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C'è un mito, in Sudafrica, secondo cui fare sesso con una vergine cura l'Aids: più giovane

è la ragazza, più potente sarebbe la cura. Ciò ha portato ad un'epidemia di stupri fatti da
uomini sieropositivi che hanno causato la morte di bambine innocenti. La situazione sta
raggiungendo dimensioni apocalittiche.

Nell'agosto del 2005, il portavoce del South African Police Service (SAPS), il Capitano
Percy Morokane, ha dichiarato che la Child Protection Unit, nota dal 1995 con il nome
“Family Violence, Child Protection and Sexual Offences Unit” (Unità contro crimini di
natura sessuale, la violenza familiare e per la protezione dei bambini) non sarà chiusa
finché i crimini di cui si occupa continueranno ad esistere nel paese, dopo che su Internet
aveva cominciato a circolare una e-mail, a quanto pare bufala, secondo cui la polizia del
Sudafrica aveva deciso di chiudere l'Unità Protezione Bambini. Nel 2001, la polizia
sudafricana ha riportato 21.000 casi di stupro a danni di bambini, il 15% dei quali
riguardanti bambini al di sotto degli 11 anni. Secondo il South African Institute of Race
Relations, ogni giorno 58 bambini sono vittime di violenze o tentativi di violenza. In un
contesto dove 25 milioni di Sudafricani vivono sotto la soglia di povertà, dove il crimine è
cresciuto dal 27 al 40%, dove, secondo Human Rights Watch, c'è la più alta percentuale al
mondo di violenze contro le donne. Un rapporto del 1998 pubblicato dal Medical Research
Council di Pretoria rivelava che un terzo di tutte le bambine del Sud Africa violentate prima
dei 15 anni erano state aggredite dai loro insegnanti. Il paese, inoltre, conta il più alto
numero di vittime dell'AIDS di tutto il mondo: sono circa 4,7 milioni le persone affette dal
virus, di cui 2,5 milioni sono donne e 110.000 vengono definiti “neonati”. Se continuerà
così, l’aspettativa di vita nel Sud Africa si ridurrà a 41 anni nel 2009, quando il 16% della
popolazione sarà infetta.

Le Nazioni Unite riportano che il Sud Africa è la patria di ben


1,2 milioni di bambini orfani a causa dell'AIDS. Secondo Ally
Cassiem, del Nelson Mandela Children's Fund, questi
numeri raddoppieranno in 5 anni. Molti di questi bambini
sono rimasti senza nessuna famiglia che possa prendersi
cura di loro, poiché ,anche in una cultura che prevede la
famiglia estesa, il fardello di simili perdite è troppo gravoso
per molti nonni più anziani. Un posto come Agape, fondato
nel 1999 dal consigliere per l’HIV, “Grandma” Zodwa Mqadi,
è una delle poche possibilità per i bambini abbandonati (sul
Progetto Agape esiste un bel documentario di Paul Taylor
dal titolo “We Are Together”, 2006, vincitore del Tribeca Film
Festival). Alcuni consiglieri dell'organizzazione inglese
Childline, a proposito dei casi di violenza sessuale, hanno
sottolineato come la mancanza di comprensione del
fenomeno AIDS da parte della comunità contribuisca ad
alimentare la violenza sessuale. “La credenza è che la pulizia e la purezza di un bambino
strapperanno via il virus”, ha detto Stephenie Shutt, “le donne della comunità mi dicono
che sia bambine che bambini vengono violentati a causa di questa credenza”. Nelle
baraccopoli, ha detto la direttrice di Childline, Joan van Niekerk, alcuni giovani
“individuano con precisione le ragazze vergini e le separano fisicamente dai loro gruppi di
coetanei per praticare violenze di gruppo. Queste bambine vengono intimidite e raramente
riferiscono la violenza per paura di rappresaglie verso di loro stesse o verso le loro
famiglie”. Otto ragazzi su 10 intervistati, in un sondaggio su un campione di 27.000
giovani, sostiene che le donne violentate “lo avevano chiesto”. Più di metà degli intervistati
in età scolare ha detto che fare del sesso forzato con qualcuno che si conosce non è
violenza sessuale.

Il caso dello stupro di “Baby Tshepang”, come


è stata soprannominata dalla stampa, una
bambina di nove anni, da parte di una gang di
sei uomini tra i 24 e i 66 anni, prima arrestati e
poi rilasciati per mancanza di prove,
nell'ottobre del 2001 ha scatenato un putiferio.
Il vero stupratore, David Potse, ex boyfriend
della madre diciassettenne di Tshepang, è
stato poi incastrato dalla sua ragazza
dell'epoca, Lya Booysen, che ha testimoniato
di averlo visto mentre assaliva sessualmente
la bambina. Nel luglio del 2002, il 23enne
David Potse è stato condannato all'ergastolo
per aver stuprato e sodomizzato la bambina, che è dovuta ricorrere alla chirurgia per
curare i suoi genitali e anche alcuni organi interni. Sempre nel luglio del 2002, il paese è di
nuovo sotto shock quando emerge un altro caso di stupro ai danni di un infante di poche
settimane. Uno studio condotto nello stesso anno dal Women's Health Project di
Galeshewe, un piccola cittadina di Kimberley, Northern Cape, ha focalizzato l'attenzione
su tre motivi che spingono verso lo stupro: la pulizia, cioè la credenza che avere un
rapporto sessuale con una vergine possa curare dall'HIV; la prevenzione, la scelta di
giovani partner per non rischiare di prendere il virus; la vendetta, la volontà dei maschi
infetti di spargere il virus per non morire così da soli.

“Dio sapeva che la donna africana avrebbe vissuto tempi duri,


durissimi. Ecco perché le donò una pelle resistente come
Madre Terra stessa. Le diede una pelle dura, senza tempo,
affinché il dolore non le si leggesse in viso; affinché quel viso
non diventasse una mappa del suo cuore straziato e
squarciato”. Con queste parole si apre l’ultimo romanzo di
Sindiwe Magona, “Questo è il mio corpo!”, uscito in prima
edizione mondiale in Italia per la casa editrice Gorée. Sindiwe
Magona è nata nel Transkei e cresciuta nei sobborghi di Città
del Capo, si è laureata lavorando al contempo come
domestica e crescendo da sola 3 figli. Ha conseguito poi un
master in Scienze dell'Organizzazione Sociale del Lavoro
presso la Columbia University e nel 1976 è stata chiamata a
far parte del Tribunale Internazionale per i Crimini contro le
Donne. Ha lavorato per 25 anni alle Nazioni Unite e al termine
di questo impegno ha deciso di ritornare in quei sobborghi in cui è cresciuta, per
raccontarli e per cambiarli. Il romanzo, uscito il primo dicembre in occasione della Giornata
Mondiale contro l'Aids, tema intorno cui ruota l'intera storia, è allo stesso tempo una
denuncia e il racconto di una grande amicizia: una voce giunta a spezzare il silenzio che
circonda la “guerra” che ogni giorno si consuma in Sudafrica. Nel Sudafrica, racconta la
scrittrice, l’attività economica più sviluppata sono le imprese di pompe funebri. Eppure i
governi succedutisi negli ultimi anni poco o nulla hanno fatto per affrontare questa vera e
propria epidemia. Nonostante il Sudafrica abbia il più alto tasso mondiale di sieropositivi,
ancora si stenta a riconoscere e pubblicizzare l'efficacia dei farmaci antiretrovirali: “È il
governo stesso a creare confusione”, denuncia la scrittrice. Per offrire un futuro al
Sudafrica, Magonaha fondato South Africa 2033, un'organizzazione non governativa che
incentra il suo operato sull'unica vera arma in grado di sconfiggere violenza e povertà:
l'istruzione. È proprio l'acquisizione di una coscienza propria e di un'emancipazione che
muove le protagoniste del libro. L'autrice descrive questa tensione verso la
consapevolezza come un cammino comunitario e non solo individuale. Le protagoniste
sono inserite in un solido gruppo tenuto insieme da un'amicizia forte e sincera, per quanto
a tratti difficoltosa, metafora di una solidarietà sociale soprattutto femminile, necessaria a
raggiungere cambiamenti reali. L'amicizia e la solidarietà fra donne è tanto più necessaria
quanto più latitante diventa invece la figura maschile, causa principale della
frammentazione della famiglia sudafricana.

Oltre alla letteratura, anche il cinema è sceso in campo per


denunciare. “And There In The Dust”, di Lara Foot Newton e
Gerhard Marx (2004), è una animazione molto creativa che
combina varie tecniche come la stop motion, l’animazione
tridimensionale di oggetti e performance life, ispirata alla
terribile vicenda di Baby Tshepang. “Rape For Who I Am”, di
Lovinsa Kavuma (2005), è un viaggio alla scoperta della
comunità lesbica nera in Sudafrica attraverso le storie di
quattro donne durante la celebrazione del Gay Pride a
Johannesburg. Il film svela gli immensi pregiudizi contro le
lesbiche, generalmente considerate come vittime della
malattia dell'Occidente e come peccato contro Dio, e il
numero crescente di stupri commessi sulle donne
omosessuali nere nelle township. “Tsotsi” (“Il suo nome è
Tsotsi”, 2005), di Gavin Hood, vincitore dell'Oscar 2006
come miglior film straniero, tratto dall'omonimo romanzo di Athol Fugard, racconta la storia
di un giovane teppista di Johannesburg che ruba una macchina senza accorgersi della
presenza di un neonato e si trova così a diventare un rapitore. Tra la violenza e il degrado
della periferia della grande città, dove in un paese devastato dall'HIV si uccide senza
pensare troppo, il ragazzo inizia a pensare che esista anche la possibilità di un'altra vita. Il
corto “Lucky”, di Avie Luthra (2005), tratta della diffusione dell'HIV, raccontando la storia
del piccolo orfano Lucky. Il “virus” è anche al centro della storia del film “Yesterday”, di
Darrel Roodt (2004), interamente girato in zulu nella splendida cornice del territorio
sudafricano, in cui la protagonista, una giovane donna di nome Yesterday, scopre di avere
l'HIV ma trova la forza di sopravvivere per riuscire a vedere il primo giorno di scuola di sua
figlia Beauty.

(Pubblicato su Ecplanet 02-02-2008)

South Africa shocked as six charged with raping baby girl The Independent 13-11-
2001

AIDS: A South African horror story BBC 14-10-2002

SOUTH AFRICA: Sexual assault hidden in culture of silence Irin News 02-03-2006

Sudafrica, emergenza stupri Corriere della Sera 14-03-2008

Quarter of men in South Africa admit rape Mail&Guardian 18-06-2009


Sudafrica: il dramma degli stupri correttivi 15-11-2009

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