociale la cultura economica;
- questione economica: determinazione della ricchezza di un popolo e soprattutto come individuazione
delle modalit per accrescerla.
Ha interessato il pensiero sociale fin dagli albori, in quanto qualunque azione umana comporta un uso di
risorse e l'acquisizione e le modalit d'uso hanno attratto l'attenzione dei governanti nell'organizzazione di
ogni struttura sociale. Dalle prime fasi di organizzazione sociale, in periodo protostorici in cui la ricchezza di
un popolo si identificava con l'ampiezza e la fertilit del territorio e il mezzo di accrescimento era
l'appropriazione dei territori, si passati alla fase postfeudale in cui grazie all'emergere e al rafforzarsi degli
stati nazionali la ricchezza di un paese viene identificata nella disponibilit di mezzi di pagamento (oro e
argento) e il commercio, con il fine di favorire l'accrescimento delle ricchezze, porta alla nascita del
mercantilismo, grazie anche alla crescita del prodotto lordo dei vari paesi, alla scoperta dell'America e
all'accesso all'oro delle popolazioni del nuovo continente. L'esigenza di eserciti permanenti porta alla
retribuzione dei militari sotto forma di monete d'oro e d'argento, accettate e trasportabili ovunque.
- pensiero economico: formazione di un corpo di idee e di riflessioni sui modi di favorire la creazione di
ricchezza al di fuori dei meccanismi di appropriazione della ricchezza di altri popoli.
E' rivolto a indagare quali fossero le condizioni pi opportune per permettere a un popolo di elevare il
proprio tenore di vita e sviluppare le proprie potenzialit nella produzione agricola, artigianale e al
commercio dei beni che ne derivavano. Durante il 18' secolo si fronteggiano due impostazioni:
il mercantilismo, che vede nell'accumulo di metalli preziosi la misura del grado di ricchezza di un paese ed
elabora i mezzi con cui definirlo; la fisiocrazia, che si contrappone al mercantilismo perch assume una
posizione favorevole a un'organizzazione liberista dell'economia, e non assegna un posto preminente al
commercio in quanto valuta che il motore di ricchezza di un paese sia soprattutto l'agricoltura (industria e
commercio non fanno che trasformare il prodotto dell'agricoltura).
L'impostazione dei fisiocrati, per, si riferiva all'esistenza di un ordine naturale che, in quanto giusto e
ottimale per la societ, era e doveva essere immutabile: quest'ottica aveva l'effetto di inserire l'economia nel
campo delle scienze naturali piuttosto che in quello delle scienze sociali, e di conseguenza tendeva a
prefigurare una economia dotata di uno statuto epistemologico da scienza naturale.
Nella seconda met del 18 secolo l'economia si costituisce come un campo di studio autonomo, distinto dagli
altri ambiti di ricerca: il pensiero economico classico vede come esponenti Smith, Ricardo e Mill.
Nel 19 secolo l'economia diventa oggetto di ricerca da parte di un corpo di professionisti tipicamente operanti
nell'ambito dell'insegnamento universitario la cui attenzione rivolta alla questione economica: in questo
periodo cominciano a crescere di numero le cattedre per l'insegnamento dell'economia, dal 1868 a Venezia.
I successi conseguiti dalle scienze naturali (fisica, astronomia, ecc.) erano stato cos rilevanti da far definire la
scienza come un insieme di leggi aventi la natura di regole universalmente valide in ogni momento e luogo.
Ai professionisti dell'economia sembr inevitabile che la validazione epistemologica della loro disciplina
derivasse dalla costruzione di leggi economiche con la stessa valenza di quelle fisiche, obiettivo impossibile:
- neppure le scienze naturali hanno una natura definitiva, in quanto basate su teorie semplificatrici;
- l'economia politica una scienza sociale, e di conseguenza:
1: c' forte interdipendenza tra i fenomeni costitutivi la realt sociale;
2: non possibile effettuale esperimenti di laboratorio in condizioni controllate;
3: non possibile separare fenomeno osservato e osservatore come nelle scienze naturali; *
4: impossibilit di ripetere a discrezione l'esperimento fa si che nessuna analisi sulle relazioni tra due
variabili economiche possa essere assunta come definitiva e dimostrata.

La legittimazione dell'economia in quanto scienza pass attraverso un processo di astrazione dell'economia


da political economy a economics (pura), attraverso l'assunzione di una impostazione analiticodeduttiva e rimuovendo i riferimenti storici per cercare leggi pure, generali e universali.
Questa involuzione derivata 1da impostazioni economiche di tipo contrario (indirizzo storicista di
Germania e Austria, diceva che l'economia politica non avrebbe dovuto ammettere il linguaggio matematico
in quanto scienza morale), dall'atteggiamento delle altre scienze nei confronti dell'economia (Croce si rifiut
di accettare lo status di scienza per l'economia sulla base di un pregiudizio storicista), e infine dal fatto che la
costruzione di un'economia pura rispondeva all'esigenza di sconfiggere l'impostazione economica marxista.
Tra il 18 e la met del 19 secolo c' quindi il passaggio dall'economia classica di Smith, Ricardo, Mill
all'economia neoclassica di Jevons, Walras, Pareto e Menger: puntando alla costruzione di teorie e di
leggi universali, valide oltre le contingenze storiche, la nuova economia rinuncia allo studio degli interessi
economici di natura collettiva per concentrarsi, attraverso astrazioni analitiche-riduzioniste, sugli aspetti di
tipo individuale rappresentati dall'approccio utilitarista e basati sull'analisi marginalista.
La teoria microeconomica standard
In riferimento alla microeconomia, che tende a raggruppare al proprio interno le analisi rivolte al
comportamento dei singoli soggetti e delle imprese, si pu parlare della teoria microeconomica
standard come approccio prevalente, che viene considerato il paradigma:
1) l'attenzione concentrata su attori che caratterizzano per fare scelte razionali in vista della
massimizzazione del loro obiettivo economico. Scompaiono di scena soggetti collettivi e classi sociali, oltre a
sostenere che il comportamento umano caratterizzato da un calcolo razionale per la massimizzazione.
Il benessere di ciascuno risulta dipendere dalla quantit di beni posseduti o consumati (homo oeconomicus);
2) favorisce l'astoricit delle leggi economiche, e l'immanenza della situazione di scarsit dei beni e delle
risorse rispetto al cumulo di bisogni e dei desideri viene utilizzata come caratterizzazione valida delle scelte;
3) l'analisi economica neoclassica tende a trascurare il tema dello sviluppo economico e del cambiamento per
privilegiare lo studio delle forme di mercato e ricercare le condizioni di equilibrio massimizzante degli attori;
4) il valore della merce deriva dall'incontro delle curve aggregate di domanda degli acquirenti e di offerta dei
produttori, determinato attraverso bisogni, finalit e scelta dei singoli individui. Nell'approccio classico era
invece legato al costo di produzione o al lavoro contenuto nei prodotti.
La possibilit di un soggetto di ottimizzare la propria scelta richiede la definizione di tutte le alternative
possibili e i vincoli, l'associazione di vantaggi e svantaggi, e l'applicazione dei valori e delle preferenze.
Diventa sempre pi frequente l'assunzione di una prospettiva di soddisfacentista rappresentata
dall'elaborazione teorica di Simon sulla razionalit limitata: gli individui ambiscono a essere
intenzionalmente razionali, tuttavia capacit cognitive limitate e informazioni complete li inducono a
prendere decisioni soddisfacenti che possono non essere razionali ma che appaiono le migliori con
riferimento alle informazioni e ai vincoli dati dalla situazione decisionale.
Per una considerazione del paradigma economico
Tutte le scienze, comprese quelle sociali, vanno viste come il risultato di un processo di ricerca. L'essenza del
lavoro scientifico non sta nella validazione definitiva delle teorie, per il semplice fatto che questo traguardo
irraggiungibile, quanto piuttosto un processo di affinamento dei metodi di analisi e delle teorie stesse: tutte
le teorie scientifiche sono delle tesi semplificate con le quali cerchiamo di descrivere una realt sfuggente.
In una scienza sociale come l'economia, nella quale esiste una pluralit di soggetti, ciascuno con
caratteristiche diverse (preferenze, valori, budget), la ricerca di una legge generale porta a elaborare teorie
assai povere di contenuto esplicativo.
E' evidente che se si cercasse una legge generale essa si ridurrebbe a un insieme dato dall'intersezione degli
insiemi espressivi di ciascun comportamento, equivalente ad una grande perdita di informazioni sui
comportamenti dei soggetti e all'ottenimento di un risultato povero: l'individualit dei soggetti e le loro
opzioni valoriali hanno un rilievo grandissimo.
Il vero obiettivo dell'economia non pu essere l'individuazione di teorie o leggi generali, ma la ricerca di
teorie parametriche, ovvero teorie capaci di individuare i parametri (o il valore assunto da essi) in grado
di descrivere e interpretare una molteplicit di comportamenti.
Quindi, nelle scienze sociali una buona teoria non deriva affatto dalla formulazione di una regola di
comportamento unico (legge generale) che in economia non sarebbe osservabile se non attraverso enormi
semplificazioni, quanto dalla capacit di avere una regola o legge soft complessa in quanto articolata (in
senso parametrico) in grado di spiegare e interpretare molti comportamenti, tutti nella stessa teoria.

Le caratteristiche di base dell'approccio epistemologico di una scienza sociale come l'economia sono:
1) impossibilit di studiare in modo diretto tutta la complessit del reale implica che ogni analisi economica
parte da un processo di semplificazione della realt;
2) qualsiasi teoria emerga dalle analisi avr, anche nella situazione migliore di concordanza fra le ipotesi alla
base e i riscontri, una valenza limitata e perfettibile attraverso la costruzione di teorie meno semplificate
capaci di tener conto di un maggior numero di variabili (regole parametriche pi articolate);
3) esigenza di rigore della definizione del problema da analizzare, e di esplicitazione delle semplificazioni:
ancora molto frequente un atteggiamento empirista e positivista che trascura la definizione del tema di
analisi (ritenuto evidente) al quale si aggiunge la tendenza a non menzionare le semplificazioni introdotte
allo scopo di non sminuire la validit delle proprie affermazioni teoriche;
4) ogni teoria economica, in quanto basata su semplificazioni, consente di interpretare un certo fenomeno
solo sulla base di alternative compatibili con le semplificazioni fatte: la teoria condiziona i risultati ottenuti.
Inoltre, tutti i paradigmi sono imperfetti in quanto semplificati, ma c' possibilit di indagare quali siano
meno imperfetti e quindi preferibili ad altri;
5) l'immanente rischio nell'analisi economica che il giudizio del ricercatore sia influenzato da personali criteri
di riferimento di ordine politico, sociale e psicologico (lettura ideologica degli elementi economici).
L'economia come scienza del confronto tra condotte alternative
Ogni impostazione imperfetta, ma il lavoro scientifico consiste proprio nella ricerca dell'impostazione che
risulta meno imperfetta e che in un momento successivo sar probabilmente scalzata da un'altra
impostazione a sua volta meno imperfetta.
L'evidenziazione dei limiti epistemologici dell'economia non affatto diretta a sminuire la portata di questa
scienza, ma anzi a ribadirne il valore conoscitivo, che non derivano da leggi universali e generali come si
pensato in passato ma dal rigore con il quale si cerca di togliere le imperfezioni di ogni analisi scientifica.
Applicando le regole epistemologiche per definire l'obiettivo della scienza economica, l'economia va
intesa come scienza che cerca di mettere a confronto condotte alternative di comportamento (su molti livelli,
come quello individuale, d'impresa, crescita e allocazione della ricchezza), allo scopo di selezionare quella
ritenuta pi conveniente in termini di efficienza (massimizzazione del risultato a parit di risorse o
minimizzazione del consumo di risorse a parit di risultato). Ci sono tre problemi concettuali:
1) costruire un'unit di misura, un metro per comparare i diversi risultati e diversi consumi delle risorse;
2) cosa dev'essere considerata una risorsa: i prezzi non sono una misura oggettiva del valore delle risorse e
delle merci, in quanto il prezzo non solo rispecchia l'effetto del valore di una risorsa, ma influenzato anche
dal regime di mercato di ciascuna risorsa/merce;
3) la possibilit di avere una scala di utilit dei risultati.
Inoltre: i diversi metri di utilit applicati da soggetti diversi; la durata temporale delle scelte non nulla.
La teoria economica: un misto di pensiero debole e forte
Gli economisti non possono che essere portatori di un pensiero debile per quanto riguarda le loro tesi
assertive, anche se necessario ribadire la necessit di un pensiero forte, in grado di dare risposte certe, per
quanto concerne alcuni errori logici ed epistemologici che vanno assolutamente evitati.
Il primo riguarda l'indebito allargamento di tesi condivisibili in ambiti teorici ristretti ad ambiti teorici pi
allargati. Si manifesta quando una argomentazione, che sembra ragionevolmente comprovata all'interno
delle ipotesi semplificatrici assunte nell'analisi economica, viene estesa anche a situazioni diverse da quelle
previste. In condizioni differenti anche di pochissimo da quelle ipotizzate nel modello teorico, tutta l'analisi e
le conferme relative ai fatti andrebbero rifatte.
Cosa si deve fare nel caso in cui non siano disponibili i dati analitici sulle diverse variabili, n le molteplici
teorie in grado di connettere in sistema la complessa interdipendenza delle variabili da considerare?
Si prendono per semplificazione due estremi di un continuum di possibilit:
- da una parte, la posizione di chi non potendo disporre dei moltissimi dati analitici e delle teorie
corrispondenti decide di semplificare drasticamente la realt analizzata fino al punto in cui il problema
diventa controllabile sia sotto il profilo concettuale che quello della disponibilit dei dati:
a) le semplificazioni vanno esplicitate chiaramente e non nascoste o considerate solo implicitamente, in
modo da essere facilmente intuibili da tutti;
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b) non possibile estendere i risultati raggiunti a situazioni difformi da quelle considerate nello specifico
modello quantitativo (diventerebbe indebito allargamento).
- dall'altra, la posizione nella quale si rinuncia alla quantificazione perch si cerca di non semplificare troppo
il quadro di riferimento da analizzare e ci si limita a una analisi descrittiva delle variabili da analizzare:
a) anche in questo caso, si sono prodotte semplificazioni della realt, in quanto le interdipendenze tra
variabili sono pressoch infinite;
b) in questo caso non pu esserci nessun tipo di confronto, mentre l'economia confronto.
c) l'indebito allargamento consiste nel dare interpretazione alle relazioni tra fenomeni di tipo qualitativo.
Il secondo errore quello di spacciare affermazioni tautologiche (vera per definizione, con nessun valore
informativo) per affermazioni empiriche (es. innovazione e massimizzazione del profitto), che diventano
quindi delle pseudoaffermazioni normative e si aggiungono alle semplificazioni nelle formulazioni
matematico-statistiche.
La dimensione positiva e quella normativa dell'economia
L'approccio positivo consiste nell'analisi del comportamento economico con la finalit di descriverlo, nella
maniera pi aderente possibile alla sua realt, e possibilmente di interpretarlo.
L'approccio normativo cerca di individuare quale dovrebbe essere il comportamento economico pi
razionale da parte dei soggetti analizzati, qualora si assumano sia i loro obiettivi che il sistema di vincoli e di
preferenze di cui sono portatori.
Si definisce l'orientamento teleologicamente razionale come impostazione capace di riconoscere i
limiti della razionalit (imperfetta) senza togliere utilit allo sforzo di una ricerca di tipo normativo.
La razionalit limitata un caso dell'insieme pi ampio del comportamento teleologicamente razionale, in
quanto il comportamento di scelta dei soggetti non pu essere perfettamente razionale ma deve basarsi su
una razionalit limitata attraverso una scelta guidata da criteri soddisfacentisti: non si pu raggiungere la
soluzione ottima e ci si deve accontentare di trovare una soluzione non peggiore a un risultato prefissato.
Anche per i soddisfacentisti, la ricerca della razionalit rimane un obiettivo ideale verso cui tendere.
Non sarebbe razionale continuare all'infinito la ricerca, sia perch nella gestione d'impresa esistono vincoli
temporali da rispettare, sia perch la ricerca di nuove informazioni comporta un costo.
Il comportamento soddisfacentista rientra nell'ambito del comportamento teleologicamente razionale (il
soggetto fa del suo meglio anche se ex ante non ha la certezza di fare la scelta giusta), ed anche
teleologicamente ottimizzante in quanto c' un apprendimento: si sfruttano tutte le nuove cognizioni
raccolte nella situazione precedente per migliorare le scelte future.
L'approccio economico resta ancorato a una ricerca avente un obiettivo di ottimizzazione e di razionalit
teleologica anche se parziale: l'economia, pur rimanendo imperfetta, rappresenta uno strumento con utilit
almeno con riferimento a una razionalit rispetto ai mezzi (le risorse disponibili). Rinunciare all'economica
vorrebbe dire assumere una impostazione secondo la quale i soggetti non possono nemmeno cercare di
essere razionali rispetto ai mezzi, negando la possibilit di costruire una scienza del comportamento: o non
esiste un criterio di distinzione tra giusto e sbagliato, o i soggetti non sono liberi di scegliere.
Tuttavia, tutte le decisioni non si equivalgono seppur tutte egualmente irrazionali: non si pu stabilire una
gerarchia di affidabilit e ognuno libero di utilizzare quella che preferisce.
Questo approccio cognitivo si fonda, allo stesso modo di quello teleologicamente razionale, sul
riconoscimento che una conoscenza totale e assoluta della realt irraggiungibile e che pertanto il
comportamento dei soggetti non pu che esprimere una razionalit limitata. Si devono indagare i processi
cognitivi attraverso i quali il soggetto costruisce la propria rappresentazione della situazione concreta.
Anche nel comportamento di razionalit limitata vale comunque l'assunto che tra due comportamenti non
massimizzanti in assoluto, ci si aspetta che quel soggetto scelga quello pi efficiente rispetto agli obiettivi.
La mappa cognitiva di un soggetto la teoria interpretativa che adotta.
Apprendimento dell'economia come capacit di adattare i modelli teorici e cultura d'impresa
A prescindere da ogni verifica qualitativa e quantitativa non si potr mai essere certi della validit assoluta di
un'affermazione o teoria, dal momento che tale affermazione comunque si pone all'interno di uno schema
semplificato. Le tesi economiche, anche se valide, sono necessariamente legate al loro contesto.
Ogni regola, anche ammesso che sia ragionevolmente corretta, lo solo nell'ambito delle sue ipotesi
costitutive e non pu essere replicata in ambiti diversi: occorre una conoscenza critica delle condizioni di
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applicabilit di una certa strategia aziendale o di una certa politica economica.


La cultura d'impresa un complesso di conoscenze relative alla storia e all'evoluzione d'impresa e dei
sistemi economici: significa avere capacit di relativizzare le proprie conoscenze sull'impresa, sulle ipotesi su
cui si basa e permette di adattare le teorie al fine di applicarle alla singolarit della personale esperienza.

CAPITOLO 2 L'EVOLUZIONE DEL RAPPORTO IMPRESA-CONCORRENZA


Esiste un legame fra dinamismo economico e dinamismo teorico: fenomeni di rapida e profonda
modificazione dei precedenti assetti economici e industriali hanno innescato processi di revisione nelle
impostazioni economiche, provocando la messa in crisi di precedenti paradigmi teorici e la formulazione di
nuova impostazioni (o comunque nuove ipotesi di ricerca). Poich il mondo cambia anche l'economia deve
cambiare, e il dinamismo economico deve seguire il dinamismo teorico.
Una delle aree in cui questo dinamismo economico ha creato pi urgenza di revisione teorica riguarda i
rapporti tra l'impresa e l'ambiente in cui essa opera, e fra l'impresa e la concorrenza in particolare.
In passato lo studio della singola impresa e quello del complesso delle imprese in concorrenza fra loro,
corrispondente al concetto di industria (o settore), apparivano nettamente separati: tutte le imprese, in
quanto appartenenti allo stesso settore, avevano uguale organizzazione e comportamento.
Innanzitutto, l'impresa e il suo sistema di relazioni costituiscono il cuore della macchina evolutiva che
produce il cambiamento, e in secondo luogo l'impresa non concepibile come una categoria astratta,
universale che resta teoricamente sempre uguale a se stessa, ma al contrario si differenzia di continuo nelle
sue forme e nei suoi modi di operare, e quindi nei suoi obiettivi.
Di conseguenza, lo studio dei settori industriali e della strategia d'impresa deve porsi tali obiettivi:
- dare dinamicit al rapporto tra settore e imprese che vi operano: poich il profitto il risultato di un
differenziale di competitivit, l'impresa programmaticamente tesa ad assicurarsi idonee condizioni
di vantaggio attraverso l'attuazione di comportamenti competitivi (strategie);
- l'impresa non va pi vista come un elemento di adattamento ai vincoli di mercato ma di cambiamento di se
stessa e quindi dei rapporti con la concorrenza e il complesso del mercato;
- ci esige il passaggio da un'economia dell'omogeneit, qual' quella ipotizzata nella teoria economica
marginalista e neoclassica, a un'economia delle differenze;
- ancorare il potenziale comportamento alle imprese (e il settore che le raggruppa) non a un astratto dover
essere, ma a una concreta analisi delle opportunit storicamente possibili;
- porre il problema dell'innovazione, nella sua accezione pi ampia, al centro della dinamica competitiva.
Questo complesso di cambiamenti concettuali mira alla costruzione di un nuovo paradigma economico,
anch'esso imperfetto, ma pi fondato di quello dell'economia microeconomica standard e capace di adattare
tesi e teorie alle mutevoli realt dell'ambiente.
Due componenti essenziali dei moderni mercati sono la dinamicit della trasformazione in atto e la
disomogeneit presente nella struttura interna dei settori, che tende a dilatarsi al crescere della
internalizzazione dei mercati e che mette a confronto condizioni tecnologiche, economiche e sociali diverse.
I modelli di concorrenza perfetta e monopolio sono due modelli teorici che rimangono della massima
importanza e che nel tempo hanno assunto il ruolo di paradigma, dividendo le due categorie di riferimento
con le quali interpretare tutte o quasi le realt di mercato in quanto tendenti a una di queste due forme
pure, verso le quali tutti i mercati tendevano a convergere: verso la prima nelle situazioni nelle quali erano
prevalenti le forze del libero confronto competitivo, verso la seconda nei casi in cui queste forze non agivano
e prevaleva la capacit dispositiva di un solo concorrente sull'intero mercato.
Il modello di concorrenza perfetta ha trovato la sua prima completa espressione nella teoria dell'equilibrio
economico generale di Walras, e le principali ipotesi sono:
- ogni categoria di beni prodotta dalle imprese e utilizzata dai consumatori ha caratteristiche omogenee;
- le imprese sono price-taker: nessuna di esse pu influenzare il prezzo che unico per tutti (atomismo);
- non ci sono asimmetrie informative (perfetta conoscenza) e tutte le imprese hanno la stessa tecnologia;
- assenza di barriere all'entrata e uscita;
- l'aggiustamento delle condizioni di mercato verso l'equilibrio avviene in un tempo infinitesimo.
L'equilibrio del mercato si realizza quindi in corrispondenza di una uguaglianza fra domanda e offerta,
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all'interno della quale ciascun produttore consegue un incasso marginale (dato dal prezzo unitario) identico
al costo marginale di produzione. Ci che porta a questo :
la costanza del prezzo, la crescita del ricavo totale del produttore in misura direttamente
proporzionale alla quantit venduta e l'uguaglianza fra costo marginale e prezzo.
Quindi, le propriet di un sistema economico di mercati in concorrenza perfetta possono sintetizzarsi
nell'esistenza di un sistema di valorizzazione delle risorse tale da realizzarne l'allocazione ottimale.
1) tutte le imprese operano in profitto nullo: i ricavi coprono esattamente i costi, che sono rappresentati
dall'apporto dei fattori produttivi oltre che dalle risorse acquistate per la produzione.
La remunerazione di questi fattori rappresentata rispettivamente da rendita, interesse, salario e profitto: il
profitto corrisponde alla remunerazione della prestazione imprenditoriale, e tale prestazione diventa un bene
come un altro. Tutti gli imprenditori ricevono la stessa remunerazione, inseribile nella funzione di costo in
quanto la loro prestazione assimilata a una merce e come tale di natura omogenea, che ne definisce un
prezzo di mercato.
2) c' perfetta corrispondenza tra efficienza fisica ed efficienza economica di ciascuna impresa. Se un'impresa
efficiente nella trasformazione fisica dei beni, essa necessariamente efficiente anche sul piano economico,
dal momento che nella configurazione di equilibrio ogni impresa acquista beni e fattori produttivi, e vende
prodotti agli stessi prezzi della concorrenza. Tutte le imprese appartenenti alla stessa industria hanno
(nell'equilibrio di lungo periodo) la stessa struttura di costi, a causa dell'omogeneit delle tecnologie.
3) la possibilit di pervenire alla configurazione di equilibrio senza la necessit di ricorrere allo scambio, dal
momento che i prezzi di equilibrio vengono a configurarsi come la misura dei rapporti di equivalenza tecnica
(lato offerta) e psicologica (lato domanda) tra i beni presenti nel sistema: un sistema di economia totalmente
pianificata, che dispone di tutte le informazioni previste dal modello, comprese le preferenze di ogni
consumatore rispetto a tutti i beni, potrebbe ottenere la stessa configurazione nell'allocazione ottimale.
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Il modello di monopolio
E' definito da una condizione sostanziale: l'intera offerta soddisfatta da un unico produttore, e ci rende
automatica l'omogeneit del prodotto, mentre permane un completo frazionamento dal lato della domanda.
L'equilibrio di questo mercato si raggiunge quando il costo marginale e il ricavo marginale dell'unico
produttore si eguagliano, per effetto di due circostanze:
- al crescere della quantit venduta il ricavo totale cresce o decresce a seconda dell'elasticit della domanda;
- il ricavo marginale non uguale al prezzo ma inferiore: l'incremento della quantit venduta si realizza
attraverso una riduzione di prezzo che si ripercuote sulla totalit della merce negoziata.
L'aspetto caratteristico dell'equilibrio di questo mercato dato dall'effetto restrittivo sulla quantit offerta
insito nel comportamento del monopolista, che massimizza i propri guadagni con un ammontare di quantit
scambiata inferiore (rispetto alla concorrenza perfetta) e con un prezzo maggiore. Un privilegio quello di
politiche discriminatorie nella fissazione del prezzo della sua merce.
L'evoluzione dei modelli di mercato
L'importanza, dal punti di vista dell'analisi economica, di queste due speciali configurazioni deriva dalla
capacit che questi schemi hanno di determinare univocamente prezzi e quantit scambiate.
Date le tecnologie e le opzioni fra i bisogni, gli operatori, agendo sulla base del principio massimizzante,
operano necessariamente in modo da far assumere al singolo mercato e al sistema economico complessivo
una configurazione definita e stabile. Questa configurazione di equilibrio raggiunta all'interno del periodo
di tempo considerato, durante il quale le tecniche e le opzioni di tutti gli operatori restano immutate;
altrimenti sarebbe sufficiente il mutamento di una sola tecnica produttiva o delle preferenze di un solo
consumatore perch mutino non solo le quantit scambiate, ma anche il prezzo di ogni bene.
Davano l'idea di poter costruire una economia fatta di leggi universali ma tuttavia rappresentano dei casi
limite. Nell'analisi economica standard concorrenza e monopolio hanno continuato, e almeno in una certa
misura continuano, a essere considerate le due forme base di organizzazione del mercato a cui fare
riferimento. Ci dipende dal fatto che se ipotizziamo forme di mercato diverse (es. oligopolio),
l'individuazione di un equilibrio del sistema economico appare di determinazione problematica: occorrono
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numerose condizioni limitative delle opzioni dei soggetti, senza le quali avremmo una pluralit di
comportamenti ammissibili e quindi uno stato di indeterminatezza circa l'evoluzione del mercato, che deriva
dal fatto che all'interno di uno schema oligopolistico si manifesta una interdipendenza fra i comportamenti
dei soggetti e, soprattutto, fra i comportamenti di ciascun operatore e i risultati ottenuti da tutti gli altri.
La strategia realizzata da un'operatore si riveler vincente o rovinosa in funzione di tutte le altre.
L'analisi di equilibrio parziale, che si limita a un solo mercato, supera certi problemi di indeterminatezza
trasmessa da un mercato oligopolistico ad altri mercati, in quanto assume come ipotesi di partenza proprio
l'inesistenza di rapporti di interdipendenza tra mercati.
Alfred Marshall giunto a formalizzare due situazioni particolari: equilibrio parziale di breve e lungo
periodo, che presuppongono entrambe una struttura concorrenziale dal lato della domanda, mentre dal lato
dell'offerta e imprese partecipanti sono caratterizzate da due situazioni diverse.
Nel breve periodo i produttori hanno curve di offerta (loro costi di produzione) che possono essere diverse fra
loro, ma che comunque non sono modificabili ed inoltre esclusa la possibilit di entrata di nuovi prodotti; la
curva di offerta totale costruita attraverso la somma delle quantit (data da P=MC) che ciascun produttore
disposto a vendere a un dato prezzo.
Nel lungo periodo si suppone che i produttori possano scegliere la struttura dei costi di produzione che
ritengono pi opportuno, e possono essere in questo senso imitati da produttori nuove entranti.
L'equilibrio che viene a determinarsi corrisponder alla costituzione di una curva di offerta totale formata da
uguali curve di offerta dei singoli produttori, ognuno adottante la struttura dei costi pi efficiente per s.
E' un'analisi economica che non tiene effettivamente conto di un'evoluzione temporale, in quanto la variabile
tempo non gioca alcun ruolo in questa analisi: non possibile passare dal breve periodo al lungo.
Nonostante gli sforzi di trovare una casistica precisa, le forme di mercato finiscono inevitabilmente per
polarizzarsi attorno alla situazione concorrenziale o a quella monopolistica. Nel mezzo troviamo una
successione di stati in cui l'indeterminatezza delle condizioni di equilibrio pu essere superata solo attraverso
una serie di condizioni limitanti che devono essere definite volta per volta, spesso di natura extraeconomica.
Una descrizione puntuale di un mercato richiede che vengano individuate tutte le differenze
economicamente rilevanti esistenti fra le imprese componenti il mercato. Se n sono le caratteristiche o
qualit indipendenti riscontrabili fra le imprese, allora sono n le variabili che vanno determinare se si vuole
definire la particolare struttura del mercato che si vuole rappresentare.
Invece il posizionamento di un mercato effettivo lungo l'asse che va dalla concorrenza al monopolio
presuppone che l'unica differenza riscontrabile tra le altre forme di mercato sia data dal numero di
produttori che vanno a costituirne l'offerta: di qui la tendenza a ipotizzare che le forze di mercato operino in
forma polarizzante, o verso la concorrenza o verso il monopolio, in funzione di una certa combinazione di
situazioni esistenti.
La descrizione di un mercato secondo vincoli meno drastici rispetto a quelli richiesti dalle ipotesi
concorrenziali perfette non rappresenta una definizione pi realistica del mercato, ma costituisce invece una
definizione che porta all'impossibilit di dedurre dalla struttura del mercato il comportamento stesso degli
operatori: un mercato definito in termini non rigorosi un mercato indeterminato.
La concorrenza monopolistica
Il modello della concorrenza monopolistica elaborato da Chamberlin un interessante tentativo di uscire da
una tipologia delle forme di mercato basata sullo sviluppo di una sola variabile (numerosit dei concorrenti).
Afferma che si deve anche tener conto del grado di differenziazione che presentano i prodotti sostituibili.
Lo scopo a cui mira l'autore attraverso questa distinzione fra concorrenza perfetta e pura quello di
presentare la concorrenza perfetta come una sofisticazione della concorrenza pura, utile per scopi analitici
ma inessenziale ai fini di una determinazione dell'equilibrio che pu essere raggiunto con i requisiti della
concorrenza pura: che nessuno abbia un grado qualsiasi di controllo sull'offerta (al contrario del monopolio).
In primo luogo, dev'esserci un numero cospicuo sia di compratori che di venditori, tali da rendere l'influenza
di alcuni di essi trascurabile. In secondo luogo, il controllo sul prezzo completamente eliminato solo
quando tutti i produttori producono lo stesso bene e lo vendono sull'identico mercato.
Per Chamberlin le due forme di mercato estreme sono la concorrenza pura e il monopolio, e la
caratterizzazione di queste due forme estreme va fatta in funzione di due variabili: numerosit degli offerenti
e differenziazioni fra i prodotti concorrenti. Avendo molti offerenti e se i loro prodotti sono differenziati,
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esiste sempre un controllo sul prezzo. Al contrario, c' meno controllo rispetto a quanto ci si potrebbe
aspettare sulla base della sola numerosit degli offerenti. Se esiste un grado di differenziazione abbiamo
comunque una presenza monopolistica.
Le difficolt del modello sorgono perch Chamberlin cerca un equilibrio che due soli parametri, numerosit
degli offerenti e differenziazione dei prodotti, non sono in grado di determinare.
In sostanza, quando Chamberlin trova un equilibrio determinato, lo trova perch assume in modo reticente
le condizioni della concorrenza perfetta che in precedenza aveva cercato di eliminare dal quadro.
Rappresenta comunque un passo avanti verso il riconoscimento della natura multidimensionale dei mercati,
tuttavia l'instabilit della singola industria non deriva solamente dalla variabilit dei comportamenti interni
al mercato, ma anche dalle influenze trasmesse dagli altri settori.
L'analisi dell'equilibrio parziale deve necessariamente postulare l'influenza reciproca dei mercati (elasticit
incrociata pari a zero).

CAPITOLO 3 DEFINIZIONE DEL SETTORE, BARRIERE ALL'ENTRATA E USCITA


Secondo l'analisi degli equilibri parziali di Marshall, un mercato costituito dall'insieme delle negoziazioni
intercorrenti fra produttori e acquirenti di un prodotto, quindi un settore industriale (o industria)
formato da tutte le imprese produttrici un identico bene.
La possibilit di considerare separatamente dagli altri un certo settore industriale deriverebbe dal fatto che,
per definizione, tutti gli operatori economici che partecipano a un mercato sono sensibili alle condizioni di
transazione che avvengono all'interno del mercato stesso mentre sono indifferenti a quanto si verifica nei
mercati di altri prodotti.
In situazioni di concorrenza perfetta o monopolio, la definizione dei confini settoriali semplice e immediata
in quanto basata sulla totale omogeneit del prodotto dentro il settore e sulla radicale differenza tra i prodotti
appartenenti a due settori diversi, al punto che la loro elasticit incrociata assunta come nulla. Concorrenza
perfetta o monopolio realizzano integralmente un simultaneo principio di omogeneit totale (interna al
settore) e di disomogeneit totale (tra settori) che consente una radicale soluzione del problema di definire i
confini settoriali.
L'indice di elasticit incrociata tra due ben misura il rapporto tra la variazione percentuale che subisce la
domanda di un bene in funzione della variazione percentuale fatta segnare al prezzo di un altro bene, in
condizioni di ceteris paribus per tutte le altre grandezze del sistema economico.
Il passaggio a una configurazione intermedia pi aderente alla realt (come la concorrenza monopolistica)
rende pi labile la definizione di omogeneit e disomogeneit: l'analisi del mercato mercato di concorrenza
monopolistica una tipica analisi di equilibrio parziale, e ci significa che si assume l'ininfluenza reciproca
tra settori diversi.
Se si ipotizza un'elasticit incrociata non nulla fra i prodotti offerti da imprese diverse, si assume anche
questa ipotesi contraddittoria con uno degli assunti base dello schema di Chamberlin.
Quindi, solo in particolari casi le condizioni di concorrenza monopolistica si prestano ad essere analizzate
enucleando un settore rispetto alla totalit del sistema economico: questo caso si verificherebbe quando,
ipotizzando un'analisi monoperiodale in condizioni di ceteris paribus l'elasticit incrociata fra tutti i beni,
scoprissimo che questi sono classificabili in gruppi, tali che i beni appartenenti allo stesso gruppo presentano
un certo valore significativo di elasticit incrociata (parziale sostituibilit tra prodotti differenziati), mentre i
beni appartenenti a gruppi diversi denunciano una elasticit incrociata nulla. Ci significherebbe la
possibilit di definire univocamente i confini di settore dal momento che non avremmo influenze reciproche
fra beni appartenenti a gruppi diversi.
Aldil dei problemi pratici posti dalla misurazione dell'elasticit incrociata tra prodotti, molto difficile
giungere a una netta definizione di gruppi di prodotti, per motivi connessi alla domanda e alla struttura e al
comportamento dell'offerta: tutti i potenziali acquirenti del bene a dovrebbero conoscere la variazione di
prezzo del bene b, e si potrebbero avere delle variazioni di mercato dipendenti da altre variabili (cade l'ipotesi
di ceteris paribus). Poi, la sostituibilit riscontrabile empiricamente funzionalmente dipendente
dall'ampiezza della variazione percentuale del prezzo imposta a un certo bene: un bene apparir tanto pi
sostituibile quanto maggiore sar la variazione di prezzo, sia perch sar maggiore la quota di spesa spostata
(dal singolo consumatore o da un prodotto a un altro), sia a causa del distacco dei consumatori del prodotto
che hanno subito un rincaro.
Poi, la difficolt dipende anche dal fatto che le imprese spesso tendono a operare su pi linee di prodotto: il
grado di interdipendenza economica che si manifesta tra due prodotti qualsiasi deriva dal gioco congiunto di
un numero elevato di fenomeni. L'elasticit incrociata misurata in un istante dato appare una specie di
risultante della compresenza di una pluralit di fenomeni di origine diversa e tendenti al rafforzamento e/o
all'elisione dell'interdipendenza.
La questione non riguarda quindi la scelta fra accettare o rifiutare la suddivisione dei settori, ma quella di
elaborare una teoria in grado di mostrare quali siano i criteri pi corretti (anche se in parte arbitrari) con cui
enucleare di volta in volta un settore industriale dal resto del sistema economico.
Criteri di suddivisione settoriale
Una soluzione tecnicamente semplificata dell'approccio di elasticit incrociata permette di scegliere dei
criteri con cui suddividere i settori, basati su fattori di omogeneit e disomogeneit riferiti a:

- bisogni: l'identificazione di un bisogno o una categoria di bisogni da utilizzare per la demarcazione


settoriale deve caratterizzarsi per compattezza e stabilit. In una societ moderna il singolo atto di acquisto
non mai caratterizzabile in funzione di un singolo bisogno o di una singola categoria, in quanto soddisfa
contemporaneamente una pluralit di bisogni che pertanto diventano interdipendenti: se si considera solo
questo criterio, si rischia di ottenere risultati ancor pi aleatori rispetto all'elasticit incrociata.
- tecnologia: se due prodotti originati da diverse tecnologie sono funzionalmente sostituibili ci
sufficiente a costituire una situazione di concorrenzialit reciproca economicamente rilevante. Per contro la
stessa tecnologia pu materializzarsi in prodotti del tutto estranei sul lato del confronto concorrenziale.
Se agli inizi della rivoluzione industriale la identificazione fra tecnologia e prodotto automatica e obbligata
(ciascun prodotto appare, salvo eccezioni, l'applicazione di un unico procedimento tecnologico di
fabbricazione), il processo di industrializzazione ha lavorato in modo da diffondere le interconnessioni
tecnologiche all'interno di ciascun prodotto, che assume nel tempo una natura pi complessa ed sempre pi
il risultato di una applicazione congiunta di tante tecnologie.
- struttura dell'offerta e della domanda: trova i fattori unificanti, e questo tipo di criterio porta
numerosi vantaggi. In primo luogo, se ciascun fattore rappresenta un modo di suddivisione del tessuto
industriale, un singolo settore rappresentato dall'area economica data dall'intersezione di tutti i fattori.
In secondo luogo, si dispone della massima flessibilit dei criteri di definizione che possono essere indicati in
sintonia con la trasformazione delle tecnologie, con i bisogni e con il modificarsi della struttura industriale.
Una fotografia dei legami di sostituibilit esistenti in un momento comunque una visione statica: la
definizione dei confini settoriali rimane un fenomeno dinamico.
Mobilit dei confini settoriali
Un aspetto su cui bisogna porre attenzione la mobilit dei confini settoriali. Dal lato dell'offerta
l'innovazione tecnologica modifica continuamente, spesso in modo rapido, la tecnica utilizzata per la
fabbricazione di certi prodotti, che portano a modificare anche il comportamento degli acquirenti.
Nel settore dei beni di consumo possibile che tra prodotti un tempo considerati sostitutivi si vengano a
stabilire legami di complementariet al variare del reddito pro capite disponibile del consumatore.
Per quanto riguarda i mercati dei beni industriali, hanno preso importanza i mutamenti indotti nella
sostituibilit fra materiali che in precedenza avevano un uso assolutamente differenziato, i processi di
integrazione tra imprese e infine lo sviluppo in senso multinazionale delle grandi imprese e l'infittirsi dei
rapporti di scambio tra le diverse aree geografiche ed economiche.
L'identificazione di uno specifico settore, quindi, ha una validit storicamente determinata. Inoltre, diventa
sempre meno realistico considerare un settore industriale composto da tante generiche unit produttive
unificate dal fatto di fabbricare uno stesso prodotto. Le imprese acquistano sempre pi una loro individualit
e le vicende del settore rispecchiano le storie di queste imprese specificamente considerate.
Ci significa non solo che devono essere mutati nel tempo i criteri di disomogeneit con cui definire i settori,
ma anche che va modificandosi il grado di omogeneit fra le imprese appartenenti allo stesso settore.
Definizione del settore come teoria
Se vero che il settore industriale non costituisce pi l'elemento strutturale in grado di determinare il
comportamento delle imprese che vi gravitano, tuttavia l'eliminazione del concetto di settore porta a isolare
le singole imprese, quasi che le loro strategie non dipendano da un gioco di reciproca influenza esercitata o
esercitabile dalle altre imprese operanti, sia pure in senso storicamente limitato, nel medesimo ramo
produttivo. Eliminare il concetto di settore significa eliminare la concorrenza e parificare l'impresa a una
generica organizzazione, in cui termini come efficienza e profitto perdono ogni preciso significato.
La mediazione fra questi due estremi va cercata attraverso una definizione storicamente motivata della
configurazione di settore, inteso come luogo economico al cui interno operano le imprese in grado di
esercitare tra loro un gioco di concorrenza effettiva o almeno di concorrenza potenziale (Porter).
La definizione del settore non pu essere cercata in una caratteristica immanente del prodotto, della
tecnologia o del mercato, ma attraverso uno sforzo di previsione del modo in cui in futuro evolver la
concorrenza potenziale esercitata dalle imprese: il settore una realt dinamica che evolve nel tempo.
Il problema quello di individuare le modalit meno imperfette per selezionare i confini, considerando gli
elementi che appaiono maggiormente in grado di influenzare il gioco concorrenziale fra imprese
nell'orizzonte economico considerato.
2

In un'analisi di brevissimo periodo l'elasticit incrociata costituirebbe senz'altro un indice significativo, ma se


l'obiettivo di pronosticare l'evoluzione settoriale nei prossimi 3-5 anni o pi, necessario ipotizzare al
momento dell'analisi quali saranno i fattori concorrenziali che avranno maggior peso nel periodo futuro a cui
ci si riferisce. Un'analisi rivolta a un futuro pi lontano dovrebbe essere in grado di tenere conto di possibili
trasformazioni nella concorrenza che da potenziale pu tramutarsi nel tempo in effettiva.
Su questo fronte l'elasticit incrociata inapplicabile in quanto presuppone una misurazione che si potr
effettuare solo quando questi fenomeni si saranno gi manifestati, ma occorre una stima dell'elasticit
incrociata che si realizzer nel futuro a cui si rivolge l'analisi.
La definizione dei confini di settore costituisce necessariamente una operazione teorica, e va vista come una
operazione preliminare all'analisi della struttura settoriale, ma sistematicamente soggetta a revisioni man
mano che procede lo studio e quindi la conoscenza del settore stesso.
Una soluzione semplificata dell'approccio dell'elasticit incrociata suggerisce di definire il settore come il
luogo economico dato dall'intersezione di fattori fondamentali di omogeneit, importanti dal punto di vista
competitivo: bisogno soddisfatto, tecnologia, materiali impiegati e struttura commerciale.
Il settore,luogo economico in cui si realizza il confronto concorrenziale, appare composto dalle sole
imprese aventi in comune tutti e 4 i tipi di omogeneit ipotizzati, mentre i 4 gruppi di imprese che ne hanno
in comune 3 possono essere concepiti come potenziali concorrenti. Quindi, l'intersezione pu essere
considerato come il settore nel breve periodo, l'unione come una definizione del settore nel lungo periodo
comprensiva dei concorrenti potenziali nuovi entranti.
Le aree strategiche d'affari
L'ipotesi in cui ciascuna impresa opera con un solo prodotto non molto ragionevole, per il fatto che in realt
la domanda appare in generale composta da aggregati di consumatori aventi caratteristiche ed esigenze
piuttosto differenziate. Se l'offerta appare costituita da imprese monoprodotto si tratta di una situazione
anomala in probabile via di superamento (es. TV quando era ancora in fase di sperimentazione).
Poich l'articolazione della domanda e la differenza di esigenze dei consumatori restano un dato permanente,
appena le possibilit tecniche lo consentono, avviene una progressiva proliferazione dei prodotti offerti da
ciascuna impresa offerente, allo scopo di realizzare prodotti pi adeguati alle richieste dei vari consumatori.
Si individuano quindi un numero elevato di sottosettori dato dalla combinatoria delle diverse categorie di
prodotti, ed possibile che alcune imprese si specializzino in sottosettori diversi i quali si rivolgono a
categorie di consumatori totalmente separate, pur appartenendo sempre a uno stesso settore.
Ritenere di essere in presenza di un settore (anche se articolato in sottosettori) o in pi settori distinti, in
questo caso, dipende dal grado di disomogeneit vigente tra i prodotti destinati a diversi segmenti:
l'individuazione dell'arena competitiva rilevante pu o meno coincidere con l'intero settore.
L'area strategica d'affari (ASA) viene a coincidere con l'arena competitiva rilevante e pu sovrapporsi
esattamente con quello che le imprese chiamano settore o solo con una parte di esso.
Se il settore tende a individuare l'intero complesso dei concorrenti in grado di influenzare, con la loro
condotta, le condizioni economico-finanziarie di una certa impresa, l'ASA tende a rovesciare il punto di vista:
definita una certa azione competitiva, possibile selezionare le imprese che ne risulteranno influenzate
L'ASA una riduzione dell'arena competitiva alle sole imprese considerate rilevanti per il tipo di iniziativa
che si sta progettando: posso cercare di scegliermi i concorrenti (ASA) ma non posso impedire di essere
scelto come concorrente (settore).
Soprattutto nel breve periodo, pu essere opportuno considerare non tutto il settore, ma concentrarsi sul
segmento di imprese che sono pi direttamente in concorrenza con l'attivit che si intende svolgere.
La concorrenza multisettoriale
Un'impresa diversificata una impresa che compete in una pluralit di settori, tuttavia non si pu sottacere il
fatto che la forza competitiva di un'impresa, nel bene e nel male, influenzata dalla sua diversificazione.
La diversificazione pu giocare in modo funzionale qualora sia possibile utilizzare in un settore risorse
competitive generate in un altro settore.
Per contro, la diversificazione pu rappresentare un fattore di debolezza nei casi in cui essa non dia luogo a
sinergie, ma a dispersioni di risorse che si verificano per deficienze di carattere organizzativo.
Un'impresa diversificata, qualora attui una qualche forma di integrazione fra le varie ASA, non solamente
3

una impresa che si misura competitivamente in una pluralit di prodotti, ma un'impresa la cui
forza/debolezza competitiva anche funzione di questi collegamenti plurisettoriali.
La valutazione della competitivit di una impresa in un settore non pu limitarsi agli aspetti caratteristici di
quel settore, ma richiede uno sforzo di estensione anche alle sinergie o alle alterazioni prodotte dai
collegamenti con altri settori: si parla di concorrenza multisettoriale.
Barriere all'entrata
Le imprese operanti da tempo in uno specifico settore realizzano un complesso processo di investimento di
risorse in attivit tecnologiche, produttive, commerciali e organizzative, allo scopo di migliorare la rispettiva
capacit concorrenziale e mantenere un elevato livello di redditivit.
Per imitare le imprese che operano in un settore e che ottengono una buona situazione economicofinanziaria, i potenziali nuovi entranti valutano l'ammontare dell'investimento richiesto, i costi di esercizio e i
probabili ricavi che si presume possano derivare dall'operazione: tanto maggiore risulter l'ammontare dei
costi addizionali che i potenziali nuovi entranti dovrebbero sostenere rispetto ai costi delle imprese anziane,
tanto meno probabile che essi si sentano incentivati a effettuare l'inserimento.
L'indicatore di Bain (misura delle barriere all'entrata come differenziale del tasso di profitto di una
impresa operante nel settore rispetto al suo costo medio minimo) pu essere considerato un segnale
importante, ma in un settore l'entit delle barriere all'entrata misurata dai maggiori costi che il potenziale
nuovo entrante dovrebbe sostenere rispetto all'imprenditore da tempo inserito.
Quanto pi alte sono le barriere e tanto maggiore il divario fra costi e ricavi unitari che le imprese anziane
possono imporre alla domanda, attraverso la manovra del prezzo, senza temere che questa favorevole
situazione venga minacciata dall'ingresso di nuovi concorrenti.
Si distinguono due cause di formazione di barriere all'entrata: istituzionali (vincoli di natura legislativa) e di
derivazione competitiva (pluralit di barriere per ciascun entrante, varia natura).
Le fonti di barriere d'entrata
Si possono suddividere in tre sottocategorie:
1) vantaggi assoluti di costo da parte delle imprese anziane: per esempio, un'impresa anziana
potrebbe godere di rapporti privilegiati con un fornitore, o potrebbe essersi prodotta una forma di fedelt
alla marca di notevole importanza competitiva, acquisita presso i consumatori tramite una solida reputazione
in termini di affidabilit e che ha portato quindi alla costruzione di un'immagine di eccellenza che l'impresa
entrante ben difficilmente pu eguagliare e comunque solo attraverso rilevanti costi addizionali relativi a
campagne pubblicitarie, al lancio di speciali garanzia, ecc.
Anche ogni voce di costo pu rappresentare una barriera all'entrata, come nel caso dell'ammortamento che
in un'impresa anziana pu essere gi completato e quindi porta a imputare al prodotto minori costi fissi.
Inoltre, le funzioni commerciali e il patrimonio di esperienze nelle attivit gestionali possono essere barriere.
2) sfruttamento di economie di scala, che risultano precluse alle nuove entranti. Qualora la riduzione
dei costi unitari sia accentuata, per effetto della crescita della potenzialit produttiva, e la domanda ottima
minima (dom) risulti quantitativamente elevata in rapporto alla domanda complessiva del settore,
probabile che le imprese anziane siano passate attraverso un processo di crescita dimensionale.
Le alternative sono due: assumere una dimensione aziendale in linea con la quota di domanda operando con
impianti in saturazione ma con costi unitari superiori alla concorrenza, o acquisire una dimensione pari alla
dom e lavorare sempre a costi unitari pi alti per mancata saturazione degli impianti.
L'effettivo inserimento, seppur possibile anche se svantaggioso, rimane condizionato nei casi in cui le
imprese leader operino con una riserva di potenzialit produttiva non utilizzata, operino una strategia
mirata a realizzare un prezzo di esclusione o attuino una politica di prezzo di tipo predatorio (predatory
pricing), adottando prezzi al di sotto del costo di produzione con l'intento di produrre perdite massicce nelle
imprese ed estrometterle possibilmente dal mercato, rialzando successivamente i prezzi recuperando le
perdite e godere dei profitti monopolistici. E' una tattica anticompetitiva, rischiosa e improbabile.
3) barriere da differenziazione: caratterizzazioni del prodotto difficilmente imitabili dalle entranti.
L'impresa anziana avrebbe avuto l'opportunit e il tempo di procedere a una peculiare caratterizzazione del
prodotto in modo funzionalmente aderente alle esigenze della clientela o di una parte di essa. La
riconoscibilit del prodotto sarebbe legata ad attributi percepiti positivamente dal consumatore.
4

Tuttavia, ci sono due difficolt: o si assume che la nuova entrante pu imitare tutti i pregi di un prodotto
preesistente, ma in questo caso non si di fronte a una differenziazione in senso proprio e le caratteristiche
specifiche del prodotto dovrebbero essere solo uguagliate e non riprodotte; oppure si assume che la
differenziazione sia qualcosa di intrinseco al prodotto che lo rende in un certo senso incomparabile con altri.
A questo punto, la differenziazione per i prodotti a forte personalit diventa incancellabile e la
determinazione delle barriere all'entrata diventa quanto mai vaga e indefinita dal momento che per
definizione due prodotti differenziati restano differenziati nonostante ogni sforzo di imitazione (si manifesta
in misura crescente, per esempio, in tutti i mercati di beni di prestigio).
La molteplicit delle barriere all'entrata e le barriere negative
Non esiste una barriera all'entrata, ma tante barriere all'entrata in funzione non solo delle caratteristiche
dell'impresa che tenta l'inserimento, ma anche della tipologia dell'inserimento tentato, che pu avvenire sulla
base di progetti pi o meno ambiziosi a ciascuno dei quali corrispondono categorie peculiari di barriere da
affrontare e valori differenziati di costi addizionali.
Nel caso di imprese gi costituite, si parla di processo di diversificazione delle attivit, in cui i costi
addizionali da scontare rispetto alle concorrenti anziane possono essere limitati e circoscritti ad alcune aree
produttive e funzionali.
Non possibile trattare il tema delle barriere come un qualcosa di comune a una pluralit di imprese.
Qualora il processo produttivo adottato nella fabbricazione del prodotto debba essere integrato da una nuova
tecnologia, gi sviluppata in un altro settore, tutte le aziende del secondo settore vedono aumentare le
opportunit di diversificazione, e quindi di un nuovo inserimento, quanto pi importante la tecnologia di
cui sono depositarie. Nel caso in cui la tecnologia da inserire risulti pi sofisticata e costosa degli altri fattori
costitutivi delle barriere all'entrata (positive), si produce un'inversione di segno delle stesse barriere.
Le aziende che dispongono della nuova tecnologia hanno maggiori possibilit di acquisire le altre risorse
necessarie a operare nel settore di quante ne hanno le aziende anziane di impadronirsi di tale tecnologia.
Barriere all'uscita
L'esistenza di barriere all'uscita configura una situazione di notevole rilievo in quanto esse rendono pi
conveniente a un'impresa che sta subendo delle perdite continuare a produrre restando sul mercato anzich
cessare le attivit, anche in presenza di perdite considerevoli aventi natura strutturale, derivanti dal fatto che
l'impresa non riesce a monetizzare capitali immobilizzati (solitamente impianti parzialmente ammortizzati).
Le fonti di barriere all'uscita derivano dalla struttura dei costi delle imprese. Se un'impresa sostiene
unicamente costi di natura variabile, abbiamo una situazione di massima elasticit dei costi totali in funzione
dei volumi produttivi: non ci sono barriere all'entrata e nemmeno all'uscita, e nel caso riemergesse un
differenziale positivo per l'azienda essa potrebbe reinserirsi nella precedente posizione competitiva.
Nel caso di un mix di costi fissi e variabili, la riduzione del volume di produzione non consente la manovra di
recupero del caso solo costi variabili, in quanto la contrazione del volume di attivit si accompagna alla
riduzione dei soli costi variabili. Nell'ipotesi di soli costi fissi, una variazione del volume produttivo sarebbe
ininfluente ai fini dell'ammontare del costo sostenuto.
Si potrebbe ipotizzare che la presenza di capitali immobilizzati non crei indugio alla dismissione delle attivit
per il fatto di poterli liquidare a prezzo di mercato, ma ci non avviene se non in concorrenza perfetta, in
quanto la dismissione di un impianto non detto che recuperi il valore residuo da ammortizzare
dell'investimento.
Uno dei parametri di riferimento per la valutazione fra continuare a produrre o abbandonare dato dal
valore dell'impianto da dismettere, dato dalla differenza tra valore residuo di libro degli impianti e l'introito
netto della cessione. Tutte le immobilizzazioni non recuperabili sono chiamate costi affondati
(sunk costs) e danno la misura della barriera all'uscita.
L'altro parametro necessario al confronto dato dalla perdita derivante della prosecuzione delle attivit.
Sar conveniente continuare a produrre in perdita in tutti i casi in cui la gestione consenta un
ammortamento dei costi pluriennali superiore al recupero connesso alla cessione degli stessi. Quanto meno
risulta conveniente la cessione per la presenza di rilevanti costi affondati e tanto pi vi sar convenienza a
proseguire l'attivit anche con ricavi totali inferiori a costi totali, ma che devono per risultare superiori ai
costi variabili per dare luogo almeno a un parziale ammortamento dei sunk costs residui.

CAPITOLO 4 DIFFERENZIALI DI COMPETITIVITA' TRA LE IMPRESE


Secondo gli schemi di analisi pi accreditati le imprese possono avvantaggiarsi sulla concorrenza attraverso
due modalit. La prima consiste nel realizzare un vantaggio di costo a parit di prodotto offerto (capacit
distintiva basata su un fattore quantitativo). La seconda deriva invece dal proporre alla clientela un prodotto
avente caratteristiche peculiari rispetto all'offerta concorrente (fattore di ordine qualitativo,
differenziazione), che spingono almeno una parte dei consumatori a preferire il prodotto in questione.
La sostanza del problema, per, pi complessa, in quanto la concorrenza fra imprese un fatto
assolutamente multidimensionale in cui le occasioni di creare vantaggi competitivi di natura consistente e
non volatile sono molto numerose.
Inoltre, senza una conoscenza delle cause di una certa situazione competitiva diventa difficile, se non
impossibile, studiare una adeguata politica di risposta concorrenziale.
Gli studiosi di discipline manageriali hanno focalizzato l'attenzione sull'importanza dello studio sistematico
della concorrenza: benchmarking, l'attivit di monitoraggio da svolgere nei confronti della concorrenza.
Il concetto di benchmarking non indica solamente l'osservazione attenta e metodica dei concorrenti, ma
tende a focalizzare l'attenzione sulle imprese che mostrano qualit manageriali eccellenti a prescindere dal
settore di operativit. Si tende ad individuare, a seconda delle diverse funzioni gestionali e dei diversi
obiettivi competitivi, le imprese pi innovative ed efficienti in assoluto a livello mondiale.
Tuttavia, questo approccio nasconde dei pericoli: in primo luogo, il monitoraggio di imprese eccellenti a
livello mondiale appare molto costoso; in secondo luogo, essenziale che l'osservazione sulla concorrenza
avvenga in modo sistematico e non come una moda manageriale.
Il benchmarking deve essere visto come un elemento integrativo dell'analisi rivolta verso l'interno
dell'impresa. Il monitoraggio verso l'esterno, sia esso rivolto verso imprese dirette concorrenti o imprese
eccellenti collocate nello scenario competitivo, ha solo funzione di sollecitare idee innovative (brainstorm).
E' difficile che un'impresa risulti pi competitiva di un'altra su tutti gli aspetti di rilievo, in quanto queste
caratteristiche sono almeno in parte contrastanti: nella stragrande maggioranza dei casi un'impresa pi
forte delle sue concorrenti ha la possibilit di rimanere in questa posizione finch il mercato si mantiene
costante nell'assetto. Un assestamento di mercato potrebbe quindi portare anche in modo rapido a una
ridefinizione del posizionamento delle imprese all'interno dell'arena competitiva.
Il cambiamento delle imprese andrebbe pianificato a partire dalle posizioni di vantaggio: quando l'impresa
in vantaggio essa ha pi tempo e pi risorse con cui sperimentare nuove soluzioni competitive; al contrario,
l'intervento fatto in situazioni di difficolt non solo reso pi difficile per la minor disponibilit di risorse, ma
soprattutto pi rischioso in quanto non vi sono margini di recupero per eventuali errori.
Il benchmark, quindi, ha valore solo nella misura in cui produce nuove idee e nuove iniziative per il
miglioramento interno all'impresa e assume la natura di un confronto sistematico.
Metodologia di definizione e misura di un fattore di competitivit sui costi
La metodologia di indagine dei vantaggi di costo differente e in genere pi facile da determinarsi di quelle
derivanti da vantaggi di natura qualitativa e quindi legati al complesso fenomeno delle differenziazioni.
La misura di un singolo fattore di competitivit richiede la costruzione di un diagramma cartesiano nel quale
viene posta in ascissa la variabile causa del vantaggio competitivo (es. il fattore scala o apprendimento o
comunque legato al vantaggio di costo), e in ordinata la variabile effetto misurata attraverso una riduzione
del costo medio unitario di prodotto. La verifica dell'esistenza di un vantaggio di costo sar determinata dalla
relazione fra il crescere della variabile causa e il variare della variabile riduzione del costo unitario.
Se la funzione disegnata decrescente verso destra si dir che si ha un caso di economie di scala; nel caso di
una curva crescente verso destra si in presenza di diseconomie di scala.
Quando un'impresa desidera verificare se essa gode di un vantaggio (svantaggio) competitivo di costo
relativamente a un certo fattore dovrebbe assumere:
1- una situazione nella quale si confronta con un'altra impresa che produce un prodotto strettamente
comparabile al proprio, allo scopo di rispettare la condizione di ceteris paribus;
2- la sola variabile che muta nel confronto e quindi nella relazione la variabile causa, in modo che quanto
riscontrato nella variabile effetto sia totalmente ed esclusivamente riferito alla variabile causa;
3- se si ipotizza che si stia misurando un eventuale effetto di economie di scala, sull'asse x si andr a
1

individuare la dimensione riferita a ciascuna impresa (x1, x2). La misura del cmu delle due imprese
(y1, y2) , aventi dimensioni diverse, fornisce le altre due coordinate necessarie a fissare i due punti
attraverso i quali passer la curva;
4- la rilevazione della coppia di valori per un gran numero di imprese fornisce i valori che danno per
interpolazione l'intera curva del fenomeno analizzato.
A questo punto si pu passare a rilevare una misura del secondo fattore di competitivit e cos via. Il
passaggio a una misura congiunta dell'effetto contemporaneo di due o pi fattori di competitivit consiste nel
passare a un diagramma a pi assi.
La metodologia dev'essere studiata ad hoc e sarebbe un errore cercare di misurare l'effetto di un singolo
fattore, senza preoccuparsi di mantenere invarianti i valori degli altri fenomeni che eventualmente
potrebbero influenzare i valori del costo medio di prodotto.
Il concetto generale di economia di scala e la rappresentazione riferita all'impianto
Si in presenza di economie di scala quando il rendimento della funzione di produzione cresce all'aumentare
della scala o dimensione delle attivit di trasformazione. In altre parole, il manifestarsi di economie di
scala comporta una riduzione dei costi medi unitari al crescere della scala dell'unit economica considerata
(impianto, impresa, ecc.).
Si deve individuare in modo rigoroso la variabile con la quale si ritiene di poter misurare la scala
dell'impresa. Generalmente si soliti riferire le economie di scala a una singola macchina, un singolo
impianto o a una singola impresa.
Nel caso di ipotesi proprie del modello di concorrenza perfetta, un'impresa dotata di pi macchine (non
integrate) o pi impianti non ha ragione di esistere: in tale modello non si pu avere una dimensione
ottimale a livello di macchina o di impianti diversa da quello di impresa: se non coincidono, una meno
efficiente dell'altra, e come tale destinata a scomparire per effetto del gioco concorrenziale.
Al di fuori della situazione concorrenziale si possono avere due dimensioni ottimali, una per l'impianto
(dimensione del processo produttivo) e una per l'impresa: in questo caso solo la prima dettata tipicamente
da economie di scala. Se si vogliono mettere a confronto le economie di scala riferite all'impianto di due
imprese la variabile potenzialit produttiva esprime compiutamente la misura cardinale della scala delle
due imprese, ma se si vuole mettere a confronto la dimensione complessiva di due imprese non si riesce a
trovare la variabile in grado di rappresentare e misurare in modo cardinale le due dimensioni a confronto.
Di conseguenza, un'analisi rigorosa volta a determinare la presenza o meno di economie di scala nel
confronto tra impianti di imprese diverse richiede una situazione di invarianza di tutti gli elementi costitutivi
dell'impresa (ceteris paribus) al variare della dimensione. Altrimenti l'effetto che se ne deduce non pu
essere logicamente imputato alla sola variazione della scala dell'impianto.
Il risparmio reale di risorse, vale a dire un risparmio misurabile in termini fisici (crescita pi che
proporzionale dell'output al crescere dell'input misurati in termini fisici) pu essere assunto come un
elemento segnaletico (necessario ma non sufficiente) delle economie di scala.
Ricollegandosi al modello concorrenziale, poich in situazione di equilibrio uniperiodale tutte le imprese
adottano le stesse risorse, la stessa tecnologia produttiva e pervengono a un prodotto identico, un risparmio
monetario realizzato da un'impresa pi grande significa automaticamente un risparmio reale.
Nella misura delle economie di scala a livello di impianto, a differenza della classica impostazione
marshalliana (che usa il termine produzione come variabile che misura la scala), la variabile da considerare
propriamente la potenzialit produttiva.
Per arrivare a rappresentare la curva delle economie di scala avente in ascissa la potenzialit produttiva si
deve passare ad analizzare prima la curva di saturazione di un impianto (definita da Marshall curva dei costi
di breve periodo o curva dei costi esistenti), che viene disegnata avendo in ascissa il volume di produzione.
Partendo dalla curva di costo totale Ct, e dividendo per la quantit prodotta, si ottiene una funzione
monotona decrescente avente un asintoto pari al coefficiente angolare della retta dei costi variabili (in quanto
l'incidenza dei costi fissi diventa trascurabile al crescere del volume del prodotto.
La funzione di costo medio Cm derivata dalla precedente presenta un punto di minimo in corrispondenza
della quantit q*, denominata livello ottimale di saturazione dell'impianto dato.
Oltre il livello di saturazione il costo unitario riprende a salire. Il costo unitario della curva di saturazione (di
costo di breve periodo) ha quindi un punto di minimo unico e ben individuato che determina la quantit che
un produttore, dotato dell'impianto in questione, ha convenienza a produrre e offrire sul mercato in quanto a
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quel volume di saturazione egli registra il costo unitario minimo.


Tale curva, per, non rispecchia la presenza di economie di scala dal momento che in questo diagramma non
si fatta variare la dimensione dell'impianto (che rimane fissa), limitandosi invece ad esaminare
l'andamento del costo medio al variare del grado di saturazione di un solo particolare impianto, quello di cui
dotata l'impresa considerata.
Il passaggio da una o pi funzioni di costo di saturazione a una funzione di economie di scala avviene
attraverso la composizione in un unico diagramma di pluralit di funzioni di saturazione, ciascuna riferita a
impianti di diversa dimensione. Accrescendo indefinitamente il numero di impianti, ciascuno caratterizzato
da una curva di saturazione avente un andamento a U, si pu passare da una curva a festone a una curva di
inviluppo continua, derivabile e tangente alle infinite curve di saturazione: ogni curva di saturazione
individua un solo punto della curva delle economie di scala. Con questo passaggio cambia la variabile posta
in ascissa: non pi la quantit prodotta in quanto ogni punto della curva delle economie di scala corrisponde
a una precisa potenzialit produttiva.
Si nota che ogni singola curva di saturazione tangente alla funzione delle economie di scala (curva di costo
di lungo periodo o dei costi adeguati) in un solo punto. La tangenza avviene secondo tre modalit:
1) nel tratto in cui la curva delle economie di scala decrescente la tangenza avviene in un punto che
precede il grado di saturazione ottimale dell'impianto;
2) nel punto in cui la curva delle economie di scala raggiunge il minimo, anche la corrispondente curva di
saturazione dell'impianto segna il punto minimo (condizione ottimale congiunta, corrispondente
all'ottimo tecnico);
3) nel tratto in cui la curva delle economie di scala crescente, la tangenza avviene in un punto successivo
al grado di saturazione ottimale dell'impianto.
Ci sta a significare che esiste un solo impianto che risulta ottimale tanto nel breve quanto nel lungo periodo.
In tutti gli altri casi non vi esatta corrispondenza fra il costo minimo relativo a una determinata quantit di
prodotto e il costo minimo relativo a un impianto di una determinata dimensione.
Se data la quantit da produrre (lungo periodo) allora la scelta cade sull'impianto che, in corrispondenza di
quel volume produttivo, assume il costo medio minimo (massime ec. di scala compatitibili con la quantit).
Se dato l'impianto (breve periodo) si sceglier di produrre, compatibilmente con la domanda, la quantit
che assicura il costo medio minimo corrispondente al grado di saturazione ottimale per l'impianto dato.
Natura e fonti delle economie di scala
In una situazione diversa da quella in cui si procede in modo assiomatico (in cui si dice che le curve di costo
medio di saturazione e di scala hanno forma a U), si pu supporre che le curve di saturazione dei vari
impianti, pur avendo costi medi prima crescenti e poi decrescenti, si dispongano in modo da formare una
curva delle economie di scala avente pi punti di minimo, oppure che raggiunto il punto di minimo essa
proceda indefinitamente in modo orizzontale o con un debolissimo ma continuo andamento decrescente
(curva a L). Qualora si abbiano diversi punti di minimo assume un particolare interesse quello avente la
potenzialit produttiva minima: la dimensione ottima minima (Dom) o minimum efficient scale (Mes).
L'orientamento all'aspetto macroeconomico dei fenomeni economici, nonch il passaggio a modelli di
concorrenza monopolistica o di concorrenza imperfetta, si persa l'esigenza di assumere una particolare
forma delle economie di scala. Di conseguenza, in una trattazione generale delle economie di scala, non
riferita a una singola impresa o a un settore particolare, non ci si preoccupa di indagare le cause e quindi le
condizioni che realizzano effettivamente le economie di scala. Si presume, semplicemente, di disporre di
funzioni di costo date, da cui sviluppare i conseguenti giudizi di natura economica circa il corrispondente
assetto tendenziale del settore.
L'ottenimento di economie di scala corrisponde a un risparmio di risorse realizzate in funzione di un
accrescimento della dimensione (potenzialit) dell'unit produttiva. Di conseguenza un processo di
fabbricazione che si manifestasse secondo una relazione lineare fra input e output, per qualunque livello di
potenzialit, si caratterizzerebbe per l'assenza di economie di scala (o diseconomie).
L'ottenimento di output proporzionale rispetto all'input deriva se, e solo se, si verificano le condizioni:
1) input e output sono perfettamente frazionabili;
2) efficienza del processo di trasformazione indipendente dalla scala delle operazioni
(assoluta frazionabilit della tecnica produttiva).

Un confronto su base economica fra input e output non altera il risultato dal punto di vista della misurazione
delle economie di scala solo se l'acquisto e la vendita di tutti i fattori produttivi avvengono sulla base dei
prezzi (quindi di valori) che non scontano al proprio interno situazioni distorsive rispetto alla concorrenza
perfetta: in situazioni diverse da quelle concorrenziali, risorse e prodotti hanno prezzi influenzati dalla
posizione di potere del mercato espresso dai concorrenti.
Le fonti delle economie (e diseconomie) di scala possono manifestarsi in qualsiasi scelta o qualsiasi area
gestionale a patto che in esse venga meno la frazionabilit delle risorse o la proporzionalit del processo di
trasformazione: queste due condizioni costituiscono le fonti di economie o diseconomie di scala in quanto il
loro combinarsi si riflette sull'andamento del costo medio unitario del prodotto o servizio commercializzato
dall'impresa.
Generalmente, la presentazione delle fonti di economie di scala viene fatta o attraverso le aree aziendali in
cui le economie di scala possono manifestarsi (es. organizzative, produttive) oppure con l'identificazione
delle scelte strategiche che possono consentire la realizzazione di questo genere di economie (es.
standardizzazione). Spesso non chiaramente identificabile la variabile utilizzata per misurabile la scala
delle operazioni (come nelle economie di impianto e la relativa potenzialit produttiva).
Erronee attribuzioni di economie di scala
Si manifestano economie di scala riferita all'impianto quando ha luogo una economia reale di risorse.
1) l'errore pi grossolano quello di confondere le economie di saturazione di un impianto (riduzione
di costo all'aumento del grado di saturazione di un dato impianto) con le economie di scala vere e proprie.
2) alcuni fenomeni di vantaggio competitivo di un'impresa sulle altre non derivano da economie di scala.
Un'esempio rappresentato dalle economie di specializzazione. Le economie che derivano da questa
trasformazione non dipendono dalla scala ma dalla disintegrazione del ciclo produttivo nelle sue varie fasi e
quindi dalla scomparsa dei tempi improduttivi, persi durante lo svolgimento di funzioni successive ed
eterogenee. La specializzazione per realizzarsi non richiede la grande dimensione a livello di impianto o di
impresa, ma solo che la domanda complessiva a livello di settore sia sufficientemente ampia da assorbire
l'incremento di produzione (a parit di lavoratori) derivante dalla specializzazione.
E' importante focalizzarsi sulla variabile causa, usata per rappresentare il fenomeno delle economie di
scala (in questo caso, la variabile l'ampiezza della fase da svolgere).
3) un terzo motivo riguarda l'inserimento, tra le fonti di economie di scala, delle riduzioni di costo ottenute
attraverso il controllo dei mercati (economies through control of markets): anche qualora si sia di fronte
a soluzioni effettivamente pi economiche per il settore o il sistema economico in generale, ci non dipende
dalla scala con cui si opera ma dal fatto di ipotizzare una condizione che in modo generale favorisce
indiscriminatamente ogni attivit economica.
Pratten suddivide economie reali di scala e vantaggi da monopolio: entrambe sono fatte rientrare tra le
economie di scala, e anche in quelle reali sono inseriti effetti di carattere monopolistico.
Bain, invece, distingue economie reali di scala e pecuniary economies (economie pecuniarie, meglio indicate
come potere monopolistico di negoziazione come indicato dallo stesso autore).
L'aggettivo pecuniario deriva dal fatto che queste supposte economie di scala non si realizzano all'interno
dell'impresa (grande) che se ne avvantaggia.
Misurazione empirica delle economie di scala
il problema della misurazione delle economie di scala riferite all'impianto si presenta pieno di difficolt. Dal
punto di vista della definizione, questo genere di rilevazione consiste nel computo del rapporto fra costi totali
di produzione e potenzialit produttiva corrispondente, riferito a una pluralit di impianti di potenzialit
diversa, in modo da pervenire a una funzione di costo medio unitario di lungo periodo con la
potenzialit produttiva del settore adeguata alla domanda complessiva.
Il confronto dei valori di costo medio di ciascuna impresa richiede una situazione di totale omogeneit delle
condizioni operative con quelle altrui: tutto dovrebbe essere uguale meno la variabile indipendente (la
potenzialit produttiva, con valori da zero a infinito) e la variabile dipendente rappresentata dal costo medio
unitario di lungo periodo.
Una rigorosa misurazione richiederebbe, per tutte le imprese, condizioni ceteris paribus: un prodotto
assolutamente uguale per prestazioni e qualit, prezzi uguali per l'acquisto di risorse uguali, stesso livello di
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conoscenza scientifica e di mercato, omogeneit di ogni fattore diverso dalla variabile indipendente e la
contemporaneit e l'istantaneit della misurazione.
Questo insieme di condizioni corrisponde alla definizione della situazione di equilibrio di lungo periodo in un
mercato di concorrenza perfetta. Di conseguenza, in una situazione non perfettamente concorrenziale, la
misura delle economie di scala richiedere stime almeno in parte caratterizzate da arbitrariet.
Di seguito tre metodi di misurazione delle economie di scala.
1 Il metodo della sopravvivenza
Metodo adottato da Stigler nel 1958, si pu cos sintetizzare: in una situazione di concorrenza (free
competition) l'esistenza di vantaggi o svantaggi di scala pu essere verificata secondo un test infallibile
materializzato dallo stesso operare del mercato, che seleziona l'azienda dimensionalmente pi efficiente
consentendole di sottomettere le altre attraverso una politica di prezzi ribassati (undersell).
L'applicazione di tale principio prevede una successione di fasi:
a) si classificano le imprese appartenenti al settore industriale considerato in fasce dimensionali differenziate
in funzione del fatturato;
b) si procede al calcolo, riferito a un certo istante, della quota percentuale dell'offerta complessiva di
competenza di ciascuna fascia;
c) in un momento successivo si riassegnano le imprese alle fasce di fatturato gi stabilite, ricalcolando la
quota di mercato delle varie fasce;
d) la fascia che ha realizzato nell'intervallo di tempo la maggior crescita della quota di fatturato viene
considerata la quota che gode di maggiori economie di scala, e le imprese appartenenti a quella fascia
rappresentano imprese dimensionate in modo ottimale.
Invece, la fascia che ha visto ridursi maggiormente la propria quota di mercato va considerata la pi
lontana da una situazione ottimale.
e) se il processo di convergenza di tutte le imprese verso la fascia con maggior vantaggio competitivo si
manifestasse abbastanza a lungo, sopravviverebbero solo quelle dotate delle maggiori economie.
Secondo questo metodo le economie di scala non vengono misurate e non si pu rappresentarne la curva, e
sono presenti molti punti oscuri sulle stesse modalit empiriche.
- Stigler non dice nulla riguardo al numero delle fasce in cui opportuno suddividere il complesso delle
imprese del settore;
- altera il concetto di economie di scala dilatandolo al punto di ricondurre a un fattore dimensionale tutta la
capacit competitiva dell'impresa. Secondo Stigler le economie di scala esistono, per definizione, e
costituiscono l'unica chiave di processo, o quanto meno la causa prima, per l'affermazione di un'impresa.
Si finisce per assumere che l'obiettivo dell'impresa (o imprenditore) la crescita dimensionale e che tutto
viene giocato in funzione del raggiungimento di questo risultato;
- si nota che le economie di scala vanno calcolate a impianti adeguati, ovvero in una situazione in cui
l'ammontare della domanda dato e gli impianti sono perfettamente saturati. La rilevazione di Stigler pu
cogliere il settore in un momento in cui la domanda attraversa una fase espansiva o riduttiva.
2 Il metodo dell'analisi statistica
Questo metodo, detto anche cross-sezionale, basato su due caratteristiche: l'analisi esercitata a partire dai
valori contabili delle imprese desunti dai bilanci, e i dati usati per la valutazione del costo medio unitario
devono essere tratti in modo maggioritario (se non esclusivo) da valori di mercato, quindi emergenti da
operazioni economiche concrete riflesse nei dati contabili delle imprese (e non congetturati).
Si cerca, quindi, di pervenire a una misurazione delle economie di scala che sia il meno possibile influenzata
da aggiustamenti di carattere soggettivo. L'applicazione di tale metodo richiede comunque valutazioni
integrative derivate dal metodo ingegneristico (per esempio, relative alla quantit prodotta).
Le critiche rivolte a questo metodo sono originate da due ordini di motivi:
1) i dati provenienti dalle rilevazioni contabili, pur ritenuti in s affidabili, riguarderebbero situazioni diverse
da quelle idealmente necessarie a una corretta rilevazione delle economie di scala. Ad esempio:
- se le imprese esaminate non producono beni rigorosamente omogenei, le differenti strutture dei costi medi
di produzione delle diverse imprese non possono essere direttamente comparate: si finirebbe per imputare
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completamente a diversi livelli di scala e di efficienza ci che almeno in parte dipenderebbe da prodotti
aventi caratteristiche qualitativamente difformi;
- un altro elemento di inquinamento deriva dalla possibilit che le imprese o gli stabilimenti si trovino ad
operare a un diverso grado di saturazione della potenzialit produttiva, o comunque non nel punto di minimo
delle rispettive curve di costo di breve periodo.
2) si pone in discussione la stessa significativit intrinseca dei dati in questione: c' chi considera i dati di
bilancio una fonte informativa troppo grossolana (per es. in bilancio non compare la quantit fisica del bene
prodotto per un calcolo del costo unitario, o non ci sono criteri di ripartizione dei costi per pi prodotti).
3 Il metodo ingegneristico
L'applicazione del calcolo di tipo ingegneristico presuppone che ci siano le condizioni proprie di un
equilibrio di lungo periodo di concorrenza perfetta, che coincide con le assunzioni necessarie per una
univoca definizione del concetto di economie di scala.
Il metodo ingegneristico non fa altro che partire da una situazione concreta del settore considerato nel quale
sar attivo un certo numero di imprese con impianti di produzione di diversa dimensione. Se questa
situazione reale non perfettamente in linea con le condizioni del corretto confronto di tipo ceteris paribus,
il metodo ingegneristico consiste nel partire dai valori reali e nel calcolare come modificare questi valori per
avvicinarli il pi possibile a quelli che avremmo se le condizioni reali rispettassero i vincoli del ceteris
paribus. In altre parole, apporta gli aggiustamenti necessari ad avvicinarsi una situazione reale (imperfetta
perch non allineata ai vincoli richiesti) a quella teorica in cui i vincoli sono rispettati.
Si cerca allora di calcolare il valore che verrebbe ad assumere il costo medio qualora la situazione
dell'impresa si spostasse fino a raggiungere il punto di minimo del costo di breve periodo.
E' il metodo meno imperfetto proprio perch cerca di modificare i valori presenti nel settore e quindi reali,
ma difformi da quelli che si formerebbero sul mercato se esistessero le condizioni per una misura rigorosa
delle economie di scala, con una misura stimata ma che comunque si avvicina a quella rigorosa.
Non un procedimento semplice e preciso, dal momento che nei costi totali una fetta normalmente
sostanziosa rappresentata dai costi fissi.
Economie di apprendimento
Le economie di apprendimento devono essere considerate come qualcosa di assolutamente distinto dalle
economie di scala. Un'impresa che produce da pi tempo di un'altra il proprio prodotto dovrebbe riuscire a
produrlo a costi pi bassi.
La variabile 'causa' scelta esprime numericamente l'apprendimento attraverso il numero cumulato nel tempo
dei pezzi prodotti di un certo bene.
La realizzazione ripetuta di uno stesso prodotto o servizio, specialmente se complesso, consente un
progressivo affinamento dei modi di produzione sia da parte delle maestranze, sia nell'attrezzaggio del
macchinario utilizzato. L'apprendimento di forme organizzative e tecniche pi efficienti, derivante
dall'accumulo di esperienze, consente economie spesso rilevanti.
I ricercatori del Bcg hanno teorizzato una relazione funzionale fra la quantit cumulata dell'operazione
analizzata e il costo sostenuto per svolgerla.

Le modalit con cui si misura l'apprendimento possono essere fonte di erronee valutazioni.
Tradizionalmente, l'apprendimento viene misurato per semplicit attraverso la quantit cumulata delle
operazioni svolte. Questa semplificazione pu risultare fuorviante in quanto l'apprendimento non dipende
meccanicamente dal ripetersi delle operazioni, ma un fatto complesso che si ottiene attraverso
un'organizzazione dell'apprendimento.
Un altro errore ancora pi rilevante avviene quando si misura il cumulo delle attivit attraverso il cumulo
dell'attivit prodotta. In questo caso pu succedere che la crescita della quantit non significhi affatto, per
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uno stesso soggetto, la ripetizione dell'operazione e quindi l'apprendimento. Si manifesta soprattutto quando
si mischiano economie di scala ed economie di apprendimento.
Le economie di scala vengono anche considerate economie di tipo 'statico': si confrontano
contemporaneamente due impianti di diversa potenzialit, e una volta che si sia acquisito l'impianto di
maggiore dimensione il costo unitario non si riduce ulteriormente (staticit) dal momento che si continua a
utilizzare sempre lo stesso impianto.
Le economie di apprendimento, invece, sono considerate 'dinamiche': si confrontano le prestazioni in due
momenti diversi, e la ripetitivit delle operazioni, necessariamente collegate al trascorrere del tempo, genera
sempre nuove occasioni di economia.
Per questo sono definite anche economie di sviluppo, in quanto ogni apprendimento fonte di una nuova
opportunit di espansione: si pone in evidenza l'importanza di questi meccanismi endogeni alla gestione
aziendale, che producono un processo di accumulazione (interiorizzazione) delle conoscenze che
non si consumano durante il loro utilizzo, ma grazie ad esso tendono ad espandersi e ad accumularsi.
Economie di replicazione
le economie di replicazione consistono essenzialmente nel vantaggio che pu essere conseguito in un sistema
per il fatto che l'informazione prodotta in un punto pu essere replicata (a costo nullo o molto basso) in
modo da essere utilizzata in tutti gli altri punti del sistema in cui essa ha un valore utile.
Questo tipo di economie prossimo a quelle di apprendimento con alcune differenze: la replicazione si
configura come un fatto semplice e automatico, che non promuove un apprendimento. Il risparmio deriva
non dal fatto di fare meglio il prodotto gi realizzato una o pi volte, ma connesso piuttosto all'assenza dei
costi fissi nella fase della replicazione del prodotto e al modestissimo rilievo dei costi variabili chiamati in
gioco. Un esempio un software e la sua duplicazione su CD.
La possibilit di effettuare la replicazione dipende dal fatto di aver progettato e realizzato un prodotto che
incontra le esigenze della clientela. Le economie, quindi, non derivano in senso stretto dalla dimensione
quanto piuttosto dall'effetto della qualit del prodotto.
Economie di scopo ristrette
Le economie di scopo (o di diversificazione, o di variet) sono rappresentate da una riduzione dei costi
unitari di produzione per effetto di una produzione congiunta di pi beni all'interno dello stesso processo
produttivo (produzione simultanea in uno stesso impianto).
Sono godute da una impresa multiprodotto ma non automaticamente vero il contrario, dal momento che
una impresa pu produrre beni diversi ma non simultaneamente e non nello stesso impianto.
Inoltre, alcuni estendono le economie di scopo anche all'area di distribuzione congiunta di beni, oltre a quella
della produzione: economia di scopo quando il risparmio dei costi di distribuzione connesso a una
particolare combinazione di trasporto congiunto (es. beni di forma complementare), mentre se ci si riferisce
a un risparmio generico si potrebbe parlare di economie di saturazione.
Le economie di scopo 'ristrette' hanno rilievo nei casi in cui conveniente produrre simultaneamente in uno
stesso impianto due beni distinti, casi che sono circoscritti e riguardano situazioni in cui in realt si produce
un particolare prodotto che risulta congiunto a un sottoprodotto.
Economie di scopo allargate
Le economie di scopo nella loro definizione originaria hanno un significato molto ristretto e limitato alle
forme di produzione tecnicamente congiunta di beni, e nascono quindi come espressione di situazioni
tipicamente produttive. Successivamente, tali economie hanno cominciato ad assumere un significato pi
ampio, ma tendono a restare inquadrate come il risultato di una trasformazione tipicamente fisico-materiale.
Con la lettura di Chandler, la produzione di beni per creare economie non deve rispettare la condizione
altamente restrittiva di una produzione tecnicamente congiunta, ma sufficiente che un'impresa ampli la
propria gamma con modalit di espansione 'a macchia d'olio' per godere di economie di scopo.
In sostanza, queste economie si definiscono e si configurano come economie derivanti da attivit non
standardizzate ma che comunque presentano aspetti comuni o complementari che consentono a un'impresa,
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che svolga il complesso di queste attivit in modo concomitante, di sostenere costi medi unitari inferiori a
quelli che sarebbero sostenuti da imprese che svolgessero le stesse attivit in modo separato.
Le economie di scopo hanno una duplice natura, in quanto sono il frutto contemporaneo di:
1) condivisione di costi per attivit produttive di tipo fisico-materiale volte a realizzare prodotti diversi ma
che condividono apparecchiature, impianti e quant'altro serva a rendere pi economica la
realizzazione concomitante dei prodotti;
2) uso allargato delle stesse conoscenze ad ambiti applicativi diversi (attivit immateriali ad alto contenuto di
conoscenza).
Le economie di scopo di tipo allargato sono soprattutto quelle che mostrano di riutilizzare e di estendere in
modo creativo (in quanto la diversificazione richiede elementi di novit) le conoscenze gi acquisite
dall'impresa in una pluralit di campi di importanza strategica sempre pi rilevante.
Questa tipologia di economie di scopo allargate appare destinata a concretizzare in futuro opportunit
competitive pi rilevanti nel caso delle attivit immateriali pi che nelle attivit materiali, e si tratter quindi
di integrare sempre pi conoscenze piuttosto che attivit produttive in senso stretto.
Se nel recente passato il vero driver dell'innovazione veniva individuato nell'integrazione delle attivit (e
il coordinamento gerarchico), continuando a percepire le economie di scopo pi come il frutto di attivit
fisico-manifatturiere che di attivit immateriali connesse alla gestione delle conoscenze, ora e in futuro le
forme di competitivit pi importanti deriveranno:
- sempre meno da una economia delle risorse realizzata attraverso un processo fisico-manifatturiero
sempre pi da una economia collocata pi a monte nel campo della gestione della conoscenza;
- sempre meno dal fare gli stessi prodotti con meno risorse e sempre pi dal creare nuovi prodotti per una
clientela tanto volubile quanto internamente differenziata per esigenze ed aspirazioni;
- sempre meno dal soddisfare il consumatore attraverso il conferimento di un possesso di singoli beni di
consumo e sempre pi dall'uso di un sistema potenzialit (beni + servizi).
Il vantaggio competitivo, quindi, si genera soprattutto attraverso un'integrazione delle competenze e delle
conoscenze che supera la singola impresa.
Economie esterne e distretti industriali
Si ipotizza che tutte le imprese possano acquisire i fattori produttivi di cui hanno bisogno alle medesime
condizioni, di conseguenza il successo e la sopravvivenza dell'impresa dipende in modo esclusivo
dall'efficienza del suo funzionamento interno.
Nella realt possibile che l'acquisizione delle risorse esterne da parte delle imprese si presenti con modalit
differenziate avvantaggiando l'una o l'altra impresa. In tal caso, si dice che ci sono esternalit, che giocano
a favore (economie esterne) o a sfavore (diseconomie esterne) delle diverse imprese nei diversi momenti.
Le economie e diseconomie esterne sono rappresentate da elementi di vantaggio o svantaggio che non
dipendono dalle modalit di impiego delle risorse da parte dell'impresa, ma derivano da beni e servizi che
l'impresa acquisisce a un prezzo inferiore al loro valore. Possono riguardare una gamma estesissima di
fenomeni che influenzano l'impresa, e il loro significato assume rilievo quando queste esternalit giocano in
modo differenziato rispetto alle imprese che sono in competizione tra loro.
Le esternalit sono quindi collegate, in generale, a una certa localizzazione delle imprese che consente ad
alcune (e impedisce ad altre) di essere influenzate dalle economie e/o diseconomie.
Essere localizzati in una certa area comporta una serie di vantaggi e/o svantaggi in merito alle esternalit
rispetto a imprese localizzate diversamente.
Se un fattore produttivo totalmente e perfettamente mobile, oppure omogeneamente distribuito su tutto il
territorio, non d luogo a esternalit di natura differenziale ed ininfluente sul vantaggio competitivo.
Un tipo di localizzazione ristretta il distretto industriale (basati su economie di agglomerazione), in cui
le economie esterne sono riferite a una delimitazione territoriale particolarmente ristretta. Si distinguono:
le economie esterne di tipo tecnologico, che derivano dalla interdipendenza fra imprese e si manifestano per
il fatto che un'impresa non pu sfruttare dei fattori produttivi acquisiti ma completamente non remunerati;
le economie esterne di natura pecuniaria riguardano l'acquisto di beni e servizi a un prezzo inferiore al loro
valore per l'impresa acquirente.
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Le economie esterne hanno un rilievo molto particolare per i distretti industriali che si caratterizzano per:
un ambito territoriale abbastanza ristretto; una elevata specializzazione produttiva su certi prodotti e sulle
attivit connesse a essi; una notevole divisione del lavoro fra imprese che si ripartiscono le diverse fasi della
filiera produttiva; una forte interdipendenza fra le stesse imprese che non si estrinseca solo in rapporti di
scambio, ma anche in rapporti di scambio informativo.
Tra le principali manifestazioni di economie esterne connesse al distretto industriali ci sono:
1) riduzione dei costi di informazione e di coordinamento: deriva dal fatto che gli operatori delle
imprese del distretto hanno una profonda conoscenza delle caratteristiche del distretto industriale
progressivamente acquisita nel tempo. Se la domanda nazionale e internazionale sostenuta e il
vantaggio competitivo si gioca sulla rapidit di mobilitazione delle risorse produttive, il distretto
ind. riesce a dilatare la propria offerta pi rapidamente delle grandi imprese integrate o quelle isolate.
2) meccanismo emulativo di produzione e diffusione delle innovazioni: si basa sullo spirito di
emulazione innovativa. Il successo realizzato da un singolo imprenditore tende ad essere imitato da altri.
3) realizzazione di forme di cooperazioni competitive: riguarda solo imprese di un distretto
industriale a produzione diffusa su un ventaglio di prodotti non direttamente competitivi;
4) realizzazione di forme di cooperazione precompetitiva: possono generare economie esterne di
rilievo, anche se dopo pi tempo. Alcuni esempi sono la realizzazione di fiere specializzate, lancio di
attivit pubblicitarie, centri di ricerca e formazione tutti centrati sul distretto.
Le risorse immateriale e il knowledge management
La capacit competitiva dell'impresa si configura come una capacit di cercare ed elaborare informazioni
(sulla clientela, concorrenti, tecnologie e risorse) e di tradurle in forme organizzative di produzione.
Al massimo livello di astrazione, la competitivit dell'impresa il risultato della capacit di incorporare nelle
proprie attivit scienza (info sulle regole di funzionamento dei sistemi fisici e sociali) e conoscenza (info
sugli stati dei sistemi fisici e sociali, e sulle esigenze dei soggetti).
Molto spesso il risultato di queste attivit dato da un 'prodotto', qualcosa di materiale, ma anche il
risultato di una capacit immateriale dell'impresa rappresentata dalla sua capacit di incorporare e produrre
scienza e conoscenza.
Il vero differenziale competitivo fra imprese, quindi, si trova e si produce nel tempo a questo livello.
La questione quella di analizzare tutti i precedenti differenziali competitivi a partire da una risorsa base
rappresentata da scienza e conoscenza incorporate dalla organizzazione-impresa, e non togliergli significato.
Alcune delle leve che possono essere utilizzate per creare differenziali di competitivit in altre aree:
differenziazione (beni e servizi ritagliati sulle esigenze dei clienti), maggior rapidit nel passare dal concept al
time-to-market, maggior sensibilit al customer satisfaction, codesign (interagire con i fornitori), kanban e
kaizen.
La catena del valore
L'analisi dei differenziali di competitivit tra imprese ha il difficile compito di mettere assieme tutti i diversi
fattori di competitivit delle imprese operanti nello stesso settore, se il settore ha un elevato livello di
omogeneit, e negli stessi segmenti, qualora il posizionamento competitivo si articoli in diversi gruppi
competitivi.
In molti casi la competitivit tra imprese non deriva solamente dai fattori competitivi interni alla singola
impresa, ma il valore competitivo dell'offerta di un'impresa rappresentato da una sommatoria di
differenziali competitivi di segno positivo e negativo esteso su tutta la filiera produttiva, costituita dalla
impresa assemblatrice e dai suoi fornitori.
La catena del valore evidenzia le modalit economiche attraverso cui le attivit d'impresa pervengono alla
realizzazione finale del prodotto o servizio offerto alla clientela, e rappresenta la valorizzazione, in termini di
costo, delle operazioni svolte per passare da un certo input aziendale al suo output.
Si sottolineano tre aspetti:
- l'analisi con la catena del valore e i successivi confronti richiedono una particolare metodologia contabile,
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volta a selezionare i costi effettivamente attribuibili alle attivit considerate nella catena del valore;
- c' il problema di realizzare uno standard che consenta di emettere un giudizio di validit: l'esigenza di un
monitoraggio sulle imprese eccellenti (benchmarking);
- esiste una disomogeneit ancora pi rilevante e radicale da considerare che riguarda le differenze di
strategia fra le imprese.
Competitivit sulla differenziazione e sulla qualit: un modello complessivo
Le forme di vantaggio competitivo possono basarsi sui costi (prezzo pi conveniente) ma anche
sull'innovazione rispetto alla concorrenza e sulla caratterizzazione del prodotto sia nel senso della
differenziazione che in quello del posizionamento qualitativo.
Quando si parla di competitivit di un prodotto ci si pu riferire a un punto di vista interno
(dell'impresa, la sua redditivit), a uno esterno (il consumatore e il gradimento della domanda) o a entrambi.
L'analisi relativa all'aspetto interno si riferisce al fatto che un prodotto viene considerato pi competitivo di
un altro se produce un pi alto margine di profitto a parit di investimento. Sotto l'aspetto esterno si pu dire
che un prodotto pi competitivo di un altro qualora a parit di prezzo in grado di assorbire una maggiore
quota di mercato.
La misura dell'elasticit incrociata di ogni prodotto nei confronti di tutti i concorrenti, misurata ceteris
paribus, sarebbe una misura della differenziazione e al tempo stesso della potenziale migrazione di clienti
da un prodotto all'altro: purtroppo la misura dell'Ei presenta noti problemi di misurazione.
Una possibile soluzione il sistema di monitoraggio della competitivit del prodotto (SiMCoP), un
modello di analisi che cerca di misurare un eventuale vantaggio competitivo di natura qualitativa:
- si stabilisce una definizione semplificata di competitivit in termini di performance commerciali;
- si misura la competitivit cos definita;
- si cercano relazioni significative e durature (correlazioni) tra livello di competitivit e caratteristiche del
prodotto.
Il SiMCoP definisce la competitivit in termini di quota di mercato e prezzo relativo, e si basa sul seguente
principio: un prodotto che abbia una quota superiore a quella dei concorrenti pur essendo venduto a un
prezzo superiore pi competitivo. Si basa sul presupposto che in un mercato differenziato la quota di
domanda di un prodotto determinata dal rapporto qualit/prezzo e che al crescere del prezzo la domanda
richiede un maggior livello di qualit.
Su questi presupposti, l'idea generale che un prodotto che abbia quote alte e prezzo alto pi competitivo di
un prodotto che ha quote basse e prezzo basso.

In un ipotetico segmento differenziato nel quale la domanda di un prodotto sia proporzionale al prezzo ci si
aspetta che i diversi prodotti si distribuiscano in un intorno ristretto di una curva di equicompetitivit, cio
un luogo di punti per i quali l'ISC costante. I prodotti che vi si discostano sono caratterizzati da una
domanda diversamente proporzionale, rispetto agli altri concorrenti, nei confronti del prezzo, e per questo
sono o pi competitivi se si collocano al di sopra della curva, o meno competitivi se posizionati sotto di essa.
Per individuare, invece, relazioni significative tra determinate caratteristiche e il valore della competitivit, si
considerano dei modelli che mirano a valutare il peso di diversi possibili parametri nel determinare la quota
di mercato: esprimono la quota di mercato come una combinazione lineare di variabili, ciascuna ponderata
(pesata) con un parametro.
Per questo motivo, si considera la misura dell'indice di correlazione tra i valori di Ci dei prodotti di
un'arena e le caratteristiche misurabili (o ordinabili) dei vari prodotti, per individuare quelle caratteristiche
che possono avere un ruolo preminente nella determinazione della competitivit.
Tale modello ha una funzione esplorativa, perch mira a costruire ipotesi circa il rapporto
caratteristiche/competitivit, con il pregio che a fronte di valori di correlazione elevati, le ipotesi formulabili
possono essere prese in considerazione con pi certezza.
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CAPITOLO 6 LA DIFFERENZIAZIONE INTRASETTORIALE


L'economia la scienza del confronto fra alternative di scelta e comportamento (individuali e collettive)
inerenti a risorse scarse, e ha costruito uno strumento concettuale apposito (il valore) che ha il compito di
rendere confrontabile ci che per le altre scienze non lo . Attraverso il valore l'analisi economica costruisce
una sorta di comparabilit tra i beni (e i servizi) su cui si devono esercitare le scelte dei soggetti.
Nel pensiero neoclassico il prodotto viene caratterizzato con riferimento a uno specifico mercato o settore, e
quindi prodotto e mercato vengono quindi saldati da un rapporto biunivoco. I beni offerti da imprese diverse
risultano comunque omogenei di fronte ai consumatori, che non hanno alcun elemento per preferire il
prodotto offerto da un produttore rispetto a quello di un altro, che non sia una differenza di prezzo (dato
dall'incontro tra domanda e offerta). Entro uno stesso settore i prodotti sono omogenei, ma i beni di settori
diversi non sono sostituibili tra loro.
Chamberlin, invece, sostiene che un prodotto differenziato rispetto a un altro se presenta gli elementi che
lo rendono distinguibile in base al metro di giudizio del consumatore.
Scopre quindi la differenziabilit dei prodotti, ma continua a immaginarla come il risultato di un
comportamento dell'offerta, mentre la differenziabilit di un bene (la sua individualit) dipende dalla
domanda, a rigore in modo esclusivo.
Gli studi di marketing mettono in luce che la differenziazione pu basarsi su diversit oggettive fra i prodotti
offerti da imprese concorrenti, ma sono i consumatori (o gli acquirenti) a decidere se esiste o meno la
differenziazione tra due prodotti. La differenziazione, quindi, la risposta (multidimensionale) alle
eterogeneit delle esigenze degli acquirenti, in quanto vi possono essere molte ragioni per le quali i prodotti
risultino differenziati agli occhi dei concorrenti.
Seppure esiste la tendenza da parte dei produttore di misurare le differenza fra i prodotti solamente con
riferimento ad alcune caratteristiche, queste possono apparire ininfluenti dal punto di vista dell'acquirente, i
cui parametri di giudizio possono essere in tutto o in parte diversi.
Differenziazione orizzontale e verticale
Nella differenziazione orizzontale i prodotti si distinguono per il fatto di collocarsi su uno stesso piano
dal punto di vista della qualit: non vi sono prodotti migliori di altri, ma solo prodotti che hanno elementi di
distinzione che li fanno apprezzare in maggior misura da particolari categorie di clienti.
Il mercato ammette un ingresso variabile di imprese (numero in funzione delle barriere d'entrata) con una
possibile situazione di equilibrio, ma che ciascuna impresa avr interesse a differenziarsi rispetto alle altre,
con lo scopo di controllare una propria nicchia di mercato.
Nella differenziazione verticale i prodotti non possono essere considerati su uno stesso piano sotto il
profilo qualitativo, in quanto tutti i consumatori sono determinati nel valutare un certo prodotto migliore di
un altro. La compresenza delle imprese non illimitata, in quanto esiste un numero massimo di imprese che
possono sopravvivere nel mercato, e il gioco competitivo spinge le imprese a produrre prodotti migliori
(anche se pi costosi) di quelli della concorrenza.
La misura della differenziazione
La misura del grado di differenziazione e delle preferenze dei consumatori pu essere affrontata attraverso il
calcolo della elasticit incrociata fra un prodotto e tutti i suoi sostitutivi, come per definire i confini
settoriali.
Un'altra misura si rif a un'analisi campionaria delle scelte effettivamente manifestate dagli acquirenti: la
fedelt alla marca. Nel caso ci sia una situazione di assoluta fedelt alla marca, nota l'identit
dell'acquirente, non vi incertezza nel prevedere il tipo di prodotto che verr acquistato: da ci se ne deduce
che i due prodotti sono molto differenziati. In caso opposto, in assenza di fedelt alla marca, si assume che
i due prodotti sono poco differenziati.
Questa formulazione presenta alcuni limiti, tra i quali il fatto che non vi sono indicazioni sui motivi in base ai
quali un consumatore considera differenziato in senso positivo un bene rispetto a un altro.
Un ulteriore modello in grado di mettere in risalto il gioco esercitato dalle singole caratteristiche quello che
utilizza le curve di indifferenza. L'acquirente non pi pensato come un operatore che sceglie fra beni, ma
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come un soggetto che ha molteplicit di bisogni e considera il prodotto come una combinazione di
caratteristiche; l'utilit che il consumatore trae dal possesso del bene in questione data dalla somma delle
utilit generate da ciascuna caratteristica. Il bene viene valutato come fascio di caratteristiche.
Data la tecnologia costruttiva disponibile in un certo momento, le possibili combinazioni di due
caratteristiche cercate si dispongono lungo una curva di differenziazione potenziale (Cdp). Lungo
questa curva si hanno infinite combinazioni delle due caratteristiche, anche se vi sar un numero discreto di
modelli offerti che hanno quelle determinate caratteristiche.
Un dato consumatore avr una propria scheda di preferenze per la combinazione delle due caratteristiche,
consentendo di costruire una serie di curve di indifferenza.
Il punto in cui la particolare curva di indifferenza risulta tangente alla Cdp indica la combinazione preferita
dalle due caratteristiche. Se ad essa corrisponde anche l'offerta effettiva di un modello, allora l'acquirente
acquista esattamente quanto desiderato, altrimenti la scelta cadr sul modello che viene intersecato per
primo da una curva di indifferenza posizionata pi in baso rispetto a quella tracciata.
Posizionamento del prodotto
Il concetto di differenziazione, quindi, riguarda l'analisi delle differenze (prezzo, qualit, prestazioni,
immagine, ecc.) percepite dagli acquirenti nel ventaglio di prodotti sostituibili commercializzati dalle imprese
costituenti l'offerta. I prodotti di un'impresa di ciascuna impresa possono essere individuati attraverso il loro
posizionamento nel mercato.
Il mercato pu essere pensato come uno spazio avente tante dimensioni quante sono le caratteristiche
ritenute interessanti, e un qualsiasi prodotto pu essere collocato in questo spazio multidimensionale
attraverso la sintesi delle valutazioni espresse dagli acquirenti, acquisendo un posizionamento che lo
distingue dagli altri prodotti.
Sebbene la differenziazione sia nata come una scelta indirizzata a distinguere il proprio prodotto da quelli
concorrenti, e quindi a inserirsi in una nicchia di mercato con una bassa elasticit incrociata della domanda
dei consumatori rispetto alle variazioni di prezzo dei beni concorrenti, non significa che la scelta pi
conveniente sia quella di inserirsi in segmenti di mercato non ancora occupati dai concorrenti.
Nelle strutture concorrenziali oggi pi comuni ogni impresa presenta una sua propria individualit sia nella
combinazione di caratteristiche incorporate nei rispettivi prodotti, sia nella struttura dei costi, e pone in
essere un processo di ricerca e innovazione sistematica per catturare una posizione quasi-monopolistica in
particolari aree del mercato attraverso un peculiare posizionamento.
L'impresa proceder alla scelta in grado di massimizzare la redditivit dell'investimento richiesto.
Date due imprese che producono un prodotto, presente una differenziazione fintantoch:
1) i due segmenti di rispettivo interesse sono sufficientemente ampi in termini di clientela da assicurare una
situazione di equilibrio economico alle imprese;
2) nessuno dei due prodotti in grado di aggiungere alla propria produzione un prodotto almeno uguale a
quello del concorrente (prezzo compreso) sostenendo un costo di produzione inferiore;
3) restano stabili le preferenze dei consumatori nel valutare le caratteristiche dei due beni a confronto.

CAPITOLO 5 L'ANALISI DELLA DOMANDA


Per domanda si deve intendere la quantit di un bene (materiale o immateriale), che gli acquirenti
appartenenti a un certo ambito geografico desiderano e sono in grado di comprare a un determinato prezzo e
in un determinato periodo di tempo.
Si deve puntualizzare la definizione di bene, in quanto essa assume un significato univoco solo se il bene, di
cui si desidera analizzare la domanda, si presenta altamente omogeneo dal punto di vista delle imprese
offerenti e nettamente distinto da tutti gli altri beni.
Nella maggioranza dei mercato in cui le merci presentano una certa differenziazione, la domanda viene
scomposta in sottocategorie e la quota di consumatori interessati a una certa tipologia particolare della merce
in questione viene definita come segmento di mercato. Un segmento indica una parte definita (non sempre
in modo preciso e stabile) della domanda totale. Tuttavia, la mobilit dei confini rende necessaria l'analisi
parallela sia della domanda globale che di ciascun singolo segmento.
Poich il prodotto offerto dai vari costruttori non presenta in genere una stretta omogeneit, non esiste un
solo prezzo di scambio della merce, ma un ventaglio di prezzi, la cui variabilit influenza tanto l'ammontare
complessivo della domanda espressa in valore, quanto la sua ripartizione interna fra i segmenti: tale
problema risolto attraverso la definizione di un prezzo medio ponderato.
Inoltre, si ricorre a una classificazione dei beni anche allo scopo di definire meglio l'orizzonte temporale su
cui estendere l'analisi. Quanto pi un bene ha una lunga durata di utilizzo tanto pi lungo, a parit delle altre
condizioni, sar il tempo da prendere in considerazione per una corretta valutazione della domanda.
Infine, il concetto di acquirente da specificare: per molti tipi di beni i consumatori effettivi o potenziali non
coincidono con il numero di individui costituenti la popolazione di una certa area geografica.
Oltre alla domanda effettiva, rilevata statisticamente dopo il suo rilevarsi, si definiscono i tipi di domanda:
- attivabile: domanda prospettica che pu divenire effettiva in funzione di una serie di iniziative dell'offerta.
Si avranno tante domande attivabili quanti sono i diversi mix di iniziative posti in essere dall'offerta. E'
sempre un valore ex-ante, mentre ex-post si pu misurare lo scarto con quella effettiva.
- potenziale: domanda che si manifesterebbe se tutti i consumatori interessati al bene e in grado di pagarlo
fossero messi effettivamente nella condizione di acquistarlo. Sarebbe il massimo raggiungibile dalla
domanda pagante, date le condizioni di vendita (prezzo, struttura distributiva, pubblicit, ecc).
La domanda potenziale coinciderebbe con la domanda effettiva se l'offerta fosse in grado di raggiungere in
modo adeguato tutti i consumatori interessati. Inoltre, la differenza con la domanda effettiva pu essere
utilizzata come misura dell'efficacia commerciale di una azienda (se lieve, le cose vanno bene).
- massima teorica: quantit solitamente maggiore di quella potenziale, in quanto considera tutti i
consumatori effettivamente interessati al bene in questione, anche quelli che non hanno la capacit di
spesa richiesta. Ha significato nell'analisi di beni di natura pubblica (consumatori interessati
indipendentemente dalla capacit di spesa), mentre per i beni privati si parla di domanda pagante.
La domanda secondo il modello neoclassico
Oltre all'omogeneit intrinseca del prodotto, gi assunta a livello di caratterizzazione dell'offerta, le principali
ipotesi necessarie a una formulazione e misurazione della domanda riguardano:
- derivazione di una domanda aggregata di mercato come semplice sommatoria di scelte operate a livello
individuale (si trascura una possibile influenza reciproca fra acquirenti);
- l'indipendenza della domanda dal comportamento dei singoli produttori (no differenziazione soggettiva e
oggettiva) e tra le domande che si manifestano in tempi diversi;
- i beni sono perfettamente divisibili, perfettamente noti a tutti i potenziali acquirenti, non sono connessi a
un ciclo di vita o influenzati da altri, sono beni di consumo in senso stretto (non a fini produttivi).
L'elasticit della domanda rispetto al prezzo misura la variazione percentuale che si manifesta nella
domanda (q) del bene considerato per effetto di una data variazione percentuale del suo prezzo (p). La
domanda di un bene si classifica come elastica se il rapporto tra le due variazioni percentuali superiore a 1.
L'analisi del grado di elasticit (o anelasticit) della domanda costituisce un aspetto molto importante
dell'analisi di settore, per vedere differenze con altri settori, valutare le strategie di un'impresa o il
comportamento di un settore nel complesso. E' usata come indicatore del grado di maturit del settore.
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Si suppone che un settore avente un prodotto che stato inserito da molto tempo nel mercato abbia una
domanda anelastica, mentre un settore caratterizzato da un prodotto innovativo dovrebbe godere di un
elevato grado di elasticit. Inoltre, l'elasticit d/p dipende esclusivamente dal grado di sostituibilit di un
bene rispetto a un altro elle preferenze dei consumatori: un bene in uso da molto tempo pu presentare una
utilit marginare molto elevata rispetto al complesso di beni, mentre un prodotto assolutamente nuovo pu
presentare un'utilit marginale bassa, anche tale da bloccarne l'acquisto con variazioni minime di prezzo.
L'elasticit della domanda rispetto al reddito misura la variazione percentuale delle vendite di un
prodotto in funzione della variazione percentuale del reddito dei consumatori.
Vi sono alcune categorie di prodotti il cui consumo varia in funzione del valore assoluto del reddito pro capite
di una popolazione. Nel caso di beni di consumo, in particolare di gruppi di beni, la Legge di Engel dice che
i bisogni primari, da cui dipende la sussistenza diretta delle persone, denoterebbero un'alta elasticit in
presenza di incrementi che si manifestano a partire da bassi livelli di reddito pro-capite, per poi passare a
livelli di progressiva rigidit al crescere del reddito spendibile.
Tutti i beni di consumo primario avrebbero una tendenza al livellamento della spesa a favore di beni di tipo
secondario, non legati a bisogni di natura fisiologica e quindi espandibili in funzione delle singole preferenze.
Nel caso di beni d'investimento, il variare dell'elasticit rispetto al reddito guidato da ragioni di natura
tecnica. Al variare del grado di sviluppo di una economia varia anche la priorit degli investimenti che
devono essere effettuati per assicurare la miglior allocazione delle risorse e la produttivit complessiva.
Tipologia della domanda
Una prima distinzione riguarda le due categorie di beni destinati al consumo e beni destinati alla
produzione. La caratteristica principale del bene destinato al consumo deriva dal fatto di essere frutto di
una scelta soggettiva, largamente influenzata da una serie di fattori esterni alla personalit del consumatore:
dal reddito, dalle caratteristiche sociali e culturali del proprio ambiente, oltre a preferenze personali e
componenti emotive.
La connotazione razionalistica, a differenza dello schema microeconomico, suppone che il consumatore
abbia una percezione cos chiara e analitica delle proprie preferenze da poterle tradurre in misure cardinali,
per poterle confrontare secondo una graduatoria di importanza e valorizzarle in funzione della spesa.
Questa impostazione deriva dal fatto che si assumono come note le preferenze dei consumatori, che invece
costituiscono proprio il problema fondamentale dell'analisi della domanda, che nella realt si costituisce
sempre di un misto di elementi di calcolo e di impulso (razionalit e irrazionalit).
Un modo per tener conto della componente emotiva nel comportamento d'acquisto si basa su una
classificazione dei beni destinati al consumo in funzione del probabile prevalere delle valutazioni
(criterio dello sforzo d'acquisto):
- convenience goods: beni di largo consumo, modesta differenziazione di qualit e prezzo, basso valore
unitario, larga distribuzione e acquisto frequente. Beni acquistati a impulso;
- shopping goods: caratterizzazione pi marcata per maggior entit della spesa e per la minor frequenza.
Coinvolgono il consumatore in un processo di confronto e selezione delle caratteristiche;
- speciality goods: altamente differenziati da marca a marca, a cui il consumatore intende dedicare la
massima attenzione nella scelta.
Anche i beni destinati alla produzione possono essere classificati in sottoclassi pi omogenee. La domanda :
- derivata: si manifesta solo in funzione della produzione di altri beni e servizi, attraverso una catena pi o
meno lunga di passaggi dalla domanda iniziale di un ventaglio di beni o servizi di consumo;
- eterogenea: non solitamente formata da una categoria omogenea di acquirenti (imprese), ma da aziende
che svolgono produzioni su diversi settori. In via generale, ha maggiore probabilit di non subire brusche
oscillazioni di natura congiunturale: eventuali variazioni temporanee degli acquisti da parte di una
categoria di imprese possono venir compensate da movimenti di natura complementare da altre categorie;
- concentrata rispetto ai beni di consumo: frequente che la clientela effettiva e potenziale sia composta da
un numero ristretto di acquirenti. Ci pu portare a due rischi: crisi o insolvenza di un acquirente
comporti una significativa riduzione dei volumi di produzione richiesti, e un grosso acquirente pu
acquisire nel tempo maggior potere contrattuale.
Un'altra classificazione quella tra beni di consumo industriale (fecondit semplice) e beni strumentali
(fecondit ripetuta).

La natura disomogenea della domanda


Nei classici modelli microeconomici della domanda la sostanziale disomogeneit dei consumatori viene
messa in secondo piano, per effetto di considerare una offerta strettamente omogenea del prodotto che
consente di esprimere la domanda complessiva con una singola curva funzione di un prezzo (unico).
Ci era motivato dal fatto di semplificare il problema del comportamento del consumatore, e tale pensiero
influenz pure studiosi e operatori economici, facendo ritenere loro che il prodotto standardizzato fosse il pi
idoneo a soddisfare la domanda dei consumatori con la manifestazione nel XX secolo della mass production.
Il passaggio di una produzione (e consumo) di massa si realizza attraverso una cancellazione delle specificit
individuali dei consumatori, che in cambio ricevono un prodotto assai meno costoso e in molti casi di miglior
qualit rispetto a quello realizzabile con le tecnologie produttive di tipo artigianale.
Il progressivo innalzamento del potere d'acquisto, per, oper in due modi: da un lato il maggior reddito
disponibile rese meno allettante il risparmio derivante dall'acquisto di prodotti standard, dall'altro si
desiderava rendere evidenti il maggior benessere e la crescita sociale che esso consentiva. Il consumo
differenziato (e costoso), quindi, divenne un simbolo di status per tutti i ceti sociali.
La segmentazione del mercato
Lo studio delle differenze insite nella massa di consumatori, allo scopo di scindere una domanda globale
eterogenea in tante sottodomande, fra loro differenziate ma internamente pi omogenee, prende il nome di
segmentazione del mercato. La tesi da cui si parte che la segmentazione qualcosa che esiste nella
mente dei consumatori: sono loro attraverso le loro preferenze, diverse l'un l'altra, a creare la possibilit di
progettare prodotti mirati su diverse categorie di consumatori.
La segmentazione non una libera scelta dell'impresa di come raggruppare il complesso degli acquirenti in
fasce relativamente omogenee, quindi a rigore non ha senso parlare di strategia di segmentazione di mercato
ma di analisi di segmentazione del mercato: non altro che lo studio (nella forma pi scientifica
possibile) delle differenze economiche, sociali e psicologiche che caratterizzano un certo universo di
consumatori, allo scopo di dedurne le caratteristiche da assegnare ai prodotti in termini di prezzo,
prestazioni, design, ecc.
La scelta dei segmenti sui quali puntare (chiamata generalmente strategia di segmentazione) la strategia
di posizionamento.
Inoltre, l'analisi della segmentazione di un mercato implica l'analisi dei bisogni e delle preferenze dei
consumatori: limitarsi all'analisi di come risulta la segmentazione dei prodotti offerti sul mercato come
proxy della segmentazione esistente tra i consumatori implica una serie di semplificazioni molto rischiose.
Le aspirazioni dei consumatori possono essere anche sensibilmente diverse da quelle rappresentate dai
prodotti offerti.
Le ricerche sulla segmentazione dei mercati presentano notevoli difficolt connesse alle preferenze:
- complessit: deriva dal fatto che la gamma di preferenze manifestabili dai consumatori praticamente
illimitata, in quanto deriva dalle infinite combinazioni ottenibili prendendo in considerazione tutte le
caratteristiche rilevanti di un prodotto. Ogni singolo consumatore potrebbe rappresentare un segmento
del mercato: questa visione, seppur spinta, non toglie che esiste una tendenza verso una continua
articolazione dei segmenti, che si manifesta in sintonia con le opportunit tecnologiche;
- mutabilit: il consumatore, in quanto operatore sociale, continuamente influenzato da stimoli culturali
che tendono a modificare nel tempo gusti e attitudini. Nessuna segmentazione del mercato, per quanto
analitica e rigorosa, pu ritenersi valida a tempo indeterminato;
- interdipendenza: consiste nel fatto che la scelta d'acquisto non si basa esclusivamente su valutazioni
inerenti ad aspetti interni alla personalit del singolo acquirente, ma riflette anche il comportamento
mostrato dagli altri. Inoltre, le caratteristiche di un prodotto diventano importanti per quello che
comunicano e non per quello che sono.
Si passati quindi all'uso di indicatori per spiegare le differenze tra consumatori. Parametri:
- naturali: indicatori che rispecchiano una caratterizzazione oggettiva dei consumatori, quali il sesso, et,
area geografica. Le variabili non richiedono elaborazione in quanto comunicano gi dei dati, sono di basso
costo e di facile analisi e reperibilit. Il centro dell'attenzione dell'analista il calcolo della numerosit dei
consumatori appartenenti a ciascun segmento, e non nel riconoscimento dei segmenti;
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- socioeconomici: caratteristiche quali reddito, istruzioni, interessi, ecc. Sono meno complete e
sistematiche di quelle disponibili nel caso precedente, e molte di queste variabili non si strutturano per
stati discreti e delineati, dovendo essere suddivise in fasce secondo criteri soggettivi (es. reddito);
- basati sul comportamento: prendono a riferimento alcune particolari caratteristiche manifestate dal
consumatore all'atto dell'acquisto o durante il consumo. Ad esempio, consumatori forti o deboli (volume),
fedeli o volubili, istinti riflessivi o d'impulso. E' importante avere una stima di quanti sono questi
consumatori e perch un consumatore assume un atteggiamento piuttosto che un altro;
- variabili psicologiche: forniscono una tipologia di soggetti-consumatori. L'importanza dei tipi
psicologici deriva dal fatto di fornire una chiave interpretativa delle preferenze d'acquisto.
Il problema non solo quello di realizzare il prodotto giusto sotto il profilo funzionale, ma quello di
costruire un'immagine di prodotto (e di marca) che sia in coerenza con la caratterizzazione socioculturale del
target di consumatori da raggiungere.
La tendenza pi diffusa quella di utilizzare in maniera incrociata variabili esplicative di tutti i tipi in quanto
ciascun tipo di informazione, opportunamente trattata e integrata con le altre, consente di allargare la
comprensione delle scelte del consumatore. Inoltre, il problema della segmentazione del mercato richiede il
passaggio da un'ottica statica (la segmentazione, appunto) a una pi dinamica in cui il consumatore visto
come un soggetto che sperimenta e apprende le caratteristiche dei prodotti e la loro valenza in termini di
utilit per se stesso.
La previsione della domanda
La previsione della domanda va vista come un compito essenziale ai fini dello studio generale di un settore e
della corretta gestione da parte di un'impresa, anche se risulta difficile, complessa e soggetta ad errori.
In primo luogo, un operatore economico non pu decidere e operare senza una previsione della domanda,
quanto meno relativa alla sua azienda. Chi non esplicita una previsione la fa comunque, in quanto assume
implicitamente un andamento della domanda uguale a quella gi manifestatasi.
In secondo luogo, l'acquisizione di un profitto non condizionata (a parit di situazioni) dalla effettuazione
di una previsione corretta, quanto piuttosto dalla effettuazione di una previsione migliore della concorrenza.
Sbagliare meno dei concorrenti il principio del successo competitivo e di conseguenza una previsione meno
sbagliata di quelle fatte dai concorrenti rappresenta un grosso vantaggio. Inoltre, anche la stessa formazione
del bilancio di esercizio implica una serie di previsioni in merito alla futura evoluzione della concorrenza e
del mercato per tutte le operazioni ancora in corso.
La prima distinzione riguarda il riferimento alla domanda complessiva del mercato o alla domanda rivolta a
una impresa specifica. Una seconda distinzione riguarda l'orizzonte su cui si esercita la previsione: a breve
(sotto l'anno), a medio (1-5 anni) e a lungo termine (oltre i 5 anni).
Al crescere dell'intervallo previsionale crescono anche le difficolt della stima e la probabilit di commettere
errori, poich l'unico elemento sul quale fare riferimento rappresentato dal passato, anche se quanto pi ci
si proietta verso il futuro tanto meno conta l'eredit del passato e aumenta la potenziale variabilit del futuro.
L'analisi della domanda si semplifica e si ipotizza che i valori assunti dalla domanda da esaminare siano la
risultante di 4 componenti: di fondo (trend), ciclica, stagionale ed erratica.
I modelli previsionali si basano su una particolare forma di connessione tra la variabile che si vuole stimare D
(domanda) e un'altra variabile E (esplicativa) usata come fattore casuale (o pi variabili).
Modelli autocorrelati
Quando le variabili D ed E coincidono, si hanno modelli autocorrelati, in cui si utilizzano i valori segnati dalla
domanda nel passato per effettuare una proiezione della evoluzione futura. L'utilizzo di un modello di questo
genere giustificato qualora si abbia ragione di ritenere che l'evoluzione della domanda sia il risultato di un
meccanismo intrinseco al fenomeno considerato, scarsamente condizionato dalla dinamica dell'ambiente
esterno, ad eccezione del tempo.
Modelli in grado di interpolare i dati possono essere la retta o l'applicazione del metodo dei minimi quadrati,
il quale definisce i parametri della funzione scelta minimizzando il valore della sommatoria degli scarti
quadratici tra valori storici e valori ottenuti attraverso la funzione adottata.

Modelli casuali
Se si ritiene che il futuro manifestarsi della domanda di un prodotto sia influenzato da una o pi variabili
esogene, la variabile di cui si vuole effettuare la stima vista come un fenomeno il cui evolvere condizionato
da quello della variabile o delle variabili causa: necessario esprimere una previsione della domanda che
tenga conto dell'evoluzione della o delle variabili causa.
Due classi sono quelle dei modelli di correlazione (si basano sull'ipotesi che esista una relazione funzionale
tra una o pi variabili causa e la variabile effetto sul quale fare la previsione) e dei modelli econometrici
(applicati nei casi in cui ci si trova di fronte a un rapporto di mutua interdipendenza fra le variabili in gioco.
Modelli qualitativi
Questa categoria di modelli la pi vasta ed eterogenea, e si basano tutti sulla raccolta e sullanalisi di
opinioni. Non si rinuncia a quantificare i fatti previsionali, ma si integrano con le componenti qualitative che
hanno un ruolo rilevante. In genere tutti questi modelli si basano sulla raccolta e sullanalisi di opinioni.
Metodo Delphi: basato su una successione di interviste, mediante questionario, rivolte ad esperti. Dopo una
prima intervista si procede con interviste successive di affinamento. Utile per la costruzione di uno o pi
scenari futuri, a lungo periodo.
Panel di esperti: strutturato come discussione delle valutazioni previsionali. Applicato per domanda di beni
complessi (es. investimenti) e su un orizzonte di medio-lungo periodo (technological forecasting).
Ricerche motivazionali: rivolte a beni destinati al consumo e basate su interviste rivolte agli acquirenti,
lobiettivo principale riguarda la comprensione dei motivi per i quali un soggetto effettua (o meno) un
determinato acquisto.
Clinic tests: misurano il grado di rispondenza del pubblico nei confronti di prodotti nuovi e di natura
complessa. Le interviste hanno il compito di ricreare in un ambiente controllato le fasi attraverso in cui si
sviluppa e matura le decisioni dacquisto. Il test consente di analizzare atteggiamenti e motivazioni,
espresse dai consumatori intervistati, su tutte le principali caratteristiche del prodotto proposto.
Scenari: si tratta di costruire modelli alternativi di futuri possibili, nel caso in cui la previsione circa il
futuro non riguarda un singolo fenomeno ma un complesso di fenomeni fra loro connessi ed utile
ricorrere a una pluralit di scenari su una base di natura congetturale. Ci non permette di definire con
sicurezza il quadro ambientale pi probabile, ma permette di costruire una graduatoria che distingua
quelli pi probabili da quelli meno probabili.
In definitiva, laspetto da sottolineare lesigenza che, allinterno delle imprese, si sviluppi una mentalit
previsionale: seguire la dinamica dei mercati, raccogliere e conservare sistematicamente informazioni che
possono essere utilizzate per valutazioni previsionali, ed effettuare sistematicamente previsioni anche
semplici ma formalizzate, in modo tale da consentire lanalisi ex post del grado di precisione conseguito.
Esemplificazioni della previsione della domanda
La scelta del particolare modello previsionale da utilizzare influenzata da numerose condizioni, sia dati
effettivamente disponibili dal ricercatore sia ragioni di natura metodologica legate allorizzonte temporale
della previsione e alla natura specifica del bene in questione.
Per previsioni di medio-lungo termine, in cui si presuppone una variabilit della domanda legata a fattori
strutturali dellassetto economico, frequente limpiego di modelli basati sulla correlazione lineare semplice
o multipla. In un orizzonte temporale ravvicinato, si utilizzano modelli autoregressivi basati
sullestrapolazione di dati storici della grandezza da indagare.
Per quanto riguarda la relazione tra tipo di bene da analizzare e modelli previsionali, si distinguono:
- beni di consumo non durevole: la previsione riguarda lammontare della domanda, cio il flusso delle
vendite che si realizza in un certo periodo di tempo, in una certa area geografica. Il manifestarsi della
domanda deriva da una azione di acquisto ripetuta anche pi volte nellarco del periodo di tempo
considerato. Un esempio pu essere lutilizzo di un modello di correlazione lineare, la cui affidabilit di tali
valutazioni pu essere effettuato anche per analogia con altri andamenti registrati in altri paesi;
- beni di consumo durevole: si hanno due grandezze da stimare: lo stock di beni in esercizio presso i
consumatori, e la domanda di acquisto che si manifesta in un certo anno. Entrambi possono avere
andamenti diversissimi. Si tende ad usare modelli econometrici.
Si distinguono due componenti: domanda di prima dotazione (esercitata da consumatori che
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acquistano il bene per la prima volta) e domanda di sostituzione (proveniente da consumatori gi


dotati del bene e che hanno deciso di sostituirlo).
- beni dinvestimento: in quanto possiedono unelevata fungibilit sotto il profilo funzionale, sono
sconsigliabili sia modelli previsionali autocorrelati (estrapolazioni temporali) sia correlazioni fra indicatori
di crescita economica e tasso di utilizzo del prodotto.
Previsione della domanda dimpresa
Se si dispone di una stima della domanda futura a livello di settore, si passa a prevedere la domanda
concernente la singola impresa. Le difficolt derivano dal fatto che, nel caso della vendita di una singola
impresa, la mobilit degli acquirenti pu risultare molto marcata in quanto si esercita tra beni che sono tra
loro altamente sostituibili; nel caso della domanda globale, invece, esistono meccanismi di inerzia nelle
preferenze espresse dagli acquirenti.
Esiste una elevata interdipendenza fra la quota di domanda acquisita da unimpresa e la sua capacit
competitiva: la previsione della domanda di una singola impresa presuppone una stima di carattere
condizionato, in quanto leffettiva risposta della clientela la risultante non solo delle esigenze di questa, ma
anche delle azioni dellimpresa e di quelle delle sue concorrenti.
Uno dei modelli esplicativi usati con maggior frequenza rappresentato dal ciclo di vita del prodotto:
lipotesi alla base di questo modello afferma che la penetrazione di un prodotto nel mercato (e quindi la sua
domanda) segue una particolare legge funzione del tempo (curva sigmoide) e ripartita in 4 fasi:
- introduzione: prodotto poco conosciuto, tasso di espansione della domanda modesto;
- sviluppo: maggior conoscenza dei prodotti, cresce il tasso di collocazione;
- maturit: prodotto inserito presso la clientela, ma il ritmo di commercializzazione tende a contrarsi (clienti
gi provvisti o abbandonano);
- declino: suppone che il prodotto abbia concluso il suo ciclo vitale, progressivo azzeramento della domanda.
Pu essere utilizzato con due diverse filosofie:
- un primo significato implica che un produttore deve ricordare che qualsiasi prodotto, per quanto utile e
perfezionato, comunque destinato (in assenza di radicali innovazioni) a essere prima imitato e poi
superato dalla concorrenza.
- un secondo significato attribuisce al cvp un modello avente una vera e propria capacit previsionale, ma ci
non del tutto vero: il modello del cvp deriva la propria debolezza dal fatto di assumere una particolare
forma evolutiva per il solo effetto dello scorrere del tempo. In altre parole, si suppone una forma evolutiva
sempre uguale a s stessa e indipendente dalle reali (e variabili) condizioni del mercato.
Rappresenta un utile strumento nei casi di definizione delle strategie da sviluppare da parte di unimpresa in
funzione dello stadio attraversato da un proprio prodotto, ma appare assolutamente sconsigliabile come
strumento previsionale.

CAPITOLO 7 LA CONCENTRAZONE SETTORIALE


La comprensione della dinamica del settore passa anche attraverso la comprensione del diverso grado di
influenza di cui dispongono le imprese nei confronti della domanda, e come effetto di ritorno, sullofferta.
Tradizionalmente questo potere di mercato viene evidenziato attraverso il concetto di concentrazione.
In generale, si pu dire che un settore tanto pi concentrato quanto maggiore il potere di mercato
esercitabile dalle imprese che vi operano o da una parte di essi.
Perch il potere di mercato venga esercitato prevalentemente contro i consumatori, quello che conta un alto
livello di concentrazione assoluta delle imprese: poche imprese che hanno grosse fette del mercato possono
dimostrare un maggior interesse per una politica di collusione; la presenza di imprese di dimensioni
relativamente diversa (forte sperequazione nella dimensione delle imprese) dovrebbe generalmente
implicare una dinamica di potere a vantaggio dei consumatori.
Per alcuni la concentrazione elevata quando poche imprese controllano una parte rilevante del mercato, per
altri la concentrazione elevata quando esiste una marcata sperequazione dimensionale fra le imprese, e ci
esercita remore verso politiche collusive allinterno dellofferta.
La scarsa omogeneit del prodotto rende incerti i confini settoriali, e rende problematico il numero di
imprese componenti il settore e quindi quello rispetto al quale valutare il grado di concentrazione.
Si deve anche considerare lorientamento multiprodotto delle imprese (diversificazione) che pone la
questione se considerare una concentrazione a livello di industria (che coinvolge il complesso delle imprese
in cui prevalente la produzione di un certo prodotto) o a livello di prodotto (enucleazione, in tutte le
imprese interessate, della parte di attivit specificatamente destinata alla produzione del prodotto).
La misura della concentrazione
In passato gli schemi concettuali adottati nellanalisi dei mercati riconducevano a un continuum di situazioni
aventi ai due estremi concorrenza perfetta (concentrazione nulla) e monopolio (concentrazione massima).
Recentemente gli schemi teorici utilizzati tendono a riconoscere che le differenze esistenti fra imprese sono
di molti generi: il grado di concentrazione (e la corrispondente possibilit di esercitare uninfluenza) va
considerato su una pluralit di aspetti (tecnologici, distributivi, finanziari, ecc).
Al fine della misurazione della concentrazione, la multidimensionalit dellimpresa pu essere tralasciata,
continuando per semplicit a riferirsi alla concentrazione delle vendite, che costituisce lunit di misura
tradizionale e di pi frequente utilizzo. Tuttavia, anche la rappresentazione del grado di concentrazione
attraverso il fatturato appare poco pratica e di scarsa confrontabilit sia in termini statici (confronto del
grado di concentrazione di due o pi settori nello stesso momento) sia in termini dinamici (evoluzione).
Gli indici di concentrazione partono tutti dalla curva di concentrazione, costituita dalla serie ordinata
sullascissa di un diagramma cartesiano dei valori assunti da parte di ciascuna impresa del settore
relativamente al carattere (es. fatturato) usato come misura. Tale curva (spezzata) unisce i valori cumulati del
carattere osservato dalle imprese ordinate a partire dalla pi grande.
Si costruisce ordinando sulla retta delle ascisse le imprese in ordine di dimensione e riportando sullasse
delle ordinate il valore cumulato del carattere dimensionale.
Alcuni criteri che sono soddisfatti dagli indici ai fini della sintesi del fenomeno di concentrazione sono:
- se la curva di concentrazione si mantiene sempre al di sopra di unaltra lindice corrispondente deve
assegnare alla prima un valore pi alto;
-se la quota di mercato di unimpresa grande aumenta a spese di quella di unimpresa minore, lindice deve
rilevare questo aumento di concentrazione;
- la fusione di due imprese (e del loro fatturato) aumenta il grado di concentrazione (e il valore dellindice);
Si distinguono quindi gli indici assoluti e relativi: gli indici assoluti hanno la caratteristica di essere espressi
attraverso una sommatoria di valori (assoluti) opportunamente ponderati.

Dove Qi la quota di mercato controllata dallimpresa i-esima, e a rappresenta il particolare grado di


ponderazione assegnato a ciascun valore della serie di caratteri delle imprese del settore.

Misura della concentrazione: Rapporto di concentrazione


Il rapporto di concentrazione (concentration ratio) il pi semplice indice assoluto e si basa sulla
sommatoria delle prime n imprese pi grandi, mentre si trascurano tutte le altre.
E indicato come indice assoluto parziale, per distinguerlo da quelli sintetici che prendono in considerazione
tutti i valori della curva di concentrazione del settore.
Il rapporto di concentrazione costruito assegnando ad a il valore 1 alle prime n imprese e il valore zero a
tutte le altre. Il calcolo, oltre ad essere rapido, richiede un numero limitato di informazioni: in pratica quelle
corrispondenti allammontare globale delle vendite del settore e alle singole quote di mercato delle prime n
imprese in ordine di dimensione di fatturato. Non esiste a priori un criterio per stabilire quale numero di
imprese vada considerato: del tutto convenzionale.
Pu essere espresso anche in altre due varianti diverse dalla precedente:
1) quota percentuale della quota di mercato controllata da un certo valore percentuale delle prime imprese
pi grandi;
2) numero delle imprese pi grandi necessario a raggiungere un predeterminato valore del fattore cumulato.
Misura della concentrazione: Indice di Hirschmann-Herfindal
Questo indice sintetico ha il vantaggio di incorporare le informazioni relative a tutte le n imprese
dellindustria. Qi la quota percentuale di mercato dellimpresa i-esima e n il numero totale di imprese.

Mentre il rapporto di concentrazione assume una ponderazione uguale a 1 per le n prime imprese considerate
(peso nullo per tutte le altre), lindice di HH pesa le quote di ciascuna impresa attraverso lelevazione al
quadrato della quota stessa.
Il campo di variabilit di H va da 1 a 1/n: nel primo caso si ha la massima concentrazione corrispondente a
una situazione di monopolio, nel secondo la concentrazione minima corrisponde a una situazione di
equipartizione delle quote di mercato.
I problemi sorgono se si devono mettere a confronto curve di concentrazione composte da imprese in
numero ridotto (ma poco sperequate), e imprese molto sperequate ma pi numerose.
La normalizzazione dellindice H facilita la valutazione del grado di concentrazione esistente in settori aventi
numero di imprese e grado di sperequazione diversi, attraverso il calcolo del numero equivalente N: calcolato
come reciproco di H, esprime il numero di imprese della stessa dimensione necessario a produrre il dato
valore di H. E possibile normalizzare lindice H facendogli assumere un campo di variazione tra 0 e 1,
attraverso la trasformazione:
Misura della concentrazione: Indice di entropia
Si ottiene dalla sommatoria dei prodotti delle quote di mercato delle imprese pesate con il logaritmo dei
reciproci delle quote. Misura lorganizzazione/disorganizzazione di un sistema.

E una misura inversa del grado di concentrazione di un settore: il campo di variazione va da zero (situazione
di monopolio) a log n (situazione di equidistribuzione delle quote di mercato delle imprese).
I valori sono quindi rovesciati: alto valore dellentropia corrisponde a bassa concentrazione. Presenta per
analogie con lindice H, in quanto influenzato sia dal numero di imprese che dalla sperequazione fra le quote
di mercato. Tuttavia, il grado di ponderazione del coefficiente di entropia evita, rispetto allindice H, di
attribuire alle imprese con quote pi elevate una incidenza cos marcata sul valore complessivo dellindice.
Pu essere normalizzato dividendo E per log n.
Misura della concentrazione: Indice di Gini
E un indice relativo, e il suo calcolo si effettua dopo aver costruito la curva di Lorenz. Tale curva (che pu
essere una spezzata) si ottiene su un diagramma cartesiano disponendo in ascissa il valore percentuale
2

cumulato delle imprese, ordinate in modo crescente rispetto al fattore dimensionale considerato.
Sullasse verticale viene invece riportato il valore percentuale cumulato (rispetto al totale del settore) del
fattore dimensionale (quota di mercato).
Qualora tutte le imprese abbiano la stessa quota di mercato la curva di Lorenz corrisponde alla retta di
equidistribuzione; se vi una disparit dimensionale fra le imprese la curva di Lorenz si colloca al di sotto
della retta di equidistribuzione per effetto dellordinamento dimensionalmente crescente delle imprese.
Lindice di Gini dato dal rapporto fra larea racchiusa tra la retta di equidistribuzione e la curva di Lorenz, e
larea racchiusa tra la retta di equidistribuzione e gli assi cartesiani ().
Di conseguenza, lindice di Gini si ottiene raddoppiando il valore dellarea di Lorenz.
In funzione del grado di eterogeneit dimensionale delle imprese, pu assumere un valore variabile tra 0
(equidistribuzione: massima situazione competitiva) e 1 (monopolio).
Gli inconvenienti di questo indicatore di concentrazione sono di due tipi:
- lindice non influenzato dal numero di imprese operanti nel settore: pu essere usato senza timore di
ottenerne indicazioni distorte circa il potere di mercato delle imprese solo nel caso in cui il settore
considerato sia composto da un numero elevato di imprese;
- le curve di Lorenz possono assumere andamenti diversi, con diversa concavit: c diversit anche in
termini economici, in quanto il settore presenta maggior grado di monopolio in caso di concavit pi
accentuata verso le imprese pi grandi.
Misura della concentrazione: sistema di indici di Linda
Uno dei risultati di questo sistema di indici consiste nella evidenziazione del numero di imprese
effettivamente in grado di esercitare un potere oligopolistico allinterno del settore (arena oligopolistica).
Questa arena oligopolistica racchiude linsieme delle imprese pi grandi aventi un livello dimensionale
comparabile. La cesura scatta in corrispondenza del passaggio, lungo la curva di distribuzione, a unimpresa
molto pi piccola di quella che la precede, creando una frattura dimensionale.
Lindice di Linda si calcola a partire dalle quote di mercato delle k imprese pi grandi tra le n imprese del
settore. Il suo andamento non monotono allaumentare del numero di imprese considerate: man mano che
si aggiungono imprese sempre pi piccole al campione, si giunge a un punto in cui lindice smette di
diminuire e riprende ad aumentare.
Landamento dellindice in funzione del numero di imprese considerate chiamato curva strutturale, e il
punto di minimo di tale curva (se presente) identifica una rottura dimensionale (divario di quote tra
imprese prima e dopo il minimo rilevante) tale da poter segnalare una possibile arena oligopolistica,
riferita alle imprese pi grandi.
In definitiva, usare una gamma estesa di indicatori meglio che andare verso la definizione di un unico
indice, in quanto ciascuno degli indici appena descritti pu mettere meglio in luce, in una prospettiva
dinamica, una particolare caratterizzazione del fenomeno della concentrazione nellindustria considerata.
Si partiti dal presupposto che il prodotto sia omogeneo, se non in termini fisici, almeno in termini
economici, di modo che il valore del fatturato sia effettivamente espressivo del potere di condizionamento del
mercato esercitato da una singola impresa.
Pi un settore presenta una struttura differenziata al proprio interno, tanto pi numerosi risultano i
parametri da considerare ai fini di una valutazione della capacit di influenza oligopolistica delle imprese.
La scelta della variabile dimensionale
Lanalisi della concentrazione intende dare conto del potere di mercato esprimibile da unimpresa, quindi
della sua capacit di assicurarsi una adeguata remunerazione del capitale investito attraverso un controllo
privilegiato delle risorse strategiche su cui si basa la competitivit della singola impresa sulle concorrenti.
La dimensione una variabile proxy della concentrazione che a sua volta un concetto con cui si cerca di
descrivere e interpretare il potere di mercato, vero obiettivo di indagine.
Ci si deve chiedere quale grandezza (fatturato, valore aggiunto o qualsiasi altra grandezza) consente una
miglior comprensione, soprattutto in chiave prospettica, del potere di mercato delle imprese.
Se invece si deve tentare di valutare il potere di mercato delle imprese dentro lo stesso settore, al fine di
comprendere i comportamenti e gli assetti futuri o di analizzare dinamicamente il grado di concentrazione
(sempre dello stesso settore), diventa essenziale loperazione di fine tuning relativa alla scelta della variabile
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pi espressiva. Tale scelta va ponderata sotto due aspetti:


- individuazione di ununit di misura concettualmente pi significativa per esprimere il fenomeno
economico che si vuole rappresentare (significativit dellunit di misura);
- la concreta utilizzabilit in funzione delle modalit informative con cui si rende effettivamente disponibile
(affidabilit dellunit di misura).
E possibile quindi che la variabile pi concettualmente significativa debba essere abbandonata in quanto le
forme in cui si rende disponibile sono devianti rispetto alla configurazione richiesta per la specifica
problematica che si desidera affrontare.
Il dibattito riguardante la scelta dellunit di misura pi idonea a esprimere il grado di concentrazione ha
preso in esame una pluralit di variabili:
- fatturato: essendo una grandezza flusso, la misura della concentrazione (e del potere di mercato) pu
risultare falsata dal particolare anno di riferimento. Inoltre, altre limitazioni riguardano il fatto che a
parit di fatturato il grado di lintegrazione verticale pu essere differente;
- addetti: aveva in passato elevata affidabilit, tuttavia i livelli occupazionali non rispecchiano una scelta
dellimpresa (es. cassa integrazione);
- capitale investito: ha valenza strutturale in quanto una variabile stock. C comunque differenza tra
potenzialit produttiva teorica e pratica;
- utile netto: rispecchia anche una serie di valutazioni prospettiche e congetturate;
- valore aggiunto: anche se non soffre del grado di integrazione verticale, comunque una grandezza che si
forma attraverso la sintesi di molte grandezze eterogenee i cui valori possono compensarsi a vicenda.
Nel momento in cui le differenze potenziali ed effettive fra le imprese possono manifestarsi su un ventaglio di
n parametri diversi, risulta improponibile il tentativo di assegnare a una sola unit di misura la
rappresentativit in termini generali del fenomeno.
Solo esaminando in concreto un settore possibile tentare una valutazione limitativa (valevole solo per quel
settore e in quel particolare periodo storico) allo scopo di individuare e motivare la variabile ritenuta pi
importante. Se lindagine diretta consente di evidenziare una elevata omogeneit degli attributi delle imprese
del settore, tranne che per un aspetto, allora chiaro che la sua misura ad essere pi rappresentativa dei
diversi rapporti di forza fra le imprese.
Se invece non dato rilevare la diffusa omogeneit (a meno di un carattere), la scelta si fa pi complessa: ci si
deve chiedere se fra tutti gli fattori diversamente distribuiti tra le imprese, non sia possibile attribuire loro
una diversa importanza, che funga da graduatoria della significativit dei caratteri, in funzione della
particolare situazione attraversata dallindustria.
Ad esempio, il valore aggiunto sar da privilegiare in un caso di alta integrazione verticale se si attraversa una
fase dinamica di trasformazione del settore; per contro, in una fase di ridimensionamento della domanda
globale del settore, una azienda meno integrata verticalmente pu dimostrarsi molto pi elastica e quindi pi
pronta a seguire levoluzione del mercato.
Infine, in un settore relativamente giovane sul piano competitivo, la variabile strategica potrebbe essere
rappresentata dalla R&S.
In conclusione, il grado di concentrazione va collocato in unottica temporale, sapendo individuare il fattore
che determina (e determiner) il massimo vantaggio strategico per le imprese che lo detengono in maggior
misura e rispetto al quale va calcolata la concentrazione.

CAPITOLO 8 - INTEGRAZIONE VERTICALE E DECENTRAMENTO PRODUTTIVO


Per filiera tecnologico-produttiva si intende l'insieme di lavorazioni che devono essere effettuate in
cascata per passare da un certo ventaglio di materiali grezzi a un prodotto finito. Una filiera pu essere
'semplificata' considerando tre andamenti: implosivo, qualora una pluralit di componenti di natura
tecnologica diversa confluisca in un'unica filiera per l'assemblaggio di un prodotto; esplosivo, quando da
un'unica materia prima si realizza una molteplicit di prodotti; lineare, quando un prodotto ottenuto
attraverso successive lavorazioni di uno stesso materiale (la maggior parte delle volte ci si riferisce a un
andamento lineare).
Il complesso di lavorazioni che costituisce una filiera potrebbe essere svolto sia da imprese che partono dai
materiali grezzi ed eseguono tutte le lavorazioni, fino a giungere al confezionamento finale del prodotto, sia
da tante imprese diverse collegate in cascata.
Adam Smith stato il primo economista a teorizzare in modo compiuto i vantaggi di una progressiva
specializzazione dei compiti, cio la suddivisione in senso, lo spezzettamento delle operazioni di una filiera in
tante funzioni produttive separate.
Data una certa filiera di operazioni, la produttivit delle lavorazioni molto maggiore se i produttori si
organizzano in modo che ciascuno svolga ripetutamente la stessa operazione.
Oggi, il complesso di conoscenze necessarie a realizzare al meglio tutte le attivit di filiera, anche della meno
articolata e complessa, nettamente al di sopra delle capacit non solo di un uomo (artigiano) ma anche di
un'impresa.
Ogni impresa si trova collocata quindi all'interno di una filiera (o di pi filiere) nella quale si specializza in un
certo numero di operazioni in cascata. Quanto pi grande il numero delle operazioni e tanto maggiore
il grado di integrazione verticale dell'impresa. Il caso dell'artigiano prima della rivoluzione industriale
rappresenta il massimo dell'integrazione verticale (e di conseguenza il valore aggiunto uguale al valore
finale del prezzo del bene), mentre un operatore che si limitasse a effettuare una sola delle tante operazioni
costitutive la filiera risulterebbe minimamente integrato. In questo caso, l'apporto alla filiera in senso
economico dato dalla differenza fra il valore di ci che vende e il valore di ci che acquista.
Esiste una configurazione in grado di realizzare una miglior efficienza produttiva nella filiera? Il
meccanismo concorrenziale opera in modo da favorire le imprese che si adeguano a questo particolare
raggruppamento di operazioni che, in ipotesi di concorrenza, corrisponde alla suddivisione della filiera in
tanti settori o industrie in cascata.
Un settore quindi delimitato sia in senso orizzontale (diverso grado di sostituibilit dei prodotti) sia in
senso verticale (dalla diversa natura dei processi produttivi realizzati).
In condizioni di oligopolio, il concetto di integrazione verticale diventa meno definito rispetto a una
situazione di concorrenza perfetta (in cui il settore formato da imprese che svolgono uno stesso ventaglio di
operazioni): le operazioni che si svolgono lungo la filiera non sono pi definibili in termini puramente
quantitativi, e le imprese hanno gradi di integrazione verticale diversi (sia raggruppamento di numero
variabile di operazioni, sia raggruppamento di operazioni diverse).
Si distingue inoltre tra:
- integrazione verticale a livello d'impresa: l'obiettivo conoscitivo dato dal confronto del grado di
integrazione verticale tra due o pi imprese che commercializzano lo stesso tipo di prodotto. Sar pi
integrata l'impresa che risale pi a monte nell'organizzazione delle lavorazioni (integrazione ascendente,
backward), mentre se si fissa una lavorazione di riferimento e analizzando per quante lavorazioni a valle
si sviluppa l'integrazione delle imprese, si parla di integrazione discendente (forward).
Nel caso dell'integrazione verticale relativa a due imprese operanti in sezioni diverse della stessa filiera o
filiere diverse, vengono meno le condizioni di ceteris paribus in misura tale da togliere ogni possibilit di
legare concettualmente l'integrazione verticale e il comportamento (o risultati) con un rapporto causa-effetto.
- integrazione verticale a livello di settore: spesso le ragioni di un certo assetto sono diversissime tra loro e il
differente livello di integrazione verticale non consentirebbe alcuna interpretazione.
Bisognerebbe disporre di una teoria che fosse in grado di esprimere il livello ottimo di integrazione, o in
generale o in funzione di una serie di parametri, altrimenti la differenza empirica effettivamente
riscontrata nel grado di integrazione fra settori diventa un fatto puramente descrittivo.

Si distinguono inoltre i concetti di integrazione verticale, che riguarda il confronto fra imprese che si
collocano dentro lo stesso stadio e quindi svolgono operazioni tecnologicamente e funzionalmente omologhe,
e di concentrazione verticale, che illustra il modo ottimale di ripartire tutto il complesso delle lavorazioni.
La misura dell'integrazione verticale
Un primo indice di misura dell'integrazione verticale dato dal rapporto fra valore aggiunto e valore della
produzione realizzati nell'arco di un anno.
Il valore della produzione rappresenta il valore globalmente realizzato dall'impresa nell'arco dell'anno
indipendentemente dal fatto che questo valore sia stato effettivamente commercializzato (finisce nel
fatturato). Potrebbe essere quindi diverso dal fatturato (nonostante lo si utilizzi per semplicit) quando le
rimanenze finali risultano superiori o inferiori alle rimanenze finali, o se ci sono realizzazioni in economia: se
si calcola l'indice nell'anno in cui si realizza l'investimento in economia ma non si gode della maggior
capacit produttiva derivante dall'investimento, si avrebbe una sistematica sottovalutazione del grado di int.
verticale (che diventerebbe una sopravvalutazione l'anno successivo).
Alcune critiche a questo indice, (le prime 3 da parte dell'autore Adelman), sono:
- l'indice fornisce valori diversi se applicati a settori che pure forniscono lo stesso contributo di valore
aggiunto alla filiera (se invece si vuole calcolare la concentrazione verticale, basta considerare la quota di
valore aggiunto di ciascun settore);
- il valore aggiunto e il fatturato possono essere influenzati in misura diversa dall'andamento inflazionistico,
comportando nel tempo una variazione dell'indice di concentrazione anche se non si prodotta alcuna
modificazione nel posizionamento dell'impresa (o del complesso del settore);
- il valore aggiunto incorpora anche il profitto d'impresa, pertanto imprese pi efficienti risulterebbero pi
integrate: ma ci pare infondato, in quanto si devono tenere in considerazione interessi e costo del lavoro;
- il valore aggiunto misura effettivamente l'integrazione, ma in modo generico senza distinguere possibili
linee alternative di integrazione;
- il grado di integrazione e il valore aggiunto non sono facilmente rilevabili quando un processo produttivo
tecnicamente congiunto (lavorazione in cascata) viene ripartito da uno stesso soggetto economico su
imprese giuridicamente distinte.
Altri indici, meno affidabili o attendibili, sono il rapporto tra il valore delle scorte mantenute dall'impresa e
il valore della produzione (tecniche come jit lo rendono improponibile), il rapporto tra capitale investito e
potenzialit produttiva (il capitale influenzato da fattori esterni come ec. di scala e tecnologia), e il tasso
percentuale di approvvigionamento della materia prima: diventa possibile definire un'impresa come
totalmente integrata se in grado di autorifornirsi di tutta la materia prima che le necessaria ai fini della
realizzazione del prodotto finale. Il problema sta nel definire la materia prima, dal momento che solo in una
filiera perfettamente lineare sarebbe possibile non essere arbitrari.
Le motivazioni all'integrazione verticale
Si definisce situazione di equilibrio, tale da non promuovere movimenti di variazione del grado di
integrazione verticale, il caso in cui il ROI dei due settori (e di tutte le imprese che li compongono) sia uguale.
La convenienza all'integrazione verticale quindi determinata dalla possibilit che la nuova impresa,
nascente dall'integrazione di una impresa di A con un'impresa di B, riesca a ridurre il volume di investimenti
necessari a produrre il valore aggiunto-somma e il reddito-operativo somma, determinando una redditivit
del capitale investito maggiore e di conseguenza la scelta all'integrazione verticale sarebbe conveniente.
Le motivazioni favorevoli all'integrazione verticale possono essere suddivise in:
1) risparmio reale di risorse: a causa delle interdipendenze tecniche nel processo produttivo e nella
imperfezione dei mercati che rendono pi difficili e costosi lo scambio e il coordinamento delle attivit tra
fornitori e acquirenti. Le difficolt di organizzare la funzione di vendita e di approvvigionamento possano
essere superate da una organizzazione interna di queste funzioni:
- costi di contrattazione e acquisizione delle informazioni (costi e tempi minori);
- incertezza: tre cause di fluttuazione della domanda di un'impresa rispetto alle quali esamina la
convenienza a integrarsi a valle:
* fluttuazione della domanda complessiva rivolta al settore in cui opera l'impresa in esame (non conviene);
* fluttuazione delle quote di mercato degli utilizzatori dei prodotti (la convenienza dipende dalla
2

concentrazione e da altri fattori, si valuta comunque sconsigliabile);


* fluttuazione nelle quantit acquistate dagli utilizzatori indotta da una rotazione applicata dagli utilizzatori
ai fornitori (l'integrazione stabilizza la domanda sull'ammontare medio del fabbisogno).
2) vantaggi di natura monopolistica: se la posizione di monopolio/oligopolio si basa su vantaggi effettivi
(come le economie di scala o differenziale di prezzo), questi vantaggi non sono eliminabili da una iniziativa
di integrazione tardiva. L'integrazione verticale pu essere invece realizzata a prezzi non maggiorati se si
realizza prima della formazione di un blocco oligopolistico (non c' pi spazio per un'impresa integrata).
Se un'impresa si rende conto, con anticipo, che nel settore a valle o a monte si sta producendo
un'importante trasformazione del processo produttivo che comporter maggior concentrazione ed
economie di scala, allora l'integrazione verticale (o un passaggio di settore) sar una mossa utile per battere
la concorrenza.
3) vincoli di natura amministrativa e istituzionale: vengono citate tre situazioni diverse:
- forme di tassazione sugli scambi anzich sul valore aggiunto;
- possibilit di controllare le modalit con chi viene realizzato il profitto: si pu manifestare in presenza di
imprese giuridicamente distinte ma facenti capo allo stesso soggetto economico, che intrattengono
rapporti di fornitura (trasferimento di utili o di perdite, perseguibile penalmente);
- politiche pubbliche di controllo sui prezzi (contro manovre speculative).
C' anche il problema di valutare la convenienza a procedere a una disintegrazione verticale: tuttavia, la
questione non si pone in modo opposto e simmetrico rispetto all'integrazione verticale.
In un dato momento l'impresa integrata pu scontare lo svantaggio di operare in pi settori, alcuni dei quali
possono essere in perdita. Ma in un'ottica di lungo periodo operare in pi settori pu essere un vantaggio, nel
senso che la situazione si pu rovesciare.
Inoltre, una situazione simile si presenta nel caso dell'innovazione tecnologica: un'impresa non integrata che
si debba rifornire di determinati componenti pu utilizzare tutto il ventaglio di innovazioni tecnologiche che
si manifestano nel settore di fornitura, scegliendo di volta in volta i prodotti dell'azienda che in un dato
momento risultano all'avanguardia. Invece l'impresa integrata pu essere costretta, nella sezione a valle, ad
acquisire prodotti tecnologicamente meno moderni realizzati nella sezione a monte della proprio consociata.
Proprio tali considerazioni spingono molte imprese a realizzare processi parziali di integrazione a monte e a
valle. L'impresa che ha bisogno di un certo componente sviluppa la sua produzione interna, ma solo per la
quota del fabbisogno totale, mettendosi nella posizione di tentare continui affinamenti del prodotto senza
privarsi della possibilit di rifornirsi all'esterno in caso di innovazioni altrui.
Una scelta di integrazione verticale si caratterizza tendenzialmente per una sostituzione di costi
variabili (da input) con costi fissi (impianti e dipendenti). Pertanto fasi prolungate di forte domanda dei
prodotti finali appaiono favorevoli allo sviluppo di aziende integrate, mentre mercati ormai saturi (domande
di sostituzione con forti oscillazioni) possono consigliare strutture pi corte e flessibili.
Mentre una integrazione a monte non fa variare la clientela di un'impresa e quindi non pone problemi di
natura commerciale, l'integrazione a valle implica un mutamento spesso completo del mercato di sbocco.
La quasi-integrazione verticale
L'importanza del concetto di quasi-integrazione verticale (Qiv) rappresentata dal fatto che esso si pone
come alternativa intermedia fra il make e il buy, che appaiono troppo rigidamente dicotomizzati in presenza
di particolari condizioni tecnologico-produttive e di mercato. La Qiv rappresenta una situazione in cui si
realizza uno stabile rapporto commerciale di fornitura di un'impresa nei confronti di un'altra, che non si
esaurisce in un semplice rapporto di vendita-acquisto in quanto il prodotto viene realizzato secondo le
esigenze specifiche della committenza.
La Qiv viene a costituirsi in senso proprio in presenza di un rapporto che non solo sistematico, ma anche in
una certa misura rigido: rapporto che non possibile estinguere da parte di entrambi i contraenti in tempi
brevi e senza costi addizionali di transizione rispetto al proseguimento del rapporto stesso.
La Qiv va intesa, in modo non dissimile da altri concetti economici, come uno spazio n-dimensionale che
viene a definirsi rispetto:
- alle molteplicit di caratteristiche delle due imprese che fanno capo al rapporto (compreso potere
contrattuale e forma di collaborazione);
- all'ambiente in cui esse si trovano a operare;
3

- all'entit degli switching costs che ciascun partner deve sostenere.


Si ha un progressivo apprendimento reciproco da parte dei partner che devono imparare a comunicare le
relative esigenze e a mettersi in sintonia riguardo alle modalit produttive e operative.
Dal lato del fornitore, che in generale serve una pluralit di acquirenti che hanno bisogno di prodotti
funzionalmente analoghi ma con caratteristiche distintive specifiche, vi la possibilit di avere delle
economie di scala sulle parti costitutive del componente fornito che risultino uguali a quelle utilizzate per un
componente omologo, ma venduto a un diverso acquirente. Inoltre vi potranno essere, con molta probabilit,
delle economie di scopo derivanti dalla progettazione e dalla produzione di altre parti che sono differenziate
per singolo cliente, ma che tuttavia sono realizzate con competenze comuni a quelle necessarie a produrre
parti per altri acquirenti.
Dall'altro lato, l'impresa acquirente avr un componente equivalente a quello che si sarebbe prodotto in
proprio (make) ma a un costo inferiore per effetto delle economie di scala e di scopo generate dalla Qiv.
Se il fornitore o l'acquirente, per qualsiasi motivo, decidessero di interrompere il loro legame commerciale
sosterrebbero degli switching costs derivanti dal fatto di dover nuovamente riprodurre le procedure di
apprendimento reciproco necessario a operare in modo efficiente ed efficace.
Qualora l'entit dei costi di transizione fosse particolarmente elevata per uno o entrambi i partner si potrebbe
produrre una situazione di lock-in (blocco), nel senso che non sarebbe conveniente cambiare partner.
Le imprese nel caso di forniture specialistiche che in precedenza venivano soddisfatte da un fornitore interno
(integrazione verticale) ora preferiscono adottare una situazione di Qiv, cercando di avere una situazione di
bilanciamento fra l'ottenimento di componenti specializzati senza trovarsi in una situazione lock-in nel caso
si manifestasse l'occasione di passare a un nuovo fornitore pi innovativo o comunque pi conveniente.
Il decentramento produttivo
Il decentramento produttivo pu essere pensato come a un insieme di organizzazioni produttive
essenzialmente diverse, generate per rispondere a esigenze di varia natura e il cui unico punto in comune
quello di deviare dallo schema lineare della crescita diversificata e integrata dell'impresa. Le forme sono:
1) organizzazione della subordinazione: i soggetti del decentramento sono la grande impresa
(decentrante) e la piccola impresa (che incorpora il decentramento). La grande impresa individua
all'interno del proprio ventaglio di attivit tutte quelle che non hanno una valenza di natura strategica ai
fini della valorizzazione del prodotto e della sua qualificazione tecnica, funzionale e stilistica.
La satellizzazione delle piccole imprese, spesso create ad hoc, non solo rappresenta un recupero di risorse
da convertire a progetti di maggior rilievo, ma si rivela in molti casi una semplificazione e
razionalizzazione produttiva e amministrativa delle attivit e consente di eliminare aree di inefficienza di
portata non trascurabile.
2) delocalizzazione degli impianti verso paesi a basso costo del lavoro: segna un forte mutamento
qualitativo rispetto all'organizzazione della subordinazione in quanto il decentramento non riguarda pi
le attivit ausiliarie dei precedenti processi produttivi, ma parti consistenti di quello che in passato era
considerato il cuore del processo produttivo (fabbricazione parti e assemblaggio finale).
Non appena il processo generale inizia a mostrare i suoi effetti anche nei NICS (newly industrialized
countries), soprattutto in termini di presenza di infrastrutture e di personale sufficientemente addestrato,
diventa attuabile un disegno di trasferimento verso questi paesi a basso costo del lavoro, di attivit
produttive precedentemente effettuate nei paesi pi industrializzati.
3) divisione del lavoro e polarizzazione delle risorse in un ambiente distrettuale: il
decentramento si sposta su un rapporto non concorrenziale fra le piccole imprese.
L'aspetto collaborativo fra imprese prevale nettamente su quello competitivo, facilitato in ci dalla
domanda che tira e va soddisfatta al massimo, a scapito soprattutto della convenienza estera.
4) attivazione di un sistema area-settore: il modello della divisione del lavoro pu ulteriormente
maturare nella formazione di un complesso produttivo che approfondisca i propri legami con le
potenzialit del territorio. Alla divisione anche gerarchica delle funzioni produttive si associa una
divisione dei mercati o dei segmenti all'interno dello stesso mercato.
Questa forma di crescita decentrata si sviluppa in stretta connessione alla vocazione specializzata del
territorio fino a formare un'area sistema. La stessa contiguit fisica delle imprese una componente
essenziale per una rapidissima circolazione degli stimoli innovativi e per un processo imitativo a costo
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praticamente nullo dalle imprese di punta a quelle di rincalzo, imitazione che produce un meccanismo di
mutuo rafforzamento delle posizioni data la complementariet degli sbocchi commerciali.
5) collaborazione per progetto: l'attenzione si sposta su un ambiente tecnologico avanzato in cui, pi che
la dinamica della domanda (demand-pull) si avverte la sfida della pressione tecnologica innovativa
(technology-push). Questo processo di diffusione delle nuove tecnologie richiede nuove forme di
accoppiamento tecnologico (ibridazione scientifica e tecnica): questa fusione di conoscenze tecnicoscientifiche, precedentemente gestite in forma separata, pone dei problemi di ricerca e sviluppo molto
complessi, ma di portata economica potenzialmente rilevante. Va quindi configurandosi una nuova forma
di decentramento, espressione tipica joint-venture, con cui imprese non necessariamente grandi ma di
elevata qualificazione tecnologica attivano progetti di sviluppo tecnologico in comune.
L'organizzazione reticolare fra imprese
La cultura manageriale ha iniziato a sottolineare la necessit per ciascuna impresa di uno scambio di
informazioni in modo orizzontale, stabilendo rapporti di collaborazione sistematica con altre imprese,
formando una rete di imprese aventi obiettivi condivisi, allo scopo di realizzare sinergie in tutte le attivit
gestionali: dagli acquisti alla progettazione, dalla produzione all'assistenza al cliente.
Le cause che in passato non hanno consentito di valutare l'importanza del concetto di rete applicato alle
imprese deriva dall'accettazione dogmatica e acritica, soprattutto nella cultura occidentale, di due concetti
cardine dell'economia:
- il ruolo della mano invisibile giocato dal mercato: si abituati a pensare che l'efficienza del sistema
economico derivi dal confronto competitivo fra imprese. E' il mercato che promuovendo la competizione
fra gli operatori, ciascuno mosso dal proprio interesse personale, li spinge a comportamenti convenienti
per la collettivit. L'operare della mano invisibile (rappresentata dal meccanismo competitivo) trasforma
l'egoismo individuale nel benessere collettivo. Questa concezione, assunta in modo meccanico, ha
impedito di teorizzare che anche un rapporto collaborativo pu risultare conveniente ed efficiente.
- il modello di concorrenza: poich ciascuna delle imprese organizzate in rete continua a mantenere una
propria individualit giuridica, distinta da quella delle altre, evidente che gli scambi posti in essere al di
l di quelli di fornitura/acquisto riguardano proprio entit immateriali come le informazioni.
Il modello di concorrenza assume come ipotesi di base che gli operatori abbino tutti libero accesso alle
informazioni.
Quindi la rete serve soprattutto per comunicare rapidamente ed economicamente le informazioni che, per,
si era abituati a considerarle liberamente disponibili. Il know-how (conoscenza, apprendimento e
informazione) influenza sempre di pi il valore economico dell'impresa, tuttavia nel bilancio economico non
trova adeguato spazio (non presente nelle risorse immateriali).
Inoltre, il successo di distretti come quelli trevigiani ha dimostrato a tutti che gruppi di piccole imprese
possono collaborare in modo da esprimere una forza competitiva analoga a quella di una grande impresa, con
il vantaggio per di essere pi flessibili e reattivi al cambiamento dei gusti e delle esigenze dei consumatori.
Si distinguono i soggetti coinvolti nell'interazione della rete:
- reti di unit esterne: con riferimento a una unit organizzata fra imprese giuridicamente distinte e
indipendenti;
- reti di unit interne: contraddistingue una struttura organizzativa interna all'impresa in cui sono
organicamente connesse pi unit d'affari ciascuna caratterizzata da margini di autonomia;
- reti a livello interpersonale: in cui il focus concentrato sui ruoli e le interazioni di persone interne a
una stessa organizzazione che attivano un reciproco scambio di informazioni.
In riferimento alla prima categoria di rete, si evidenziano quattro macrotipologie dei rapporti fra imprese, ad
ognuna delle quali corrisponde una forma organizzativa degli scambi:
competizione (mercato), dominazione (controllo azionario), collusione (cartello) e cooperazione.
Verso una cultura della partnership
La natura della partnership non di agevole focalizzazione, anche perch si pu avere forme di partnership
applicate a rapporti orizzontali (imprese potenzialmente in posizione di reciproca concorrenza che
stabiliscono un rapporto di collaborazione, temporaneo e circoscritto, per ricavarne un mutuo vantaggio) e a
rapporti verticali (due soggetti economici diversi, in cui uno ha il ruolo di fornitore e l'altro di acquirente:
la modalit pi frequente e pi facile da realizzare).
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In passato, le decisioni di make or buy avevano come ipotesi la standardizzazione del bene da acquisire.
La scelta cade sul versante buy quando il componente da acquisire pu essere prodotto con forti economie di
scala da un fornitore specializzato e la quantit richiesta dalla singola impresa acquirente insufficiente a
giustificare la realizzazione di un impianto di dimensione adeguate (coordinamento della produzione
realizzato attraverso il mercato). La scelta invece cade sul versante make qualora prevalga l'ipotesi di
produzione in proprio del bene occorrente da utilizzare nella produzione successiva (integrazione verticale
delle attivit e coordinamento della produzione attraverso forme organizzative d'impresa).
Per Williamson, che rivede l'impostazione make or buy aggiungendo l'ipotesi di acquisire un componente
non pi standard, la scelta pi conveniente il buy in tutti i casi in cui i costi di transazione (costi originati
dalle attivit di scelta fra i possibili fornitori) sono bassi, mentre quando i costi di transazione necessari a
coordinare fornitore e acquirente superano una certa soglia scatta la convenienza a realizzare in proprio il
bene richiesto, dal momento che solo un rapporto interno all'impresa in grado di realizzare
economicamente questa funzione di coordinamento.
Se l'impresa non ha la capacit di produrre il bene nonostante l'acquisto esterno comporti alti costi di
transazione, deve comunque acquistarlo e il problema diventa quello di imparare a gestire in modo
innovativo e dinamico i rapporti con il fornitore, non solo per essere in grado di farlo in maniera efficiente,
ma anche per riuscire ad avviare una attivit di apprendimento reciproco tra fornitore e acquirente:
- continuo miglioramento qualitativo del prodotto fornito e incorporato nel prodotto finale;
- minori costi di produzione a parit di qualit o crescita della qualit a parit di costi;
- realizzazione di modalit di fornitura jit per ridurre immobilizzi di capitale e accelerare la reattivit di
risposta alle esigenze del mercato;
- uno sviluppo progettuale del prodotto orientato alla realizzazione di nuove funzioni e potenzialit.
La partnership quindi la capacit di organizzare il rapporto tra fornitore e acquirente in modo tale da
assicurare un'attivit di apprendimento reciproco. L'esigenza di partnership diventata sempre pi
prevalente a causa di nuovi aspetti evolutivi del processo industriale: tecnologie di produzione e prodotti si
fanno sempre pi complessi.Da un lato necessario operare con un fornitore avente speciali capacit e
professionalit, dall'altro necessario che questi sia messo nelle condizioni di operare in modo
organicamente coordinato con l'acquirente (attivando un rapporto di partnership).
Il passaggio da un semplice rapporto di scambio (pagamento di un prezzo come corrispettivo della fornitura
di un prodotto) a un rapporto di partnership (che presuppone non solo lo scambio prezzo-merce, ma anche lo
scambio di informazioni e iniziative integrate fra i due partner) non facile.
Si tratta di passare da un'ottica di breve a una di lungo periodo, e di passare da un gioco a somma zero a un
gioco a somma positiva, in cui le capacit di coordinamento e di reciproco stimolo al miglioramento
producono un componente e un prodotto finale di qualit pi elevata a parit di costo e quindi maggiori
opportunit di profitto per entrambe le imprese partner.
Nonostante un'incapacit di realizzare e sviluppare nel tempo la partnership costituirebbe una perdita di
efficienza e una grave carenza competitiva, quello che conta dal punto di vista di due imprese che:
- comunque la loro partnership (per quanto difficile e contrastata) funzioni meglio di un mero scambio
prezzo-merce, che non dotato di nessun meccanismo di kaizen e di fertilizzazione incrociata delle idee;
- la qualit della loro partnership risulti migliore di quella realizzata da coppie di imprese concorrenti: quello
che conta non il raggiungimento di una ipotetica perfezione assoluta, quanto il raggiungimento di un
vantaggio differenziale sulla concorrenza e il suo mantenimento nel tempo.
Ci significa che il funzionamento della partnership influenzato dall'esistenza di alcune condizioni:
1) le due imprese partner devono riuscire ad attivare un flusso di informazioni: sistematico, generale e
bidirezionale (simmetria informativa);
2) realizzare un sistema contabile che misuri il valore aggiunto generato dal bene fornito al prodotto finale
realizzato all'acquirente, oltre che a misurare il grado di efficienza dimostrato nel rapporto;
3) l'attitudine al cambiamento dei due partner (cristallizzazione delle procedure, tramite routine).
Se si vuole che la partnership sia vitale nel tempo necessario che ogni partner (sia il fornitore che
l'acquirente) intrattenga una pluralit di rapporti con altri partner: evidente che entrambe le imprese
partner hanno esperienze, capacit tecniche e organizzative da scambiarsi. Si tratta di realizzare una
ibridazione delle competenze che devono essere integrate in modo sinergico, ma avendo sempre il
mercato e la concorrenza come riferimento che portano stimoli e idee.
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CAPITOLO 9 LA DIVERSIFICAZIONE
Un'impresa attua un processo di diversificazione quando dilata la propria gamma di prodotti venduti. In
prima approssimazione, quindi, un'impresa pi diversificata di un'altra se commercializza un maggior
numero di linee di prodotto.
La diversificazione corrisponde al procedimento inverso della specializzazione, in cui un'impresa riduce la
gamma dei propri prodotti per concentrare gli sforzi di ricerca, di progettazione, di produzione e di
commercializzazione su un numero pi ristretto di mercati.
Per alcuni autori vi diversificazione anche quando, mantenendo immutata la gamma di prodotti, si
aumenta il numero di mercati, sotto il profilo geografico, nei quali l'impresa opera.
Un altro caso di diversificazione di modesta estensione quello nel quale una impresa inserisce nella propria
gamma un nuovo bene che, tuttavia, non prodotto dalla stessa impresa, la quale si limita ad acquistarlo da
un altro produttore, ad imprimervi il proprio marchio e a commercializzarlo a fianco dei beni prodotti al
proprio interno. Le motivazioni per attuare questa particolare strategia sono di due tipi: in un primo caso
l'azienda che acquista un prodotto per commercializzarlo non dispone delle competenze per la realizzazione
del prodotto, ma esso pu risultare importante sotto il profilo commerciale in quanto rappresenta un
significativo completamento della gamma e/o un bene di natura complementare rispetto a quelli prodotti.
In un secondo caso, l'azienda potrebbe essere perfettamente in grado di realizzare il prodotto, ma risulta pi
economico farlo produrre da imprese localizzate in aree a basso costo del lavoro, soprattutto se si tratta di
prodotti di fascia bassa.
Anche considerando i casi di diversificazione piena, in quanto basati su un ampliamento della gamma con
prodotti realizzati in proprio, si possono avere una molteplicit di gradazioni del processo. Ci ha portato
confusione nei concetti di diversificazione, differenziazione e integrazione verticale.
In tema di diversificazione il punto di riferimento per considerare questo concetto dato dalla singola
impresa e il processo di diversificazione sta a sottolineare come essa stia ampliando il proprio campo
d'azione inserendosi in nuove combinazioni di prodotto/mercato.
In tema di differenziazione, invece, il punto di riferimento dato dal sistema della concorrenza, in quanto
l'analisi della differenziazione si interroga sul grado di sostituibilit esistente tra i prodotti presentati sul
mercato da offerenti distinti.
Una stessa iniziativa economica presenta una natura complessa che si ripercuote sia sul fronte della
differenziazione (cannibalizzazione se riferita a prodotti della stessa impresa) sia su quello della
diversificazione.
E' chiaro che un'impresa potrebbe decidere di modificare un proprio prodotto per renderlo pi differenziato
rispetto alla concorrenza, ad esempio attraverso una semplice modifica estetica o con l'imposizione di una
firma conosciuta e apprezzata dal pubblico e l'impatto sulla differenziazione di questa iniziativa potrebbe
essere molto rilevante. Invece se il prodotto continua a rivolgersi alla stessa categoria di consumatori e per
soddisfare lo stesso tipo di bisogno sarebbe erroneo parlare di diversificazione.
Un processo di diversificazione pu associarsi anche a un fenomeno di integrazione verticale, e una
politica di diversificazione guidata dallo scopo di mantenere e migliorare la profittabilit dell'impresa nel
lungo periodo. Quanto pi esistono elementi di omogeneit tra le precedenti produzioni e quella che viene ad
aggiungersi, e tanto maggiori sono le opportunit di utilizzo delle risorse tecnologiche, organizzative e
commerciali di cui dispone gi l'impresa.
Il processo di diversificazione a macchia d'olio presenta indubbi vantaggi, in quanto consente un
progressivo allargamento delle aree di intervento di un'impresa attraverso un opportuno dosaggio degli
investimenti, che riduce considerevolmente i rischi del confronto concorrenziale. Ci pu portare a rischi
derivanti da congiunzione da domanda. Pertanto, le imprese reputano opportuno operare per
diversificazioni abbastanza ampie cercando, attraverso un frazionamento dei rischi, di porsi al riparo da
crisi di tipo generalizzato.
Nel caso in cui la diversificazione effettuata tenda a non sfruttare competenze e risorse gi sviluppate
dall'impresa si parla di diversificazione conglomerale (interdipendenza minima delle scelte nelle varie
Asa).
Inoltre, si distinguono due tipologie di attuazione della diversificazione:
- crescita interna: l'impresa amplia per germinazione interna la gamma di prodotti realizzati, facendo
progressivamente crescere le nuove attivit sulla base delle risorse tecniche, commerciali e organizzative
preesistenti;
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- crescita esterna: acquisizione (assorbimento o fusione) di un'altra impresa avente una diversa
specializzazione (spesso nei casi di sofisticazione tecnologica).
La misura della diversificazione
La misurazione del grado di diversificazione di un'impresa pu essere realizzata, dal punto di vista empirico,
in un ventaglio assai ampio di modalit. Il modo pi ovvio quello di contare il numero di prodotti diversi,
ma c' il particolare difetto di non ponderare in alcun modo l'importanza che assumono per l'impresa gli
sbocchi commerciali dei diversi prodotti, e di non dare una valutazione (pure approssimata) della diversit
esistente tra prodotto e prodotto: la diversit misurata in questo modo risente particolarmente del grado di
ampiezza con cui sono definiti i settori.
Un altro metodo di misurazione del grado di diversificazione consiste nel distinguere fra produzioni
principali e produzioni accessorie di un'impresa, calcolando il peso di entrambe le categorie (in termini di
fatturato o altra variabile) sul totale delle attivit. Anche in questo caso c' perdita di informazioni (le attivit
accessorie potrebbero concentrarsi su un solo prodotto o su un numero molto vasto).
Infine, il fenomeno della diversificazione si presta ad essere rilevato in termini quantitativi attraverso una
pluralit di indici (quelli della concentrazione, quindi curva di diversificazione, rapporto di diversificazione,
H, Gini e entropia): sufficiente pensare al complesso delle attivit realizzate da una singola impresa come
alla totalit da analizzare in modo articolato, e che ciascun business basato su un prodotto diversificato pu
essere pensato come ci che in un settore corrisponde a un'impresa.
Si tiene conto per di due complicazioni:
- la diversificazione un parametro che fotografa la caratterizzazione di una singola impresa e richiede
pertanto un riferimento al complesso della concorrenza;
- la concorrenza acquista significato con riferimento a una molteplicit di settori.
Le motivazioni alla diversificazione
Il motivo che sta alla base di un processo di diversificazione consiste nel fatto che la gestione d'impresa ha
generato risorse che non conveniente reinvestire integralmente nel settore originario:
- risorse specifiche: incorporate all'interno della struttura d'impresa, derivano da un apprendimento
realizzato dall'impresa nel tempo e rappresentano il risultato di un processo di investimento. L'impresa
ha interesse a capitalizzare questa risorsa il cui costo gi stato caricato sul prezzo di vendita del prodotto
originario, attraverso la cessione delle risorse (non produce diversificazione) o attraverso una joint
venture con un'altra impresa, scelte dettate dai diversi costi e ritorni associati.
- risorse generiche: costituite da capitale utilizzabile in una pluralit di iniziative (dispon. finanziarie).
Un reinvestimento dei profitti nel settore originario pu essere:
- estensivo: diretto a dilatare la potenzialit produttiva, giustificato solo se esistono buone prospettive
di espansione della domanda;
- intensivo: orientato a consentire un aumento di produttivit senza aumento di potenzialit, soffre di
un numero inferiore di limitazioni da parte della domanda. E' il tipico strumento con cui l'impresa
punta con decisione al miglioramento della propria penetrazione nel mercato a danno dei concorrenti,
ma pu prodursi solo in presenza di una innovazione acquisita o realizzata in proprio.
Un'ulteriore motivazione favorevole a uno sviluppo diversificato dell'impresa data dalla ricerca di un
frazionamento del rischio complessivo della gestione. La variabilit complessiva dei profitti cumulati di
due business diversificati pari alla somma delle variabilit dei business nel caso di correlazione 1, mentre se
i due livelli di profitto sono indipendenti tra loro (correl. 0) la variabilit complessiva si riduce in media.
A parit di altre condizioni, un'impresa diversificata su pi mercati di natura indipendente (diversificazione
conglomerale) realizza un frazionamento del rischio complessivo che funzione del numero di business in
cui opera. Sono necessarie comunque due precisazioni:
- una conglomerata che si impegni in settori ad alto rischio pu comunque avere un rischio globale pi
elevato di un'impresa specializzata operante in un settore tranquillo dalle dinamiche pi prevedibili;
- la variabilit dei profitti pu essere influenzata dal grado di controllo oligopolistico detenuto dall'impresa.

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