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ANASTASIO Bibliotecario

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 3 (1961)

di Girolamo Arnaldi
ANASTASIO Bibliotecario. - Trascorse a Roma la prima giovinezza (Epistolae, p.440, 8-9) e
sua lingua materna fu certamente il latino (Epistolae, pp. 423, 12 e 426, 7), non il greco, come
molti hanno ritenuto. Per la data di nascita ci si muove fra l'800 e l'817; la proposta degli anni
810-812, come i pi probabili (cfr. Perels, pp. 186-188), era fondata su di un ragionamento il cui
presupposto risultato fallace (cfr. P. G.Thry, Contribution l'histoire de l'aropagitisme au
IXe sicle, in Le Moyen Age, s. 2., XXV [19231, pp. 137-152).
A. era imparentato con Arsenio, vescovo d'Orte. Non addirittura suo figlio, come voleva il
Laptre (pp. 37-39), sulla scorta di un passo di Incmaro in cui A. viene detto fratello di Eleuterio,
figlio di Arsenio (Annales Bertiniani, a cura di G. Waitz, inMonumenta Germ. Hist., Scriptores
rerum Germanicarum, Hannoverae 1883, p. 92); bens suo nipote da parte di madre, come
afferma chiaramente lo stesso A., in una lettera ad Adone di Vienne (Epistolae, p.401, 18). Il
testo della lettera di A., proprio a questo punto., presenta per una lacuna, che ha consentito al
Laptre di proporre un'ingegnosa lezione la quale eliminerebbe a favore di Incmaro la
discordanza fra le due fonti ("avunculi vestri, mei vero patris Arsenii", al posto di "avunculi
mei, . vestri vero / .... / Arsenii" che ci dato dall'unico manoscritto: cfr. Laptre, pp. 323-326;
v. contra Perels, p. 189, nn. 3 e 4). Ma se carnalmente era nipote di Arsenio, si pu interpretare
Incmaro nel senso che abbia inteso di dire che A. era fratellastro (non un fratello) di Eleuterio,
dandosi infatti la possibilit che Arsenio fosse ad un tempo suo patrigno e suo zio (cfr. Perels, p.
190 n. 2). Se non si accoglie il restauro dei Laptre, cade invece la parentela di A. col vescovo di
Vienne: Adone, nipote - perch figlio di una sorella - di Arsenio, sarebbe stato anche cugino di
Anastasio. Si sa piuttosto di un altro Adone, prete, imparentato con lui, e suo accusatore, come
vedremo, nell'868 (cfr. Ann. Bert., p. 95).
Molto presto (Epistolae,p. 440, 7-9), A. si procur quella padronanza del greco che, eccezionale
allora per Roma e, in genere, per l'Occidente, rest sempre il suo principale titolo d'onore
(cfr. Liber Pontificalis, a cura di L. Duchesne, II., Paris 1892, p. 222) e fu cagione essenziale dei
suoi successi, rendendo le sue prestazioni nella curia romana praticamente insostituibili,
attraverso tre pontificati (Nicol I, Adriano II, Giovanni VIII). L'esistenza in Roma di chiese e
monasteri greci, che ospitavano i numerosi profughi (soprattutto monaci) che avevano
abbandonato le loro sedi in seguito alla contesa iconoclastica, pi che sufficiente a spiegare
come A. abbia avuto occasione di acquistare familiarit con la lingua e la cultura bizantine.
Quanto alla caratterizzazione dei Greci, cui A. ha creduto di poter pervenire, stato osservato
come i difetti che egli afferma essere loro connaturali (in particolare, reccessiva furberia e una
certa inclinazione alla frode: cfr. Epistolae, p. 415, 6-11 e 19-21), sono proprio gli stessi che di
solito vengono rinfacciati anche a lui (Perels, p. 194).
Da papa Leone IV, forse nell'847 (al pi tardi nell'848), A. fucreato cardinale prete del titolo di
San Marcello. Ma, pochi mesi dopo la nomina, il neo-cardinale, all'insaputa del pontefice,
abbandon Roma e la chiesa che gli era stata affidata. La tenacia con cui, da allora in poi, Leone
IV ha perseguitato A., fa pensare che, improvvisamente, per qualche motivo che non
conosciamo. sia intervenuta fra i due una rottura, che si subito cristallizzata in una irriducibile
avversione di carattere personale. L'unico vero indizio di cui disponiamo sono due accenni di
Leone alle ambizioni nutrite da Anastasio. II primo nel decreto del concilio tenuto a Roma il 19
giugno 853: "omnes, qui ei sive in electione, quod absit, aut pontificatus honore adiutoriurn
praestare vel solatitun quodcumque voluerint, simili anathemate subiaceant" (Ann. Bert., p.93);

l'altro nella lettera che il papa indirizz ad A., nell'estate dello stesso anno, per invitarlo a
presentarsi innanzi a un concilio convocato per il 15 novembre: "salutis... incedere summopere
callem procura, te ne vana spes decipiat, caducaeque adulationes subvertant" (Actadepositionis
Anastasii, in Mansi, Sacror. Concil. Nova et Ampliss. Collectio, XIV, Venetiis 1769, col. 1018).
La possibilit che A., almeno nei primi tempi dopo la fuga,abbia avuto contatti con ambienti filoimperiali (cfr. Laptre, p. 300) non impedisce che Lotario e Ludovico abbiano accolto la
richiesta del papa di assisterlo nei suoi affannosi tentativi di mettere le mani sul fuggiasco, che
abbiano anche manifestato il loro assenso alle varie sentenze di condanna. Anche se non da
pensare che A. fosse il capo del partito "imperiale" a Roma, avverso a Leone IV perch eletto
papa senza beneplacito dell'imperatore, certo che egli ambiva al pontificato e che, per
raggiungere : il suo scopo, avrebbe cercato appoggi anzitutto in quella direzione; e Leone, che
tent con tutte le sue forze di sbarrargliene la strada anche per il futuro, fece appunto in modo
che Lotario e Ludovico prendessero pubblicamente posizione contro di lui (cfr. Perels, pp. 201202 e T. Hirschfeld, DasGerichtswesen der Stadt Rom vom 8. bis 12. Jahrhundert wesentlich
nach stadtrmischen Urkunden, in Archiv fr Urkundenforschung, IV [1912], pp. 426 s.).
Nei cinque anni successivi alla fuga da Roma, A. abit in varie localit della diocesi di Aquileia
(Acta depositionis, col.1017); nella primavera dell'853 era a Chiusi (ibid., col. 1018). Dopo due
inviti a comparire in giudizio, rimasti senza risposta, A. venne scomunicato da un concilio
tenutosi a Roma il 16 dic. 850 (Am. Bert., pp. 92 s.). A Ravenna, in San Vitale, il 29 maggio 853,
e a Roma, in San Pietro, il 19 giugno seguente, fu decretata e ribadita una pi severa condanna
("sit ille a sanctis patribus et a nobis anathema") automaticamente estensibile - come s' visto - a
quali avessero osato appoggiarlo nella realizzazione dei suoi progetti (ibid., p.93). Nel corso
dell'estate, Leone si rivolse direttamente ad A., intimandogli di presentarsi il 15 novembre (la
lettera indirizzata "Anastasio presbytero excommunicato"; cfr. Acta depositionis, coll.1018 s.).
Ma anche questa intimazione rest senza esito. Il concilio si tenne l'8 dicembre, in San Pietro,
alla presenza dei legati imperiali: A. fu deposto dall'ufficio sacerdotale, senza possibilit di
esservi mai pi restituito (ibid., coll. 1017-1021; Lib. Pont., II, p. 129; Am. Bert.., pp. 93 s.).
Alla morte di Leone IV (17 luglio 855), il clero romano unanime ed in perfetto accordo con la
nobilt ed il popolo, si affrett ad eleggere papa il cardinale di San Callisto, Benedetto. Ma la
consacrazione dell'eletto pot avere luogo solo il 29 settembre, dopo che fu fallito il tentativo di
contrapporgli un antipapa nella persona di Anastasio.
La Vita di Benedetto III nel Liber Pontificalis (II, pp. 141-144) d un resoconto degli
avvenimenti che, se non si segnala per obiettivit e serenit di giudizio, ha per il merito di
essere esteso e denso di particolari: l'inizio, della congiura si ebbe a Gubbio, quando Arsenio
convinse i legati Nicol, vescovo di Anagni, e il magister militum Mercurio, che erano partiti da
Roma per recare all'imperatore il decreto d'elezione, a non serbare fedelt all'eletto, e ad
eleggere, al suo posto, A.; l'iniziativa si concret poi ad Orte, dove convennero intorno ad A. i
legati mandati nel frattempo dall'imperatore e quanti, a Roma, primo fra tutti Radoaldo, vescovo
di Porto, si erano lasciati trascinare dall'abile propaganda svolta dal vescovo Nicol e dal suo
compagno, dopo il loro rientro dalla missione presso Ludovico II; da questo momento saranno i
legati imperiali a guidare l'impresa. La marcia di avvicinamento a Roma; l'imprigionamento dei
legati spediti incontro ai sopravvenienti da Benedetto III, quando si fu reso conto di ci che si
stava preparando; l'assalto a San Pietro, dove A. ebbe cura di distruggere le pitture che Leone IV
aveva fatto fare sulle porte, a ricordo dei sinodo dell'853, e che recavano in riassunto le sentenze
di condanna pronunciate contro il contumace cardinale di San Marcello; l'entrata in citt e
l'irruzione a mano nel patriarcho lateranense ("saeculari potentia multisque telorum generibus"

p. 142, 20; per "saeculari potentia", cfr. anche Ann. Bert., p. 94); la deposizione di Benedetto III e
l'intronizzazione di A.: tutto avvenne in modo da fare impallidire, al confronto, il ricordo
dell'incursione saracena dell'846 (cfr. Lib. Pont., II, p. 142, 14). Ma l'uso della violenza non ebbe
la virt di generare fra i Romani i consensi necessar al consolidamento del successo; il clero,
nell'insieme, tenne fermo la propria scelta iniziale, e la cittadinanza si schier compatta dietro di
esso. D'altra parte, ai legati manc la decisione che si sarebbe richiesta per insistere con la forza se pure, come osserva il Perels (p. 206), non fu questa forza stessa che, a un certo punto, si rivel
insufficiente. La partita era perduta: il 29 settembre, Benedetto III, reintegrato nella sua dignit,
fu consacrato alla presenza dei legati imperiali. A. era stato papa in Roma per soli tre giorni.
L'appoggio che i legati imperiali avevano dato al tentativo di Arsenio e di A. sort, per, l'effetto
di indurre i vincitori alla moderazione nei riguardi di quanti avevano avuto parte nella congiura.
Benedetto III non ispir certo la propria condotta all'accanimento del suo predecessore. Nel
frattempo, le persistenti ambizioni di A. erano assurte ad ingrediente di un disegno politico in cui
era impegnato il prestigio dell'imperatore e, forse proprio in considerazione di ci, la sua
condanna non solo non venne aggravata, ma fu anzi alleggerita: Benedetto riammise il cardinale
di San Marcello alla comunione dei laici (Ann.Bert., p.95). Il nuovo papa provvide per a far
restaurare in San Pietro le pitture che raffiguravano il sinodo dell'853 (ibid., pp. 94 s.).
Gli eventi del luglio-settembre 855 hanno segnato una specie di svolta nella vita di Anastasio.
Tanto che, per un equivoco, che ebbe probabilmente un'origine casuale, ma che certo si afferm e
perdur m quanto conveniva all'intento apologetico (da parte cattolica) di distinguere con
nettezza la fisionomia dell'A., bibliothecarius sedis apostolicae, servitore fedele di tre papi
(Mabillon, Amales O. S. B., III, Lutetiae Paris. 1706, p. 35; v. anche l'epigrafe elogiativa che gli
fu dedicata in Santa Maria in Trastevere, nel 1869) ed avversario . gente di Fozio, dall'A.
cardinale d San Marcello, deposto da Leone IV, antipapa sotto Benedetto III, che - come
vedremo - fu riammesso al sacerdozio e poi, di nuovo, deposto da Adriano II, si ritenne a lungo
che l'A. cardinale e l'A. bibliotecario fossero due persone diverse. Alla fine del secolo scorso,
un'enciclopedia protestante di storia ecclesiastica recava ancora due voci distinte, dedicate
rispettivamente ad "A.,Gegenpapst" e ad "A.Bibliothecarius" (Realencyklopdie fr
protestantische Theologie und Kirche, I, Leipzig 1896, pp. 489 s. e 492 s.). Ma gi il
Hergenrther (pp. 230-240) e pi estesamente il Laptre (pp. 8-32) avevano dimostrato l'identit
esistente fra i due personaggi, con una tale ricchezza di argomenti che il Perels (pp. 317-322),
venuto dopo di loro, non trover gran che da aggiungere.
Eppure, prevenendo, si direbbe, le perplessit dei suoi biografi, A. stesso d notizia di un suo
deciso mutamento d'indirizzo. Nella dedica a Nicol I della traduzione dal greco della biografia
di Giovanni l'Elemosiniere, A. confessa di essersi reso conto che, in passato, aveva troppo
presunto delle sue forze, di essersi quindi domandato a che cosa di utile poteva attendere nella
casa del Signore una volta che avesse rinunciato a perseguire obiettivi sproporzionati alle proprie
capacit ed alla propria condizione, e di aver fatto buona accoglienza, in questo stato d'animo,
all'invito, che gli veniva rivolto, di intraprendere la traduzione della vita del patriarca di
Alessandria (Epistolae, p. 396, 25-30; cfr. Laehr, pp. 417 s.: la lettera-prefazione a Nicol I va
collocata negli anni 858-862). Anche se ci sono molti punti di contatto fra il nuovo A. e quello
che abbiamo conosciuto fin qui, ed il tono complessivo della lettera a Nicol troppo insinuante
ed adulatorio perch si possano prendere sul serio i propositi che si trovano espressi all'inizio,
certo che, dopo l'855, A. deve avere realizzato che la conoscenza dei greco gli avrebbe aperta la
via del reinserimento e della riabilitazione, salvo a rivelarsi col tempo un'arma da porre al
servizio delle proprie antiche ambizioni. Laccesso al pontificato gli era ormai precluso, ma il

potere, cui egli ambiva, e che il colpo di mano dell'855 non era stato in grado di assicurargli, lo
avrebbe avuto lo stesso, anche se rimanendo nell'ombra.
Lentamente, ma con progressi costanti, A. ottenne che la sentenza dell'853 fosse mutata: Nicol I
promise di restituirlo al sacerdozio, a patto che si mantenesse fedele alla Chiesa (Ann. Bert., p.
95), e Adriano II, il giorno stesso in cui fu consacrato pontefice, adempir la promessa dei suo
predecessore (Lib. Pont., II p.175, 16-21). Frattanto, forse gi ai tempi di Benedetto III, ma
certamente con Nicol I, A. ottenne la dignit abbaziale nel monastero di Santa Maria in
Trastevere (Epistolae, p. 399, 7-8): non una fuga dal mondo, bens la soluzione con cui (come
era accaduto anche in altri casi) si provvedeva ad assicurare la sussistenza di un ecclesiastico
rimosso dal suo ufficio.
Nelle more di questa graduale riabilitazione, A. divenne il prezioso ed insostituibile collaboratore
di Nicol I. Per induzione, il punto di partenza delle sue fortune in curia stato segnato alla fine
dell'861 o, pi verosimilmente, all'inizio dell'anno successivo (Perels, pp. 215-217). Nel
momento in cui, dopo il sinodo costantinopolitano del maggio dell'861, la questione di Fozio
entrava nella sua seconda fase., e Roma, rotti gli indugi iniziali, si disponeva a passare alla
controffensiva, ci si dovette accorgere che non era il caso di lasciare A. nel suo monastero
trasteverino alle prese con traduzioni di vite di santi, quando invece la sua conoscenza del greco
poteva essere utilmente impiegata nella battaglia.
Ma la prima sicura testimonianza sulla presenza di A. accanto a Nicol I dell'autunno dell'863;
ha la forma di una sdegnata protesta contro la fiducia accordata dal papa a un prete ch'era stato
scomunicato e deposto, e si riferisce a una vicenda in cui A. aveva evidentemente avuto una parte
di primo piano, bench in questo caso i rapporti con l'Oriente greco non ci entrassero affatto.
L'accenno ad A. contenuto nel capitolo terzo dei memoriale inviato a Nicol I dai vescovi
lorenes Guntero e Tilgaldo dopo la loro condanna nel sinodo romano dell'863: "... assistente
lateri tuo Anastasio, olim presbytero ambitus damnato et deposito et anathematizato, cuius
scelerato magisterio tuus praecipitabatur furor" (Annales Fuldenses, a cura di F. Kurze,
inMonumenta Germ. Hist., Scriptores rerun Germanicarum, Hannoverae 1891, p. 61).
In nemmeno due anni, l'esperto di cose orientali aveva fatto la sua strada: senza ancora ricoprire
alcuna carica, A. svolgeva le funzioni di segretario particolare, segreto, di Nicol I, ed in tale
veste dava il suo consiglio e - soprattutto - aveva parte nella redazione delle lettere papali
(Perels, p. 243).
Nel novembre dell'867, proprio alla fine dei pontificato di Nicol I, Incmaro arcivescovo di
Reims, volendo assicurare un efficiente appoggio sul posto al suo inviato, Attardo di Nantes, che
doveva trasmettere al papa gli atti del sinodo di Troyes (25 ottobre) e prendere contatto con i
dignitari della Curia, primo fra tutti Arsenio, si rivolse personalmente ad A.; il quale, dato che
Incmaro, nel luogo donde scriveva, non disponeva di doni adeguati per il papa, per Arsenio e per
lui stesso veniva pregato di accettare per l'intanto, pro nostrae [di Incmaro] exiguitatis memoria",
una pelliccia ed un panno "coloribus vario" (cfr.Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VIII, 1,
Berolini 1939, pp. 223-225). Il vescovo di Nantes arriv a Roma quando Nicol I era gi morto
(Ann. Bert., p. 90), ma anche col nuovo papa A. non tralasci di esercitare la sua influenza nel
senso desiderato da Incmaro, riuscendo benissimo nell'intento (cfr. la lettera di Adriano II
all'arcivescovo di Reims, 8 marzo 868; a cura di E. Perels, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae,
VI, Berolini 1925, pp. 710 s.; Incmaro scrisse ad A. una lettera di ringraziamento,
accompagnandola questa volta col dono di alcuni suoi opuscoli: cfr. il regesto della lettera in
Flodoardo, Historia Remensis ecclesiae, a cura di G. Waitz, ibid., Scriptores, XIII, Hannoverae
1881, pp. 535 s.).

Con Adriano II, la situazione di A. si era infatti ancora rafforzata, se non altro nel senso che
aveva subito avuto un riconoscimento ufficiale. Riammesso al sacerdozio il giorno della
consacrazione di Adriano (14 dic. 867), A. immediatamente dopo fu nominato dal papa
"bibliothecarius Romanae ecclesiae" (Ann. Bert., p. 92), il funzionario che, oltre ad attendere al
lavoro di cancelleria, era responsabile della conservazione degli atti dei concili, dei registri delle
lettere e, in genere, dei libri che costituivano la biblioteca del papa. Nel protocollo della lettera in
cui annunciava ad Adone di Vienne la morte di Nicol e l'avvento di Adriano Il, A. appare gi
investito della nuova carica (Epistolae, p.400, 27). Il titolo di questa lettera, nel codice
(Vatic. Reg. lat. 566) che ce l'ha conservata, riflette esattamente la posizione di A. all'inizio
dell'868: "Epistola reverendi Anestasii [sic] presbiteri et abbatis ac bibliothecarii sacrae Romanae
ecclesiae".
Scrivendo ad Adone, A. si mostra preoccupato delle intenzioni del papa circa le grosse questioni
rimaste sul tappeto dopo la morte di Nicol I: tutti i colpiti si preparavano a rialzare la testa e,
"falso, ut credimus", si dice che l'imperatore sia schierato con loro; di certo, si sa che l'animo di
Adriano pende da quello di Arsenio e che quest'ultimo ha dei motivi di risentimento verso il papa
defunto. In conclusione, A. invitava Adone a vegliare dalla periferia sul rispetto delle decisioni
adottate da Nicol I, prospettando tale esigenza come una questione di principio che riguardava
tutta la Chiesa: "nam si tanti pontificis acta cassantur, vestra, quaeso, ubi parebunt?" (Epistolae,
pp.400 s.; cfr. Laehr, pp. 421-425; il Perels, p. 252, cita alcuni passi di lettere di Nicol,
presumibilmente redatte da A., in cui ritorna lo stesso motivo).
Tra le materie giudicate, se non da Nicol, dai suoi immediati predecessori, c'era per anche la
condanna pi. volte ribadita contro il cardinale di San Marcello. E, in questo caso, sembra che A.
abbia fatto un'eccezione alla regola da lui enunciata, provvedendo a far scomparire dal
patriarcho lateranense, subito dopo la morte di Nicol I, nel momento di confusione che seguiva
immancabilmente alla fine di ogni pontefice, il dossier relativo al suo burrascoso passato, in
modo di accelerare i tempi della propria riabilitazione. Tale , per lo meno, una delle accuse
collaterali che gli saranno contestate quando si trover coinvolto nella vicenda che ebbe per
protagonista suo cugino Eleuterio (Ann. Bert., p. 95). L'accusa, data la spregiudicatezza di A.,
non affatto inverosimile. E se si pu sostenere che, nell'economia generale della vita della
Chiesa, l'episodio del cardinale di San Marcello aveva avuto, ed aveva un'importanza molto
minore della questione - per esempio - del divorzio di Lotario II, si deve per ammettere che, a
parte altre considerazioni fin troppo ovvie sui doveri di un fimzionario, era la questione di
principio a venire in tal modo sacrificata, e proprio ad opera di chi aveva avuto il merito di
impostarla con tanta nettezza.
Durante i primissimi tempi del pontificato di Adriano, A., in nome di una intransigente difesa
delle direttive che erano state proprie del predecessore, si sarebbe dunque mantenuto su di una
posizione di attesa o addirittura di diffidenza nei confronti del nuovo papa,, di Arsenio e del
cosiddetto partito imperiale. Ma tale diffidenza, ch'egli ha forse artificialmente accentuata nella
lettera ad Adone, non si precis mai in un contrasto vero e proprio. Menzionati entrambi nella
lettera di Adriano II ad Incmaro, dell'8 marzo, come suoi fidatissimi consiglieri (cfr. Monumenta
Germ. Hist., Epistolae, VI, loc. cit.), Arsenio ed A., insieme, avevano aiutato Costantino e
Metodio, gli apostoli (o dottori) degli Slavi, e i loro compagni, a predisporre il primo ciclo di
ufficiature in lingua slava in alcune chiese di Roma (Vita di Costantino, cap. XVII: cfr.
Dvornik, Les lgendes..., p. 378 e Grivec, p. 79).
Fra la fine dell'867 e l'inizio dell'anno seguente; la venuta a Roma di Costantino e di Metodio un successo di Nicol I, i cui frutti venivano colti da Adriano - aveva certo rappresentato un'altra

delle occasioni nelle quali la familiarit acquisita col mondo bizantino consent ad A. di mettersi
in luce. Ma, a parte il nuovo aumento di prestigio, l'incontro soprattutto con Costantino il
Filosofo, che, un tempo, a Costantinopoli, aveva ricoperto presso il patriarcato le stesse funzioni
che ora A. ricopriva nella curia romana, lasci una traccia profonda nel suo animo: a distanza di
anni, giudizi pronunciati allora da Costantino e interi brani della sua conversazione saranno
riportati testualmente da A., con il riguardo che si usa alle autorit indiscusse (Epistolae, p. 407,
11-25: a. 871; p. 433, 17-26: p. 875; pp. 436, 21- 437,5: p. 875; cfr. F. Dvornik, Les
Slaves,Byzance et Rome au IXe sicle, Paris 1926, pp. 198 s.).
Il giorno 10 marzo 868, due giorni dopo la lettera di Adriano ad Incmaro, Eleuterio, figlio di
Arsenio, d'accordo col padre, rap con l'inganno la figlia del papa, ch'era stata gi promessa ad un
altro, e la spos. Adriano non volle accettare il fatto compiuto. Di fronte alla sua intransigenza,
Arsenio si allontan da Roma, diretto a Benevento, per sollecitare l'intervento dell'imperatore:
ma mor subito dopo l'arrivo.
Privato dell'appoggio paterno, Eleuterio dovette allora vedersi perduto e, mentre Adriano
premeva su Ludovico II perch trascinasse in giudizio il colpevole, non trov di meglio che
ammazzare la sposa rapita e, insieme con lei, sua madre Stefania finendo a sua volta ucciso dai
legati dell'imperatore. Ma questa spiegazione, psicologicamente abbastanza plausible,
dell'epilogo della vicenda, soltanto nostra: gli Annales Bertiniani, che riferiscono i fatti (ad a.
868, p. 92), addossano ad A. tutta la responsabilit dell'accaduto: "isdem vero Eleutherius,
consilio ut fertur, fratris sui Anastasii,...Stephaniamuxorem ipsius pontificis, et eius filiam, quam
sibi rapuit, interfecit"
Incmaro, del resto, non fa che riportare - cautelandosi dietro un ut fertur - laversione prevalsa al
sinodo riunito da Adriano II, il 12 ottobre, a Santa Prassede, dopo che un tale prete Adone, ch'era
anche parente di A., ebbe esplicitamente dichiarato che A. aveva esortato Eleuterio al duplice
delitto per mezzo di un suo messo ("hominem ad Eleuterium misit"). Sulla base di questa
gravissima accusa e di altre accuse, anche non lievi, che erano quelle di aver preso parte al
saccheggio dei patriarchio dopo la morte di Nicol I, di avere seminato la zizzania "inter
piissimos principes et ecclesiam Dei" - si pensi, per questo, alla lettera ad Adone - e di aver
ordinato di cavare gli occhi e tagliare la lingua ad un certo Adalgrimo che aveva chiesto asilo alla
Chiesa, Adriano ribad contro H bibliotecario della sede apostolica la sentenza di deposizione che
Leone IV aveva pronunciata contro il cardinale di San Marcello, sia pure nella forma pi
attenuata di Benedetto III, che lo aveva riammesso alla comunione dei laici. A., chera presente al
sinodo, si impegn con giuramento a non allontanarsi da Roma pi di quaranta miglia
(Ann. Bert., pp.94-96). Ma, all'incirca un anno pi tardi, forse gi reintegrato nelle sue funzioni
di bibliotecario, egli partiva per Costantinopoli, nella qualit di legato imperiale, con un incarico
anche da parte del pontefice.
Almeno per quanto riguarda il reato di istigazione a delinquere, ch'era poi il principale capo
d'accusa, A. deve essere riuscito a provare la propria innocenza. l infatti da escludersi che, in
questo caso, abbia giocato a suo favore soltanto la considerazione dei ben noti meriti
professionali: Adriano era stato colpito in maniera troppo dura e personale perch potesse
accettare di vedersi sempre intomo, nelle vesti di collaboratore e consigliere, colui al quale si
faceva risalire la responsabilit di quanto era accaduto (cfr. Perels, p. 234).
Ma, accanto alla discolpa - che non dovette mancare - sul punto dell'istigazione, l'altro elemento
di cui si valse A. per riguadagnare terreno, fu l'appoggio dell'imperatore. Messe evidentemente
da parte le riserve che erano emerse nella lettera ad Adone di Vienne, A. si rivolse allora a
Ludovico II, sicuro di trovare buon ascolto presso di lui: ora che Arsenio non c'era pi,

l'imperatore aveva bisogno di poter disporre a Roma di un'altra persona che, come Arsenio,
godesse al tempo stesso la fiducia sua e quella del papa. Singolarmente favorito dalle
circostanze, A. fece in modo che la propria candidatura ad occupare la posizione ch'era stata di
Arsenio maturasse dalle cose stesse, senza bisogno di forzare la situazione. E ci che era
prematuro per Roma, dove il ricordo degli avvenimenti del marzo dell'868 e delle accuse che ne
erano seguite, non poteva certo essere spento, fu attuato dapprima a Costantinopoli, su di un
terreno che univa i vantaggi della lontananza al rischioso privilegio di costituire, in quello
scorcio dell'869, una specie di linea avanzata dove la posta in gioco era il riconoscimento del
primato universale della Chiesa di Roma. La missione a Costantinopoli fu il capolavoro della
vita di Anastasio.
A. part per Costantinopoli verso la fine dell'869, a capo di una delegazione cui Ludovico II
aveva affidato l'incarico di riallacciare le trattative per il matrimonio di sua figlia Ermengarda
con il primogenito del basileus; insieme con lui Partirono il conte Suppone, cugino della moglie
dell'imperatore, e il siniscalco Everardo (Epistolae, p.410, 15-19; Interpretatio synodi VIII
generalis, col. 148; Lib. Pont., II, p.181, 22-24).
Molto incerta si presenta l'identificazione (Cfr. Perels, p. 235) fra il nostro A. e l'Anastasius
didascalus che istru la principessa imperiale nella letteratura sacra (cfr.
Flodoardo, Hist. Rem. eccl., p.550): ne risulterebbe confermata l'ipotesi tutt'altro che improbabile
di un soggiorno di A. alla corte di Ludovico II.
Da pi luoghi della Vita Hadriani (Lib. Pont., II, pp. 181, 21-22; 182, 8-9; 185, 1), da un s delle
note che lo stesso A. appose alla sua traduzione degli atti del concilio dell'869-'70 (Interpretatio
syn VIII gen., col. 39) e dall'elenco dei partecipanti alla decima sessione del concilio (ibid.
col.148) parrebbe attestato che A., durante la missione, e quindi anche prima di partire dall'Italia,
era gi di nuovo bibliotecario della Chiesa romana. Se la redazione delle due lettere che il 10
giugno 869 Adriano II indirizz rispettivamente, al patriarca Ignazio e al busileus
(in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VI, pp. 750-758), va davvero attribuita, come pare
dimostrato, ad A., a quella data la sua restituzione era ormai cosa fatta. E si potrebbe risalire
ancora pi indietro, solo che si voglia ammettere che A., come probabile, fosse uno degli
"utriusque linguae periti", cui Adriano affid la revisione degli atti del concilio costantinopoliano
dell'867, che gli erano stati recapitati da una legazione giunta a Roma alla fine di febbraio o ai
primi di marzo dell'869 (Lib. Pont., II, p. 179, 20; per la data, cfr. Dvornik, The Photian Schism,
pp.140 s.). Per ritrovare A. menzionato come "bibliothecarius" in un documento, bisogna per
attendere addirittura l'intitulatio della sua lettera ad Adriano II, dell'871: "farmilus vester
Anastasius peccator abbas et summae ac Apostolicae vestrae sedia bibliothecarius" (cfr.
Santifaller, pp. 55 s.).
Al periodo intercorso fra il rientro nelle sue funzioni in Curia e la partenza per Costantinopoli,
risale inoltre un lettera di Adriano II ai principi slavi, redatta anch'essa da A., che autorizzava
l'uso della lingua slava nella liturgia: una questione, questa, che attendeva di essere definita
dall'inzio dell'868 e che probabilmente era rimasta sospesa anche in seguito alla morte di
Arsenio, uno dei principal zelaton della causa della liturgia slava, ed alla disgrazia in cui era,
provvisoriamente caduto A. (cfr. Grivec, pp. 81 s. e 87; per l'autenticit della lettera di Adriano e
per l'intervento di A. nella sua redazione, ibid., pp. 257-261).
I tre legati di Ludovico Il giunsero a Costantinopoli in tempo per assistere alla decima ed ultima
sessione (28 febbr. 870) dell'ottavo concilio ecumenico, che aveva iniziato i suoi lavori
nell'ottobre dell'anno precedente e si sarebbe concluso con la condanna di Fozio e dei suoi
seguaci.

Nella lettera dedicatoria ad Adriano II della sua traduzione degli atti conciliari (cfr. Laehr, pp.
427-429), A. preciser che, oltre al mandato dell'imperatore, ne aveva ricevuto un altro dal papa
("ferentern etiam legationem a... praesulatu vestro"). Ma si trattava sempre di un mandato
relatico alle trattative per il matrimonio fra i figli dei due sovrani (v. contra Perels, pp. 235 s.),
ch'era materiaper la quale si richiedeva segnatamente l'assenso del papa: "in tam enim pio
negotio et quod ad utriusque imperii untatem, immo totius Christi ecclesiae libertatem pertinere
procul dubio credebatur. praccipue sumin pontificii vestri quaerebatur assensus". Eppure, anche
se la duplice missione di A. era limitata al solo "negotium" del matrimonio, "Dei... nutu actum
est, uttanti negotii [ma qui negotium il concilio!] cum loci servatoribus apostolicae sedia etipse
fine gauderem..., qui per septenniurn ferme pro eo indefesse laboraveram et per totum orbem
verborum semma sedule scribendo disperseram" (Epistolae, p. 410, 15-25; Cfr. anche p. 437, 67). C'era insomma voluta quella fortunata coincidenza in cui A. non esita a riconoscere il segno
della mano di Dio, perch il firutto di sette anni di fatiche (862-869) non venisse - raccolto - da
altri.
Delle cinque lettere di Nicol I e delle quattro di Adriano II.) che vennero lette ed acclamate
durante le sessioni del concilio, A. doveva averne dettata la maggior parte, se non addirittura
tutte o quasi tutte, come egli stesso afferma con orgoglio, - e non si pu non prestargli fede, dato
che assurdo pensare che abbia cercato di,ingannare su questo punto proprio Adriano II, al quale
la lettera dedicatoria era diretta: "pene omnia, quae ad praesens negotium. pertinent quacque a
sede apostolica Latino sermone prolata sunt..., ego summis pontificibus obsecundans, decessori
scilicet vestro ac vobis, exposui" (Epistolae, p. 410, 25-28; cfr. Laptre, p. 246).
Ma A. non si limit a presenziare, da spettatore, al trionfo di una causa alla quale aveva dedicato
tante energie. "Constantinopoli pro praedicta causa [le trattative matrimoniali] reppertus non
pauca in his vestri loci servatoribus, ut ipsi quoque testantur, solatia prestiti" (Epistolae, p. 410,
28-29): senza averne avuto mandato ufficiale, A. ebbe occasione di collaborare con la
delegazione romana al concilio. Incmaro, che guardava le cose da lontano, ne parla come di un
esperto (una specie di interprete ad alto livello), aggiunto alla delegazione ufficiale (Ann. Bert,
p.120).
I legati ufficiali della Chiesa di Roma (i vescovi Donato, di Ostia, e Stefano, di Nepi, e il diacono
Marino) non erano in grado di comprendere il greco e dipendevano, perci, da un interprete
(Epistolae, p. 413, 22-25). A concilio terminato, ma quando non avevano ancora apposto le loro
firme, i legati sottoposero gli atti all'esame di A., il quale, "quia in utrisque linguis
eloquentissimus eidstebat", e poich - aggiungiamo noi - conosceva benissimoil testo in
questione per averlo redatto lui stesso, non manc di accorgersi che dalla traduzione greca di una
lettera gi predisposta da Nicol I erano scomparsi alcuni cenni c ad laudem serenissimi nostri
Caesaris", che Adriano II vi aveva inseriti prima di spedirla, "Arsenio episcopo imminente".
(Mette conto di osservare come il contenuto del rilievo si addicesse alla presente situazione di A.,
legato ad un tempo imperiale e papale, e convenisse al suo progetto di porsi a Roma come erede
delle fortune di Arsenio). Dopo tale constatazione, parve per un momento che tutto fosse rimesso
in discussione. Di fronte al rifiuto dei Greci di ristabilire il testo integrale, i legati romani
minacciarono infatti di non sottoscrivere gli atti del concilio. E il compromesso fu raggiunto
soltanto col modificare la formula di sottoscrizione, nel senso che i legati accettarono di firmare,
ma sub condicione: l'ultima parola la riservavano al papa (Lib. Pont., II, pp. 181, 21-,182, 2).
Preoccupati per la svalutazione dell'autorit del concilio ch'era implicita nell'approvazione con
riserva degli atti conciliari ("dubietate subscriptionum": Lib. Pont., II, p. 182, 4), i vescovi greci
passarono alla controffensiva e indussero il basileus a far sottrarre furtivamente dalle abitazioni

dei legati romani le copie, autografe di mano di ciascuno dei vescovi presenti in assemblea,
del Libellus satisfactionis, che redatto sulla falsariga della Regula fidei di papa Ormisda,
conteneva una solenne riaffermazione del primato di Roma, oltre che una violenta condanna di
Fozio e dei suoi: la firma dei Libellus era stata posta dal papa come una condizione sine qua
non per l'ammissione al concilio (Interpretatio syn. VIII gen., coll.36 s.: testo delLibellus, e col.
38: nota di A.; per tutta la questione, v. Dvornik, The Photian Schism, pp. 143-147).
Quando si furono accorti della sparizione di una parte dei chirografi - non tutti erano stati
asportati, perch quelli dei vescovi pi importanti erano stati messi al sicuro -, i legati romani
ricorsero disperati all'aiuto di A. e di Suppone, i quali intervennero prontamente presso il
basileus, ottenendo la restituzione dei libelli (Lib. Pont., II, p.182, 3-11; Interpretatio syn. VIII
gen., coll.38 s.). Secondo il Liber Pontificalis, questo risultato sarebbe stato conseguito "non sine
magno laboris periculo", e a prezzo dell'ira di Basilio, mentre A. sostiene di avere convinto il
basileus con la sola forza del ragionamento. Se scrivendo poco tempo dopo a Ludovico II,
Basilio, fra i numerosi motivi che avevano portato alla rottura delle trattative fra i due imperi,
accenner anche al deplorevole contegno tenuto a Costantinopoli dai legati dell'impero di
Occidente (cfr. Ludovici II imp.epistola, pp. 392, 32- 393, 2), probabile che nell'evidente
esagerazione dell'accusa qualcosa di vero ci fosse e riguardasse anche l'impresa del recupero
dei libelli, nella quale furono forse impiegati mezzi diversi da quello della pura persuasione.
Ma per A. non tutto poteva ridursi alla politica, soprattutto a Costantinopoli. Egli trov il tempo
anche per i codici, dato che non pensabile che solo per caso gli sia capitato di vedere gli scolii a
Dionigi l'Areopagita, che in seguito riuscir a procurarsi a Roma, forse proprio per aveme allora
commissionata una copia (Epistolae, p.432, 13-14). E collaborando, anche su questo piano, con i
legati papali, si diede da fare per raccogliere dalla viva voce di Metrofane, vescovo di Snme,
ch'era stato esiliato da Fozio a Cherson, una testimonianza sul ritrovamento, che vi aveva avuto
luogo, delle reliquie di san Clemente (Epistolae, p. 437, 6-11). Sulla stessa linea, qualche anno
dopo (874 od 875), quando una missione di Giovanni VIII "apud augustos" lo port a Mantova,
A. ne approfitt per tradurre dal greco la translatio di Santo Stefano, cedendo anche a una
pressante richiesta dei Mantovani (Epistolae, p. 428, 1-8; cfr. Laehr, pp. 443-445).
Partite insieme da Costantinopoli (marzo 870), le due delegazioni occidentali si separarono a
Durazzo, al momento dell'imbarco: diretti ad Ancona i legati papali, e a Siponto gli altri, fra cui
A., che dovevano anzitutto recarsi a Benevento, per riferire all'imperatore. Ma ancora all'inizio
della traversata, i primi subirono l'assalto dei pirati Narentani, che li spogliarono di quanto
portavano con loro, ivi compresa la copia originale degli atti dell'ottavo concilio destinata a
Roma, trattenendoli poi prigionieri per otto mesi circa (per i rimandi alle fonti, cfr. Monumenta
Germ. Hist., Epistolae, V I, p. 759 n. 7). Al danno assai grave della perdita dei documenti port
rimedio il solito A. che, arrivato per l'altra via a primavera inoltrata, consegn puntualmente al
papa una copia degli atti conciliari che s'era fatta fare per suo uso personale; con lui arriv a
Roma anche una parte dei chirograf (forse proprio quelli ch'erano stati rubati e poi restituiti a
Costantinopoli), che i legati papali avevano lasciata affidata alle sue cure. In quest'ultimo caso, la
parte avuta da A. non fu per cos meritoria ed essenziale come egli vorrebbe far credere: anche i
restanti chirografi - ed erano, a quanto pare, gli "excellentiorum episcoporum libelli", tenuti
separati dal primo momento - non andarono perduti; i legati ne ottennero infatti la restituzione
dai Narentani e li portarono senza altri inconvenienti fino a Roma. Ma A. tralascia questo
particolare, per meglio contrapporre la propria efficienza all'assoluta incapacit di cui avrebbero
dato prova in quell'occasione i rappresentanti ufficiali della Chiesa di Roma: "ac per haec factum
est, ut sedes apostolica, Deo auctore, codicem, synodi per nos susciperet, et libellos missis

quidem a nobis redditos, sed per nos servatos haberet, quos nimirum, si missi penes se ut
codicem
synodi,
et
caetera
scripta
haberent,
hos
procul
dubio
perderent"(Interpretatiosyn. VIIIgen., col. 39).
L'intera tradizione occidentale del concilio dell'869-'70 dipende dal testo portato in qua da A. o,
pi precisamente, dalla traduzione che egli ne appront per incarico di Adriano II. Quando gli
atti conciliari furono tradotti, il papa pot rendersi personalmente conto di come erano andate le
cose: e solo allora scrisse a Basilio una lettera che suonava implicita approvazione dei risultati
del concilio (la lettera del 10 nov. 871: cfr. Hergenrther, II, p. 161).
Entro un anno dal ritorno da Costantinopoli, A. ebbe un nuovo incarico di carattere diplomatico.
La meta, questa volta, era Napoli, dove una parte del clero, nonostante la scomunica impartita
dal papa, continuava a rimanere. schierata con il duca Sergio II nel conflitto che l'opponeva allo
zio, l'esiliato vescovo Atanasio I. Insieme ad A., "vir eloquentissimus et ad exortandum idoneus",
fu designato per tale missione l'abate di Montecassino, Bertario (Vita Athanasii, a cura di G.
Waitz, inMonumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannoverae
1878, p. 447: per Bertario, cfr. perMonumenta ad Neppolitani ducatus historiam pertinentia, I,
Napoli 1881, p. 97 n. 4; A. non menzionato nella redazione, pi breve, della Vita, scoperta da
E. Caspar: Petrus Diaconus und die Monte Cassineser Flschungen, Berlin 1909, p. 102). I due
legati non riuscirono nell'intento di ridurre all'obbedienza i sacerdoti ribelli, ma A. - come risulta
anche dal brano di una sua conversazione con un sacerdote napoletano, riportato nella Vita
Athanasii - lasci un'impressione di grande fermezza e di capacit dialettica (v., contra, A.
Laptre, L'Europe et le Saint-Sige l'poque carolingienne, I: Le pape Jean VIII (872-882),
Paris 1895, pp. 225 s., che interpreta il passo come se rivelasse un'intenzione ironica nei
confronti dell' "erudizione ecclesiastica" di A.). Secondo il Laptre (ibid., p. 225 n. 3), che
ammette per di non avere a disposizione alcuna testimonianza diretta, A., sempre in missione
diplomatica, si sarebbe allora recato anche a Gaeta, presso il vescovo (o duca) Docibile.
A. e Bertario erano andati a Napoli con un duplice mandato, papale e imperiale ("vice apostolici
et augusti"): per il primo dei due si ripeteva cos la situazione in cui s'era gi trovato a
Costantinopoli. E nel quadro di un'attivit che ormai si svolgeva, contemporaneamente, al
servizio del papa e dell'imperatore, del tutto normale che, almeno in un caso, A. abbia fornito a
Ludovico II anche quel particolare tipo di prestazione, che era poi quanto di meglio egli fosse in
grado di dare: la redazione di lettere e documenti ufficiali. Per i dettagliati riferimenti al
contenuto delle trattative condotte da A. a Costantinopoli e a Napoli, e al comportamento tenuto
nel primo caso dai legati imperiali, la lettera che Ludovico II, "imperator augustus, Romanorum",
indirizz dopo la presa di Bari (2 febbr. 871; il termine post quem il 13 agosto dello stesso
anno) a Basilio, "imperatori novae Romae" - e che viene generalmente attribuita ad A. stesso -, si
presenta in parte come un corollario polemico di quelle trattative, una messa a punto per scritto
delle posizioni assunte nei contatti diretti (cfr. Ludovici II imp. epistola, p. 3, 90, 23-33, per le
trattative matrimoniali; pp. 392, 6-393, 12, per la mancata assistenza ai legati papali di ritorno
dal concilio del.l'869-'70 e per le.accuse ai legati imperiali a Costantinopoli; p. 393, 13-33, per i
rapporti di Ludovico II con Napoli).
Maturata ai margini e in proseguimento della sua attivit di diplomatico, la lettera che A. scrisse
a nome di Ludovico II va per molto oltre la congiuntura politicodiplomatica e si pone come uno
dei testi basilari nella storia dell'idea d'impero in Occidente. La lettera, che pure si chiude con
una proposta molto concreta per un'azione combinata terra-mare contro i Saraceni nell'Italia
meridionale e in Sicilia ("per sicca", l'esercito di Ludovico II; "per aequora", la flotta bizantina),
infatti soprattutto una appassionata rivendicazione dei titoli dell'impero restaurato da

Carlomagno, di fronte al rifiuto, opposto ancora una volta da Basilio, di riconoscerne la


legittimit: titoli che significativamente vengono fatti consistere, per un verso, nella
consacrazione papale e, per l'altro, in un diretto rapporto con la "vecchia" Roma e la sua antica
tradizione. A Basilio, che s'era dichiarato disposto a riconoscere il titolo imperiale del suo collega
d'Occidente, dopo che avessero avuto luogo le progettate nozze fra il suo primogenito e la figlia
di Ludovico, A. risponde che "da noi la gloria non viene dai figli al padre, ma discende piuttosto
dai padri ai figli" (dove i "padri", al di l di Carlomagno, sono gli antichi imperatori romani): una
orgogliosa precisazione, ch'egli pone a suggello del fallimento della missione di un anno prima a
Costantinopoli.
Dopo l'articolo di W. Henze, l'autenticit della lettera di Ludovico II a Basilio I, riportata - com'
noto - nel Chronicon Salernitanum, non viene per lo pi contestata (cfr., per es., Perels, p. 238 e,
soprattutto, ErtI, pp. 128-132). Comunque, tale questione va tenuta distinta da quella della sua
paternit. Il, Kleinclausz, che stato il principale sostenitore della tesi della falsificazione
posteriore (il documento sarebbe stato redatto per incarico di Giovanni VIII, nell'879), fu anche
uno dei primi a pensare ad A., come all'autore: e questo l'unico punto della sua costruzione
rimasto saldo (cfr. Henze, p. 670).
Col successore di Adriano II, Giovanni VIII (14 dic. 872), A. continu ad esercitare le funzioni di
bibliotecario, anche se probabile che, soprattutto rispetto agli ultimi tempi di Adriano, il suo
potere effettivo sia allora alquanto diminuito: il nuovo papa si dimostr subito pieno di energie e
deciso, quindi, a fare da s. Probabilmente proprio in correlazione con i diminuiti impegni in
curia, A. ebbe pi tempo da dedicare allo studio e alla sua attivit di traduttore: risalgono infatti a
quest'ultimo periodo della sua vita la traduzione degli atti del settimo,concilioccumenico (Nicea,
787), dedicata a Giovanni VIII forse gi nel primo anno del suo pontificato (Epistolae, pp.416418; cfr. Laehr, pp. 429-432); la Chronographia tripertita (compilata con brani tradotti da
Niceforo, Giorgio Sincello e Teofane, e chiamata cos in riferimento alla Historia tripartita di
Cassiodoro) e i Collectanea (una silloge di scritti attinenti al monotelismo), opere composte
entrambe fra l'871 e l',874 e destinate a fornire materiale al diacono Giovanni Immonide per la
sua grande enciclopedia storico-ecclesiastica (Epistolae, pp. 419-421 e 423-426; cfr. Laehr, pp.
432-435 e 437-441); e, di seguito, molte altre versioni di testi greci, in gran parte di carattere
agiografico (cfr. H. Goll, Die Vita Gregorii des Johannes Diaconus, Freiburgi. B. 1940, pp. 612). A s sta la traduzione delle glosse di Massimo il Confessore e di Giovanni Scolastico a
Dionigi l'Areopagita, cui si gi accennato.
Le glosse a Dionigi, con annessa revisione del testo nella traduzione che ne aveva data Giovanni
Scoto; una raccolta diexcerpta dalla Mystagogia di Massimo il Confessore e il trattato - pure de
Mystagogia - attribuito al patriarca di Costantinopoli, Germano; le passioni di San Demetrio e di
San Dionigi, A. volle dedicarli a Carlo il Calvo, celebrato come protettore ed animatore degli
studi, perch uomo di cultura egli stesso (Epistolae, pp, 431-434, ma 431, 1-7; v. anche pp. 434
s., 439, 440 s.; cfr. Laehr, pp. 448-451, 452 s., 457 s., 458-463).
L'attivit di traduttore di A., anche se cronologicamente la troviamo concentrata in anni che
segnano forse una contrazione dei suoi impegni politico-diplomatici (del resto, abbiamo gi visto
come egli fosse capace di sfruttare le sue missioni per fini di studio), non va considerata
separatamente da quelli, come se fosse stata un'attivit di studio disinteressato, che
completerebbe solo esternamente il profilo della sua personalit. La sua opera rappresenta invece
lo sforzo consapevole di mettere la Chiesa di Roma in grado di sostenere, anche culturalmente, il
confronto con Bisanzio.

La via prescelta, che era quella di attingere al patrimonio culturale bizantino per mezzo di
traduzioni, era certo la pi sbrigativa. Ma, in qualche caso, come A. ben sapeva (sia pure
sbagliando in riferimento al testo In questione), non si trattava di versioni vere e proprie, bens di
retroversioni di testi originariamente latini, andati poi perduti, e conservatisi soltanto nella
traduzione greca (Epistolae, p. 426, 3-8; per es., la passione di Dionigi, tradotta da A. e da lui
attribuita al patriarca Metodio, non che una versione greca della passione latina di Ilduino: cfr.
Thry, pp. 124 ss.).
A. ebbe sempre la netta consapevolezza della propria funzione di tra mite culturale fra due mondi
diversi (Epistolae, pp. 398, 3-4; 427, 15-16; 442, 20-22); egli afferma che gli eventuali
disconoscimenti che sarebbero potuti venire al suo lavoro non avrebbero assolutamente infirmato
la sua certezza di attendere a qualcosa di molto utile: era preparato ad affrontare le amarezze che,
in altri tempi, "ille caelestis bibliothecae cultor [San Girolamo] a suis aemulis pertulit" (ibid.,p.
442, 16-17). E di san Girolamo A. condivideva appieno la concezione secondo cui, nel tradurre,
non sideve rispettare, parola per parola, il testo originario, ma badare piuttosto a renderne
compiutamente il senso (cfr. Perels, pp. 245-247; per un giudizio analitico su A. traduttore, cfr.
de Boor, pp. 401-421; V. anche Siegmund, p. 275 e passim).
Non mancano poi i casi nei quali, fra le traduzioni di A. e le contingenze della politica, risultano
esserci nessi anche pi immediati. Cos, nelle lettere dedicatorie della traduzione del settimo
concilio e dei Collectanea appare evidente la tendenza a far consistere in semplici
fraintendimenti linguistici alcune delle grosse questioni dottrinali che avevano diviso Roma da
Bisanzio, come se si fosse voluto sgombrare il terreno dai vecchi malintesi, in vista del nuovo
corso, filo-bizantino, della politica papale (cfr. Laehr, pp. 431 s. e 440). Analogamente, le quattro
dediche a Carlo il Calvo - dapprima candidato alla successione imperiale, e, dal Natale dell'875,
imperatore - corrispondono troppo bene alla scelta operata allora da Giovanni VIII, perch si
possa rinunciare a considerarle in tale prospettiva; soprattutto la traduzione della passione di
Dionig, che si credeva portasse nuovi elementi all'identificazone dell'Areopagita coll'omoniino
vescovo e martire parigino, era fatta per compiacere, su di un punto che stava loro
particolarmente a cuore, i dirigenti laici ed ecclesiastici del regno occidentale: tanto che valse ad
A. l'elogio ambito di Incmaro di Reims (Epistolae,in Migne, Patr. Lat., CXXVI, col.153).
In questo stesso periodo, A. indirizz una lettera di tono amichevole all'ex-patriarca Fozio, il suo
avversario numero uno negli anni 862-869. Ma abbiamo notizia della lettera solo attraverso la
risposta (in Migne, Patr. Graeca, CII, col. 877-880) e, perci, non possibile farci un'idea
precisa del suo contenuto. Fozio vi vide una profferta di amicizia e di solidariet, come tale
molto gradita, anche se, e qui sta il punto essenziale della risposta, giunta purtroppo in ritardo. La
breve lettera di Fozio, che un saggio di finezza intellettuale, gira intorno al motivo
dell'occasione mancata, che come una Eronte capelluta cui faccia riscontro una nuca sprovvista
di capelli, onde impossibile afferrarla per di dietro, una volta che sia passata: ma l'amicizia, in
ogni caso, non va misurata sul metro dell'utilit...
Alla stessa stregua della posizione assunta nelle lettere dedicatorie degli atti del settimo concilio
e dei Collectanea, il ravvicinamento di A. a Fozio va considerato nel quadro della nuova politica
che Giovanni VIII aveva inaugurato (o si proponeva di inaugurare) nei confronti del patriarcato
bizantino, dopo che Ignazio si era dimostrato ostile a Roma nella questione della Chiesa bulgara
(cfr. Hergenrther, II, pp. 228-230 e 240 s.; Dvornik, Les lgends de Constantin et de Mthode,
p. 316). Resta la difficolt di datare con precisione la lettera di A.: il Laptre (pp. 281-285)
propone senz'altro la primavera dell'878, quando a Roma non si sapeva ancora della morte di
Ignazo (23 ott. 877) e della avvenuta restituzione di Fozio al patriarcato, ma solo del ritorno di

Fozio dall'esilio e della sua rappacificazione con l'imperatore; lo Dvornik ritiene invece che A.,
che seguiva gli avvenimenti molto da presso, si sia rivolto a Fozio subito dopo il suo ritorno
dall'esilio, che lo stesso studioso pone nell'873 (Dvornik, The Photian Schism, pp.163 s. e 172
s.). Date intermedie sono anche possibili, se si tiene conto del fatto che la riabilitazione di Fozio
avvenne per stadi successivi, e che ogni stadio pu aver fornito l'occasione alla risposta in cui si
rinfaccia ad A. di avere atteso troppo prima di farsi vivo.
La risposta di Fozo, sempre secondo il Laptre (p. 286), non sarebbe arrivata a Roma prima
della primavera dell'879, C forse a quell'epoca A. era gi morto. In un documento del 29 marzo
appare infatti come bibliothecarius apostolicae sedis il vescovo Zaccaria di Anagni; e l'ultima
menzione di A. in un documento risale addirittura al 29 maggio 877 (cfr. Santifaller, pp. 55 e 60).
Nella lettera-prefazione alla Chonographia tripertita A. accennava all'eventualit della sua morte
prima di avere finito e, pi di una volta, negli anni seguenti, dava notizia delle sue cattive
condizioni di salute (cfr. Epistolae, pp. 421, 9-10; 426, 34; 440, 11).
Contro la datazione tradizionale della morte di A., stata per avanzata una seria obiezione: le
lettere di Giovanni VIII dopo l'879 risultano, ad un attento esame, redatte dallo stesso autore che
ha composte le precedenti; e, dato che queste ultime sono in grandissima parte opera di A.,
bisogna concludere che la comparsa di un nuovo bibliotecario non implica necessariamente un
allontanamento di A. dalla curia e dalle sue funzioni di dictator, n - tanto meno - la sua morte
(Ertl, pp. 121-126). Un ragionamento ineccepible, quando si accettino le premesse
metodologiche sulle quali fondato.
Per lungo tempo A. stato ritenuto l'autore di tutto il Liber Pontificalis fino alla biografia di
Nicol I inclusa. Tale attribuzione, che il Duchesne fa risalire all'erudito Onofrio Panvinio (15301568), fu consacrata nel titolo dell'editioprinceps (Magonza 1602) e poi conservata, per una
.sorta di inerzia, quando ci si era ormai accorti che Beda - per esempio - conosceva il Liber
Pontificalis, e quindi A. non poteva davvero essere chiamato in causa. Ancora nell'edizione
romana (1718-1735) di Francesco Bianchini, A. indicato come l'autore. Solo G. Vignoli, che,
quasi contemporaneamente al Bianchini, cur un'altra edizione delLiber Pontificalis (Roma
1724-1755), ruppe con la tradizione, ed il nome di A. scomparve finalmente dal suo frontespizio.
Ma il Muratori, che, per l'edizione del Liber nella prima parte del tomo terzo dei Rerum Italic.
Script. (Milano 1723), utilizz il testo datone dal Bianchini nel 1718, tuttora fermo nella
vecchia credenza (cfr. Lib. Pont., I, Paris 1886, introd., p. XXXV; II, cit., introd., pp. LVI-LX).
Per una sezione del Liber l'attribuzione tradizionale stata per convalidata anche ,dalla critica
pi recente. La biografia di Nicol I (Lib. Pont., II, pp.151-172) infatti generalmente ritenuta
opera di A., almeno in parte. L'inizio, o pi probabilmente una prima stesura - molto pi scarna di tutta la Vita, sarebbe dello stesso autore che ha redatta la biografia di Benedetto III, ma ci sono
molte ragioni per assegnare ad A. tutto il resto, ovvero la redazione pi ampia e definitiva che
giunta fino a noi. Con l'intervento di una seconda mano nella Vita di Nicol I, la narrazione
cambia radicalmente di tono; gli argomenti ai quali si interessa il rifacitore sono proprio quelli
che finora erano stati trascurati: le grandi questioni ecclesiastiche, le relazioni con gli episcopati
d'Oriente, d'Italia, dell'impero carolingio e con i sovrani greci, latini, bulgari; "le Liber
Pontificalis devient, sous cette plume, un vrai livre d'histoire". Da notare i frequenti rinvii a
documenti conservati "in bibliotheca [oppure in scrinio] huius sedis", che A., date le sue
funzioni, doveva avere ben familiari (ibid., introd., II, pp. V s.).
Incerta e contestata rimane l'attribuzione ad A. della Vita di Adriano II (Lib. Pont., II, pp. 173190), che, del resto, non gli era riconosciuta neanche da coloro i quali lo ritenevano autore di
tutto il Liber Pontificalis, ma solo fino a Nicol I. Il modo con cui vengono narrate le vicende

dell'ottavo concilio ecumenico indurrebbe ad escludere che l'autore sia A.; d'altra parte, il
completo silenzio sull'episodio delittuoso dell'868, oltre che le molte lodi rivolte ad A., fanno
pensare che chi l'ha scritta appartenesse alla cerchia dei suoi amici (ibid., pp. VI s.). Non senza
fondamento, per questa biografia stato fatto il nome di Giovanni Immonide.
Una seconda fase.della storia della fortuna di A. ha inizio con il libro del Laptre, nel 1885.
Accertato definitivamente che A. non era l'autore del Liber Pontificalis, l'interesse intorno alla
sua persona poteva sembrare esaurito (cfr. Laptre, p. 4). Ma, a parte la confermata
identificazione fra il cardinale di San Marcello e il bibliotecario, che faceva apparire quest'ultimo
in una luce del tutto nuova, le conclusioni cui il Laptre giunse soprattutto nel cap.
IV, Anastasius Nicolai I litteras et composuit et dictavit, aprirono una nuova via alla ricerca. Il
dotto gesuita, non si sa con quanta sincerit, riconosceva alle sue conclusioni un valore
apologetico: tutto quello che nelle lettere di un papa santo, come era Nicol, non mancava di
sconcertare un lettore pio, per l'uso e l'abuso, che vi si fa (e che il Laptre mette
abbondantemente in rilievo), di artifizi dialettici e talvolta anche di volgari furberie, non andava
infatti pi ascritto al papa, bens a chi aveva dettato le lettere in nome suo (p. 105). Ancora
trentacinque anni dopo, il Perels, nel suo Papst Nikolaus L und Anastasius Biblothecarius, non
pot prescindere dall'impostazione del Laptre. A differenza del predecessore, che aveva addotto
l'intento apologetico solo per attenuare la portata delle sue conclusioni, il Perels prende l'avvio
proprio da una precauzione siffatta: se le lettere di Nicol, che erano poi la fonte di gran lunga
pi importante per ricostruire la sua azione di pontefice (o che, per meglio dire, costituivano il
mezzo forse principale attraverso cui tale azione venne di fatto esercitata), se quelle lettere non
erano di Nicol, come si poteva continuare a parlare di lui come di un grande papa (Cfr. Perels,
pp. 299-300)? Dopo avere messo a confronto le opere di A. con le lettere di Nicol (pp. 245-265)
ed avere individuato quello che, in tali lettere, risale sicuramente ad A. (pp. 265-278), il Perels ha
dimostrato che gli interventi diretti del papa sono molto frequenti e che Nicol, anche quando
lasciava ad altri il compito di redigere il testo delle lettere, aveva sempre la possibilit di
rivederle, prima della spedizione (pp. 280-293). Le cose starebbero invece diversamente per il
periodo di Adriano II, quando A., almeno a tratti, fu del tutto abbandonato a se stesso.
In ogni modo, il problema non tanto di stabilire chi, materialmente, redigeva le lettere, quanto
di precisare volta per volta se l'eventuale dictator agiva di sua iniziativa o su preciso mandato del
papa. A questo fine risultano di grande importanza alcuni passi di lettere di corrispondenti, nei
quali si accenna esplicitamente alla figura un po' enigmatica e misteriosa del dictatorpontificio.
Ma n il Laptre, n il Perels hanno osservato che questi accenni, sempre di tono polemico, a un
presunto autore, diverso dal papa, delle lettere papall, il quale si sarebbe arrogato il diritto di
leggere, in vece sua, le lettere in arrivo e di disporre per la risposta, potevano essere benissimo
fatti ad arte: il chiamare in causa il dictator era anche un modo di suggerire discretamente al
papa la via per ritornare su di una decisione gi presa, dandogli il destro di far finta di non essersi
mai pronunciato su di un determinato punto, senza costringerlo a smentirsi, ch'era un passo da
cui Roma, per tradizione ed istinto, cercava sempre di rifuggire; e, d'altra parte, al dictator
si potevano rivolgere liberamente accuse di malafede o anche solo di ignoranza, che non tutti
avrebbero osato di indirizzare al papa in persona.
A. stesso, forte della sua esperienza in materia, volendo scagionare papa Onorio I (625-638)
dall'accusa di essersi accostato alle tesi del monotelismo, avanza la compiacente ipotesi che la
lettera, meglio, le lettere, su cui si fondava l'accusa, non fossero state scritte personalmente da
lui, ma da un certo abate Giovanni (Epistolae, p. 424, 2-6).

Opere: Vanno ricordate anzitutto le Epstolae sive praefationes,edite a cura di E. Perels e G.


Laehr, in Monumenta Germ. Hist.,Epistolae, VII,pp. 395-442 (qui di sopra citate
come Epistolae). Le pi importanti traduzioni e compilazioni di storia ecclesiastica sono:
l'Interpretatio synodi VIII generalis, in Migne, Patr. Lat. CXXIX, coll. 9-196; l'Interpretatio
synodi VII generalis,ibid., coll.195-512; la Chronographia tripertita, a cura di C. de Boor,
in Theophanis Chronographia, II, Lipsiae 1885, pp. 31-346 (v. anche pp. 401-435);
i Collectanea, in Migne, Patr. Lat.,CXXIX, coll. 557-690. Perch dettata quasi sicuramente da
A., si cita qui anche la Ludovici II imp. epistola ad Basilium I. imp. Constantinopolitanum missa,
a cura di W. Henze, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VII, pp. 386-394.
Un elenco delle opere di A. in Laptre,, pp. 329-338; cfr. anche Perels, p. 194 n. 5 e G.
Amaldi, Giovanni Immonide e la cultura a Roma al tempo di Giovanni
VIII, in Bullett. d. Ist. Stor. Ital. per il M. E., LXVIII (1956), p. 41 n. 2. Ma v. soprattutto A.
Siegmund, Die Ueberlieferung der griechischen christlichen Literatur in der lateinischen Kirche
bis zum zwlften Jahrhundert, Mnchen-Pasing 1949, pp. 110, 159, 186 s., 189-192, 224, 246,
256-262, 268.
Bibl.: J. Hergenrther, Photius, Patriarch von Konstantinopel, II,Regensburg 1867; A.
Laptre, De Anastasio bibliothecario sedii apostolicae, Paris 1885; L. M. Hartmann, Geschichte
Italiens in Mittelalter, III, 1 e 2, Gotha 1908-1911; W. Henze, Ueber den Brief Kaiser Ludwigs
II, an den Kaiser Basilius I., in Neues Archiv der Gesellschaft fr ltere deutsche
Geschichtskunde, XXXV(1909), pp. 663-676; M. Manitius, Geschichte der lateinischen
Literatur des Mittelalters, I, Mnchen 1911, pp. 678-689; E. Perels, Papst Nikolaus I, und
Anastasius Bibliothecarius. Ein Beitrag zur Geschichte des Papsttums im neunten Jahrhundert,
Berlin 1920; G. Lachr, Die Briefe und Prologe des Bibliothekars Anastasius, in Neues Archiv der
Gesellschaft fr ltere deutsche Geschichtskunde, XLVII (1928), pp. 416-468; F. Dvornik, Les
lgendes de Constantin et de Mthode vues de Byzance, Prague 1933; N. Ertl, Diktatoren
frhmittelalterlichen Papstbriefe, in Archiv fr Urkundenforschung, XV(1937-38), pp. 56-132;
L. Santifaller, Saggio di un Elenco dei funzionari, impiegati e scrittori della Cancelleria
Pontificia dall'inizio all'anno 1099, inBullett. d. Ist. stor. ital. per il M. E.,LVI,1 (1940), pp. 5456; F. Dvornik, The Photian Schism. History and Legend, Cambridge 1948; F.
Grivec, Konstantin und Method, Lehrer der Slaven, Wiesbaden 1960.

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