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Dell'impossibile rigore: Saggi sulla fisionomia della doxa
Dell'impossibile rigore: Saggi sulla fisionomia della doxa
Dell'impossibile rigore: Saggi sulla fisionomia della doxa
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Dell'impossibile rigore: Saggi sulla fisionomia della doxa

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L’idea guida di questi studi è che il pensiero (neo)parmenideo, piuttosto che costituire il primato della «medesimezza», apra lo spazio doxastico alla «diversità» e alla divergenza, a partire dal quale le particolari e sfaccettate relazioni etico-doxastiche, dismessa ogni pretesa di verità, possono intrecciare la rete delle solidarietà democratiche. E' quindi necessario e opportuno assumere il rischio della natura anche politica della doxa, quella delle forze che attraverso un potere istituente si fanno diritto. Nel mondo doxastico non è riscontrabile un evento storico di rivelazione della verità, il tempo si incurva, non tende ad un progressivo compimento, ed incerta si rivela ogni posizione di tipo messianico. La realtà storica dei comportamenti è decifrabile in alcune sue strutture, ma la verità si nega in un senso di (divina) irrappresentabilità, mentre alle comunità umane, come anche alla religione e all’arte, è lasciato di interpretare ed elaborare il paradosso già presocratico (ed ebraico) dell’impossibilità del rigore e della giustizia.
LanguageItaliano
Release dateAug 3, 2023
ISBN9791222432786
Dell'impossibile rigore: Saggi sulla fisionomia della doxa

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    Dell'impossibile rigore - Stefano Maschietti

    L’idea guida di questi studi è che il pensiero (neo)parmenideo, piuttosto che costituire il primato della «medesimezza», apra lo spazio doxastico alla «diversità» e alla divergenza, a partire dal quale le particolari e sfaccettate relazioni etico-doxastiche, dismessa ogni pretesa di verità, possono intrecciare la rete delle solidarietà democratiche. Ѐ quindi necessario e opportuno assumere il rischio della natura anche politica della doxa, quella delle forze che attraverso un potere istituente si fanno diritto. Nel mondo doxastico non è riscontrabile un evento storico di rivelazione della verità, il tempo si incurva, non tende ad un progressivo compimento, ed incerta si rivela ogni posizione di tipo messianico. La realtà storica dei comportamenti è decifrabile in alcune sue strutture, ma la verità si nega in un senso di (divina) irrappresentabilità, mentre alle comunità umane, come anche alla religione e all’arte, è lasciato di interpretare ed elaborare il paradosso già presocratico (ed ebraico) dell’impossibilità del rigore e della giustizia.

    Stefano Maschietti (1971) è dottore di ricerca in filosofia teoretica e insegnante di liceo. Ha curato l’edizione critica del volume B.Croce, Filosofia e storiografia, Bibliopolis, Napoli 2005, pubblicato i libri L’interpretazione heideggeriana di Kant, Il Mulino, Bologna-Napoli 2005, Dire il controvertibile, StreetLib, Roma 2016 e diversi contributi su autori e temi della filosofia contemporanea. Ha collaborato alla rivista «La Cultura».

    Indice

    Copertina

    Il libro. L'autore

    Indice dei contenuti

    Avvertenza

    Introduzione

    1. Sulla natura dell'io doxastico e della relativa spazio-temporalità

    2. Sulla diversità e sulle diverse regioni dell'esperienza

    Note

    I. Note sulla centralità della doxa in prospettiva neoparmenidea

    1. Doxa, metadoxa, verità: la diversità

    2. Possibilità e potenza: la tecnica del diritto

    3. Volontà di potenza e alterazione della verità

    Note

    II. L'esito eleatico del pensiero speculativo italiano (M. Visentin)

    1. La sintesi, la realtà

    2. Luigi Scaravelli

    3. Guido Calogero

    4. Emanuele Severino

    5. Gennaro Sasso

    6. Definire o non l'interpretazione?

    Note

    III. Erranza o alienazione? (E. Severino)

    1. Nel cuore dell'aporetica

    2. L'astratto come destino

    Note

    IV. Dono senza se e senza Sé (J. Derrida)

    1. Quid est tempus?

    2. L'indifferibile differenza: l'aporia del tempo

    3. La fisionomia edipica del mito di Crono

    4. Intermezzo: scampare al 'proprio' destino

    5. L'aporetica del dono

    6. L'aporetica della decostruzione

    7. L'aporetica della giustizia

    8. Dono e mortalità

    9. L'impossibilità dell'amore

    10. Critica del mito

    Note

    V. Il linguaggio e le parole della differenza (M. Heidegger)

    1. Differenz: la questione della differenza

    2. Geviert: il differire dello Stesso

    3. Unter-schied: il differire nel linguaggio

    4. Intermezzo: dalla diversità allo Austrag

    5. Identità e Ereignis

    6. Die Sage: il dire come manifestazione di tutti i luoghi

    7. Hen kai pan

    Note

    VI. L'antinomica di verità e realtà nei primi pensatori

    1. Il destino dell'in-dividualità

    2. Talete

    3. Anassimandro

    4. Anassimene

    5. I pitagorici

    6. Eraclito

    7. Senofane

    8. Parmenide

    9. Zenone

    10. Melisso

    11. Anassagora

    12. Democrito

    13. Protagora

    14. Gorgia

    15. Socrate

    16. L'in-dividuo possibile

    Note

    VII. Note su esistenza e strutture dell'evento

    1. Sistema ed esistenza

    2. L'esistenza come potenza in-autentica e incompiuta

    3. Linguaggio e mortalità

    4. La coscienza

    5. Corpo e virtualità

    6. Moderno, postmoderno, strutture doxastiche

    Note

    VIII. Ancora sulla condizione postmoderna

    1. Postmoderno e virtualità

    2. Lo spazio-tempo della doxa

    3. Un'idea della modernità

    4. L'individuo veritativo e il dividuo doxastico

    5. Metodo e strutture

    6. Parola e chiacchiera globale

    7. Ontologia dei beni di consumo

    8. Lavoro e consumo

    9. Consumo e in-formzione

    10. Pulsione e sublimazione

    11. Religione della libertà?

    12. Pulsione e ideale

    13. Quale patriottismo?

    14. La razionalità politica

    Note

    Avvertenza:

    Lievemente ritoccati, gli studi che compongono i capitoli di questo libro sono stati in buona parte già pubblicati. Di seguito le rispettive fonti:

    I) Note sulla centralità della doxa in prospettiva neoparmenidea, in ΠΑΝΤ'ὌΝΟΜΑ. Studi in onore di Mauro Visentin, a cura di R.Berutti, M.Cardenas, P.Ciccarelli e N.Parise, Bibliopolis, Napoli 2022, pp. 205-14.

    II) L’esito eleatico del pensiero speculativo italiano. Analisi dei contributi di Mauro Visentin, in «Filosofia Italiana», VIII (2013), 2.

    III) Recensione: E.Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013, in «Filosofia Italiana», IX (2014), 1.

    IV) Dono senza se e senza Sé. Sulla questione del tempo donato in Jacques Derrida, in L’altro e il tempo. Studi di fenomenologia, a cura di E. Ferrario, Guerini, Milano 2004, pp. 185-203.

    V) Il linguaggio e le parole della differenza. Gli anni ‘50, in Sentieri della differenza, a cura di A. Ardovino, NEU, Roma 2008, pp. 123-49.

    VI) L’antinomica di verità e realtà nei primi pensatori, in «La Cultura» (2023), pp. 5-36.

    VII) Note su esistenza e strutture dell’evento, in «La Cultura» (2021), pp. 411-28.

    Sono inediti il saggio introduttivo e quello conclusivo (VIII).

    Tutti i diritti di riproduzione riservati:

    © stefano.maschietti@gmail.com

    In copertina: opera 0109400 2013 D.I.

    Introduzione

    There is a solitude of space

    A solitude of sea

    (E. Dickinson)

    Girare le pagine di un libro di filosofia teoretica può essere come afferrare un pugno di sabbia leibniziano. Si prova a disporre i grani ordinatamente su un foglio, ma il risultato è, lo stesso, di frustrante caoticità. Tale sensazione dovrebbe a fortiori accompagnare la lettura di un saggio sulla doxa, su di un oggetto probabilistico quindi, che, più pianamente, potrebbe essere riportato ad una nozione di senso comune, quella della realtà in divenire. La domanda di questo libro è appunto cosa sia l’accadimento delle molteplici realtà che intessono le nostre esperienze, il mondo della vita. Una domanda metafisica, rispetto a cui cerco di percorrere dei sentieri di risposta che vanno dall’analisi delle strutture dell’esistenza gettata, all’ermeneutica della dialettica arcaica, dall’interpretazione della condizione postmoderna, all’antinomica del dono. Il tutto a partire da un confronto con le tesi di Gennaro Sasso e Mauro Visentin, che hanno contribuito, ciascuno a suo modo e senza costituire una scuola (i detrattori l’hanno pertanto detta autoreferenziale), al dibattito sulla singolare e ambivalente natura della doxa.

    Accademicamente parlando questo è un non-libro, promosso non attraverso i pedaggi al comitato scientifico di turno, ma edito dallo stesso autore, con mezzi e credenziali propri. Non che sia necessariamente diretto ad un non-lettore, ad un lettore probabilistico: c’è sempre la speranza che si riesca a discutere un contributo non fermandosi alla lettura di abstract scritti in incerto inglese provinciale. Ma questo testo prende piede nella scena pubblica in quanto relitto internautico, galleggiante nel mare magnum del possibile download. Sono del resto interessi di questi studi le realtà virtuali della tecnica cibernetica, l’onniavvolgente infrastruttura internet, la difficoltà di distinguere un contenuto cosiddetto autentico da un fake. Provo di seguito, in una sorta di postfazione, ad introdurre il tema del saggio, riflettendo, a partire da una postulata e irriducibile nozione di 'molteplicità', sulla natura dello spazio-tempo e della soggettività doxastica, dell’io particolare.

    1. Sulla natura dell’io doxastico e della relativa spazio-temporalità

    Che cos’è la «doxa»? Cos’è lo «spazio-tempo» in cui le doxai, come eventi, accadono? E cosa sono i particolari «io» rispetto a cui le doxai, gli eventi, diventano possibili oggetti? Si tratta di domande in cui è come implicita l’impossibilità di una risposta rigorosa, univoca, chiara e distinta. Perché? La domanda «che cos’è?», radice della coscienza teoretica occidentale, esige una risposta che contraddistingua e specifichi il soggetto-oggetto da definire, ma le tre domande in questione, tra loro intrecciate, impongono di rispondere in maniera solo vaga e intuitiva, alla maniera di Agostino, Pascal e, a ben vedere, di Kant.

    Non sappiamo cosa siano doxa, spazio-tempo ed io, o meglio, intuitivamente ci par di coglierlo, ma appena ci si chiede di definire la nostra intuizione, il suo senso e possibile contenuto concettuale sfugge alla nostra presa, alla nostra comprensione. I nostri tre soggetti sono, metaforicamente, reticolati in cui già ci troviamo impigliati: non riusciamo a porli di fronte a noi, non riusciamo ad ob-iettivarli e a definirli concettualmente. In quanto «io», noi siamo già fuori di noi stessi, siamo già sempre nella doxa e siamo già sempre nello spazio-tempo. Tali elementi ci sono dati intuitivamente, come delle kantiane infinite quantità date, ma non è poi possibile ridurre concettualmente il darsi, sulla loro base intuitiva, di molteplici modificazioni particolari, empiriche, loro inerenti¹.

    L’accadimento della «molteplicità», un postulato di per sé tanto indubitabile quanto indeducibile, irriducibile ad unità concettuale (è solo intuitivo), è l’accadimento stesso della «doxa». Nessun io ha infatti mai visto la doxa, ma solo recepito doxai nel contesto di molte altre circostanti. Tale contesto è il reticolato spazio-temporale in cui le doxai accadono e sono soggette al poter divenire altre da sé, essendo, tutte, contingenti, ovvero contangenti (altro). Nessun io ha inoltre mai visto la molteplicità, ma solo recepito particolari domini di molteplicità, calati nei più ampi contesti dell’inafferrabile molteplicità qua talis.

    Tale contesto è il reticolato spazio-temporale, che di per sé, in quanto pura intuizione dell’infinito possibile, degli infiniti possibili luoghi-momenti, di per sé è indifferenziato. E ciò perché la diversità minima, trascendentale ed empirica al contempo, di «qui» e di «là», di «prima» e di «poi», tale diversità non è possibile se non in quanto due o più doxai accadano nel ricettacolo dello stesso spazio-tempo. Ogni «prima» e ogni «poi», ogni «qui» e ogni «là», nell’isoformismo della pura spazio-temporalità sono puntualmente identici e indifferenti: ogni «prima» è anche «poi», e viceversa, ogni «là» è anche un «qua», e viceversa. Ciò che permette la variazione di tempo e di luogo è l’accadimento discorsivo delle doxai-eventi, sia anche l’accadimento segnico delle due diverse parole che denotano i due luoghi e momenti minimi, le parole appunto «prima» e «poi», «qui» e «là».

    L’unità intuitiva e di per sé indifferenziata è un metaforico buco nero dei momenti e dei luoghi diversi. Nessuna ha mai visto la spazio-temporalità nella sua unitaria origine, che è descrivibile solo attraverso metafisiche metafore (il buco nero, il reticolato). Ciascuno recepisce solo spazi e tempi reciprocamente delimitantisi, sulla base del principio della molteplice e aperta contrarietà reale, ed è soggetto, ognuno, al condizionamento della spazio-temporalità circostante, la quale non è mai, in ultima istanza, la spazio-temporalità qua talis². Il contesto spazio-temporale, in cui siamo già sempre calati e gettati, tale contesto è un’indefinita e solo metaforicamente coglibile regione della spazio-temporalità. Cosa significa infatti molteplicità? Significa le molte pieghe. Ci chiediamo allora, molte pieghe di cosa? E ci chiediamo inoltre: pieghe di un’unità semplice, se unità semplice significa appunto assenza e negazione di pieghe? Siamo al cospetto di una parola metaforica e metafisica, una parola che designa intuitivamente, poeticamente, un orizzonte di cui non è comprensibile un coerente senso concettuale.  Un orizzonte che è, qua talis, irrappresentabile. Noi siamo nella molteplicità e siamo intrisi di molteplicità, che non possiamo perciò rendere oggetto della nostra soggettiva riduzione. Noi possiamo aggiungere parte a parte della molteplicità, possiamo scivolare dall’una all’altra, ma non riusciamo a cogliere l’unità intuitiva che raccoglie sinteticamente tutte le parti.

    Noi siamo abituati a pensare gli oggetti in termini di generalità e universalità, mentre un ob-jectum è sempre il particolare correlato di un particolare sub-jectum, che lo pone appunto di fronte a sé, in un contesto spazio-temporale. L’«oggetto» sostengo che sia una porzione di molteplici elementi costituito, attraverso empirici criteri concettuali, in dominio intersoggettivamente controllabile e riproducibile, un dominio, però, sempre particolare, sempre caduco ed emendabile, mai universale e univoco. Il che non significa negare, bensì affermare la legittimità dei saperi scientifici, che appunto solcano specifici campi di ricerca, controllabili da ulteriori osservatori pratici del codice di riferimento.

    Che l’oggetto presupponga un soggetto costituente non significa, però, che nel soggetto possa essere rilevata l’unità fondante dell’esperienza. Il soggetto è altrettanto, nello spazio-tempo in cui è calato, sfaccettato e particolareggiato, come l’oggetto. Il soggetto è nella molteplicità spazio-temporale senza essere o stringere l’unità semplice di tale spazio-temporalità. Il soggetto è dotato, come ogni altro vivente in forma meno riflessiva, della misteriosa facoltà di avvertire il mutamento spazio-temporale. Vale a dire che il soggetto sensibile non è dentro di sé più di quanto sia già fuori di sé, e in rapporto con gli accadimenti doxastici fuori di sé. Più radicalmente, perciò, dobbiamo dire che, anche rispetto a sé stesso, rispetto ad esempio alle proprie fantasie, il soggetto è già fuori di sé, in relazione ad un altro che ne de-costituisce la pretesa autosufficienza monadico-concettuale.

    Il soggetto, l’io doxastico, è la relazione sensibile con ciò che accade nella spazio-temporalità da cui è avvolto. Esso ha bensì la capacità di astrarsi, e di negare ciò che è eventualmente dato in tale relazione discorsiva, ha la capacità di svuotarne i due minimi membri e divenire soggetto sensibile al solo passaggio dal «qui» al «là», solo formalmente intesi, e dal «prima» al «poi», altrettanto svuotati di ogni contenuto. In questa esperienza minima della relazione doxastica³, il soggetto è in grado di fissare, approssimativamente, metafisicamente, il punto cieco in cui il «qui» e il «là» paiono indistinguersi, e altrettanto il «prima» e il «poi» si indifferenziano. Che tipo di esperienza è quella di un’approssimativa, mai assoluta, intuizione pura? Kant ha buon gioco⁴ a dire che in una «intuizione formale» si darebbe, non soltanto il molteplice, ma anche l’unità della rappresentazione, si costituirebbe perciò, nella sua compiutezza, l’oggettività universale della scienza spazio-temporale. Ma è possibile vivere quest’esperienza a chi è soggetto alle condizioni della sua possibilità discorsiva?

    Per provare a rispondere a tale domanda è opportuno volgere l’attenzione al passo, per certi aspetti sorprendente, nel quale Kant opera la Confutazione dell’idealismo⁵. In questa pagina Kant sostiene che per essere cosciente della mia esistenza «determinata dal tempo» come una successione di stati, devo di necessità presupporre «un permanente», non una semplice rappresentazione, «fuori di me». Tale permanente non potrebbe, infatti, essere intrinseco all’io, perché altrimenti parteciperebbe della sua successività e non ne costituirebbe quell’ubi consistam senza il quale la stessa successione di stati sarebbe evanescente. Ne discende che il permanente fuori di me è la condizione di possibilità della mia interna capacità di avvertire una successione di stati.

    Cosa dire di questa dimostrazione? In essa, pur trovandoci noi nella sfera del puro intelletto, scevro di determinazioni spazio-temporali, è come ribadita la circolarità di rapporto che, nonostante il diverso avviso kantiano, già nell’Estetica è delineato tra spazio e tempo. Nella Confutazione, infatti, è come se Kant dicesse che la permanenza di qualcosa nello spazio (fuori di me) garantisca il divenire nel tempo (dentro di me) della relativa esperienza. Il tempo, quindi, piuttosto che rivelarsi lui condizione di possibilità delle esperienze sensibili in generale⁶, si definisce, in quanto è dentro, in quanto è senso spazialmente interno, appunto a partire dallo spazio, a partire da ciò che è fuori di me. Il tempo è infatti analogicamente rappresentabile come una linea⁷. Ciò comporterebbe però la difficoltà di come l’esperienza temporale possa scaturire da una pregressa intuizione spaziale, se nello spazio il molteplice è simultaneo e in stato di immobilità⁸. Da una totalità immobile di elementi isomorfi, insomma, come è possibile che si generino il divenire, il movimento e la relativa esperienza temporale? L’unico modo per uscire da questa impasse zenoniana, è quello di dire che la spazialità di ciò che è fuori di me, poiché è definibile anche in termini di permanente simultaneità, è appunto definita in termini di temporalità, in termini di ciò che è circolarmente imparentato con la successione che ne dovrebbe comechessia scaturire.

    Era del resto questa già la soluzione delineata nell’Estetica, dove il «tempo» è considerato la condizione di possibilità di tutte le sensazioni possibili, in quanto ciò che è dato al «senso esterno» deve passare per il «senso interno» (altrimenti non sarebbe una mia esperienza), mentre non è vera la reciproca, che cioè ciò che è vissuto nel «senso interno», come uno stato emotivo, debba anche esprimersi attraverso il senso esterno. Comechessia di questa supposta gerarchia, che non par tener conto di come gli stati interni vengano descritti sempre in analogia con immagini degli stati esterni, a partire dalla parola stessa «emozione» (dall’evidente etimo fisico-spaziale), resta comunque da dire che lo stato interno, cioè il «tempo», è descritto in quanto determinazione regionale dello «spazio», cioè del senso esterno. «Senso interno» significa infatti spazio, non è quindi corretto dire che sia il tempo a delimitare la gerarchia funzionale di spazio e tempo, bensì lo spazio a distinguere terminologicamente la differenza temporale tra i due. Lo stesso vale quando Kant prova a descrivere in termini di sola temporalità lo spazio e il tempo, parlando del primo come dell’ordine della «simultaneità» dei fenomeni, e del secondo come dell’ordine della «successione»⁹.

    Quella da ultimo descritto mi pare essere il punto di arrivo della Confutazione, dove il «permanente fuori di me» appare essere la condizione di possibilità del poter in me, nel mio senso interno, scorrere una «successione di stati». Ѐ questa la soluzione per cui dall’immobilità dello spazio puro dovrebbe scaturire la motilità delle esperienze esterne/interne, soluzione che deve fare i conti col paradosso zenoniano della freccia, vale a dire dell’indeducibilità del movimento temporale a partire dalla somma di una serie di momenti immobili. Per questo motivo arriviamo a dire che la «spazio-temporalità» è un’ellissi doxastica, analogica, nella quale tanto il tempo, già però senso interno (spaziale), delimita il senso esterno spaziale, quanto lo spazio, già però permanente simultaneità (temporale), rende possibile l’esperienza temporale. E così è l’aperta, l’estatica natura dell’io doxastico, che è tanto fuori di sé, rimesso all’altro contangente, quanto rifluisce a scorre dentro di sé, capace di essere altro e contangente a sua volta. La natura dell’io è di toccare e sondare il limite poroso del corpo altro, di sondarne l’incerta linea e di oltrepassarla, ulteriormente o interiormente: interiormente in direzione di un altro altro, di un ulteriore, interiormente ulteriore, altro corpo (im)proprio.

    L’«io» è un particolare corpo dato e rimesso allo sguardo di un «altro io», che può riconoscerlo o riconoscergli spontaneità doxastica. L’«io» è infatti condizione di possibilità della particolare oggettivazione di ciò che è dato all’io stesso. Ciò che diciamo una «cosa» non è tale di per sé stessa. I libri che mi sono intorno mentre scrivo, assumono la forma «oggettiva» dell’utensile libro in quanto sono in relazione a chi li usa, di per sé sono corpi abbandonati nello spazio circostante. L’«io» è ciò grazie a cui una doxa, una cosa, è una doxa, un evento identificabile, l’«io» è una coscienza identificante la realtà dei corpi altri, delle doxai. E qual è l’«identità dell’io», se ce n’è una? L’«identità dell’io» è nel fatto che siano possibili identità altre, che sia possibile, l’io, nella diversità degli eventi. Abbiamo detto che l’io può essere riconosciuto come altro io, da un altro io che gli offre senso e sensibilità, nel mentre gli sottrae una completa autonomia. Come la doxa, l’io non esiste di per sé, ma è contangente altri io, l’«io» è un corpo contangente altri corpi. E di per sé?

    Ѐ possibile definire riflessivamente, trascendentalmente, la fisionomia dell’io? Possiamo dire che, approssimativamente, l’«io» è condizione di predicabilità e di dicibilità, è lo spazio doxastico-enunciativo di eventuali rappresentazioni dell’altro da sé, ma che, in sé stesso, l’«io» è una semplice funzione intuitiva, sensibile-associativa, non sintetica¹⁰. A tale funzione di congiunzione e disgiunzione, che rende possibile la rappresentazione empirica di un’altra cosa, corrisponde un contenuto potenzialmente infinito, ma di fatto desostanzializzato, solamente eventuale, doxastico. Si tratta inoltre di un contenuto delimitato da altri io, gli stessi che possono, come in una divergenza doxastica, riconoscere la spontaneità di un altro io e da questa essere a loro volta riconosciuti. Ѐ come per le diverse regioni dello spazio, le quali, pur definendosi a partire dallo spazio universale (un analogon dell’io penso universale), si delimitano reciprocamente, contrastivamente, senza un criterio stabile, ma solo doxastico, empirico. Così è per gli «io», che sono molteplici e particolari, internamente sfaccettati, in grado bensì di intuire l’irrappresentabilità del vero, ma non in grado di essere logicamente dedotti e articolati a partire da un’autocoscienza o da un essere univoco e universale. Gli «io», molteplici e particolari, come le regioni dello spazio, si definiscono ambiguamente, per contrasto reticolare. Gli «io» sono nella molteplicità e nella diversità doxastica, senza essere mai nell’univocità del vero.

    L’io esiste solo in quanto gettato nella situazione pragmatica dell’interazione, essendo l’io teoretico puro, trascendentale, un mito dissoltosi con la critica e la demolizione della metafisica. Cos’è l’«io pratico»? Ѐ lecita la domanda, par excellance teoretica, a proposito dell’io agente e paziente? L’«io pratico» è, come dice la parola, l’io nelle cose reali, l’io condizionato e rimesso all’altro con cui interagisce e che ogni volta, a sua volta, modifica. Ogni atto di «identificazione» è, a ben vedere, un atto di approssimazione all’altro corpo, che non diviene mai oggetto puro e universale, ma sempre e solo particolare funzione d’uso, perché relazione significa uso, modificazione e ricostituzione di senso. E ciò anche quando in gioco ci sono le determinazioni della spontaneità, le emozioni, che appunto, non sono mai intercettabili nella loro immediata genuinità, ma sempre e solo in quanto sono moti dell’anima verso me, per me, da me recepiti e modificati, interpretati.

    L’io pratico è l’«io ermeneutico», che decifra operativamente quel tessuto di segni, modificandone il senso, tradendolo mentre lo ritraduce, che è l’altro da sé, sia quest’altro un volto, un corpo, o un testo in attesa di essere letto e decifrato. Sia anche l’altro un’immagine dell’io stesso, dell’io profondo e inconscio che chiede di essere ascoltata. Quello che tocca sottolineare è che «relazionalità», nell’io doxastico, significa particolarità e sfaccettatura. La «relazione» solo apparentemente completa il sé, le due presunte metà del sé, la «relazione» in realtà moltiplica i volti dell’incontro e dell’eventualità in cui è gettato. Ciò significa che se l’altro non diviene mai compiuto ed esaustivo soggetto dell’attenzione altrui, la relazione io-altro non costituisce una sintesi a sua volta esaustiva. La relazione è sempre rimessa ad uno spazio di senso contestuale ed ulteriore, un senso aperto e tragicamente indefinito, il quale diverge le prospettive di uno specchio rotto, per quanto il mito platonico dell’eros ci affascini nell’attestare la carica simbolica e sintetica dell’esperienza d’amore.

    2. Sulla diversità e sulle diverse regioni dell’esperienza

    La «relazionalità» del doxastico significa particolarità, giammai individualità, bensì dividualità, tragica e irrisolta dividualità. Ogni particolare relazione a più termini è calata nel contesto più ampio di uno spazio di senso possibile, il quale non costituisce giammai un mondo, un orizzonte definiente e definito, un orizzonte dotato di senso e finalizzato al conseguimento di uno scopo. Lo «spazio» in cui sono calate le relazioni doxastiche è un aperto multiverso, un infinito incompiuto, e la sua cifra più caratterizzante è la diversità, la divergenza degli apparenti orizzonti di senso. «Diversità» significa, in ultima istanza, casualità, indecifrabilità, incalcolabilità, vale a dire empirica irrazionalità. Non ci si deve lasciar terrorizzare dalla cifra della non-razionalità, che significa appunto incalcolabilità delle procedure e degli sviluppi di una relazionalità, di una stringa doxastica. Perché casualità?

    Ogni relazione aperta di doxai eventuali è come un particolare cluster sussumibile in un più ampio cluster particolare. Di particolare in particolare grado, nello spazio doxastico, che è aperto ed indefinito (non è quindi un mondo o un orizzonte), non si dà un termine primo o ultimo, non si dà un senso di totalità che possa ricomporre i particolari doxastici a momenti di una sintesi concreta e compiuta. Là dove si danno cluster non si danno accordi e nessi sintetici, ma solo particolari, dissonanti e imperfette sequenze o condensazioni. Si potrebbe dire, senza voler ora approfondire il problema, che ogni doxa, al contempo, sta per sé, nella sua perfetta possibilità (ogni doxa è istantaneamente, eternamente, sé stessa), quanto stia nelle relazioni di contingenza, che non la completano, ma la irretiscono nella molteplicità. Stanno le relazioni in altre relazioni, e così secondo un progresso/regresso interminato senza fine. La relazionalità è aperta a nuovi elementi, accadimenti empirici, così come altri elementi doxastico-eventuali escono dallo spettro fenomenico della relazionalità, ed entrano nelle dimensioni dell’oblio (temporaneo).

    Come pensare un possibile ordine nella pioggia e negli sciami cosmici, negli smottamenti di doxai oscillanti nello spazio-tempo? Tramontata la pura esperienza teoretica¹¹, possiamo indicare diverse e non sistematizzabili esperienze pragmatico-ermeneutiche, che manifestano indirettamente, astrattamente, un riferimento più o meno obliquo all’intero teoretico. Ne elenco almeno tre: si tratta dell’esperienza politica, o meglio, etico-politica, dell’esperienza religiosa, o meglio, etico-religiosa, e dell’esperienza estetica, o meglio, pragmatico-estetica.

    Cos’è la politica? La dico interazione conflittuale tra soggetti di interesse particolare, volti a imporre un’egemonia e a costituire lo spazio di una solo presunta generalità normativa. A ben vedere, lo spazio doxastico delle norme di cosiddetto interesse pubblico, comune, è un insieme articolato di istituti e strumenti giuridici volti a coercire la competizione tra interessi e a garantire la coesistenza. E l’intero? Il contesto in cui è inserito uno stato costituito, è quello della molteplicità geopolitica e storica, nella quale ogni soggetto cerca alleanze e individua avversari o nemici nella competizione per l’egemonia globale. In questo quadro ermeneutico la pace estera e la stabilità interna non sono che temporanee forme di pragmatica e strumentale tregua, dove l’afflato etico ha non facile gioco ad individuare i presupposti di azioni libere, autodeterminantesi, e concordi, soggette ad una norma universale, tale da garantire eguale dignità e diritti ai soggetti a questa norma¹². La «politica» in realtà è esercizio della forza, che può essere brutale, può arrivare a violentare l’altro, il nemico, fino al limite inaudito di volerlo annientare in guerra. L’«etica della politica» consiste proprio e solo nell’argine inibitorio che il potere normativo riesce a imporre agli eccessi della forza, così aprendo uno spazio di coesistenza sempre incerto. La «forza» è brada, il «potere» è una coalizione di forze organizzatesi per istituire un’imperfetta cornice giuridica.

    Cos’è la religione? Ѐ una ri-lettura del personale rapporto con il multiverso doxastico, come se questo caotico, apparentemente caotico, multiverso fosse in realtà un universo creaturale voluto da un Soggetto divino, fosse un mondo voluto per amore e attraverso il Verbo, la formula stessa della creazione e della natalità. Nella prospettiva ermeneutica della fede lo spazio indefinito e doxastico diviene un mondo orientato al fine morale della salvezza, il momento dialettico nel quale la mortalità delle doxai è assolta e risolta nel regno della resurrezione. Lo spazio aperto nell’esperienza religiosa diventa un mondo proiettato al fine, l’intero assume una forma ed un volto, il volto dell’altro uomo e di Dio che in esso si riflette e incarna¹³. Là dove l’etico-politica esperisce un multiverso caotico e, in ultima istanza, polemico, l’etico-religiosità esperisce, doxasticamente beninteso, un senso di possibile finalità ed armonia. Se l’etica politica cerca gli argini agli eccessi della forza, l’etica religiosa cerca i segni e le azioni che trascendano i limiti della stessa caoticità.

    Cos’è un’esperienza estetica? Si dice che nell’esperienza del bello irrompa una manifestazione sensibile del vero. Un

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