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Il jazz come Grande Altro della musica

occidentale
Pubblicato: 29-01-2007

Giorgio Rimondi

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La scena madre
In un certo senso, tutto inizia con Solone. Nella seconda parte del prologo
drammaturgico del Timeo si racconta infatti la storia del famoso legislatore,
che dopo aver redatto la costituzione per gli ateniesi si reca in Egitto per
incontrare i sacerdoti dell'antica citt di Sais. Curioso di carpirne i segreti,
volutamente provoca la loro reticenza raccontando in modi fantasiosi
dell'origine del mondo e delle genealogie degli uomini. Come previsto, uno dei
sacerdoti finisce per rivolgergli un sorriso di compatimento, passando a
spiegargli come l'origine del mondo non stia nelle ingenue storie da lui
raccontate, ma si trovi iscritta nelle pareti e nelle colonne dei templi di Sais.
Le conoscenze dei greci sarebbero
dunque ben poca cosa, simili alle favole
per fanciulli, se rapportate alla sapienza
egizia.
La vicenda serve a Platone per
introdurre la propria cosmologia e,
soprattutto, per rovesciare il discorso
del sacerdote, mostrando come i greci si
pongano al di fuori dell'antica tradizione
sapienziale, collegata all'oralit e
supportata da un codice di incerta o
equivoca decifrazione: le immagini dipinte e i geroglifici. Con l'invenzione
della filosofia essi infatti affidano la trasmissione del sapere a un medium del
tutto nuovo: la scrittura alfabetica. Ci determina una cesura destinata a
mutare il corso della storia, ancorch lo stesso Platone affermi che il primato
della dialettica implica la superiorit del discorso orale sul discorso scritto,
che la scrittura solo una mnemotecnica, e che ogni testo rimane sterile
finch non risuona in una voce. E nonostante egli sostenga di aver affidato la
parte pi importante del proprio messaggio alla voce di quelli che Aristotele
avrebbe poi chiamato gli agrapha dogmata, gli insegnamenti non scritti.
Poich, di fatto, da allora in poi la filosofia verr considerata come la
manifestazione esclusiva di una ragione grafica, ovvero di un logos che
progressivamente svaluta la dimensione della comunicazione orale in quanto
incapace di giungere alla verit. Sicch la verit si affermer in quanto vera
conoscenza, o episteme, facendo corpo con il discorso razionale, quello che
procede per idee chiare e distinte e del tutto separato dal discorso comune,
dall'opinione o doxa, che veicola una conoscenza falsa o apparente.
Cos la scena madre del discorso filosofico, dunque del pensiero occidentale, si
inaugura screditando i valori di cui portatrice l'oralit, o quanto meno
relegandoli in secondo piano, e contrapponendovi quelli inaugurati dalla

scrittura. Piano piano, proprio la pratica della scrittura, e quella correlata


della lettura, produrranno l'abito mentale che noi diciamo scientifico, cio
analitico e distaccato: distaccato prima di tutto dalla vita, la quale non ci
consente alcuna separatezza, alcuna possibile a-patia. Certo non possiamo
imputare a Platone di non aver colto appieno l'importanza della soglia
costituita dalla pratica alfabetica, di non aver visto il problema, poich
dobbiamo ricordare che egli ancora condivide la paideia di una oralit
primaria, ineluttabilmente destinata a scomparire; dobbiamo cio ricordare,
con le parole di Carlo Sini, che il suo il gesto inaugurale della filosofia, della
episteme filosofica, che genera da s la sua ombra o il suo impensato. Platone
preso dalla sua passione e ne soggetto. Dobbiamo tuttavia, almeno per
quanto riguarda il nostro discorso, provare a valutarne le conseguenze.
Fra le quali, e certo non secondaria, il fatto che alla promozione della ragione
grafica si accompagni la necessit di mettere sotto osservazione le pratiche
che ad essa non si conformano. Ad esempio le pratiche artistiche,
pericolosamente vicine alla kora o matrice primigenia, alla sfera della motilit
ritmica e pulsionale che precede il linguaggio, e dunque difficili da recuperare
ai fini dell'educazione del cittadino e dell'edificazione della polis. Nel decimo
libro della Repubblica, infatti, Platone svaluta l'atteggiamento mimetico e
immaginativo degli artisti interpretandolo come frutto di immaturit, e
sostiene che per divenire adulti, dunque per filosofare, occorre separare
l'anima dal corpo, e rifiutare le sollecitazioni provenienti dal mondo sensibile
perch ingannevoli. Occorre insomma far tacere i sensi, separandosi da essi e
sbarazzandosi del loro supporto carnale in quanto ostacolo al procedere del
logos.
Gi al suo sorgere, dunque, la filosofia si trasforma in una sorta di ortopedia
dell'esistenza. E il dualismo cos inaugurato - fra anima e corpo, idea e
materia, essenza e contingenza e, ovviamente, oralit e scrittura - affidando il
discorso di verit al medium della scrittura finisce per assegnare una sorta di
supremazia allo sguardo, il pi 'astratto' dei sensi. E invero, se la modernit
pare costituirsi sotto il segno dello sguardo proprio perch Platone assegna
alla vista un privilegio mai pi messo in discussione, in grado di influenzare il
cammino della filosofia al punto che esso appare leggibile come
un'ininterrotta apologia della visione.
In fuga dalle sottili seduzioni della phone, intento a devocalizzare il proprio
discorso riducendolo ai termini di una razionalit visiva, Platone ovviamente
indotto a compiere il passo successivo: neutralizzare la potenza emotiva della
musica. Poich quella dei suoni senza alcun dubbio un'arte eccessiva,
nell'antica Grecia, in quanto accompagna la dimensione orfica e dionisiaca
delle espressioni del sacro. Proprio per questo Platone la ritiene pericolosa
per il vivere civile, e la relega ai margini della polis. Proprio per questo egli
abbandona l'esperienza dei sensi in favore di una conoscibilit tutta testuale,
che assorbe in s la rappresentazione stessa del suono, ovvero delle infinite
trasmutazioni che lo rendono riconoscibile. Per acquisire i caratteri della
stabilit e della permanenza, la conoscenza platonica deve infatti modellarsi
sulla rappresentazione visiva del nome che dice la cosa, e questa sua natura
tipografica, che non pu prescindere da una rappresentazione visiva,
proseguendo la sua strada (che poi quella della metafisica) giunta fino a

noi quale metafora dell'atteggiamento teoretico in generale.


Dopo di che, e non a caso, la trasmissione della musica in occidente verr
codificata attraverso la notazione musicale, forma di scrittura che impone di
'leggere' i suoni per poterli eseguire. Congiungendo ritmo e armonia secondo
le leggi derivate dalla numerologia pitagorica, e separandola dal suo vissuto
acustico, la musica diventa cos un ambito che si presta ad essere regolato da
precise norme. Si tratta di un vero trionfo dell'optocentrismo platonico e della
superiorit da lui assegnata alla visione: la musica, arte del tempo, si tramuta
in arte dello spazio, lo spazio della partitura, che proprio per la sua natura
scritturale pu essere letto e riletto, studiato e misurato.
Fra le altre, certamente questa una delle ragioni per cui in occidente,
seppur fra mille distinguo, si tende a separare musica colta e musica
popolare, considerando la prima oggetto di un pensiero musicale evolutivo,
sottoposto a una logica matematizzante e speculativa, la seconda
manifestazione di emozioni e sentimenti ancora in parte non formalizzati,
dunque in-formi e per ci stesso pericolosamente vicini alla kora. Alla musica
come istanza apollinea, la cui bellezza rientra negli ordinamenti controllati dal
discorso raziocinante, si contrappone la musica come momento dionisiaco,
liberazione degli istinti e dominio della phone. Dunque, come insegna la storia
di Marsia, che con il suo flauto sfid la cetra di Apollo rimanendone sconfitto e
venendo poi scorticato per punizione: c' musica e musica, ovvero non tutti gli
strumenti si equivalgono, nell'immaginario greco e nel progetto platonico Se
la cetra serve ad accompagnare il canto e a veicolare significati, sollecitando
la parte poetica dell'anima, il flauto fa perdere il senno e scatena pericolose
passioni: Le melodie del flauto di Marsia - scrive Platone - producono
sensazioni tali che io, come molti altri, ne sono inquietato. In quanto
prolungamento della bocca, esso infatti troppo simile alla voce, poich chi lo
suona rinuncia alla parola e sceglie di evocare un mondo in cui predominano
le emozioni e il godimento della sfera acustica.
Tale distinzione - che non difficile vedere rappresentata nel pensiero
musicale europeo, soprattutto a partire dal sorgere della musicologia
settecentesca - non affatto casuale, nella sua artificialit, poich
squalificando il lato oscuro della musica, la sua capacit di esistere senza
'dire' o affermare qualcosa, altro non fa che operare una rimozione che
percorre quasi per intero la sua storia. Non potendo impedire che il mondo dei
suoni riveli la sua natura emotiva e pulsionale, il pensiero musicale ne ha
infatti relegato la manifestazione nella dimensione popolare, escludendola dal
mondo dell'arte e disprezzandone il coinvolgimento nelle pratiche della vita.
Cos, almeno per un lungo tratto, all'intellettualismo della tradizione colta,
sdoppiata fra una scrittura che la fissa una volta per sempre e le molteplici
interpretazioni che la fanno esistere, si contrapposta l'evenemenzialit della
musica popolare, che esiste solo in quanto eseguita, nel momento inafferrabile
di un divenire che la produce mentre la consuma. Mentale e disincarnata la
prima, inscindibilmente incorporata la seconda: in questo modo la musica
popolare diventata l'ombra (o l'inconscio) della musica colta.
D'altra parte, che l'occidente abbia concepito, e privilegiato, un rapporto
disincarnato con la musica lo indica il fatto che abbia ritenuto l'atto del
comporre come lo sviluppo necessario di un'idea data, e l'interprete come il

portatore di una verit che l'opera possiede in se stessa: da un lato starebbe


l'opera, immutabile e consegnata al suo in-s, dall'altro l'interprete come
elemento di collegamento fra l'idea musicale e la sua ricezione sonora - e
questo vale anche per la contemporaneit: da Charles Ives a Pierre Boulez.
Le esecuzioni di un'opera musicale sono meno interessanti della partitura, la
quale a sua volta meno interessante dell'idea del compositore, scrive
Theodor W. Adorno, e nelle sue parole troviamo l'espressione forse pi
compiuta di un platonismo musicale che presuppone una scena silenziosa,
dove nulla turbi la quiete indispensabile al pensare. Erede di questa
tradizione, nonostante intendesse criticarla, Adorno sembra dispiacersi che la
musica infine risuoni, diventando una forma concreta di godimento acustico,
perch l'unico ascolto che lo interessa quello
della coscienza, o dell'intelletto, quello di un
pensiero devocalizzato e ridotto a puro
sguardo.
Il registro vocale
E tuttavia, per quanto strano possa apparire, la
presenza della voce abita (e inquieta) l'intera
storia della musica occidentale, quella stessa
che per venire trasmessa stata consegnata
alla dimensione grafico-visiva dello sguardo.
Non intendo qui richiamarmi alla voce come
funzione logica, nel senso della teoria
lacaniana, ma ricordare le mille voci che
popolano e vivificano la concreta esistenza
dell'ambito musicale, e manifestandosi nelle
forme del canto esprimono il 'femminile' in
musica sollecitando, insieme ai pi ineffabili
godimenti, le pi allarmate riflessioni: da
Sant'Agostino a Papa Giovanni XXII, da
Franois-Joseph Gossec a Theodor W. Adorno tutto un sussulto di coscienze
(maschili) inquietate dalla potenza del canto e dalla forza del vocalico, che non
consentono all''idea' musicale di manifestarsi nella sua purezza.
Se ci accade, perch voce e sguardo, oralit e scrittura, con ogni evidenza
e nonostante Platone hanno scelto di coltivare il legame con il proprio doppio,
un legame che non consente alcuna dialettica e non d luogo ad alcun
superamento. Se ci accade forse anche perch le coppie concettuali, se
sono davvero tali, vanno pensate insieme. Quando infatti pensate insieme,
oralit e scrittura (ammesso che esista qualcosa di chiaramente riferibile
a tali termini) non si mostrano come parti staccate di una semplice
opposizione, ma piuttosto come modalit attraverso le quali avviene la
trasmissione del patrimonio di saperi e comportamenti di un gruppo sociale o
di un popolo. Di norma, dunque, entrambe sono presenti nei processi
comunicativi, seppure in proporzioni diverse. Per questo il ricorso alla
scrittura non sempre implica la rinuncia all'oralit, cos come l'oralit non si
presenta mai pura, cio sganciata dai processi di codificazione. In questione
sempre la memoria collettiva, con i suoi modi di archiviazione.
E tuttavia, ma forse proprio per questo, il nostro tempo continua a

interrogarsi circa la priorit da attribuirsi al fonocentrismo o piuttosto al


logocentrismo. E' noto infatti come Jacques Derrida abbia ritenuto di
attribuire alla voce una responsabilit prima impensata poich, a suo parere,
nella tradizione metafisica si manifesterebbe la supremazia della voce come
auto-affezione, illusorio accesso alla presenza in quanto interiorit. Indice di
una (presunta) purezza originaria, essa alluderebbe a una soggettivit che si
pensa trasparente a se stessa, che nega ogni differenza e si pone come
radice di ogni dualismo, a partire da quello che separa l'interiorit
dall'esteriorit. In altre parole ogni voce rimanderebbe a una voce originaria,
alla voce della coscienza, quando non addirittura, e pi temibilmente
ancora, alla voce del Padre, colui che ab origine pone la legge e la fa
osservare. La voce sarebbe insomma il simbolo dell'Autorit e l'epitome della
Metafisica. Questa posizione, nella sua lodevole nettezza, priva tuttavia la
voce della sua costitutiva ambiguit, mentre esiste un'intera tradizione,
musicale e non solo, nella quale tale ambiguit si esprime in figurazioni
straordinariamente potenti. E' la tradizione di una vocalit incontrollabile,
seduttiva e mortale, la voix du diable sulla quale ha riflettuto Michel Poizat
e le cui tracce abbondano tanto nella storia della musica quanto in quelle della
letteratura, una vocalit che si pu ricondurre, per brevit di percorso, al mito
omerico delle Sirene. Creature polimorfe e 'mostruose', esse uniscono alla
promessa di un sapere assoluto il miele di un'ineffabile armonia, che si
esprime nel loro ambiguo richiamo: Vieni Odisseo, noi sappiamo tutto quanto
avviene sulla terra. Vieni, nessuno mai passato di qui senza udire dalla
nostra bocca la voce dal dolce suono. Ma il prezzo per accedere al segreto
della conoscenza e per godere del canto, come ben sa Odisseo, la morte.
Inizia cos il lungo percorso del vocalico in quanto forma privilegiata
dell'Unheimliche, collegata al segreto di una phone che attraendo la parola
nel circuito del suono si fa luogo elettivo di un godimento sul quale la voce
della coscienza non ha potere, e contro il quale si infrangono i divieti della
ragione filosofica - La voce ha le sue ragioni, che la Ragione non conosce,
commenta Jean-Loup Charvet.
Ecco allora che l'ascolto della musica, pratica apparentemente innocua,
nasconde forse qualcosa di indicibile, collegandosi a una forma apotropaica o
comunque difensiva nei confronti della phone - e anche questo pare sapere
Odisseo. Secondo quanto insegna la psicoanalisi, infatti, noi ascoltiamo la
musica per esorcizzare l'orrore di incontrare la voce sotto forma di oggetto,
quell'oggetto, dice Lacan, che deve restare celato affinch non vacilli la nostra
identit. Poich la voce non appartiene all'ordine della significazione, ma
distinta dalla parola e dal linguaggio articola piuttosto il rapporto fra corpo e
coscienza, rimandando a quello stadio aurorale e indistinto che precede il
logos e sul quale esso non ha presa alcuna.
In questo senso noi parliamo di voce della passione: per indicare un'istanza
di affermazione soggettiva ma anche il bisogno di un legame, la richiesta di
un'appartenenza. Ne viene che la musica, in quanto sublimazione della voce,
pu essere intesa come richiesta di certificazione, domanda di un
riconoscimento che sta in noi accogliere o rifiutare, giacch ogni musica ci
interroga, ponendoci domande mai formulate prima. E tuttavia le domande
non sempre si equivalgono, e questo dipende non solo dal modo in cui
vengono poste, ma anche dal luogo dal quale ci interrogano.

Entra cos nel gioco, e da un accesso non secondario, la musica che costituisce
l'oggetto di questo discorso, per introdurre la quale sar opportuno affidarsi a
due testimoni d'eccezione. Prima
testimonianza. In un celebre passo di Et
d'uomo, pubblicato nel 1939, ricorda Michel
Leiris:
Un anno, prima della fine della guerra,
apparve il jazz []. Nel periodo di grande
libert seguito alle ostilit fu un segnale di
riavvicinamento, uno stendardo orgiastico, che
agiva magicamente come una specie di
possessione. La sua comunanza con la danza,
l'erotismo, il bere, aiutava gli individui a
superare i fossati che ancora li separavano.
Con le violente zaffate d'aria calda tropicale, il
jazz trasportava sapori di una civilt antica e
insieme moderna, capace di esprimere al
meglio lo stato d'animo di molti di noi: la
demoralizzazione nata dalla guerra, lo stupore
naf davanti ai conforti del progresso, l'abbandono alla gioia animale di subire
l'influenza del ritmo moderno, l'aspirazione soggiacente a una vita nuova o a
uno spazio pi grande. Il jazz dava forma al nostro desiderio ancora
inespresso.
Condivise dalla parte pi sensibile della sua generazione, queste parole - cos
attente a rilevare la capacit del jazz di coniugare l'antico e il moderno per
dare una forma al desiderio di rinnovamento di un'intera generazione, e a
suggerire la presenza di un malessere che quello della musica e dell'arte
occidentali cui manca la forza di giocarsi il ruolo di rigenerazione richiesto dal
mutare dei tempi - costituiscono un prezioso suggerimento per individuare lo
spazio simbolico del jazz, dunque il modo e il luogo della sua epifania. Esse ci
dicono che questa musica, formazione di compromesso (fra antico e
moderno, erotismo e danza, ecc.) come il sintomo freudiano, presenta una
doppia emergenza, costituendosi sia come metafora che allude a qualcos'altro,
sia come luogo di godimento, ovvero luogo in cui piacere e interdizione si
annodano inscindibilmente. Se in quanto luogo di godimento il sintomo
jazzistico non teorizzabile, resta un oggetto opaco e tende a porsi, come
insegna Lacan, fuori di senso, in quanto metafora di un malessere segnala
tuttavia uno spazio impensato, o indicibile, imponendoci di ridefinire il nostro
rapporto con l'arte e la bellezza.
Come si vede, incomincia qui a definirsi il carattere perturbante della musica
jazz, grazie al fatto che essa si presenta strettamente allacciata alla vita e alle
sue vitali contraddizioni. Ma veniamo alla seconda testimonianza:
Vi una musica che incute rispetto per la virt che possiede di non avere per
fine il farsi sentire. [..] Questa musica esiste, anche senza ascoltatori.
Potrebbe mettersi a suonare da sola, in certe ore del giorno o della notte,
senza attese di dover fare la propria parte davanti a qualcuno. Bach.
C' invece un'altra musica che si preparata prima di venir fuori; si

truccata, si assestata, ha detto a se stessa: Je vais jouer mon r'le,


speculando gi sull'effetto che produrr sull'uditorio. Wagner.
C' infine un altro tipo di musica che vi sta a sentire. E' questa la pi
pericolosa e la pi complessa. Essa si svolge mentre vi guarda di sottecchi
giudicandovi. Bisogna essere abbastanza forti per non subire un certo disagio.
[] Questo caso inverosimile abbastanza frequente in quel genere di jazz
che detto Chicago style.
Queste sono parole scritte nel 1935 da Carlo Belli, il padre dell'astrattismo
italiano, come lo defin Kandinskij. Anch'esse ci dicono molte cose, ma prima
di tutto e inaspettatamente ci mettono in guardia, segnalano l'attitudine
interlocutoria del jazz e il pericolo e il disagio connessi all'esperienza del
suo ascolto. Se solo ci si riflette un momento, appare evidente come proprio
questa attitudine sia stata una discriminante fondamentale per gli ascoltatori,
la ragione di un pathos e di una inquietudine che li ha spinti ad amarlo o
detestarlo in modo esclusivo. Stando a queste parole, l'effetto perturbante
sarebbe dunque provocato dal rovesciamento dei ruoli, ovvero dall'apparire,
sotto quanto vorremmo godere tranquillamente, di un movimento inatteso. Nei
termini della teoria freudiana-lacaniana le cose stanno esattamente cos:
quando sotto il desiderabile si affaccia il desiderante, quando l'oggetto che
doveva restare inerte si anima e pone la sua domanda, quando apparendo esso
riempie un vuoto (di conoscenza?, quella promessa dalle Sirene?) che
dovrebbe restare tale, allora si incrinano l'assetto della nostra percezione e le
coordinate della nostra soggettivit. Paradossalmente accade allora che noi
usiamo la nostra voce - noi alziamo la nostra voce - per non sentire, o
addirittura per far tacere la voce dell'Altro che si esprime nella musica.
Qualcosa del genere deve essere accaduto anche a Theodor W. Adorno, che ha
riconosciuto nel jazz la voce di un'alterit insostenibile, talmente insostenibile
da spingerlo a ipotizzare che essa insceni una sorta di perverso rituale di
castrazione collegato a una sadomasochistica identificazione con l'aggressore.
Si tratta di parole fuori misura, che dicono pi cose su chi le pronuncia che
sull'oggetto d'analisi. Vero infatti che Adorno, illustre rappresentante di
un'estetica musicale eurocentrica (e logocentrica), rifiuta tutto quanto appare
estraneo o marginale ai procedimenti della scrittura e della composizione,
compreso il jazz, cos vicino alle dinamiche performative dell'oralit.
Chi si occupato del problema ha compreso come la sua avversione non vada
ricercata in ragioni di ordine psicologico o sociologico, ma costituisca una
risposta coerente alla sua concezione estetica. La quale, collegata alla forma
di un pensiero dialetticamente ordinato e razionale, non si avvede che il jazz
parla una lingua irriducibile a quella razionalit, e cerca di ricondurlo a una
forma di linguaggio scritto. Dopo di che, non riuscendo in questa operazione,
lo espelle dal mondo dell'arte bollandolo come prodotto mercificato e incapace
di dar vita a una vera esperienza estetica. Ma precisamente questa oralit
del jazz, l'emergere della sua umanissima ancorch denegata voce, che fa
problema, poich gli consente di rimettere in gioco i fondamenti delle
categorie estetiche tradizionali. Come osserva Christian Bthune, il jazz
enuncia questa 'mostruosit': il bello, il vero, il buono - in una parola,
l'assoluto - stanno tanto dalla parte dell'intelligibile quanto dalla parte del
sensibile, perfino del sensuale. Ecco un'altra testimonianza sulla quale

converr soffermarsi: il jazz sarebbe in grado di tenere assieme il sensibile e


l'intelligibile, sarebbe comunque in grado di tenere assieme. Ma non sono,
queste, caratteristiche proprie della voce? Non forse la voce stessa delle
Sirene che ce lo dice, se vero che essa composta di suono ma anche
portatrice di senso? E non sarebbe proprio per questo in grado di tenere
assieme istanze che la nostra cultura, ovvero la tradizione platonicometafisica, vorrebbe separare, a partire dalla fondamentale distinzione fra
sensibile e intelligibile? Proprio cos. E comincia dunque a delinearsi la qualit
vocale del jazz, musica votata a un godimento che recupera il valore
demiurgico della voce in quanto articolazione del corpo, prima che del senso e
del linguaggio. Godimento in quanto tale non dicibile, e coerentemente
affermato nel mondo dei suoni, in quanto tale non oppositivo, e dunque in
grado di tenere insieme ci che noi - a partire da Platone - vorremmo
separare: Body & Soul, per l'appunto.
E d'altra parte, come altrove ho avuto modo di ricordare, la storia della
cultura afroamericana intessuta di voci e soprattutto di voci femminili, che
continuamente risuonano nella memoria, e nelle pagine, dei suoi poeti e
narratori: da Frederick Douglass a Zora Neale Hurston, da Paul Laurence
Dumbar a Langston Hughes, da Amiri Baraka a Toni Morrison. Testimoniando
un percorso comune e condiviso, queste voci scandiscono il percorso
dell'infanzia, disciplinano l'apprendimento e indicano il posto che ciascuno
occupa nella discendenza, divenendo luoghi significativi di produzione di
senso. Chi, come Farah Jasmine Griffin, ha studiato la vocalit femminile nera
nella sua concreta fenomenologia - e in quanto matrice delle musiche
afroamericane e del jazz in particolare -, ne ha tratto la convinzione che
nell'immaginario bianco essa mantenga una
strange otherness, un'ambigua alterit che la
rende inassimilabile.
Per il pubblico americano, infatti, quella voce
da un lato risuona come un'oscura minaccia, il
segno di una diversit storicamente, e
violentemente, imposta; dall'altro come
l'essenza stessa dell'America, ci che pi di
ogni altra cosa ha accompagnato la nascita di
una nazione, la costruzione della sua identit e
il desiderio di libert che, nonostante tutto, l'ha
originata. Sicch il fantasma dello schiavo (e
della schiava), un tempo riconoscibile in quanto
esteriorizzato e contestualizzato, col passare
del tempo divenuto il perturbante inquilino
della coscienza bianca, la macchia oscura che
inquieta l'unit della sua percezione soggettiva.
Che tutto ci sia collegato anche al modo e al luogo della nascita del jazz, al
fatto che si tratti di una musica sorta nel cuore capitalistico dell'occidente ma
da una comunit, come quella afroamericana, sradicata dalle proprie origini,
schiavizzata ed espropriata di tutto, da una comunit, oltre tutto,
originariamente animista cui stato imposto un ethos puritano e
fondamentalista; che questa condizione lo costituisca come fondo segreto, ma

soprattutto rimosso, della modernit, oltre che cono d'ombra della luminosa
democrazia statunitense (di una democrazia che, non diversamente dalla
filosofia platonica e dalla cultura greca, si vorrebbe definita da un manifest
destiny, da un destino manifesto il quale, in quanto giusto e inevitabile, le
impone di negare l'altro per affermare se stessa) non certamente
trascurabile n secondario. La musica Nero-americana il prodotto, e la
testimonianza, di una delle pi oscene avventure nella storia dell'umanit, ha
scritto James Baldwin. E' perlomeno ironico - osserva a questo proposito
Christian Bthune - pensare che il cammino della filosofia verso la pretesa
universalit dei suoi valori si fondi sulla scandalosa particolarit di una
struttura sociale basata sullo schiavismo. Ma dal crogiuolo di questa spietata
alchimia che deriva la separazione fra il singolare e l'universale, in nome della
quale la scienza rifiuta la doxa. Radicalmente altro, il jazz nasce rifiutando di
accettare questa separazione. Ragione per cui non ci sar un secondo
momento: il per s il seguito sono gi l, e a noi resta solo da distinguere la
musica in quello che si suona qui e ora.
Sembra allora che questa condizione paradossale, che ha costretto
l'espressione jazzistica a svilupparsi all'interno di un sistema di valori estetici
e sociali che non erano i suoi, sia il tratto pi significativo della sua identit.
Sembra insomma che il suo affermarsi nel panorama novecentesco, la forza
che l'ha sospinta, contro il parere di molti e le forze di tanti, a sostenere la
sfida della propria esistenza, scrutando coraggiosamente l'immagine della
propria necessit e interrogandosi senza sosta sul proprio (e sul nostro)
desiderio; sembra infine che tutto ci abbia fatto del jazz il cuore di tenebra
dell'Occidente musicale, il suo compagno segreto, che come un tamburo
invisibile percosso dai suoni dell'aria conradianamente risuona in un vuoto
buio, pieno di echi selvaggi. E se a questo punto non ne temessimo l'effetto
teatrale e grandguignolesco, potremmo forse andare oltre, e proporre il
seguente confronto: come l'Erode biblico, usurpatore e fratricida, l'occidente
capitalistico costretto a subire l'inquietante presenza di un Giovanni Battista
afroamericano, che dal fondo della prigione in cui stato gettato non cessa di
alzare la propria voce per rammentare il peccato originale su cui si edificato
il potere del sovrano. E quante Salom a contendersi l'onore di offrire a quel
sovrano la testa di Giovanni!
Iniziamo cos a comprendere quanto di irricevibile sia veicolato dal jazz,
musica che riempiendo quel vuoto abbuiato e cruciale avrebbe
lacanianamente fatto mancare la mancanza, e contemporaneamente
emergere l'angoscia, costituendosi come presenza unheimlich nell'intimo della
casa: come oscura radice della nostra identit, come il grande rimosso
ovvero il Grande Altro della musica occidentale, e dunque colui dal quale,
come insegna Lacan, riceviamo il nostro messaggio nella sua forma invertita e Carlo Belli lo aveva compreso perfettamente.
Sullo sfondo di un consumo musicale primonovecentesco equamente suddiviso
fra melomani, consumatori di arie popolari e, come dir Cocteau, estenuati
ammiratori di una musica satura di vaghezze e impressionismi, l'arrivo del
jazz ebbe infatti un effetto assolutamente dirompente, complice il suo trovarsi
eccentricamente collocato fra un presente problematico e un passato
idealizzato, costretto a vivere la propria esistenza nascondendosi fra le pieghe
dell'esistenza altrui. Straordinaria testimonianza di questa difficile

appartenenza, dove convivono in una sorta di doppio speculare il proprio e


l'estraneo, sono le parole di W.E.B. Du Bois, uno dei grandi padri della cultura
afroamericana, che all'inizio del Novecento scrive: Nelle pieghe della civilt
occidentale sono nato e morir, imprigionato, condizionato, depresso, esaltato
e ispirato. Interamente una sua parte, e tuttavia, cosa molto pi significativa,
uno dei suoi scarti: uno che nella sua vita e nel
suo agire [] ha dato espressione a un solo
vortice di problemi sociali e paradossi
psicologici.
E' questa duplicit (twoness scrive Du Bois),
questa frammentazione dell'io, che sta alla
base della cultura afroamericana: della teoria
della doppia coscienza che ha elaborato e
delle musiche che ha creato e che da sempre, e
senza sosta, ne riflettono l'immagine. Blues,
gospel, soul, jazz sarebbero dunque la traccia
di un'eredit vocale che accompagna la vicenda
dei neri dalla diaspora africana, all'approdo
americano, all'emancipazione. Tutte insieme
ma a partire dal blues, poich, come scrive
Amiri Baraka nella sua Autobiography: Il blues
nostro padre e nostra madre, i nostri nonni e
la nostra storia. E' l'impulso basico e la
canzone []. E il jazz, come dice Langston, il
figlio, il blue/nero prodigio della terra madre/padre.
Il jazz e la sua traccia
Se dunque c' nel jazz qualcosa in grado di disturbarne la ricezione, se c' in
questa musica qualcosa di irricevibile, ci riguarda la speciale natura di un
oggetto che non si accontenta di essere tale, ma come insegna Carlo Belli
pretende di trasformarsi in soggetto, rimescolando le carte e proponendosi
nelle vesti dell'Altro che non del tutto Altro di cui parla Leiris. Ma per
meglio intendere cosa gli consenta questo gioco delle parti converr tornare
al tema del modo e, ancor prima, del luogo. Poich, in verit, sembra proprio
che questa musica non abbia un luogo che si possa considerare suo proprio, se
vero che nell'arco della sua esistenza ha manifestato una sorprendente
disponibilit al nomadismo e all'effrazione. Una spaesante multipolarit
caratterizza infatti l'origine e l'identit del jazz, che non si collega a un ambito
sociale determinato n a un riconoscibile spazio simbolico, rendendo incerto il
suo reperimento tanto nei luoghi fisici quanto nelle categorie concettuali. Per
tutto questo risulta difficile distinguere la realt della sua esistenza dal potere
mitografico che essa sprigiona, separare il fantasma della concreta
oppressione subita dalla proliferazione fantasmatica che quell'oppressione ha
tuttavia generato. Un gran trafficare con i codici, un continuo lavorio sulla
forma, una costante riproposizione dell'evento: sembra proprio che il jazz sia
da sempre intento a seminare tracce che contemporaneamente cancella, come
certi animali che confondono le piste per impegnare tutte le capacit, e tutti i
sensi, degli eventuali inseguitori. Sicch per avvistarlo non basta aguzzare lo
sguardo, ma occorre comprendere e accettare le regole del gioco, e cercare il
luogo dove non c' luogo, ovvero dove non ha luogo ci che cerchiamo e dove

tuttavia avviene un altro luogo - e forse solo oggi iniziano a delinearsi le


condizioni epistemiche indispensabili ad avviare una riflessione su questo
paradosso topologico.
E' precisamente da questa a-topia che nasce la sua u-topia, ovvero la capacit
di inventarsi uno spazio del tutto nuovo, lo spazio cui allude Blutopia,
composizione di Duke Ellington che Graham Lock ha scelto come titolo di uno
studio sulla sovversione topologica e temporale messa in atto dal jazz.
Nominare questa musica non infatti riferirsi a un'etichetta o a un
contenitore, ma a un universo di valori potenziali e non esclusivamente
centrati sulla musica. Per questo nel corso del tempo la comunit jazzistica ha
potuto metabolizzare le esperienze pi varie, allargando il suo territorio fino a
non possederne pi uno proprio. L'unico spazio disponibile, il solo territorio
abitabile, cos diventato quello di volta in volta condiviso con gli altri
musicisti, definito in base alle circostanze e alla variabilit degli incontri. Da
qui l'elaborazione di un sorprendente concetto di appartenenza, legato all'idea
di una comunit senza territorio e senza sovranit, per la quale non tanto
questione di procedute tecniche e compositive quanto piuttosto di un diverso
modello relazionale. Si tratta della creazione di un campo di forze che
riattualizza il discorso di Amiri Baraka sulla musica nera come espressione di
un'attitudine concernente principalmente il mondo, e solo secondariamente la
tecnica musicale, come capacit di tenere insieme la creativit artistica e
l'emancipazione culturale. Da cui discende che il campo jazzistico in grado
di proporsi come spazio politico inedito, poich interviene sulle modalit di
costituzione della polis
praticando un altro modo di
stare insieme, una diversa
ipotesi di societ.
Quanto al modo, valga per tutti
un esempio. Sappiamo come
l'improvvisazione costituisca una
presenza costante e
trasformatrice dell'universo
jazzistico, acquistando un senso
rivendicativo nei confronti dei
linguaggi codificati senza
tuttavia volerli abolire. In quanto
apertura verso le infinite
potenzialit del musicale essa diviene una soluzione di assoluto interesse, in
grado di informare di s la prassi esecutiva e di rilanciare senza sosta il
processo della connotazione. E tuttavia, per quanto possa sembrare strano,
l'improvvisazione non pone soltanto problemi di tipo interpretativo, ma anche
di tipo legale. Essa infatti la manifestazione pi evidente della voce jazzistica
in quanto collegata ai procedimenti dell'oralit performativa, mantenendosi
per questo in un certo senso imprendibile. E tuttavia, chiunque sia in grado di
farlo pu ascoltare un solo di Charlie Parker e successivamente trascriverlo,
disponendosi poi a studiarlo secondo le modalit proprie della musicologia e
dunque considerandolo a tutti gli effetti un documento veridico dell'arte
parkeriana.

E' quello che ha fatto Gunther Schuller, allargando il procedimento all'intera


storia del jazz disponibile su supporto tecnico, cio registrata. Ma a questo
punto iniziano i problemi. E non si tratta solo di una questione di metodo,
relativa all'attendibilit da attribuirsi a un documento che presume di essere
autentico in quanto pura immagine di un'esecuzione dal vivo, ma anche di
diritto, nel senso giuridico del termine. Di chi sar infatti il copyright di quella
partitura per cos dire postuma?, sia che essa serva per analizzare la forma, e
magari costruirci sopra un bel trattato jazzistico, sia per un'eventuale
esecuzione? Per quanto mi risulta il problema insolubile, almeno allo stato
dei fatti, e nondimeno scuote alle fondamenta tutta una serie di convenzioni
che riguardano le nostre modalit di rapportarci all'arte.
Poich si tratta di una modalit, altre se ne potrebbero indicare, che
caratterizza il rapporto del jazz con l'aporia stessa che lo costituisce. Poich
questa musica dell'oralit si sempre giocata fra memoria e oblio il proprio
rapporto con la scrittura, dal momento che il concetto stesso della negazione,
l'istanza dialettica del lavoro del negativo, non le appartiene. E non si tratta
qui di stabilire la supremazia di Crono su Orfeo o viceversa, come discute la
musicologia a proposito del Tempo musicale, si tratta piuttosto di riconoscere
nella pratica jazzistica il trionfo di Kairos, il tempo debito, la contingenza
propizia, in grado di afferrare il momento in cui qualcosa avviene, in cui
qualcosa ha luogo pur non avendo un luogo in quanto, come scrive Sun
Ra, ha a che fare con the other side of nowhere, l'altro lato di un luogo che
non c', l'altro lato del nulla. Poich infine, Musa del Novecento, il jazz ha
dovuto crescere in fretta, misurandosi con le innovazioni tecnologiche a lui
contemporanee, ovvero con le scoperte che hanno trasformato il paesaggio
sonoro mutando lo statuto della phone. Pi che alla voce degli dei o del
melodramma, pi che alla stessa voce della coscienza, il secolo breve infatti
ha dato vita a una moltitudine di voci registrate, amplificate, sintetizzate, che
hanno prodotto un nuovo immaginario vocale e modificato il nostro rapporto
con la scrittura e con la memoria. A partire dall'invenzione del fonografo,
infatti, sono gli effetti di una moderna mitologia della voce a produrre la
colonna sonora della modernit, in cui echeggia non sola la presenza della
voce umana, ma una lunga serie di echi e suoni riprodotti che costituiscono un
inquietante doppio della nostra identit. Non sar dunque un caso se il jazz
stato accusato di appartenere a due universi apparentemente lontani e
inconciliabili: musica dei selvaggi, lo si disse, cio di coloro che non conoscono
la civilt, mentre al contempo venne percepito come musica macchinica, dai
ritmi ossessivamente simili a quelli della civilt industriale. A questa doppia e
inquietante appartenenza non sono estranee la sua nascita, contemporanea
all'invenzione del grammofono, e la sua diffusione, avvenuta grazie al medium
dei dischi. E certamente tale doppia appartenenza lo iscrive tanto nel registro
della phone quanto in quello della teche, poich nel jazz, pi che in ogni altra
musica moderna, tutto si gioca nel contrasto fra la fredda autonomia della
forma-disco e la calda eteronomia della forma-evento, ovvero fra l'assenza che
caratterizza la riproduzione sonora e la viva presenza della performance.
Di tutto questo, e di altro ancora, testimoniano gli scritti di Alberto Savinio, il
grande dilettante interessato ai suoni che stanno fuori dall'orchestra, in
musica come in pittura e in letteratura. Affascinato dal jazz e dalla novit che
per lui rappresenta, egli osserva che

le musiche dei negri cominciano in quel punto, ma ugualmente potrebbero


cominciare in qualsiasi altro punto. Una sonata di Brahms si annuncia.
Qualcosa comincia. Diversa dalla vita che ci avvolge. Comincia la musica. La
quale, nella vita che avvolge l'uomo bianco qualcosa di diverso,
profondamente diverso. Del pari, quando la musica dell'uomo bianco sta per
finire, essa preannuncia la propria fine. Il qualcosa di diverso sta per finire.
Preparatevi alla fine del diverso. [] La musica negra no. La musica negra
non comincia, n finisce. Cessa ad un certo momento, s'interrompe. Salvo a
riprendere. Con la stessa mancanza di cominciamento. Cade la musica, si
spegne: nient'altro.
Queste considerazioni, nate dall'ascolto di un disco di Jelly Roll Morton,
collegano con straordinaria lucidit il problema del tempo musicale alla
dimensione etica che gli inerente. Esse segnalano che il jazz, musica
intessuta di continui ritorni e riprese, organizza un percorso tendenzialmente
circolare e adialettico, estraneo all'idea di una temporalit lineare e proiettiva
e indifferente al principio di non contraddizione. Qui non vale la regola del
terzo escluso, per cui ci che non pu non essere, dal momento che tutto
pu sempre avvenire e quel che conta esattamente il possibile evento di
questo avvenire. Queste considerazioni ci fanno intendere che la temporalit
jazzistica si sottrae a ogni finalismo teleologico, e rifiutando di assoggettarsi
alle metafore dello sviluppo e del progresso riesce a farsi carico della
condizione umana, quella che sta nel mezzo - come direbbe Deleuze - e che in
ogni istante, e imprevedibilmente, pu iniziare e finire. Senza parere, Savinio
insomma ci indica in quale modo il jazz offra il suo contributo alla critica del
tempo progressivo e alla sua logica costruttiva-deduttiva: estendendo
all'infinito il senso del presente e lo spazio dell'evento. Noi, che veniamo
dopo, sappiamo che proprio per questo i jazzmen considerano i predecessori
loro contemporanei, riattualizzando senza sosta la loro eredit e ripiegando il
futuro sul passato per edificare un'altra storia. E che proprio per questo,
contrariamente alla logica occidentale che impone all'arte di rinunciare agli
stereotipi, essi affermano la liceit di mescolare ripetizione e innovazione,
rielaborando incessantemente un certo numero di formule fisse note come
standard. Ci non solo rivoluziona l'estetica, sovvertendo il nostro rapporto
con le forme dell'espressione, ma sottrae i musicisti all'angoscia dell'influenza.
Giungiamo cos al cuore del problema, laddove in questione la vera natura
del jazz, la sua ragione profonda, che per Savinio terapeutica: Il negro non
canta, non suona per diletto; non pure per 'esprimere' la propria anima. Suona
e canta per scaricare la propria anima. Conosceva Freud la musica negra?.
Dunque la musica negra penetra il fondo della psiche e lo svuota, attivando la
medesima funzione catartica della tragedia greca. Da qui la ragione di un
titolo, Cantare come i negri rimedio alla nevrastenia, che allude alla possibilit
che spetti all'arte di risolvere la vita, conferendo giustificazione estetica
all'esistenza. Proprio ci che a suo parere avviene nel jazz, vera danza di
Zarathustra, musica dionisiaca che echeggia nel corpo della sua stessa voce
le conquiste dell'arte moderna, amplificate dagli apparati di riproduzione
meccanica. Questo infatti suggerisce la lettura di un sorprendente articolo,
intitolato Grammofono e pubblicato nel 1926. Savinio, che proprio alla
mediazione del grammofono deve la sua conoscenza del jazz, vi sostiene che i
moderni meccanismi di riproduzione non sono macchine neutre, congegni

inanimati, ma forme della modernit che danno vita a un'inedita metafisica, a


un nuovo demonismo. Cos la voce del grammofono non la semplice
riproduzione della voce umana o di uno strumento musicale, ma qualcosa di
indipendente e staccato. Dal grammofono insomma non esce la copia fedele di
un suono ma qualcosa di inaudito, che ci inizia a nuovi misteri. Facile
prevedere che questo suono, intonato al carattere della vita attuale, presto
dilagher, sostituendo la voce umana e proponendosi come solo strumento di
conoscenza e di godimento acustici. Dotato di una straniante bellezza e di una
particolare ironia, profetizza Savinio, il dmone del grammofono con la sua
voce macchinica finir un giorno per emanciparsi completamente: Quel
giorno i grammofoni, pieni non altro se non del loro dio sonoro, rauco,
metallico, dominatore, canteranno liberamente sulle citt mostruose e
trionfanti.
Nonostante le apparenze, siamo qui pi prossimi alle intuizioni di Duchamp
che all'ingenuo trionfalismo dei futuristi. Poich l'idea che la tecnica possa
catturare la voce e restituirla oggettivata non solo segnala l'effetto
perturbante della riproduzione sonora, ma apre lo spazio di un'estetica nuova,
che si esprime in forme autonome e del tutto indipendenti dalla volont
umana. Anche per questo il pensiero di Savinio appare in grado di illuminare,
con anticipo straordinario, il senso dell'apparizione del jazz in rapporto al
tema della voce. Prima della fondamentale riflessione di Walter Benjamin sulla
(ri)producibilit dell'opera d'arte, che del 1935, ma anche prima dell'articolo
di Adorno sulla voce scorporata del fonografo, che del 1928, con mano
leggera egli ci guida in un ambito di riflessione che con efficace ossimoro oggi
diciamo sublime tecnologico. Sicch dobbiamo a quest'uomo riservato e
fondamentalmente scettico le prime, essenziali intuizioni sul carattere
sottilmente unheimlich della riproduzione sonora in quanto staccata, dotata
cio di quell'autonomia che ne segnala la radice disumana, macchinina,
ovvero l'ontologica alterit.

Epilogo: o del non-luogo in cui ha luogo l'epifania del jazz


Car il faut bien durer un peau plus que sa voix.
Roland Barthes
Di tutte le immagini che si stagliano sullo sfondo evanescente delle origini
jazzistiche, ce n' una che il passare del tempo ha contribuito a potenziare
senza che nulla sia intervenuto a precisarne i contorni. E' l'immagine del
mitico trombettista Charles Buddy Bolden, il pi misterioso fra i padri che
contribuirono alla gloria di New Orleans. Padri in verit appartenenti alla
stirpe della gente comune, quella che si guadagna da vivere facendo mille
mestieri: Johnny St. Cyr il muratore, Adolphe Picou lo stagnino, ma che ci ha
lasciato un'inconfondibile traccia musicale. Non tutti divennero famosi, e per
alcuni furono provvidenziali la diaspora che li port lontani dalla citt deltizia
e il contemporaneo avvento del disco, supporto indispensabile del loro
magistero per i posteri. Ancora oggi i loro nomi costituiscono la pi antica
genealogia del jazz: King Oliver, Sidney Bechet, Louis Armstrong... Vero

infatti che a partire dal 1917, dalla chiusura del quartiere di Storyville che
indirizz altrove i destini del jazz, solo pochi scelsero di restare a New
Orleans, e proprio per questo furono dimenticati. Per gli altri si aprirono le
porte di un viaggio pieno di speranze e di imprevisti, segnato dalla struggente
malinconia immortalata dalla voce di Billie Holiday: Do you know what it
means to miss New Orleans. Ma fra quelli che restarono, e che non incisero
mai un disco, mai una sola nota, un nome brilla luminoso nel ricordo degli
appassionati, quello di Bolden, il Grande Trombettista Nero.
Si sa che nacque nel 1877, o forse nel 1879, che si spos, ebbe due figli ma
non una specifica educazione musicale. Un solo disegno resta, di datazione
incerta fra il 1894 e il 1895, che lo ritrae non ancora ventenne e vestito
elegantemente; e una foto sbiadita, scattata da un anonimo fotografo attorno
al 1905, che lo mostra insieme agli uomini della sua band: Jimmy Johnson,
Willie Cornish, William Warner, Jefferson Mumford e Frank Lewis. Il grande
Jelly Roll Morton, che lo conobbe, in un'intervista rilasciata ad Alan Lomax
afferma che egli non aveva rivali a New Orleans, e che l'ammirazione della
gente, quando suonava per le strade della citt, era dovuta alle originali
invenzioni melodiche ma soprattutto all'incredibile voce della sua tromba, che
rifrangendosi sull'acqua dei canali si diffondeva ovunque. Cos Bolden divenne
la voce di New Orleans, e lo rimase anche quando la vita, fosse follia o scelta
consapevole non sapremo mai, lo condusse all'isolamento e al pi completo
silenzio.
Il vivido ricordo dell'inventore del jazz, come si autodefiniva Morton,
contiene tutti gli elementi utili alla formazione del mito, a cominciare dal fatto
che della prima grande voce del jazz manca qualsiasi testimonianza sonora. Di
quella musica resta solo il ricordo, e la nostalgia di una voce che risuonava
per la felicit di tutti.
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