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Recensione a: Bernhard Waldenfels, Fenomenologia dell'estraneo, Raffaello

Cortina Editore, Milano 2008.


La questione dell'estraneo si delinea all'origine stessa del pensiero filosofico
occidentale. Anche quando non viene nominata come tale o resa oggetto di un discorso
esplicito e tematico, essa dispiega incessantemente i suoi effetti nella catena dei
significati

che

costruiscono

il

linguaggio

l'autocoscienza

dell'Occidente,

accompagnando come un'ombra ogni riflessione sull'identit, anche la pi ingenua e


apparentemente innocente. Non si pu, infatti, neppure formulare la domanda chi
sono? (chi siamo?), ad un qualsiasi livello, senza essere attirati (e irretiti) nel campo
magnetico dell'estraneit, senza dover tracciare un confine tra ci che proprio e ci
che non lo , tra ci che ci appartiene e costituisce il fondo del nostro essere, e ci che
appare irrimediabilmente fuori di noi: l'altro, di cui non possiamo appropriarci o in
cui non possiamo riconoscerci. Le figure dell'estraneit (l'ospite, lo straniero, il nemico,
ma anche il santo, il visionario, il folle, lo schiavo, ecc.) hanno sempre occupato un
posto di rilievo nella riflessione filosofica (e, ancor pi, nella letteratura e nell'arte),
proprio in virt di una carica semantica tanto ambigua quanto potente, in cui repulsione
e seduzione, esclusione e accoglienza, differenza irriducibile e possibilit di
integrazione, costringono a ripensare il senso dell'identit (personale, comunitaria,
culturale) del soggetto, talora a riconfigurarne i tratti e ridisegnarne i confini. Tutto
questo, bene sottolinearlo, non avviene mai in maniera innocua o secondo uno schema
lineare; sia in ambito individuale che collettivo, l'esperienza dell'estraneo perturba e
inquieta, provoca tensioni e scatena conflitti, non si lascia cogliere genuinamente senza
generare un urto contro un sistema di attese e un ordine concettuale stabilito. Del resto
la filosofia, nell'atto stesso in cui si costituisce come ragione, ricerca di senso, ordine del
discorso, prende congedo dall'irrazionale, dal non-senso, dal disordine, e dunque sta fin
dall'origine sotto la provocazione e l'inquietudine dell'estraneo. In altre parole, la
filosofia ha la sua genesi nell'estraneo, da cui proviene e a cui resta consegnata, anche
quando occulta o dimentica questa provenienza essenziale e fa l'apologia della propria
purezza. Non ci sembra un caso che l'attuale rinascita dell'interesse per il tema
dell'estraneit, testimoniata da pubblicazioni e convegni (spesso di carattere
interdisciplinare), appaia strettamente connessa ad una pi marcata consapevolezza
della sfida permanente, e inevitabile, che l'irruzione dell'estraneo rappresenta non solo
per il pensiero, ma per la vita stessa di una comunit e di una tradizione culturale.
Naturalmente, una filosofia capace di interpretare il proprio tempo storico dovr farsi

carico, in qualche modo, di questa sfida, interrogando le cose stesse e rifuggendo le


risposte facili e consolatorie.
Da questo punto di vista, la pubblicazione in traduzione italiana della
Fenomenologia dell'estraneo di Bernhard Waldenfels, uno dei filosofi di orientamento
fenomenologico pi noti a livello internazionale, giunge quantomai opportuna. Da
almeno due decenni, infatti, Waldenfels dedica gli sforzi pi significativi della sua
riflessione teoretica all'esperienza dell'estraneo (Fremderfahrung), esplorandola in
tutte le dimensioni costitutive e cercando di rimanere scrupolosamente fedele ad un
imperativo di fondo, che poi una semplice specificazione del principio metodologico
cardinale dell'indagine fenomenologica, a partire da Husserl: pensare l'estraneo in
quanto estraneo, dove l'in quanto (rigorosamente declinato) rimanda all'esigenza di
salvaguardare il carattere di alterit radicale, di differenza irriducibile che si
accompagna ad ogni autentica esperienza di estraneit. In questo programma filosofico,
Waldenfels si avvale ovviamente del ricco contributo analitico della fenomenologia
novecentesca, soprattutto quella di area francese (Merleau-Ponty, Lvinas, Ricoeur,
Derrida), ma non bisogna sottacere gli aspetti pi originali della sua impostazione: per
la prima volta, non solo viene tentata una ricognizione integrale, sistematica del
fenomeno dell'estraneo (com' attestato, in particolare, dai quattro volumi di Studien
zur Phnomenologie des Fremden, pubblicati tra il 1997 e il 1999), spaziando dalla
teoria della percezione all'estetica, dalla letteratura all'etnologia, dalla linguistica alla
politica, ma la stessa questione dell'estraneo cessa di identificarsi con un ambito
parziale, per quanto importante, della fenomenologia per diventarne il nucleo tematico
centrale, il filo conduttore ineliminabile di ogni analisi fenomenologica dell'esperienza
umana. In altri termini, l'estraneit non un particolare contenuto dell'esperienza, ma
il suo carattere costitutivo; ci equivale ad affermare che siamo costantemente alla prese
con l'estraneo, siamo sempre soggetti al pungolo dell'estraneo (per utilizzare
un'espressione cara a Waldenfels), anche quando crediamo di essere semplicemente
presso di noi, a casa nostra, nell'intimit pi profonda e familiare del vissuto soggettivo.
L'estraneit abita il cuore del s e attraversa pervasivamente il campo dell'esperienza, a
tutti i livelli, sebbene con differenti accenti, sfumature, intensit. E dunque, la
fenomenologia che Waldenfels ci propone dovr percorrere interamente la ricca
compagine dell'estraneo, seguirne le articolazioni, dipanarne gli intrecci, analizzarne le
forme e le modalit di manifestazione, ma anche trovare un linguaggio in grado di dire
l'estraneo, senza tradirlo. L'ampiezza del disegno complessivo della fenomenologia

dell'estraneo richiede ovviamente uno studio a parte, per poterne apprezzare e valutare,
in maniera non superficiale, i singoli aspetti e le movenze specifiche; in ogni caso, il
volume che qui presentiamo offre, come recita il titolo originale tedesco (Grundmotive
einer Phnomenologie des Fremden), le linee fondamentali di questo progetto,
attraverso l'esplorazione di alcune costellazioni strutturali dell'estraneit e l'indicazione
dei nuovi compiti che attendono la riflessione filosofica su questo terreno. Al tempo
stesso, la disposizione dei capitoli in una sequenza che rispecchia, grosso modo, la
scansione temporale della ricerca di Waldenfels e la successione delle sue opere,
fornisce una sintesi chiara ed efficace dell'itinerario fenomenologico dell'autore. La
traduzione italiana di Ferdinando G. Menga, che ha anche curato una Postfazione, in
cui vengono tracciate a beneficio del lettore le coordinate generali per inoltrarsi in
questo complesso orizzonte di pensiero e coglierne la posizione peculiare nel panorama
filosofico

contemporaneo,

soprattutto

in

riferimento

alle

nuove

filosofie

dell'intersoggettivit, all'etica del discorso, all'ermeneutica.


Nel primo capitolo del volume (L'uomo come essere di confine), il fenomeno
dell'estraneo si profila in correlazione diretta con le nozioni di ordine e di confine. Se la
vita umana impossibile senza l'instaurazione di un ordine determinato, in cui si
collocano gli elementi dell'esperienza, e se ogni ordine presuppone dei confini, dei
limiti (per esempio nella forma di regole, prescrizioni, divieti, ecc.), l'estraneo si
manifesta come tale infrangendo un ordine stabilito e varcandone i confini: L'estraneo
un fenomeno di confine per eccellenza. Giunge da altrove, persino quando entra in
scena in casa propria e nel proprio mondo. Non c' nessun estraneo senza luoghi
dell'estraneo. Il peso che viene dato all'estraneit dipende perci dal modo in cui
costituito l'ordine in cui assume forma la nostra vita, la nostra esperienza, la nostra
lingua, il nostro fare e il nostro creare. Con il mutamento dell'ordine muta anche
l'estraneo, il quale tanto molteplice quanto lo sono gli ordini che travalica e da cui
devia (p. 18). Gi da queste prime battute traspare una caratteristica rilevante
dell'approccio fenomenologico di Waldenfels all'alterit, che lo differenzia in modo
piuttosto chiaro da quello di Lvinas e, a nostro avviso, gli conferisce un pi ampio
spettro di possibilit operative, evitando che l'appello che ci viene da altrove si
irrigidisca univocamente nel linguaggio della morale: l'estraneo, aristotelicamente, si
dice in molti modi, tanti quanti sono gli ordini che, con la sua irruzione, scompiglia e
pone in crisi. Di fatto, il discorso dell'estraneit caratterizzato da una irriducibile
polisemia, e quindi, fenomenologicamente, non ha senso parlare di un assolutamente

altro (di un Altro, per intenderci, con la maiuscola), ma occorre sempre di nuovo
indicare i luoghi (e gli eventi) concreti di produzione e di manifestazione dell'estraneo
stesso, nel cuore dell'esperienza. Non, dunque, una filosofia dell'Altro, ma una
topografia dell'estraneo. D'altro canto, per Waldenfels, ogni ordine umano si ritaglia
sullo sfondo di un'estraneit spaesante, perturbante che, anche quando viene
addomesticata e ricondotta entro saldi confini, non costituisce mai una semplice
privazione, ma opera dinamicamente come una sottrazione, un effetto abissale che fa
cogliere la nuda fattualit dell'ordine (e della ragione che lo istituisce), lasciandola priva
di una giustificazione, di un fondamento ulteriore: Ogni ordine ha il suo punto cieco
sotto forma di un disordine che non costituisce un mero deficit. Ci vale tanto per gli
ordini morali quanto per quelli cognitivi ed estetici [...] Ci sono ordinamenti, e questo
ci sono si sottrae a ogni tentativo di giustificazione, dato che in questi tentativi esso
gi presupposto. Per dirla in una lingua a noi pi familiare: il fatto della ragione non
esso stesso razionale (p. 26). Abitata dall'estraneo, cui deve rispondere senza poterne
eliminare l'appello pro-vocante, la ragione umana costretta a riconoscere la radicale
contingenza delle sue operazioni e del suo stesso processo giustificativo:
un'autofondazione logico-riflessiva della ragione impossibile, non solo perch le
strutture d'ordine sono essenzialmente molteplici e contingenti, ma perch, come
direbbe Husserl, l'Urfaktum, il fatto originario che vi sia ragione, senso, ordine (in
campo cognitivo, etico, estetico, politico, ecc.) non pu essere a sua volta delucidato
razionalmente, ma soltanto mostrato nella sua genesi. Qui, per, la distanza di
Waldenfels da qualsiasi forma di trascendentalismo, che converte la contingenza stessa
in condizione di possibilit, la finitezza in fondamento, appare del tutto chiara: Gli
ordini rendono possibile e impossibile qualcosa; tuttavia la fondazione degli ordini non
essa stessa resa possibile. Qui ci imbattiamo in un momento di fattuale incondizionatezza nel cuore dell'esperienza. Il radicalmente estraneo proprio ci che non
pu essere anticipato mediante nessuna aspettativa e nessuna condizione di possibilit
trans-soggettiva (pp. 33-34). Proprio perch l'estraneo, in questa accezione rigorosa,
tale radicalmente, e non solo provvisoriamente, ne deriva che la fenomenologia
dell'estraneo non pu, a nessun patto, definirsi una fenomenologia trascendentale;
l'estraneit, dice Waldenfels, comincia a casa nostra, la differenza, lo scarto originario
(e incolmabile) non tra l'io e gli altri, ma innanzitutto in se stessi, nel proprio tempo e
luogo, pertanto l'autoriferimento non collima mai con se stesso, [...] il luogo e il tempo
del discorso non coincidono mai con il luogo e il tempo di cui si parla (p. 34).

Il secondo capitolo (Tra pathos e risposta), muovendo dal fatto che l'estraneo
oltrepassa i confini dell'ordine a cui, di volta in volta, si riferisce, cerca di mostrare
come si configura una Fremd-erfahrung, come l'estraneo realizza, concretamente,
questo oltrepassamento. Inizialmente, nel definire i tratti caratterizzanti del suo
programma fenomenologico, Waldenfels si confronta con il tema obbligato di ogni
fenomenologia, ovvero l'intenzionalit, che com' noto si correla inscindibilmente con
la questione del senso: al di l delle sue possibili pieghe interpretative, l'intenzionalit
il senso di qualcosa in quanto qualcosa, la produzione stessa del significato. E,
affinando lo sguardo, in questa semplice definizione gi dato di scorgere la marca
della contingenza e, dunque, la traccia dell'estraneo: Che qualcosa appaia in quanto
qualcosa significa eo ipso che qualcosa appare cos e non piuttosto altrimenti. Ogni
senso che si dispiega come un complesso di rimandi secondo la teoria della forma
un senso preferito a un altro. Una pianta usata come erba officinale oppure gettata via
come erbaccia; un coltello serve come posata oppure come arma; un pagamento in
denaro valutato come una donazione o come tentativo di corruzione; uno straniero pu
essere trattato come un rifugiato in attesa di asilo politico o come un immigrato
clandestino. Come gi Nietzsche sottolinea, il senso sempre strettamente legato a un
prospettivismo ineliminabile e carico di tensioni. C' del senso, ma non un senso
soltanto; il senso si sviluppa a partire dallo sfondo del non-senso (p. 42). Da questi
rilievi fenomenologici, Waldenfels non trae alcuna conseguenza banalmente
relativistica o scettica, n insegue il fantasma di uno strato fenomenico del tutto privo di
senso

(che

sarebbe

assolutamente

inattingibile);

il

senso,

come

correlato

dell'intenzionalit, ha una sua presa cui non possibile sfuggire totalmente. Allora,
l'unico modo

di mettere in questione l'intenzionalit quello di partire

dall'intenzionalit stessa, interrogandosi su ci che la precede, sugli eventi che


generano il senso, per cui qualcosa non ha gi un senso per noi fin dal principio, ma lo
assume quando rispondiamo a un'affezione proveniente dall'estraneo. In proposito,
Waldenfels recupera la pregnanza del vecchio termine pathos per indicare quegli
eventi che non compaiono come qualcosa di cui si possa disporre a piacimento, come
se aspettassero semplicemente che qualcuno formuli una password o digiti un comando
su una tastiera, [...] che invece ci accadono, ci investono, ci sopraggiungono, ci
sorprendono, ci prendono alla sprovvista (p. 49). Originariamente, il soggetto non
dunque soggetto-di, ma piuttosto soggetto-a: la dimensione eventuale e patica
dell'esperienza ci rivela una soggettivit che si declina al dativo, prima che al

nominativo (Descartes e il soggetto moderno) o all'accusativo (Lvinas). Ma il pathos,


fa notare Waldenfels, non soltanto il pre-categoriale o il pre-intenzionale (la sintesi
passiva di cui parlava Husserl, che fornisce la base per le operazioni attive del giudizio e
ad esse appare indirizzata e subordinata), ma costituisce una forma radicale di passivit
originaria, che scaturisce dall'af-fezione e, perci, mette sempre in gioco qualcosa di
estraneo all'io, appunto come un'esperienza che si origina a partire da ci che le
accade. Questo conduce a un punto in cui compaiono eventi per i quali non si riescono
ad addurre condizioni di possibilit sufficienti (p. 55). Il pathos, come epifania
dell'estraneo, un evento puro, che sopraggiunge senza poter essere anticipato,
interrompendo la continuit del vissuto e provocando una sorta di cortocircuito
dell'attivit intenzionale, alla quale viene a mancare il riempimento: come tale, l'evento
non pu essere inquadrato in una forma gi nota o inserito in un contesto esplicativo.
Pur producendosi totalmente senza il nostro intervento, l'evento, proprio in quanto ci
colpisce, sorprende, strappa da noi stessi, suscitando meraviglia o paura, attrazione o
repulsione, non pu che presentarsi in forma di appello, di richiesta estranea che esige
una risposta. Al momento patico dell'esperienza dell'estraneo (o, meglio, del divenire
estranea dell'esperienza) si affianca quindi necessariamente quello responsivo: la
Fremderfahrung ha il suo tempo e il suo luogo tra pathos e risposta. Ora, la risposta
pu articolarsi in forme diverse e creative, ma non c' dubbio che nel fronteggiare
l'estraneit si innescano meccanismi di difesa che tendono a ripristinare o riformulare un
ordine, normalizzando (almeno provvisoriamente) ci che eccede ogni ordine e misura.
Del resto, ci che sconvolge un ordine vi si ricolloca comunque all'interno nel
momento stesso in cui viene nominato, classificato, datato, localizzato e sottoposto a
spiegazioni (p. 59). Non un caso che Waldenfels, per descrivere l'irruzione
dell'estraneo nel cuore dell'esperienza e le connesse strategie di normalizzazione, si
serva di una celebre pagina di Musil, l'incipit dell'Uomo senza qualit, che narra la
cronaca di un incidente stradale; con straordinaria lucidit fenomenologica, Musil
mostra come un episodio tragico, che in misura diversa coinvolge (e sconvolge) la vita
delle persone che ne sono parte, perda via via la sua carica di estraneit, la sua virulenza
emotiva, fino a trasformarsi in mero dato statistico, in evento normale e comune.
Peraltro, la normalizzazione presenta dei limiti strutturali e l'estraneo, anche quando
viene riportato dentro i binari del senso, non vi si riduce effettivamente.
Nel terzo capitolo (La risposta all'estraneo), il fuoco dell'analisi si concentra sulle
modalit di affrontare l'estraneo, delineando il profilo di una fenomenologia responsiva

che affonda le radici in una vera e propria logica della risposta. Qui, l'indagine assume
inevitabilmente una curvatura etica, ma in un senso pi profondo e originario della
filosofia morale. Mentre infatti quest'ultima si muove fin dall'inizio in un orizzonte di
valore o di diritto, che immediatamente piega la domanda etica nella direzione di
principi e norme dell'agire, la richiesta che risuona nell'estraneo si sottrae,
originariamente, all'alternativa tra bene e male, giusto e ingiusto. Dall'estraneo, quindi,
non proviene alcuna ingiunzione o comandamento, poich il suo linguaggio non
quello del valore, del dover essere, e la sua grammatica manifestativa lo colloca
essenzialmente al di qua del bene e del male. Siamo dunque di fronte ad un fenomeno
pi antico della responsabilit ed ci che Waldenfels denomina responsivit: La
responsivit sta per un rispondere che precorre irrevocabilmente la responsabilit per
ci che facciamo o diciamo. Qui si mostrano le tracce di un'altra fenomenologia, che
non prende dimora nel regno del senso e il cui logos rivela i tratti di un'originaria
eterologia. L'oltrepassamento di un senso costituito secondo intenzionalit o regola si
compie nel rispondere a una richiesta estranea, la quale n ha un senso, n obbedisce a
una regola, ma, al contrario, interrompe configurazioni consolidate di senso e regola,
facendone scaturire di nuove. Ci che rispondo deve il suo senso alla sfida posta da ci
a cui rispondo (p. 67). L'estraneo non ha, in se stesso, un senso o un fine, ma lo riceve
nel processo dell'esperienza, dai modi in cui rispondiamo alla sua sfida: il sapere e la
morale (e le filosofie fondazionali che ne riprendono il tema) trovano il loro punto cieco
in questa ineludibilit della richiesta estranea che precede la stessa distinzione tra fatto e
norma. Non si pu non rispondere, e non dare alcuna risposta gi una forma di
risposta: nella rete dell'estraneo siamo dunque impigliati prima di poter configurare un
impegno ontologico o morale, un discorso sull'essere e il valore. Secondo Waldenfels, il
campo della responsivit cos esteso e pervasivo che bisognerebbe farne il centro di
una ri-definizione dell'uomo e della vita umana: l'uomo quell'essere vivente capace di
risposte (ovviamente, questa definizione ha un senso solo se la richiesta estranea non
si intende limitatamente alla sfera degli atti linguistici, ma in tutta la gamma della
sensibilit: gli sguardi, i gesti, i movimenti corporei, ecc., ma possiamo anche pensare
alla meraviglia che si prova di fronte a un'opera d'arte, o al senso di sgomento che pu
sorgere quando si entra in una stanza oscura). Illustrando la dinamica del rapporto tra
richiesta e risposta, Waldenfels ne enuclea i momenti costitutivi: la singolarit, la
creativit, l'asimmetria, il ritardo. In particolare, colui che crede di incominciare
semplicemente da se stesso, non fa altro che ripetere ci che gi ed gi capace di

fare, perci non comincia affatto. Dare una risposta significa rinunciare ad avere la
prima e, quindi, anche l'ultima parola (p. 76). Ogni cominciare un ri-cominciare, non
esiste un presente che non rechi in s le tracce di un passato immemoriale (Derrida). Da
questo punto di vista, ogni autentica risposta all'estraneo creatrice di senso e di storia
(a livello individuale o sociale), ma la creativit possibile solo nella misura in cui
nessuna risposta (come tale) pu esaurire l'appello dell'estraneo da cui ha
(ri)cominciato: Noi inventiamo ci che rispondiamo, ma non ci a cui rispondiamo, n
tantomeno ci che conferisce peso al nostro parlare e al nostro agire (p. 78).
Il quarto capitolo (Esperienza corporea tra ipseit e alterit), forse il pi denso del
libro, dedicato ad un modulo classico dell'analisi fenomenologica e, pi in generale,
ad un problema centrale della riflessione filosofica moderna, a partire da Descartes:
quello della corporeit, qui considerato come via regia che conduce direttamente al
tema dell'estraneo. infatti riflettendo sull'enigma del corpo proprio (Leib) che si
scopre, attraverso un movimento paradossale ma richiesto dagli stessi dati
fenomenologici, un s radicalmente esposto al mondo e agli altri, permeato
dall'estraneit in tutti gli strati costitutivi della sua esperienza. Se Descartes, all'alba del
pensiero moderno, aveva percepito questo enigma, per poi dissolverlo rapidamente nella
scissione tra res cogitans e res extensa, tra soggettivit pensante e realt materiale, la
fenomenologia, da Husserl a Merleau-Ponty, ha mostrato con argomenti inoppugnabili
l'insostenibilit dello schema dualistico: il soggetto non solo ha un corpo, ma
corporeo (lo stesso Nietzsche, al quale si richiama pi volte Waldenfels, aveva
chiaramente formulato il compito di una filosofia concreta, sviluppata lungo il filo
conduttore del corpo). Fenomenologicamente parlando, l'esperienza corporea (o, se si
preferisce, la corporeit dell'esperienza) si estende ben oltre l'esperienza del corpo
proprio, rivelando quindi lo stesso grado di onnipresenza e pervasivit che caratterizza
l'estraneo, con il quale appare del resto intrecciata nel modo pi intimo. Ad ogni modo,
Waldenfels ci invita a saggiare la fecondit del filo conduttore corporeo ripensando alla
sua luce i tre grandi temi della fenomenologia: l'intenzionalit, l'autocoscienza,
l'intersoggettivit. Innanzitutto, se la costituzione intenzionale del senso riposa su
un'affezione originaria che ci lega all'orizzonte dell'estraneo, questa affezione sarebbe
impensabile se non fosse radicata nella nostra corporeit (in termini diversi: solo per
esseri incarnati, come noi siamo, possibile essere affetti da alcunch di estraneo): Il
dato di fatto che noi siamo affetti da ed esposti a qualcosa di estraneo all'io non dipende
n dal nostro sapere, n dalla nostra volont, dunque dalla cosiddetta coscienza, ma

rimanda al nostro corpo (p. 86). Per quanto riguarda il coglimento di se stessi,
l'autocoscienza, secondo una precisa tendenza della filosofia moderna (fenomenologia
compresa) essa viene acquisita tramite un atto identificante che prende il nome di
riflessione: una sorta di ritorno-a-s dell'io nella distanza-da-s, che per presenta
singolari tratti aporetici in quanto la distinzione tra l'io riflettente e l'io come oggetto o
tema della riflessione (il raddoppiamento del soggetto) sembrerebbe destinata a
sfociare in un regresso infinito, come hanno mostrato le minuziose analisi di Husserl su
questo terreno. Anche qui, partire dalla corporeit pu insegnarci qualcosa sugli aspetti
corporei della riflessione stessa e sul fatto che il s corporeo non pu mai essere
assimilato ad una cosa, ad un oggetto afferrabile direttamente. In realt, siamo affetti (il
che significa: colpiti, sorpresi, feriti...) non solo dal mondo e dagli altri, ma da noi
stessi: Noi vediamo, udiamo, tocchiamo e muoviamo noi stessi. La nostra corporeit
in tal modo riferita a se stessa [...]. In ogni attivit autoreferenziale abitano diverse
forme di autoaffezione. Quando vediamo il nostro volto allo specchio, udiamo la nostra
voce incisa su un nastro o tocchiamo un coltello affilato, noi sorprendiamo noi stessi.
Noi siamo imprigionati nella nostra propria immagine, veniamo sgomentati dalla nostra
propria voce, ci tagliamo nella nostra propria carne (p. 88). Il corpo proprio diventa,
per cos dire, una cassa di risonanza dell'estraneit, di cui moltiplica e potenzia gli
effetti nello stesso momento in cui permette il costituirsi elementare dell'identit, il
riferimento a s. evidente, in questi passaggi, la lezione di Merleau-Ponty
sull'ambiguit dell'essere-al-mondo: il s , come tale, fuori di s, e lo quindi non
solo nelle situazioni liminari o patologiche, ma nella pulsazione ordinaria della sua vita,
in quanto l'autoaffezione carnale e temporale che lo attraversa intimamente lo rende
parimenti incapace di coincidere con s. In altre parole, in quanto corporeo, il s
costitutivamente in ritardo su se stesso e l'unico modo che gli dato di vedere (o
sentire) se stesso quello di incrociarsi (ambiguamente) con l'estraneo, di riconoscere
un fondo di alterit nel suo stesso essere (si pensi, come semplice esempio, al
sopraggiungere della stanchezza, in cui il nostro corpo sembra improvvisamente
diventare un corpo estraneo). In questa prospettiva, Waldenfels indica una serie di
fenomeni in cui l'intreccio tra riferimento proprio e riferimento estraneo
particolarmente rilevante e la tradizionale distinzione tra soggetto e oggetto perde
consistenza descrittiva: l'immagine speculare, la voce, il movimento corporeo, la nascita
ecc. (per approfondire le tematiche della fenomenologia del s corporeo, rimandiamo
il lettore a B. Waldenfels, Das leibliche Selbst. Vorlesungen zur Phnomenologie des

Leibes, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2000). Infine, il tema dell'intersoggettivit. Se


l'estraneit al cuore di me stesso dischiude nuovi percorsi verso l'estraneit
dell'altro (p. 97), occorre anche in questo ambito seguire il filo conduttore del corpo,
nel

suo

potenziale

manifestativo,

sostituendo

la

figura

fenomenologica

dell'intersoggettivit con quella, pi duttile e insieme pi complessa, della


intercorporeit (come gi Merleau-Ponty aveva suggerito). Pur riconoscendo il debito
essenziale nei confronti di Husserl, Waldenfels gli rimprovera il persistere di un
atteggiamento cartesiano che, nell'approccio all'alterit, privilegia il momento della
coscienza e rivendica alla soggettivit propria un certo primato dal punto di vista del
metodo (l'altro, in Husserl, si rivela come alter ego). Inoltre, se Husserl ha colto
acutamente il paradosso che si annida nel concetto stesso di esperienza dell'estraneo,
la sua fenomenologia dell'Einfhlung rimane chiusa, per Waldenfels, nell'orizzonte del
comprendere e sembra trascurare che l'altro, ancor prima di essere compreso,
afferrato intuitivamente e cognitivamente, ci tocca, ci colpisce, nella varie modalit
emozionali ed esistenziali in cui questa affezione pu aver luogo: Noi ci sentiamo
toccati dagli altri prima di giungere a chiedere chi siano e cosa significhino le loro
esternazioni. L'estraneit dell'altro ci sopraff e ci sorprende, disturba le nostre
intenzioni prima che noi le comprendiamo in questo o quell'altro modo (p. 99). D'altra
parte,

vorremmo

osservare,

la

teoria

husserliana

dell'intersoggettivit

trascendentale (esplorata sistematicamente) non si riduce alla dimensione dell'empatia,


ma modula il tema dell'alterit in una polifonia fenomenologica che non solo include a
pieno titolo gli orizzonti emotivi e affettivi che contrassegnano l'incontro con la
soggettivit estranea, ma procede, per ampi tratti, nella stessa direzione auspicata da
Waldenfels sulla scia di Merleau-Ponty: In ultima istanza, la nostra esperienza
corporea e in carne e ossa testimone del fatto che io trovo l'altro e gli altri in me, come
anche me stesso in loro, prima ancora che ci si incontri vicendevolmente. Come
sottolinea Merleau-Ponty, gli altri appaiono in me e al mio fianco prima ancora di
starmi di fronte (pp. 103-104). E non bisogna dimenticare che Husserl, innestando la
corporeit o la carne (Leib) sul terreno del trascendentale, ha radicalmente
concretizzato e pluralizzato il soggetto dell'esperienza (l'io della filosofia moderna),
facendone esplodere le astratte configurazioni cartesiane, kantiane e neokantiane; non
un caso, ci sembra, che non poche filosofie dell'alterit, nel Novecento, risultino
addirittura impensabili senza il confronto (critico e/o decostruttivo) con l'eredit
fenomenologica husserliana. Genuinamente husserliana la polarit costitutiva

dell'essere corporeo come Leib e come Krper, che Waldenfels almeno in parte
recupera, in polemica con la filosofia della carne di Michel Henry o la nuova
fenomenologia di Hermann Schmitz, che sembrano dimenticare l'originaria fisicit del
corpo (il mio corpo non soltanto carne nel senso di vita invisibile, immanenza pura,
anche physis, apertura e appartenenza allo spazio-mondo): Per poter comprendere il
corpo in quanto corpo necessaria sempre una certa distanza [...] Il corpo puro in
quanto corpo (Leib) senza corpo fisico (Krper) rientra ancora nella giurisdizione del
cartesianesimo: sentio ergo sum (p. 91).
Il quinto capitolo (Soglie di attenzione), attraverso un'apparente deviazione, ci
introduce in uno dei nodi cruciali del discorso dell'estraneit. Da fenomeno ordinario e
tutto sommato trasparente, l'attenzione (Aufmerksamkeit) si rivela infatti, ad uno
sguardo fenomenologicamente pi lucido, percorsa dalla stessa ambivalenza che
caratterizza l'estraneo: essa si situa in quello spazio intermedio tra pathos e risposta in
cui si gioca, come abbiamo visto, il destino della soggettivit umana. Innanzitutto,
l'attenzione intesa nella forma attiva del prestare attenzione induce a riformulare la
domanda originaria su come il soggetto (questa istanza filosofica della modernit)
partecipa al movimento di manifestazione delle cose: Sembrerebbe che io debba fare
qualcosa affinch le cose, altri esseri viventi o altre persone possano comparire sulla
scena dell'esperienza. Ma qual il mio contributo? Che cosa aggiungo da parte mia? La
risposta sembrerebbe essere me stesso. E come avviene tutto ci? Forse si verifica nel
fatto che io accenda un qualche riflettore, oppure che sia io a offrire lo spunto affinch
qualcosa avvenga? (p. 108). Dopo aver brevemente esaminato la gamma semantica
dell'attenzione, nelle sue sfumature interne (dirigersi-verso, rivolgersi-a, ..., che
esprimono tutte una tensione essenziale dello spirito verso qualcosa o qualcuno, un
oggetto o un fine), Waldenfels rileva come nell'et moderna la riflessione filosofica
sull'attenzione sia rimasta impigliata in una serie di dualismi, i cui effetti
sull'impostazione del problema sono tuttora ben visibili: se in Descartes l'attenzione a
disposizione del cogito, una funzione della volont dell'io, chi vorr invece
sottolineare la passivit dei processi attenzionali tender ad evidenziarne sempre pi il
carattere istintivo e meccanico. Per uscire dalle strettoie in cui la tradizione lo ha
confinato, occorre restituire al fenomeno dell'attenzione tutta la sua complessit,
sottraendolo ai poli dell'alternativa tra soggetto e oggetto, spirito e natura, attivit e
passivit; questo possibile, per Waldenfels, tracciando le linee fondamentali di una
fenomenologia dell'attenzione. In particolare, non si pu cogliere il proprium

fenomenologico dell'attenzione senza ravvisarne, al tempo stesso, la singolare


prossimit (e coincidenza) con le forme di manifestazione dell'estraneo. L'attenzione
un evento e non un semplice atto soggettivo, ha delle soglie di attivazione che, se
oltrepassate, ci dischiudono il dominio dell'altro, nel suo magnetismo originario e
affettivamente carico (gi al livello della percezione sensibile): Il notare qualcosa si
manifesta come un accadere, del quale certamente siamo parte in causa, ma di cui non
siamo n i creatori n i legislatori. L'attenzione viene destata oppure si assopisce. Come
avviene anche quando ci svegliamo o ci addormentiamo, attraversiamo qui una soglia
che separa il familiare dall'estraneo, il visibile dall'invisibile, l'udibile dall'inaudito, ci
che si pu toccare con mano dall'intangibile. Quanto affiora al di l della soglia, quindi,
l dove non posso essere senza diventare un altro, si mostra come qualcosa di
affascinante,

terrorizzante,

stimolante

(pp.

116-117).

Sostanziando

l'analisi

fenomenologica con riferimenti puntuali e convincenti al testo filosofico e letterario


(Platone, Aristotele, Kafka, Calvino), Waldenfels prolunga la fenomenologia
dell'attenzione in una pi ampia prospettiva di ricerca (ben al di l della sfera
psicologica o cognitiva), definibile come ethos dei sensi. L'attenzione riposa sul
pluralismo delle forme sensibili (visive, tattili, acustiche, ecc.) ed appare soggetta a
trasformazioni qualitative che modificano il suo senso e il suo segno: si pu passare
da un'estrema concentrazione ad un'estrema distrazione, fino a sconfinare sul terreno
delle patologie psichiche (i disturbi dell'attenzione, le fobie legate alla percezione dello
spazio, ecc.), senza dimenticare il ruolo centrale che le soglie di attenzione rivestono
nell'ambito della pittura, della scultura e della musica. Se, inoltre, l'attenzione ha un
carattere essenzialmente selettivo, si impone una riflessione a tutto campo sulle tecniche
e le pratiche che affinano la sensibilit e consolidano l'attenzione, soprattutto alla luce
dell'enorme influenza esercitata oggi dai mezzi di comunicazione di massa (che altro
sono, questi ultimi, se non potenti, pervasivi strumenti per catturare e polarizzare
l'attenzione dei soggetti in una direzione o nell'altra? E come evitare i rischi di
un'attenzione eterodiretta, piegata inconsapevolmente alle immanenti logiche del
consumo e del potere?). Su questo terreno, l'attenzione acquista una peculiare risonanza
economico-politica, troppo spesso trascurata: La sfera politica e quella economica
fanno parte, cos, degli ingredienti dell'attenzione. Nessuna distribuzione equa delle
risorse e neanche nessuna regolamentazione consensuale possono rimuovere i conflitti
che ne risultano. Ci si pu aspettare una qualche forma di resistenza solo a partire

dall'attenzione stessa, da una attention sauvage che mantenga i tratti del non economico
e dell'anarchico e si caratterizzi come un sovrappi di attenzione donata (p. 127).
Nel capitolo conclusivo, l'indagine si apre all'orizzonte dell'estraneit culturale e, pi
precisamente, a ci che accade tra le culture, nello spazio della loro relazione concreta.
Si tratta forse della forma pi evidente e perturbante in cui ci dato incontrare
l'estraneo, cio attraverso il tono del tutto peculiare della differenza culturale. Ed un
tema, com' facile comprendere, di estremo interesse nella filosofia contemporanea, non
solo da un punto di vista strettamente teoretico e argomentativo, ma per le ovvie
ricadute nella sfera etico-politica. Waldenfels affronta quest'ultimo e decisivo tornante
della fenomenologia dell'estraneo polemizzando con gli approcci filosofici o etnologici
all'interculturalit che misconoscono un fatto tanto elementare quanto ineludibile:
ogni confronto tra culture non avviene nel neutro di una mera comparatistica (che si
limiti ad allineare le culture su uno stesso piano), o in un ipotetico orizzonte
metaculturale (in cui si pretenda di guardare le culture dall'esterno), ma sempre e solo
muovendo da una determinata cultura, da uno spazio culturalmente connotato, permeato
da simboli culturali. Il paragone con la lingua madre , sotto questo rispetto, istruttivo:
Ci che ha luogo fra diverse culture non si lascia ridurre al semplice fatto che ci sono
pi culture che esibiscono caratteri distintivi o pacchetti di caratteristiche enumerabili e
comparabili. Cos come ogni paragone linguistico prende le mosse dall'appartenenza a
una determinata lingua, allo stesso modo ogni paragone culturale procede da una
determinata cultura: oltre le culture non c' alcun luogo tale da consentirci uno sguardo
panoramico imparziale e illimitato (pp. 129-130). In altri termini, prendere sul serio
l'interculturalit significa riconoscerne fino in fondo il carattere di dimensione
intermedia, per cui l'incontro con la cultura estranea non pu essere ricondotto a ci che
proprio, a una natura comune, a una legge universale. E proprio per rispondere
adeguatamente alla sfida che la differenza culturale rappresenta per ogni prospettiva
universalizzante, Waldenfels sottolinea l'esigenza di pensare rigorosamente questa
Zwischensphre in cui ha luogo l'esperienza della cultura estranea: una terra di
nessuno, non nel senso utopico o vagamente metafisico del termine, ma intesa
fenomenologicamente come regione di confine, che collega e separa nello stesso tempo.
Si tratta soprattutto di comprendere che tra cultura propria e cultura estranea,
all'origine, c' una scissione e un'asimmetria radicale, per molti versi analoga a quella
che Husserl aveva stabilito tra mondo proprio e mondo estraneo, nelle sue analisi
fenomenologiche dell'intersoggettivit e della Lebenswelt: Una tale scissione non

esclude che si possa giungere a processi di pluralizzazione, di universalizzazione o di


globalizzazione; tuttavia questi processi presuppongono un'esperienza dell'estraneo alla
quale non potranno mai risalire. La cultura estranea, al pari della propria, pi di una
cultura tra le altre, pi di una cultura parziale o un campo d'azione per leggi universali.
Se questo plusvalore viene cancellato, allora ci poniamo sul piano inclinato di
un'appropriazione unilaterale dell'estraneo o di un livellamento delle differenze fra
proprio ed estraneo. E fino a oggi, di tali tentativi, nella nostra cultura occidentale, non
si certo registrata la mancanza (p. 131). E per raccogliere i frutti di una logica
dell'estraneit sul terreno interculturale, Waldenfels sviluppa un'articolata analisi del
termine estraneo, cogliendone innanzitutto la ricchezza semantica, la polisemia
all'interno di ciascun universo linguistico, individuando altres nell'assunzione del
luogo e nel tracciamento di confini (in altre parole: nel fenomeno topografico) il
nucleo strutturale di significato pi decisivo e dominante. E qui Waldenfels non manca
di rilevare con chiarezza una certa tendenza del pensiero occidentale a confondere
estraneit e alterit, per cui il tema dell'estraneo radicale occupa un posto tutto
sommato secondario nella riflessione filosofica, stemperandosi nel concetto (assai pi
rassicurante) dell'altro come diverso e nelle sue sottili implicazioni ontologiche e
dialettiche (da Platone a Hegel). Ma, per Waldenfels, la riduzione dell'altro a diverso
(forse anche la gadameriana fusione degli orizzonti e l'illimitata comunit di
comunicazione di cui parla la Diskursethik possono rientrare, almeno parzialmente, in
questo schema) significa n pi n meno che l'oblio o l'eclissi dell'estraneo come tale, il
suo ritrarsi in una penombra concettuale che nasconde ci che realmente in gioco: la
nascita dell'ordine (e del senso) da un extra-ordinario che sfugge ad ogni
categorizzazione e appropriazione preliminare, ad ogni forma di essere comune.
Finch si tengono chiusi gli occhi davanti a questa visione, si resta attaccati a una
estraneit relativa [non radicale], a una mera estraneit per noi [il proprio come altro
dell'altro], che fa riferimento ad uno stadio di previa appropriazione. Questa
appropriazione si pu attuare a livello politico, religioso, filosofico o, in generale,
culturale. Essa viene ottenuta al prezzo di un misconoscimento e di un violentamento di
quell'esperienza dell'estraneo, dalla quale prende avvio ogni azione di presa di
possesso (p. 138). D'altro canto, una concezione fenomenologica radicale
dell'estraneit, secondo la quale all'inizio c' la differenza, non deve impedirci di
cogliere, nel darsi stesso della differenza, la funzione originaria della relazione:
proprio ed estraneo, per quanto radicalmente separati, si richiamano in modo

necessario, non solo per un'astratta polarit logica, ma perch appaiono intessuti e
intrecciati l'uno nell'altro, come abbiamo visto, in ogni significativa esperienza
umana, sia a livello individuale che culturale. Riconoscere quindi che, tra il proprio e
l'estraneo, esclusa essenzialmente la possibilit di una piena coincidenza o fusione,
come pure quella di una totale differenza o disomogeneit di piani, equivale a dichiarare
impossibile un'estraneit assoluta, almeno se si vuole rimanere ancorati al terreno
fenomenologico ed evitare problematiche incursioni nel campo della metafisicoteologia. In un passaggio cruciale del suo percorso tra le culture, Waldenfels scrive:
In tal senso, nell'ambito interpersonale, cos come in quello interculturale, non si pu
parlare di estraneo assoluto o totale. Una lingua che ci fosse totalmente estranea non
potremmo nemmeno percepirla come lingua straniera. Le lingue presentano diverse
forme di affinit, e lo stesso vale per le culture. Tra esse ci sono forme di affinit
elettiva come anche di inimicizia elettiva. All'inizio non c' soltanto la differenza, bens
c' anche la mescolanza che smaschera il fantasma di ogni ideale di purezza familiare,
nazionale, razziale o culturale. A parte questo, il modo in cui epoche e culture si
distinguono tra loro dato da come esse trattano l'estraneo, da come gli concedono
accesso o lo respingono, da come lo inglobano oppure lo lasciano fare, dal fatto di
reagire all'estraneo con curiosit o con autosufficienza. Ci sono diversi stili d'estraneit
che non si lasciano ricondurre a un unico denominatore (pp. 139-140).
A parte l'indubbio interesse filosofico dell'assunto che la costruzione dell'identit di
un individuo, di un gruppo sociale o di una cultura la negazione stessa dell'idea
(fantastica, perch fenomenologicamente inesibibile) della purezza ed sempre il
prodotto complesso e instabile di una ibridazione, il riferimento a differenti stili di
estraneit, irriducibili a una matrice comune o a una medesima struttura di orizzonte (il
mondo, il linguaggio, la comunit, ecc.), ci sembra attestare ancora una volta l'obiettivo
di fondo della fenomenologia dell'estraneo. Da un lato, si tratta di salvaguardare la
polisemia dell'estraneo, percorrendo analiticamente i molteplici significati ed eventi
che gli sono connessi (e che ne costituiscono l'effettiva produzione nel cuore
dell'esperienza), senza pretendere di fondarlo, giustificarlo o ricondurlo ad un ordine
univoco e vincolante, e ravvisando invece la sua dynamis pi propria negli effetti destabilizzanti e de-strutturanti (come una sorta di contro-intenzionalit) che esso
riverbera su ogni forma di ordine e di senso gi costituita. Dall'altro, occorre sempre
tener

presente

(contro

le

ricorrenti

tentazioni

trascendental-normative

che

presuppongono o postulano un consenso universale dei soggetti almeno su alcune

strutture di base dell'esperienza, e contro l'idea di una continuit di fondo nelle peripezie
della coscienza storica o nella trasmissione epocale del senso) che l'estraneit non
una funzione generale che ci permette di anticipare i tratti costitutivi dell'esperienza
possibile, n un orizzonte gi dato e disponibile in cui situare ogni dinamica storica, ma
implica un divenire estranea dell'esperienza stessa: e questa esperienza sempre
caratterizzata anche da incertezza, minacciosit, incomprensione, e proprio questi sono
fattori distribuiti non in modo uniforme, ma a seconda di chi determina le regole del
gioco linguistiche e sociali, di chi ha in mano la parola (das Sagen hat) (p. 147). E
qui la fenomenologia dell'estraneo sembra muoversi in direzione di una rinnovata critica
sociale, sia a partire dalla consapevolezza che anche per gli ambiti culturali e
interculturali [...] esistono gli ordini, ma non esiste l'Ordine (p. 151), sia attraverso
l'analisi delle funzioni di mediazione tra proprio ed estraneo che il terzo, un terzo
soggetto, svolge nella costruzione, conservazione e dissoluzione di un ordine
determinato; in particolare, nessuno scambio interculturale pensabile senza tali
prestazioni di mediazione. Riguardo a questo, non affatto senza importanza da quale
cultura provengano i mediatori di turno o in che lingua ci si intenda. Traendo
liberamente da Marx, si pu dire che la lingua dominante per lo pi quella dei
dominatori, anche se questa si limita a una dominanza economica o culturale (p. 150).
Richiamandosi anche al Nietzsche di Su verit e menzogna in senso extramorale,
Waldenfels pu cos affermare che la funzione mediatrice del terzo consiste nel
rendere uguale ci che uguale non : l'apparizione del terzo (o, pi precisamente,
l'emergere di un'istanza terza, n solo propria n estranea) corrisponde all'adozione
di un punto di vista che, proprio in quanto non vuole essere parte in causa, ma super
partes, non prospettiva situata, ma visione panoramica, concepisce l'originariamente
estraneo come qualcosa o qualcuno (questo il lavoro dell'intenzionalit). Il terzo,
nelle sue figure e varianti, esibisce un orizzonte visivo generale (un pan-orama,
appunto) in cui la distanza incolmabile, l'asimmetria radicale che costituiva il marchio
di fabbrica della Fremderfahrung viene ridisegnata (topograficamente) in relazioni
contigue e simmetriche. l'origine dell'uguaglianza e della giustizia, che recano
impressa nella loro genesi la traccia dell'estraneo. Ogni ordine agisce in modo selettivo,
esclusivo e quindi contiene sempre in s un momento di ingiustizia e di violenza, che
l'indagine fenomenologico-genetica ci aiuta a rintracciare e comprendere. In questo
rendere uguale che sospende (con Husserl potremmo dire: pone tra parentesi)
l'inquietudine e lo scandalo di una differenza irriducibile ci sembra si possa rinvenire

non solo la genealogia della logica e della stessa razionalit occidentale, ma anche, in
un'ottica meno nietzscheana e pi costruttiva, la fisiologia di ogni costituzione di un
ordine sociale. In tal senso, Waldenfels non condanna gli ordini (contingenti) in nome
del libero e creativo fluire della vita, ma invita semmai a diffidare di ogni Ordine
(univocamente necessario) e a cogliere nel momento di contingenza che aderisce a tutte
le misure umane (e al logos stesso come principio di ragione) le condizioni di un
effettivo dialogo tra le culture: sfuggendo, certamente, alla tentazione del discorso
unico, dell'universalismo presuntuoso, senza tuttavia trasformare il pathos dell'estraneit
in un'apoteosi della differenza, in un etnocentrismo o esotismo generici, privi di
spessore teoretico e di sostanza storica. La questione dell'interculturalit, cos dibattuta
oggi, dovrebbe dunque ripartire da questa esigenza: Ci poniamo la domanda di come
possibile avere a che fare con l'estraneo senza derubarlo del suo pungolo; e inoltre ci
chiediamo come potrebbe configurarsi uno scambio interculturale che non vada a finire
in un'appropriazione unilaterale o universale (p. 154).
Nonostante alcune oscillazioni interne, ci sembra che il messaggio pi significativo
della proposta teoretica di Waldenfels sia da riscontrare non tanto in un primato
dell'estraneo, quanto in una forma di dialettica fenomenologica, tesa a riconfigurare i
nessi tra i grandi generi (il proprio l'estraneo) al di fuori di qualunque
schematismo trascendentale o orizzonte ontologico rigidamente fondativo: ci che
realmente conta e che d (paradossalmente) la misura dell'estraneit il dinamismo
dell'esperienza stessa, il suo divenire estranea, cos come non possibile
comprendere le dimensioni del proprio (il corpo, il tempo, il mondo) senza seguirne la
genesi dall'estraneo, la permanente solidariet con il suo appello. Da qui il taglio
pluralistico, dinamico e aperto della riflessione di Waldenfels sulle forme e gli eventi
della differenza, che nessuna teoria preliminare in grado di anticipare o di esaurire.
L'estraneo , per definizione, ci che ci sorprende e non cessa di sorprenderci: la
fenomenologia, gi con Husserl, ci ha insegnato che l'estraneit, il perturbante, si
nasconde persino nelle pieghe dell'esperienza quotidiana, nei suoi oggetti pi comuni e
marginali. C' da chiedersi tuttavia se l'esperienza dell'estraneo, concepita da
Waldenfels in modo cos estensivo da confondersi talvolta con l'esperienza tout court,
con il movimento dell'esperienza, riesca a conservare, intensivamente, il proprio
carattere inquietante ed enigmatico, com' nelle intenzioni dell'autore. Inoltre, davvero
scontato che un approccio fenomenologico di tipo trascendentale (non necessariamente
normativo) debba mancare l'autentica posta in gioco nel fenomeno e nell'evento

dell'estraneo? Il tema kantiano (e husserliano) delle condizioni di possibilit,


nonostante le ambiguit, le unilateralit e i sentieri interrotti che ne hanno caratterizzato
lo svolgimento nella filosofia moderna e che oggi ne rendono non proprio agevole la
ripresa e l'approfondimento, non appare facilmente eludibile in una teoria
dell'esperienza, come indirettamente testimonia il ritorno di interesse per Husserl anche
in settori della ricerca filosofica tradizionalmente lontani dalla fenomenologia europea.
Ma lasciando da parte la vexata quaestio del trascendentalismo, in una fenomenologia
dell'estraneo che non vuole essere mera descrizione, ma aspira a porsi come filosofia
dell'uomo, non occorre assumere (sia pure problematicamente) un'identit di senso
dell'umano, un plesso di condizioni minimali, irrinunciabili, che consentono di
riconoscere l'umano (e la sua dignit etica e ontologica) anche nelle figure pi
radicali dell'estraneit? E questa identit, se non pu pi essere pensata come
sostanza o principio definitorio, n come ideale regolativo gi disponibile e trasparente
nelle sue linee direttrici, non andr ripensata, al livello ontologico elementare, come
struttura di bisogno: socialit originaria, generativit, bisogno dell'altro che
costituiscono il movimento stesso della vita umana e il fondamento delle forme
culturali, dei diversi modi di abitare il mondo e sedimentare il senso? La domanda di
senso, di cui la filosofia si fa interprete, non prende forma soltanto per un essere
strutturalmente interpellato dall'estraneo per eccellenza, dal mistero del tempo e della
morte, sul quale nessuno (come direbbe Waldenfels) pu avere la prima o l'ultima
parola?

Dialegesthai (2009)

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