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Biblioteca richiedente:

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Data richiesta:

20/04/2015 10:03:58

Biblioteca fornitrice:

Biblioteca del Dipartimento di Storia Culture Civilt - Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico

Data evasione:

21/04/2015 13:48:19

Titolo rivista/libro:

Rinascita

Titolo articolo/sezione:

La lingua del moderno (L'eredit culturale di Gramsci e Leopardi. Lo "Zibaldone" e i "Quaderni del carcere" come modelli di pensiero antidogmati
intellettuale e civile italiana)

Autore/i:

GENSINI

ISSN:

0035-5380

DOI:
Anno:

1987

Volume:

34

Fascicolo:

5 settembre

Editore:
Pag. iniziale:

28

Pag. finale:

29

. p. 28

cita sabato 5 settembre 1987 o. 34

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L'eredit culturale di Gramsci e Leopardi. Lo ''Zibaldone''


e i ''Quaderni del carcere'' come modelli di pensiero
antidogmatico nella tradizione intellettuale e civile italiana

La lingua
del Inoderno
Il posto centrale della questione linguistica segna una peculiare convergenza nella riflessione dei due
autori. Un'alta tensione problematica che si afferma infasi storiche percorse da una forte crisi economica
e ideologica. Dalle considerazioni sui limiti della Rivoluzione francese ai ragionamenti sul fascismo e
l'Europa degli anni Trenta. Tra spiritualismo cattolico, idealismo e marxismo volgare, il possibile profilo
di una via di uscita laica. La questione nazionale e le osservazioni sui Costumi degli italiani
di STEFANO GENSINI

Molto acutamente, nella relazione che ha


aperto, a Napoli, le celebrazioni leopardiane (vedila, intanto, ne l'Unit del 19 luglio 1987),
Cesare Luporini utilizza la nozione di movimento
per cogliere l'unit profonda del pensiero di Giacomo Leopardi. Se comprendiamo bene, e a rischio di
forzare un poco la preziosa indicazione luporiniana,
al di l dei singoli temi o contenuti, pure della massima rilevanza, che lo Zibaldone offre ai suoi frequentatori, senza innalzare barriere (e spesso senza alcuna soluzione di continuit) fra antropologia sociale e
problema dello stile, fra conflitto natura/ragione e
situazione culturale dei maggiori paesi dell'Occidente, fra analisi della condizione umana e critica impietosa del presente, la ragione pi interna della
coerenza di quel testo andrebbe ricercata nella attitudine a porsi in senso trasversale rispetto ai singoli
argomenti e discipline. La sua unit risiederebbe
nell'ottica problematica che consente di istituire,
passo dopo passo, momenti complessivi di riflessione, senza d'altro canto mai dichiarare esaurito (et
pour cause) l'oggetto della riflessione medesima. Se
questa chiave di lettura ha un senso, si spiega in via
analitica la diffusa osservazione che il grande diario
leopardiano includa, in potenza, numerosi libri mai
stesi, e insieme ci d un motivo per cui esso chieda
d'essere attraversato e gustato nella sua coerenza
testuale d'insieme, anzich tramite segmentazioni
contenutistico-disciplinari; desideri percorsi, itinerari mentali, piuttosto che ritagliamenti oggettuali.
Se, in tempo d'anniversari congiunti, lecito e
utile riavvicinare due grandi componenti della tradizione intellettuale italiana, come Leopardi e Gramsci, si pu forse avanzare l'ipotesi che sia proprio
nella natura dinamica e sperimentale dei rispettivi
procedimenti di pensiero, nella loro trasversalit,
abbiam detto, una ragione non estrinseca di confronto e di raccordo. Certo, diversissimi sono i contesti
storici di riferimento; diversissime le esperienze e i
bisogni che innescano i due testi: ma non si sfugge
all'impressione che Zibaldone e Quaderni del carcere resistano nella nostra cultura, a rivendichino ostinatamente la propria necessit, in un'ideale biblioteca del moderno, grazie appunto a un modo di costruire il discorso, a un'epistme profondamente
consona ai caratteri di apertura formale oggi attivi
in ogni processo intellettuale che si ponga come alternativo al pensiero dogmatico. E semmai andr
rilevato come in entrambi gli autori questo modello
di ricerca si formi nell'attrito con fasi storiche contrassegnate da profonde crisi di politiche e di sistemi
ideologici: da una parte la Restaurazione, con l'esau-

rirsi dell'esperienza giacobina e l'involversi dell'illuminismo; dall'altra il fascismo, con la sconfitta della
rivoluzione in Occidente e l'imponente riassetto dello Stato capitalistico nell'Europa degli anni trenta.
2. Credo che la bibliografia accumulatasi, negli
ultimi anni, su Gramsci e Leopardi, possa fornire
ampia prova delle affermazioni appena fatte. Un
terreno certo privilegiato per condurre l'indagine,
ma finora poco calcato dalla critica (che ha preferito
condurre il raffronto sugli espliciti apprezzamenti di
Leopardi da parte di Gramsci) (1), offerto dalla
questione linguistica: questione, appunto, nella sua
determinatezza storica, e ottica, nella sua generalit
tecnica, quanto mai conformi a quel procedimento
movimentale, trasversale del pensiero di cui andiamo ricercando i segni. Ma se per Leopardi, da una
decina d'anni in qua, divenuto pi facile far operare ermeneuticamente il peso dell'occhiale-linguaggio (2), il ruolo che la linguistica ebbe nella formazione e nella genesi delle centrali categorie teoricopolitiche di Gramsci stenta a entrare nel circuito
delle ricostruzioni critiche complessive. Da questo
punto di vista, ha avuto ragione Franco Lo Piparo
(cui si deve il pi ampio e compiuto studio sull'argomento), di richiamare ultimamente, con una comprensibile vis polemica, il persistente confinamento
specialistico subto da una fetta consistente del
lavoro gramsciano, a partire dal fondamentale Quaderno 29 (3).
Pure, sia in Gramsci sia in Leopardi, l'osservatorio formato dal linguaggio e dalle lingue attraversa
e mette in moto il complesso della materia fatta
oggetto di riflessione, come facile vedere, anche in
rapidissima sintesi.
In Leopardi, la facolt di linguaggio vista come
uno dei canoni costitutivi della natura umana e le
lingue che ne derivano, nelle singole comunit sociali, accompagnano e si dialettizzano con l'instabile
equili;.,rio fra natura e ragione attuantesi nelle epoche storiche. Posta, con Leibniz, Locke e gli idologues, la funzione condizionante della parola sul pensiero (cfr. Zib. 1053-54, 1657 ecc.), e posto, all'inverso, l'influsso che l'insieme dei rapporti materiali di
una societ esercita sul linguaggio (cfr. ad es. Zib.
1215), le lingue esibiranno volta a volta, fin dentro le
loro strutture formali, il livello di libert immaginativa ed espressiva proprio di ciascuna civilt, ovvero
la cogenza della societ, con i suoi vincoli politici,
economici, culturali, sugli spazi di originalit consentiti allo scrittore, ma anche al singolo parlante.
Grazie a questo schema concettuale, l'ottica linguistica diviene in Leopardi un c<termometro sensibilissimo, capace di unificare il sottile rilievo glottologico e l'osservazione macrostorica, per articolare la
ricerca intorno alle due grandi Costanti indicate da
Luporini nel testo citato: la condizione umana in generale e l'epoca di crisi in cui gli tocc vivere. Delu-

sione storica e analisi dei limiti interni della Rivolo

zione francese (che aveva in fin dei conti portato-a


una crescente geometrizzazione della cultura e del
tuono sociale), critica della contraddizione antropologica inerente all'uomo e utilizzo dell'antinomia
ragione-natura come chiave per esplorare la fenomenologia di quella contraddizione, tutte le pi note
formulazioni leopardiane si intridono di dati lingui
stici e mettono capo a una domanda, insieme filosofica e sociale, circa le condizioni di un pieno recupero di humanitas che coincide con la piena estrinseca
zione di facolt espressive: una lingua appropriata
alle idee moderne, ma che serbi naturalezza; una
lingua che attinga alla conversazione, ma non
smarrisca la sua indole popolare; una lingua che
coniughi il momento francese della comunicazione
sociale con il momento italiano della variet e li
bert dei registri e degli stili.
Ecco dunque un caso di quel procedere problemi
CO del pensiero, in cui l'ottica assunta consente !'il
luminazione della totalit, ma insieme non la esauri
sce e necessariamente rimanda ad altre ottiche,
chiede d'essere integrata con queste. La linguistica
leopardiana non forse che il pi nitido degli itinera
ri possibili per rappresentare questa forma, questa
metodologia del ragionamento.
3. In Gramsci il linguaggio si presenta, dagli scritti
giovanili in cui si risente pi dappresso la lezione di
Bartoli, alle famose lettere a Tania del 19 marzo
1927 e del 17 novembre 1930, fino ai Quaderni, come
chiave d'accesso al nesso di problemi che forma
l'orizzonte della sua investigazione storico-politica e
della sua prospettiva presente. Scompare in Gram
sci ogni implicazione metafisica del tema linguisti
co, mentre ne viene appieno sviluppata la portata
cognitiva filosofico-sociale. Quel tema deve essere
posto tecnicamente in primo piano, una volta che
la filosofia superi la sua separatezza specialistica e
si riqualifichi come operosit collettiva, intellettua
le e materiale, tesa a trasformare il mondo (cfr. Q.,
pag. 1330 dell'ed. Gerratana). , dunque, per un ver
so un'ottica ermeneutica necessaria per far risaltare
nodi decisivi del rapporto dirigenti-diretti, filosofia
senso comune; per un altro verso, una frontiera da
attraversare per impadroaj_rsi della logica di quel
rapporto, per modificarlo, per attivare un proccesso
egemonico. Il linguaggio , in s, nome collettivo,
utilizzabile per caratterizzare la fisionomia culturale di un individuo come per alludere a una totalit
sociale. Ma, una volta speso nel circuito di una filosofia della prassi, esso evolve a categoria filosofica e
politica per designare il processo di formazione del
conformismo linguistico nazionale unitario (Q.,
2343); illustra come le grammatiche spontanee oimmanenti che operano nei singoli individui o gruppi
sociali possono convergere verso una grammatica
normativa tesa alla realizzazione di un clima culto-

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morale. In sostanza, la quistione della lingua serve
a Gramsci per riscrivere la storia non nazionale popolare degli intellettuali italiani e per prospettare,
con forte attenzione agli strumenti anche tecnici
dell'operazione, la riconversione di quel ceto cosmopolita nella leva di un inedito intreccio fra masse
popolari e Stato: la quistione della lingua dunque
appieno (per dirla con Lo Piparo) metafora sociale,
si innesta tecnicamente ai poli principali dell'ideario gramsciano (intellettuali-egemonia-societ civile-societ politica-Stato-senso comune-filosofia,
ecc.) e ne esprime, da ogni angolo visuale, il funzionamento interattivo. Si ripresenta quella condizione
trasversale del ragionamento che forma l'asse della nostra proposta interpretativa.
4. La convergenza <<epistemica che l'ottica linguistica permette di cogliere tra lo Zibaldone e i Quaderni si rafforza se dalla considerazione generale del
meccanismo del linguaggio passiamo alla discussione concreta del Caso italiano, come Leopardi e
Gramsci l'hanno esaminato nei loro scritti. Fra le
citate lettere a Tania e un fondamentale passo del
Quaderno 21 (del 1934-35), il nesso gramsciano si
stringe intorno a una serie di nuclei problematici: i
caratteri dello spirito pubblico italiano, con l'idea
della tradizionale separatezza degli intellettuali; la
non popolarit della letteratura (secondo lo slogan di
Ruggero Bonghi); l'assenza di un teatro nazionale; la
questione della lingua da Manzoni in poi, ecc.
Chi si dia a percorrere il diario di Leopardi, tenendo d'occhio le tessere di tale intreccio, vedr, passo
dopo passo, grosso modo fra l'autunno del 1821 e il
1823-24, ricomporsi il mosaico. Leopardi gioca l'opposizione politico-linguistico-culturale dell'Italia e
della Francia sull'assenza, nel nostro paese, di una
capitale che esprima una norma di costume, di tuono sociale e di linguaggio; sull'inesistenza di una
societ stretta a livello delle classi dirigenti che
consenta una vera conversazione fra le citt e fra
i ceti; sulla Separazione degli affari politici e istituzionali rispetto al popolo e alla nazione, sul muro
levatosi a partire dal Seicento fra i letterati e il
popolo; sulla carenza di societ civile (cos in Zib.
2129) che vieta un reale rapporto fra lingua parlata
e lingua scritta. E, nell'ancora poco studiato Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani, solitamente attribuito al 1824, Leopardi fissa i tratti di
un nodo concettuale che i lettori di Gramsci e, prima
ancora, di Graziadio Isaia Ascoli, non potranno non
sentire familiare: Lascio stare che la nazione non
avendo centro, non havvi veramente un pubblico italiano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e
quella della letteratura nazionale moderna, la quale
presso l'altre nazioni, massime in questi ultimi tempi, un grandissimo mezzo di conformit di opinioni,
di gusti, costumi, maniere, caratteri individuali, non
solo dentro i limiti della nazione stessa, ma tra pi
nazioni eziandio rispettivamente [...]. Ma lasciando
tutte queste e quelle (sci/. cagioni), e ristringendosi
alla sola mancanza di societ, questa opera naturalmente che in Italia non havvi una maniera, un tuono
italiano determinato(...]. Ciascuna citt italiana non
solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da s.
Ciascuno dei termini leopardiani, come del resto
quelli utilizzati dal grande linguista goriziano Ascoli
in una fonte riconosciuta di Gramsci, il Proemio
all'Archivio glottologico italiano del 1873, sembrano
preludere alle categorie concettuali della teoria dell'egemonia dei Quaderni, ove beninteso ciascun lemma (societ civile, nazione-popolo, conformit linguistic, ecc.) torner risemantizzato in un'ottica
complessiva squisitamente politica (nel senso assai
ampio e articolato che questa parola ha per il fondatore del Pci). Non si sfugge comunque a un paio di
interrogativi di fondo: come si spiegano tali convergenze di analisi e persino di terminologia? In che
misura esse possono raccordare e unificare, senza
forzature, pensieri e progetti intellettuali cos distanti nel tempo e cos diversamente atteggiati nella
societ?
5. Secondo chi scrive pi che ragioni filologiche
(del resto non facilmente adducibili, almeno per il
periodo del carcere) (4), occorre invocare, a spiegare
le assonanze tra i due testi, una ben pi lunga e
diversificata catena di pensiero, di cui sia Gramsci
sia Leopardi, e in piena indipendenza, furono insieme tributari e partecipi. Alludo a quella trama ricchissima di riflessioni che da Dante al Settecento,
con Muratori, Genovesi e Algarotti, con Beccaria e
Baretti e Denina, per giungere al secolo seguente,
con Foscolo e Manzoni, con Cattaneo e Tenca e Ascoli, aveva nei secoli definito in modo inequivoco lo
specifico del caso italiano: fin dal De vulgari eloquentia i nodi critici di quel caso - l'assenza di
un'aula politico-statale e la conseguente disgrega-

o. 34 sabato 5 settembre 1987 Rinascita p. 29


zione del ceto intellettuale - erano stati messi in
viva luce; e in ogni fase della questione della lingua,
come del resto Gramsci riafferma lucidamente, si
era riproposto con energia il problema di identit
delle classi colte, si erano riaffacciate le incognite
della loro collocazione rispetto alle popolazioni minute come rispetto al potere politico, agli strumenti
istituzionali della comunicazione e della cultura.
Sarebbe facile (e in parte stato fatto, nelle ricerche degli ultimi anni) allineare le concordanze di
questo coro intellettuale: che si dispone, vale la pena
aggiungere, a dare corposit e immagine a una vera
e propria linea di riflessione filosofico-linguistica
italiana, in cui il ragionamento sulle dinamiche generali delle lingue (il meccanismo semantico, il fondamento sociale e storico, la dialettica di conservazione e innovazione permanente in ogni assetto comunicativo) si intreccia a fondo con un'impietosa
diagnosi della dislocazione del nostro paese in Europa, della frattura fra scritto e parlato, della separatezza endemica degli intellettuali, delle difficili prospettive di riconversione politica dello strumento
linguistico. Di questa linea Leopardi e Gramsci sono
parte integrante, cos come molti altri che hanno
incontrato il tema linguistico in forme non professionali, ma, forse proprio per ci, fecondamente critiche, e ne hanno fatto una specola decisiva per la
propria ricerca. Non un caso se le correnti storiche
della linguistica (viziate spesso da un resistente limite di accademismo) hanno ignorato figure del genere, limitando la portata della scuola italiana alla
diatriba linguistico-letteraria aperta da Bembo e soprattutto senza valorizzare la portata precisamente
filosofica del pensiero non solo di Gramsci e Leopardi, ma di Vico e Genovesi e tanti altri in fatto di
lingue e linguaggi.
Non neanche un caso se, con imbarazzo di qualcuno, Tullio De Mauro ha potuto a buona ragione
concludere che lo specifico di questa corrente di pensiero sta proprio nella sua vocazione a intrecciare
l'ottica linguistica con quella civile e politica (5), a
esibire i livelli necessari di intersezione che, al solito, attraversano le discipline e ne rimodellano gli
oggetti senza lasciarsene intieramente assorbire.
In questo quadro, far notare gli aspetti di continuit e oggettiva convergenza tra personaggi certamente distanti, come Leopardi e Gramsci, non dovrebbe - crediamo - indurre a paventare forzate
gramscizzazioni, che sarebbero poi motivate da
gretti interessi di parte, anzi di partito (comunista),
di intellettuali europei e tragici come il recanatese. questa la critica che ci muove Antonio Negri in
un libro recente, Lenta ginestra (Sugarco, Milano
1987), peraltro interessante e disposto a comprendere il carattere non settoriale ma teorico-complessivo della riflessione linguistica in Leopardi. Ben al
contrario di quanto (con accenti un po' velenosi) scrive il Negri, l'intento esattamente quello di rilevare
la portata autonomamente critica della concezione
linguistica di Leopardi (e altrettanto si potrebbe fare
con Dante, con Manzoni o, poniamo, Pasolini!) nel
quadro di un filo di pensiero plurisecolare. Su questa
linea d'uso della questione della lingua come rivelatrice dei nodi storici della cultura italiana, con buona
pace del Negri, si colloca, con una personalissima
capacit di torsione teorica, anche Antonio Gramsci.
Piuttosto, chi oggi di Gramsci voglia raccogliere l'eredit, deve porsi il problema di capire quanto della
sua lezione sia stato tralasciato ad esempio relativamente al ruolo ((di primo piano che, volendo trasformare una societ, occorre riservare alla questione
linguistica.
6. Avendo lavorato fin qui sulle analogie del ((movimento di pensiero che si esercita nello Zibaldone e
nei Quaderni, sar necessario indicare il punto in cui
i percorsi cominciano a dividersi. Come stato ampiamente illustrato dal Carpi, Leopardi costruisce la
sua analisi della situazione italiana in margine al
sofferto rapporto con la cultura borghese del suo
tempo, e in particolare con l'offerta di integrazione
professionale fattagli dal Vieusseux. Ma mentre questi tende a impegnare il lavoro intellettuale sui limiti storici della cultura nazionale per dare loro soluzioni organizzative e strumentali, Leopardi (che pure lucidamente disvela quei limiti) mira a ricercare,
nella societ nuova che emerge, gli spazi e le condizioni della originalit e libert linguistica. Certo,
nulla di populistico in Giacomo (basti pensare allo
scarsissimo interesse per i dialetti), nessuna concessione a scorciatoie fra intendenti e popolo; ma
insieme, ed pur sempre questo un passaggio da
valorizzare, la percezione del rischio di omologazione culturale e linguistica (uniformazione, schiavit,
geometrizzazione, com'egli si esprime) connesso all'affermarsi della forma borghese (aggiungerei: moderato-borghese) di organizzazione sociale. Di qui la

sua insistenza sulla Variet del linguaggio, nel tempo e nello spazio, nella disponibilit stilistica dello
scrittore come nella immaginativit e metaforicit
espressiva delle lingue comuni: un'insistenza che non
pu non tornare di grande attualit (indipendentemente dal Leopardi storico) in un'epoca in cui nel
concreto si pone la necessit di salvaguardare la
gamma straordinaria di individualit storiche e linguistiche aggredite dalla moderna societ tardo- o
post-industriale.
All'altro polo, almeno come direzione di pensiero,
Gramsci: il cui modello di conformazione linguistica muove permanentemente, nella fase matura, dallo spontaneo per giungere al cosciente, dal molteplice per giungere all'unit, dalla grammatica immanente per giungere a quella normativa, intesa come
atto di politica culturale. C' anzi probabilmente
da registrare un'evoluzione, uno spostamento d'accento, fra il Gramsci giovane, antimanzoniano e filopascoliano, tutto proteso sulla poliedricit della societ civile, e il Gramsci dei Quaderni, in cui il problema linguistico si riscrive al livello dello Stato e
l'obiettivo della riforma intellettuale di massa suggerisce di studiare i tramiti di una convergenza tra i
processi spontanei del sociale e l'intervento pedagogico ed egemonico del partito o della societ politica
nel suo insieme. E anche in Gramsci, come in Leopardi, con una pi netta sottolineatura politico-culturale, si avvertono una valutazione limitativa dello
spazio del dialetto e una sfiducia verso una possibile
autonomia delle forme espressive popolari che,
mentre risultano perfettamente omogenee al suo
schema teorico, rischiano di attagliarsi con difficolt allo specifico del caso italianoi>.
Chi si proponga di ripensare in termini attuali questi due modelli teorici o loro singole parti li trover
probabilmente diversamente disponibili alle domande dell'oggi. Ci si spiega, e non deve, a mio avviso,
costituire un problema. L'importante che il prelievo, comunque fatto, sia attento alla complessit e
all'unit delle forme di pensiero in cui ogni singola
affermazione si colloc.
In tal senso, non credo sia utile, come a proposito
di Gramsci propone l'amico Lo Piparo, cercare di
liberare la sua formazione liberal-linguistica dalla
superficialissima crosta marxista (6). Mi pare (restando ai termini di un noto saggio di Badaloni) che
non si apprezzi Gramsci senza capire la ((sintesi delle
fonti ch'egli cerc, angolandola attraverso una prospettiva genialmente trasversale, tutta mirata al
compito politico di lungo periodo che gli stava di
fronte, in cui non a caso la componente linguistica
trova ampi spazi di fungibilit. Semmai, tutto da
valorizzare un marxismo che, nel contesto di una
durissima crisi strategica, interna e internazionale,
si ri-forma rendendo operanti e reciprocamente integrabili ottiche problemiche diverse, solo misurabili sulla analisi della realt e sulla possibilit di intervenire efficacemente in essa.
Il discorso potrebbe ripetersi, a maggior ragione,
per Leopardi: ogni attualizzazione spiccia, ogni unidirezionale enfatizzazione tematica (oggi di moda
quella francofortese) sarebbe riduttiva di quella
capacit di investimento globale, pervasivo, delle
tematiche che si regge sull'ipotesi conoscitiva, sul
segno unitario e trasversale del suo pensiero, maturato anch'esso in un tempo di crisi, dinanzi allo scacco dell'illuminismo e alla sclerosi aggressiva dei modelli culturali aristocratico-feudali.
Si trattava, in entrambi i casi, di trovare una via
d'uscita da modi diversi di pensiero dogmatico: quello cattolico-spiritualista (ma anche astrattamente
razionalista) nel caso di Leopardi; quello idealista e
marxistico-volgare nel caso di Gramsci; una via d'uscita laica da forme forti di filosofia, senza tentazione alcuna di cedimenti irrazionalistici.

(I) Vedi soprattutto U. Carpi, fl poeta e la politica. Leopardi, Belli, Montale, Liguori, Napoli 1978, pp. 261 segg. e
S. Timpanaro, Antileopardiani e neomodera ti nella sinistra italiana, ETS, Pisa 1982, pp. 287 segg.
(2) Per un quadro, anche bibliografico, d'insieme mi
permetto di rimandare alla mia Linguistica leopardiana, Il
Mulino, Bologna 1984, spec. pp. 13 segg.
(3) Vedi lo scritto Studio del linguaggio e teoria gramsciana, in Critica marxista, 25, 1987, 2-3, pp. 167 segg. Le
tesi del Lo Piparo sono esposte e ampiamente documentate in Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci, pref. di T.
De Mauro, Laterza, Bari 1979.
(4) Cfr. Timpanaro, op. cit., p. 288.
(5) In Idee e ricerche linguistiche nella cultura italiana,
Il Mulino, Bologna 1980, spec. pp. 5-25.
(6) S tudio del linguaggio, cit., p. 175.

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