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ANTONIO MONTANARI

SIGISMONDO E ISOTTA,
UN MITO LETTERAIO

Riscoperta settecentesca
per merito di
Gian Maria Mazzuchelli

Versione informatica 2010


Nella metà del secolo diciottesimo, a traghettare le
vicende malatestiane riminesi dall’oblio intessuto di rade
ragnatele erudite all’attenzione critica degli intellettuali
europei, ci pensa il nobile bresciano Gian Maria Mazzuchelli
(1707-1765), ricordato soprattutto per l’impegno profuso nella
compilazione di un vasto dizionario bio-bibliografico, Gli
scrittori d'Italia, di cui apparvero fra 1753 e 1763 soltanto i
primi due volumi per un totale di sei tomi. Nel 1753 Mazzuchelli
cura a Verona un’edizione della Bella mano di Giusto de’ Conti1,
alla quale antepone le notizie biografiche (pp. I-XXIII)
dell’autore che oggi sappiamo morto a Rimini nel 1449 alla
corte di Sigismondo Pandolfo Malatesti. Questi lo fece seppellire
nella seconda tomba esterna del Tempio, contando dalla
facciata. Del sepolcro di Giusto de’ Conti, Mazzuchelli propone
nel volume un’incisione2 tratta da un disegno di Giovanni
Antonio Battarra procuratogli dal medico ed erudito riminese
Giovanni Bianchi (Iano Planco)3.
Bianchi ricevuta da Mazzuchelli una copia della Bella
mano, lo ringraziava per l’omaggio aggiungendo una
comprensibile protesta: «Io veramente mi sarei lusingato, che
avesse voluto in queste sue note far piccola menzione del mio
nome per aver mandato questo disegno esatto unito con qualche
notizia intorno quell’Autore, delle quali cose veggo essere stato
fatto uso in questa edizione4». Dall’«aver taciuto il mio nome»,
aggiungeva Planco, «posso io sospettare dell’animo suo verso di
me, il che si vedrà maggiormente manifesto nella lettera B della
sua grande opera intitolata Gli Scrittori d’Italia, dove avrà
motivo di parlare di me, e de’ miei scritti»5. Mazzuchelli, quasi a
placare l’ira di Planco, gli invia immediatamente il testo a lui
dedicato, e preparato per Gli scrittori d’Italia, con la richiesta di

1 Questa «edizione seconda veronese» presso Giannalberto Tumermani tien dietro a


quella del 1750, rispetto alla quale presenta «quanto di più particolare si ha
nell’edizioni antecedenti» (p. XXIII). Tumermani firma la prefazione datata 20
agosto 1753. Il placet dei Riformatori dello studio patavino, alla [p. 12], reca
invece la data del 23 marzo 1751. Nella «Tavola di ciò che si è aggiunto in questa
edizione» [p. 11], si legge: «Notizie scritte dal Sig. Conte Giammaria Mazzuchelli
Accademico della Crusca intorno a giusto de’ Conti. Con il disegno del di lui
Sepolcro, che giace al di fuori del Tempio di S. Francesco in Rimini, e la Medaglia
di Sigismondo Pandolfo Malatesta, che fece edificare quel Tempio, qual Medaglia è
appresso il predetto Sig. Conte Mazzuchelli».
2 La tavola fuori testo, a fronte di p. 1, contiene la riproduzione della celebre medaglia

di Matteo de’ Pasti con il profilo di Sigismondo Pandolfo Malatesti; e due immagini
(in prospetto e fianco) del sepolcro di Giusto. Come incisore, Battarra lavorò
assiduamente al fianco di Bianchi: cfr. AA. VV., Grafica riminese tra Rococò e
Neoclassicismo, disegni e stampe del Settecento nella Biblioteca Gambalunghiana,
Rimini 1980, pp. 62-69. Lo stesso Battarra ne riferisce in una sua breve
autobiografia non datata, dove soprattutto accenna alla «maggior fatica» impiegata
«per i rami dell’Ecfrasis seconda di Fabio Colonna, che alla morte del Bianchi è
rimasta inedita»: cfr. fasc. Battarra, G. A., I (177), doc. 1, Fondo Gambetti
Miscellanea Riminese [FGMR], Biblioteca A. Gambalunga di Rimini [BGR].
3 Cfr. in SC-MS. 970, Giovanni Bianchi, Minute di lettere 1741-1761, BGR, c. 257v., la

lettera del 7.10.1754.


4 Le notizie riminesi sono alle pp. XII-XIII.
5 Ibidem, c. 258v.
completarlo con i dati biografici iniziali6. Se lo confrontiamo con
quello apparso negli Scrittori, II, II, (1760), pp. 1137-1148,
vediamo che il secondo è più analitico rispetto a quello proposto
dal conte bresciano al medico riminese7.
Mazzuchelli per curare l’edizione della La bella mano ha
contattato Bianchi tramite padre Serafino Maria Maccarinelli8,
allo scopo di ricevere notizie riminesi sul poeta umanista
vissuto alla corte dei Malatesti. Planco ha inviato a Mazzuchelli
il ricordato disegno della tomba di Giusto, preparato da
Battarra, e le informazioni richieste. Dopo la pubblicazione del
volume, Mazzuchelli ne invia a Bianchi due copie: una per lui e
l’altra per Battarra come ricompensa per il disegno riprodotto9.
Il primo aprile 1756 Mazzuchelli chiede a Bianchi «alcune
notizie» per «illustrare la vita la vita della celebre Isotta da
Rimini, concubina alla prima, e poi moglie di Sigismondo
Pandolfo de’ Malatesti». Planco gli invia il disegno del sepolcro di
Isotta10, ed altre «belle notizie» attorno al personaggio11. Lo
scritto di Mazzuchelli appare in ottobre12, con il titolo di Notizie
intorno ad Isotta da Rimino, nella «Raccolta Milanese dell’anno
1756», edita nella capitale lombarda da Antonio Agnelli13.
Mazzuchelli ne fa tirare «più copie a parte», dopo aver
raccomandato al tipografo di stampare i disegni «non confusi
come nella Raccolta Milanese». Ne trasmetterà14 a Planco alcuni
esemplari tramite il libraio Giovan Battista Pasquali di Venezia,
che aveva negozio presso al Ponte di Rialto, e che era in

6 Cfr. la lettera del 15.10.1754, la prima di quelle conservate in Fondo Gambetti,


Lettere al dottor Giovanni Bianchi [FGLB], BGR, ad vocem. Il testo biografico di
Bianchi è allegato a questa lettera.
7 L’intervento di Bianchi si rileva, oltre che nel testo, anche nell’ampio corredo di

note delle quali non c’è traccia nel ms. inviato a Planco da Mazzuchelli. In
quest’ultimo ad esempio manca la parte finale dedicata alle ascrizioni alle
Accademie ed alla rifondazione dei Lincei nel 1745 (pp. 1138-1139).
Particolarmente significativa per comprendere l’attenzione di Bianchi alla
compilazione della propria scheda, è quanto troviamo nella lunga nota 10 di p.
1139, ove si ricordano le di lui menzioni fatte da «moltissimi Scrittori».
Importanti, sotto questo profilo, sono pure le note alla bibliografia. Mazzuchelli
cita a p. 1154 un «Bianchi, Giovanni Simone, medico riminese vivente nel 1740»
che è lo stesso Planco.
8 Cfr. la ricordata missiva 7.10.1754, SC-MS. 970, cit.
9 Ibid. «Ieri l’altro dal P. Maestro Tonni nostro Inquisitore mi furono mandati due

esemplari della Bella mano di Giusto de’ Conti ristampata l’anno passato in
Verona con annotazioni di V. S. Ill.ma».
10 Cfr. Giovanni Bianchi, Commercium epistolicum, SC-MS. 974, BGR, 26.4.1756.
11 Cfr. il messaggio di Mazzuchelli del 6 maggio, FGLB, dove precisa di aver ricevuto

da Bianchi due lettere, datate 19 e 26 aprile. Mazzuchelli prega Planco di


ringraziare il bibliotecario gambalunghiano (cioè Bernardino Brunelli, in carica
dal 1748-1767, che era aiutato dai figlio Bernardino.
12 Bianchi ne accusa ricevuta l’8.11.1756, come risulta dal cit. ms. 974.
13 Sul significato di questa iniziativa editoriale, cfr. Franco Venturi, Settecento

riformatore, I. Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino 1998, pp. 645-646, ove. è


cit. il lavoro di Mazzuchelli su Isotta; e Carlo Capra, I progressi della ragione. Vita
di Pietro Verri, il Mulino, Bologna 2002, p. 128.
14 La spedizione di cinque copie avviene all’inizio del nuovo anno: cfr. la lettera di

Mazzuchelli a Bianchi del 10.1.1757, FGLB. A Bianchi arrivano verso la metà di


febbraio: cfr. nel dal cit. ms. 974 alla data del 14.2.1757. Il 24 dello stesso mese
Mazzuchelli gli risponde: «Godo che le siano felicemente giunte le copie speditele
della mia cicalata sopra Isotta». Bianchi regala poi a Mazzuchelli una medaglia
raffigurante Isotta, sui cui ringraziamenti cfr. la lettera del bresciano del
23.9.1757, FGLB.
rapporto con Bianchi. Mazzuchelli scrive a Bianchi: «La
menzione che vi ho fatta di lei, era necessaria sì per render
giustizia al suo merito, e dare a tutti il suo, come per far credere
ch’io non ho mancato di diligenza per rendere meno imperfetto
quel mio tenue lavoro». Planco gli ha inviato «nuove riflessioni»
dalle quali Mazzuchelli è spinto a pubblicare una seconda
edizione che esce nel 1759 a Brescia presso Giambattista
Bossini. Uno degli esemplari inviati a Bianchi contiene un
bigliettino di dedica: «Al celebratissimo Sig. Dott. Gio. Bianchi di
Rimino presenta G. Maria Mazzuchelli suo servitore le presenti
due copie della ristampa della sua Operetta sopra Isotta fa
Rimino, dove vedrà alcune Aggiunte, e corretti alcuni errori
ch’erano corsi nella prima edizione».
Le Notizie intorno ad Isotta da Rimino sono state definite
da Augusto Campana (1951) una «piccola cosa se si vuole, ma
veramente egregia; e importante […] perché è il primo lavoro
monografico di argomento malatestiano»15. Mazzuchelli
racconta16 che su Isotta «molti de’ più valenti letterati o ne
ignorarono le notizie, o inutilmente le cercarono», talora
confondendola con un’omonima «sua contemporanea», la celebre
letterata veronese Isotta Nogarola (p. 4). A prender cantonate
non era stati soltanto i dotti letterati italiani come il padovano
Lorenzo Pignoria (1571-1631), ma pure quelli francesi in scritti
di poco anteriori al testo di Mazzuchelli (nota 2, p. 5). Qualcun
altro poi ne aveva addirittura deformato il nome in Isabetta.
A Mazzuchelli l’occasione per comporre queste Notizie è
offerta dal senatore veneziano Bernardo Nani, uno dei
Riformatori dello Studio di Padova17, che gli aveva inviato
l’«esatto disegno del Busto di marmo acquistato da non molto»
(p. 3), in cui era appunto raffigurata Isotta. Le Notizie
procedono inizialmente fra critica delle fonti ed interpretazione
letteraria della vicenda amorosa di Sigismondo ed Isotta, sulla
scorta di opere umanistiche come i componimenti del poeta
napoletano Giovanni Antonio Pandoni, detto il Porcelio18 (ca.
1405-1485) che viveva presso la corte riminese. Mazzuchelli
ricorre alla lucidità tipica del discorso storico, che però offusca
l’esame psicologico quando voglia penetrare i misteri d’Amore
con strumenti diversi da quelli che soltanto la Poesia offre. Non
agisce per ingenuità, bensì per desiderio di ricostruire
fedelmente il susseguirsi degli eventi. Il suo modus operandi
non meraviglia se si pensa che la mentalità di Mazzuchelli
rispecchia le emergenze nuove della critica settecentesca, in
lenta elaborazione proprio in quegli anni. In quest’analisi,
Mazzuchelli deve arrendersi alla fine all’evidenza della verità
della Poesia, essendo in attingibile quella della Storia. A

15 P. 144 Ghigi XIV vol.


16 Le citt. che riferiamo sono dalla II edizione.
17 Nani, Angelo Contarini e Francesco Lorenzo Morosini vararono nel 1761 «una

riforma di grande rilievo nella storia dell'Ateneo patavino»: cfr. la pagina web
<http://www.cisui.unibo.it/annali/03/testi/05Del_Negro_testo.htm>, dove si cita
dal vol. III (1999) degli Annali di Storia delle Università italiane.
18 Mazzuchelli scrive «Porcellio».
Sigismondo, Isotta ha dovuto cedere al pari delle «tante donne»
che s’arresero a Giove per quella «violenza d’amore, a cui non è
possibile di far resistenza».
Mazzuchelli racconta di un’elegia di Porcelio che
rappresenta il padre di Isotta intento a convincere la figlia della
sua «cattiva condotta»: «le rimprovera il suo coraggio di volere
ch’egli approvi quant’ella fece di suo capriccio» (p. 15). Le
spiega che il suo amore «non fu altrimenti un Dio, ma che venne
finto un Nume della libidine, onde coprire questa sotto l’ombra
d’una divinità li suoi sfoghi perversi» (pp. 15-16). Mazzuchelli
desolato osserva che Isotta non accettò d’«abbandonar quegli
amori», dal momento che non trova prove che «Sigismondo, ed
Isotta interrompessero giammai l’amicizia loro». (p. 16). Dalla
Poesia Mazzuchelli passa alla Storia rintracciando documenti
sui rapporti tra Sigismondo e la famiglia di Isotta (p. 18) sui
quali osserva che se il signore di Rimini «volle distinguere, e
premiare un fratello d’Isotta», ben si può «agevolmente»
immaginare «a qual grado poi volesse render chiara, e distinta
la sua Isotta» (pp. 18-19).
La matassa della poesia celebrativa s’ingarbuglia agli
occhi di Mazzuchelli che deve ricordare anche gli elogi lirici
contemporanei ad Isotta (p. 20) come la raccolta poi uscita a
stampa a Parigi nel 1549, Trium Poetarum… (p. 21), con
Porcelio che aveva immaginato «Giove innamorato d’Isotta». La
quale «con fermezza d’animo» ricusa «d’annuire alle sue impure
voglie» perché Sigismondo «è il suo Dio» («Sola Sigismundi dicar
Isotta Dei», pp. 21-22). Secondo Porcelio «non vi fu nissuna Dea,
o Greca, o Latina» più illustre di Isotta la quale fu superiore a
Tindari nella bellezza, a Saffo nella Poesia, a «Penelope (elogio
veramente notabile) ne’ suoi costumi» (22). Con grande e timida
cautela Mazzuchelli non sottrae nulla al mito della coppia
Sigismondo ed Isotta costruito dai loro cortigiani. Però
delicatamente insinua che siffatto «cumulo di tante lodi» era per
«gran parte dovuto» sia all’adulazione sia a «quell’entusiasmo
poetico, che è solito di portare all’eccesso il merito d’ogni Donna,
che si prende a lodare», anche allo scopo d’acquistar maggior
grazia verso il padrone della corte. Con altrettanta leggerezza di
tocco Mazzuchelli osserva che «per quanto degrado si voglia
dare a quelle lodi», bisognerà considerare Isotta «una Donna
assai rara, e distinta». Il che significa concludere ribadendo la
premessa da cui s’era partiti: Isotta fu «di singolare grazia, e
delle più rare doti, e vaghe, ed accorte maniere, onde farsi
amare, e stimare da Sigismondo». Il che, inoltre, interesserebbe
poco la Storia se appunto attorno alla figura di Isotta ed ai suoi
rapporti (soprattutto prematrimoniali) con Sigismondo non
fosse stato creato quell’apparato da mito che si trasferisce in
tutto quanto la riguarda nel Tempio ed annessi, al punto che lo
stesso Mazzuchelli, sulla scorta di Apostolo Zeno, parla di una
«idolatria» di Sigismondo verso la sua donna.
A Mazzuchelli sfugge che i conti ‘poetici’ erano stati fatti
una volta per tutti da Guido Guinizzelli immaginando la propria
anima interrogata da Dio: «che presumisti? […]» , «desti in vano
amore me per semblanti». Guinizzelli aveva implicitamente
costretto ogni poeta davanti al tribunale ecclesiastico della
Letteratura in seduta permanente: insegnando però che la sua
lezione autobiografica imponeva l’accettazione della diversa
lettura delle parole d’Amore in ambito post-cristiano rispetto al
tempo dei pagani. Se la mitologia poteva scherzare su vizi e
vizietti dei numi, dal Nuovo testamento in avanti occorreva
separare il canto religioso da quello amoroso, a meno che non si
trattasse di quelle estasi che talora nella raffigurazioni
(pittoriche o scultoree) confondono un poco le idee tra la fuga
dal mondo e le sue seduzioni che sembrano talora trasparirvi
proprio nell’attimo in cui le si vuol negare ed abbandonare.
Mazzuchelli poteva accantonare più che legittimamente
la lettura-lezione di Guinizzelli con i conseguenti tormenti di
quel Petrarca che gli umanisti di corte ripropongono senza gli
spasimi che sono nel cantore di Laura. Ma doveva a quel punto
guardarsi attorno e constatare quanto di estraniante nell’esame
storico contenessero le liriche prodotte su Isotta nel
Quattrocento, liriche che non si potevano riproporre con le
stesse chiavi interpretative dei contemporanei della medesima
Isotta. Ma proprio ciò che manca nel discorso di Mazzuchelli è
prova di un fascino che il personaggio, anzi i personaggi di
Isotta e Sigismondo e la loro vicenda amorosa promanano in un
contesto in cui sorgono nuovi strumenti d’analisi, ma li si ignora
con tranquilla coscienza. Per cui vale la l’opinione di Franco
Venturi sul settecentesco «rinnovato interesse per il mondo
umanistico italiano» e sull’operetta di Mazzuchelli della quale
discorriamo e che appartiene ad una specie digenere che
annovera anche altri testi, tutti «variopinti fiori eruditi colti nei
giardini umanistici». Testi nei quali «il passato medievale e
rinascimentale, riscoperto nell’età muratoriana e maffeiana, si
irrigidisce di nuovo in una raffina esercitazione erudita»19.
In parallelo, rispetto all’attenzione che Mazzuchelli
suscita a livello nazionale, va ricordato quanto la cultura locale
del secolo XVIII manifesta in materia malatestiana. Nel 1718 il
riminese Giuseppe Malatesta Garuffi (1655-1727), contesta un
padre francescano che aveva scritto del Tempio quasi due secoli
prima. Sacerdote e direttore della Biblioteca Gambalunghiana
dal 1678 al 1694, Garuffi tra l'altro compilò una storia delle
accademie italiane, L'Italia Accademica, il cui primo ed unico
volume a stampa apparve nel 1688, mentre il resto dell'opera è
conservato manoscritto nella stessa Gambalunghiana. Quel
testo non piacque a Ludovico Antonio Muratori. A Forlì nel
1705 Garuffi animò il «Genio de' letterati». Egli aveva avviato un
ampio programma, sotto il titolo di Bibbioteca Manuale degli
Eruditi20, per pubblicare 130 titoli, «i quali contengono

19 Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, I. Da Muratori e Beccaria, Torino 1998, p.


646.
20 Questo titolo viene quasi sempre riprodotto come Biblioteca, ma sia nell’unico
volume a stampa (Venezia, A. Poletti, 1704) così chiamato, sia nei rimandi che
moltissime Erudizioni, Istoriche, Poetiche, Morali, varie, e di
sagra Scrittura». Garuffi trattò anche di Filosofia, dimostrandosi
attento a quella sperimentale, «in cui il nostro secolo ad occhi
aperti si esercita dopo d'essersi per l'addietro lungamente
perduto ad occhi chiusi» in vane ed inutili questioni21.
Nel 1718 nel veneziano «Giornale de Letterati d’Italia»
(tomo XXX, pp. 156-186) Garuffi pubblica una Lettera
apologetica […] in difesa del Tempio famosissimo di san
Francesco, per criticare quanto era apparso in latino quasi un
secolo prima (1628) negli Annali Francescani dell’irlandese
padre Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e
censore dell’Inquisizione romana, dopo aver studiato a Lisbona
e Coimbra. Wadding fu il fondatore e guardiano del collegio dei
frati osservanti della nazione irlandese a Roma, presso la chiesa
di san Isidoro che aveva avuto origine dalla canonizzazione
fatta da Gregorio XV nel 1622 di cinque santi, fra i quali lo
spagnolo Isidoro. In quell'anno vennero dalla Spagna alcuni
padri «riformati scalzi» di san Francesco per fondarvi un ospizio
per i frati loro connazionali. Dopo due anni però essi
l'abbandonarono. L'ospizio fu così concesso a padre Wadding,
che è sepolto nella stessa chiesa di san Isidoro22. Il testo di
Wadding secondo Garuffi, conteneva «alcuni periodi» che sono
«pieni di calunnia contro il Tempio di san Francesco di Rimino».
Padre Wadding definisce Sigismondo uomo da ricordare più per
le doti del fisico che per quelle dello spirito23. Famoso per gloria
militare, straordinaria eloquenza e forza del corpo, lo giudica
però ignobile per infami costumi ed un genere di vita che nulla
aveva avuto di cristiano. A questo punto Wadding ricorda la
biografia di Sigismondo scritta da Pio II che niente aveva
tralasciato dei presunti delitti del signore di Rimini24. Wadding
prosegue sostenendo che Sigismondo dedica sì il Tempio alla
memoria di san Francesco, ma lo riempie di immagini con miti
pagani e simboli profani, aggiungendovi pure un mausoleo (di
fattura e materia bellissima) per la sua amante, con un epitaffio
chiaramente pagano («Dedicato alla divina Isotta»25). Garuffi
taglia corto: Sigismondo è stato «un eroe insigne non meno per

troviamo all’interno del Genio de’ letterati, alle pp. 9 e 119, la dicitura corretta è
quella che abbiamo riportato. La Bibbioteca è divisa in 130 titoli, «i quali
contengono moltissime Erudizioni, Istoriche, Poetiche, Morali, varie, e di sagra
Scrittura» (pp. 4-5). Secondo quanto Garuffi scrive nel Genio de’ letterati, la
Bibbioteca costituisce l’opera iniziale di un ambizioso piano editoriale, i cui titoli
pubblicati egli elenca nel suo articolo a p. 119. Si cfr. pure il ms. omonimo (La
Biblioteca Manuale …) in BGR, Sc.-Ms. 500.
21 Cfr. la cit.Biblioteca a stampa (1704), pp. 57-58.
22 Per le notizie riportate, cfr. i seguenti siti: <www.ku.edu> e
<www.encyclocapranica.it>.
23 «Sigismundus Malatesta, plus a corporis quam ad animae dotibus commendandus».

Il brano di Wadding è riportato a p. 157 della Lettera apologetica di Garuffi.


24 Wadding scrive: «[…] nihil scelerum aut male auctorum praetemittens».
25 «Aedem dedicavit S. Francisci memoriae; sed ita Gentilibus fabulis, et profanis

emblematibus universam delineavit; ut non Sactorum Templum; sed Ethnicorum


videatur delubrum. Ad haec minus christianae abdidit suae amasiae Mausoleum
opere et materia pulcherrima, adiecto Gentili more hoc Epitaphio: Divae Isottae
Sacrum».
valore, che per la religione», e Wadding aveva scritto soltanto
«una serie di cose falsissime»26.
Garuffi sapeva che Pio II l’aveva accusato di aver
ripudiato la prima moglie, avvelenata la seconda, strangolata la
terza. Ed anche per papa Piccolomini, il bibliotecario riminese
ha pronte le risposte in difesa di Sigismondo27. La prima moglie
era la figlia del Carmagnola: rifiutò di sposarla dopo la condanna
a morte del futuro suocero (1432). Per Ginevra d’Este, la
seconda (ma in realtà la prima ad essere impalmata), il sospetto
di una morte per veleno fu diffuso dai parenti del Carmagnola.
Circa Polissena Sforza, Garuffi spiega che se anche l’avesse
fatto, Sigismondo avrebbe agito «per giusta ragione di Stato»
avendo lei rivelato al padre, in lettere intercettate dal marito,
«alcuni militari segreti del consorte». Infine Garuffi scrive che
Isotta era stata sposata da Sigismondo, quindi non si poteva
definire sua amante.
Nelle pagine successive28 Garuffi passa alla difesa del
Tempio, con la descrizione delle singole cappelle, riservando la
conclusione al problema della scritta sulla tomba d’Isotta: «D.
Isottae Ariminensi B. M. Sacrum. MCCCCL». Quel «D.» sta ad
indicare «Dominae» e non «Divae» come aveva interpretato
Wadding29. Ma se anche fosse come proponeva lo storico
francescano, spiega Garuffi, non ci sarebbe nulla di male, perché
chiamare «diva» Isotta significava soltanto usare un titolo degno
per la moglie di un principe, senza alcun «sentore di
gentilesimo», cioè di paganesimo30.
Fortunatamente Wadding non sapeva quanto scoperto nel
1912 da Corrado Ricci. La discussa iscrizione per Isotta era
stata sovrapposta ad un’anteriore, ancora più compromettente:
«Isote ariminensi forma et virtute Italiae decori. MCCCCXLVI».
Era di un’audacia scandalosa quel «decoro d’Italia» riservato ad
una giovinetta come Isotta che aveva circa tredici anni nel
1446, quando fu sedotta da Sigismondo mentr’era ancor viva la
moglie Polissena. Isotta nello stesso anno concepì da
Sigismondo un figlio, Giovanni, che morì in fasce il 22 maggio
1447.
Wadding ricorda che origine e genealogia riminese dei
Malatesti erano state riassunte da fra Leandro Alberti in una
sua opera, Descrittione di tutta l’Italia e Isole pertinenti ad essa
(G. B. Porta, Venezia 1550). Leandro Alberti osserva che
Sigismondo fu «valoroso capitano de i soldati», e che la sua vita è
stata descritta da Pio II il quale «narra i suoi vitij, et opere mal
fatte», anche se «nell’ultimo di sua vita, chiese perdono ad Iddio
con lagrime de i suoi errori, et passò di questa vita da buon
Christiano» (p. 299v). Neppure una parola per il nostro Tempio
c’è in fra Leandro, il quale invece per Malatesta Novello spiega

26 Cfr. Lettera apologetica, cit., p. 157.


27 Ibid., pp. 161-163.
28 Ibid., pp. 166-175.
29 Ibid., pp. 178-179.
30 Sul «B. M.» gli studiosi si sono sbizzarriti: beata o buona memoria, oppure

benemerita.
che «essendo letterato, et virtuoso edificò quella sontuosa
libraria nel monasterio di San Francesco di Cesena, ove pose
nobilissimi libri tutti in carta pecora, e a mano scritti, et ornati
di belli mini» (ibid.).
A Garuffi nello stesso anno («Rimino, 15 dicembre 1718»)
risponde un anonimo con altra «Lettera» a stampa31, prendendo
le difese di padre Wadding e presentandosi come Minore
Osservante: è una minuziosa e pedante requisitoria contro la
presunta religiosità di Sigismondo, in cui si richiamano altri
autori riminesi che in passato avevano accettato senza fare una
piega l’accusa di eresia rivoltagli da Pio II. L’anonimo corregge
errori di datazione commessi da Garuffi circa le morti delle
mogli di Sigismondo; rispolvera la vicenda (leggendaria32) del
frate martirizzato per non avergli voluto rivelare i segreti del
confessionale di una sua sposa; ed aggiunge come ciliegina sulla
torta che i cesenati sospettavano il signore riminese d’aver
aiutato nel 1432 la morte del mite fratello Galeotto Roberto,
come premessa alla ripartizione del potere con Novello33. Dopo
ben nove anni, nel 1727, Garuffi risponde all’Anonimo con altre
citazioni alle contestazioni che gli erano state indirizzate, e
discutendo secondo lo spirito del tempo sul valore dei simboli
presenti nella chiesa di san Francesco. La notizia più curiosa, in
questa «Seconda lettera», Garuffi la riserva all’Anonimo: non sei
dei Minori Osservanti, gli dice; so per certo che appartieni ad un
altro ordine religioso.
A Giuseppe Malatesta Garuffi è attribuibile un breve testo
ms. intitolato De modo figurarum astrologicarum describendi
(Sc-Ms.462, cc. 99-110, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini).
Si tratta di istruzioni tecniche su come compilare un oroscopo.
Tra gli autori citati c’è Regiomontano, ovvero Iohannes Müller,
il principale astronomo del Quattrocento, le cui Tabulae
directionum (Firenze 1524) Garuffi utilizzò (con rinvii
‘anonimi’ nel proprio testo), usando l’esemplare tuttora
conservato in Gambalunghiana (segn. BP. 664). Regiomontano
è detto Monteregio sia nel volume del 1524 sia nel ms. di
Garuffi. Garuffi poi cita Tolomeo ed il calendario gregoriano per
correggere le tavole di Regiomontano. Sempre in
Gambalunghiana si conservano altri mss. di Garuffi che però
non sono opera sua, bensì copie di testi del gesuita Egidio
Francesco De Gottignies di Bruxelles il quale fu suo maestro a
Roma nel Collegio Romano. Si tratta di Matematica
Experimenta (Sc-MS. 470), Tractatus de sphera armillari (Sc-
MS. 471), Philosofia astronomica (Sc-MS. 472), Cosmographia
(Sc-MS. 473). Nel manoscritto 473 a c. 5v. troviamo una
descrizione dei nove corpi dell’Universo: Terra, Luna, Mercurio,

31 Cfr. Lettera scritta al Molto Rev. Padre Fr. Giulio da Venezia. Non è riportata
l’indicazione del luogo, ma è probabilmente Rimini.
32 Cfr. A. GRILLI, Le reliquie di padre Sebastiano, «Ariminum», VII, 36 (maggio-giugno
2000), p. 41; e E. PRUCCOLI, Amori, frati e adulteri, ibid., VI, 38 (settembre-ottobre
2000), pp. 8-10.
33 Cfr. p. XL della cit. Lettera scritta, dove si rimanda al ricordato C LEMENTINI,
Raccolto istorico, VIII libro, II parte, p. 267.
Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse. Gli sviluppi
successivi della Scienza hanno dimostrato che quei corpi erano
soltanto otto, eliminando le Stelle fisse che fisse non erano
troppo… A fianco dell’elenco dei nove corpi c’è un foglietto
inserito fra le cc., con tre disegni relativi al sistema tolemaico,
tyconico e copernicano sul tipo della celebre tavola di
Athanasius Kircher (Iter extaticum, 1671) che però contiene
sei sistemi (tolemaico, platonico, egiziaco, tyconico, semi-
tyconico, copernicano). Nel ms. di Garuffi De modo figurarum
etc., troviamo elencati otto corpi: sette pianeti di cui egli parla
in sèguito alla c. 6r. § XV. Septem Planetarum vires, più la
Terra. Le elencazioni degli otto «segni» procede in questo ordine:
Sole, Luna, Saturno, Mercurio, Giove, Marte, Venere, Nodo
Lunare Nord34.

I Lincei riminesi di Iano Planco riservano tre


dissertazioni ai Malatesti. Il 30 aprile 1751 si dà lettura di sette
epistole di Roberto Malatesti (1479). Successivamente (forse il
7 maggio dello stesso anno), segue un’epistola di Leonida
Malatesti del 1546. Infine il 17 marzo 1752 Bianchi presenta
sei missive del governo di Firenze inviate ai Malatesti di Rimini
(1378-1400), e ricopiate da Lodovico Coltellini da un codice
manoscritto di Coluccio Salutati (1331-1406), esistente presso
la Biblioteca Riccardiana di Firenze.
Coltellini trasmette a Bianchi queste copie il 29 gennaio
1752: «La prego di communicarle opportunamente, alla nostra
Accademia Lincea, ai soci della quale costì dimoranti, mi ricordo
servidore ossequiosissimo». Alle copie, Coltellini premette una
breve presentazione in cui egli dichiara di comunicarle «ai
virtuosissimi Signori Accademici Lincei di Rimino, comecché
appartengono all’istoria di quella illustre città».

34 Debbo ad una esperta in materia (che non vuol esser citata), questa spiegazione: «I
Nodi Lunari corrispondono al punto di intersezione delle orbite Terra/Luna nel
loro percorso attorno al Sole, oppure più semplicemente corrispondono ai punti di
allineamento Sole/Terra/Luna come si verifica nelle eclissi. La Luna rappresenta
tutto il nostro passato inteso come stato evolutivo raggiunto, il Sole rappresenta la
meta a cui la nostra anima anela e la Terra la scuola da frequentare
obbligatoriamente per acquisire i meriti necessari per salire al Sole. Sole e Luna
sono sempre espressione rispettivamente dello Spirito e dell'Anima. I simboli che
identificano i due Nodi (Nord e Sud, esattamente opposti uno all'altro) sono,
assieme agli altri, il linguaggio che l'astrologia usa per tramandare la sua
conoscenza, e la chiave per meglio interpretare questi simboli è l'analogia. Il logo
del Nodo Sud lo possiamo assimilare ad un contenitore, mentre al suo opposto il
logo del Nodo Nord ci fa pensare ad un contenitore rovesciato. L'asse dei due nodi
viene comunemente definito come canale energetico che interviene affinché le
necessità evolutive della ridiscesa su questa terra vengano compiute. Ecco che il
simbolo del contenitore rappresenta il nostro bagaglio di conoscenze e capacità di
cui veniamo dotati per compiere questo percorso. Sarà il nostro libero arbitrio
(ammesso che esista e siamo in grado di esercitarlo) che opererà la scelta di
utilizzare il contenitore, sprecarlo o sacrificarlo per poter acquisire nuove
conoscenze. In un Tema Natale (aspetto planetario al momento della nascita della
persona) ci sono dodici case astrologiche che rappresentano dodici settori della
vita (lavoro, amici, famiglia, ecc..) e le due case interessate dai Nodi ci potranno
aiutare per meglio comprendere il nostro percorso evolutivo, oltre naturalmente
al segno zodiacale in cui sono domiciliati.»
Le copie di Salutati
Della radunanza lincea del 17 marzo 1752, sono rimaste
due annotazioni di mano di Bianchi nel fasc. 222 del «Fondo
Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese» in Biblioteca
Gambalunga. Nella prima è spiegata l’origine delle copie fornite
da Coltellini: cioè, il codice «scritto dal celebre Coluccio Salutati»,
poi «posseduto da Pietro Crinito, o sia del Riccio, altro famoso
Segretario della medesima Repubblica» fiorentina come lo stesso
Salutati.
Nella seconda annotazione si legge: «Giacché per
incidenza questa sera s’è fatta onorata menzione de’ Signori
Malatesta, che erano fautori delle Lettere greche e latine, e
d’ogni altra cosa a scienza e ad erudizione appartenente, e
massimamente tra questi Carlo Malatesta Signore di questa
Città, che fu cognominato il Catone de’ suoi tempi, e Sigismondo,
e Malatesta Novello suoi Nipoti, uno Signore di Rimino, e l’altro
Signore di Cesena, che favorirono amendue le Lettere in un
grado eccellente, come dalle scelte Librerie che fondarono, e
dagli uomini illustri in Lettere, che appo ebbero è manifesto, io
vi riferirò o Graziosi uditori una lettera del Sig. Dott. Lodovico
Coltellini di Firenze nostro Accademico Linceo, colla quale egli
ci manda un sonetto d’un tal Pandolfo Malatesta ad un tal
Messer Andrea lasciando a noi la cura d’investigare chi fosse
questo tal Pandolfo giacché moltissimi di questa famiglia
Malatesta, e Signori, e non Signori della Città nostra con un tal
nome di Pandolfo furono».
L’avvocato cortonese Coltellini (1720-1810) era stato
nominato accademico Linceo nel 1750. Fu dotto e polemico
corrispondente di Bianchi. Giovanni Lami, direttore delle
«Novelle letterarie» fiorentine, lo classificò in una lettera allo
stesso Bianchi come «un birro, ed una spia, che non posso
patire». Nel 1757 Coltellini farà ascrivere Bianchi all’Accademia
cortonese di Botanica e Storia Naturale, della quale era
segretario.

Gambetti svela il «mistero»


Le due pagine del fasc. 222 sono state il punto di partenza
per rintracciare le lettere malatestiane di cui esse parlano.
Abbiamo anzitutto consultato il fascicolo contenente le missive
di Coltellini a Bianchi, senza però trovarvi quella con le copie
delle lettere malatestiane presentate ai Lincei. Un funzionario,
nella «Sala chiusa» dei manoscritti dove è conservato un
catalogo generale non accessibile al pubblico (quello a
disposizione degli utenti non è completo), ha fatto una ricerca
con esito negativo partendo dalla voce Coltellini.
Allora abbiamo preso visione delle preziose «Schede
Gambetti». Qui alla voce Coltellini abbiamo trovato due
informazioni. La prima (conosciuta) circa le ricordate lettere a
Bianchi; e la seconda (inedita, nella scheda 114) sulla missiva
di Coltellini a Bianchi del 29 gennaio 1752, «con copia di varie
lettere della Repubblica Fiorentina ai Signori Malatesta di
Rimini».
Riproduciamo il testo completo della scheda 114, con
l’elenco delle lettere malatestiane: «Il Coltellini le copiò dal
codice cartaceo della Libreria Riccardiana segnato M II n° 3. La
prima è diretta Domino Galeotto de Malatestis. Florentiae die XI
Augusti 1378. La seconda è diretta allo stesso. Florentiae die 9
Nov. 1738. La terza è diretta Karolo et Pandolfo de Malatestiis
Florentiae die 10 Aprilis 1390. La quarta è diretta Ghaleoto
Belfiore Florentiae die 5 Junii VII Ind. 1399. La quinta è diretta
Karolo de Malatestiis Florentiae die 5 Junii 1399 VII Ind. La
sesta è diretta Karolo, et Fratribus et aliis de Malatestiis.
Florentiae due 7 Junii 1399. Mss. Sc. V. 48». Quest’ultima
indicazione («Mss. Sc. V. 48») documenta che in Gambalunga nel
corso dell’altro secolo, le lettere malatestiane furono tolte dal
fascicolo delle missive di Coltellini a Bianchi, ed inserite
diversamente. Ma dove e come, se il nome di Coltellini non è
elencato nel catalogo generale riservato?
Nel catalogo dei manoscritti gambalunghiani accessibile a
tutti, se nulla c’è sotto il nome Coltellini, invece sotto quello di
Coluccio Salutati, autore della prima trascrizione, con la
segnatura «ms. 414» appare elencato il materiale che
cercavamo: la missiva di Coltellini del 29 gennaio 1752 e le
trascrizioni delle sei lettere malatestiane lette nei Lincei. Dalla
medesima missiva di Coltellini a Bianchi si ricava che pure le
precedenti epistole malatestiane, lette nei Lincei in due
precedenti adunanze, erano state inviate da Coltellini al medico
riminese. Ma di esse non siamo riusciti a trovare alcuna traccia
negli schedari gambalunghiani.

Lite erudita con un gesuita


Nella stessa radunanza del 17 marzo Bianchi presentò
anche una «Lettera ad un amico di Firenze intorno varie cose
d’Antichità», poi pubblicata sulle «Novelle» fiorentine: è
un’accesa polemica contro l’autore (anonimo) della «Storia
letteraria d’Italia», il cui primo volume era apparso due anni
prima (1750) a Venezia, con una citazione critica di uno scritto
archeologico dello stesso Planco, di cui si diceva (senza
nominarlo) che era un medico al quale era «saltato in capo di far
da antiquario». Bianchi si difese sostenendo che i migliori
studiosi d’Antiquaria erano stati proprio dei medici come lui.
L’autore della «Storia letteraria» è il gesuita Francesco Antonio
Zaccaria (1714-1795). E pure Planco lo sapeva bene.
Nella risposta a Zaccaria, Bianchi sostiene che per fare
una storia letteraria «non ci vuole il solo capitale di quattro
ciance volgari» come accaduto nell’opera veneziana, «ma
bisogna essere versato in tutte le scienze, e in oltre bisogna
sapere bene le lingue de’ Dotti, vale a dire la Greca, e la Latina,
ed anche le antiche d’Oriente, non meno che molte delle
moderne d’Occidente». Infine, per poter più liberamente
attaccare l’autore della «Storia letteraria», Planco sostiene che
non potevano essere tali né Zaccaria né alcun altro padre
gesuita perché nessun seguace di sant’Ignazio avrebbe potuto
scrivere in quella forma e con «tanta ignoranza», in quanto «i
Gesuiti sono persone dotte e colte, che si pregiano più che altro
di usare civiltà e gentilezza con ognuno, non che con i Letterati,
che non gli hanno mai offesi».
Bianchi scriveva di sospettare qualcuno dei suoi soliti
«saputelli calunniatori» che avevano agito sempre da anonimi o
con nomi finti. Planco riconosce che negli ultimi due tomi
quell’autore (Zaccaria) «pare un poco più moderato» verso la sua
persona, anche se dimostra d’avere ancora «una certa rabbietta,
ed amarulenza», dato che non parla mai bene di lui se non «a
mezza bocca, e quasi per forza». Bianchi definisce l’autore della
«Storia letteraria» come «un miserabile copista» da novelle e
giornali, «non veggendo egli mai alcuna cosa nell’originale». Ed
aggiunge: «e crediamo con alcuni, i quali giustamente pensano,
che sia meglio esser biasimato da lui, che l’esser lodato».

Chi studia non odia


Planco, parlando di quella «certa rabbietta, ed
amarulenza», si riferiva a quanto apparso nella «Storia
letteraria» del 1751, dove Zaccaria aveva richiamato uno scritto
del senese Giovanni Girolamo Carli contro Bianchi, in cui si
sosteneva che il medico riminese quando fu professore
d’Anatomia a Siena «non incontrò molto il genio di que’
Cittadini». Per la verità, Carli aveva pure scritto in difesa di
Bianchi, accusato di conoscere soltanto «quattro parole di
greco»: «Buono per la nostra Toscana, se ci fossero due dozzine
di persone che sapessero di Greco quanto il Signor Dottor
Bianchi».
A proposito dello scritto di Carli, Zaccaria osservava che
esso era caratterizzato da uno stile «un po’ amaro»,
aggiungendo: «Noi vorremmo, che gli scrittori cristiani non in
parole, ma co’ fatti si mostrassero persuasi della verace carità,
che dall’altre sette ne dee più che altra cosa distinguere». Di
questa regola, però Zaccaria non è rispettoso proprio con
Bianchi, laddove osserva che il gazzettiere fiorentino
pubblicava le notizie inviategli dal riminese per riempire «senza
molta sua fatica» i propri fogli.
Nel novembre 1763 Zaccaria entrerà con Bianchi in un
cordiale rapporto epistolare, durato sino al giugno 1768. Nella
sua ultima lettera, Zaccaria definisce Planco «un letterato sì
celebre». Nella prima gli aveva detto (in latino), tanto per
cominciar discorso, che pur avendolo qualche volta (ma senza
malevolenza) contestato nella «Storia letteraria», tuttavia lo
aveva sempre considerato uomo dalla dottrina molteplice e di
grande valore, non facendo finta di non riconoscerla. E che se lo
aveva attaccato era stato soltanto perché Planco era in
strettissimo legame con il loro «assai aspro persecutore», cioè il
responsabile delle «Novelle» fiorentine Giovanni Lami. Bianchi
rispose (sempre in latino) con spirito di riconciliazione, che era
stato amico e non socio di Lami, aggiungendo per chiudere il
discorso: «Litterae in honestis hominibus verum inimicitiam
non pariunt», gli studi letterari nelle persone oneste non
generano risentimenti.
La pagina più gustosa scritta da Zaccaria contro Bianchi è
quella in cui parla della disputa sul «malvagio Rubicone»
(«Annali letterarj d’Italia», 1762): «Se Roma ha già decisa la lite
per questa rara cosa tra’ Riminesi, e Cesenati, e ha condannati
nelle spese quest’ultimi, io vorrei vedere imposta una buona
multa a coloro, che con fogli, libri, libercoli, Dissertazioni,
Scritture osassero di più infestare l’umana generazione sopra
questa controversia, teruntii, flocci, e nihili eziandio», cioè di
poco, anzi di nessunissimo valore.

4. ERUDITI E MALDICENTI
1756, CONTESTATA LA RIAPERTURA DEGLI AVELLI NEL TEMPIO

Il 22 luglio 1756 padre Francesco Antonio Righini,


«procuratore» dei Minori Conventuali di San Francesco, apre
furtivamente l’Arca degli Antenati, nella cappella della
Madonna dell’Acqua al Tempio malatestiano. Con sé porta quale
esperto il pittore Giambattista Costa, e come tecnici due
muratori: quello che entra all’interno dell’Arca, ne scompiglia i
poveri resti. Il 15 agosto Righini ispeziona le casse di marmo
nella fiancata esterna destra alla presenza di alcuni testimoni,
ed il giorno successivo il sepolcro d’Isotta davanti a dodici
persone.
Il francescano compie l’esplorazione degli avelli proprio
mentre architetta un colpo con cui spera di diventare famoso.
Imbroglia le carte sulla storia della beata Chiara da Rimini, ed
inventa la scoperta d'un manoscritto datato 1362, raschiando la
data originale del 1685.
La sua impresa al Tempio non piace a molti in città. Le
critiche gli piovono addosso abbondantemente. Il 19 agosto
padre Righini scrive a Giuseppe Garampi, prefetto dell’Archivio
Segreto Apostolico Vaticano e studioso di meritata fama. Invoca
una specie d’assoluzione per la sua iniziativa. Gli confida d’aver
agito soltanto per «curiosità» ed allo scopo «di porre con ogni
sincerità il vero della Storia di ciò che concerne questo nostro
magnifico Tempio».

In cerca di notizie
Righini con Garampi non usa la stessa «sincerità» e non
ricorda tutto «il vero». Tralascia la visita fatta il 22 luglio
all’Arca degli Antenati. Cita solamente la seconda esplorazione
dell’Arca, svolta il 16 agosto dopo quella nella tomba d’Isotta. In
quest’occasione nell’Arca si vede soltanto un mucchio d’ossa
confuse fra gli stracci, grazie all’imperizia di quel muratore
pasticcione.
Righini sa poco o nulla della storia illustre della chiesa di
cui è custode. Lo dimostra quando, nella stessa missiva, chiede
a Garampi di suggerirgli «qualche notizia particolare» attorno «a
questo nostro Tempio», da inserire «nella rozza composizione»
che gli è stata richiesta, ovvero una storia del Malatestiano. Un
suo compagno d’avventura, il filosofo e naturalista Giovanni
Antonio Battarra, scriverà in una «Lettera» a stampa (Milano,
1757) che in città attorno alle tombe del Tempio correvano due
opposte opinioni. C’era chi, seguendo la tesi di Giuseppe
Malatesta Garuffi (1655-1727), riteneva che nella maggior
parte di esse vi fossero le ceneri dei ‘titolari’. Altri invece
sostenevano che fossero vuote. Righini, secondo Battarra, si era
mosso «per decidere chi dei due partiti avesse ragione».

Il mistero d’un silenzio


Il silenzio di Battarra sul progetto del frate (di scrivere
qualcosa sulla vicenda secolare del Tempio), s’accompagna a
quello sullo stesso padre Righini mai citato nella «Lettera»
milanese. Battarra riferisce vagamente di «alcuni Galantuomini»
che la sera del 15 agosto «si portarono a que’ Monumenti di
Marmo che sono nella facciata laterale del Tempio dalla parte di
mezzodì». Resta un mistero perché non indichi il nome del frate
come ideatore di tutta l’impresa. Neppure nelle note alla
«Lettera», curate da un suo allievo (Epifanio Brunelli), si parla di
padre Righini, ma si cita vagamente un «Promotore»
dell’iniziativa.
Battarra (come lo stesso Righini) inizia la «Lettera» dal 15
agosto, ‘dimenticando’ l’anteprima del 22 luglio nell’Arca degli
Antenati. L’ha ricordata invece in una «Relazione» manoscritta
inviata nell’estate del 1756 ad alcuni amici, tra cui lo stesso
Garampi che la conservò a noi posteri. Può essere stato lo stesso
Righini a suggerire a Battarra di tacere sul 22 luglio.

L’accusa in città: «troppo audace»


Righini, il 19 agosto, con Garampi osserva che restava da
aprire soltanto un altro sepolcro, quello di Sigismondo: «se la
curiosità mi trasporterà a farlo voglio farlo con tutta la pulizia
possibile», cercando di avere presenti il vicario generale della
diocesi, il notaio «ed altre persone graduate per testimonj». Il
desiderio di agire, per così dire, alla luce del sole e «con tutta la
pulizia possibile», nasce dalla volontà di mettere a tacere le
malelingue che lo hanno «tacciato per troppo audace». Padre
Righini confida a Garampi di non curarsi però dei «latrati»
insussistenti e vani indirizzati alla propria persona. E precisa
d’aver agito «colla licenza» del vicario generale della Diocesi e
del «Religioso superiore» dell’Ordine a cui appartiene.
Finalmente il 21 agosto c’è la ricognizione alla tomba di
Sigismondo, a cui concorrono più di trenta amici di padre
Righini. Il vicario non interviene, ma si presenta il Capoconsole
pro tempore Lodovico Battaglini. L’assenza del vicario, il
canonico Francesco Maria Pasini (futuro vescovo di Todi ed
educatore, un po’ sfortunato, di Aurelio Bertòla), è interpretata
come un modo elegante per non approvare un’azione sulla quale
gli avversari di padre Righini avanzavano dubbi circa il rispetto
di alcune norme del Diritto canonico.
Garampi conosce dunque tutti i particolari della vicenda
malatestiana soltanto dalla «Relazione» manoscritta di Battarra,
contenente il racconto completo delle esplorazioni, a partire
proprio dal 22 luglio e dall’Arca degli Antenati. Dal confronto
tra questa «Relazione» di Battarra (senza data) e la lettera del
francescano, Garampi poteva dedurre che padre Righini aveva
voluto nascondere l’atto iniziale della sua impresa per non
apparire quello sprovveduto che apertamente si confessava con
il suo silenzio. Il 5 settembre Battarra (provetto disegnatore ed
incisore) invia a Garampi un abbozzo del cadavere di
Sigismondo.

Il dottor Bianchi si è offeso


Quando padre Righini scrive a Garampi dei «latrati
insussistenti e vani» rivolti contro la sua persona, sa con
certezza chi poteva accusare: Giovanni Bianchi (Iano Planco),
medico, naturalista, docente di Anatomia umana a Siena dal
1741 al ’44, e rifondatore dell’Accademia dei Lincei nel ’45.
Secondo Battarra, il suo maestro Bianchi era fra quanti
militavano nel partito dei cenotafi, cioè delle tombe vuote.
Bianchi se l’è presa a male perché è stato tenuto fuori
dall’impresa. In effetti, in città egli era l’unico che per dottrina
ed esperienza fosse in grado di esprimere consapevolmente un
parere scientifico e storico sull’esplorazione agli avelli del
Tempio. Alla quale fu presente un suo ex allievo, il medico
Giambattista Brunelli, fratello di Epifanio, assieme al collega
Girolamo Grassi.

«Ignoranti e di poca mente»


Quando pubblica sulle «Novelle letterarie» di Firenze una
recensione delle «Notizie intorno ad Isotta da Rimino» di
Giammaria Mazzuchelli [vedi «Passioni malatestiane del 1718»,
«Ponte», 5.10.2003], Bianchi sottolinea con studiata malizia
d’aver appreso che il sepolcro della donna di Sigismondo era
stato da poco aperto «privatamente».
A Bianchi scrivono lo stesso Mazzuchelli ed alcuni
redattori editoriali di Venezia, per saperne qualcosa di più. Lui
risponde a tutti, ma prima di avviare le missive al corriere, le
legge pubblicamente in città. Ce lo fa sapere Battarra in una
lettera del 7 maggio 1757 ad un suo corrispondente,
Ferdinando Bassi: Bianchi sostiene che quei «sepolcri sono stati
aperti privatamente da un Fraticello ignorante che si è unito
con alcuni di poca mente e che nottetempo sono andati a
frugacciare» nelle tombe. Alla lettura di queste missive, Bianchi
accompagna commenti cordialmente osceni in faccia allo stesso
Battarra ed agli altri della compagnia di Righini.

Uno stile da «villano»


Battarra protesta con Giovanni Lami, direttore delle
«Novelle» per la recensione di Bianchi dove si parla
dell’esplorazione della tomba di Isotta fatta «privatamente», e gli
invia una «relazione di dette aperture», che è pubblicata il 29
aprile 1757, e che provoca la furia del dottor Bianchi. Questa
lettera di Battarra a Lami portò Alessandro Tosi (1927) ad
attribuire a Battarra medesimo la paternità del testo apparso
sulle «Novelle».
Lo stile di questo scritto non è però quello di Battarra. Fra
le espressioni usate, e che Bianchi critica (per lui sono «parole
da villani del nostro contado»), ve n’è una che si riferisce
all’Arca degli Antenati: in mano ad un cadavere giudicato di
donna, fu trovata «una rama d’ulivo». Battarra nel testo inviato
manoscritto a Garampi ha scritto correttamente: «in mano un
ramo d’Ulivo». Proprio nelle note di Epifanio Brunelli alla
«Lettera» milanese di Battarra, appare la stessa espressione
censurata da Bianchi: «una rama d’ulivo in una mano». Può
essere questa la prova (stilistica) per attribuire lo scritto
fiorentino non a Battarra ma ad Epifanio Brunelli.
Dal fatto che la «Relazione d’apertura d’Avelli» sia stata
inviata a Firenze da Battarra, non deriva nulla circa la sua
paternità letteraria. Battarra conosceva Lami, delle cui
«Novelle» Epifanio Brunelli diventerà collaboratore soltanto
successivamente. Nel 1759 Epifanio Brunelli vi pubblica la
recensione proprio alla «Lettera» milanese di Battarra, senza
avvisare quest’ultimo (il quale, nel frattempo, ne aveva inviata
a Lami una di suo pugno).

«Cose infami da forca»


Il dottor Bianchi reagisce duramente alla «Relazione». Con
Mazzuchelli dichiarerà che l’ha elaborata Battarra, dopo aver
letto nella seconda edizione delle Notizie su Isotta dello stesso
Mazzuchelli (1759), che essa era «d’altra penna» da quella di
Battarra. Bianchi invia varie lettere a Lami, sostenendo che
quello scritto portava disonore alle «Novelle», e che esso era
stato composto «male e scioccamente» soltanto per combattere
la sua affermazione fatta sull’apertura della tomba d’Isotta
compiuta «privatamente». Questi signori, scrive Bianchi, hanno
commesso il reato di violazione di sepolcro, «cose infami che
hanno in oltre con sé la pena della forca».
Battarra con il suo corrispondente Bassi, il 21 giugno
1757 osserva che Bianchi lo ha colpito «con un esercito
d’impertinenze», ed è «diventato sì fanatico» da farsi compatire
dappertutto, e da divenire inavvicinabile. Ma il 29 settembre
Battarra ricorre a lui, per chiedergli una visita urgente al padre
«aggravato dal mal d’orina». Pace fatta.
Secondo Battarra, il dottor Bianchi aveva giudicato il
mancato invito alle esplorazioni nel Tempio al pari d’un delitto
di lesa maestà. Al nipote di Bianchi, Girolamo (anch’egli
medico), Battarra confida: suo zio se l’è presa con me, «ed il
maggior mio dispiacere è di vederlo rendersi pressocché
ridicolo e puerile». Giovanni Bianchi interpreta la vicenda in
modo diverso. Rammenta che cinque anni prima, proprio dagli
ecclesiastici riminesi, è stato montato lo scandalo per la sua
lettura ai Lincei del discorso sull’«Arte comica», messo poi
all’Indice con una procedura che Giuseppe Garampi giudicò
rapida ed «improvvisa». Per non dire quasi irregolare.
Nel 1756 appaiono le («Notizie intorno ad Isotta da
Rimino») del bresciano Giammaria Mazzuchelli, in cui è citata
una «Cronica a penna in pergamena, che tuttavia si conserva
nell’Archivio de’ Padri Minori Conventuali di S. Francesco di
Rimino composta da Fr. Alessandro da Rimino Proccuratore di
quel suo Convento». Frate Alessandro vi definisce Sigismondo
«Iniquus Princeps», e ricorda che costui prese come moglie
Isotta «qua cum per multos annos libere sine matrimonio vixit».
Mazzuchelli, circa le nozze di Isotta con Sigismondo,
ipotizza il principio del 1453, quando lui le regala abiti e gioielli.
E sottolinea che il Malatesti negava di aver contratto
segretamente tale matrimonio. Dal quale nasce Antonia, poi
maritata con Rodolfo Gonzaga. Nel freddo Natale del 1483 il
consorte la raggiunge nel castello di Luzzara. Un ebreo
favoritissimo a corte gli ha fatto credere adultera la giovane
moglie. Rodolfo Gonzaga aggredisce Antonia e la trascina a
morire nel giardino ricoperto di neve.
Planco, quando recensisce sulle «Novelle letterarie» di
Firenze il lavoro di Mazzuchelli, scrive d’aver inteso «che
privatamente sia stato ora, non ha molto, aperto in Rimini» il
sepolcro di Isotta. Ne nasce una polemica di cui si è già qui detto
qualcosa («Tempio, il segreto delle tombe», 12.1.2003). E su cui
si potrebbe ritornare aggiungendo altri curiosi particolari sui
velenosi eruditi riminesi del secolo XVIII.

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