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Stefano Allievi
Il fatto: movimenti migratori e pluralizzazione religiosa
La presenza di percentuali sempre pi significative di immigrati nel paesaggio sociale
europeo non solo un fatto quantitativo, che incide per cos dire pro quota sulle
dinamiche sociali, facendo crescere taluni indicatori (economici, sociali, di disagio, ecc.
questi, almeno, quelli pi comunemente percepiti). Essa produce e crea nuove
problematiche, innesca processi di relazione, mette in evidenza aspetti altrimenti
rimasti in ombra dellarticolazione sociale.
Uno di questi il ritorno della religione sulla scena pubblica, la sua maggiore
presenza e visibilit anche nello spazio pubblico europeo, pur ampiamente
secolarizzato. Gli osservatori scoprono, o meglio ri-scoprono, talvolta con qualche
sconcerto, che quelle religiose si dimostrano categorie sorprendentemente dattualit
e pertinenti per comprendere il gioco delle identit individuali e collettive, le loro
reciproche interazioni e le loro trasformazioni, quanto e forse pi di altre categorie
interpretative negli anni scorsi molto indagate e mediatizzate, come quelle etniche,
ma anche alcune diffuse categorie sociali.
Il caso dellislam, e dellislam europeo in particolare, ad esempio, non fossaltro che
per questioni numeriche, offre notevoli spunti di riflessione, inglobando al suo interno
provenienze etniche differenziate, un certo numero di autoctoni (i convertiti), e delle
seconde generazioni nate sul suolo europeo e progressivamente autoctonizzate, per
cos dire; nonch unampia serie di ambiti in cui si propone e fa immagine, talvolta
suo malgrado: dal rinascere dei fondamentalismi ai rapporti di genere, passando per le
relazioni tra stato e comunit religiose e per le dinamiche di mixit matrimoniale. Ma
non il solo a trovarsi in questa situazione.
La mobilit delle religioni legata, e del resto lo sempre stata, anche alla mobilit
umana. E dunque parte di quella pi generale rivoluzione mobiletica, che coinvolge
il movimento di informazioni, merci, denaro, idee, oltre che uomini e donne. Un
processo sempre pi veloce, che parte a sua volta del pi problematizzato processo
di globalizzazione. Uno dei suoi effetti, su cui ci soffermeremo, la progressiva
maggiore com-presenza sul medesimo territorio di una pluralit culturale e religiosa
sempre pi ampia, che si sta delineando, pur tra resistenze e reazioni in direzione
opposta, nei processi di cambiamento che stanno investendo lEuropa, e non solo
essa.
Il momento religioso attualmente vissuto dalloccidente (lespressione di Simmel
1989) caratterizzato tra laltro da due fenomeni concomitanti, e talvolta vissuti, dagli
attori sociali che li interpretano, come tra loro concorrenti.
Il primo. Insieme alle religioni tradizionali della vecchia Europa (le varie famiglie
cristiane, la presenza ebraica, qualche sopravvivenza che una volta si sarebbe definita
pagana), troviamo oggi, sempre pi articolati e visibili, altri attori: i nuovi movimenti
religiosi che in Europa nascono o che vengono importati da altri fiorenti produttori (gli
Stati Uniti, ma anche non pochi paesi asiatici: dallIndia al Giappone alla Corea, e altri);
unampia produzione di spiritualit new age; sette religiose pi o meno legate, magari
anche solo per opposizione, al vecchio ceppo cristiano; nobili tradizioni altrui da noi
importate per iniziativa soprattutto di occidentali e a modo loro ( il caso del
buddhismo).
Il secondo. Con larrivo di nuove popolazioni immigrate quello che in sociologia
invalso chiamare (da Poulat e poi Bourdieu in avanti), con una metafora di derivazione
economica forse discutibile ma efficacemente descrittiva, il mercato dei beni religiosi,
si ulteriormente complessificato. Lofferta di beni religiosi, gi ampia per sue
proprie logiche, come abbiamo visto, ha trovato unulteriore, feconda nicchia di
mercato in cui espandersi, ma anche nuovi imprenditori sociali del sacro, diverse
modalit di consumo, e si sono aperti nuovi canali di import-export religioso. Nel
concreto, significa che vi una sempre pi marcata presenza di tradizioni religiose
vecchie e nuove che sono arrivate insieme agli immigrati: dallinduismo allislam,
passando per le religioni etniche (lo shinto, i sikh, ecc.), lanimismo, forme sincretiche
come le cosiddette nuove chiese africane, ecc., oltre che nuovi membri, allogeni, di
tradizioni religiose gi presenti, percepite come indigene (cattolici, denominazioni
protestanti, ortodossi, ebrei, ma anche membri stranieri di comunit religiose recenti,
come i testimoni di Geova, ecc.).
Questi due fenomeni non sono separati e per cos dire impermeabili: si intrecciano, si
compenetrano, si influenzano reciprocamente, e retroagiscono sulla societ in cui si
inseriscono, cos come questa retroagisce su di loro. Queste nuove presenze religiose
non sono infatti neutre. E non hanno conseguenze solo per se stesse: la presenza di
questi nuovi inquilini suscettibile di influenzare, e di fatto sta gi influenzando,
anche i vecchi padroni di casa: le istituzioni, i sistemi sociali, e, cosa su cui si riflette
molto meno, le religioni stesse. E pone una sfida interpretativa alla stessa sociologia,
che non pare ancora del tutto attrezzata per comprenderlo.
Religione e teoria sociologica: una premessa
In generale le definizioni e le analisi della religione che ci vengono dai classici della
sociologia sembrano accentuare le dimensioni della stabilit, della continuit, della
sua funzione integratrice della societ, in unassunzione implicita di un postulato di
unicit e di globalit sostanziale (salvo da parte delle teorie riduzioniste che negavano
semplicemente il ruolo della religione, riducendola al rango di mero residuo). Nota per
esempio Berger (1967) che uno dei punti principali della teoria sociologica della
religione proposta da Durkheim sta nella difficolt di interpretare entro il suo schema i
fenomeni religiosi che non raggiungono lampiezza della societ.
Solo in tempi pi recenti (e in questo stato decisivo il contributo dello stesso Berger)
la teoria ha cominciato ad assumere la pluralit religiosa come un tema
caratterizzante in s, anche se non sempre ne ha dedotte tutte le possibile
conseguenze. In particolare, la pluralit stessa viene spesso assunta, un po
paradossalmente, come rigida: si sottolinea levidenza empirica che ci sono pi, e
magari molte, religioni compresenti. Ma queste sono vissute come corpi
reciprocamente estranei e non interagenti. Ora, la situazione di pluralit implica due
fenomeni altrettanto importanti. La prima il fatto di innescare dei processi di
relazione, e prima ancora dei processi cognitivi, che costringono gli attori a tenere
conto dellesistenza degli altri soggetti religiosi (anche quando la scelta organizzativa
quella, tipica del fenomeno setta, dellisolamento, della separatezza). La seconda
proprio la flessibilit; non solo e non tanto in termini organizzativi, ci che appare
meno interessante e significativo, quanto in termini di flessibilit soggettiva possibile:
ovvero, la pluralit la si vive, ci si entra e ci esce per cos dire, o meglio, allinterno di
essa, si cambia. Il problema che poche teorie della religione sembrano in grado di
spiegare davvero il cambiamento religioso, anche se alcune descrivono almeno le
condizioni che lo consentono. Come ha osservato sinteticamente Beckford (1991):
alcuni paesi tra cui lItalia, pi importante di quanto non indichino le evidenze
statistiche. Inoltre comincia a rendersi sempre pi evidente una seconda e una terza
generazione di musulmani che costituisce in fondo il vero islam dEuropa, che pu dirsi
a tutti gli effetti, insieme a quello dei convertiti ma con maggiore incisivit numerica e
pi complesse implicazioni qualitative, il primo vero islam autoctono europeo (spesso
del resto anche cittadino a tutti gli effetti, e dotato quindi della pienezza dei diritti, ivi
compresi quelli politici). Un islam che cambia, che si evolve, che per molte ragioni non
pi quello dei padri senza per questo perdere la propria identit, disperdendosi nel
mare dellindeterminato e dellindifferenziato.
Un islam in evoluzione, quindi, ma che in questo stesso processo sancisce la sua
progressiva stabilizzazione, candidandosi a divenire parte dellidentit culturale della
nuova Europa in via di faticosa costruzione. Un islam inoltre minoritario, che in questa
sua condizione, e con poche speranze di cambiarla, deve giocare il suo ruolo e
contrattare il suo spazio nella societ, al pari di altre minoranze religiose e sociali: un
cambiamento non da poco, persino teologico, ancora tutto da esplicitare ma che
promette risvolti interessanti e, in avvenire, un effetto di feedback con i paesi dorigine
dellislam implicazioni queste di cui probabilmente lislam europeo comincia solo
adesso, e a stento, a rendersi conto (o forse non comincia nemmeno: le vive,
semplicemente). Cambia lislam, insomma; ma cambia anche lEuropa, cambia
loccidente: realt in mutamento, ma anche di mutamento (Dassetto 1996).
Citiamo alcuni temi rilevanti di cambiamento, tra gli altri, solo per titoli:
- Per lEuropa: la pluralit religiosa sempre maggiore e pi incisiva, pi visibile (la
mezzaluna e la croce, il minareto e il campanile che si stagliano sul profilo delle citt,
per usare immagini un po stereotipe ma efficaci); limmagine dellaltro da ridefinire
(reciprocamente); la ridefinizione dei rapporti tra le due sponde del Mediterraneo (in
politica, economia, ecc.); le conseguenze sulle relazioni umane, interpersonali: contatti
personali, quotidiani, matrimoni misti (e loro conseguenze su immagine e concetto di
famiglia, di religione, ecc.); le conseguenze sul concetto stesso di Europa e di
occidente, non pi identificabile solo con la radice ebraico-cristiana (a pi lungo
termine), cio sullimmagine che gli europei hanno di se stessi attualmente.
- Per lislam: la separazione dellidentificazione islam-mondo arabo; laccettazione di
fatto (e in prospettiva anche la teorizzazione e la teologizzazione) dello statuto di
minoranza, del fatto di vivere come minoranza in una societ non informata
islamicamente (un fatto non scontato: lortodossia inviterebbe al ritorno in dar alislam, nella casa dellislam. Questo vuol dire un cambiamento enorme, che mi pare
che la maggioranza anche degli intellettuali musulmani non percepisca o sul quale
preferisca far finta di niente); il ruolo che gioca lislam nel mondo non islamico, oggi
che anche un attore interno dei paesi non musulmani, di cui occorrer sempre pi
tenere conto; il chiarimento, credo in buona sostanza tutto ancora da fare, dei rapporti
(anche di forza, di subordinazione), dei canali di comunicazione, degli obiettivi (quali
sono comuni e quali no) di questi vari pezzi della umma; quale livello di
europeizzazione dellislam considerato accettabile senza perdere lidentit
musulmana e al contempo senza chiuderla in un ghetto infecondo; quale ridefinizione
del rapporto tra legge religiosa e legge civile (in fondo un rapporto, anche
strumentale, con la legge civile e il potere che incorpora gi in atto, per esempio
attraverso la procedura per lIntesa. Piaccia o non piaccia, significa aver accettato
almeno nei fatti il primato della legge civile. Non ci si potr non interrogare sui
fondamenti rispettivi delle due concezioni della legge, anche perch gli scontri, per ora
contenuti, sono dietro langolo. Ne cito solo alcuni: il problema delle conversioni per
matrimonio, comunque ci si voglia girare intorno, forzate o, il minimo che si possa dire,
burocratizzate e prive di contenuto spirituale: non una svilizzazione, anche per
lislam degli europei?; il problema dello statuto personale, la legislazione sulla famiglia
ripudio, segregazione educativa, ecc. -, il ruolo della donna e i suoi diritti, ecc.); e
p.e., teologicamente: quale rapporto con il testo fondatore, quali possibilit di
traduzione e di modi di lettura del Corano si potr prescindere anche in futuro da
unesegesi, nel senso sostanzialmente ormai acquisito nella teologia cristiana? Detto
in altri termini: si potr chiedere ancora a lungo ai musulmani europei di essere solo
musulmani, e di dimenticarsi di essere europei? si potr chiedere loro, soprattutto alla
seconda, alla terza generazione (e vale tanto per i figli di immigrati quanto per quelli
di musulmani convertiti) di non far incontrare la loro musulmanit con la loro
europeit?
La specificit euro-islamica
Loro, i musulmani, come si vivono in Europa? Anche qui, nellautocomprensione del
proprio ruolo e della propria funzione, le novit sono molte e cospicue.
Per le minoranze che ci vivono, ma anche rispetto allislam dorigine, lEuropa
costituisce un laboratorio eccezionale da molti punti di vista: libert dassociazione e
di manifestazione del pensiero (libert relative, o almeno talvolta condizionate,
vero, nei confronti dellislam organizzato soprattutto quando si tocca la sfera del
riconoscimento giuridico, delluguaglianza di trattamento delle minoranze religiose;
ma nondimeno presenti e reali), situazione di pluralit religiosa, alti livelli di mixit (in
molti sensi, di cui quello matrimoniale non che un esempio), inizi di un islam
autoctono, ed altro ancora, sono altrettanti elementi che fanno dellEuropa non
solamente una sfida, ma anche una opportunit importante per tutto lislam.
Nonostante i limiti talvolta presenti, le societ europee garantiscono infatti un largo
margine dazione alle comunit e ai singoli musulmani. Non per caso vari leaders
dellopposizione islamica radicale in paesi musulmani, costretti allesilio, si sono ben
guardati dallo scegliere la rischiosa ospitalit di altri paesi fratelli, e hanno preferito
di gran lungo lasilo politico tra gli infedeli, a Londra o a Berlino, a Parigi o, meno
spesso, a Roma . Questo tra laltro produce interessanti interazioni con lislam
immigrato, a cominciare dal moltiplicarsi dei centri di potere e di elaborazione politicoreligiosa che si richiamano allislam, e alle contrapposizioni interne tra le varie
sensibilit presenti che ci comporta; e altrettanto interessanti effetti di feedback con
lo stesso modo di organizzarsi e di pensarsi dellislam dorigine.
LEuropa dei musulmani peraltro diversa da quella che conosciamo nella sua
proiezione istituzionale. E pi larga, innanzitutto: non limitata a quella dei Quindici (i
cui confini interni ed esterni non hanno per lislam significato), e fortemente proiettata
verso est, tra i paesi candidati allingresso nellUnione Europea: dove esistono
importanti minoranze islamiche non immigrate, e quindi cittadine a tutti gli effetti, con
modalit secolari e sperimentate di rapporto con le maggioranze, e di gestione
istituzionale della specificit religiosa islamica (che spesso anche linguisticoculturale, trattandosi in diversi casi di minoranze turcofone, residuo della dominazione
ottomana) da parte degli Stati in questione. Anche questa Europa parte dallAtlantico,
ma si slancia pi decisamente verso gli Urali. Ed unEuropa non pensata in termini di
nazione, o di macro-nazione, quanto piuttosto interpretata secondo linee di pensiero
che affondano le loro radici nella tradizione islamica, seppure confrontata con le sfide
delloggi: uno strano mlange (strano, in primo luogo, agli occhi di uneuropeo) di
Europa-cristianit e Europa-modernit. UnEuropa, in ogni caso, interpretata georeligiosamente non come un centro, ma come una periferia: la parte europea della
umma. Capace tuttavia, per i suoi dinamismi interni, ivi compresi quelli che
concernono lislam, di diventare un nuovo centro: non il solo, non il principale, ma uno
dei centri importanti di elaborazione, come gi un centro di espansione, una nuova
frontiera dellislam come stata pertinentemente definita gi molti anni fa, senza che
gli europei se ne siano davvero resi conto.
Si tratta tra laltro di unEuropa non piccola, se vero, come vero, che messa
insieme la popolazione dorigine islamica dEuropa, anche seguendo stime prudenziali
(dodici-quindici milioni), che forse non tengono sufficientemente conto dellapporto
delle seconde generazioni, superiore a quella della maggioranza degli stati membri
della Unione Europea, presi singolarmente, esclusi solamente i pi grandi e abitati:
Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Italia. Lislam insomma, se fosse una
nazione, sarebbe il sesto o il settimo paese dEuropa per numero di abitanti.
I nuovi soggetti dellislam europeo sono nel contempo il prodotto e i mediatori
dellincontro tra lislam e lEuropa. Giocano dunque, possono giocare, e in ogni caso
giocheranno, un ruolo chiave nel tentativo di produrre questa nuova islamit
europea. Non hanno dopo tutto un altrove al quale reclamarsi, se non sul registro
mitico, in chiave religiosa o ideologica. Vivono sul confine, alla frontiera. Ma mai come
in questo caso il confine davvero cum-finis: ci che separa, ma anche ci che ho in
comune con laltro, gli altri.
Europa: dar al-islam?
Uno dei confini su cui interrogarsi dato dalla problematica definizione, oggi, dei
confini tra dar al-islam e dar al-harb . E il caso di approfondire la questione, che
implicitamente sta diventando un criterio di definizione cruciale del comportamento
dei musulmani, ed esplicitamente, almeno nella pi ristretta cerchia degli addetti ai
lavori e dei responsabili associativi, comincia a diventare oggetto di riflessione e di
dibattito anche appassionato.
Di fatto, necessario sfuggire proprio a questa definizione dicotomica: certo
allettante, perch apparentemente esplicativa, e perch porta con s il peso e linerzia
di una lunga tradizione; ma sempre meno utile per comprendere la situazione
dellislam di minoranza, e di fatto sempre meno utilizzata dagli stessi musulmani.
Ormai, per sentirne parlare, bisogna leggersi i libri sullislam; nella conversazione con i
musulmani, argomentazione pressoch dimenticata. Ma il problema che tocca non
ha ancora ricevuto una nuova definizione, anche per mancanza di solide basi: di fatto
molto si dice nella tradizione classica sulla posizione delle minoranze altre (in
particolare delle genti del libro) nellislam, e poco o nulla invece del contrario quasi
fosse una situazione impensabile, oltre che impensata.
Pu essere interessante, intanto, cercare di analizzare le risposte che a questo
problema sono state date finora.
Il pensiero tradizionale pu essere ben esemplificato da una posizione che ha tra
laltro linteresse di essere stata formulata proprio in Europa, al tempo della
dominazione islamica, nel momento in cui si faceva pi concreto il pericolo di quella
che sar chiamata reconquista: quella di Ibn Rushd, cad e imam della grande
attivo della capitale, propone anchegli di cancellare questa nozione dalla nostra
terminologia.
Ma anche un ortodosso insospettabile, referente di ambienti conservatori come di
gruppi radicali, come al-Qardawi, rigetta la dicotomia tradizionale, e con lui molti altri,
sostenendo che non si pu parlare di dar al-harb se il musulmano ha la possibilit di
osservare i precetti religiosi. Del resto i primi compagni del Profeta non furono da
questi mandati in Abissinia (615-622), sotto la protezione di un governante cristiano e
in mezzo a popolazioni cristiane, dove trovarono una maggiore libert di professare
lislam di quanta ne avessero trovata nelle Mecca politeista? Persino un pensatore
come Ibn Taymiyya, nume tutelare e riferimento abituale del pensiero islamista, era
arrivato a dire che un musulmano pu stare dove vuole purch resti musulmano e si
trovi in condizioni di sicurezza personale.
Una reinterpretazione della dottrina tradizionale di un certo interesse stata elaborata
da shaykh Faysal Mawlawi, dellalta corte sunnita di Beirut. Riprendendo la
terminologia di al-Shafii, sostiene che i paesi non musulmani non sono qualificabili al
giorno doggi di dar al-harb, ma eventualmente di dar al-ahd, terra del patto, del
trattato. Anche se egli preferisce proporre un termine che, come abbiamo pi volte
riscontrato, ha un certo successo negli ambienti militanti musulmani, e che oggi si
applicherebbe di fatto a tutto lecumene, islamico o meno: quello, in un certo senso
pi semplice e privo di connotati istituzionali e di implicazioni giuridico-legislative, di
dar al-dawa, terra della predicazione, che fa riferimento alla posizione del Profeta e
dei suoi compagni prima della hijra verso Medina. Incidentalmente, questa
argomentazione rafforza la nostra definizione dellislam minoritario europeo come
sostanzialmente meccano, cio pi simile allislam della Mecca prima della hijra,
quando i musulmani erano minoranza, che a quello di Medina (Allievi, 2002). E del
resto ci pare che anche laltra definizione, oltre tutto meramente descrittiva, talvolta
proposta dellEuropa come dar al-hijra, terra dellemigrazione, non faccia i conti con il
fatto che essa tale solo per la prima generazione: quella che emigrata, appunto.
Ma le seconde generazioni, che non si sono mai mosse, e i convertiti, per i quali
questa espressione semplicemente un nonsense? A quale hijra fare riferimento se
non, eventualmente, a un esilio puramente spirituale?
Rachid Ghannouchi, leader islamista tunisino oggi esule a Londra, ha fatto un passo
ulteriore, dichiarando, durante un discorso in occasione del congresso del 1989
dellUoif (Unione delle organizzazioni islamiche in Francia), che oggi la Francia, e il
ragionamento vale ovviamente per tutta lEuropa, dar al-islam, per il semplice fatto
che i musulmani ci sono e, come ha attestato un successivo documento della stessa
Uoif, possono pure essere sepolti secondo le norme islamiche. Una prova in pi, ci
permettiamo di aggiungere, che la scelta di essere sepolti nel paese di emigrazione (o,
per le seconde generazioni, di nascita o comunque di socializzazione) davvero quella
forma di integrazione post mortem, di scelta definitiva della propria casa (dar), quella
che si abiter pi a lungo, cui abbiamo accennato in un precedente capitolo. Sempre
lo stesso Ghannouchi, in una nostra intervista pi recente (marzo 2000), ci
confermava la scelta di un paese non musulmano come luogo desilio, come
unopportunit anche islamica, essendo questi paesi pi liberi e garantendo maggiori
possibilit di svolgere lavoro islamico della maggior parte dei paesi musulmani.
Argomento che non pu non diventare un interrogativo non neutro per le lites
musulmane in Europa che non vogliono accontentarsi di un puro tatticismo, di un
utilizzo meramente strumentale delle possibilit offerte sulla piazza europea.
E infatti un passo teorico ulteriore, pur basato su fonti classiche, lha fatto un
rappresentante di queste lites di seconda generazione, un intellettuale e un leader
tra i pi ascoltati dellEuropa odierna, Tariq Ramadan. Egli infatti in un suo testo
recente introduce il concetto di dar as-shahada, terra della testimonianza,
richiamandosi a una duplice accezione del concetto di shahada, che insieme
testimonianza intima (shahada la confessione di fede davanti a Dio, ripetuta pi
volte durante la preghiera quotidiana, e che per i convertiti sancisce latto di ingresso
nellislam) e collettiva, sociale, espressione della sua presenza partecipativa nella
societ in cui si trova (Ramadan, 2002).
LEuropa, dunque, sembra essere passata per tappe successive, che dalla condizione
di dar al-harb, terra del conflitto, della guerra, e dar al-kufr, terra della miscredenza,
lhanno portata ad essere, nei fatti, dar al-hijra, terra dellemigrazione, almeno per la
prima generazione di immigrati, e in seguito anche dar al-ahd, terra del patto, del
trattato, di rapporti contrattualizzati tra gli stati e le comunit musulmane, ma anche
dar al-dawa, terra di una missione a largo raggio (tra i non musulmani, cui far
conoscere lislam, ma ancor pi di re-islamizzazione tra i musulmani tiepidi, o che
lislam lhanno abbandonato), occasione di espansione, dunque, seppure non
sostenuta dal potere delle armi e degli stati; e ancora dar as-shahada, terra della
testimonianza, un concetto che apre allimpegno e alla responsabilit dei credenti, a
prescindere dalla societ, e molto tipico di una societ secolarizzata e plurale (non
sono diversi i discorsi che si sentono in campo cristiano, oggi); fino al suo possibile
diventare, o essere diventata, puramente e semplicemente dar al-islam: nientaltro
che la parte europea della umma ma in un significato in parte diverso da quello
tradizionale: terra anche dellislam, e dellislam tra altri, senza pretese su di essi,
nemmeno definitorie.
Incidentalmente, questo significa tra laltro una cosa particolarmente rilevante anche,
e soprattutto, dal punto di vista dellEuropa non musulmana: il fatto che, venendo
messi in questione gli attuali equilibri centro/periferia allinterno dellumma islamica, e
facendo della periferia europea un nuovo centro, attraverso un significativo
slittamento progressivo delle frontiere culturali, lEuropa diviene, o meglio diventer
progressivamente, una posta in gioco sempre pi importante della geopolitica
musulmana.
La presenza islamica e le sue implicazioni
La presenza islamica consente di riaprire in forma diversa e in qualche modo di
ripensare dibattiti teorici gi pienamente dispiegati. Penso per esempio al dibattito sul
multiculturalismo . Lo stesso si potrebbe dire per quel che concerne il dibattito,
parallelo al precedente, tra liberal e comunitari, che pure si sta avviando a una
popolarit significativa, seppure pi in ambito politico e ideologico che strettamente
scientifico: nato anchesso in contesti assai diversi da quelli della vecchia Europa (Stati
Uniti in particolare), e in un ambito disciplinare poco propenso alla verifica empirica (la
filosofia politica), comincia a incontrarsi, in Europa, con situazioni, ragioni e religioni
che lo mettono in questione, ma nello stesso tempo lo fecondano attraverso case
studies diversi e, particolare non trascurabile, empiricamente osservabili sul terreno, e
anzi gi da anni oggetto di studio della sociologia .
La presenza di immigrati di varia provenienza etnica e religiosa, lo strutturarsi
progressivo di comunit che fanno riferimento a queste stesse specificit, inducono
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Misurare il pluralismo:
Analisi di alcune ricerche comparative
di
Stefano Allievi
La ricerca qui presentata si colloca allinterno di un quadro europeo e in una logica
comparativa. Nelle analisi che precedono si approfondito il caso italiano, a partire
dalle risultanze empiriche della ricerca nazionale.
In questo capitolo ci proponiamo invece di analizzare le ricerche comparative europee
gi svolte di comparare le comparazioni, per cos dire , cercando di leggere
attraverso di esse alcuni cambiamenti in corso. Porremo unattenzione particolare a un
aspetto, progressivamente messo in luce, dalle ricerche stesse: la tendenziale
pluralizzazione religiosa e culturale delle societ occidentali, e le sue possibili
incidenze sulla frammentazione spesso osservata dei riferimenti a valori e norme
morali nella costruzione di quella che potremmo chiamare letica quotidiana di
riferimento degli individui.
Il percorso si limita alle principali ricerche esistenti, tutte collocate nellultimo quarto di
secolo, con una frequenza maggiore in anni pi recenti. E solo in questo periodo
infatti che si sono cominciate a svolgere ricerche comparative a loro volta tra loro
comparabili, quanto a mezzi a disposizione e ad affinamento progressivo delle
metodologie e degli items analizzati.
Le principali tappe della ricerca comparativa sui valori sono articolabili come segue.
(EVSSG) , poi diventato EVS , una fondazione indipendente con sede ad Amsterdam e
segretariato presso lUniversit di Tilburg, che ha lo scopo di analizzare i cambiamenti
valoriali in atto nelle societ europee occidentali, e anche di vedere se e in che
misura queste societ condividono alcuni valori comuni; tale iniziativa di ricerca,
promossa con il sostegno della Commissione delle Comunit Europee e della European
Cultural Foundation, nei decenni successivi promuover una serie di surveys e di
ricerche empiriche comparative, con un questionario comune, nel 1981 e poi ancora
nel 1990 (allargata anche ad altri paesi europei, nonch a Stati Uniti, Canada, Sud
Africa, Giappone e alcuni paesi dellAmerica Latina, sempre con il medesimo
questionario, testato anche in Russia e altrove, ci che ha portato a un totale di circa
700 milioni di persone teoricamente rappresentate .
In queste surveys si analizzano temi come il lavoro, la famiglia, la sessualit, la
politica, ma anche in specifico la religione e la morale. Le prime ricerche dellEVSSG
saranno pubblicate in Stoetzel [1983], Abrams, Gerard, e Timms [1985], e Harding, e
Phillips [1986] .
E chiaro comunque linteresse ad analizzare i valori in unottica sociologica, che porta
lautore della sintesi della prima ricerca a notare, in quello che possiamo considerare il
principale assunto teorico della medesima, che gli Europei, man mano che aumenta il
loro livello di reddito, diventano in campo morale pi progressisti e pi permissivi
[Stoetzel 1983, 32].
Alcuni autori mettono tuttavia le mani avanti rispetto a interpretazioni troppo
assertive. In uno dei primi testi in inglese prodotti a partire dalla prima survey
dellEVSSG ci si premura di scrivere infatti: we make no grand claims for any unified
theory of human values [Harding & Phillips 1986, xii], limitando le ambizioni
teoriche, in realt, alla semplice analisi delle risultanze empiriche. E uno dei membri
del gruppo tra i pi attenti alle questioni e anche alle trappole metodologiche ha
ricordato pi volte [ultima in Halman 1995a, 63] che il questionario non affatto
fondato su una teoria elaborata sui valori o sui cambiamenti dei valori .
Il quadro teorico, comunque, esiste, e costituisce quanto meno un riferimento
implicito, che per molti versi non muter significativamente rispetto alle premesse
poste da Inglehart, il pi influente tra gli studiosi della materia e attuale coordinatore
del WVS, come vedremo tra poco; gli assunti di base, o le ipotesi guida nellanalisi dei
dati, anche dopo la seconda serie di surveys condotte nel 1990, saranno le seguenti:
a) che man mano che avanza lo sviluppo economico dei vari paesi, i valori delle loro
popolazioni si dirigono verso una progressiva individualizzazione ; b) che i valori
tendono quindi a frammentarsi; c) che il sistema di valori individualizzato, nelle
societ moderne, tende a convergere [Ester, Halman e de Moor 1993a; de Moor
1995a].
Va detto anche, tuttavia [come Ester, Halman e de Moor 1993a hanno lonest di
ammettere, nellepilogo, p.229 segg.] che, delle ipotesi iniziali avanzate , solo quella
relativa alla progressiva frammentazione dei valori degli individui viene considerata
come supportata dai dati acquisiti.
Queste ricerche avanzano comunque lipotesi guida che moral value orientations are
closely related to religious values [Halman e de Moor 1993b, 38]; e lo fanno in
maniera quasi positivista, sostenendo che religious values and church-related moral
values will continue to change in the direction of secularization and individualization
[ibidem, 41]. Come si vedr pi avanti, proprio questo assunto che ci interesser
porre in discussione in queste medesime societ, alla luce della loro progressiva
pluralizzazione religiosa.
Queste ricerche, e i questionari relativi, saranno anche quella che potremmo chiamare
la palestra metodologica delle ricerche sui valori, e faranno emergere alcuni nodi
fondamentali nellinterpretazione dei valori e nella loro definizione. Si porranno qui per
la prima volta in maniera evidente alcuni interrogativi tipici della ricerca quantitativa
che intende indagare temi delicati e sensibili, e ad un grado (unestensione) di
comparazione estremamente elevato.
Lassunto di partenza di queste ricerche che cross-cultural research demands crosscultural concepts [Frey, cit. in Halman e de Moor, 1993a, 25]. Tuttavia, in pratica si
tratta di un principio guida di non facile attuazione: pi un auspicio che un obiettivo
raggiunto. Un interrogativo di base si chiede se persone appartenenti a paesi diversi,
diciamo uno svedese e un italiano, o un giapponese e uno statunitense, intendono allo
stesso modo parole e concetti riguardanti una certa definizione della morale, e il
concetto stesso di valore, o ancora se le stesse modalit di risposta (ad esempio
moderatamente daccordo o molto soddisfatto) corrispondano effettivamente allo
stesso concetto, nelle diverse latitudini. Il problema se lo pone gi Inglehart [1977,
154], il quale tuttavia (ovviamente, dal suo punto di vista) si risponde che il rischio
comparativo non eccessivo, e non influenza significativamente i dati.
Citando un altro autore Halman [1995a, 73] ricorda che indicatori
fenomenologicamente identici non danno necessariamente misure equivalenti: sono
spesso necessari indicatori diversi per controllare concetti equivalenti in ambientazioni
diverse. Per esempio gli indicatori del livello di educazione scolastica o dei partiti
politici e persino delle preferenze religiose sono specifici di una nazione. Ma i
problemi della comparazione in materia sono assai pi ampi .
Questi interrogativi mettono seriamente in dubbio lefficacia del modello teorico
basato su questo tipo di comparaione, tanto che diversi ricercatori preferiranno
definire questi studi e i relativi questionari una exploration of values-related issues
piuttosto che dei fine measurements [Ashford e Timms 1992, 3], limitandone
significativamente le ambizioni, oltre che le potenzialit esplicative.
Vi inoltre un problema comune a tutti i sondaggi e le ricerche quantitative: quello di
inferire gli orientamenti di valore in misura maggiore dalle opinioni e dagli
atteggiamenti che non dai comportamenti [Cartocci 1993, xv]; ma un limite
invalicabile, che va tenuto presente nellinterpretazione dei dati, ma che non li inficia,
salvo il voler rinunciare opzione che sarebbe peraltro metodologicamente fondabile
a questo tipo di indagine. I medesimi interrogativi hanno fatto sentire il loro peso
anche nellapprontamento del questionario su cui si basa la ricerca presentata in
questo volume, non privo di ambiguit interpretative, e che risente molto della diversa
storia anche in termini di costumi, di valori, di peso e modalit di presenza
istituzionale del fattore religioso degli studiosi coinvolti e dei paesi di appartenenza
dei medesimi, caratterizzati da contesti religiosi molto differenti.
Inglehart e la rivoluzione silenziosa
Il punto di partenza della maggior parte delle analisi sui valori pu essere considerato
un saggio di Inglehart [1977], primo di una lunga serie di ricerche coordinate o svolte
dal medesimo autore. In esso Inglehart mette a fuoco quella che stata la rivoluzione
silenziosa che da titolo al libro, evidenziando il passaggio, avvenuto negli anni 70,
dallenfasi verso valori materiali e acquisitivi al maggior interesse verso la qualit della
vita: la premessa per il passaggio, in particolare nei gruppi giovanili delle societ
Di tutti questi grandi cambiamenti non c in realt molta traccia nelle ricerche sui
valori. Eppure la progressiva pluralizzazione, religiosa in particolare, con i suoi effetti a
livello macro e quelli, identitari, a livello micro, rilevante anche, e soprattutto, nelle
questioni etiche, morali, valoriali, che costituiscono tanta parte del mondo religioso
quotidiano, delle sue articolazioni nel vissuto, ma anche, pi in generale, della vita
quotidiana, e della connessa morale spicciola, ordinaria, degli individui, delle loro
opinioni su di s e sugli altri.
In parte, questa assenza dovuta alla novit del fenomeno, che solo in anni recenti ha
assunto una certa visibilit, peraltro spesso tardiva rispetto alle sue prime
manifestazioni e alla sua attuale consistenza. Ma in parte dovuta anche a inerzie
disciplinari, figlie della storia stessa della sociologia delle religioni.
Il problema della pluralit si pu porre sotto molti aspetti. Uno lo mostravano gi, a
partire dai dati dei questionari EVSSG, alcuni autori, descrivendo come un assunto di
base della ricerca il seguente: Values both justify the existence and development of
segments, as it were, of society Muslim values are different to Christian values and
also prevent these segments from disintegrating into mere groupings of individuals
the values are Muslim, Christian and so on [Ashford e Timms 1992, 2]. Ma questo
solo un primo passo: che assume il dato esotico, in questo caso offerto dallislam,
non diversamente da quanto si fatto finora a partire dal rapporto tra maggioranze e
minoranze tradizionali dellEuropa.
Ma, come si visto, il fattore P (pluralizzazione) va visto, letto e interpretato
allinterno di un insieme di eventi pi complesso, e giocoforza di un quadro teorico pi
raffinato, che sappia cogliere tanto gli elementi di pluralit quanto le modificazioni
indotte da essi allinterno delle istituzioni religiose e, prima ancora, dei
comportamenti e delle opinioni religiose degli individui che ad esse fanno riferimento
nonch gli aspetti di fluidit del dato, che includono anche i diversi rapporti tra i
mondi religiosi medesimi, contemplando anche la possibilit soggettiva di passare
dalluno allaltro, creando una nuova situazione anche per gli individui e forse anche
un nuovo concetto di identit religiosa.
Nasce, lo abbiamo visto, unEuropa che sempre pi unEuropa di minoranze. Anche
le s dicenti maggioranze lo sono sempre di meno, nellopinione e nella percezione dei
loro stessi esponenti.
Pi ancora: queste minoranze e proprio, eminentemente, intorno alle questioni
valoriali, dalla bioetica (limiti della vita e della morte, trapianti, donazioni di organi,
ecc.) a pi tradizionali dilemmi morali (aborto, concetto di famiglia, omosessualit,
ecc.), fino alla morale spicciola dellopinione sulla gravit di comportamenti devianti
diversi (dal consumo di droghe e alcolici alladulterio, passando per letica del lavoro e
luso del denaro) contribuiscono a loro volta a creare quelle che ormai possiamo
definire delle maggioranze a geometria variabile, che si formano a seconda del
consenso etico momentaneo e della sensibilit intorno a un singolo problema: pronte
tuttavia a sfaldarsi, e comunque sempre potenzialmente volatili, a fronte di un
problema diverso.
La teoria di Inglehart ad esempio, da cui abbiamo preso le mosse, risulta
complessificata dallarrivo, con le nuove popolazioni immigrate delloccidente dato
come postmaterialista (e solo una parte lo , come risulta del resto anche dalle
indagini che individuano la linea postmaterialista come maggioritaria), di nuove
culture e religioni. Nuove per loccidente, e tuttavia vecchie, e spesso tradizionaliste
e per nulla postmaterialiste. Esse sembrano rappresentare il passato, la tradizione,
prima rilevazione, ai 15,5 della seconda, ai 17,9 nel 1999. Ugualmente non
tematizzato esplicitamente laspetto del pluralismo religioso nellanalisi dei risultati
italiani della ricerca comparativa dellInternational Social Survey Program (ISSP),
condotta nei primi anni novanta in tredici paesi [Garelli e Offi 1996].
Anche le ricerche locali si orientano soprattutto, e spiegabilmente, sul fenomeno
religioso maggioritario (Capraro, Cipriani, Martelli, Pizzuti e molti altri), anche se
alcune cominciano a rilevare il manifestarsi della pluralit in alcune aree, e altre
invece, a partire da singoli fenomeni religiosi minoritari, a porla direttamente a tema
centrale ed esplicito di riflessione: si pensi, su piani diversi, ad alcune riflessioni di
Filoramo e Terrin, nonch alle sistematiche raccolte di dati di Introvigne, alle ricerche
di Berzano, Macioti ed altri sul mondo esoterico, magico e new age, ai tentativi di
descrizione del mondo buddhista e in generale orientale di Macioti, Pace ed altri, e a
quelle legate alla principale componente religiosa immigrata, lislam, con gli
approfondimenti di Allievi, Allievi e Dassetto, Pace, Saint Blancat .
Un accenno di attenzione alla pluralit religiosa in una ricerca quantitativa nazionale lo
troviamo in uno dei punti di sintesi pi recenti della sociologia delle religioni in Italia
[Cesareo et alii 1995], che utile approfondire.
Un primo problema si pone a livello immediatamente statistico, di rispecchiamento dei
dati reali. La popolazione residente in Italia, che ne compone il quadro religioso,
composta da italiani e da stranieri. In questa occasione si fatto un primo lodevole
tentativo di inserire espressamente gli immigrati nel campione, in percentuali
adeguate, riconoscendo esplicitamente che la categoria normalmente
sottorappresentata [Lanzetti 1995, 306]; a questo proposito si voluto sottolineare
che il campionamento non avvenuto solo fra i cittadini italiani con diritto di voto e
che i nominativi da intervistare non sono stati estratti solo dalle liste elettorali
[Cipriani 1995, 113]. Nella ricerca in questione luniverso di riferimento quello della
popolazione italiana di 18-74 anni [Lanzetti 1995, 294]; un universo, come mostra la
tab.1 di p.295, valutato in 42.044.672 di persone. E peraltro andrebbe notato che il
gruppo degli immigrati percentualmente pi consistente di quanto stimabile
attraverso un mero calcolo percentuale, essendo in esso largamente
sottorappresentata precisamente la fascia sotto i 18 e quasi inesistente quella sopra i
74 anni.
Al di l degli immigrati, poi, vi una pluralit religiosa interna, composta da cittadini
italiani che non si riconoscono nella confessione cattolica maggioritaria. Ora, i dati
raccolti, riassunti nella tab. 1 p.113, ci danno i seguenti risultati, in termini di
appartenenza religiosa, intesa come autocollocazione: cattolico 88,6%, testimone di
Geova 0,6 (equivalente a circa 250.000 adulti), protestanti 0,7 (meno di 300.000),
ortodossi 0,1, ebrei solo 0,02, musulmani 0,6, buddhisti 0,3, altro 0,3, senza religione
8,8, e assenza dato 0,1.
Ebbene, senza entrare in dettagli, e basandoci sulle pi diffuse stime proposte ,
sostanzialmente tutte le comunit religiose citate, tranne la cattolica, risultano
sottovalutate in percentuali variabili: talora fino al 50% (ortodossi) e oltre (musulmani,
ebrei) anche se bisogna fare attenzione a non prendere per buone le autovalutazioni
delle varie comunit, e sempre tenendo presente che qui la valutazione fatta sulla
classe det 18-74 anni . In alcuni casi la sottovalutazione dovuta al fatto che i
cambiamenti sono recenti, successivi alla rilevazione, e ovviamente non potevano
essere misurati allepoca (si pensi agli ortodossi, con i recentissimi consistenti arrivi da
est, e in parte gli stessi musulmani); in altri dovuto allessere i seguaci di queste
elettorali con i detentori di permesso di soggiorno in esse non inseriti; e questo anche
limitandosi alla sola presenza regolare, essendo quella irregolare, per definizione,
sfuggente allo strumento statistico, e sostanzialmente invisibile ad esso, se non per
via indiretta, indiziaria. Dopo tutto, si tratta di indagini sulla popolazione residente,
non sui cittadini: categoria che, in fase di sempre maggiore mobilit, rischia di
diventare parzialmente distorcente.
Ma c un problema di rilevazione anche di quel pluralismo che, nella nostra ipotesi
interpretativa, bens legato alla presenza di religioni altre, ma non rappresentato
da esse, o non solo da esse: con questo fenomeno si interseca e ne viene influenzato,
ma va oltre esso, producendo cambiamenti a livello di identit religiosa anche
allinterno delle supposte maggioranze (o di altre minoranze), e soprattutto
moltiplicando le collocazioni multiple, atipiche, sempre meno riconoscibili e definibili
con i canoni dellortodossia di fede, quale che essa sia. Un aspetto, questo, raramente
osservato, anche nelle ricerche straniere. Fa eccezione, tra le pochissime, Campiche et
alii [1992], che forse perch proveniente da un paese gi ampiamente pluriculturale e
plurilegioso per storia e tradizione la Svizzera , pi attento anche alle nuove forme
di pluralit, con esplicita tematizzazione anche dal punto di vista teoretico. Qui si
sottolinea infatti che les frontires du champ religieux sont devenues floues et
permables, alors que les interfrences entre les traditions religieuses et leur
environnement culturel sont multiples. Dans ces conditions, les traditions religieuses
ne constituent plus des enceintes protges [Bovay e Campiche 1992, 39]:
evidenziando, tra gli effetti collaterali, la moltiplicazione delle relazioni interreligiose
e soprattutto ecumeniche, a livello teologico e istituzionale, ma anche di gruppi locali
e informali (a livello popolare, potremmo dire), con la non trascurabile conseguenza di
una tendenza visibile al ravvicinamento pratico, prima ancora che teologico, nelle
rispettive posizioni e tradizioni, attraverso una cattolicizzazione del protestantesimo
e una omologa protestantizzazione del cattolicesimo.
Ora, se le cose sono certamente pi complicate dal punto di vista interreligioso, non
sono certamente estranei anche a questambito cambiamenti significativi: si pensi
anche a questioni generali legate, per esempio, al rapporto con il corpo, lequilibrio
psico-fisico, la salute, e altro ancora.
Tale pluralismo rilevante, ovviamente, anche rispetto a molte questioni legate alla
morale, e tocca financo le specificit delle singole religioni. Non difficile tentare un
elenco delle questioni intorno a cui esso potrebbe essere osservato: dalle
emotrasfusioni al vegetarianesimo, dalla reincarnazione alla vita dopo la morte, ma
arrivando fino al concetto stesso di religione, di appartenenza alla medesima, di verit
di fede.
C un implicito dei questionari che la pluralizzazione pone e che noi dobbiamo
porre, innanzitutto metodologicamente (e la metodologia anche la forma pi alta di
deontologia professionale) in discussione.
Questo implicito che esista una popolazione omogenea, di maggioranza, per cos
dire, e che essa eventualmente rivolge uno sguardo superficiale e distratto alle
minoranze. Ora, se le minoranze (ammesso e non concesso che questo linguaggio sia
il pi pertinente) cominciano a essere molte e disparate, questo approccio rivela tutta
la sua insufficienza. Perch le identificazioni minoritarie sono sempre di pi, e perch
esse stesse guardano alle (supposte) maggioranze, e si guardano tra di loro!
Di fatto, nei questionari si pensa alla maggioranza e si chiede la sua opinione sulle
minoranze, ma non si ipotizza il caso inverso, che pure c: di minoranza che guarda a
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Testo originariamente pubblicato in: aut aut, n. 333, gennaio-marzo 2007, pp. 108128
Vittime collaterali
Incontro con ZYGMUNT BAUMAN
Stefano Allievi. Vittime collaterali unespressione significativa, che ricorda un po
quella di danni collaterali, espressione che si usa sempre pi spesso per le guerre, per
la guerra del Golfo, per la guerra in Iraq, e per tutte le cosiddette guerre postmoderne.
unespressione tra le pi ciniche e fredde che si potessero inventare e ha un grave
effetto collaterale: quello di nasconderci gli aspetti pi spiacevoli della realt. I danni
collaterali sono immensi, ma di solito non sono calcolati proprio perch sono laterali,
non stanno al centro della scena. Non si calcolano prima, per non sprecare risorse
(quel che conta il bersaglio), e non si calcolano neanche dopo, per evitare fastidiosi
esami di coscienza. Nellassordante silenzio dei media solo pochissime organizzazioni
internazionali cercano di contare le vittime della guerra, di dare almeno un numero, se
non un nome, a quelle vittime, di ricordare almeno statisticamente che ci sono e fare
vita.
Una volta Bertolt Brecht, parlando dei rifugiati le tipiche vittime collaterali del XIX
secolo, le vittime dellintenso processo di costruzione delle nazioni , li ha definiti gli
araldi, gli ambasciatori della sventura e della cattiva sorte. Venivano da lontano,
portando con s lodore acre delle case bruciate, dei raccolti distrutti, di ogni sorta di
catastrofe, e ci facevano presagire che tutto ci sarebbe potuto capitare anche a noi.
Ne avevamo avuto dei presentimenti, talvolta ci capitava di fare sogni angosciosi su di
loro, ma senza avere la certezza che si trattava di figure reali, e improvvisamente essi
si sono trasformati in simboli viventi, sintomi in carne e ossa, tracce concrete di
quanto stava avvenendo in qualche posto lontano, e che sarebbe giunto fino a noi.
Milan Kundera, il grande autore ceco-francese, in alcune pagine di Lignoranza parla
della libert, di tutte le forme che la libert assume nella contemporaneit,
paragonando la nostra esperienza di uomini liberi con la condizione di chi si perso
nella nebbia. La nostra condizione, infatti, non quella di coloro che si trovano nella
pi completa oscurit, dove non sarebbe possibile vedere nulla. Non viviamo nella
totale oscurit, normalmente non questa la nostra condizione, siamo relativamente
liberi: riusciamo a vedere a venti, trenta metri, a volte anche un po oltre, e abbiamo
quindi una visione almeno parziale della nostra situazione. Ci che non vediamo
lautomobile che sta per sopraggiungere a forte velocit da dietro langolo e che, tra
pochi secondi, ci investir. Bene, io credo che abbiamo cominciato ad avere in mente
la questione dei danni collaterali quando questo problema ha svoltato langolo,
entrato nel nostro orizzonte visivo e ha raggiunto casa nostra.
Viviamo in una condizione di incertezza, che anche una condizione di umiliazione.
Questa sensazione di incertezza e questo sentimento di umiliazione hanno la stessa
origine, derivano dalla congiunzione di due condizioni molto spiacevoli: una condizione
di ignoranza e una condizione di impotenza. Siamo anzitutto ignoranti perch non
sappiamo da dove giunger la catastrofe: ci aspettiamo che qualcosa ci travolga, ma
non sappiamo individuarne lorigine. La nostra attenzione oscilla tra diverse cause
possibili e non appena ci sembra di aver trovato una causa verosimile, siamo subito
pronti a fronteggiarla, a contrattaccare, ma le nostre battaglie sono di breve durata,
perch si rivelano del tutto inefficaci. Allora scegliamo un altro bersaglio e cerchiamo
di scagliargli contro tutta la nostra rabbia, il nostro dissenso e il nostro risentimento,
salvo poi scoprire di nuovo che lorigine, la fonte della nostra paura non si dissolta.
Cerchiamo disperatamente un modo per far convergere questansia diffusa e
disarticolata di cui non conosciamo n origine n causa contro un bersaglio
determinato, contro cui crediamo di poter intervenire. questo il sentimento di
ignoranza: non sappiamo, non abbiamo abbastanza informazioni, non siamo in grado
di vedere il quadro nella sua interezza. Anche se a volte persone come Kapuscinski ci
illuminano su alcuni aspetti, il quadro complessivo continua a sfuggirci.
Vi inoltre una sensazione di impotenza, per cui ci sentiremmo ugualmente umiliati
anche se sapessimo che cosa sta per travolgerci e da dove proviene il pericolo.
Saremmo comunque impotenti, perch non saremmo in grado di reagire in maniera
efficace, risolutiva e radicale. la combinazione dei sentimenti di impotenza e di
ignoranza a produrre questa atmosfera di incertezza, questo vago presentimento del
pericolo, tanto difficile da localizzare. Le vittime collaterali incarnano i simboli di
queste diffuse, vaghe e indistinte paure: ecco le ragioni del nostro interesse per la
questione.
Anche se quel che dico pu apparire cinico, sono convinto che siano i nostri egotistici
contro i quali possiamo fare molto poco. O siamo gi vittime collaterali senzatetto
nel mondo della sedentariet, apolidi in un mondo spartito tra stati sovrani o, se
preferite, tra stati che detengono una sovranit territoriale , oppure, ed questo il
nostro incubo, siamo vittime collaterali potenziali. Ecco perch ci spaventa tanto il
fenomeno delle vittime collaterali: perch qualcosa che magari accade lontano da
casa nostra, ma che ci appare come una prova generale di ci che capiter anche a
noi. La mia domanda, allora, la seguente: da dove viene questo pericolo?
Mi riallaccio, qui, a un neologismo inventato per descrivere la nostra condizione
attuale: out-of-jointness, con cui si vuole indicare che la nostra esperienza
sconnessa, frammentata. Per esprimere questa frammentariet della nostra
condizione sempre pi spesso stato usato il termine globalizzazione, che si
rapidamente trasformato in una specie di parola-cestino, di passepartout. Sul
fenomeno della globalizzazione si sono dette molte cose importanti, insieme ad altre
del tutto irrilevanti: una parola largamente usata e abusata. Tuttavia vorrei attirare la
vostra attenzione su un aspetto specifico che si sta concretizzando e che si nasconde
dietro al fenomeno della globalizzazione.
Prima di tutto vorrei osservare che il termine globalizzazione una nuova
acquisizione del nostro vocabolario: quando ero studente, nessuno dei miei professori
ha mai usato questa parola. Si parlava di effetti globali, di umanit o di genere
umano, ma senza mai utilizzare la parola globalizzazione. Bisogna chiedersi, allora,
perch sia stato necessario introdurre improvvisamente questa nuova parola. La mia
idea che mentre le parole usate dai miei professori come universalit e
universalizzazione implicavano un nostro dovere (eravamo chiamati a rendere
universali certi modi di vivere, certe forme di legge, certe forme di etica migliori di
altre), il termine globalizzazione non d nessuna indicazione su che cosa dobbiamo
fare, quali sono i nostri doveri, anche etici; indica solo che stiamo subendo qualcosa,
che ci sta accadendo qualcosa, qualcosa che giunge da fuori e che produce effetti
significativi su di noi. un nuovo modo di vedere le cose, soprattutto per lEuropa:
mentre in passato lEuropa sempre stata capace di approntare soluzioni globali per
risolvere problemi locali, ora, allimprovviso, accade lopposto. un evento che
Kapuscinski ha individuato chiaramente, nel corso dei suoi viaggi per il mondo: si
reso conto che le persone che incontrava non mostravano pi alcun interesse per
lEuropa, perch dallEuropa non proviene pi niente di significativo, arrivano notizie
pi importanti da altre parti del mondo. La situazione, allo stato attuale, si
completamente rovesciata, e lEuropa si trova improvvisamente nellimpossibile
condizione di dover trovare soluzioni locali a problemi globali.
La globalizzazione, dunque, qualcosa che ci sta capitando e vorrei suggerire che
questa condizione di out-of-jointness, di frammentariet, che viviamo, tipica del
processo della globalizzazione, deriva dal fatto che, finora, abbiamo avuto a che fare
solo con gli effetti prodotti dalla globalizzazione negativa. Per globalizzazione
negativa intendo la globalizzazione del capitale finanziario, dellinformazione, del
commercio, della criminalit, del terrorismo, del traffico di droga e cos via. Sono
processi molto diversi tra loro, che hanno per un aspetto in comune: manifestano il
pi completo rifiuto per il rispetto della sovranit territoriale degli stati-nazione, per le
frontiere, senza tenere in minimo conto le tradizioni, le leggi e le preferenze locali.
Ecco perch la chiamo globalizzazione negativa: perch tende a violare i confini
degli stati, incrinando cos le basi su cui abbiamo tradizionalmente fondato la
percezione della nostra sicurezza.
quando gli USA promisero protezione ad infinitum al regime saudita, in cambio della
disponibilit delle risorse petrolifere per le aziende americane: accordo che funziona
ancora, dopo pi di mezzo secolo. Ma ora la situazione si ulteriormente complicata,
perch ci sono molti pi paesi interessati a sedurre e a corrompere i governi che
detengono le riserve di petrolio. Pensate alla rapidit con cui si sta realizzando il
processo di modernizzazione in Cina, in India e presto anche in Brasile: sono paesi
molto potenti, molto popolati, e tutti interessati ad acquisire almeno una parte delle
risorse petrolifere disponibili. I musulmani, quindi, si trovano al centro delle
contraddizioni del mondo contemporaneo, quelle presenti e quelle che emergeranno in
futuro; sono in una posizione molto vulnerabile, nel cuore di una congiunzione di
circostanze potenzialmente esplosiva. Sono molte le questioni su cui varrebbe la pena
ragionare: da una parte, per ragioni interne che riguardano i paesi in cui viviamo,
dovremmo focalizzare la nostra attenzione sul problema degli immigrati, e dallaltra
dovremmo chiederci quali sono le ragioni esterne per cui i militanti provengono
soprattutto da ambienti musulmani. Ma entrambe queste ragioni interne ed esterne
appartengono a una stessa totalit: a un mondo universalmente interdipendente
inserito in un processo di globalizzazione dalla dinamica rapidissima
S.A. Vorrei porle ancora una domanda su una questione molto pi semplice, ma densa
di conseguenze. Tra le vittime collaterali del nostro tempo ci sono anche quelle
prodotte dagli identitarismi. In una condizione di identit incerta, che anche lei ha
descritto, siamo sempre pi preda degli spacciatori di facili certezze. Questi
identitarismi sono diffusi anche tra noi: sono i fondamentalismi religiosi e quelli laici,
sono gli etnicismi, i razzismi, i localismi, i tribalismi metropolitani, che sopravvivono
per esempio nella logica del tifo calcistico. Tuttavia non c un motivo razionale n una
riflessione profonda che informino questi atteggiamenti. Le chiedo allora se anche
questo fenomeno il fatto di finire tanto facilmente nelle braccia dei venditori di
identit una condizione che sta diventando un destino per noi: davvero una
seduzione a cui non riusciamo a sfuggire? E quali sono invece le vie di uscita da
questa trappola interpretativa?
Z.B. Forse ci che sto per dire potr apparire eretico, ma penso che i problemi relativi
allidentit siano eccessivamente sopravvalutati. Dalla mia esperienza personale e da
quanto ho letto nei libri mi sembra che in nessunaltra epoca lidentit sia mai stata
tanto flessibile e tanto facilmente modificabile come oggi. Lidentit non pi
vincolata alla terra, non ereditata. Non siamo pi glebae ascripti, come si diceva nel
Medioevo. La maggior parte di noi ha ormai imparato a cambiare identit, a rinascere,
a ripartire daccapo pi e pi volte nella vita.
Tuttavia, dietro alla domanda che mi pone mi sembra che ci sia un fraintendimento
diffuso: oggi si parla molto della politicizzazione della religione. Si sente spesso dire
che la religione si sta trasformando in militanza politica. Ma, a mio avviso, succede
esattamente il contrario: non la politicizzazione della religione, ma la farsi religione
della politica. Esistono due tipi di pragmatica: la pragmatica della politica e la
pragmatica della religione. La politica, si sa, larte del possibile: si sonda che cosa si
pu fare e che cosa non si pu fare, quali siano i propri margini di libert, e, una volta
valutati questi aspetti, ci si impegna in un dialogo con altre persone, si ascolta che
cosa hanno da dire gli altri e si osserva come si comportano. Si cerca di raggiungere
un accordo e si sa che sar necessario accettare qualche compromesso: cos che
funziona la pragmatica della politica. La pragmatica della religione, per ragioni
assai meno. C un motivo, per questo: il dialogo, per esistere, deve essere
metodologia concreta, praticabile. Il mero auspicio , in un certo senso, in essenza
anti-dialogico: perch se il dialogo non lo si fa, se non lo si pratica, se non lo si parla,
non si parla il suo linguaggio, vuol dire che non lo si vuole. Perch il dialogo
innanzitutto conoscenza e incontro tra persone, e se persone di altra cultura o
religione o etnia o anche solo opinione non ne conosco davvero, o non voglio
incontrarle, o non lo so fare, tutto potr fare, ma certo non dialogare con loro.
Per parlare di dialogo, occorre allora cominciare a definire la propria situazione, le
circostanze in cui siamo immersi. Per scoprire come il dialogo tra culture, oggi (il loro
incontro, ma anche il loro scontro, in ogni caso il loro confrontarsi), non sia n un
auspicio n un timore, ma un dato di fatto, un qualcosa che nella logica delle cose.
Non necessario auspicare n il dialogo n lintercultura. E sufficiente accorgersi che
oggi siamo in un contesto interculturale.
La scuola, come vedremo, un esempio eminente di questa situazione. Non perch
improvvisamente docenti di buona volont o in qualche modo ispirati hanno deciso,
per una sorta di sindrome aperturista e buonista come vorrebbe la caricatura che il
pensiero anti-dialogico fa della situazione di aprirsi alle altre culture, che si
cominciato a parlare di multi- e poi di intercultura. E perch culture diverse e in
passato mai conosciute di persona, anche se magari ne parlava qualche libro di testo,
si sono presentate in carne ed ossa nelle classi prima elementari, poi degli ordini
superiori, che si cominciato a rendersi conto che qualcosa non tornava: che
limmagine che ne avevamo, se ne avevamo una, non restituiva le persone in carne
ed ossa, che non vi si riconoscevano; che mancavano gli strumenti per leggere la
situazione, e linsegnante stesso riconosceva i limiti della sua comprensione e della
sua azione, la sua inefficacia; che, conseguentemente, diventava difficile parlarsi e
capirsi, tra insegnanti e studenti, e magari anche gli studenti tra loro, e talvolta anche
tra insegnanti.
La forte presenza di persone di culture e religioni presunte diverse e nuove nella
scuola, la loro progressiva maggiore incidenza numerica, il loro peso statistico,
innanzitutto, prima ancora di una qualsiasi riflessione pi specificamente qualitativa,
hanno fatto s che la scuola diventasse il luogo in cui la diversit culturale viene
immediatamente vissuta e conosciuta.
Laltro luogo in cui essa si fa visibile prima ancora della scuola, naturalmente il
mondo del lavoro. Ma in questo caso essa pu essere messa pi facilmente tra
parentesi, essendo lo scopo per cui le persone si ritrovano a condividere luogo e
condizione, altro e diverso, e suscettibile di essere raggiunto, in un certo senso, a
prescindere dalle specificit culturali: il che, paradossalmente, pu rendere possibile
una loro presa in considerazione in maniera quasi pi facile, seppure soft (si pensi alle
prescrizioni alimentari, tanto per citare una caso facile e diffuso, ma anche, al limite,
una modulazione dei tempi differente, capace di gestire anche i tempi religiosi e le
festivit collegate, contrattualizzabile tra le parti).
Ma la scuola non pu accontentarsi di gestire la diversit culturale in maniera soft,
parziale e minimalizzante. Per il semplice fatto che essa presupposta produrre
cultura, e non solo trasmetterla (il che sarebbe comunque gi un problema, se docenti
e discenti non ne condividono gli elementi fondamentali, labc). Ecco facilmente
spiegato perch nella scuola la domanda di riflessione e auto-riflessione su questi temi
diventata una necessit imprescindibile e diventer forse una priorit. E perch la
scuola, pur con tutti i suoi limiti, diventata comunque lagenzia sociale che pi ha
prodotto, e pi ha fatto, nel bene e nel male, intorno a questi problemi, cruciali non
solo per il suo funzionamento, ma per la sua stessa ragion dessere.
Il contesto interculturale
Ennio Flaiano, uno dei rari scrittori italiani dotati di mordace senso dellironia, amava
ripetere: Siamo in unet di transizione. Come sempre. Come dire: tutto cambia,
sempre, ma nulla cambia veramente. Crediamo che le cose cambino: per, in fondo
Lo diceva anche Robert Musil: Cerchiamo sempre il nuovo. Troviamo solo le novit.
La nostra epoca, abituata a fare del nuovismo una malattia (e che al contrario ha
svalorizzato completamente la parola vecchio, che in passato dava valore alle cose),
che non vuole accettare nulla che non sia new, nella pubblicit come nella moda (in
questi casi quasi per definizione) e ahim, lo dico da genitore, magari anche nella
scelta dei libri di testo ma spesso anche negli incontri della vita, avrebbe bisogno di
un po della sana ironica cautela di Flaiano e Musil. Tuttavia, forse perch di mestiere
cerco anchio di individuare le tendenze e i cambiamenti nella societ (i sociologi in
fondo sono pagati per questo), devo pur notare che qualcosa, effettivamente, cambia,
si muove.
Tra le cose che sono cambiate nel paesaggio culturale in mezzo a tanti effimeri
pseudo-cambiamenti va notata almeno una tendenza di lungo periodo, che oggi
emerge in maniera spettacolare, ma da tempo procede nella stessa direzione, gravida
di conseguenze. E che riguarda le culture in generale, ma in maniera pi spettacolare
ancora le religioni (che del resto solo loccidente contemporaneo tende a separare,
facendosi peraltro anche molte illusioni sulla separatezza effettiva delle due, anche da
parte di chi una delle due di solito, la religione nega e rifiuta. In origine, come
attesta letimologia, erano unite: cultura e culto condividono non a caso la stessa
radice, che implica anche la vita quotidiana e il lavoro degli uomini, dato che la
stessa anche di colere, coltivare).
Questa tendenza potremmo definirla semplicemente come una pluralizzazione
progressiva dei nostri riferimenti culturali, ma si articola in vari sotto-fenomeni.
Basti pensare a fenomeni come quelli del multiculturalismo di mercato, che sono solo
lelemento pi visibile e superficiale di un fenomeno pi profondo. Che parte magari
dalle arti (la musica in particolare) e dai cibi e altri consumi, come il vestiario,
larredamento e altri ancora (a loro volta potenziati dalla maggiore frequenza e
pervasivit dei media, ma anche delle esperienze personali, attraverso viaggi, incontri,
ecc.), per arrivare ai valori, ai simboli, ai modelli di comportamento.
Questi fenomeni producono un interessante e per nulla paradossale fenomeno di
ritorno delle culture e delle religioni, date in passato per morte.
Tutti i fenomeni citati sono iniziati da tempo (alcuni hanno almeno un secolo di vita, in
forme gi chiaramente visibili) ma sono stati potentemente accelerati e potenziati da
un altro fenomeno, che non star qui ad analizzare, ma di cui tutti abbiamo pi o
meno esperienza, e che riassumiamo con il termine globalizzazione. Un fenomeno che
ha molti aspetti (economici, di mercato, ma anche sociali e culturali), dei quali voglio
sottolinearne almeno uno, passato troppo sotto silenzio, o meglio non frequentemente
collegato ai fenomeni gi citati: quella che qualcuno ha chiamato rivoluzione
mobiletica, ovvero il fatto che tutto oggi si sposta molti di pi e molto pi in fretta
informazioni, denaro, merci, idee, e infine uomini e donne. Le migrazioni, dunque, che
ampiamente contribuiscono ad accelerare a loro volta e a ulteriormente potenziare i
fenomeni citati.
Ecco ci che costituisce, a grandi linee, quello che abbiamo chiamato il contesto
interculturale odierno. Un fatto che costituisce un cambiamento qualitativo, non solo
quantitativo, delle nostre societ. Le soglie di quantit infatti, una volta raggiunto un
certo livello, diventano soglie di qualit: e quello che sembrava solo un grado
ulteriore di cambiamento nella societ diventato, in realt, un fenomeno diverso, un
cambiamento della societ unaltra cosa, niente di meno che unaltra societ.
Quella cosa diversa siamo noi oggi, qui e ora. Ma ci difficile accorgercene perch ci
siamo in mezzo: e come sempre, le cose che ci stanno intorno, troppo vicine (quelle in
cui siamo, letteralmente, immersi), ci appaiono sfuocate o poco visibili, poco
intelligibili.
Migrazioni e cambiamenti nel paesaggio culturale e religioso
La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in Europa non , dicevamo,
solo un fatto quantitativo, con svariate conseguenze sociali, economiche e culturali.
Differenti livelli quantitativi nei vari indicatori non producono solo un cambiamento
quantitativo. Insieme producono e creano nuove problematiche, nuovi processi di
interrelazione: in una parola, un cambiamento qualitativo niente di meno, come si
detto, di un nuovo tipo di societ. Alquanto diverso dal modello di stato-nazione come
noi lo conosciamo, e dai suoi principi fondatori, che non a caso sono oggi in crisi. Si
pensi agli elementi stessi dello Stato: un popolo, un territorio, un ordinamento tutti e
tre, per motivi diversi, attualmente in crisi, sotto pressione, in perdita di capacit
definitoria e dunque di efficacia. Per non parlare di quellaltro elemento, implicito ma
ben reale nella nostra comprensione della societ (lo sanno bene coloro che
appartengono a una minoranza religiosa), che si aggiunge ai tre precedenti: una
religione (e, per estensione, una cultura).
La pluralizzazione avviene e aumenta gi per dinamiche interne alle nostre societ.
Ma, in pi, la presenza di immigrati non culturalmente n religiosamente neutra. Gli
immigrati non arrivano nudi: portano con s, nel loro bagaglio, anche visioni del
mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali, immagini e
simboli. E prima o poi sentono il bisogno, se mai lhanno perduto, di richiamarsi ad
esse come ad indispensabili nuclei di identit; spesso per identificazione, talvolta
anche solo per opposizione. Essi spesso giustificano e confermano una specificit e
anche una sensibilit religiosa, che una modernit superficiale nelle apparenze e nello
stesso tempo profonda e radicale nella sua capacit di scalfire gli stili di vita
tradizionali e i convincimenti su cui si basano, apparentemente fa di tutto per
cancellare. In una parola, la religione, e ancora di pi la religione vissuta
collettivamente e comunitariamente, ha un suo spazio e un suo ruolo nella costruzione
dellidentit individuale e collettiva di nuclei significativi di immigrati.
Questo processo provoca un cambiamento radicale di paradigma, a mio parere, e
proprio nel senso forte che ad esso ha dato Kuhn nel nostro criterio interpretativo e,
ancora prima, nella nostra percezione, nel nostro vissuto relativo al rapporto tra
religione-popolo-territorio. Per dirla nel modo pi semplice possibile, noi siamo abituati
a immaginare, del tutto intuitivamente, che, grosso modo, ad un territorio corrisponda
un popolo con una religione dominante, e con leventuale corollario di qualche
presenza minoritaria (tale era anche la percezione implicita dei classici della
sociologia, a cominciare da Durkheim pure, dopo tutto, figlio di un rabbino). Oggi la
com-presenza di svariate entit religiose, resa ancora pi visibile e in un certo senso
drammatizzata dalla presenza di cospicue comunit di immigrati che si richiamano a
religioni pi o meno estranee alla storia europea, o almeno percepite come tali, ci
costringe a fare i conti con quella che mi sembra pertinente chiamare, mutuando
lespressione dal dibattito filosofico recente, una diversa geo-religione.
Non c pi, insomma (semmai c stata in maniera cos totale: in realt anche questa
unitariet un mito di origine romantica), un popolo con una propria fede che abita un
determinato territorio; ma assistiamo al progressivo prodursi di una realt molto pi
articolata, in cui su un medesimo territorio si mischiano (o non si mischiano, ma
comunque co-abitano) popoli, religioni ed altro ancora. La pluralit, insomma, da
patologia che era si fatta fisiologia: diventata, o sta diventando, normale. Un
effetto anche questo, e tra i meno percepiti, della globalizzazione.
La pluralizzazione avviene dunque su tutti i piani. E non solo un fatto (ad esempio, la
maggiore offerta culturale, sociale, ecc. disponibile). E un processo. Che cambia la
societ, e dunque ci cambia. Cambia noi, e cambia gli altri attori in gioco, in primo
luogo gli immigrati stessi: trasformando le nostre e le loro identit individuali e
collettive.
Il caleidoscopio delle culture, ovvero limportanza del fattore C
Globalizzazione e migrazioni hanno dunque avuto leffetto paradossale, e certamente
non intenzionale, di rendere disponibili su scala globale culture altre, lontane,
sconosciute o misconosciute. Esse ci stanno ora, per cos dire, rimbalzando addosso,
proiettate su uno scenario globale e ri-localizzate altrove, in particolare proprio
nelloccidente da cui origina anche il macro-processo della globalizzazione. Un effetto,
questo, che hanno osservato, forse prima e meglio di altri, alcuni antropologi, a diretto
contatto con le culture altre e i loro cambiamenti.
Ulf Hannerz, per esempio, tra coloro che sottolineano come, pur essendo il mondo
diventato una rete di relazioni sociali, non si sia assistito ad alcuna omogeneizzazione
dei sistemi di significato. Al contrario, nei flussi di scambio di significati, la produzione
culturale delle periferie, in direzione del centro e, attraverso il centro, tra di loro
non solo si incrementata, ma sarebbe in qualche modo la risposta alla dominanza
politica ed economica del centro.
E insomma in corso un processo di de-ri-territorializzazione delle culture che sta
mostrando esiti di un certo interesse, per vie differenti, fondamentalmente
riconducibili a due.
La prima la scoperta (da parte nostra), o la ri-scoperta di culture e saperi altrui, che
troviamo in territori lontani, apprendiamo e riportiamo a casa, mettendoli a confronto
con i saperi attuali (per esempio quelli prodotti dalla ragione scientifica), e anche con
i nostri saperi tradizionali, sviluppando confronti diacronici che cominciano a dare
frutti di qualche interesse. La presenza in occidente di rappresentanti di questi
saperi, ormai sempre pi numerosi e ricercati dalloccidente stesso, un altro modo
per far viaggiare mentalit, conoscenze, simboli, visioni del mondo.
La seconda larrivo, attraverso le migrazioni, di quelli che possiamo definire saperi
condivisi: si tratta in questo caso non solo di conoscenze e idee sul mondo, ma di
pratiche sociali e culturali diffuse e condivise allinterno di gruppi sociali (le comunit
immigrate) sempre pi ampi, in grado di viverle, di farle riprodurre, e anche di
contaminarle con forme di conoscenza altre.
Leffetto pi immediato ed evidente di questi processi laumento del livello di
pluralizzazione non solo teorica, ma effettivamente, concretamente e
immediatamente disponibile dellofferta culturale, che ha quindi potenziato le
significhi qualcosa, in particolare per cristiani e musulmani ieri e, non di meno, oggi.
Per incontrarsi a questi livelli (e anche per scontrarsi: ma, almeno, con scontri di buon
livello) non basta quella che chiamiamo la tolleranza. Ce ne vorrebbe: almeno
quella, viene da dire, sentendo il linguaggio troppo spesso usata nei confronti
dellaltro, quale che sia (ma meglio se musulmano, o zingaro, o ebreo, o negro,
secondo i casi). Ma al di l di tutte le sottigliezze dialettiche per cui la parola
criticabile, essa ha soprattutto un significato: Per la tolleranza, cerano le case,
diceva Paul Claudel. Case in cui, vero, avveniva un incontro: ma limitato (a singole
parti del corpo, addirittura, e a tempi specifici, solitamente brevi come, seppure con
tempi pi lunghi, nella compravendita di mano dopera, dopo tutto), non scambiato
ma comprato e venduto, talvolta subto, a suo modo efficace (almeno rispetto ad
obiettivi che con lincontro in s non hanno nulla a che fare) ma per nulla profondo,
nonostante le ironie che si potrebbero fare in materia
Occorrerebbero almeno delle basi di partenza comuni: il riconoscimento della comune
appartenenza allumanit, in primo luogo. Che, invece, viene spesso, pi spesso di
quanto immaginiamo, messa in questione (nel linguaggio comune e diffuso,
quotidiano, non solo, ovviamente, in quello bellico e terroristico, dove la negazione
dellumanit dellaltro purtroppo plateale): nelle versioni pi rozze, come nei Bingo
Bongo dei politici leghisti e non solo per definire gli immigrati, o negli aperti insulti
fallaciani nei confronti dei musulmani, fino alla versione pi raffinata della diversa
umanit (un concetto addirittura antropologico, non solo teologico) attribuita da un
antico cardinale bolognese, ancora una volta, ai musulmani. Che, a loro volta, troppo
facilmente e frequentemente usano la parola kafir, infedele, per riferirsi ai cristiani,
ad esempio. E si potrebbe continuare. Per capire la gravit di questo linguaggio
sarebbe sufficiente sostituire la parola ebreo alla parola musulmano, in troppi
articoli di giornale e roboanti dichiarazioni politiche e qualche volta anche affermazioni
di leader religiosi, per vedere di nascosto leffetto che fa; o sostituire la parola
musulmano alla parola cristiano o occidentale a certe affermazioni in campo
islamico farebbe lo stesso identico effetto.
E evidente che in questo modo si negano alla radice le basi di qualsiasi forma di convivenza. Tanto pi paradossale da quando laltro, lex-nemico come nel caso dei
musulmani diventato, volenti o nolenti, co-inquilino. E su scala globale, inclusa
quella geo-politica. Per non parlare a proposito di dinamiche globali del nuovo
terrorismo islamico transnazionale, naturalmente, in cui la negazione dellaltro a sua
volta globale, e portata fino alle estreme conseguenze, in maniera particolarmente
efferata: non solo colpendo gli innocenti (questo lo fa, purtroppo, qualsiasi guerra, non
solo il terrorismo), ma usandoli persino, sottilmente, come arma. C posto solo per
noi, non per loro, in questa logica geopolitica globale: stati-canaglia o infedeli
crociati che siano la logica del dominio, del puro potere da esercitare o anche solo da
mostrare con un atto, appunto, dimostrativo pi che militare, mors tua, vita mea.
Troppo spesso a noi, oggi cos attenti al valore della biodiversit nel mondo animale,
non viene proprio in mente di accettare che nel mondo degli uomini delle culture,
delle religioni, delle etnie, delle razze possa essere la stessa cosa. Che la diversit
sia una risorsa, buona in s. Che, come considereremmo una perdita irreparabile e
forse proprio unimpossibilit tecnica immaginare una terra con un solo tipo di
animale, un cielo con una sola razza di uccelli, un mare con una sola etnia di pesce
(terra cielo e mare che, in questo caso, probabilmente diverrebbero sterili), cos
impensabile o semplicemente idiota immaginare che potrebbe essere meglio se gli
uomini e le donne fossero tutti della stessa religione o della stessa cultura semmai
ci fosse possibile, e non lo . Per non parlare della razza: meglio bianchi? E di quale
tonalit, poi? Ricordo Steve Biko, uno dei leader storici dellopposizione allapartheid
sudafricano, che al giudice che lo qualificava di nero, black, rispose con molte ragioni
che, semmai, lui era marrone; e che alla sua domanda se allora lui, il giudice stesso,
non fosse white, lui rispose che no, effettivamente, semmai era rosa
Niente da fare. A noi, a tutti, viene pi facile il riflesso condizionato di sentirci
superiori. Storia vecchia, questa, nella storia dellumanit. Da cui ed questo che
colpisce apparentemente non abbiamo imparato un granch.
Meticciato e identit reattive
Accennavo in precedenza al multiculturalismo di mercato: si pensi alla world music,
che consente di mischiare elementi eterogenei, producendo non solo un nuovo tipo di
musica, ma spesso anche un nuovo modo di fruirla, e nuovi pubblici, a loro volta pi
misti in una parola, una nuova cultura. Ma il fenomeno pi ampio e complesso, e
include anche la mixit delle persone, il confondersi dei corpi e delle carni. Penso a
quelle che chiamiamo coppie e famiglie miste in tendenziale aumento e pi
ampiamente a quel complesso di fenomeni che mischiano le persone sul lavoro, nelle
amicizie, nei sentimenti, e infine nella dimensione sessuale. Come diceva Roger
Bastide, a dispetto della nostra percezione contraria, le razze si affrontano e si
battono nei corpi che si cercano e si confondono. Ma si pensi anche agli incontri di
dominanti e dominati in epoca e territorio coloniale; anche per quanto concerne la
storia italiana. E, magari, alla colonizzazione sessuale e alla prostituzione multietnica,
che si ripresentano nelle situazioni in cui si mischiano fascino dellesotico e rapporti di
dominio favorevoli (alla parte dominante e normalmente maschile: si pensi al turismo
sessuale).
Oggi, a seguito e come effetto della pluralizzazione culturale, assistiamo nelle societ
a un doppio movimento, in due direzioni contrarie, anche se entrambe producono
cambiamento: verso il meticciato, il formarsi di culture e situazioni sociali complesse e
appunto meticcie, da una parte; e verso il ritorno e la chiusura identitaria, dallaltro. Il
ritorno dei fondamentalismi religiosi, degli etnicismi, dei razzismi, dei pi diversi
tribalismi, appartiene a questa seconda tendenza. Come anche quel curioso
fenomeno che sono le identit reattive: ovvero la scoperta di avere unidentit
collettiva in presenza di persone che ne hanno unaltra, e solo per questo motivo.
Oggi le identit sono sempre meno ascritte fin dalla nascita e immutabili, e sempre pi
possiamo parlare di identit transitorie, liberamente scelte (e, nel caso di alcuni gruppi
religiosi del tipo setta, un po meno liberamente abbandonate), assunte attraverso
socialit elettive che codificano ma anche consentono lingresso nelle moderne
trib, a carattere temporaneo, e infine, in molti casi, multiple. Un processo questo
non privo di conseguenze sulle identit stesse ma anche sulla loro percezione, dato
che sembra di assistere a un divaricazione progressiva, quasi una forma di
schizofrenia sociale, tra identit sempre pi incerte e (probabilmente non per caso:
luna cosa sembra implicare laltra) il bisogno sociale, sistemico potremmo dire, di
individuarle, di riconoscerle. E questo non riguarda solo le identit individuali, ma
anche quelle collettive, e la percezione sociale di entrambe.
La globalizzazione ha creato un mondo in cui la geografia si in un certo senso
slegata da altre variabili, e lo spazio si per cos dire contratto, ha perso di
importanza. Proprio lapparente superamento di tutti i confini, o lestensione e per cos
stereotipi e pregiudizi (ma quel che peggio, alcuni sono infarciti di errori grossolani e
svarioni inaccettabili per noi, per il nostro livello culturale, prima ancora che per
rispetto di qualsiasi cultura altra, come ho verificato anche personalmente sui libri dei
miei primi due figli, che stanno faticosamente attraversando rispettivamente le
elementari e le medie. Giusto per citare un esempio che rappresenta una tendenza, si
pensi alla medievalizzazione dellimmagine dellislam veicolata in molti testi).
Il problema, vero, pi generale, e non riguarda solo lislam. Molti libri di testo
soffrono di un (parzialmente) comprensibile e inevitabile eurocentrismo,
occidentocentrismo, e cattocentrismo (del resto, lItalia il solo paese al mondo dove
anche il giornalista esperto in questioni religiose si chiama vaticanista). Ci si sta
lavorando, e molto dipende dallevoluzione dei tempi, che non sempre conciliano.
Limportante non cadere, di converso, in sciocche compiacenze politically correct.
Ma riflettere su necessit di orizzonte pi largo non male, in un mondo globalizzato.
Favorendo la sparizione degli stereotipi pi marchiani, che evidentemente
necessario. Perch i musulmani, a giusto titolo, non vi si riconoscono. E non aiutano
noi a capire.
Certo, si pone anche lannoso problema della presenza delle religioni a scuola, e
contestualmente dellignoranza anche a proposito della religione maggioritaria, per
colpe equamente divise tra un laicismo militante ormai largamente fuori epoca, e un
clericalismo cattocentrico che preferisce rinunciare allinsegnamento religioso diffuso
pur di mantenere il controllo sui contenuti del medesimo (che preferisce che la
teologia sia chiusa nel recinto ristretto delle facolt teologiche o nelle universit
cattoliche piuttosto che correre il pericolo che si insegni nelle universit statali, ma ad
opera di docenti non controllati). E cos litaliano medio non sa neanche cos la
Bibbia, pure codice interpretativo necessario anche solo per entrare in un museo o
capire una cattedrale. Altro che grande codice delloccidente, come giustamente non
si stancano di ripetere alcuni. Bisogna uscire, insomma, dal vecchio confronto tra
guelfi e ghibellini, che finisce anche per tradursi nei libri di testo cos come nei dibattiti
sulla presenza di altre culture e religioni a scuola.
Dentro la scuola, ma non concernenti il contenuto scolastico, vi sono anche altri
problemi: il cibo, la gestione della mensa (in cui la logica operativa dovrebbe essere,
anche qui, in base al secondo principio sopra evocato, quella di non anticipare i
problemi, di non chiudere in un comunitarismo proiettivo i bambini. Ma fare tutto quel
che si pu fare, quello s).
Qualche esempio: quando il multiculturalismo privo di cultura
Non c solo il multiculturalismo nobile o quello di mercato. Esiste anche, come detto,
un multiculturalismo daccatto. Di cui di solito non sono responsabili i musulmani, ma
magari insegnanti di ampie e democratiche idee, ma un tantino troppo astratte
vedute. Episodi che hanno fatto discutere. Linsegnante che di sua spontanea volont
toglie il crocifisso perch ci sono in classe dei bambini stranieri. Ma anche casi pi
ordinari: non si fa pi il presepe a Natale, solo lalbero, che meno compromissorio;
non si canta pi Tu scendi dalle stelle; si dice al bimbo musulmano di non partecipare
alla recita perch rappresenta la Nativit (e lui che sarebbe ben contento di fare anche
la parte di Ges, pur di partecipare, ci rimane male); si sostituisce nella canzoncina
natalizia Ges con virt. E si potrebbe continuare Ecco, questo multiculturalismo
al ribasso che pericoloso. Ma una malattia che precede la presenza islamica. La
malattia del non sapere quello che siamo.
Prendiamo un esempio volutamente secondario (ma citiamo dal vero). Quello della
scuola di un paese in cui il consiglio distituto delibera di disporre un giorno di
vacanza, tra quelli opzionali a discrezione di ogni scuola, per una festivit islamica, il
giorno di inizio di Ramadan, in considerazione dellalta presenza di alunni arabi. Che
dire? Innanzitutto, di informarsi: la festivit, nel caso, sarebbe la fine del mese di
Ramadan. In secondo luogo: i musulmani non lavevano chiesta; perch anticiparli
addirittura? In terzo luogo: avrebbero eventualmente potuto assentarsi di propria
sponte, per motivi familiari, eventualmente alluopo giustificati dal direttore distituto,
senza per questo fermare la scuola. In quarto luogo, e pi grave di tutti: cos li si
costringe ad essere musulmani. Immaginiamo una famiglia, araba o di altro paese
musulmano, non praticante, sostanzialmente agnostica, e ininteressata alla religione:
cosa potrebbe fare a questo punto? la si costringe a dichiararsi pubblicamente diversa
dalla propria comunit di riferimento, o ad adeguarsi conformisticamente ad essa? Si
pu essere favorevoli al riconoscimento delle festivit islamiche (le principali sono
soltanto due, dopo tutto come del resto avvenuto in altri paesi); cos come si
imparato a tener conto delle festivit di altre minoranze religiose. E anche in assenza
di unIntesa che le sancisca, di cui godono gi altri gruppi religiosi minoritari, si
possono trovare accomodamenti possibili. Ma questo modo di porre il problema, o di
anticiparlo, ambiguo e assai discutibile, perch ci rende tutti prigionieri di
unidentit. Penso allinsegnante che, in mensa, sapendo di un bimbo arabo, gli
sostituisce sul piatto il prosciutto con il formaggio. Va bene la sensibilit: ma, primo,
dovrebbe esserci a monte almeno una manifestazione di volont dei genitori, in
assenza della quale non si capisce perch procedere. Secondo, la scelta dovrebbe
essere garantita sempre, in caso di manifestazione di questa volont. Ma se la famiglia
non praticante (per non parlare del caso i cui possa essere araba cristiana), perch
costringerla? Lo si farebbe con un testimone di Geova? O, aggiungiamo, con un
cristiano? Forse che si obbligano i bambini cattolici a mangiare di magro il venerd?
Altro esempio. Se c il ramadan, e bambini musulmani in classe (ma anche in loro
assenza), semplicemente giusto, e financo doveroso, raccontare cos. Ma perch
obbligare il bimbo musulmano in questione a farlo? E se lui non lo sapesse? O se non
volesse? E se i genitori non lo praticassero? E perch deve comunque essere lui a
spiegarlo? Dopo tutto la Pasqua ci pensa linsegnate di religione a spiegare cos, non
si chiede ai bambini di farsene carico loro, di una spiegazione che anche i loro genitori,
che pure felicemente la festeggiano, avrebbero magari qualche difficolt ad articolare
con propriet. E, per lappunto, si potrebbe continuare.
Per concludere: il piacere del dialogo
Costruire muri appare in questo momento pi facile e assai pi redditizio (si pensi al
bel mercato, editoriale e politico, che hanno i predicatori di odio e gli spacciatori di
facili certezze sulla propria superiorit e sulla contestuale evidente inferiorit altrui). I
muri di questi tempi si vendono certo assai meglio dei ponti. Ma costruirli e, peggio,
passare il tempo ad osservarli, anche, alla lunga, ripetitivo e noioso. Diciamolo:
esteticamente danno un piacere infinitamente inferiore.
Costruire ponti, o percorrere strade, forse complicato e magari inizialmente
dispendioso: ma anche stimolante. Pu essere pericoloso. Ma apre a panorami e
paesaggi nuovi e insospettati. E persino, volendo, a nuovi mercati. Dunque pi
piacevole. E in prospettiva pu persino essere pi redditizio.
Vorrei, per concludere, soffermarmi su questo elemento: il piacere del dialogo, il suo
elemento estetico. E lestetica, come diceva il poeta Josif Brodskij, nel suo discorso di
accettazione del premio Nobel, la madre delletica.
Dialogare, incontrare, bello, prima ancora che giusto. La dimensione valoriale c (al
minimo, nellapprezzamento della diversit), ma in un certo senso viene dopo il
piacere, la gratificazione.
Naturalmente, come tutti i piaceri, sostanzialmente indescrivibile: bisogna provarlo.
Come altri, posso solo testimoniare di averci provato, e di averne tratto un piacere
lecito, e direi anche a buon mercato, alla portata di chiunque voglia gustarlo.
Ma per saperlo gustare, occorre almeno uno sguardo curioso, e un minimo di
disponibilit a mettersi in gioco (un minimo: poi le cose accadono da s),
eventualmente anche a mettersi in discussione, a meravigliarsi, in definitiva. La paura,
la chiusura, la grettezza, lo stringersi dei confini, inquina proprio questa disponibilit:
come ha scritto Chesterton, questo mondo perir per mancanza di meraviglia, non
per mancanza di meraviglie. Se non apriamo la finestra, se non guardiamo fuori, se
non usciamo dal nostro guscio, se non incontriamo nessuno, se non guardiamo verso
laltro, nemmeno ce ne accorgeremo, e quindi potremo credere che non sia n vero n
grande n bello, il mondo di fuori . Ma avremo perso loccasione di gustarci il piacere
profondo di vivere. Naturalmente, avremo anche corso molto meno rischi: e non a
caso i propagandisti della paura dellaltro puntano molto su unaltra parola-chiave del
dibattito politico ma anche sociale e mediatico odierno: sicurezza. A tutti i livelli: che si
tratti di geopolitica o delle relazioni di vicinato.
Del resto, per comprendere quanto sia importante la disponibilit allapertura, basta
pensare a unesperienza che abbiamo fatto tutti: alla cucina, ai sapori diversi,
allassaggiare specialit di altri paesi (non a caso, insieme alla musica e allarte, e
prima ancora di esse, il cibo il vettore principe del meticciato quotidiano,
dellintercultura praticata, gustata e non nemmeno il caso di ricordare la parentela
stretta tra sapere e sapore). O alla lettura di libri di scrittori e letterature straniere e
sconosciute. O ai viaggi in paesi nuovi. O alle conoscenze fatte e agli amori incontrati
lontano da casa
Tornando al cibo, che esperienza comune e universale: la sua storia, la nostra stessa
esperienza, ci mostra quotidianamente quanto lapertura sia continua. Che si tratti di
singoli prodotti, dalla patata al caff, pure non originari delle nostre terre, ma la cui
assenza sulle nostre tavole ci sembrerebbe oggi impossibile, fino alla passione per la
cucina etnica odierna, al sempre maggiore diffondersi di cibi e ristoranti diversi, in
buona parte ma non esclusivamente legato al fenomeno dellimmigrazione. Solo una
grettezza culturale grevemente ideologica pu auspicare la chiusura, e dire invece:
polenta s, couscous no, come si potuto leggere su alcuni geniali cartelli durante
delle manifestazioni anti-islamiche leghiste. Una saggezza oltre tutto per nulla
radicata culturalmente, visto che i nostri nonni e padri mangiavano solo polenta
semplicemente per mancanza di alternative, e appena hanno potuto si sono lasciati
sedurre da altri e pi ricchi sapori. Senza per questo dimenticare la polenta,
naturalmente.
Ci sono metafore nobili, dellincontro. Tipiche quelle della mistica e pi in generale
della cultura, anche popolare: la montagna, e i sentieri che convergono in alto; i raggi
della ruota che convergono verso il mozzo e che rendono uomini e donne pi vicini tra
loro; larcobaleno e i suoi colori; la sinfonia composta da strumenti e melodie diverse.
Non importa quali metafore si preferiscano. Per il sociologo, oltre tutto, sono tutte
altrettanto insoddisfacenti: perch troppo buoniste, perch espungono la dimensione
del conflitto, che invece fisiologica, non patologica, e dunque connaturata alla
societ la norma, non leccezione (patologico solo volerlo perpetuare, il conflitto:
non passarci attraverso).
Tutte queste immagini, queste metafore, ci dicono comunque che, se perseguissimo le
strade dellincontro, sarebbe meglio, pi utile anche, pi opportuno, nel nostro caso
anche pi adeguato alle sfide dei tempi, alla situazione oggettivamente interculturale
in cui ci troviamo. Probabilmente, vivremmo meglio. Senza per questo sentirci
obbligati allincontro, come se fosse un dovere etico, assunto a malincuore (anche se
nella scuola, evidentemente, questo elemento presente). Neanche spingere
allincontro sano: non e non deve essere un obbligo, se si vuole che sia
unopportunit e un piacere. Basta lasciarlo accadere, quando capita nella vita
personale. E governarlo, quando si tratta di governare la societ.
Per molti motivi, non sono necessariamente ottimista sulle derive delle societ
occidentali in cui viviamo, relativamente alla loro capacit di accettare e governare le
trasformazioni che stanno vivendo, la loro continua progressiva pluralizzazione. Credo
anzi che pagheremo un prezzo alto in termini di muri ri-costruiti, di nuove barriere, di
volont primitiva e di stomaco di scontro, di cui gi si vedono ampi e diffusi segni.
Credo che, dopo lincivilimento dei barbari, come titolava un vecchi libro
dellantropologo Vittorio Lanternari, stiamo assistendo ad ampi segni di
imbarbarimento dei civili, non solo occidentali, peraltro (metto tra i civili, nonostante
lopinione corrente, anche il mondo islamico, che vive oggi radicali processi di
produzione di barbarie: che, checch ne pensino alcuni, non gli sono intrinseci sono
figli di questi tempi).
Assumo, in sintesi, il titolo di un libro di uno scrittore palestinese: Le avventure di
Felice Sventura il pessottimista. Andr bene. E andr anche male. E non sapremo
dove saremo quando accadr il meglio e il peggio, e dunque se accadr a noi e a chi ci
vicino luno o laltro. In un certo senso non possiamo farci niente: il rischio del
vivere. Ma vivere aperti o chiusi fa una notevole differenza, che sta in buona parte
nelle nostre mani e nelle nostre scelte, individuali e collettive.
Dobbiamo accontentarci, come punto di partenza e di analisi, di un sano realismo: ad
esempio nella lettura e nella comprensione di fatti sociali e tendenze in atto. Che dopo
tutto ci mostra una pluralizzazione progressiva delle nostre societ, in certo senso
inevitabile, di fatto aperta, anche al di l e nonostante la volont degli attori sociali
coinvolti, come ho cercato di raccontare in queste pagine. Una situazione
interculturale e globalizzata che implica e in un certo senso impone forme sempre pi
sottili e pervasive di incontro, di confronto e di scontro con la diversit culturale, di coabitazione tra diversi, con la possibilit che si tratti di diversi che parlano tra loro, non
solo al loro interno o, peggio, di diversit mute, che non vogliono o non possono
comunicare.
Il realismo, naturalmente, bene condirlo con un po di altrettanto sano cinismo, nel
valutare il materiale umano che ci circonda. Come diceva Mark Twain: Io non
domando mai di che razza [noi potremmo dire cultura, o religione, ndr] un uomo. Mi
basta sapere che un uomo. Nessuno pu essere qualcosa di peggio.
Nota bio-bibliografica
Non ho voluto appesantire il testo con citazioni puntuali. Molte cose, prima che essere
raccontate in libri, articoli e saggi (oltre un centinaio, ormai, su questi temi, in varie
lingue), fanno parte della mia esperienza di uomo e di studioso, di sociologo
della loro composizione etnica, dovuta in gran parte a migrazioni per motivi di lavoro
laddove la diversit etnica implica la presenza di nuove culture, di modi diversi di
intendere la societ come di agire nel quotidiano, e infine di nuove religioni. Il
fenomeno non solo europeo: laddove non sta accadendo, solo perch gi
accaduto con qualche generazione danticipo, come negli Stati Uniti e altrove. Oggi, ed
questa per noi la novit, comincia ad accadere anche in Italia. Dopo aver contribuito,
in un secolo di emigrazioni che ha fatto dellItalia la pi grande riserva di manodopera
di tutto loccidente, a cambiare la composizione etnica delle citt del mondo
industrializzato e non, ora tocca agli italiani cominciare ad accorgersi che questo
potrebbe succedere anche nelle loro citt: anzi, che sta gi succedendo. E che ora,
pertanto, di prenderne coscienza.
La politica nella polis plurale
La politica (riferimento dobbligo: da polis, citt), dovrebbe introdurci in questo nuovo
ambiente, ma stata a sua volta colta di sorpresa. Reagisce, o retroagisce, pi che
agire. Questa nuova pluralit la coglie largamente impreparata: il che rappresenta un
problema assai serio, perch il tema va a toccare i fondamenti della polis stessa.
Allinterno di una linea che va da Socrate al Cicerone della Repubblica romana (Finley
1985), Euripide afferma ad esempio, nelle Supplici, che il potere che tiene assieme le
citt degli uomini la nobile preservazione delle leggi. E lideologia ufficiale,
incessantemente ripetutaci da una sovrabbondante letteratura, secondo la quale
democrazia e citt nascono insieme, sono contestuali e forse inseparabili. Peraltro alla
costruzione ideologica fa eco con cruda ironia la ri-costruzione storica: Colui che
aveva fondato Atene ebbe anche il privilegio di esserne espulso per primo. Dopo che
Teseo aveva donato la democrazia agli Ateniesi, un certo Lico riusc, denunciandolo, a
fare in modo che leroe venisse ostracizzato (Calasso 1988). Leroe morir, ucciso, in
esilio.
E unaltra delle contraddizioni, o delle polarizzazioni, in cui si dibatte la citt.
Contraddizioni antiche, come si vede. Ma poste in nuova luce dalle modificazioni che la
citt sta vivendo e a cui abbiamo accennato. Novit che ci costringono a cercare di
declinare in forme nuove anche il nesso fondamentale che collega legge e
popolazione, oggi plurali, forme della citt e forme stesse della politica dunque, per
loccidente, della partecipazione, della democrazia. E questo in una situazione di
pluralit culturale, dunque di ulteriore frazionamento dellopinione pubblica, che ai
greci era come tale sconosciuta gli stranieri non contribuivano al governo della polis,
anche se vi poteva essere un pluralit di credi, anche religiosi, interni, e vi era di casa
una pluralit di opinioni .
Un capitolo ancora tutto da scrivere, questo, ma denso come pochi di conseguenze.
Che andr dunque approfondito ancora (ci torneremo in sede di conclusioni). Perch la
citt molto pi di uno spazio: un luogo, con una sua vita, una sua memoria e un
suo genio genius loci, appunto. E molto pi di un insieme di strutture (non solo
architettoniche): un complesso di funzioni, che giocano un ruolo cruciale nei
meccanismi della comunicazione tra gli uomini. E molto pi di un fatto urbanistico:
un fatto urbano un aggettivo che definisce una civilt, un modo di essere e di
pensare. E molto pi di un luogo di potere: un luogo politico, potenzialmente
disponibile ai pi diversi apporti. E, soprattutto, un luogo abitato, forse privo in s di
anima ma abitato da persone che spesso ritengono di possederne una. E non solo
individualmente: anche come collettivit, come culture condivise, come comunit.
Nel solco dello spirito del tempo cui apparteneva, Rousseau poteva dire: Sono le
case a fare un borgo, ma sono gli uomini a fare una citt uomini diversi, citt
diverse. Noi, oggi, sappiamo che vero anche il contrario, e questa consapevolezza
fonda quel quid di tragico in pi che caratterizza la nostra epoca. Ma questo processo
bidirezionale non comunque scontato: una citt plurale capace di creare di per s
uomini e donne plurali? e una pluralit di popolazioni sempre pi marcata in grado di
costruire una citt in grado di accoglierla e di gestirla?
Cos allora cosa diventa in questo scenario una citt? Una definizione di Louis
Wirth, uno dei pionieri dellapproccio ecologico alla citt inventato dalla scuola di
Chicago, ne parlava negli anni 30 come di un insediamento relativamente vasto,
denso e duraturo di persone socialmente eterogenee. La definizione intuitiva ma
anche generica, e tiene forse proprio in quanto tale: vasta quanto? densa quanto?
eterogenea quanto? comprensiva dei soli cittadini o anche dei residenti temporanei? e
quanta eterogeneit pu sopportare prima di perdere la sua identit, o almeno una
qualche forma di unitariet?
Nella prospettiva di Weber si ha veramente citt solo quando questa autocefala in
quanto si d i propri ordinamenti in maniera autonoma (il riferimento classico alle
citt-stato greche, in parte ai comuni medievali italiani: un modello che non esiste
pi). Ma dove ancora cos? E dove la citt pu dirsi indipendente dai processi,
sempre pi globali, in cui inserita, e di cui subisce le conseguenze una delle quali
la migrazione di uomini e di mondi culturali pi di quanto non ne determini i
processi?
E come, soprattutto, questa citt sempre pi plurale pu ancora rispondere
allesigenza fondamentale che la sua stessa ragion dessere, e che Aristotele
riassumeva con queste parole: gli uomini si raccolgono nella citt per vivere; vi
rimangono per vivere bene?
Porre linterrogativo non vuol dire precostituire una risposta, n tanto meno pensare
che essa non possa essere che negativa. La lucidit non porta necessariamente al
cinismo e al disimpegno. Pu portare anche a una partecipazione al gioco, e alla
costruzione delle sue regole, pi consapevole; una partecipazione radicata proprio
perch distaccata, duratura proprio perch non legata al contingente, pragmatica
anche, proprio perch non crede pi a ununitariet di fondo (di popolo, cultura, citt e
quantaltro) che forse del resto non c mai stata un investimento oculato, quindi, in
cui linvestitore gioca il meglio di s proprio perch non ci gioca lanima, individuale e
comunitaria, e non ne cerca una nel risultato perch ce lha gi: in s, ed
eventualmente nella propria comunit di riferimento, appunto. E a questa sfida
partecipativa, in un certo senso, che ci obbliga il processo di pluralizzazione che
stiamo vivendo; o, in alternativa, alla fuga, allisolamento, alla chiusura in primo luogo
mentale, come da tante parti, anche politiche, siamo sollecitati a fare.
Citt e identit: processi di trasformazione
Oggi, man mano che aumenta la complessit e appunto la grandezza del tessuto
urbano, e si diffonde lurbanesimo come stile di vita (un ritmo di vita pi veloce,
relazioni basate pi sulla competizione che sulla cooperazione, ecc.), si creano anche
controtendenze a questi stessi fenomeni, e a quelli pi in generale riconducibili a
quella che oggi ormai diventato duso chiamare globalizzazione . Uno il
ripiegamento sul privato e sulla dimensione familiare, sulle relazioni primarie. Laltro
la ricostituzione di comunit di senso e di condivisione allinterno stesso della citt e
autoghettizazione, come tale da rifiutare (dopo tutto, dando il nome agli animali che
Adamo ne diviene padrone, o per meglio dire instaura un legame con loro, senza per
questo appropriarsene in via esclusiva). Un altro esempio ladozione o la
trasposizione nella nuova realt dei propri tempi, dei propri calendari, delle proprie
feste culturali e religiose, che si integrano in qualche modo nel paesaggio urbano, gi
segnato da altri tempi che potremmo chiamare maggioritari (per cui al Natale si
aggiunge la festa di Hannuk, lAid, il capodanno cinese e quantaltro) .
La scommessa, naturalmente, di riuscire a co-includere queste pluralit senza
arrivare alla dissociazione o alla dissoluzione pura e semplice del concetto di societ, e
di citt come suo microcosmo (micro per modo di dire, del resto), in quanto opera
comune e con-divisa. Tra laltro, quando si tratta di comunit straniere, imparando a
distinguere condizioni e concetti che invece abbiamo sempre considerato sovrapposti,
come quelli di nazionalit e di cittadinanza (o, se si vuole, di urbanit). Oggi la
mancanza del requisito di cittadinanza in senso giuridico non inficia pi, o non
dovrebbe, la possibilit di sperimentare una piena cittadinanza sociale in linea col
significato etimologico della parola cittadinanza, che prima di indicare lappartenenza
del singolo a uno stato, significava appunto, pi semplicemente, linsieme degli
abitanti di una citt.
Forse banale, ma non del tutto inutile, ricordare del resto che la storia di ogni grande
citt una storia di apporti successivi o, se si preferisce, di successive ondate
migratorie nonch, incidentalmente, di invasioni (la storiografia occidentale, da
Pirenne a Braudel a Mumford e a tanti altri, l a testimoniarlo).
E storia appena di ieri per il nostro paese la stagione delle migrazioni interne, dal sud,
al ritmo di decine di migliaia di arrivi allanno nel periodo del boom economico. Non
mai terminato poi, in molte metropoli, larrivo dalle zone limitrofe (compensato dal pi
recente fenomeno di fuga dalla citt di chi gi vi abita), sia nella forma di migrazioni
stabili, eredi del tradizionale esodo dalle campagne alle citt, che in quella assai pi
cospicua, anche se transeunte, che provoca la quotidiana invasione di pendolari.
Mentre lultimo e pi recente apporto di popolazione allogena quello di cui qui ci
occupiamo: gli immigrati stranieri.
Non opportuno, su questo dato di fatto, lasciarsi portare alle ideologizzazioni. E fuor
di dubbio che intrinseco allesistenza stessa delle citt, e in particolare di quelle che
oggi si definiscono metropoli, lessere costituite quasi per strati differenziati di
popolazione continuamente rinnovantisi. Ma altrettanto fuori da ogni dubbio, anche
a voler prescindere dalle invasioni vere e proprie e dalle occupazioni straniere manu
militari, che questo processo difficilmente , in senso sociologico, pacifico. Implica
anche incomprensioni, conflitti, aggiustamenti progressivi dellequilibrio sociale.
Esula largamente dal nostro interesse in questa sede cercare di definire che cosa
una comunit, locale o meglio localizzata, e in che cosa o in che modo la citt
europea (ancora) una comunit, o piuttosto da spazio alle sub-comunit che la
compongono. Ma indubbio che in questa ridefinizione di identit (ed evitiamo
appositamente di usare il termine crisi, tanto vago quanto inappropriato) gioca un
ruolo anche la presenza di persone cos visibilmente straniere, come forse mai nella
storia, per lo meno delle citt italiane. Certo, giocano molti altri fattori, sia di tipo
strutturale (economici, urbanistici, ecc.) sia di tipo immateriale (valori, aspirazioni,
miti). Tra gli altri, in disordine sparso: i mass media, linternazionalizzazione
delleconomia, lomologazione di alcuni modelli di consumo (e la diversificazione di
altri), la pervasivit delle tecnologie diffuse, la deindustrializzazione e la
terziarizzazione della citt, il cambiamento delle strutture familiari, dei ruoli sessuali,
le modalit di uso del tempo, le aspettative individuali e di gruppo, e quantaltro. Tra
questi elementi, c anche la presenza fisica degli stranieri. Magari meno incidente
degli altri fattori ricordati, ma carica (o caricata) di un valore aggiunto simbolico che
non possibile trascurare.
Lo straniero nella vita della citt
In questo quadro si spiega lattenzione necessaria allo studio delle citt, il luogo
elettivo in cui questi processi vivono nello stesso tempo una innegabile accelerazione,
la loro massima visibilizzazione, e anche, in un certo senso, la loro legittimazione.
Ai nostri fini utile recuperare, dai classici della tradizione sociologica (Simmel,
Schutz, Sombart, Park, tra gli altri) almeno lidea dellimportanza e del ruolo dello
straniero e della mentalit da straniero nello sviluppo della citt. In particolare
proprio per le relazioni strumentali che dominano mano a mano che dalla comunit
locale originaria, e piccola, il sistema urbano diventa pi grande e complesso. Lo
straniero, in quanto uomo senza storia, come lha definito Schutz (1979) dal punto
di vista della societ di inserimento, ovviamente, in quanto non condivide, e spesso
nemmeno conosce, la sua storia -, per cos dire facilitato in questo tipo di relazione,
in quanto meno legato da una storia che implica anche una condivisione di legami,
dunque di freni allazione; il che spiegherebbe, secondo questi osservatori, la
particolare capacit di intrapresa, anche concretamente economica, di molte comunit
di immigrati, o eventualmente di soggetti estraneizzati, marginalizzati dalla societ,
come gli ebrei.
Un passo ulteriore potrebbe portarci a vedere la citt come lambiente elettivo ideale
dello straniero, e nello stesso tempo straniero e cittadino (e non dimentichiamo che in
prospettiva storica il cittadino non che lo straniero inseritosi e radicatosi in una fase
precedente) come prodotti in certa misura inevitabili e forse, per cos dire,
ideologicamente coerenti, delleconomia di mercato. Il principale esponente della
scuola di Chicago, Park, elaborando unintuizione che era gi di Simmel e per altri
versi di Weber (per il quale la citt nasce essenzialmente e viene definita come un
insediamento di mercato; e questo, non lidealizzazione della polis greca come
agor, ne costituirebbe il fondamento ), sottolinea il legame che unisce
concettualmente e praticamente denaro, organizzazione industriale, mobilit e
migrazioni, e il ruolo che in questo processo svolge la citt. Il denaro lo strumento
principale per mezzo del quale i valori sono stati razionalizzati e i sentimenti sono stati
sostituiti dagli interessi, osserva altrove. Lestensione dellorganizzazione
industriale, fondata sulle relazioni impersonali istituite dal denaro, ha proceduto
parallelamente a una crescente mobilit di popolazione; una mobilit che non
dipende soltanto dai trasporti, ma anche dalle comunicazioni. Listruzione, la capacit
di leggere e lestensione delleconomia monetaria a un numero sempre cresente di
interessi, nella misura in cui sono serviti a spersonalizzare le relazioni sociali, hanno
nello stesso tempo aumentato enormemente la mobilit delle societ moderne. Da
qui a ritornare al principio, al denaro come entit astratta che, vorremmo dire in s,
accelera il processo di mobilizzazione e il suo manifestarsi tipico nella citt, solo un
passo. Ci pare che queste osservazioni siano ancora di non poca utilit per affrontare
seriamente, dai fondamenti, e con maggiore penetrazione ed efficacia, anche i
problemi o per meglio dire gli effetti delle odierne migrazioni, e il loro portato anche
culturale.
E questo, tutto questo, che fa della citt il paradigma tipico della societ plurale.
Mentre la citt vive questo processo continuo di immissione di nuovi apporti e culture,
contemporaneamente si ridefinisce anche nel suo modo di essere comunit locale, e
nella propria autopercezione. Gli uomini infatti vivono anche di simboli, di
rappresentazioni, di desideri e di sogni. E dunque importante capire che cos una
comunit locale, ma anche cosa crede di essere, come si concepisce, e infine cosa
vorrebbe essere. Tanto pi in una fase, come lattuale, di profonda ridefinizione: del
proprio ruolo, della propria autocoscienza, e delle propria identit. Anche se questo
in certo modo il destino stesso delle citt: ed difficile individuare un momento di
transizione in un organismo in perpetuo movimento, in continua crescita, e dunque
sempre e inevitabilmente in transizione: siamo in unet di transizione, come
sempre, ironizzava Ennio Flaiano. Vi sono per, come nella crescita degli esseri
umani, punti di svolta pi incisivi di altri, momenti di rottura. E oggi stiamo
probabilmente vivendo, con una consapevolezza solo relativa, come sempre avviene,
uno di essi. Della mutazione si avr piena coscienza, probabilmente, solo quando sar
pienamente avvenuta.
Anche se va ricordato che la citt ha sempre avuto questa caratteristica: essa oggi
solo pi visibile, in quanto lapporto pi fortemente da culture, come si detto,
visibilmente altre. E non si tratta comunque di una novit assoluta nella storia delle
citt: al contrario. Si tratta solo di una modalit che assume, oggi, connotazioni
differenti: e, probabilmente, che oggi visibilizzata, mediatizzata, e dunque
drammatizzata diversamente. Vale la pena di sottolineare che Park (1928), ricordava
a questo proposito, gi verso la fine degli anni venti, che il movimento e la
migrazione di popoli, lespansione del commercio e dei traffici, e, in particolare, il
continuo aumento, nei tempi moderni, di quel vasto crogiuolo di culture e di razze che
sono le grandi metropoli, ha enormemente allentato i legami locali, distrutto le culture
popolari e tribali e sostituito la libert delle citt alle lealt locali; al posto del sacro
ordine della tradizione tribale, sta ora lorganizzazione razionale che noi chiamiamo
civilt. Una tendenza questa che, in un suo precedente testo, Park (1925) inscrive in
una pi generale teoria della mobilit, ricordando tra le altre cose che la mente un
prodotto accidentale della locomozione. Park cos specifica: Le piante compiono
evidentemente tutti i processi del metabolismo caratteristici degli animali cio quelli
che chiamiamo processi vegetativi; ma non si recano in nessun luogo. Se, come alcuni
ritengono, le piante posseggono una mente, devessere di quel tipo meditativo e
vegetativo caratteristico dei mistici che, completamente dimentichi della vita attiva,
sono assorti nella contemplazione dei loro processi interiori. Invece gli animali, in
particolare gli animali superiori e di fatto qualsiasi cosa al di sopra dellostrica,
posseggono la caratteristica di essere atti alla locomozione e allazione. Inoltre, nei
processi di locomozione, che comportano un mutamento di scena e di luogo, gli
uomini sono posti in grado di sviluppare le loro attitudini intellettuali pi
caratteristiche, cio lattitudine e labitudine al pensiero astratto. Anche se, dopo
questa sorta di elogio della mobilit, non dimentica di rilevare, confrontandosi con la
mentalit del vagabondo che ha conquistato la mobilit, ma ha perduto
lorientamento, il ruolo cruciale della localizzazione e della comunicazione,
indispensabili perch nella societ ci sia permanenza e progresso.
E qui gi visibile in nuce quella doppia tensione, quel doppio processo evolutivo in
corso, in direzione contemporaneamente della localizzazione e di una crescente
mobilit e pluralizzazione, che in un evidente disordine concettuale ci sta portando,
cittadini del cielo (A Diogneto, V,5 e V,9). Un testo che pu fondare al contempo il
senso della partecipazione cristiana alla costruzione della citt comune, e dunque alla
sua vita politica, al suo governo, ma anche la via della pi eletta ascesi (tanto pi
sublime in quanto nascosta, invisibile, disciolta nella partecipazione anzich nella
fuga mundi e quindi lievito del pane comune, sale di una terra calpestata da tutti).
La citt doccidente figlia anche di questi apporti: e non andrebbe dimenticato,
quando si comincia a ragionare su di essa e sui rapporti con laltro tanto pi se laltro
anche unaltra religione. Forse a buon diritto, come reclamano alcuni studiosi, non
meno europea (lEuropa, anche a limitarci agli apporti religiosi, non figlia del solo
cristianesimo: ebraismo e islam, e la sempre dimenticata ortodossia nel campo
cristiano, solitamente confinata alloriente, giocano anchesse un ruolo); e tuttavia
certamente, per vicende storiche che sarebbe lungo esaminare qui, meno conosciuta .
La citt islamica
Non pretendiamo qui di definire cosa sia la citt islamica; n se questa stessa
definizione abbia un senso, e quale. Non affronteremo largomento n dal punto di
vista teologico, intendendo quello della teologia islamica, n da quello architettonico o
urbanistico.
Non siamo nemmeno del tutto convinti che un tale approccio sia davvero possibile, e
pertinente; o se esso non sia piuttosto figlio di unansia di classificazione, ma anche di
semplificazione, tutta occidentale. Non un caso che Abdallah Laroui inciampi in una
considerazione di questo genere, e sia a partire proprio da un libro di architettura
islamica, e da una critica allessenzialismo implicito in questo modo di ragionare, che
arriva a scrivere il suo saggio sui rapporti tra islam e modernit, e tra islam e
occidente, due temi che si sovrappongono (Laroui 1992).
Anche i migliori studiosi del settore invitano del resto alla cautela. Cos P. Cuneo
(1986): La presenza di queste tre variabili, la storia, la geografia, la molteplicit
etnica, e le possibilit praticamente infinite delle loro combinazioni, offrirono alla
cultura islamica, in s unitaria, per molti versi chiusa ed eguale solo a se stessa, le
condizioni per una estrema diversificazione di fenomeni urbani; e ancora: la
compresenza di componenti diverse resta tuttora uno dei caratteri peculiari delle citt
storiche del mondo musulmano. Anche se poi aggiunge che si tratta del pi vasto e
del pi numeroso complesso di citt storiche culturalmente omogenee dellintero
pianeta.
La situazione , in Europa, evidentemente diversa: non siamo in dar al-islam, nella
casa dellislam, con tutte le conseguenze del caso. Ma intanto ci pare non inutile
ricordare che anche nei paesi musulmani di oggi possibile osservare un legame tra
laumento dellurbanizzazione e lo sviluppo della religione islamica (Arjomand 1990);
un aumento di interesse per lislam, dunque, anzich il fenomeno contrario, come ci si
potrebbe aspettare pensando allo sviluppo occidentale, come sintetizzato da Weber e
ripreso nellodierna sociologia delle religioni .
Un fatto di un certo interesse, pensando allislam come nuovo protagonista religioso
dEuropa, e non di modeste dimensioni: pensando, cio, allislam seconda presenza
religiosa (dopo la maggioranza cristiana, ovviamente) praticamente in tutti i paesi
europei, Italia inclusa .
Lislam dispone di un suo modello di citt . E di una sua tradizione urbana: basti
pensare che intorno allanno mille le citt pi grandi conosciute erano tutte
scuola coranica, e delle fondazioni pie per gestire il tutto, secondo Ennafer (1996).
Lautore fonda la sua analisi su fonti storiche per noi europei assai interessanti: i
giuristi che, allepoca, hanno dibattuto la possibilit e la liceit religiosa, per i
musulmani, di continuare a vivere nella penisola iberica dopo lavvento al potere dei re
cattolici, e in Sicilia dopo la riconquista normanna. Una questione che si riproposta
in termini diversi con la questione coloniale, in particolare linvasione francese
dellAlgeria agli inizi del XIX secolo, e ancora dopo la caduta dellimpero ottomano.
Una questione peraltro non risolta definitivamente: con i pareri favorevoli
allemigrazione e al ritorno in dar al-islam in base al principio delluniversalit
dellislam, che presuppone anche un potere temporale (e aggiungiamo,
weberianamente, il monopolio della forza legittima per farlo rispettare), da un lato, e
lattitudine pi liberal e positiva rintracciabile nelle fatawa prodotte in territorio
siciliano, dallaltro.
La situazione odierna nelle citt europee tuttavia, sostiene Ennafer, sarebbe diversa,
perch questa Europa nuova proclama la libert di culto. E dunque sarebbe
sufficiente garantire moschee, kuttab e madrasa (scuole e istituti), e waqf (waqf o
habous sono le fondazioni religiose proprietarie dei luoghi di culto e di insegnamento),
per garantire lavvenire stesso dei musulmani nelle citt europee.
Nessun bisogno di controllo totale, quindi, (che subito diventa totalizzante e totalitario,
nella suscettibile e ipersensibile percezione occidentale). Nemmeno sul modello
filosofico, del resto solo relativamente pi laico, immaginato da Al-Farabi (1996) nel
X secolo con la sua citt virtuosa (una sorta di Utopia in chiave platonico-islamica).
In particolare le moschee, pi correttamente definibili, il pi delle volte, sale di
preghiera , in effetti si diffondono a vista docchio, nella misura in cui la presenza
musulmana non solo si amplia, ma si radica e, aggiungiamo, si integra. Anche senza
minareto, stanno diventando parte del paesaggio urbano europeo. Le oltre cento
moschee di Bruxelles, capitale dEuropa, ne sono in qualche modo il simbolo. Le oltre
mille stimate in Francia, e le diverse centinaia calcolate in Gran Bretagna, Germania e
un po ovunque, ne sono la concreta testimonianza. In particolare ci sembra utile
segnalare la maggiore rapidit del pur pi tardivo ciclo musulmano dei paesi a nuova
vocazione immigratoria, come Spagna e Italia (dove oggi se ne contano non meno di
100-120): qui le moschee hanno cominciato a nascere subito, e gi con la prima
generazione, a differenza del ciclo musulmano dei paesi del centro-nord Europa, pi
lento e pi legato al passaggio generazionale.
E si tratta di un fatto non solo strettamente religioso: anche in Europa, forse perch
fenomeno allo statu nascenti e dunque pi simile allislam degli inizi, la moschea non
solo luogo di culto, ma anche centro di attivit associative, solidaristiche, educative e
anche commerciali .
Vi sono comunque altri segni di imprinting islamico nelle citt dEuropa. Alcuni di pi
immediata evidenza, come quelli legati ai commerci, anche se in questo caso non
definibili ethnic ma eventualmente religious businnesses: in particolare la rete delle
macellerie halal e le librerie islamiche.
Altri invece meno evidenti, ma non necessariamente meno importanti. Pensiamo a
quella forma di domiciliazione e in fondo anche di integrazione post mortem ( il
segno, simbolicamente di grande importanza, che si finito per considerare la terra di
emigrazione come la propria terra, la propria casa anchessa, in definitiva, dar alislam) che il cimitero, con tutto il problema collegato della tanatologia islamica e del
rispetto delle sue regole religiose. Come ha notato Dassetto (1996), si pu parlare di
un vero e proprio ciclo migratorio dei morti, allinterno del quale i membri della prima
generazione anche morti vivono come hanno vissuto, lo sguardo volto verso il paese
dorigine.
Lislam nello spazio pubblico europeo
Lislam ormai diventato un elemento interno, indigeno potremmo dire, del paesaggio
socio-religioso europeo. E questo nonostante sia percepito nella maggior parte dei
casi, nellimmaginario mediatico come nel dibattito politico per finire con la riflessione
accademica, come un elemento altro, allogeno, importato, pi o meno di passaggio;
ci che fa s che sia percepito, nellinconscio collettivo, come una presenza transitoria
e, in certo modo, reversibile .
Non cos, evidentemente: lislam qui per rimanere. Come lo straniero di cui ci ha
parlato Simmel (1989), non colui che oggi viene e domani va, bens [come] colui
che oggi viene e domani rimane. il soggetto lontano che diventato vicino, per
rimanere nella terminologia simmeliana.
Del resto le seconde, terze, e qualche volta ormai anche quarte generazioni di
musulmani residenti (e ormai, semplicemente ma irrevocabilmente, viventi) in
Europa, ci dimostrano, con la concretezza del fatto sociale duro veramente cosa
nel senso durkheimiano del termine, e come tale inaggirabile che lislam, anche se ci
sembra e talvolta effettivamente si presenta come esterno, non (ancora) inserito, ricco
di elementi culturali e religiosi altri, in realt, ormai, sostanzialmente radicato, in
ogni caso capace di radicarsi, di adattarsi a questa nuova realt, a questo nuovo
terreno eventualmente, a modo suo, con alcune peculiarit quindi, anzich a modo
nostro: si , se vogliamo, sedentarizzato. diventato, anche lui, prima abitante (anzi,
pi modestamente, ma non meno inesorabilmente, co-inquilino), e ora anche figlio di
questa Europa che rimane tuttavia incapace, almeno per ora, di percepirsi anche come
musulmana (Allievi 1996).
Se la realt questa, siamo tuttavia ancora lontani dal renderci conto delle sue
conseguenze. N disponiamo ancora di adeguati strumenti di analisi.
Tra le altre cose, si fa tuttora fatica a distinguere operazione peraltro euristicamente
indispensabile tra tre diversi livelli di lettura, concettualmente distinti, ma nellanalisi
spesso sovrapposti: islam per cos dire in s, teorico se si vuole (teologia, ecc.);
islam come modello (sociale, politico, culturale, religioso) concretamente esistente,
ma che ha molte e diverse applicazioni e articolazioni nel mondo musulmano
(occorrerebbe, in questo caso, parlare de gli islam, al plurale); e infine islam in Europa,
trapiantato, che si trova in una situazione completamente diversa da quella dei paesi
dorigine (ma quale origine, dalle seconde generazioni in avanti, nate in contesto
europeo?), cos come da quella descritta dallislam come principio di riferimento,
quello che abbiamo chiamato in mancanza di meglio islam in s. Una situazione
inedita, caratterizzata innanzi tutto dallessere lislam europeo, a differenza che nei
paesi dorigine, una minoranza, per giunta inserita in un contesto largamente
secolarizzato, dominato eventualmente, quando lo , da religioni altre che lislam:
religioni che, peraltro, lislam (tanto quello dominante nelle realt dorigine che quello
teologico) capace di immaginare solo come elementi concorrenziali e di conflitto, o
come realt minoritarie al proprio interno, con lo statuto di dhimmi, di protetti in
breve, una situazione che tanto lislam dei paesi dorigine quanto lislam intemporale
non prevedono.
Se ci permessa unintromissione teologica, diremmo che lislam europeo si trova in
una situazione assai pi simile a quella meccana, a quella cio in cui Muhammad e i
suoi primi seguaci costituivano una piccola minoranza, in mezzo ad altre religioni quasi
sempre pi potenti e sottomessi ad un sistema che non li corrispondeva ed a mala
pena li tollerava, che non a quella medinese, in cui costituivano la maggioranza ed il
nucleo religioso ma anche politico della citt. Il problema che la teologia di
riferimento, fin dai riferimenti coranici pi chiaramente normativi e volti al governo
della comunit, quasi tutta medinese, e si pone dal punto di vista di una comunit
maggioritaria: ci che lislam europeo non e, almeno fin dove locchio
dellosservatore consente di vedere, non sar anche se, legittimamente, qualche
attore sociale musulmano coltiva la speranza e concretamente opera perch le cose
vadano diversamente.
Non sorprende, in questa situazione, che gli attrezzi teorici che utilizziamo per
cercare di comprendere lislam siano utilizzati in maniera confusa, e che fa a sua volta
confusione tra i vari livelli di interpretazione (cfr. il mio saggio in Pizzini 1996, e Allievi
1999c).
Tutto ci, per giunta, accade in una situazione peculiare di quello che potremmo
chiamare, con unaltra espressione di Simmel (1993), lattuale momento religioso
doccidente: caratterizzato da importanti modificazioni strutturali concernenti il ruolo
della religione nelle societ dette sviluppate, cos come da correlate differenti modalit
soggettive di vivere il rapporto con la religione e il senso di appartenenza ad essa.
Tra le prime possiamo citare almeno quelle su cui pi ha insistito la recente sociologia
delle religioni: modificazioni legate ai processi concomitanti di secolarizzazione, di
separazione della sfera religiosa dalle altre sfere sociali, di privatizzazione
dellesperienza religiosa, di pluralizzazione progressiva, con la sparizione contestuale e
sostanziale dei monopoli religiosi (o almeno la diminuzione del loro potere e della loro
capacit di presa sul sociale, anche quando il loro ruolo istituzionale resta
significativo), ecc.
Tra le seconde possiamo almeno citare le pi diffuse tra le modalit soggettive di
appartenenza: che oltre allappartenenza tradizionale (sono di una certa religione,
sostanzialmente, perch ci sono nato), o al rifiuto della medesima, prevedono il
supermarket dei beni religiosi la cui immagine stata resa popolare gi molti anni fa
da Luckmann (1969), e che altri autori chiamano efficacemente pick and choose;
linclusione di elementi appartenenti ad altri mondi religiosi nel proprio universo di
riferimento, nella propria provincia finita di significato, per riprendere i termini
schutziani (si pensi alla credenza nella reincarnazione da parte di cristiani, tanto per
citare un esempio tra i pi macroscopici); e infine la conversione religiosa vera e
propria, cio il passaggio da un mondo religioso allaltro . Tutti elementi, questi, che
accentuano il fenomeno di pluralizzazione e di frammentazione che gi rilevavamo sul
piano strutturale, oggettivo. E che si riflettono anche sullislam, come su tutti gli altri
soggetti religiosi presenti nel campo religioso europeo, con importanti e ancora
troppo poco studiate conseguenze.
Il mutamento come norma: lislam metropolitano
I processi qui troppo sommariamente descritti costituiscono lo sfondo, ma anche la
corrente profonda di cambiamento, in cui lislam europeo coinvolto.
Cambiamenti radicali, che vedono affacciarsi alla ribalta nuovi attori: dalle seconde
generazioni (che costituiscono linizio di quel mutamento di radicale importanza e
troppo sottovalutato che il passaggio dallislam dei padri allislam dei figli e nipoti) ai
Questo processo non senza conseguenze, n senza costi. Se i barbari, magari attesi,
come nella nota poesia di Kavafis , sono ormai inseriti, perch, come ha notato
Braudel (1982), il barbaro trionfa soltanto nel corto termine. Ben presto assorbito
dalla civilt soggiogata; se, insomma, come nota ancora lo storico francese, la porta
di casa si richiude alle spalle del barbaro, altre forme di barbarie, magari, si
manifestano: ma in queste gli stranieri non centrano.
Nelle metropoli e negli imperi sta facendo ritorno la barbarie; implicito nel loro
orgoglio, nella loro potenza, nel loro lusso, ha ricordato un testimone privilegiato del
secolo, Ernst Junger (1987). E, sempre a proposito di barbarie interiore, il Palomar di
Calvino (1983) ci riflette a partire da un peculiare ma non gratuito angolo visuale, in
cui molti di noi possono riconoscersi per esperienza quotidiana: Ai colombi il cui volo
rallegrava un tempo le piazze succeduta una progenie degenerata e sozza e infetta,
n domestica n selvatica ma integrata nelle istituzioni pubbliche, e come tale
inestinguibile. Il cielo della citt di Roma da tempo caduto in bala della
sovrapopolazione di questi lumpen-pennuti. () Stretta tra le orde sotterranee dei topi
e il greve volo dei piccioni, lantica citt si lascia corrodere dal basso e dallalto senza
opporre pi resistenza che altravolta alle invasioni dei barbari, come vi riconoscesse
non lassalto di nemici esterni ma gli impulsi pi oscuri e congeniti della propria
essenza interiore.
Larte stata spesso sguardo critico sulla citt, sguardo giudicante, sguardo
pessimista e disincantato, anche se non sono mancati i cantori della citt, gli aedi
della vita metropolitana, della sua velocit, della sua potente opera di
spersonalizzazione, che ha come contraltare il mettere in risalto lindividuo. Le
testimonianze in tal senso sono numerose, e non ci dispiace citarne qualche altra,
rubate alle letture di anni: testimonianze dure, cupe, quasi una sorta di memento
mori, su cui anche in questo contesto non inutile riflettere.
Non sanno, le citt, se non mentire.
Truffano il giorno. Truffano la notte.
Truffano i bimbi e gli animali. Mentono
con il silenzio. Coi rumori, mentono.
Mentono col groviglio delle case,
che si piegano anchesse alla menzogna (Rilke).
In una citt un uomo pu vivere centanni e non accorgersi che morto e putrefatto
da quel d. Non c tempo per capire se stessi, si sempre occupati (Tolstoj).
Alla citt vorace
che nella fogna ancor tutti affratella (Rebora).
Sotto la citt le fogne,
dentro nulla, sopra lo smog.
Nulla abbiamo goduto e ancora le abitiamo:
esse lentamente, noi rapidi deperiamo (Brecht, nel Mahagonny).
Nel frattempo da molto
sono finiti gli uomini.
Sono rimasti solo
tristi inquilini (De Andrade).
Di queste citt rester solo chi le traversa ora: il vento! (ancora Brecht).
Per concludere con questa sintesi di Lanza del Vasto, riassuntiva di questo fastidio, di
questa perplessit, di questa angoscia:
Che fan di necessario le grandi citt?
etniche, tra loro frastagliate e plurali, con e attraverso le quali lislam arrivato, e con
cui si (ed stato) a lungo identificato. Ora, lislam un sottosistema etnico o
religioso?
Possiamo forse rispondere cos: nasce come etnico (ma meno in Italia e in paesi a ciclo
migratorio e ciclo musulmano recente), ma diventa religioso, oltre che per dinamiche
interne, per un fatto strutturale decisivo come il passaggio generazionale, e infine per
effetto della percezione e della domanda pubblica, anche istituzionale, in molti paesi
(che per un interessante paradosso, anche questo un effetto perverso dellazione
sociale, anche quando domanda critica, che non vorrebbe questo esito, e che anzi lo
teme, di fatto, fantasmatizzandolo, seppure in negativo, lo evoca e lo produce: in
questo senso, lislam anche un prodotto della sua evocazione, del dibattito su di
esso).
Se vero del resto che il peso del fattore etnico rimane comunque significativo (lo
dimostra il processo iniziale che normalmente porta alla nascita, in una citt, di una
moschea, per poi arrivare alla costituzione di tante moschee quante sono le etnie e le
lingue di riferimento mano a mano che il raggiungimento di una sufficiente soglia
etnica lo consente), non di meno appare evidente sul suolo europeo un processo che
nei paesi dorigine delle popolazioni musulmane immigrate di gran lunga meno
visibile e in molti casi impensabile, tecnicamente impossibile, per cos dire: la
creazione di poli religiosi plurali al loro interno, sia etnicamente, che razzialmente e
anche, complice ladozione della lingua del paese di inserimento, linguisticamente
(anche se allorigine le lingue sono diverse). Si tratta davvero di unesemplificazione
plastica della umma islamica, questa comunit al di sopra delle comunit, questa
madre di tutte le comunit (dopo tutto umm in arabo significa appunto madre, e
mantiene tutto il richiamo evocativo e simbolico della sua origine) che costituisce il
richiamo anche ideologico principe dellislam. Un termine che in italiano possiamo
rendere, accentuandone il significato, con com-unit, unit con e, anche, unit
per; senza che con questo si riescano a tradurre tutte le implicazioni dellespressione
araba. Come specifica il Corano (III,104; III,110 e altrove), con unaccentuazione
significativa, una comunit che ordina il bene e proibisce il male.
Quali le conseguenze quindi della presenza dellislam e pi in generale della compresenza sul medesimo territorio di un numero sempre pi elevato di culture in
passato separate, e talvolta persino nemiche? Crediamo che questa situazione
richiami a una profonda e articolata riflessione sui fondamentali. Ne citiamo solo
alcuni, senza poterli approfondire, in un mero elenco di interrogativi . I presupposti
etici del patto sociale, e la sua stessa necessaria ridefinizione in una situazione di
mobilit e dunque di mutamento che diventa caratteristica fisiologica e non pi
patologica delle comunit umane. Il discorso sul rapporto tra individuo e comunit, e
tra queste e territorio (discorso che gi parte integrante della riflessione su
comunitarismo e neo-comunitarismo, ma che andrebbe in qualche modo radicalizzato
se prendessimo ancora pi sul serio il fenomeno di sradicamento cui sempre pi
assistiamo). Problemi politici non da poco: quale, per esempio, il nesso tra il concetto
di democrazia cui ci riferiamo e il territorio? e come cambia, dunque, la prima, in
situazione di parziale progressiva de-territorializzazione di parti significative della
popolazione? e di chi, in questa situazione, diventa rappresentativa, la democrazia che
si autodefinisce tale? Problemi giuridici conseguenti altrettanto significativi: quale il
senso, in questa situazione, dei riferimenti tradizionali allo jus soli o allo jus sanguinis
(e qualcuno comincia a parlare gi oggi di jus religionis, in un sorprendente ritorno di
categorie interpretative del passato: cuius regio)? E ancora: quali paletti mettere
allapplicazione dei diritti (quali diritti per chi, insomma), quale rapporto tra
universalizzazione dei diritti e particolarizzazione (e, in parte, comunitarizzazione)
degli stessi. Problemi filosofici di fondo, che poi sono immediatamente culturali e
relazionali, non da poco: quale il rapporto tra ego e alter in una situazione di
condivisione di alcuni ambiti (per esempio il territorio, problematicamente anche il
sistema giuridico, la produzione di reddito e il welfare system), ma non di altri (la
razza, la religione, la cittadinanza)? e dove sono o dove si ricollocano i confini
identitari? sono, appunto, cum-finis, ci che dopo tutto ho in comune con laltro,
oppure ci che separa? e dove la linea di separazione quando si moltiplicano le
situazioni di mixit (matrimoniale, ma non solo) e di meticciato, nel senso pi lato
possibile del termine? E si potrebbe continuare a lungo, a porre domande: tutte,
ancora, senza risposta.
Queste presenze plurali non sono, insomma, neutre. E non hanno conseguenze solo
per se stesse: la presenza di questi nuovi inquilini suscettibile di influenzare, e di
fatto sta gi influenzando, anche i vecchi padroni di casa: le istituzioni, i sistemi
sociali, e, cosa su cui si riflette molto meno, le stesse religioni.
La presenza di percentuali sempre pi significative di immigrati di altre religioni nel
paesaggio sociale europeo non dunque solo un fatto quantitativo, che incide per cos
dire pro quota sulle dinamiche sociali, facendo crescere taluni indicatori (economici,
sociali, di disagio, ecc. questi, almeno, quelli pi comunemente percepiti). Essa in un
certo senso produce e crea nuove problematiche, innesca processi di relazione, mette
in evidenza aspetti altrimenti rimasti in ombra dellarticolazione sociale cambia il
paesaggio stesso, insomma, non si limita ad abitarlo diversamente.
La presenza di immigrati, labbiamo visto, non culturalmente n religiosamente
neutra. Gli immigrati non arrivano nudi: portano con s, nel loro bagaglio, anche
visioni del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali,
immagini e simboli. E prima o poi sentono il bisogno, se mai lhanno perduto, di
richiamarsi ad essi come ad indispensabili nuclei di identit; se non per identificazione,
almeno per opposizione. In una parola, la religione, e ancora di pi la religione vissuta
collettivamente e comunitariamente, ha un suo spazio e un suo ruolo nella costruzione
dellidentit individuale e collettiva di nuclei significativi di immigrati.
Oggi, come gi notato, la com-presenza di svariate entit religiose, resa ancora pi
visibile e in un certo senso drammatizzata dalla presenza di cospicue comunit di
immigrati che si richiamano a religioni pi o meno estranee alla storia europea, o
almeno percepite come tali, ci costringe a fare i conti con quella che mi sembra
pertinente chiamare, mutuando lespressione dal dibattito politologico e filosofico
recente, una diversa geo-religione. Assistiamo infatti al progressivo prodursi di una
realt molto pi articolata, in cui su un medesimo territorio si mischiano (o non si
mischiano, ma comunque co-abitano) popoli, religioni ed altro ancora. La pluralit,
insomma, da patologia che era si fatta fisiologia: diventata, o sta diventando,
normale. Un effetto anche questo, e tra i meno percepiti, della globalizzazione.
Un processo, questo, che avviene ci che rende anche pi interessante la sfida in
corso in un momento in cui, nel mondo occidentale, si sta ulteriormente
radicalizzando un fenomeno di progressivo sradicamento di fasce significative delle
popolazioni, dovuto a un insieme di concause tra le quali la secolarizzazione e la
rivoluzione mobiletica non sono le meno importanti. Fenomeno che, per giunta,
avviene s toccando tutta la societ, ma, cosa su cui si riflette troppo poco, partendo
Punto di partenza delle osservazioni che seguono, che giusto sia necessariamente
dichiarato, non solo linsoddisfazione, ma direi lirritazione e quasi lindignazione
umana e scientifica di fronte allinaccettabile astrattezza della maggior parte delle
riflessioni correnti sulle coppie miste: da quelle giornalistiche a quelle teologiche,
passando per quelle giuridiche e financo pseudo-sociologiche cosa anche pi grave
avendo questultima disciplina, per statuto scientifico e per deontologia, un vincolo
necessario di osservazione empirica della realt sociale, dalla quale sempre dovrebbe
partire.
La sensazione invece, sfogliando la pubblicistica corrente, che si parta quasi sempre
da unidea di musulmanit astratta, disincarnata, in qualche modo a prescindere:
da quello che da anni chiamo islam di carta. E si prescinda ancora troppo dallislam
di carne: fatto di persone, di comportamenti quotidiani, di contraddizioni, di scelte
che spesso non hanno un rapporto lineare n causale con i principi di riferimento,
spesso solo presunti, in ogni caso mediati con altri principi ed esperienze: in una
parola, con la vita.
Ci che accade normalmente ai musulmani come a chiunque di noi: ma che,
stranamente, quasi assente dalle riflessioni che facciamo su di loro (un po meno, su
di noi). Di loro, per esempio, postuliamo una adesione religiosa assoluta ed acritica,
dominante e quasi totalizzante, ci che raramente facciamo pensando a noi stessi.
Ma dire che dalle nostre riflessioni assente la vita, come dire che assente la
realt. In maniera radicale, potremmo quasi dire che, troppo spesso, rischiamo di
discutere sul nulla. Non cos: ma forse utile una qualche riflessione su questo che,
scientificamente, innanzitutto un problema cognitivo non da poco, che anzich
illuminarci sulla realt rischia clamorosamente di nascondercela.
Non solo: sintomatico che, parlando di coppie miste, quasi sempre venga messo in
questione solo lislam, come categoria di riferimento. Come se, ad esempio, altri
riferimenti rilegiosi, culturali, o la mancanza dei medesimi, abbiano meno cittadinanza.
Il che d immediatamente lidea che ci sia un problema, e che questo problema sia
(solo) lislam sempre, o quasi sempre, come astratta categoria interpretativa. Ci che
comprensibile per ragioni storiche e di attualit: che poco tuttavia hanno a che fare
con il tema in oggetto. E rischia invece di essere, anche questo, un problema
interpretativo e cognitivo, e non dei minori.
Cercher dunque di rispondere, nelle riflessioni che seguono, a una domanda perfino
provocatoria, in una sede in cui di questo dopo tutto si parla: esiste loggetto di
riflessione coppie miste? E se s, come ce lo rappresentiamo? E ancora: qual il
rapporto tra la rappresentazione e la realt? la rappresentazione o la realt che ci d
le chiavi interpretative pi diffuse?
Contestualizzare: la pluralit come orizzonte
Ma, prima ancora, dobbiamo introdurre una considerazione generale, che ci aiuta a
contestualizzare, ma anche a relativizzare lidea di misto, relativamente alle coppie
di cui parliamo. Ed questa: ci troviamo in una fase storica di progressiva
pluralizzazione della societ, incluso del suo paesaggio religioso cos come dei suoi
modelli familiari, e non solo per effetto delle pur significative presenze di nuovi o
relativamente nuovi immigrati (noi continuiamo a percepirli come tali anche quando
nuovi non lo sono pi da un pezzo).
Secolarizzazione, privatizzazione e pluralizzazione del religioso producono la possibilit
concreta di incontrare, assai pi spesso che in passato, religioni diverse. La fase di
e del connubio, noto anche nella formula popolare: buoni steccati fanno buoni vicini
. Ci si incontra, e non solo si mangia insieme, ma da cosa nasce cosa: dallincontro
conviviale nasce la conoscenza personale, dalla conoscenza personale quella carnale,
e da quella carnale nascono, come noto, anche i bambini
Se assumiamo come definizione del matrimonio misto quella, la sola giuridicamente
possibile, di matrimonio tra persone con diversa cittadinanza, vediamo che le unioni
miste sono in progressiva e rapida crescita. Gi alla fine degli anni 80 i matrimoni
misti rappresentavano percentuali cospicue: oltre il 7% dei matrimoni celebrati in
Germania e in Svezia, l8% in Francia, oltre il 10% in Belgio, e addirittura pi del 20%
in paesi come il Lussemburgo o la Svizzera non per caso, le percentuali pi alte le
troviamo nei paesi a pi elevato, e pi antico, insediamento migratorio. Oggi sono in
crescita ulteriore e rapida, man mano che le occasioni di incontro, sual piano sociale,
aumentano: anche per la progressiva stabilizzazione degli immigrati, e ancor pi
attraverso il passaggio generazionale: dalla prima alla seconda generazione di
immigrati o, meglio dalla generazione degli immigrati a quella dei neo-autoctoni.
In Italia, come in tutta lEuropa mediterranea, le percentuali sono sensibilmente pi
basse: a causa del ciclo migratorio pi recente, e dunque anche della per ora modesta
presenza di immigrati di seconda generazione, per i quali le occasioni di incontro con
autoctoni fin dalle agenzie di socializzazione come la scuola, e di conseguenza anche
i legami familiari misti, aumentano sensibilmente. Tuttavia gi oggi siamo di fronte a
cifre non trascurabili, e soprattutto a una tendenza attestata, che far rapidamente
sentire i suoi effetti .
Quale coppia mista? Approssimazioni definitorie
La definizione giuridica della mixit tuttavia largamente insoddisfacente, e oltre tutto
statisticamente deformante, in quanto tende a sottostimare il fenomeno.
Dal punto di vista statistico insoddisfacente innanzitutto perch nei paesi dove
prevale lo ius soli la maggioranza degli stranieri diventata cittadina, almeno dal
punto di vista giuridico-formale, pur mantenendo diversit etniche, religiose,
linguistiche, certo non meno importanti di quelle basate sulla cittadinanza, e spesso
tutte queste insieme. Ma anche nei paesi dove prevale lo ius sanguinis non mancano
percentuali significative di naturalizzazioni .
In secondo luogo, ci che ancora pi significativo, la sottostima dovuta al fatto che
il numero dei matrimoni non tiene ovviamente conto delle convivenze di fatto; che dai
dati del censimento possiamo desumere molto pi elevata della media nazionale (tra
dieci e quindici volte tanto): il che ci dice gi qualcosa di significativo, almeno in parte
legato alla disapprovazione sociale relativa al tema.
Ma soprattutto dal punto di vista concettuale che la definizione giuridica della mixit
rivela tutti i suoi limiti. Essa infatti considera alla stessa stregua unioni miste come
quelle, per esempio, di un francese con una italiana, o di un italiano con una tedesca,
dove spesso lunica diversit profonda quella linguistica (ma sono in comune
religione, razza e modelli di riferimento), e quelle con un senegalese, una cinese o un
egiziano, dove si sommano anche diversit culturali, religiose, etniche e razziali assai
pi profonde, anche se altrettanto superabili delle prime. E curiosamente, ma non
tanto, sono proprio queste che eccitano gli animi, e la stampa, quando si parla di
matrimoni misti. Non ci si rende conto, oltretutto, che queste diversit possono
prescindere, e sempre pi prescinderanno in futuro, dalla cittadinanza: in questo caso
un matrimonio islamo-cristiano, o tra un bianco e una nera (o una gialla, una rossa,
inevitabile.
In realt invece, quando il matrimonio va bene e non c rottura, nel matrimonio misto
si assiste spesso a un processo di valorizzazione della bi-religiosit della coppia,
attraverso interessanti processi di recupero dellidentit religiosa nel rapporto con
laltro, e la messa in atto di vere e proprie strategie interculturali, talvolta di grande
originalit e ricchezza anche rispetto alleducazione religiosa plurale dei figli, che
apre lo spazio a scelte differenziate . O anche a percorsi di interrogazione religiosa,
che possono portare allabbandono silenzioso, da parte di uno dei due coniugi, della
propria religione di origine, in un processo che pu arrivare fino allassunzione della
religione dellaltro attraverso una vera e propria conversione. E non solo, come
unicamente si sottolinea, in funzione di un matrimonio a venire; non di rado anche a
seguito del medesimo, talvolta anche dopo parecchi anni.
Date queste premesse, naturalmente, non stupisce che i custodi delle rispettive
ortodossie religiose siano diffidenti, quando non pervicacemente contrari ai matrimoni
misti. Per loro il matrimonio misto non solo unerrore teorico e dottrinale, ma, n pi
n meno, unimpossibilit tecnica, dato che fattualmente impossibile che, ad
esempio, come richiedono entrambe le religioni, i figli siano educati alla, e solo alla,
religione cui il coniuge religioso appartiene. Gi, ma se sono religiosi tutti e due?
Coppia mista e appartenenza religiosa
Il fenomeno delle coppie miste, e di una mixit su base religiosa, non certo una
novit storica recente pelislam. Lo stesso Muhammad ha avuto tra le sue mogli anche
una donna proveniente da quelle che lislam chiama genti del libro: nello specifico,
una donna ebrea, Safiyya, ricevuta come parte di un bottino, ma alla quale diede la
libert e che spos. Di lei si tramanda tra laltro che, sopravvissuta di diciotto anni a
Muhammad, lasci un terzo dei suoi beni a un nipote, rimasto fedele al giudaismo . Ma
soprattutto nella storia della presenza musulmana, in particolare in aree dove non
era lunica religione presente, che tali matrimoni si trovano con pi frequenza: si pensi
alla penisola iberica ai tempi della dominazione islamica, la storica al-Andalus, come ai
matrimoni attuali di immigrati e autoctoni, per limitarci al suolo europeo. Certo due
esempi molto diversi, per la diversa forza culturale e materiale dellislam nelle due
situazioni: il primo vittorioso sul piano militare e forse non solo, e quindi al potere; il
secondo invece figlio di unemigrazione che essa stessa, per definizione, un segno di
debolezza e implicitamente di inferiorit, almeno sul piano economico ma forse non
solo.
Dal punto di vista giuridico si evidenziano immediatamente alcune norme sciaraitiche
chiaramente discriminatorie nei confronti dei non musulmani , recepite in tutti gli
ordinamenti dei paesi musulmani (espressione che nasconde il fatto che si tratta di
paesi a grande o stragrande maggioranza musulmana, ma quasi in nessun caso ad
esclusiva presenza musulmana, che la cosa sia ammessa oppure no). La principale,
per limitarci al diritto di famiglia, ovviamente limpedimento al matrimonio derivante
dalla diversit di fede; impedimento che, come gi si detto, grava solo sulla donna
musulmana (introducendo quindi anche una discriminazione, questa volta, intramusulmana). Parlare di coppie miste, a proposito di islam, vuol dire infatti evocare
innanzitutto la diversit tra uomo e donna di fronte alla possibilit di sposare una
persona appartenente a unaltra religione. Il musulmano maschio infatti pu sposare
una donna appartenente alle genti del libro (ma non, a rigore, una pagana: e c
diversit di interpretazioni, allinterno del mondo islamico, sullampiezza del concetto
Nel caso comunque di matrimoni per scelta elettiva dei coniugi, che qui postuliamo, la
coppia mista vive alcune esperienze peculiari.
C innanzitutto un impatto maggiore con la diversit dellaltro e, di necessit, non
fossaltro per i problemi pratici che ci si trova a dover affrontare, una riflessione pi
approfondita sulla differenza. Il noi coniugale misto ha uno spessore particolare: vi
la necessit di trovare laltro nel profondo della sua differenza (riconoscimi l dove io
ho pi possibilit di essere riconosciuto, chiede il coniuge allaltro nella diversit,
appunto).
Insieme a tutti gli altri problemi di comunicazione, di linguaggio, di prevalenza
culturale e fattuale di un coniuge sullaltro (perch il luogo di residenza determina di
solito la prevalenza di una lingua sullaltra, perch spesso mancano i parenti e dunque
il tessuto dappoggio del coniuge immigrato, ecc.), la coppia mista musulmanooccidentale, vive percorsi e problemi suoi propri.
In primo luogo quello gi citato delle conversioni: di quelle che altrove abbiamo
chiamato conversioni funzionali, o strumentali, finalizzate appunto al matrimonio.
Lislam le favorisce e, come si visto, nel caso che sia luomo non musulmano a voler
sposare una musulmana, le impone. Le procedure, tra laltro, sono estremamente
facili, diremmo rudimentali, anche se certamente poco approfondite e poco
convincenti dal punto di vista religioso. E una sorta di grande finzione, pi burocratica
che spirituale, che viene in fin dei conti accettata e recitata come tale, anche perch
la durata e gli effetti di queste conversioni, anche su uneventuale educazione
religiosa dei figli, sono nella maggior parte dei casi limitati al tempo necessario per
ottenere il permesso di matrimonio.
Il fatto che lassoluta maggioranza di queste conversioni sia vissuto alla leggera, da
persone che individualmente non hanno, per lo pi, una particolare sensibilit
religiosa, e tanto meno una irrefrenabile attrazione per lislam, nulla toglie al fatto,
sorprendentemente poco rilevato, che si tratti di una grave coartazione dei diritti
individuali fondamentali e, in particolare, di quello alla libert religiosa. Non lo sarebbe
se si trattasse solo di un suggerimento, per quanto pressante, o di un vincolo morale.
Ma lo diventa allorquando, in mancanza del certificato di conversione delluomo, le
ambasciate di diversi paesi musulmani, in base alle rispettive leggi nazionali, si
rifiutano di fornire alla donna emigrata i documenti necessari alla celebrazione delle
nozze (certificato di stato libero et similia), impedendole, e impedendo alla coppia, di
usufruire di un suo diritto fondamentale.
La cosa, di per s comunque grave, lo sarebbe forse di meno se fosse una mera
questione di principio, priva di conseguenze pratiche diverse dallappartenenza a
questa o quella comunit religiosa. E, limitatamente al nostro ordinamento giuridico, le
cose stanno dopo tutto in questi termini. Ma lappartenenza religiosa comporta, ai
sensi degli ordinamenti dei paesi dorigine del coniuge musulmano, una serie di
importanti conseguenze relativamente al diritto familiare. Tali conseguenze,
probabilmente non adeguatamente spiegate per usare un eufemismo al coniuge
che si converte (e la cosa vale a maggior ragione se chi si converte, non obbligata
questa volta, la donna), si possono far sentire anche se la coppia vive sul territorio di
pertinenza dellordinamento occidentale (si pensi al ripudio in absentia ottenibile per
esempio in Marocco dal coniuge originario di quel paese), ma diventano anche pi
importanti in caso di trasferimento della coppia in un territorio di pertinenza
dellordinamento islamico.
Va comunque anche ricordato che, in Italia, gi un paio di sentenze hanno consentito
(di civilt si dice, troppo avventatamente): nel qual caso, si possono leggere di
frequente anche sulle pagine dei giornali, magari sotto forma di notizia su un caso di
legal (e talvolta anche di illegal) kidnapping. Le ambasciate nei paesi arabi di diversi
paesi occidentali, ivi comprese quelle italiane, come gi si notato, sono ricche di
dossiers in tal senso.
Se invece il matrimonio va bene, e in generale laddove le condizioni sono pi
favorevoli (in termini di comprensione tra i coniugi ma anche, che non guasta, di livello
di istruzione e magari di possibilit economiche, che possono fornire i mezzi materiali
per una conoscenza reciproca pi approfondita: studi, viaggi nei rispettivi paesi di
provenienza, ecc.), nel matrimonio misto si assiste spesso a una valorizzazione della
bi-etnicit e/o della bi-religiosit della coppia, anche rispetto ai figli, attraverso la
messa in atto di vere e proprie strategie interculturali, talvolta di grande originalit e
ricchezza. Una valorizzazione spesso consapevole, ma talvolta anche inconsapevole,
frutto pi di compromessi sul concreto, sulla vita quotidiana, che di vere e proprie
azioni preordinate. E una valorizzazione che, cos almeno ci sembra in molti casi,
punta pi sul dato culturale (o interculturale) ampio, che non su quello strettamente
religioso: mettendo anche un po a margine laspetto di esperienza che il sentimento
e lappartenenza religiosa, quando sono davvero sentiti, presuppongono.
Il recupero di identit nel confronto con laltro passa dunque, oltre che per alcuni
importanti atti simbolici (il matrimonio stesso, e quelli che riguardano lappartenenza e
lidentit culturale-religiosa dei figli), attraverso la mediazione del quotidiano. E in
questo, probabilmente, i matrimoni misti assumono il loro senso pi profondo.
Ruolo e diritti del bambino
Lenfasi sulle coppie miste rischia di farci dimenticare il resto. E il resto anchesso in
carne ed ossa. Ci riferiamo, naturalmente, ai figli delle medesime.
La vita del bambino, in contesto islamico, si inscrive, fin dalla nascita, in un universo di
significati marcatamente religioso (mediato tuttavia, come sempre, dalla cultura, degli
individui e dei loro gruppi di riferimento, nonch dei contesti in cui vivono: diversi, a
parit, per cos dire, di sovrastruttura religiosa si pensi, per citarne una, alle
differenze tra contesto rurale, urbano o addirittura metropolino pur allinterno del
medesimo paese). Il codice marocchino, la Muduwwana, assegna addirittura
esplicitamente al matrimonio lo scopo di contribuire allaccrescimento della umma , la
comunit islamica, in ci manifestando quanto gi implicito nei comportamenti
sociali.
La riproduzione diventa cos, non diversamente del resto da certo insegnamento
ecclesiastico, una funzione religiosa di cui i genitori sono gli artefici, in qualche modo i
sacerdoti, e il bambino ad un tempo il risultato e la garanzia di continuit. Il tutto
per allinterno di una legislazione che, con categorie occidentali, andrebbe chiamata
civile, ma che in ambito musulmano assume un altro significato ed , di fatto (o
almeno, cos da molti intesa), una derivazione, una conseguenza necessaria di quella
religiosa. E in una cultura, non propria solo dellislam (meglio: in un certo numero di
culture allinterno del mondo islamico, come del resto di altri), per la quale la
procreazione ha pi la funzione di dare una discendenza al gruppo che ai genitori, alla
famiglia allargata pi che a quella nucleare; nella quale il valore dellunit familiare, il
prestigio anche numerico del clan, fa in un certo senso premio sul diritto alla felicit
individuale; e per la quale infine il rapporto padre-figlio assume unimportanza sociale
almeno pari a quella del rapporto uomo-donna.
Questo almeno fino a ieri: per loggi e per il domani, pur tenendo presenti le inerzie
straordinarie dei substrati culturali profondi (linerzia forza principale della storia,
come riconosceva Tolstoj, e della natura, come con altra espressione istinto di
conservazione lhanno descritta i primi naturalisti), occorre adottare una lettura in
chiave evolutiva, che tenga presenti i formidabili cambiamenti in corso, in termini
economici, demografici, di istruzione, di diffusione dei media, ecc., che stanno
producendo una colossale destrutturazione anche di queste culture, e costruendo nel
silenzio, e per lo pi nellinconsapevolezza di chi vive questo processo ma anche di chi
lo osserva, un nuovo paradigma culturale di riferimento sempre ancorato al religioso,
ma in maniera progressivamente differente (e, per taluni, del tutto disancorato da
categorie religiose).
La funzione in qualche modo religiosa del matrimonio che, pure, nellislam , molto
laicamente, un contratto e della procreazione non si perde comunque nemmeno nel
caso di matrimonio misto, soprattutto se la parte islamica, unica ipotesi che
lortodossia riconosce , quella paterna, che pesa per ben pi che la met in termini
di potere e di diritti.
Dal punto di vista giuridico i ruoli rispettivi del padre e della madre sono ben definiti e
la divisione dei ruoli non potrebbe essere pi netta. Al padre spetta la potest
(wilayah, da cui anche wali), alla madre la custodia (hadanah) del bambino. La potest
si configura nel potere esclusivo di decidere in termini di educazione, istruzione,
avviamento al lavoro, matrimonio e amministrazione dei beni dei figli, per citare solo
gli ambiti pi importanti; la custodia nel diritto-dovere di allevarli, sorvegliarli e
curarli .
Naturalmente nel concreto le cose sono assai pi articolate e sfumate, e in molti
mnages pi condivise; ma in termini di richiamo giuridico, quelli che valgono in caso
di conflitto tra le parti, il criterio dirimente quello citato. Naturalmente, solo nei paesi
dove lordinamento islamico dominante, e con importanti differenze da paese a
paese. In occidente poi, e tanto pi con il passare delle generazioni, le cose possono
essere, o diventare, anche notevolmente diverse: molto rapidamente finisce per far
premio, anche culturalmente, la legislazione del paese in cui si vive.
In caso di sciolgimento del vincolo matrimoniale, comunque, laffidamento dei minori
normalmente attribuito alla madre e alla sua famiglia, e solo in seconda battuta, o in
un secondo tempo, a partire da unet variabile a seconda degli ordinamenti, al padre.
La coppia mista, lo si gi notato, in certi casi per limmigrato anche loccasione e il
modo di sancire il proprio radicamento in una societ altra, di fissare la propria dimora,
per cos dire. A maggior ragione implica la fissazione del carattere culturale e
nazionale, e di un carattere diverso da quello paterno, dei figli; che si accompagna
allaccettazione, per nulla scontata, del fatto che i figli vivano in un paese non
musulmano come minoranza culturale consapevole, come tale accettata, anche se
non manca chi si vede nel ruolo profetico e testimoniale di testa di ponte di una futura
maggioranza, cio di una futura ipotetica islamizzazione.
Previste o meno, inoltre, le possibilit di fare un matrimonio misto aumentano con la
seconda generazione, che vive assai meno separata dalla societ circostante, e a
maggior ragione nei figli di coppie esse stesse gi miste. In una logica storica, nel
passaggio delle generazioni, il concetto stesso di mixit sfuma. E se resta quella
religiosa, finisce comunque per perdere le connotazioni legate alla cittadinanza e alla
prossimit con la cultura dorigine che la rendono pi drammatica, almeno nella
percezione comune. Anche il tener conto di una prospettiva evolutiva, tanto pi in uno
sguardo che abbraccia pi generazioni (ma anche solo intra-generazionale: anche il
singolo evolve e cambia, nellarco di una vita, e niente definitivamente scritto e
tanto meno pre-scritto ), dunque importante per evitare le tentazioni di rigida
ipostatizzazione cui si accennato.
Comunque sia, in quello che potremmo chiamare il primo grado o la prima
generazione di mixit, le differenze sono ancora evidenti, e proprio nel rapporto con i
figli diventano pi visibili. Un esempio tipico costituito dalla scelta del nome dei
bambini, che, anche per le coppie che non si considerano religiose, aiuta a capire
come la coppia stessa si colloca e/o intende collocare il bambino rispetto alla pluralit
delle culture di riferimento. E pu essere indicativa anche del progetto che, magari
inconsapevolmente, la coppia, e non solo la coppia, fa sul futuro proprio e dei figli:
sapendo che essi non rappresentano solo il futuro dei loro genitori, ma anche il futuro
dei loro nonni, dei rispettivi gruppi di appartenenza, ecc.
Una delle politiche pi diffuse quella delle tecniche di neutralizzazione (pi che
tecniche, forse, delle vere e proprie strategie), consistenti nella scelta di nomi poco
caratterizzati, neutrali appunto, al fine di non privilegiare n luna n laltra cultura. E
il caso, per le femmine, di nomi come Sonia e Nadia, diffusissimi, che hanno il
vantaggio di non appartenere n alluno n allaltro degli universi culturali coinvolti,
ma di essere facilmente accettabili, in qualche modo traducibili, per entrambi; o di
Miriam (Maria, traslitterato nelle pi diverse grafie: nome presente tanto nella Bibbia
quanto nel Corano e indicante sempre la madre di Ges, Isa per gli arabi). Per i maschi
pu trattarsi della scelta di un nome come Karim, esotico e orientaleggiante ma meno
caratterizzato islamicamente di un Mohamed (Muhammad, il nome del Profeta), di un
Omar (uno dei primi e pi popolari califfi o di Ali per gli sciiti) o di tutti quelli con il
prefisso abd (servo: da Abdallah, servo di Dio, a tutti gli altri); o magari dellinvenzione
di un Hedi, facilmente trasformabile alloccorrenza in un anglicizzante Eddy, o altre
strategie di dissimulazione analoghe, come la scelta di un nome che, a seconda della
pronuncia adottata, appartenga alluno o allaltro universo parentale (il caso, quasi
classico, di Ahmed e Amedeo).
Unaltra modalit abbastanza diffusa quella del doppio nome, uno per ogni universo
culturale, eventualmente rovesciabili, nellordine in cui sono dati e detti, a seconda
che si viva nelluno o nellaltro. Non raro in questi casi notare come le parentele
rispettive tendano a privilegiare quello che appartiene al loro universo, incuranti
magari del fatto che i genitori abbiano scelto un ordine di importanza e una consecutio
differente: sono, anche queste, modalit di appropriazione del bambino da parte del
gruppo.
Laltra variabile, naturalmente, che la volont delluno o dellaltro coniuge si
imponga, imponendo un solo nome che sia anche un segno chiaro di appartenenza. O,
alternativa probabilmente pi comune, che il coniuge maschio decida tra la volont di
perpetuare almeno nel nome la sua appartenenza a un universo di significati, spesso
anche religiosi, e il desiderio di integrarsi, al limite di mimetizzarsi il pi possibile nella
societ circostante.
Quanto al cognome, invece, il destino segnato dalle consuetudini legislative: le
femmine dorigine islamica lo perderanno con il matrimonio, se questo sar misto
(ipotesi non contemplata dallortodossia ma ben possibile giuridicamente in Europa, e
di fatto presente), e anche in caso di matrimonio con un correligionario di cittadinanza
europea (nel caso, per esempio, di un convertito; ma ci non pi vero nei casi di
(non diversamente dalle altre coppie, del resto: ma, qui, con una diversit da
elaborare in pi, che diventa a sua volta un meta-oggetto di elaborazione)
comincia qua e l ad essere svolta, spesso pi con buona volont e con buone
intenzioni che con buone metodologie: ma si tratta quanto meno di tentativi di
approssimazione, utili e che vanno rispettati come tali.
Di pi si potr fare quando ricerche pi serie potranno essere messe in piedi,
finanziate e condotte. Ma, intanto, qualcosa gi si pu intuire: non conclusivamente,
ma come indicazione. Per esempio, che la coppia mista diventa, possiamo ben dire
suo malgrado, un interessante laboratorio sociale che investe problemi molto pi ampi
di quelli concernenti le modalit microsociali di gestione dei conflitti relazionali e
familiari. Essa infatti un indicatore sensibile (e, se ci fosse la capacit di mettersi in
ascolto, anche un interessante elaboratore di soluzioni che, naturalmente, non
sempre funzionano) di problemi tipicamente macro che sono tra i pi centrali e
dibattuti del vivere sociale odierno: quelli, appunto, legati alle varie forme di pluralit
culturale, di cui quella religiosa non che un esempio particolarmente forte dal punto
di vista simbolico, ma certamente non il solo .
Il problema, per le coppie in questione, che solo di rado riescono a svolgere il loro
percorso in maniera autonoma. Ideologie (religiose e non) tra loro contrapposte di cui
diventano volenti o nolenti una bandiera, forme differenziate anche laiche di
scomunica e demonizzazione, ma anche ingenui wishful thinking che ne fanno un
improbabile ideale sociale, le sovraccaricano di una serie di responsabilit di gruppo
delle quali probabilmente farebbero volentieri a meno, che si sommano ai problemi
individuali e di coppia. La famiglia mista insomma, almeno fino a quando rester un
caso minoritario e in un modo o nellaltro eccezionale, fatica a trovare un ambito che
sia tutto proprio, privato, in cui poter essere semplicemente se stessa. E, pi di altre,
si trova proiettata su un palcoscenico sociale il cui pubblico, spesso prevenuto, si
mostra poco incline allapplauso, e la critica particolarmente severa.
Pubblicato originariamente nel volume di M. Bucchi e F. Neresini (a cura di), Sociologia
della salute, Roma, Carocci, 2001
Lultimo tab: individuo e societ di fronte alla morte
di
Stefano Allievi
Premessa
La voce morte risulta quasi del tutto assente dai manuali e dai dizionari di sociologia.
Non se ne parla, nemmeno la si cita. Luomo (e la donna) costruito e immaginato dalla
sociologia, non muore mai: si pone solo il problema del vivere, mai quello del morire.
La morte risulta quindi essere la grande assente, la grande rimossa, non solo in
generale, ma anche in sociologia. Non che non si sappia che esiste, evidentemente:
anche i sociologi ne sono al corrente, e dopo tutto essi pure sono destinati ad
incontrarla. Ma si fa finta che, si vive come se: come se non ci fosse come se si
potesse capire la storia a prescindere da come va a finire. Come se, infine, il modo di
morire e di concepire la morte non avesse influenze sul modo di vivere degli individui,
ma
anche
sul
modo
di
concepire
la
societ
stessa.
Strana contraddizione, se pensiamo che si tratta di un fenomeno che ci riguarda tutti.
Tanto strana da meritare di andare a cercarne una spiegazione plausibile che non
troveremo nella sociologia, ma a monte di essa, in un clima culturale che la
comprende ma la supera di gran lunga.
La morte costituisce uno dei grandi tab del nostro tempo: lultimo, forse.
Luomo, il solo animale che sappia di essere mortale, come stato spesso definito,
preferisce spesso, di fronte alla morte, abdicare alle sue capacit e possibilit
cognitive luomo occidentale, almeno. Nello stesso momento in cui si profondono
risorse colossali ed enormi capitali scientifici, culturali e finanziari allo scopo di
allungare la vita, di migliorarne le possibilit e la durata, di rallentare i processi di
senescenza, di lenire i dolori, di guarire o almeno contenere malattie in passato
inesorabili, di fronte a questultima barriera si continua a preferire il non sapere, il non
indagare, il non conoscere. E di fronte allimmane progresso scientifico intorno alla
vita, imparagonabile la povert dei nostri discorsi intorno alla morte: scientifici, ma
anche filosofici e religiosi, per quanto questultimo sia rimasto uno dei pochi ambiti in
cui
il
discorso
sulla
morte
considerato
ancora
lecito.
La morte resta, almeno nelloccidente sviluppato che noi, un tab sconveniente, un
oggetto incompreso e inaccettato; abitiamo non cos altrove, in altre epoche e in altre
culture.
Luomo occidentale insomma sembra preferire di non sapere con la sua mente quello
che la sua carne, in ogni caso, sa e non pu ignorare. Una tentazione individuale che
ha sempre accompagnato luomo, ma che oggi si trasformata, nelle moderne civilt
avanzate doccidente, in tentazione e in pratica sociale, non solo ammessa e
codificata,
ma
anche
lunica
socialmente
accettata.
E la societ occidentale, che forse pi di altre, e mai con tale forza nella storia, sembra
provare un gusto e una vocazione particolare nellabbattere tutti i tab, intorno alla
morte ne ha eretto uno particolarmente solido e impenetrabile: anche perch, a
differenza di altri, non c nessuno che voglia seriamente liberarsene. La morte ha
dunque sostituito il sesso come ultimo tab sociale: non per caso uno dei primi
studiosi ad aver affrontato questo fenomeno di rimozione collettiva, Geoffrey Gorer,
gi negli anni Sessanta ha potuto titolare un suo noto articolo (ripreso in Gorer, 1965)
The Pornography of Death. Ma ci sono molte meno probabilit che la morte viva, se
concesso il gioco di parole, la stessa parabola e lo stesso destino del sesso: che, da
tab che era, ha finito per invadere, in maniera sempre pi esplicita e pubblicitaria,
strade, piazze, televisioni, telefoni e siti web, prendendosi un ampio spazio
nellimmaginario individuale e collettivo, cos come nelle pratiche sociali.
La morte, crediamo, rester ancora a lungo isolata, se non chiusa, in un universo
misconoscente ed allusivo, perch tale lo vuole il modo odierno di pensare non la
morte, ma la vita stessa, e persino quellattacco alla vita che la malattia, e di
converso quel baluardo di essa che si pretende lodierna medicina.
Cos la morte? Per capire di cosa parliamo
La morte continua ad essere, per eccellenza, lavvenimento pi universale e
irrefutabile: la sola cosa di cui siamo veramente sicuri, anche se ne ignoriamo il giorno
e lora, il perch e il come, che si deve morire. E questa la prima ragione con cui L.V. Thomas giustifica, e apre, un suo importante studio di Antropologia della morte
(Thomas, 1976). Gi lo diceva Agostino di Ippona, del resto: Incerta omnia. Sola mors
certa.
in
fondo
tutta
qui.
Non c bisogno nemmeno di scomodare le morti collettive, indotte da catastrofi
naturali o umane, come le guerre, gli etnocidi e i genocidi atti che richiamano una
domanda di senso ulteriore. Per la nostra riflessione sufficiente occuparci della morte
individuale, che poi individuale non mai, perch diventa fatto sociale, socialmente
costruito,
immaginato,
vissuto.
Non tratteremo tuttavia qui delle molte definizioni possibili, filosofiche, religiose,
scientifiche, mediche, del fenomeno morte. Ci accontenteremo di sottolineare in
prima istanza che si tratta non di un fatto, ma di un processo: prima di essere morti
siamo morenti, e prima della morte c il morire. E non solo nel senso che,
filosoficamente, lo siamo sempre, dal momento della nascita, giorno in cui cominciamo
a morire (quotidie morior, dicevano gli antichi). Ma anche tecnicamente, visto che,
biologicamente, al nostro interno si svolge un continuo processo di morte , e che si
muore spesso per gradi, talvolta a pezzi (muore un nostro organo, che magari oggi
siamo in grado di sostituire e rimpiazzare, e sempre pi lo saremo in futuro, ma non
ancora ci che, con notevole approssimazione, definiamo noi). E anche dopo morti, la
trasformazione continua: e dal punto di vista della natura, della vita nella sua
globalit, non si muore mai del tutto vivo, io agisco in massa, e morto reagisco in
molecole,
diceva
gi
Diderot.
Per non parlare del fatto che, dentro di noi, non solo ci sono cellule che muoiono ed
altre che nascono, ma anche cellule che si suicidano, altre specializzate nelluccidere
(altre cellule pericolose per lorganismo o malate, per esempio), e infine che le cellule
stesse, di per s, non sono necessariamente mortali. Se vero quanto sembrano
suggerirci i pi recenti sviluppi della biologia, infatti, per lungo tempo, forse uno o due
miliardi di anni da che comparvero le prime semplicissime specie viventi, queste
non erano mortali, n programmate per la senescenza e la morte obbligatoria: esse si
riproducevano (e tuttora si riproducono, come accade ad organismi unicellulari
diffusissimi come batteri, amebe, ecc.) per fissione, cio per duplicazione del proprio
DNA e successiva scissione, cosicch si crea un nuovo individuo senza morte del
precedente non c cadavere, per cos dire, dunque non c morte. E se muoiono,
come accade, pu essere solo per morte accidentale, per aggressione esterna: non
c, in loro, morte programmata, come c invece negli organismi complessi che si
riproducono
altrimenti
che
per
fissione
.
Sarebbe stata la loro complessificazione, la nascita di organismi pluricellulari, legata al
periodo in cui le prime cellule fecero i loro primi esperimenti sessuali, finalizzati alla
riproduzione (del resto, geneticamente, la sessualit in senso stretto la sola risposta
possibile alla morte), che gli organismi, via via pi complessi, sarebbero anche
diventati mortali: al punto che si potuto affermare, con proposizione non solo
biologicamente ma anche filosoficamente dirompente, che il fenomeno morte,
quindi, non comparso contemporaneamente al fenomeno vita (Clark, 1998). Non si
pu non sottolineare che nel nostro immaginario, nel nostro implicito, e pi ancora
nella nostra esperienza, morte e vita sono invece fenomeni ben strettamente collegati.
Tanto che possibile definire la vita come ci che lotta per non morire: secondo una
per nulla tautologica definizione, da allora spesso ripetuta, di Xavier Bichat, medico
perch
era
ora.
Questa sconfitta della ragione, perch in una visione razionalistica di questo si tratta,
sempre meno accettata anche dalla classe medica, che pure dovrebbe conoscerne i
meccanismi meglio di altri. Lo dimostra la diffusione sempre pi ampia nel mondo
economicamente pi avanzato della pratica dellautopsia, allo scopo di spiegare
(certe morti improvvise, per esempio): e non solo quando necessario per motivi o
sospetti di carattere giudiziario (o, sempre pi spesso, assicurativo). Quasi un
desiderio di spiegare ci che inconsciamente, altrimenti, consideriamo inspiegabile:
anche se, come stato notato (Clark, 1998), quando si fa un esame autoptico su
cadaveri di anziani di oltre ottantanni, si trovano sempre almeno quattro o cinque
ragioni malattie gravi e in corso di sviluppo, per esempio per cui in ogni caso
quella persona sarebbe morta di l a poco, quale che sia la causa della morte
sopraggiunta.
Se sappiamo che la morte accade, le definizioni dellistante morte, allinterno di
quel pi lungo processo che il morire, sono rese difficili anche dalla stessa
fisiologia: il corpo umano infatti continua a morire, e in un certo senso a vivere, anche
dopo aver emanato quello che si suole definire lultimo respiro. E noto da sempre
allosservazione umana che in seguito alla morte alcune funzioni persistono: le pi
note e visibili delle quali sono la crescita delle unghie e dei capelli. Oggi questi
fenomeni, grazie ai progressi scientifici, sono ancora pi visibili. Il che spiega perch le
definizioni della morte siano sempre pi scientificizzate e giuridicizzate. I progressi
stessi della scienza rendono pi precisa e insieme pi difficile la definizione della
morte.
Se una volta poteva bastare la constatazione dellarresto del polso e del cuore, o la
cessazione della respirazione, constatata magari con lantico sistema dello specchietto
posto davanti alla bocca del cadavere, e infine la mancanza di ricettivit e di reazione
a stimoli esterni, oggi le prove si fanno sempre pi cumulative (Thomas 1988), e
presuppongono lausilio di macchinari in grado di constatare, tra le altre cose, per lo
meno un encefalogramma piatto senza interruzioni per un certo numero di ore. In
diversi paesi la base per la definizione della morte clinica, sottolinea due criteri:
lindividuo da considerarsi morto se cessata irreversibilmente la funzione
circolatoria e respiratoria, e se cessata la funzione di tutto il cervello, incluso il
tronco cerebrale. Ma anche questa definizione, ancora relativamente generale, lascia
spazio a dubbi, come sempre posti in evidenza da casi estremi, come quello, accaduto
per la prima volta negli Stati Uniti nel 1993 (Clark, 1998) ma poi pi volte ripetutosi, di
una madre dichiarata cerebralmente morta ma incinta al quinto mese, cui si fatta
completare la gravidanza fino allottavo mese, per poi far nascere il figlio con un parto
cesareo e infine scollegata un frutto dellevoluzione recente della tecnologia
medica, che ha inventato quellimpensabile che una persona morta con un corpo
vivo. E tuttora si discute per lappunto se si debba considerare la morte della
persona o la morte dellorganismo: cio considerare la morte come perdita
irreversibile delle funzioni superiori (corticali), come la coscienza e le facolt cognitive,
oppure
dellinsieme
delle
funzioni
cerebrali.
Difficile dire, tuttavia, se anche la definizione della morte progredisca con il progresso
nella misurazione delle funzioni vitali. Come ha affermato un medico che tra i primi ha
aperto un dibattito franco ed esplicito sulla morte, il francese L. Schwartzenberg, la
nuova definizione della morte che passata nei testi non n medica n scientifica;
una definizione metafisica, perch si muore, secondo lui, quando morta la
coscienza, quando si morti alla specie umana, e non quando gli organi hanno finito
di vivere. Il che sposta il dibattito su una soglia diversa: un dibattito rivitalizzato,
proprio il caso di dirlo, dalle odierne possibilit che la scienza sta aprendo di riattivare,
rivitalizzare appunto, il DNA di organismi gi morti, e di manipolarlo geneticamente,
come ci mostra con una certa frequenza, ormai, anche la fiction . Linterrogativo, che
anche quello che anima il dibattito bioetico sulle definizioni di morte, sollecitato tanto
dagli sviluppi nelle pratiche di rianimazione che dal diffondersi dei trapianti di organi,
per lappunto: come distinguere, come capire quale il momento della morte vera?
Citiamo almeno le definizioni avanzate in Italia dal Comitato Nazionale per la Bioetica
(1991), che cos statuisce: Il concetto di morte definito dalla perdita totale e
irreversibile della capacit dellorganismo di mantenere autonomamente la propria
unit funzionale, per poi proporre la seguente definizione: In pratica, pu dirsi che la
morte avviene quando lindividuo cessa di essere un tutto, mentre il processo del
morire termina quando tutto lorganismo giunto alla completa necrosi. Una
definizione, anche questa, che, come molte altre, risulta tuttaltro che univoca,
consentendo diverse interpretazioni, e aprendo cos la strada a quel fenomeno nuovo
che la giuridicizzazione della morte: ovvero, morte ci che la legge dice che sia.
Ora, poich la legge frutto di contrattazioni tra ideologie o almeno visioni
come innaturale, come incidente, come evento eccezionale e drammatico nelle sue
modalit. Cifre, anche, che dicono molto sugli stili di vita e, per cos dire, sugli stili di
morte: probabilmente considerabile, alla luce di questi dati, un evento pi scelto di
quanto
siamo
abituati
a
pensare.
Per le donne i dati sono significativamente diversi, sia in cifra assoluta che associati
alle cause di mortalit. Muoiono infatti, in questa fascia det, 13.473 uomini lanno e
solo 5.707 donne, meno della met. Entrambe, peraltro, sono cifre molto basse,
rispetto al mezzo milione di morti nel corso di un anno cui facevamo riferimento non
devono quindi indurci nellerrore di sovrastimare queste cause di morte rispetto alla
totalit della popolazione. Le donne comunque muoiono di tumore nel 39,7% dei casi,
di Aids al 13,9%, di malattie cardiovascolari e di incidenti stradali al 6,6%, di accidenti
cerebrovascolari al 4,8%, di suicidio al 4,5%, di cirrosi epatica al 3,2%, di malattie
nervose al 2,5%, di incidenti vari all1,5%, e di cause non definite all1,1,%. E dunque
possibile confermare, contrariamente alla percezione comune della morte come una
cosa che cpita, un mero accidente, che le donne di questet scelgono di morire in
maniera significativamente diversa dagli uomini, e soprattutto molto meno.
Pi in generale, come considerazione che trascende il caso italiano e riguarda tutto il
mondo economicamente pi sviluppato, occidentale in particolare, possiamo dire che
la morte sempre pi posposta nel tempo, che la corsa contro il tempo, intrapresa
dalla scienza medica, in nome e per conto di tutta la societ, sta mostrando i suoi
successi. Nel caso degli Stati Uniti per esempio stato calcolato che la semplice
introduzione degli apparecchi per la defibrillazione e la respirazione assistita, resi
ormai popolari da molti telefilm sui reparti demergenza degli ospedali, ma ormai
esistenti anche come strumenti portatili di pronto soccorso, affidati anche a personale
paramedico, abbia fatto diminuire (o meglio, appunto, posporre) le morti per arresto
cardiaco del venti per cento. Il che significa venti persone su cento che, letteralmente,
dopo essere morte, come sarebbe accaduto prima dellinvenzione di queste
tecnologie, sono state riportate in vita uno dei motivi, incidentalmente, per cui si
dovuto introdurre il criterio di morte cerebrale, di cui prima degli anni 50 non ci
sarebbe stato bisogno.
Luomo e la morte in occidente: historia brevis
Non si muore come si sempre morti. Ogni societ produce i propri modi giusti di
morire. E la morte, come ogni cosa, ha una storia affascinante.
Non abbiamo spazio e modo di ricostruire qui la storia della morte in occidente. Altri
lhanno fatto magistralmente, seppure in serrata discussione sullinterpretazione di
questa stessa storia (Aris 1978 e 1980; Vovelle, 1974 e 1986; Tenenti, 1977). Qui ci
accontenteremo di rilevare alcune continuit e alcuni cambiamenti: se e come la
viviamo
diversamente
dal
passato.
Si comincia, e non potrebbe essere altrimenti, con la demografia, con la statistica: che
ci dice che, nel Medio Evo, nel 1200-1300, prima ancora delle grandi pestilenze, la
speranza media di vita in Europa era intorno ai 30-35 anni a seconda dei paesi, e che il
40-50% della popolazione non raggiungeva i ventanni. Una speranza di vita che non si
elever di molto fino ad epoche recenti, talvolta fino al secolo scorso, se vero, come
riporta Vovelle (1986), che la speranza di vita era ancora di 25 anni nella Francia del
1795
e
di
32
nei
Paesi
Bassi
del
1816.
La morte, in questepoca, , assai pi spesso che per noi, morte violenta: in cui gioca
un ruolo la brutalit degli uomini (guerre, violenze, condizioni di lavoro), ma anche
della natura (carestie, epidemie: anchesse tuttavia, in buona parte, eventi con cause
sociali, e che, nonostante la retorica sulluguaglianza davanti alla morte, colpivano
spesso in modo diverso ricchi e poveri), o anche aggressioni di animali e fiere, pericoli
per noi sopravvissuti solo nelle favole o nella fiction a carattere horror. Abbiamo
dimenticato ormai il terrore, letteralmente mortale, che potevano evocare, nelluomo
medievale,
parole
come
notte,
bosco,
temporale,
buio.
Ma al di l dei dati e dei numeri, come cambiato latteggiamento di fronte alla morte,
pure
a
questi
evidentemente
collegato?
Possiamo distinguere almeno alcune fasi. Aris (1978) ne propone quattro, che
riassume
come
segue.
La prima fase quella della morte addomesticata. La morte fa in qualche modo parte
del paesaggio, e in questo senso naturale, ovvia. Latteggiamento prevalente di
fronte ad essa la rassegnazione, e c unabitudine alla coesistenza di vivi e morti:
entrambi appartengono, per cos dire, allo stesso mondo, lo con-dividono. Si attende la
morte come un destino accettato, ed essa viene, quando possibile, organizzata come
cerimonia pubblica, i cui riti sono relativamente semplici, privi di carattere drammatico
e,
quasi,
di
emozione.
Dalla met del Medio Evo in avanti abbiamo una fase di morte di s, di scoperta della
morte individuale e della sua drammaticit. Si diffondono le artes moriendi, i manuali
del ben morire, e nellarte temi come le danze macabre e i trionfi della morte (si pensi
al trionfo della morte del camposanto di Siena, con la morte a cavallo, e alle danze
macabre di Clusone, Pinzolo e Carisolo, con la morte che conduce con s nella sua
danza ricchi e poveri, papi e contadini), che nella loro talvolta morbosa descrizione di
decomposizione dei cadaveri e di scheletri rivelano forse un ancora pi forte amore
per la vita, e il terrore di perderla; la morte divenuto il luogo in cui luomo ha preso
meglio coscienza di se stesso. Si assiste anche a una personalizzazione della figura
stessa della morte, che diviene in certo modo indipendente dallo stesso Dio, e non pi
un suo strumento. Col passare del tempo, grazie anche alla invenzione del
purgatorio, aumenter linvestimento sul cielo, attraverso i legati testamentari,
almeno per i nobili: in Inghilterra, nel 1438, verr creata una istituzione specializzata,
lo All Souls college, con lo scopo precipuo di celebrare messe e pregare per lanima di
re Enrico V e dei ricchi che si possono permettere tale trattamento, pratica di cui si
fanno carico gli scolari indigenti. E per i ricchi si svilupperanno anche le
rappresentazioni dal vivo del morto, nella pittura e nella scultura, a partire dal DueTrecento i morti raddrizzati, e non pi giacenti, come li chiamer Panofsky. Poi,
gradualmente, con lumanesimo, si ha una rivalutazione della vita e dellamore; si
affronta bens la morte, ma non ci si insiste sopra: chi ben vive ben muore, e chi vive
male
muore
anche
male,
sintetizzer
il
card.
Bellarmino.
La terza fase, la morte dellaltro, si inaugura a partire dal XVIII secolo. La morte
drammatizzata, dominante, ma, attraverso per esempio la concezione romantica, si
esce dalla contemplazione di se stessi e del proprio destino per osservare
maggiormente quello altrui: la morte dellaltro che piangiamo, che ci interroga e ci fa
soffrire la morte del tu, dellamato, allinterno anche di una pi accentuata
sensibilit familiare. E lidea della morte, anche altrui, commuove, talvolta con un
certo compiacimento. La morte si laicizza, perde molti caratteri religiosi si
scristianizza, dir Vovelle. E si diffonde, invece, il culto dei morti, attraverso
monumenti e celebrazioni, in una nuova forma di religione civile, legata anche al
nascente nazionalismo e allenfasi sulle glorie collettive dello stato . Nasce qui anche il
culto delle tombe, lattenzione ai propri morti, il dialogo con loro, in unaccezione quasi
intima,
quotidiana.
Quarta tappa, la nostra, lattuale, quella della morte proibita, e comincia grosso
modo dal secondo dopoguerra di questo secolo. La morte scompare dal panorama
sociale, oggetto di vergogna e di divieto, poich ormai generalmente ammesso che
la vita sempre felice o deve sempre averne laria. I riti restano uguali, ma sono
svuotati dallinterno del loro pathos, della loro carica drammatica. Non si muore
nemmeno pi a casa e tra i propri familiari, ma in ospedale e sempre pi soli,
circondati al massimo dalla famiglia ristretta, non da quella cerchia allargata, anche a
vicini ed amici, che caratterizzava la fase precedente. La morte viene rimossa,
scompare dallorizzonte sociale, come anche da quello individuale. Non pi n vista
n pensata: Aris parla di rivoluzione brutale, di fenomeno inaudito.
Questa schematizzazione stata criticata da molti, anche sul piano storico, ed
accusata di eccessiva rigidit, e di aver tratto troppo in fretta conclusioni talvolta
opinabili (Tenenti, 1977). A noi, in questa sede, non interessa tuttavia il dibattito
storico, ma alcune delle indicazioni, sul piano sociologico, che possiamo trarne per le
nostre riflessioni. Prendendo magari atto delle puntualizzazioni di Vovelle (1986), che
parler di una svolta irreversibile a partire gi dal Settecento, quando si avr il
raddoppio della popolazione e la fine della peste, che conclude un intero ciclo della
storia
della
morte
nellEuropa
occidentale.
E in questo periodo che si comincia a misurare un aumento significativo della durata
della vita, una sua minore insicurezza, e per inciso anche lo scarto nella speranza di
vita tra uomini e donne. Sul piano culturale comincer lopera di demistificazione e
quasi di banalizzazione della morte iniziata dai philosophes, grazie alla quale essa non
pi considerata una punizione divina ma un fenomeno naturale, nullaltro che
limite, accidente. Non un castigo o una fatalit, ma appunto legge naturale contro cui
combattere: in questo periodo del resto che si assiste allemergere al capezzale del
morente della figura del medico, che prima affianca e poi progressivamente sostituisce
il prete. C quindi un esplicito tentativo, se non di eliminare la morte, per lo meno di
comprenderla e di combatterla. La laicizzazione dei testamenti, la diminuzione degli
aspetti religiosi, dellenfasi sulle messe, e della presenza stessa di personale religioso,
un
altro
chiaro
segno
di
questa
mutata
mentalit.
Dal punto di vista tecnico assistiamo allintroduzione della bara e a un progressivo
esilio dei morti in nome delligiene pubblica: anche questa una forma di
desacralizzazione, perch la morte non pi legata a un luogo santo, quale era il
cimitero parrocchiale, situato intorno alla chiesa, visitato e attraversato
ordinariamente, integrato nel panorama cittadino, ma a un luogo posto fuori citt,
fuori
le
mura.
Dal punto di vista sociale, vista la diminuzione o scomparsa di legami diretti nella
popolazione cittadina, si creano figure di annunziatori specializzati, angeli della
morte che progressivamente si incaricheranno anche di organizzare i funerali, gli
antenati delle attuali agenzie di pompe funebri ; e si introducono le partecipazioni
funebri, per comunicare una morte di cui altrimenti non si avrebbe pi notizia diretta.
Nelle sepolture assistiamo al passaggio da quelle individuali al diffondersi delle tombe
di famiglia. E la memoria, il ricordo, assume un altro status, un valore civico, quasi un
incentivo laico a una vita spesa anche per il bene comune; come dir Comte: vivere
per gli altri al fine di sopravvivere attraverso e negli altri. Il ricordo, la memoria, la
com-memorazione ha del resto un ruolo rassicurante: noi moriremo, ma altri ci
la sola morte che ci interroga personalmente, sulla nostra morte, e magari anche sul
senso che diamo alla nostra vita. Anche se la societ pu cullarsi nella tranquillit
illusoria del nascondimento, lindividuo, solo, i conti con lestrema nemica li deve
fare. Perch non conosciamo n il giorno n lora: mors certa, hora incerta.
Il nascondimento, la rimozione della morte, appare quindi dannosa per lindividuo
proprio perch gli toglie le occasioni e dunque le possibilit di entrare in contatto con
quello che sar anche il proprio futuro, e dunque di fare i conti: con se stesso, i propri
sentimenti, la propria famiglia, il proprio lavoro, in definitiva il senso della vita di
ciascuno . Una celebre iconografia del memento mori che ci viene dal Medio Evo per
lappunto quella dei morti che dicono ai passanti: ci che siete lo fummo. Ci che
siamo lo diverrete. Li avvisano, in sostanza. Per luomo moderno, che vive
nellillusione che la morte non esista, e che in ogni caso non la incontra pi, la morte
come dice Scheler (1983) sopraggiunge soltanto come catastrofe. Qualcosa di
insensato e di alieno: che non si capisce, e che ci lascia interdetti, senza parole e alla
deriva.
Certo, siamo confrontati continuamente teoricamente con la minaccia di morte
come strumento di lotta politica (dalla corsa agli armamenti al terrorismo, dalla
dissuasione nucleare alle guerre tribali); con la morte sociale, magari sotto forma di
handicap con le sue conseguenti forme di esclusione, di pensionamento anticipato, di
vita in ospizio, che insieme un esempio di morte sociale e il suo strumento pi
raffinato, comunque di inutilit, di mancanza di un ruolo sociale (de-functus, si dice
appunto del morto: privo di funzioni); con quella forma di morte civile che corrisponde
al carcere a vita e alle istituzioni manicomiali; ma queste sono immagini della morte
astratte,
metaforiche.
Mentre non siamo abbastanza confrontati a quella che, con unespressione di per s
significativa, come abbiamo visto, chiamiamo morte naturale. Non ha torto chi, dopo
anni in cui lo slogan, di per s giusto, era riprendiamoci la vita, consiglia ora anche di
riprenderci la morte: di toglierla ai medici, alle infermiere, e anche ai preti, per
riportarla a casa, in famiglia, nei nostri pensieri, nelle nostre discussioni, nella nostra
vita,
insomma.
Ricominciando, per esempio, ad organizzarla. Sembra strano, parlare cos, e tuttavia il
pensare alla morte era in passato anche loccasione per fare testamento, e fare
testamento non era solo dividere le spoglie: era loccasione per motivare delle scelte,
per dare dei consigli. Per insegnare qualcosa a coloro che restano, magari. Per dire
unultima parola forte. Anche ai bambini. Ricorda Aris che fino al XVIII secolo non
esistono immagini di una stanza di agonizzante in cui non ci sia la presenza dei
bambini Mentre probabile che il silenzio di oggi rifletta altre preoccupazioni che
non il supposto bene dei bambini: Gli adulti che evitano di parlarne ai loro figli
temono, forse a ragione, di poter comunicare loro le proprie angosce e paure della
morte (Elias, 1985).
e i suoi costi sociali
La diseguaglianza pi grande e radicale, la pi evidente delle ingiustizie, anche se
stranamente meno percepita di altre, certamente quella relativa alle differenze nelle
aspettative di vita, nella speranza di vita: la mortalit differenziale.
Una diseguaglianza che pu differenziare ricchi e poveri allinterno di un paese, ma
che si proietta anche su scala globale: tra paesi ricchi e paesi poveri. Inoltre pu
differenziare categorie sociali, sessi, etnie, ecc., secondo la situazione.
Nella Londra del 1830 per esempio, nelle lites let media al decesso era di 43 anni,
ma di 25 tra artigiani e impiegati, e di 22 tra gli operai. Nel 1842 a Manchester di 38
per la gentry, la nobilt, e di 17 tra i labourers. A Derby rispettivamente di 49 e 21
anni, e a Liverpool addirittura di 35 e 15! (Vovelle, 1986). In misura meno netta, vero
anche
qui
ed
ora,
oggi
in
Italia.
Basti pensare alla contabilit, occulta e occultata, che potremmo dedurre dagli
incidenti e dalle morti sul lavoro, per rendercene conto. Per non parlare degli effetti
delle condizioni di vita (reddito, cibo, abitazione) sulla mortalit nelle varie classi
sociali, o della disponibilit e accessibilit di cure mediche e ospedaliere e della loro
diversa efficienza nelle varie aree del paese. LIstituto Nazionale di Statistica da
qualche tempo ha cominciato a produrre degli indici di mortalit per grado di
istruzione, condizione professionale e caratteristiche socioeconomiche della famiglia di
appartenenza. Ne risulta per esempio che il titolo di studio un indicatore altamente
predittivo della mortalit (essa tre volte pi alta tra gli analfabeti che tra i laureati),
cos come lo la condizione lavorativa: in particolare la mortalit tra i disoccupati tre
volte superiore a quella dei lavoratori attivi, e la differenza ancora pi rilevante per
quanto concerne i suicidi (25,7 suicidi su 100.000 morti tra i disoccupati, solo 6,5 tra
gli occupati, nel 1984). Significativamente, inoltre, le differenze sono pi marcate tra
gli uomini che tra le donne, e nelle fasce di et pi basse (Vineis e Capri, 1994).
Tuttavia pochi si interessano a questo tipo di statistiche, e ne colgono il peso e
diremmo la drammaticit in quanto indicatori e persino simboli della questione sociale.
Si usano di pi in caso di confronti internazionali; ma come statistiche interne molto
meno.
Non solo la morte comunque a differenziarci, con aspettative di vita diverse. Anche il
ricordo del morto, spesso, ci differenzia. Anche avere un passato, una memoria,
spesso una forma di lusso, di ricchezza. E il ricordo dei morti di pregio, nella nostra
cultura, dura di pi, non fossaltro che per questioni tecniche: la statua in marmo e il
sarcofago del nobile contro la sepoltura nella nuda terra e la croce in legno destinato a
marcire del povero, per sintetizzare. Anche le testimonianze sulla morte del passato
pi lontano, del resto, sono giunte a noi grazie ai tumuli giganti, si pensi alle piramidi,
o alle pietre innalzate di qualche tomba regale. Una consapevolezza, questa, che forse
ritroviamo nella diffusa e un po patetica ossessione per le genealogie pi o meno
nobiliari, frutto del desiderio di un passato, di ricordare e di ri-scoprire, per essere a
nostra volta ricordati, forse sintomo pi di un bisogno sociale reale che di una dubbia
ricchezza: una povert autentica, non rimpiazzata pi, come nelle piccole ma anche
grandi comunit del passato, quanto meno, da una storia e una memoria collettive.
Altro che a livella, quindi, come diceva Tot, che ci rende tutti uguali: nulla di pi
inegualitario
della
morte,
ha
ricordato
Vovelle.
Ma questo costo nelle cose. Qui ci interessa invece analizzare i costi della rimozione
odierna della morte, le sue conseguenze culturali.
La convenzione sociale vuole che non se ne parli, che non la si nomini nemmeno, che
venga almeno avvolta nella cortina fumogena di irritanti metafore (dal greco met e
phrein, lett. portare oltre), che anzich dire meglio e in altro modo, semplicemente
nascondono la realt, illudendosi in questo modo di cancellarla, di negarla. Una prassi,
questa della negazione della malattia, oltre che della morte -, che di tutta la
societ; e che si traduce in una preoccupazione particolarmente visibile nel linguaggio
usato per cercare di non dirla, di non nominarla: dalla comunicazione giornalistica
(nessuno muore mai di cancro, ma sempre dopo lunga malattia) ai tecnicismi del
si
chiama,
significativamente,
assicurazione
sulla
vita.
Una societ vitalista e giovanilista non inciampa volentieri nei suoi morti, come del
resto nei suoi vecchi. La morte, e con essa tutto ci che pu ricordarla (la vecchiaia, la
malattia, il dolore) viene sempre pi privatizzata e nascosta. Forse anche per ragioni
strutturali, come lascia intendere Elias: In passato la morte era una questione
pubblica in misura assai maggiore di quanto lo sia oggi; del resto non poteva essere
altrimenti perch di rado gli uomini rimanevano soli. Ma molto anche per ragioni
culturali.
Come si detto, si muore sempre meno a casa, in mezzo alla gente, ai sani, ai
normali. Il funerale lo si fa in chiesa ; sparisce anche il corteo funebre nel quartiere, e
si vedono sempre meno simboli esteriori (addobbi, paramenti). Anche le esistenze
chiassose si spengono discretamente: con la notevole eccezione della morte dei vip,
quelli che Edgar Morin chiama gli olympiens, che diventa essa stessa notizia, e rito
collettivo si pensi alla morte di Diana Spencer, meglio nota come Lady D, ma anche,
quasi nello stesso periodo, di personaggi alquanto diversi e morti in circostanze del
tutto dissimili, come Madre Teresa di Calcutta e Gianni Versace . La pubblicit, salvo
eventi drammatici, affidata ai soli necrologi sui giornali: lultimo quarto dora di
celebrit possibile, in una societ dove un evento, se non passa sui media, non esiste .
Lestremo capolavoro di una societ che dedica colossali energie a cercare
disperatamente di non invecchiare, di allungare la vita a tutti i costi, fossanche di un
minuto, e di cancellare dunque il dolore e la morte dal panorama sociale: non sta
bene, morire in pubblico, come non sta bene ed sconveniente esternare la tristezza
e il pianto. Una societ che a giusto titolo stata chiamata analgesica.
Immagini della morte: la societ analgesica
Gi dalle ricerche svolte negli anni Sessanta da Gorer (1965) risultava che il 70% circa
delle persone da lui intervistate non aveva mai assistito a un seppellimento, e i
bambini non erano stati fatti partecipare nemmeno ai funerali dei parenti pi stretti.
La morte oggi, nelle nostre societ, gravata da inibizione comunicativa. In una
societ che si vuole culturalmente avanzata, il testimone silenzioso della nostra
arretratezza; in un certo senso, il settore pi primitivo della societ industriale
(Fuchs 1973). Non se ne pu parlare. Spendiamo sempre pi risorse ad occultarla. Di
fronte ad essa rimaniamo, significativamente, senza parole: muti come una tomba.
Ma poi la morte, il dolore che provoca, i funerali, si vedono in tv. Qual allora il senso
di questa opera di occultamento? Perch la morte viene nascosta?
Le ipocrisie del linguaggio non sono che uno dei tanti inganni e autoinganni intorno
alla morte. Laltro, pi grande ancora, concerne i mass media, che hanno
desacralizzato la morte, e nello stesso tempo hanno sostituito lo spettacolo al rito
(Thomas,
1978).
Il paradosso pertanto che il meccanismo del nascondimento avvenga in una societ
in cui siamo circondati dalla morte, o meglio da una spettacolarizzazione della morte,
che un po laltra faccia della rimozione: la sua banalizzazione.
E stato calcolato che un giovane di 18 anni ha assistito, in media, a 40.000
ammazzamenti televisivi e cinematografici. E quasi sempre si tratta di morti con una
causa precisa : disgrazie, omicidi, quasi mai comunque morti naturali.
Una ricerca ormai un po datata che tendeva a mostrare e a quantificare lo spazio
dedicato alla morte sulla stampa parigina, dava i seguenti risultati (Potel, 1970):
necrologi 19,9% , assassinii e uccisioni 18,3%, incidenti stradali 17,3, altri incidenti
15,8, guerre e genocidi 11,7, morte di personaggi famosi 10, suicidi 2,6, esecuzioni
capitali (allepoca, in Francia, non ancora abolite) 2,4, minacce collettive, dallatomo al
cancro 1,3, medicina, e morte ordinaria 0,7. E probabile che alcuni dati sarebbero
oggi da aggiornare: sospettiamo un aumento delle notizie legate alle battaglie contro
la morte della medicina e della scienza, per esempio; ma si tratta di dati che
comunque ci fanno riflettere sul tipo di morte cui pensiamo quando ne pronunciamo
e
non
il
caso
pi
frequente
il
nome.
La societ dello spettacolo, e non c da stupirsi, ha fatto anche della morte uno
spettacolo quotidiano e ordinario. Finto, per lo pi: ma non solo. Casi celebri di suicidi
o esecuzioni in diretta ci ricordano che questi sono eventi mediatici seguiti e
ottimamente retribuiti. Una foto o un video di una tragedia vale denaro, e ne produce.
E la morte vera, che passa per ancora dagli schermi televisivi, anzich
dallesperienza diretta: che in occasione di una carestia o di una strage terroristica fa
irruzione nelle nostre case attraverso i Tg della sera, allora di cena. Ma che ormai
oggetto privilegiato di interi programmi basati in buona parte su un voyeurismo che ha
nella
morte
il
suo
centro:
si
pensi
alle
varie
Real
Tv.
Le morti finte sono presenti altrettanto se non pi massicciamente: e per
conseguenza anestetizzano. Come le droghe, danno lassuefazione. La morte deve
essere tanta, se no non fa pi effetto. Hollywood insegna: lunghe e redditizie carriere
si sono costruite su questo genere; Stallone, Schwarzenegger, Van Damme, Bruce
Willis e tanti altri, anche meno muscolosi. La morte diventa seriale, come i natural
born killers e i protagonisti di pulp fictions pi o meno intellettuali o di splatters di
serie B: film horror di zombies e notti dei morti viventi, il cui maestro George
Romero, i vari Halloween, i film con Wes Craven, i vampiri, i Dracula e i Nosferatu,
lhorror pi intellettuale alla Stephen King, e tanti altri, come il filone catastrofico dei
terremoti, degli aerei in avaria, degli uragani, degli incendi. Fino alla necrofilia ironica e
gentile
della
famiglia
Addams.
Le danze macabre medievali avevano una funzione educativa, contenevano un
insegnamento memento mori, ricordati che devi morire. Il cinema e la letteratura di
massa, forse pi raramente. Ma in certi casi, come nel Dylan Dog nostrano e in altri
prodotti quasi sempre meno raffinati, come il dark rock, la musica metallica in cui i
nomi dei gruppi non potrebbero essere pi esplicitamente mortiferi (lett. portatori di
morte), assume il ruolo di riflessione proprio l dove era stata espunta, di risposta
forse non del tutto inconsapevole proprio a quella rimozione che si percepisce falsa e
ipocrita,
e
forse
pericolosa
mortale,
appunto.
Detto questo, la demonizzazione dei media serve a poco, e non probabilmente
nemmeno un bersaglio centrato. Quello che ci preme sottolineare, come fatto sociale
significativo, il divario, quasi una forma di schizofrenia sociale, tra la sostanziale
sparizione dalla vita delle persone della morte vera, e la diffusione a dosi massicce di
quella rappresentata. Che, per, non ci prepara affatto allevento morte: n alla
nostra, n a quella altrui.
La morte ospedalizzata
La medicina, per occuparsi della vita, dovuta passare attraverso la morte; basti
pensare al ruolo che ha avuto la dissezione dei cadaveri nel favorire i suoi progressi e
le sue conoscenze. Ma se essa sa rapportarsi con i cadaveri, e letteralmente
manipolarli, sembra che trovi oggi molte pi difficolt a rapportarsi con levento
morte, e singolarmente con i morenti. Al punto che la morte, pure il compimento di
un processo che loggetto di intervento del medico, non si studia quasi: le si passa
accanto, ma malvolentieri, e distogliendo lo sguardo, interessati ad altro. Dovrebbe
essere, da sola, materia desame, di almeno un esame, e orizzonte ultimo di molti
altri: e invece scarseggiano persino i testi di riflessione, in proporzione almeno al
confronto,
quotidiano,
con
la
questione.
La funzione della malattia oggi di nascondere la morte (Urbain, 1998), di tacerla o
di travestirla. Concentrato sulla malattia, su come combatterla, il medico distoglie lo
sguardo dal suo esito, nel lungo termine, inevitabile, perch lesito di ogni vita. Dopo
tutto, per il medico esso quasi sempre vissuto come uno scacco professionale, una
sconfitta: la medicina contemporanea si concepisce come una titanica battaglia,
spesso vincente, contro la morte non riesce ad accettare, quindi, di perdere.
Un atteggiamento, questo, che ha finito per instillare nel grande pubblico e nel suo
immaginario lidea che la morte sia unanomalia, la conseguenza di un
malfunzionamento, al limite di un errore; e che ha finito per ritorcersi contro la stessa
classe medica, oggi pi che in passato confrontata con il moltiplicarsi di cause
giudiziarie, per inadempienza, per errore diagnostico colposo o altro.
Un atteggiamento, inoltre, che non estraneo alla frequente tendenza del medico ad
essere presente e attivo nelle fasi di lotta, e ad eclissarsi nel momento in cui, come si
dice, non c pi niente da fare, e il malato, ormai morente, deve solo, per lappunto,
morire lasciando la responsabilit di seguire questa fase cruciale al personale
paramedico, al personale religioso, ai volontari, ai familiari, o, peggio, a nessuno. Un
osservatore direttamente implicato (Brhant, 1976) gi sottolineava del resto il
paradosso per cui una delle cose pi difficili della nostra arte medica di occuparci di
quelli
che
non
hanno
pi
bisogno
di
cure.
Eppure la medicina e le sue istituzioni sono sempre pi confrontate dalla morte, per la
semplice ragione che prosegue la tendenza, apparentemente inesorabile,
allospedalizzazione della morte , anche se comincia a vedersi qualche segnale di
controtendenza: che tuttavia, come il parto in casa o altre forme di deospedalizzazione della nascita, incide per ora pi a livello di costume che statistico.
Ormai solo una minoranza di persone, in occidente, muore fuori dallospedale, in casa
o altrove: specie se sa, o lo sanno i suoi parenti, che la morte sta arrivando se,
magari, la sta aspettando. Occore dunque imparare a gestire quella difficolt oggettiva
che comporta, anche per il personale medico e paramedico, lo stare vicino alla morte.
Non ci si pu pi accontentare di un atteggiamento di falsa indifferenza e vero
nascondimento, come quello misurato gi nelle prime ricerche in materia, quando
Glaser e Strauss (1965) rilevavano come il personale ospedaliero si costruisse un
modo accettabile di far fronte alla morte: anche se oggi pi frequentemente di allora
il
malato
viene
informato
del
suo
destino.
Le ragioni di questo processo sono molte: la solitudine delle persone, la scomparsa
progressiva della famiglia allargata, con le sue molte risorse disponibili, ma anche
delle relazioni di vicinato, specie nelle aree urbane, la mancanza di tempo degli altri
familiari, coniuge incluso, che sempre pi spesso lavora, il fatto che le case stesse, i
troppo piccoli appartamenti metropolitani, poco si prestino ad operazioni sempre pi
complesse, man mano che il processo di medicalizzazione della morte, specie in
presenza di patologie pi difficili da affrontare, comporta: anche perch le patologie in
questione si fanno sempre pi difficili man mano che aumenta let del morente e
diminuiscono le risorse del corpo e della mente nellaffrontarla. Indubbiamente, poi,
gli ospedali possono offrire supporti tecnici e unassistenza continuativa che non di
norma alla portata del privato, del singolo, della famiglia media. Ma c anche un
problema culturale: langoscia di fronte alla morte, il non sapere che fare di fronte ad
un evento cui non c stata preparazione. Manca la dimestichezza con la morte, il
renderla domestica, appunto, e come tale gestibile: anche per leffetto della
scomparsa progressiva della compresenza generazionale allinterno delle famiglie
non c pi chi insegni, con le parole o con lesempio, ci che del resto non si ha
nessuna voglia di imparare. E a superare questo problema, lospedalizzazione non
aiuta: al contrario, lo incancrenisce. Tanto che si comincia a riflettere sul fatto che
cos come la medicalizzazione della nascita stata messa in discussione, cos
dobbiamo mettere in discussione la medicalizzazione della morte (Gallucci, in De
Santi
et
al.,
1999).
Bisogna tuttavia prendere realisticamente atto che il processo in corso, e seppure
qualche timido segnale di inversione di tendenza si manifesta, probabile che la
maggioranza delle morti continuer ad avere luogo in ospedale. Per non parlare di
quelli che, sostanzialmente, non potrebbero fare altrimenti, come i malati terminali:
coloro che, letteralmente, sono condannati a morte e, quasi sempre, lo sanno,
anche se non glielo si dice ; coloro che sono in agonia: una lotta, una fatica, uno sforzo
(questo il senso etimologico della parola: lo stesso per lappunto di agonismo), che ha
bisogno
di
supporto,
di
aiuto,
di
accompagnamento.
A differenza di altre lotte, di altre competizioni, di questa si sa in anticipo come andr
a finire. Non si sapr, magari, quale decorso potr prendere la malattia, quali brani si
dovranno recitare. Ma si sa, comunque, come andr a finire la pice. Si conosce in
anticipo, insomma, il nome dellassassino: anche se questo non ancora, ovviamente,
la soluzione dellenigma. Un po come in quei gialli in cui in cui la scena del delitto, e il
delitto stesso, appaiono subito, e il lettore o lo spettatore li conosce la suspense sta
solo nel vedere come linvestigatore lo scopre. Nel nostro caso loggetto di riflessione
il senso della propria vita, pi ancora che della propria morte: e la suspense sta nel
vedere se lo si scoprir, in che modo, con quali esiti. Un problema che non solo o
eminentemente medico e medicalizzabile, ma che non pu nemmeno essere del tutto
espunto dallorizzonte ospedaliero, posto che la morte, sempre pi spesso, avviene tra
le sue mura. Il che spiega perch, anche nel mondo medico, ci sia chi comincia a porsi
il senso del silenzio sulla morte, o del suo mascheramento sotto le spoglie di un mero
discorso razionale, professionale, tecnico, limitato alla cura, alla lotta contro la morte.
Levento morte non separabile in una componente razionale, di cui si pu parlare e
con cui ci si pu confrontare, e di una irrazionale, nelle sue componenti psicologiche
ma anche filosofiche e spirituali, da cui invece lospedale dovrebbe stare fuori: nella
persona del paziente, dei suoi familiari, ma spesso anche del personale ospedaliero,
queste
componenti
sono
unite
e
inseparabili.
Certo, colui che vicino alla morte una figura atipica. E colui che non pu (o a cui
non si pu) pi far nulla per impedirgli di morire il morente, il quasi morto, il
morituro. Ma la medicina ha sempre avuto, fin dalle origini, due aspetti. Il primo
concerne il guarire, che implica, come si evince anche dalletimologia della parola, il
difendere, o provarci almeno, dallaggressione della malattia. Il secondo il curare. E
curare significa precisamente prendersi cura proprio nello stesso senso in cui il
curato colui che si prende cura, delle anime nella fattispecie: anche se separare
anime e corpi ugualmente un esito per nulla inevitabile, e concettualmente ma
anche praticamente problematico, anche per la medicina. La medicina occidentale si
forse troppo orientata sul primo aspetto, il guarire, mettendo eccessivamente in
Roma,
Carocci
(1999).
Utili testi che potremmo definire di accompagnamento e di riflessione, non
strettamente scientifica, sono gli altri volumi della Kbler-Ross, come Domande e
risposte sulla morte e il morire, Como, Red edizioni (1996), facile introduzione
strutturata a domande e risposte su casi concreti ed esempi di pratica ospedaliera,
Living with death and dying, New York, Macmillan (1982), libro anche questo facile,
tratto da sue conferenze, cos come, La morte di vitale importanza, Milano, Armenia
(1997). Pi specifici, nei rispettivi ambiti, On children and death, New York, Macmillan
(1984), AIDS. Lultima sfida, Milano, Raffaello Cortina (1989), e Working it through,
New York, Macmillan (1987), che rende conto dei suoi workshops sul tema della morte.
Sorta di breve manuale anche Smith, C.R., Vicino alla morte. Guida al lavoro sociale
con i morenti e i familiari in lutto, Trento, Centro studi Erickson (1990), traduzione di
un testo della British Association of Social Workers. Frutto di un corso Morretta, M. e
Tommasi, R. (a cura di), Il percorso del morire. Lesperienza del morire e la
condivisione della sofferenza, Milano, Unicopli (1995). Una raccolta di saggi molto
diseguali tratta dagli atti di un convegno sul tema, Sgreccia, E., Spagnolo, A.G. e Di
Pietro, M.L. (a cura di), Lassistenza al morente: aspetti socio-culturali, medicoassistenziali
e
pastorali,
Milano,
Vita
e
Pensiero
(1994).
Un tema pi laterale trattato nei volumi di Jean-Didier Urbain: La socit de
conservation: tude smiologique des cimetires dOccident, Paris, Payot (1978), e
Larchipel des morts, Paris, Payot (1998), sui cimiteri, nonch, di Michel Ragon, Lo
spazio della morte. Saggio sullarchitettura, la decorazione e lurbanistica funeraria,
Guida,
Napoli,
1986.
Sui dilemmi etici legati al tema delleutanasia, che non abbiamo affrontato
direttamente,
il
breve
Hans
Jonas,
Il diritto di morire, Genova, Il Melangolo (1991). Unanalisi dubbiosa sulla pratica
medica nel paese dove si andati pi lontano nel suo riconoscimento legale, quella
del medico C.F. Gomez, che ha intervistato alcuni suoi colleghi olandesi in Regulating
death. Euthanasia and the case of the Netherlands, New York, The Free Press (1991).
Infine, abbiamo citato il pi generale Paolo Vineis e Stefano Capri, La salute non una
merce. Efficacia della medicina e politiche sanitarie, Torino, Bollati Boringhieri (1994),
che al tema della morte fa qualche discreto cenno.
Originariamente pubblicato in Servitium, n. 128, marzo-aprile 2000, pp. 72-76
Hypnos
I fratelli della notte
thanatos
di
Stefano Allievi
Morire,
William Shakespeare
dormire,
forse
sognare
Lo stato di sonno e lo stato di veglia, come la notte e il giorno, come il buio e la luce,
cui sono stati spesso intuitivamente paragonati, si richiamano lun laltro, e fanno
risaltare luno la grandezza e la profondit dellaltro. Nel contempo, costituiscono luno
il limite dellaltro con in mezzo, occasionalmente, quello stato liminale, spesso ricco
di intuizioni come tutti i confini (cum-finis) che, nel momento in cui li si varca,
trasformando una fine in un inizio, introducono in un mondo altro, che il dormiveglia.
Ma c un altro parallelo, ancora pi forte, che ha accompagnato la storia umana:
quello tra il sonno e la morte. Sia che la seconda fosse considerata una forma del
primo che continua ab ternum, definitiva e irrevocabile, un sonno da cui non ci si
sveglia pi; sia che il parallelo fosse allargato fino ad includere, come nel sonno
ordinario,
il
momento
del
risveglio,
della
resurrezione.
Nella mitologia greca il genio del Sonno, Hypnos, il fratello di Thanatos: i gemelli
della
notte
che
dimorano
negli
inferi.
Nel mondo latino, da Cicerone a Ovidio, somnus est imago mortis.
Nella Bibbia troviamo entrambe le concezioni della morte citate: quella del sonno
eterno; e poi, progressivamente, quella del sonno da cui ci si risveglier.
Esempio della prima, del sonno eterno senza possibilit di risveglio, il lamento
disperato di Giobbe (14,7-12): Poich anche per lalbero c speranza: / se viene
tagliato, ancora ributta / e i suoi germogli non cessano di crescere () / Luomo invece
se muore giace inerte () / luomo che giace pi non salzer, finch durano i cieli non
si sveglier, / n pi si dester dal suo sonno. Il lamento individuale del salmista gli fa
eco: Guarda, rispondimi, Signore mio Dio, / conserva la luce ai miei occhi, / perch
non mi sorprenda il sonno della morte (Sal 13,4). Anche il Siracide (46,19) parla di
Samuele e dellora del suo eterno sonno; e Geremia mette in bocca al Signore
questa minaccia nei confronti di Babilonia: li inebrier perch si stordiscano / e si
addormentino in un sonno perenne, / per non svegliarsi mai pi (51,39), essi
dormiranno un sonno eterno e non potranno pi svegliarsi (51,57).
Esempi della seconda invece, del sonno che si conclude in un risveglio, li troviamo in
entrambi i testamenti: Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si
risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per linfamia eterna
(Dn 12,2); o ancora: Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, / risorgeranno i loro cadaveri. /
Si sveglieranno ed esulteranno / quelli che giacciono nella polvere (Is 26,19). Cenni
che diventano pi espliciti nel Nuovo Testamento, grazie ad episodi come la
resurrezione della figlia di Giairo (La bambina non morta, ma dorme di Mc 5,39, Lc
8,52 e Mt 9,24) e quella di Lazzaro (Gv 11,11-13): Il nostro amico Lazzaro s
addormentato;
ma
io
vado
a
svegliarlo.
La leggenda dei sette dormienti di Efeso, conosciuta anche in un noto parallelo
islamico, costituisce unaltra immagine di morte e resurrezione. Anche il mondo
islamico del resto individua in Dio il superamento della morte individuale: Lui solo il
Permanente, si scrive sovente sulle tombe musulmane. La morte diventa cos un
passaggio, nientaltro che il risveglio dopo il sonno, che nel contempo la garanzia
della continuit: La prima condizione per una sopravvivenza dopo la morte la morte
stessa, ricordava Max Scheler.
Nel discorso comune possibile sentire espressioni come passato dal sonno alla
morte, in unaccezione valoriale positiva, quasi una continuit naturale; una
soluzione pratica, indolore, per una societ ossessionata dal timore del dolore del
corpo, del cuore e della mente, e che fa di tutto per abolirlo una societ analgesica,
come
lha
chiamata
qualcuno.
Pi inconsapevolmente usiamo frasi del tipo morire di sonno, che comunque ci
acclimatano a questa identificazione. Del resto forse il parlare della morte come di un
stessa
misura
insicurezza).
Non nascondendoli, tuttavia, spostandoli pi lontano, dove occhio non vede, che il
cuore non duole pi. Questo solo leffetto superficiale, di addormentamento delle
coscienze. Questi problemi, e il carcere tra essi, fanno parte di noi. E tornano fuori, nei
sussulti delle crisi che periodicamente, come eruzioni vulcaniche, sconvolgono la
superficie che ci siamo costruiti, e macchiano la nostra illusione di normalit.
Anche tra le opere di carit, del resto, quella concernente i prigionieri la meno
frequentata. Dar da mangiare allaffamato, qualche volta, passi. Come dar da bere
allassetato, o vestire gli ignudi, possiamo farlo nella forma moderna, indiretta, di quel
po di elemosina che diamo ad agenzie specializzate nello svolgere questi servizi.
Malati e anziani, ne conosciamo tutti, e talvolta lo siamo noi: nel primo caso,
occasionalmente, nel secondo, prima o poi, irrevocabilmente. Sappiamo quindi cosa
significa, ne siamo toccati, coinvolti. Ma visitare i carcerati, se non sono nostri parenti
stretti, presuppone unattivazione di risorse diretta che non fa parte del nostro
costume, che ci manca. Per non parlare del fatto che, tra tutte, certamente la pi
difficile, nel concreto, da praticare: non basta la voglia occorrono i permessi
Eppure, il carcere non solo un luogo abitato: un luogo sempre pi abitato. E c
qualcosa di storto nel meccanismo, se questo accade. Negli Stati Uniti i carcerati, i
prigionieri (da prehensus: preso), i reclusi, i chiusi dentro (questo del resto significa
carcere: recinto), sono il 2% della popolazione, e in continuo aumento, tanto da
sfasare persino le statistiche sulla disoccupazione, creando polemiche internazionali
sulla loro attendibilit. E la situazione, con percentuali diverse, simile anche altrove.
Perch un aumento? Perch cos rapido? E perch una tendenza osservabile in tutti i
paesi detti sviluppati, in processi paralleli anche se in contesti differenziati,
dallInghilterra thatcheriana che ha privatizzato perfino le prigioni, liberando lo stato
da unincombenza spiacevole, e perdendo quindi ogni interesse reale ad altro che al
tenere le persone sotto controllo al minor costo possibile, alla Scandinavia
socialdemocratica cos ricca di misure di recupero? Dov il male, dove sta la sua
origine?
E pi ancora: a cosa servono queste prigioni? In origine erano case di lavoro, di cui si
supponeva una funzione educativa, o quanto meno socialmente utile, correttiva (non a
caso si chiamavano anche correzionali). E nel corso della storia, dopo tutto
relativamente recente, del carcere, si posto laccento, oltre che sulla sua funzione
punitiva e repressiva, e su quella preventiva e di deterrenza, anche su quella
rieducativa, riabilitativa (e col passare degli anni, con pietosa menzogna sociale,
laccento stato sempre pi messo sulle ultime, anche se continuavano a prevalere le
prime).
Ma ora che prevale la funzione immobilizzativa, priva di qualsiasi utilit individuale e
di risvolto sociale, un mero parcheggio umano, che cosa diventato, a che cosa
serve?
Certo, crediamo che per alcuni, forse non pochi, svolga un ruolo o quanto meno
consenta una funzione di re-interrogazione su di s, un comprendere che c o
dovrebbe esserci un ordine sociale, che chi lha sconvolto deve essere punito, che chi
sbaglia paga, insomma ce lo siamo sentiti dire, come affermazione condivisa, in
fondo tanto pi sorprendente da parte di qualcuno che sta pagando, da pi di un
detenuto. E certamente per alcuni il luogo dellincontro, finalmente, con un pezzo di
societ che si mette in relazione con un soggetto che, di queste relazioni, non
riuscito ad averne in passato come accade magari negli istituti minorili e talvolta,
forse davvero troppo tardi, negli altri: in cui per la prima volta, lo stato, le istituzioni, si
fanno presenti in forma nonostante tutto nonostante, in primo luogo, il fatto fisico
della costrizione, della reclusione positiva, attraverso educatori, corsi di recupero, di
alfabetizzazione, magari uno psicologo, una visita medica pi attenta anche al
benessere generale dellindividuo e non solo al sintomo. Fa riflettere, in un istituto
penitenziario per minori, vedere un diciassettenne avere l, e non avere avuto prima,
loccasione di imparare a leggere, di fare un po di educazione sanitaria, di scoprire
cosa significa la parola progetto o la parola responsabilit, per s e per gli altri.
Ma, naturalmente, in carcere non si scopre solo questo. Si pu scoprire, o riscoprire, il
senso o il non senso della violenza, di una vita vuota, di tempi assurdamente allungati
e letteralmente insensati, privi di uno scopo (condizione diffusa anche fuori,
vero). E avere la ri-conferma, se ce ne fosse stato bisogno, di vivere in una societ
radicalmente ingiusta (ingiusta cio alla radice: non per sbaglio, per uninefficacia
occasionale
ma
perch
nasce
e
si
riproduce
cos).
Non difficile, in carcere, anzi patente, avere le prove che la societ divisa in
classi, meglio mascherate nella vita quotidiana, del tutto nascoste dalla realt
televisiva comunque si voglia chiamare la divisione tra ricchi e poveri, tra chi conta e
chi al contrario pu essere solo contato. L certe persone non ci mettono piede, e se ce
lo mettono fanno per lappunto notizia; e non durano molto, del resto perch escono
presto (buoni avvocati fanno la pena corta, o una misura alternativa adeguata allo
scopo), o perch in qualche raro caso, non ce la fanno proprio, e soccombono (i celebri
suicidi del periodo Mani Pulite fanno testo; ma anche altri si suicidano, e pi spesso
solo
che
non
fanno
notizia).
Solo per rare congiunzioni astrali pu accadere che vadano in carcere le persone
sbagliate, anche se i reati dei colletti bianchi non sono meno gravi e meno dannosi
per la societ. Il periodo di Tangentopoli stato una di queste. Ma le congiunzioni
astrali hanno la caratteristica di essere brevi, oltre che rare: la durata di uneclissi, per
lappunto. E infatti quella stagione fa gi parte del passato, e viene rievocata da molti
con scandalo e indignazione.
Torniamo al carcere. Chi ci va oggi? E con quali problemi? Vediamone alcuni.
Laumento rapidissimo del numero dei reclusi, e tra questi dei tossicodipendenti,
segno evidente che la risposta sociale al problema , il meno che si possa dire,
inadeguata e inefficace. La sproporzione intollerabile tra coloro che sono in attesa di
giudizio e quelli che stanno effettivamente scontando una pena comminata, passata in
giudicato. Il sovraffollamento, in molte carceri ormai cronico (vuol dire che dove
dovrebbero starci duemila persone ce ne stanno tremila: ci rendiamo conto di cosa
davvero e nel concreto significa?). Le strutture vecchie e inadeguate, al limite
dellaccettabile in un paese civile, e talvolta al di sotto. Le carenze di organico, la
povert spesso della sua formazione, che fa il paio del resto con il livello dei suoi salari
( senso comune, e non retorica, dire che in carcere, di reclusi, spesso non ci sono solo
i carcerati). Lottusit di molte procedure burocratiche, gi insopportabili tra i liberi,
ma ulteriormente dolorose quando colpiscono chi non ha un altrove cui rivolgersi o in
cui fuggire (ricordiamo di avere letto una volta lesilarante e istruttiva autobiografia di
una domandina, raccontata da un detenuto di S.Vittore). E poi, in un elenco casuale: i
casi di autolesionismo e di suicidio; le difficolt drammatiche di sieropositivi e malati di
aids; i problemi specifici legati al consistente aumento di presenze straniere (che, per
dirne una, possono godere solo di rado di misure alternative e anche solo di permessi
per il fatto banale che presuppongono un domicilio impossibile per essi da dimostrare
per non parlare della minor tutela legale, della mancanza di reti di supporto, o anche
solo di quelle visite dei familiari, cos importanti anche solo per tirare avanti, per non
crollare psicologicamente); la specificit legata alla presenza di donne con bambini
(costretti talvolta a vivere anchessi, innocenti, la realt carceraria); le non sufficienti
occasioni di lavoro, pure una volta quasi ragion dessere della detenzione (si pensi ai
lavori forzati, appunto; oggi si forzati pi spesso al non lavoro, allinutilit); le
ugualmente insufficienti occasioni di formazione, di crescita culturale e spirituale, in
senso lato e anche specifico (talvolta difficile anche reperire un libro); le forme
ancora troppo rare rispetto ai bisogni e alle potenzialit di pene e misure alternative
alla detenzione che, tutto sommato, in molti casi risulta essere pi una parte del
problema che una sua soluzione.
Certo, si fa molto, e molto anche di buono, per cercare di cambiare le cose, di
migliorarle, di umanizzare, come si dice, un universo che evidentemente non viene
considerato tale. Da parte dei legislatori, degli operatori, delle istituzioni, dei volontari
che sempre pi numerosi attivano iniziative dentro il carcere, e in ascolto ad esso,
anche. Ma quasi sempre, ancora, si tratta di iniziative, pur indispensabili, che
concernono il carcere come mondo a s. Ancora troppo di rado vanno a toccare il
rapporto tra carcere e societ, pure cruciale: sia per il prima, per evitare che la
gente, in carcere, ci entri, sia per il dopo, per favorire un reinserimento che spesso
drammaticamente difficile, proprio a causa dellidea di carcere che abbiamo nella
societ, per i timori che, anche comprensibilmente, fa nascere, e che si fa troppo poco
per
cercare
di
interpretare,
se
non
di
fugare.
Si preferisce, come sempre facciamo, sia come individui che come societ, di fronte
alle realt spiacevoli, non pensare, rimuovere. Suscita ri-mozione, anzich e-mozione,
la realt carceraria. Ma una ferita. E sanguina. E non sano per un corpo, nemmeno
per un corpo sociale, portare con s la propria malattia senza curarla, lasciando che si
aggravi senza prestarle soccorso. Come sappiamo, alla lunga infetta. E a risentirne
tutto il corpo.