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Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” – DipLeFili Dottorato in Studi Interculturali Europei

2 marzo 2010 Dottorando: Fabio Pesaresi

I grandi suq di Parigi:


il viaggio tra sguardo e racconto

“L‟uomo osserva per conoscere. La vista è un‟entità divina


legata alla meraviglia: una relazione di conoscenza. La filosofia
nasce dallo stupore scaturito dall‟osservazione dei fenomeni
della natura.” (Venturi Ferriolo, p. 25) Eppure, gli occhi non
sono mai del tutto innocenti: il nostro sguardo è selettivo e ciò
che vediamo non è la realtà oggettiva, quanto una proiezione
dei nostri orizzonti d‟attesa. Persino il paesaggio naturale, che
promette un contatto con quanto di più primordiale, è in realtà
percepito solo attraverso la mediazione della cultura. Il viaggio
è uno dei campi d‟azione privilegiati dello sguardo, ma mentre
il Settecento razionalista proponeva con convinzione il viaggio
come esercizio di empirismo volto ad abbattere i pregiudizi,
oggi avvertiamo sempre di più la necessità di indagare il modo
in cui si costituisce la nostra percezione. Gli studi imagologici,
in particolare, analizzano le modalità di elaborazione delle
immagini nazionali per svelare i filtri che concorrono a definire
l‟Altro e, simmetricamente, noi stessi. Chagall – Schizzo per l’angelo di Mozart

1. Lo sguardo culturale

Descrivendo la “Piccola isola di Iava”, cioè Sumatra, Marco Polo scrive:

Egli hanno leonfanti assai salvatichi, e unicorni che non sono guari minori che leonfanti. E‟ sono di pelo di
bufali, e piedi come leonfanti. Nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso: e dicovi che non fanno
male con quel corno, ma con la lingua, ché l‟hanno ispinosa tutta quanta di spine molto grandi. Lo capo hanno
come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata verso terra; e istà molto volentieri tra li buoi (entre la bue et
entre le fang): ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch‟ella si lasci prendere alla
pulcella, ma è il contradio. (Polo, p. 377)

Marco vede un rinoceronte ma invece di descriverlo come una sua nuova scoperta, riconosce in esso, con
qualche correzione, quello che la sua enciclopedia di riferimento gli aveva già insegnato: l‟unicorno. La sua
percezione “è orientata da un insieme di testi di riferimento: nonostante il suo empirismo, egli non può
evitare di guardare alle cose con gli occhi della cultura” (Umberto Eco, citato in Capoferro, p. 23).

Un‟esperienza analoga è vissuta da Cristoforo Colombo nel corso del terzo viaggio quando, raggiunto per la
prima volta il continente americano, ne analizza con precisione tutti gli elementi naturali, misura la portata
del fiume Orinoco, e giunge all‟unica conclusione possibile: il luogo a cui è arrivato deve certamente essere
il paradiso terrestre di cui ha letto nei testi antichi (cfr. Bertone, p. 16).
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Marco Polo e Cristoforo Colombo riescono a vedere quello che non esiste - almeno nel mondo dei sensi -
perché non viaggiano per scoprire, ma per confermare. Essi appartengono a quella che Lotman e Uspenskij
hanno definito una cultura del Libro, e non del Manuale:

Un connotato essenziale della caratterizzazione tipologica della cultura può considerarsi il modo in cui essa si
definisce da sé. Se è proprio di certe culture il rappresentarsi come un insieme di testi regolati (…), altre
culture modellizzano se stesse come un sistema di regole che determinano la creazione di testi. […] Questo o
quell‟orientamento di una cultura genera l‟ideale del Libro o del Manuale. (Lotman-Uspenskij, pp. 50-51).

Gli occhi, opportunamente istruiti, riescono dunque a vedere persino quello che in realtà non c‟è, ma è
altrettanto possibile che accada il contrario. Nel suo viaggio in Italia, Goethe è talmente desideroso di
ritrovare i paesaggi classici vagheggiati che riesce ad ignorare quasi tutto il resto:

ci sarebbe da scrivere un apposito saggio intorno alle sue preterizioni: stando alle quali, chi del diario di
Goethe facesse una guida per i propri itinerari italiani, sarebbe indotto a pensare che nel nostro paese un‟arte
medioevale non sia mai esistita. A Verona, Goethe non si accorge di San Zeno e delle sue porte; a Venezia,
non ha occhi che per il Palladio, ignora il Palazzo Ducale, e di San Marco non nomina che il campanile, per la
vista che da lassù gode nelle giornate in cui l‟aria è tersa. (Assunto, p. 207)

Goethe non è l‟unica vittima di questa proiezione di se stesso sul paese che visita. Lo sguardo è selettivo a tal
punto che l‟Italia vista dai viaggiatori del Grand Tour non è altro che

una menzogna culturale, un atto ideologico, una proiezione del desiderio che compie il viaggiatore stesso
mentre percorre le strade della penisola fra la fine del XVI e il XIX secolo, perché quel paesaggio urbano e
soprattutto la gente che lo abita sono in gran parte costruiti prima della partenza. (Brilli, p. 15)

Attilio Brilli ha studiato l‟immagine degli


italiani nei resoconti dei viaggiatori, ed ha
rilevato che non solo i luoghi, ma soprattutto i
loro abitanti vengono presentati con immagini
stereotipate che si mantengono immutate per
un tempo incredibilmente lungo:

Spesso il viaggiatore si prefigura, magari


leggendo altri viaggiatori, una propria Italia
immaginaria che pretende poi di trovare tale e
quale nel corso della visita. Con l‟enfasi dei suoi
monumenti e delle mirabili vedute, al paesaggio si
chiede di rispondere alle aspettative, se non di
Richard Wilson, Il ponte di Rimini superarle, creando in questo caso l‟occasione
dell‟evento mirabile e il piacere aggiuntivo della
sorpresa. […] Dalla gente si esige né più né meno
che di adattarsi ad un modello previsto: essere
folla costituita di figure di maniera corrispondenti ai canoni del bozzettismo e del pittoresco, e con essi ai
pregiudizi più vieti che sull‟Italia e sugli italiani circolano nei paesi di origine dei viaggiatori, il che significa
essere figure inconsistenti e inanimate, dei veri e propri manichini distinguibili tutt‟al più dai costumi e dagli
orpelli regionali. (Brilli, ibidem)

Durante il suo soggiorno in Provenza, Cézanne si rese conto che i contadini che lo circondavano non
avevano mai davvero “visto” il monte Sainte-Victoire nonostante lo avessero avuto davanti agli occhi per
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tutta la vita: “ho fatto a volte delle passeggiate, ho accompagnato un fittavolo che andava a vendere le patate
al mercato. Egli non aveva mai visto la Sainte-Victoire” (riportato in Bertone, p. 11).

Cézanne non solo riuscì a vedere quello che nessuno, prima di lui, aveva visto, ma insegnò anche agli altri,
anche a noi, come vedere la montagna della Sainte-Victoire:

è precisamente al genio di Cézanne che dobbiamo il Sainte-


Victoire, la sua «ispirazione», la sua artializzazione da paese
a paesaggio. Sull‟autostrada A7, che attraversa il massiccio,
si invita con dei cartelli ad ammirare il Sainte-Victoire e i
«Paesaggi di Cézanne», si chiama il genio del luogo, come
se, senza questo riferimento, il paesaggio rischi di cadere
nell‟indifferenza – nullità del paese, luogo senza genio. Altro
segnale rivelatore: devastato da un incendio, il Sainte-
Victoire sarà restaurato «alla Cézanne», come un quadro, a
tal punto Cézanne lo ha alla fine cambiato. (Alain Roger, in
D‟Angelo, p. 186).
Paul Cézanne, Sainte-Victoire
(Cleveland)
La capacità che distingue i pittori, gli artisti, è proprio quella di
rompere la patina che l‟abitudine ha posato sulle cose che
abbiamo davanti e che ci impedisce di vederle.

2. L‟educazione dell‟occhio

“There was no fog in London before Whistler painted it”, scrisse Ernst Gombrich in Art and Illusion
(Gombrich 1969, p. 324), sostenendo la tesi che per vedere qualcosa abbiamo bisogno di qualcuno che ce la
mostri, che ci insegni a vederla. Gombrich riprende un appunto di
Oscar Wilde nel quale lo scrittore inverte il luogo comune per cui
l‟arte è imitazione del vero:

“At present, people see fogs, not because there are fogs, but because poets
and painters have taught them the mysterious loveliness of such effects.
There may have been fogs for centuries in London. I dare say there were.
But no one saw them, and so we do not know anything about them. They did
not exist till art had invented them.” (Wilde, p. 793)

Mostrare quello che i nostri occhi non possono, o non sanno, vedere
era stato uno degli obiettivi della poesia e dell‟arte del
Romanticismo. Nel capitolo 14 di Biographia Literaria, Samuel T.
J. A. M. Whistler, Nocturne: Blue and
Coleridge descrive il modo in cui insieme a Wordsworth decisero di
Gold - Old Battersea Bridge
scrivere le Lyrical Ballads in questi termini:

the characters and incidents were to be such as will be found in every village and its vicinity, where there is a
meditative and feeling mind to seek after them, or to notice them, when they present themselves.
In this idea originated the plan of the LYRICAL BALLADS; in which (...) Mr. Wordsworth (...) was to
propose to himself as his object, to give the charm of novelty to things of every day, and to excite a feeling
analogous to the supernatural, by awakening the mind's attention to the lethargy of custom, and directing it to
the loveliness and the wonders of the world before us; an inexhaustible treasure, but for which, in consequence
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of the film of familiarity and selfish solicitude, we have eyes, yet see not, ears that hear not, and hearts that
neither feel nor understand.

Il mondo è davanti ai nostri occhi, ma non riesce a vederlo che una “meditative and feeling mind”, quella del
poeta, dell‟artista (cfr. Bonadei-Volli, p. 15) che ha la facoltà di esplorare, di penetrare, di trovare ciò che gli
altri non riescono neppure a percepire: è l‟artista, soprattutto l‟artista romantico, colui che possiede la
capacità di scendere “au fond de l‟inconnu per trouver du nouveau” (Baudelaire, Le voyage, VII), di
insegnare cosa vedere nella natura tanto che nessuno,
nemmeno i pittori stessi, può apprendere la natura se non
attraverso un vocabolario predisposto dai pittori che lo
hanno preceduto. (cfr. Gombrich 1973).

Sembra allora possibile tentare una definizione di


paesaggio come “natura percepita attraverso una cultura.
[…] Per vedere un paesaggio c‟è bisogno di qualcosa di
più di un occhio che lo scorga: ci vuole una riflessione che
lo costituisca nella sua diversità dal mero dato sensibile:
una teoria, appunto”. (D‟Angelo, p. 8).
John Davies, British Landscape

Quando la natura è vista da chi la contempla con


sentimento, essa si rivela e diventa paesaggio, ma a
condizione che l‟uomo si rivolga ad essa senza uno scopo
pratico, intuendola e godendola liberamente per essere nella natura in quanto uomo (cfr. Ritter p. 47). Ritter
sostiene che l‟arte del paesaggio è una specie di compensazione di quanto l‟uomo ha perso a causa della sua
evoluzione tecnologica. Nel momento in cui si interrompe il suo contatto organico con la natura, nel
momento in cui l‟uomo diventa cittadino, sente la necessità di ricostruire un rapporto con essa e lo fa
attraverso l‟arte. Il paesaggio diventa tale solo quando è guardato con disinteresse: la contemplazione estetica
della natura è una compensazione, una sorta di risarcimento e sostituzione, di quello che è andato perduto
attraverso la matematizzazione della natura, frutto della scienza-tecnica moderna. Quando la natura come
totalità contemplabile esce dall‟orizzonte della scienza, essa trova rifugio nell‟estetica: il paesaggio è
appunto l‟erede moderno dell‟idea antica di una totalità contemplabile (theoria).

Tra Sei e Settecento si diffonde, soprattutto in Inghilterra, il desiderio di riscrivere la natura nelle forme
trasmesse dalla pittura. Lo sguardo degli aristocratici e dei ricchi borghesi che si era educato con i panorami
gustati nel corso del Grand Tour, cerca nel paesaggio inglese lo stesso godimento estetico. La campagna
inglese viene quindi trasformata ad uso e consumo dell‟osservatore, e i parchi inglesi diventano il luogo in
cui si inventa, e si insegna, un nuovo tipo di sguardo.

Il „700 codifica la spettacolarizzazione dello spazio con una pratica dei luoghi che ne ridefinisce radicalmente
il loro „godimento‟. (…) E qualcosa di cruciale effettivamente avvenne quando un nuovo genere di osservatore
apparve sulla scena, distinguendo lo sguardo „pratico‟ da quello „estetico‟: il punto qui non è la divisione, ma il
fatto che quell‟osservatore provò il bisogno, e si trovò nella posizione, di „distinguere‟. Questa è la figura che
mancava - il beholder, l‟osservatore consapevole – l‟uomo qualunque che osserva ed è consapevole di farlo
come esperienza in sé, che ha predisposto modelli sociali e analogie per supportare e giustificare tale
esperienza: dire paesaggio non vuol perciò dire un certo tipo di natura ma un certo tipo di uomo, un modo di
vedere la natura. Dietro il „genio del luogo‟ sta un padrone del luogo, osservatore/artefice/spettatore, capace di
generare processi culturali complessi e godimenti nuovi a partire da uno sguardo. (Bonadei-Volli, p. 13)

Per trasformare un paese in paesaggio occorre la presenza di un osservatore distaccato, che possa
contemplare il panorama senza esservi coinvolto in modo esistenziale nel modo in cui lo erano i contadini di
Cézanne (cfr. Ogden). E‟ uno spettatore che insieme al piacere estetico suscitato dalla scena che si prospetta
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dinnanzi a lui, gode contemporaneamente della sua posizione al riparo da ogni pericolo. Da questa posizione
è possibile riconoscere i valori estetici della natura più maestosa, che fino ad allora era stata invece subita
come ostile.
La posizione dell‟uomo del Settecento ricorda quella dello spettatore del naufragio descritto da Lucrezio nel
Secondo Libro del De Rerum Naturae e discusso da Blumenberg in Naufragio con Spettatore: lo spettatore è
affascinato dallo spettacolo che si svolge sul mare, sotto il suo sguardo, solo perché è al sicuro su un terreno
solido.

… Per questo motivo il teatro, secondo Galiani, è una


perfetta esemplificazione della natura umana. Solo dopo che
gli spettatori hanno avuto i loro posti sicuri può dispiegarsi,
di fronte a loro, lo spettacolo degli uomini in pericolo. “Più
lo spettatore è al sicuro e più grande è il pericolo che vede,
tanto più s‟interessa allo spettacolo. Questa è la chiave di
tutti i segreti dell‟arte tragica, comica, epica.” Cosicché
Lucrezio non avrebbe completamente torto. Sicurezza e
felicità sono le condizioni della curiosità, e questa è il loro
sintomo. Trasferito dal mare al teatro, lo spettatore di T. Gainsborough,
Lucrezio viene sottratto alla dimensione morale, è diventato Mr and Mrs Andrews
spettatore “estetico”. (Blumenberg, p. 64-65)

Il paesaggio è a sua volta teatro, luogo riservato allo sguardo,


organizzato dallo sguardo e per lo sguardo. “Non c‟è paesaggio senza teatro” dichiara Venturi Ferriolo (p.
15), che in Percepire paesaggi sviluppa il rapporto tra il paesaggio, la visione (theoria) e la capacità di
conoscere:

la buona visibilità dell‟insieme … è un concetto fondamentale per la conoscenza dei luoghi nella loro
complessità. Come costruirla o ricostruirla? Come svelare l‟invisibile, vale a dire l‟opera palese o nascosta
dell‟uomo?
La risposta è il teatro con la buona organizzazione del visibile, accesso alla leggibilità di un paesaggio per
facilitare la comprensione delle sue trame peculiari: un universo con i suoi elementi particolari che concorrono
insieme di pari grado all‟unità della sua immagine univoca di realtà vivente in perpetua trasformazione.
(Venturi Ferriolo, p. 90)

3. Lo sguardo del viaggiatore

L‟artista non è però davvero l‟unico ad essere dotato di quella particolare sensibilità che gli permette di
vedere ciò che gli uomini normali non vedono. Nella situazione sospesa tra la partenza e l‟arrivo, il
viaggiatore prova una sensazione di spaesamento e si può permettere di indossare una identità temporanea
che gli permette di sfuggire al sonno dell‟abitudine.

'Fare forward, you who think that you are voyaging;


You are not those who saw the harbour
Receding, or those who will disembark.‟
(T.S. Eliot, Four Quartets, The Dry Salvages, III)

In questa situazione, che Leed ha chiamato passage (Leed, p. 55), il viaggiatore si trova ad avere una
sensibilità acuita che lo rende “poroso” al mondo:
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What gives value to travel is fear. It is the fact that, at a certain moment, when we are so far from our own
country ... we are seized by a vague fear, and the instinctive desire to go back to the protection of old habits.
This is the most obvious benefit of travel. At that moment we are feverish but also porous, so that the slightest
touch makes us quiver to the depths of our being. (Albert Camus, Carnets 1935-1942, in Leed, p. 1).

Il viaggio restituisce freschezza al nostro sguardo, e nel proporre le cose sotto una diversa luce, ce le fa
apparire come nuove: “This was the experience Goethe had continuously on his journey through Italy, as he
came upon „familiar objects in an unfamiliar world,‟ an
experience in which everything was new and fresh.” (Leed, p.
67). Lo stesso Goethe si rese conto che per poter avvicinare il
mondo in un nuovo modo, c‟era bisogno di elaborare un nuovo
sguardo:

Quelle che adesso mi importano sono solo le impressioni dei


sensi, che nessun libro, nessun quadro può dare. Il fatto è
che sto riprendendo interesse al mondo , sperimento il mio
spirito di osservazione e verifico la reale portata delle mie
scienze e delle mie cognizioni; mi accerto se il mio occhio è
Samuel Wale, Vauxhall Gardens
chiaro, puro e lucido, se in questo passaggio veloce posso
arricchirmi di nuove nozioni, e se le rughe che mi si sono
formate e incise nell‟animo possono essere ancora cancellate
(Viaggio in Italia, Trento 11 settembre 1786).

Goethe fa propria un‟esigenza sentita da altri suoi contemporanei, come ad esempio William Hogarth, di
liberare lo sguardo da quello che De Bolla chiama il regime of picture, condizionato da ciò che uno sa e che
viene riconosciuto in ciò che si guarda, per scoprire un nuovo regime of the eye in cui lo sguardo è libero di
rispondere in modo autonomo agli stimoli che gli si offrono (cfr. De Bolla, p. 9). Mentre il regime of the
picture discrimina gli osservatori in base alla cultura, e quindi anche della storia personale, della situazione
socio-economica, il regime of the eye si propone in modo democratico, dato che chiunque ha la possibilità di
leggere e rispondere in modo emotivo a ciò che vede.

Questo processo di democratizzazione dello sguardo è connesso al nuovo quadro culturale che si era andato
formando sugli scritti dei filosofi dell‟empirismo, soprattutto di Francis Bacon, e sulle regole elaborate dalle
Accademie scientifiche, prima tra tutte la Royal Society di Londra. L‟empirismo modificava in modo
radicale il concetto di autorità: chiunque poteva condurre osservazioni, esperimenti, esplorazioni, e tutti i
risultati erano degni di attenzione purché fossero conformi ai precetti stabiliti e promossi dalla Royal
Society. Improvvisamente, ogni persona poteva avere una voce nel mondo della scienza: non più solo gli
esponenti della cultura accademica, ma persino un viaggiatore, un capitano, un marinaio. Anzi, secondo i
parametri fissati dalla Royal Society, l‟ideale linguistico diventava quello di artigiani e mercanti, preciso,
asciutto, senza tropi, mentre

i relatori dovevano essere più versati nelle attività pratiche che non in quelle teoretiche e dimostrarsi
osservatori sobri, diligenti e laboriosi: anziché portar con sé un gran bagaglio di conoscenze portano le proprie
mani, e hanno occhi e il cervello incontaminati da false immagini. (Capoferro, p. 54)

La nuova stagione culturale, affermatasi tra il Seicento e il Settecento, era destinata ad avere una influenza
determinante sul modo di viaggiare e di vedere i luoghi che si visitavano, nel momento in cui il viaggio
veniva per la prima volta non subìto come una necessità, ma vissuto come un‟occasione di piacere, senza
alcuno scopo se non quello di conoscere nuovi luoghi ed incontrare nuove persone.
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Nel Settecento, l‟esperienza del viaggio diventa una vitale esigenza per l‟uomo di cultura e il viaggiatore si
identifica sempre di più con il philosophe, inteso, secondo la definizione data dagli Enciclopedisti , come colui
che è guidato dalla passione di osservare e riflettere, per scoprire per quale ragione le cose siano in un modo
piuttosto che in un altro” (Bacchereti, p. 306)

Ad istruire il nuovo viaggiatore concorrono numerosi testi pubblicati in quel periodo e che vanno a comporre
quella Ars Apodemica che formerà nuove regole non solo di comportamento ma anche di osservazione.
Tra gli scritti che ebbero maggiore influenza e successo, c‟è il
breve saggio dedicato al viaggio da Francis Bacon che
stabilisce le regole che saranno poi osservate nei due secoli
seguenti: il viaggiatore deve conoscere almeno un po‟ la lingua
del luogo, deve essere accompagnato da un tutore esperto,
avere libri sul paese che visita, incontrare le persone eminenti
di ogni paese, tenere un diario e non mancare di osservare una
lunga lista di cose che vanno dalle corti, ai monasteri, agli
arsenali, alle feste. Questo viaggiatore ideale deve essere
aperto alle nuove esperienze, osservare quello che i luoghi gli
offrono, trascrivere le proprie osservazioni nei diari, ed essere
Tintern Abbey
vista su un Claude Glass consapevole che viaggiare fa parte della sua educazione.
L‟empirismo proposto da Bacon non può però fare a meno di
essere guidato, e così anche il viaggiatore non può fare a meno
di una guida, sia una persona o un libro, che lo aiutino a
conoscere i luoghi che visita. Il Settecento assiste ad una fioritura di pubblicazioni di resoconti di viaggio in
cui vengono proposti gli itinerari seguiti nel corso del Grand Tour. Alcuni di questi itinerari furono
estremamente popolari, come le Remarks on Several Parts of Italy di Joseph Addison che vennero ristampate
in numerose edizioni e furono per molto tempo il testo di
riferimento per ogni viaggiatore in Italia, tanto che spesso sia i
viaggi che le osservazioni riportate nei diari sono né più né meno
che una copia esatta delle note di Addison.

Più tardi, nell‟Ottocento, saranno pubblicate nuove guide, come


le celebri Baedeker, che offriranno libertà al viaggiatore
maggiore libertà nella scelta degli itinerari, delle mete, delle cose
da visitare ed osservare. Con le Baedeker ogni viaggiatore potrà
costruire il proprio viaggio, ma persino l‟apparente neutralità
della guida moderna nasconda scelte ed imposizioni culturali, Tintern Abbey
come ha segnalato Roland Barthes per il quale la guida diventa vista su un Claude Glass
“per un‟operazione comune ad ogni mistificazione, il contrario
stesso del suo titolo, un mezzo di accecamento” (Barthes, 120).

La guida seleziona gli oggetti del nostro sguardo, e guida la nostra vista. In questo le guide moderne non
sono diverse da quelle che nel Settecento imposero la moda del pittoresco: dapprima Thomas West, con le
sue 21 stazioni di osservazione del Lake District, poi Gilpin con i numerosi saggi sul pittoresco, sul viaggio
pittoresco e con il dialogo sui giardini di Stowe che costituiscono una interessante guida ad uno dei giardini
maggiormente significativi per l‟elaborazione del nuovo gusto estetico, ma per noi anche una porta d‟accesso
all‟estetica di quel tempo. Le guide al Pittoresco non si limitavano a proporre nuovi luoghi ai viaggiatori, ma
anche punti panoramici, fenomeni atmosferici, ed indicavano quali attrezzi utilizzare per ottenere il massimo
risultato, in termini di piacere, dal loro viaggio. Tra gli oggetti in voga c‟era il cosiddetto Claude Glass, uno
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specchio convesso che trasformava ogni paesaggio in un quadro alla Lorrain provocando quindi i brividi di
piacere alla cui ricerca erano partiti i viaggiatori.

La scoperta del pittoresco travolse l‟Inghilterra nel giro di pochi anni, ed aprì nuovi itinerari per i viaggiatori
che, per ragioni economiche o per evitare gli inconvenienti del viaggio, preferivano rimanere in Gran
Bretagna. Non è strano che questo atteggiamento sia stato oggetto di ironia da parte dei caricaturisti del
tempo che sottolineavano gli eccessi determinati dal nuovo entusiasmo per la scoperta di una natura che fino
ad allora era stata temuta, evitata, ignorata.

Thomas Rowlandson, Dr Syntax Sketching the Lake

Si propongono a noi due modelli tra cui scegliere: il viaggiatore ben preparato, fornito di tutti gli strumenti
culturali che però rischiano di diventare una limitazione a quanto di inatteso ci potrebbe essere, oppure il
viaggiatore ingenuo ma aperto a tutto quanto gli si possa presentare? Mario Praz mette a confronto la propria
esperienza di viaggiatore moderno, catapultato in aereo tra le rovine di Palmira, nel deserto siriano, e quella
della spedizione condotta nel Settecento da Wood e Dawkins che avevano preparato il viaggio per un intero
leggendo tutti i testi classici e dopo aver visitato tutta la Grecia e l‟Asia Minore, ma non riesce a trovare una
risposta definitiva: “L‟abolizione delle distanze diminuisce la poesia del viaggiare, o la sostituisce con una
diversa poesia più vicina all‟incanto del sogno?” (Praz, p. 214)

Gavin Hamilton, James Dawkins and Robert Wood Discovering the Ruins of Palmyra

La tirannia esercitata dalla guida turistica sullo sguardo del viaggiatore non sfuggì a Edward M. Forster, che
in A Room with a View mostra una giovane donna inglese che comincia a vedere l‟Italia, e metaforicamente a
vivere veramente, solo dopo essere stata privata del suo prezioso Baedeker:
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Lacrime di indignazione salirono agli occhi di Lucy – un po‟ perché Miss Lavish l‟aveva piantata in asso, un
po‟ perché si era portata via il suo Baedeker. Come avrebbe fatto tornarsene a casa? Come avrebbe fatto a
visitare Santa Croce? (…) Ora entrò nella chiesa depressa e umiliata, incapace perfino di ricordare se fosse
stata costruita dai francescani o dai domenicani.
Naturalmente non poteva che trattarsi di un edificio meraviglioso. Ma come somigliava a un granaio! E che
freddo! Naturalmente, c‟erano gli affreschi di Giotto, e in presenza dei loro valori tattili Lucy si sentiva in
grado di provare le giuste emozioni. Ma come distinguerli dagli altri? Lucy continuò a girare per la chiesa con
aria sprezzante, restia a dimostrare entusiasmo per opere d‟arte di autore e data incerti. Non c‟era nessuno che
potesse dirle almeno quale, delle tante pietre tombali che lastricavano la navata e i transetti, fosse quella
davvero bella, quella tanto lodata da Mr. Ruskin.
Poi si lasciò prendere dal pernicioso fascino dell‟Italia e, invece di darsi da fare per saperne di più sui
monumenti, cominciò a sentirsi felice. (Forster, p. 26)

Le pagine di Forster ci interrogano sulla capacità che lo sguardo del viaggiatore ha di vedere e conoscere
quello che lo circonda, soprattutto nell‟epoca contemporanea in cui il viaggio è diventato una prassi comune,
fruita da persone che non sono sempre guidate dal desiderio della scoperta e dell‟incontro. Paradossalmente,
sembra che la nostra società, almeno per quanto riguarda il viaggio, sia tornata ad essere una società del
Libro, per riprendere la terminologia proposta da Lotman e Uspenskij, in cui il nostro sguardo è
costantemente pilotato dai mass media, dagli agenti di viaggio e dai modelli di consumo imposti
dall‟economia di mercato. Il nostro sguardo è sempre meno quello di un individuo davanti al mondo e
sempre più quello richiesto dalla collettività. In altre parole, lo sguardo romantico ha lasciato il posto allo
sguardo collettivo (cfr. Urry, p. 76), ed i luoghi si sono adattati alla richiesta del mercato turistico. La
dialettica tra la realtà e il mondo fittizio dei turisti è uno dei fili conduttori dei best-sellers di Ian Rankin. Alla
conclusione del primo romanzo della fortunata serie in cui compare l‟ispettore Rebus, scrive:

Edinburgh had shown itself to Jim Stevens as never before, cowering beneath the shadow of the Castle Rock in
hiding from something. All the tourists saw were shadows from history, while the city itself was something
else entirely. He didn‟t like it.
(Rankin, p. 226)

Resta però da chiederci se il mondo dei turisti sia fittizio solo perché il viaggiatore non ha occhi per la realtà
cruda dei luoghi che visita, oppure se siano i luoghi ad adattarsi, a specializzarsi almeno in parte, per essere
fruiti dai viaggiatori in una sorta di enorme Disneyland costruita solo per essere guardata. Lo spettatore è
infatti capace di creare i luoghi che attraversa col suo sguardo, ai quali non è mai veramente estraneo, come
ci racconta Marco Aime nel suo Diario dogon descrivendo il modo in cui i locali adattino la propria realtà
alle richieste dei turisti.

4. Lo sguardo narrato

Il viaggiatore è esposto al rischio di mancare l‟incontro con l‟alterità e di non trovare altro che la proiezione
di se stesso: di riprodurre stereotipi invece di creare conoscenza.

Nella tradizione della letteratura di viaggio il tentativo di definire una cultura diversa da quella di appartenenza
attraverso gli usi, i costumi e l‟indole di un popolo è sempre stato per il viaggiatore un modo per affermare se
stesso e i propri connotati culturali. Definire un‟identità diversa dalla propria significa ridefinirsi facendo leva
sull‟intera gamma delle altrui differenze. Atto, questo, che implica l‟ostentazione di tali differenze con la
rigidità e la schematicità dei pregiudizi, dei luoghi comuni, dei cliché e degli stereotipi, che sono le „verità‟ più
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economiche e a portata di mano che esistano. E come tali ambìti in particolar modo dai viaggiatori frettolosi.
Onnipresenti nella letteratura di viaggio, e in specie nelle guide, gli stereotipi sono espressioni sintetiche,
costruite per infiggersi nella memoria e per colpire l‟immaginazione.” (Brilli 27)

Sebbene nessuno riesca a sfuggire del tutto alle immagini semplificate che ci vengono fornite dalla cultura,
un‟attenta analisi dei modi in cui esse si formano può aiutarci ad assumere un atteggiamento più maturo.
Nell‟ambito della comparatistica, e più in generale nell‟orizzonte degli studi culturali, si è andata affermando
fin dagli anni ‟60 l‟imagologia, una prassi che si occupa di analizzare l‟elaborazione delle immagini culturali
dell‟Altro poggiando sul presupposto che “il testo letterario è un palinsesto sul quale convergono elementi
tematici, mitici, morfologici, lessicali” (Proietti, p. 34).

Il campo classico su cui si sono esercitati gli studiosi di imagologia è ad esempio il rapporto tra la Francia e
la Germania, tra cui si è effettuato un continuo scambio reciproco di eterostereotipi negativi corrispondenti
ai rispettivi autostereotipi positivi: si pensi ad esempio alle raffigurazioni di Voltaire e di Lessing, che
vengono poi del tutto ribaltate dall‟atteggiamento germanofilo di Mame de Staël in De l‟Allemagne. (cfr.
Beller)

L‟atteggiamento verso l‟altro risente sia del pensiero personale dell‟autore, ma anche della pressione che su
di lui esercitano le opinioni collettive. Gramsci, Foucault, Said e molti altri autori contemporanei ci hanno
insegnato che nessun discorso è neutro, ma che esprime sempre un tentativo politico di persuasione e di
dominio. Svelare le forme in cui si costruisce questo discorso può aiutarci a liberarci dalle imposizioni
culturali di cui siamo oggetto.

E‟ esemplificativa a questo riguardo la critica che Chinua Achebe fece dello Heart of Darkness di Joseph
Conrad. Ribaltando l‟opinione più diffusa che aveva visto in Conrad un convinto anti-imperialista, Achebe
vide in Heart of Darkness un chiaro atteggiamento colonialista poiché riduceva i congolesi e tutta l‟Africa a
mero sfondo delle vicende degli europei.

L‟imagologia e gli studi interculturali hanno posto sulla letteratura di viaggio un‟attenzione particolare, in
quanto

L‟esperienza del viaggio si configura (…) come un «momento» di conoscenza dell‟alterità e, attraverso
quest‟ultima, come processo di ridefinizione delle identità: alla natura molteplice del viaggio corrisponde
dunque una diversa organizzazione dei modelli imagologici attraverso i quali il testo riferisce dell‟esperienza
dell‟alterità che si è compiuta. (…)
Viaggiare e scrivere di viaggi sono attività che rimandano ad una realtà e ad un‟idea ad essa collegata, che
richiedono, oltre ad uno spostamento fisico ed intellettuale nell‟alterità considerata, passaggi ulteriori, assai
rilevanti nel quadro di una riflessione sull‟immagine dell‟Altro. Da un lato, infatti, l‟esperienza del viaggio, in
quanto spostamento in un contesto culturale diverso, si segnala per la propria portata antropologica, attraverso
la quale è possibile stabilire una prima relazione con l‟alterità; dall‟altro la trasposizione di tale esperienza nel
testo letterario comporta sia scelte di ordine poetico e retorico, direttamente collegate alla testimonianza del
viaggio – memoria, diario, romanzo, reportage, ecc. – alla riscrittura dello spazio, al lessico utilizzato, sia
attitudini mentali fondamentali che denotano il tipo di relazione esistente fra le identità culturali poste in
relazione – quella del viaggiatore e quella della realtà visitata – fortemente condizionanti lo sviluppo tematico
dell‟opera. (Proietti, p. 138-139).

Un testo tipico che descrive lo scarto tra l‟esperienza e il suo racconto, è la poesia The Road Not Taken di
Robert Frost, un testo che egli stesso definì “tricky” poiché dietro all‟apparente inno alla strada tipico della
cultura americana rivela dei risvolti meno ovvi:
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Robert Frost Though as for that, the passing there


The Road Not Taken (1916) Had worn them really about the same,

And both that morning equally lay


In leaves no step had trodden black
Two roads diverged in a yellow wood, Oh, I kept the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way,
And sorry I could not travel both
I doubted if I should ever come back.
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
I shall be telling this with a sigh
To where it bent in the undergrowth;
Somewhere ages and ages hence:
Then took the other, as just as fair two roads diverged in a wood, and I --
I took the one less traveled by,
And having perhaps the better claim,
And that has made all the difference.
Because it was grassy and wanted wear;

Per cogliere lo scarto che c‟è tra l‟esperienza vissuta ed il modo in cui viene scelto di narrarla può rivelarsi
utile mettere a confronto diversi testi prodotti da uno stesso autore per descrivere una stessa esperienza. Lo
ha fatto ad esempio Antonio Franceschetti, che ha messo a confronto i Viaggi di Russia dell‟Algarotti con il
Giornale, inedito, sul quale l‟autore aveva registrato il suo viaggio giorno per giorno. Il confronto mette in
luce lo scarso valore autobiografico del testo pubblicato, dove le informazioni originali scompaiono,
vengono modificate o integrate con ulteriori annotazioni. Nel testo dei Viaggi, a titolo di esempio,
scompaiono “le critiche sull‟esercito prussiano e quasi tutti i riferimenti a i nomi delle personalità tedesche
incontrate a Pietroburgo, che la storia aveva ormai cancellato dalla politica” (Franceschetti, p. 325). La scelta
editoriale di Algarotti ci stupisce poco, se pensiamo al legame di amicizia che lo legava con Federico II, il
nuovo Re di Prussia.

La deformazione dell‟esperienza si riflette nell‟immagine che ci creiamo dell‟altro, come sintetizza Garane
Garane in un breve componimento poetico:

L‟altro
Si, sono l‟altro
Sono nato deformato
Sono l‟altro
Sono nell‟altro
L‟altro sono io
Sono nell‟altro
L‟altro mi ha creato
L‟altro mi ha assorbito
Sono nell‟altro.

L‟immagine dell‟Altro si fissa nell‟immaginario sociale attraverso la sua diffusione nel testo letterario e
diventa parte della cultura condivisa da un popolo:

La vastità degli aspetti e dei metodi scientifici con riferimento ai tanti fattori che convergono nella formazione
dell‟immagine che un uomo si fa dell‟altro, un gruppo sociale dell‟altro, un popolo dell‟altro, una razza
dell‟altra, rispecchia lo sviluppo del nostro sapere sull‟intricato rapporto fra gli uomini e le loro reazioni
vicendevoli. La prospettiva interdisciplinare risponde alla variegata multiculturalità. (Beller)

L‟imagologia è pertanto chiamata a definire il proprio campo di azione:


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Da un lato, infatti, gli studi che analizzano le immagini del Paese X di fronte al Paese Y in un dato momento
storico, si fondano su un approccio alla questione di tipo storico-culturale, si presentano come una sorta di
“Studi culturali” ante litteram, poiché essi sono investiti da questioni che rinviano all‟ideologia, alle forme
dell‟esotismo, alle questioni sociali che fanno da sfondo alla cultura di quel tempo. Dall‟altro si può
considerare un‟immagine più focalizzata, per esempio l‟immagine letteraria di una città lungamente celebrata,
come Venezia, proiettandola nello scenario della produzione artistica di uno scrittore, come Thomas Mann, che
l‟ha celebrata nel romanzo breve La morte a Venezia (1912). In questo caso la lettura imagologica della città
lagunare può ben inserirsi in un discorso storico sulle rappresentazioni letterarie di Venezia, ma, più
produttivamente tale immagine fa comprendere cosa Venezia permette di chiarire nei processi di scrittura e
nell‟immaginario dello scrittore tedesco. (Proietti, p. 16)

Nel primo caso ci viene offerta un‟analisi della circolazione delle idee attraverso la mediazione delle
immagini, mentre nel secondo otterremo un‟analisi di come una rappresentazione – una immagine – si
inserisca nel processo creativo di un‟opera letteraria.

Data la centralità dell‟immagine in questo tipo di studi, occorre innanzitutto vedere in che modo queste si
distinguano dagli stereotipi: l‟immagine è per sua natura produttiva, polisemica, mentre lo stereotipo è un
segnale immobile, che propone sempre lo stesso messaggio e come tale stabilisce un facile legame tra il testo
letterario e l‟immaginario sociale e fissandolo per sempre.

Lo stereotipo non è sempre necessariamente negativo, perché si basa sul grado di prestigio di cui gode una
determinata cultura in un determinato tempo, come si è visto nel caso del passaggio tra il sentimento anti-
germanico di Voltaire a quello filo-germanico di Voltaire. Entrambi gli atteggiamenti producono dei
mirages, cioè immagini distorte che presuppongono uno sbilanciamento che rischia di impedire una
valutazione corretta di sé e dell‟Altro.

Le immagini dell‟Altro possono così essere sintetizzate in questo modo:

Altro > sé = mirage, visione distorta (mania)


Altro < sé = mirage, visione distorta (fobia)
Altro = sé = filia

L‟atteggiamento pluridisciplinare della scuola francese di Daniel-Henry Pageaux, che si è avvalsa


dell‟apporto di tutte le discipline, sociologia, storia sociale, psicologia sociale, è stato criticato da Rene
Wellek, che ha invece proposto che l‟indagine rimanesse nell‟ambito della critica letteraria. Questa
prospettiva è stata ritenuta eccessivamente rigida poiché

la ricerca ed l‟individuazione della presenza di mirages e di images dell‟Altro all‟interno di un‟opera letteraria
nella considerazione della loro portata in termini di «mediazione simbolica» non ha un valore meramente
analitico o tassonomico, ma acquista un valore ermeneutico laddove queste stesse immagini letterarie
costituiscono la chiave di accesso a quelle dinamiche attraverso le quali il testo letterario esercita un‟influenza
sull‟opinione pubblica, su quello che chiamiamo immaginatio, il quale le riceve e le elabora, a sua volta
incidendo sul contesto sociale e culturale (Proietti, p. 35).

L‟imagologia di matrice francese non rinuncia alla vocazione sociale che può ricoprire e pertanto afferma la
qualità dialettica del testo, le sue capacità di produrre e riprodurre contenuti attraverso la stretta relazione che
esso intrattiene con il lettore e non solo con l‟autore. La sua fruizione trova il suo compimento nel
riconoscimento e nella condivisione di valori collettivi in quello che Jauss ha chiamato l‟«orizzonte di
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attese», cioè il modello interpretativo che, sollecitando il lettore, gli prospetta una via d‟accesso al significato
stesso dell‟opera.

Lo studio della ricezione, peraltro, non può limitarsi ad uno studio atemporale, e deve articolarsi nei due
momenti identificati da Yves Chevrel: «estéthique de la réception et histoire des réceptions: d‟un côté un
texte, chargé de virtualités et potentialités, de l‟autre des marques de lectures diverses d‟une oeuvre, prise
dans sa manifestation concrète» (cfr. Proietti, p. 135).

L‟osservazione di Chevrel segnala nella storia delle ricezioni il modo in cui l‟ imagologia e ricezione
letteraria si incontrano per l‟analisi dei fatti letterari, puntualizzando che sia l‟immagine letteraria che la sua
ricezione attraverso la lettura dell‟opera si comprendono solo se contestualizzate.

L‟imagologia e gli studi interculturali hanno ricevuto particolare impulso nel periodo seguente al crollo del
Muro di Berlino, a causa del riproporsi sulla scena mondiale dei problemi relativi alle identità nazionali ed
alla loro definizione, e si sono avvalsi di molti concetti elaborati dagli studi sulla ricezione dell‟opera
letteraria e dagli studi post-coloniali.

L‟aspirazione degli studi imagologici è quella di non limitare il suo campo d‟azione al solo ambito letterario
poiché, consapevole dell‟aumento costante degli incontri che il mondo attuale propone con l‟Alterità e delle
domande che ne conseguono, intende proporsi anche come etica sociale:

“Etudier, cultiver le divers, non pour s‟y complaire en multipliant les juxtapositions de teste et de cultures,
mais pour le maîtriser, en le composant selon des ensembles et des modes explicatifs, est tout à la fois un
principe d‟étude, une forme de pensée et un idéal de vie” (Daniel-Henry Pageaux, in Proietti, p. 21).

Per la loro capacità di fare perno su problematiche storico-culturali, politiche e sociali inerenti al contatto tra
diversi popoli e culture, l‟imagologia e gli studi interculturali, possono giocare oggi un ruolo particolarmente
importante per aiutare ad interpretare in maniera più “utile e dilettevole” la complessità e la ricchezza della
nostra società in cui le Alterità ci sono sempre più vicine, e sempre più numerosi gli incontri che ci vengono
offerti. Riscoprire la portata civile dei testi letterari può aiutarci a vedere il mondo nel modo più ampio
possibile, comprendendo la nostra identità nello specchio dell‟identità che noi costruiamo dell‟Altro.

E ora che avevo cominciato


A capire il paesaggio:
«Si scende,» dice il capotreno.
«E‟ finito il viaggio».
(Giorgio Caproni, Disdetta)
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