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In uno dei passi pi interessanti e studiati delle sue Storie1 ,

Erodoto descrive un dialogo tra Otane, Megabizo e Dario, tre dei


sette nobili persiani che, sventato lattacco dei Magi, tennero un
consiglio su tutto il complesso delle faccende dello stato. Il passo
particolarmente celebre perch in esso viene presentato un vero e
proprio dibattito sulla migliore forma di ordinamento costituzionale
tra democrazia, oligarchia e monarchia. Ai fini della nostra indagine,
tuttavia, sar sufficiente estrapolare alcune brevi considerazioni di
Otane, fautore della democrazia; per questultimo, il potere
monarchico sarebbe in grado di corrompere anche il migliore degli
uomini: nel momento stesso in cui, infatti, l
giungesse

ad

usufruire

della

disponibilit

di

beni,

questi

arrecherebbero in lui arroganza (


), mentre, prosegue il persiano, sin dallorigini
innata nelluomo linvidia ( ).
Sia larroganza che linvidia, ovviamente, vengono presentate, nel
passo in oggetto, come passioni negative; Otane afferma infatti che
il possesso di questi due vizi comporta, di per se stesso,
, ogni malvagit; molte scelleratezze, infatti, vengono
compiute dal tiranno per arroganza, altre per invidia (
, ). Ora,
nel passo in cui il nobile persiano descrive le conseguenze dinvidia
e superbia, troviamo, nel testo greco, le particelle correlative e
utillizzate per marcare una semplice distinzione tra due termini
della stessa proposizione (indicati, in questo caso, dai neutri
sostantivati ); Le azioni criminose del monarca sono ricondotte a
due diversi principi, arroganza e invidia: sia luna che laltra,
tuttavia, finiscono con il produrre il medesimo effetto, cio azioni
1 HDT. 3.80.

delittuose; al contrario, quando Otane analizza non le conseguenze


di arroganza e invidia, ma il loro rapporto c.on l, le
medesime particelle assolvono, in questo caso, ad una funzione
chiaramente oppositiva: gli elementi che, nel testo, vengono posti
in opposizione reciproca sono i due verbi , utilizzato a
proposito della arroganza, ed , che riguarda linvidia. Il
primo verbo, pur potendo, in altri contesti, essere utilizzato con il
valore di essere insito, essere connaturato, assume, nel passo in
oggetto, il valore di insorgere, strettamente connesso con il
complemento dagente.
precisione

lessere

, invece, indica con grande

connaturato,

lessere

insito

dellinvidia,

indipendentemente dai fattori esterni che potrebbero scatenarla. Il


concetto espresso, dunque, che, mentre sarebbe possibile, per
luomo eccellente, non essere soggetto allarroganza (laddove non
fosse in possesso dei beni, che ne sono causa), lo stesso non
potrebbe essere esente dallinvidia: essa fa parte, infatti, della
, della natura delluomo.
Il medesimo concetto viene ripreso subito dopo, quando Otane
enfatizza la paradossalit apparente del tiranno: un sovrano, infatti,
dovrebbe essere privo di invidia (), giacch questi si trova
nella condizione di possedere ogni bene (
); invece, prosegue Otane, anche il tiranno finisce col provare
invidia, nel caso di specie verso i cittadini migliori (

);

La

conclusione,

inevitabile, dunque che, anche laddove un uomo si trovasse nella


piena disponibilit di possedere tutti i beni invidiabili, egli finirebbe
comunque col provare invidia nei confronti di altri, nel caso di
specie dei migliori.

Da questo passo, nel quale peraltro, come detto, linvidia non viene
analizzata in maniera sistematica ma inserita allinterno di un
contesto pi ampio di natura squisitamente politica, possiamo
comunque ricavare quattro importanti aspetti della fenomenologia
dellinvidia, ancora oggi indagati, osservati, analizzati da psicologi,
sociologi ed antropologi: il suo essere connaturato alla pi intima
essenza dellessere umano, lessere alla base di una molteplicit di
crimini ed azioni delittuose, la difficolt, se non ad estinguere,
quanto meno a mitigare tale sentimento, nonch, in ultima istanza,
la sua natura di relazionalit paritaria: il migliore, in quanto tale,
non potrebbe che invidiare gli , i migliori. Avremo la
possibilit di osservare la ripresa di tali elementi nella sezione
testuale delle Metamorfosi di Ovidio che prenderemo in esame;
Lo scopo di questo mio lavoro cercare di mostrare, partendo
proprio dallanalisi del testo ovidiano, le principali caratteristiche e
peculiarit

della

passione

invidiosa

cos

come

concepita

presentata nel mondo latino.


In particolare, soffermer la mia attenzione sulla descrizione
allegorica dellInvidia nel secondo libro delle Metamorfosi, passo,
questo,

estremamente

interessante

non

solo

nelleconomia

specifica del testo, ma per tutte le implicazioni che da esso possono


essere tratte per cercare di delineare un quadro il pi possibile
preciso e puntuale della concezione degli antichi su questa
particolare passione.
Come si pu ben immaginare, le attestazioni letterarie sul
fenomeno dellinvidia sono di numero assai elevato anche limitando
l'indagine al solo mondo romano: eppure, ben pochi passi della
letteratura latina possono presentare un quadro cos ricco e
completo sulla <<passione triste>> come quello offerto da Ovidio

nel

secondo

libro

delle

sue

Metamorfosi:

personificazioni

rappresentazioni metaforiche dellinvidia possono essere rintracciate,


per rimanere nell'ambito della letteratura latina, sin dalla commedia
Persae di Plauto; l'immagine, personificata, dell'Invidia compare
anche nella Retorica ad Herennium, nel De Natura Deorum di
Cicerone, nel secondo libro dell'elegie di Properzio, nel quarto libro
delle Georgiche di Virgilio; queste occorrenze sono certamente utili
per una delineazione complessiva dell'immagine dell'invidia, ma
non presentano la

medesima ricchezza di dettagli, immagini,

sfumature semantiche che ricopre il termine nel II libro delle


Metamorfosi

ovidiane;

in

esso,

infatti,

il

processo

di

personificazione, estremamente raffinato, si inserisce allinterno di


un contesto generale di storie e vicende mitiche che introduce,
prepara e poi sviluppa compiutamente alcuni tra i tratti pi
significativi

rappresentativi

della

concezione

dell'invidia

nell'antichit. Le storie della sequenza narrativa che occupa i versi


531-835 del secondo libro del poema epico Ovidiano sono, infatti,
collegate tra loro da continui rimandi ed echi che permettono al
lettore di scorgere in un vero e proprio processo di degradazione e
corruzione verbale e visiva il file rouge di collegamento tra le varie
vicende. Processo, questo, che si adatta perfettamente alle
caratteristiche e peculiarit principali del sentimento invidioso, il
quale, come ampiamente e concordemente testimoniato da fonti
letterarie diversissime tra loro nello spazio e nel tempo, viene
concepito non solo come una sostanziale degradazione mentale,
psicologica e fisica del soggetto che prova e manifesta invidia
(configurandosi, in tal caso, come una vero e proprio processo di
consunzione),

ma

anche

come

una

distorsione

dellorgano

sensoriale della vista (da cui, come vedremo, il nome stesso dato,

nel mondo romano, al sentimento) e della parola: vista e parola che


assumono, negli invidiosi, un processo di snaturamento sostanziale,
in virt del quale la vista assume toni sofferenti e straziati,
configurandosi come sguardo obliquo ed occhi torvi, mentre la
parola, il discorso, la comunicazione diventano strumenti dellastio
invidioso, assumendo i toni e la natura della calunnia, dellinfamia,
della maldicenza, della delazione. Tutti questi elementi rientrano,
con compiutezza di dettagli, nelle vicende delle Metamorfosi aventi
origine dalla vicenda del corvo e della cornacchia e terminanti con
la pietrificazione di Aglauro: In queste storie, infatti, come avremo
modo di vedere, la tematica di un cattivo usus vocis, nonch di
visioni

nascoste,

sofferenti,

proibite

diveranno

elementi

fondamentali e continuamente ripresi e sottolineati dal poeta. Oltre


allenfatizzazione

di

questi

due

aspetti,

potremo

notare

le

particolarit della struttura formale della nostra sezione, con il


poeta che si discosta dal flusso narrativo, assumendo subito una
posizione distanziata dalle vicenda che si accinge a narrare ed
informando il lettore sugli esiti delle stessa prima ancora di
cominciare a raccontarla, fornendo una sorta di morale complessiva
dei racconti immediatamenti successivi. Distacco, questo, che
permette

al

narratore

contrapposizioni,

le

di

mostrare

scissioni

tra

le

bene

le

visioni,

discrasie,

le

pensieri,

le

giustificazioni adotte di volta in volta dai vari personaggi coinvolti


nelle storie e le loro motivazioni pi intime e profonde che ricadono
appunto nella loquacit, nella smania di parlare, nella curiosit
indiscriminata, e, alla base di tutto ci, nella delazione dettata da
invidia e gelosia.
Gli aspetti strutturali e formali, tuttavia, non esauriscono linteresse
del passo; accanto ad essi troveremo, infatti,

nellekphrasis

dellinvidia e dei suoi effetti su Aglauro, la presenza di un campo


semantico molto specifico riguardante linvidia, con lutilizzo di
termini,

verbi,

sostantivi

ed

aggettivi

impiegati

con

grande

frequenza nel mondo greco e romano per la descrizione degli


sconvolgenti effetti del livore invidioso sullanimo di chi ne afflitto.
Vedremo come il quadro dinsieme fornitoci dalle testimonianze
prese in esame, pur nella differenza delle prospettive e dei generi
letterari di riferimento, sia sostanzialmente omogeneo e coerente
nel delineare linvidia, presentandola e connotandola con parole e
termini che, se da un lato ne mettono in luce i suoi elementi pi
sordidi, grotteschi, sofferenti e straziati, dallaltro permettono anche
distinzioni, a volte sottili ma indicative, con sentimenti simili ed
affini, a volte derivati dallinvidia stessa, come lira o la gelosia,
senza essere, tuttavia, mai completamente sovrapponibili ad essa.
Le differenze tra le manifestazioni di questi sentimenti erano, se
non completamente tematizzate nel mondo latino, anche in virt
della natura poliedrica di alcune di esse, tuttavia ben indicate dal
punto di vista linguistico, con, ad esempio, limpiego, dal punto di
vista verbale,

di determinati suffissi e tempi che marcano una

scissione forte, e ben giustificata dal punto di vista psicologico, tra


laspetto esplosivo-momentaneo dellira e delle pulsione ad essa
corrispondenti, e quello incoativo-durativo dellinvidia, con utilizzo
di verbi specifici per lastio invidioso che, in Ovidio come in altre
fonti, richiamano e rimandano ad immagini di vero e proprio afflato
pestilenziale, consunzione, scioglimento interiore, liquefazione. Il
confronto con le fonti utilizzate da Ovidio per la descrizione
dellInvidia, in particolar modo la Fama e lAletto virgiliana, metter
in luce alcuni accostamenti significativi da un lato con la fama e la
gloria poetica, il cui binomio e contrasto con linvidia diverr un

topos letterario molto diffuso a Roma soprattutto per influenza del


modello callimacheo; dallaltro con la pazzia, la follia, la perdita
completa di controllo della realt di cui la furia Aletto incarnazione
precisa e fedele nellEneide. L'analisi di questa specifica sezione
delle Metamorfosi richiede, tuttavia, una preliminare osservazione
del

termine

latino

invidia

dei

suoi

connotati

semantici,

osservazioni che, per poter arrivare quanto meno ad una pretesa di


compiutezza, non possono non prendere in considerazione le
influenze del corrispettivo termine greco phtonos.
Proprio in base a quest'ordine di considerazioni, ho deciso di iniziare
il mio lavoro da una breve ricognizione del pathos in questione
allinterno della Divina Commedia; prima di tutto, infatti, il
capolavoro dantesco si configura come una fonte imprescindibile di
informazioni per chiunque voglia approcciarsi al tema in oggetto, in
quanto essa offre, al proprio interno, una buon insieme di
testimonianze relative ad alcuni degli elementi tipici e ricorrenti
dellastio invidioso, delle sue modalit di manifestazione e delle sue
conseguenze, vista la presenza di personaggi profondamente
segnati, in senso attivo o passivo, da questo sentimento in tutte e
tre le cantiche della Commedia; in secondo luogo, il collegamento
con il testo ovidiano risulta essere immediato in virt della
presenza, nel XIV canto del Purgatorio, della figura di Aglauro come
paradigma ed esempio di invidia punita.
Linflusso di Ovidio sul testo di Dante, noto ed oggetto di studi
approfonditi, non tuttavia limitato, nel caso di specie, alla ripresa
del personaggio tratto dal secondo libro delle Metamorfosi, bens, in
maniera ancor pi indicativa, alla costruzione di uno scenario,
unambientazione, un contesto paesaggistico, quello del girone
purgatoriale

degli

invidiosi,

che

molto

risente,

appunto,

dellepisodio della pietrificazione di Aglauro in Ovidio come, ancor


prima, della descrizione allegorica della casa dellInvidia, anch'essa
presentata

descritta

nel

secondo

libro

delle

Metamorfosi.

Indicativa risulta essere, al contempo, la divergenza di rapporti tra


presentazione dellinvidia e background testuale di riferimento nei
due poemi: mentre, come anticipato, in Ovidio la presentazione
diretta dellinvidia, la sua personificazione, non che lakm di una
sezione comunque gi fortemente contraddistinta da atteggiamenti
e

comportamenti

geloso/invidiosi,

in

Dante

licasticit

della

descrizione degli invidiosi nasce e si nutre soprattutto della


contrapposizione assoluta con la cornice precedente dei superbi.
In Ovidio, infatti, come avremo modo di osservare, il tema del livore
e dell'astio invidioso si collega direttamente a quello della vista;
processo visivo che, nel contesto del secondo libro, si carica di
molteplici valenze e funzioni, tutte comunque degradanti: al vedere
troppo, nella duplice sfumatura del vedere ci che nascosto e ci
che severamente proibito vedere, si collega il non poter vedere,
direttamente provato dallInvidia stessa, e il vedere folle, eccessivo,
malato di Aglauro, una volta infetta dal tarlo invidioso. In Dante
troviamo, invece, direttamente il non vedere assoluto, la negazione
di qualsiasi tipo di visione che ottimamente contrasta, come
anticipato, con il trionfo di luce e lesaltazione sensoriale della vista
nei canti, immediatamente precedenti, dedicati alla cornice dei
superbi.

Mentre,

dunque,

il

procedimento

ovidiano

sostanzialmente strutturato secondo un rapporto di analogia,


vicinanza e parentela tra le storie, per cui l'invidia diviene
potenziamento ed espressione ultima ed estrema dei nodi portanti
delle

stesse,

Dante

opera

principalmente

per

contrasto

contrapposizione, collocando la cornice degli invidiosi subito dopo

quella dei superbi. Accostamento, questo, certamente motivato da


riflessioni ed analisi dottrinarie e filosofico-teologiche che vedevano
una certa affinit tra la figura dei superbi e quella degli invidiosi, ma
anche,

aspetto

considerazioni

questo
di

certamente

ordine

da

squisitamente

non

escludere,

da

stilistico-formale.

In

ambedue i passi, comunque, l'invidia finir col configurarsi come un


sentimento totalizzante, i cui effetti, deleteri e nocivi, verranno
presentati dai due poeti in una molteplicit di ottiche e prospettive:
l'invidia inquiner l'ambiente circostante sia in Dante che in Ovidio,
infetter i colori, avvelener i personaggi o li porter alla rovina per
mano

altrui;

Dante

ed

Ovidio

descriveranno,

inoltre,

le

manifestazioni ed i contorni dell'invidia, evocando un insieme di


immagini e campi semantici relativi alla stessa, ai suoi effetti ed alle
sue manifestazioni sostanzialmente simili ed omogenei tra loro. La
rete di rapporti intertestuali tra il secondo libro delle Metamorfosi e
il XVII canto del Purgatorio dunque cos fitta ed intricata da non
poter, io credo, essere trascurata. Ma l'invidia, nella Divina
Commedia, non viene semplicemente descritta nei suoi caratteri
empirici e fenomenici: viene anche connotata in senso morale e
dottrinale, con la ripresa di distinzioni semantiche che delineano un
influenza da San Tommaso, il quale, a sua volta, si richiama, nella
Summa Teologica, alla testimonianza della Retorica aristotelica,
testo fondamentale per lo studio dell'invidia nel mondo antico, in
virt della definizione stessa di invidia che in essa viene fornita,
definizione che

soprattutto in base alla struttura catalogante-

classificatoria dell'opera, permette distinzioni sottili, ma certamente


efficaci con altre passioni e sentimenti, ad essa in qualche modo
affini,

in

virt

della

loro

natura

comune

di

sentimenti

di

antagonismo e di rivalit (rivalrous emotions). Presenteremo

dunque i principali protagonisti della nostra ricerca, l'Invidia ed


Aglauro, proprio a partire dalla descrizione dantesca.
Il girone degli invidiosi
Nel XIII canto del purgatorio Dante e Virgilio raggiungono la seconda
cornice del monte che li condurrr al paradiso celeste: quella
occupata dagli invidiosi.
I primi versi del canto sono interamente dedicati alla descrizione e
rappresentazione degli elementi fisici, concreti e materiali del luogo
appena raggiunto; questi elementi si caricano di una duplice
valenza:

una,

immediata,

di

ekphrasis

paesaggistica,

laltra,

simbolica, di anticipazione e, al contempo, proiezione sullambiente


circostante di alcune delle principali caratteristiche e peculiarit che
vedremo contraddistinguere gli invidiosi, cos come presentati da
Dante nel proseguio della descrizione. Vediamo, dunque, quali sono
gli

aspetti

che

sembrano

delineare

maggiormente

il

nuovo

paesaggio dantesco, partendo, come detto, proprio dai primissimi


versi del canto.
Il passaggio dal primo al secondo girone del purgatorio avviene
come per incanto2. Gli ultimi versi del canto precedente erano,
stati, infatti, incentrati su pensieri gravi e soavi 3, ed, in particolar
modo,

sulla

constatazione

delle

diversit

delle

entrate

tra

Purgatorio ed Inferno4, nonch sul turbamento derivante, in Dante,


2Carmelo Musumarra, LECTURA DANTIS SCALIGERA: PURGATORIO, Le Monnier,
Firenze 1967, p. 441.
3 Musumarra, Ibidem, p. 441.
4Dante, Purgatorio XII, vv. 112-114: Ahi quanto son diverse quelle foci/
dallinfernali! ch quivi per canti/sentra, e la gi per lamenti feroci.

dallacquisto di una maggiore levit dopo la misteriosa scomparsa


della prima P dalla sua fronte5.
Nel XIII canto, approdato ad una nuova cornice Dante si perita,
prima di ogni cosa, di descrivere la natura fisica, concreta,
materiale del nuovo girone:
Noi eravamo al sommo de la scala,
dove secondariamente si risega
lo monte che salendo altrui dismala.
Ivi cos una cornice lega
dintorno il poggio, come la primaia;
se non che larco suo pi tosto piega.
Ombra non l n segno che si paia:
parsi la ripa e parsi la via schietta
col livido color de la petraia6.
Due sono gli aspetti messi subito in evidenza dal poeta: prima di
tutto viene sottolineata la minore ampiezza della nuova cornice
rispetto a quella precedente
(vv.

4-6),

in

caratteristico

seguito
del

viene

nuovo

presentato

ambiente:

la

lelemento

solitudine

tipico

determinata

dallassenza di anime (Ombra non l ), nonch la mancanza


assoluta di segni scultorei (n segno che si paia). La sensazione
immediata, dunque, quella di un vuoto totale, assoluto, di
unaridit generale: Tutto uniforme nella nuova cornice: nessuno
appare a mostrare loro la via; non vi traccia di carit n di
5Dante, Purgatorio XII, vv. 118-120: Ondio: << Maestro, di, qual cosa greve/
levata s da me, che nulla quasi/ per me fatica, andando si riceve?>>
6Dante, Purgatorio XIII vv. 1-9.

bellezza, che suole allietare le altre balze 7. In un unico verso, il


settimo endecasillabo, il poeta marca nettamente la differenza
rispetto alla cornice precedente, occupata dai superbi, descritta nei
canti X, XI, XII. In questultima, infatti, la parete della roccia, di
marmo bianco, era lavorata in bassorilievi che rappresentavano
esempi di umilt esaltata8; Al contempo, sul suolo della stessa
erano effigiati esempi di superbia punita che i penitenti, chini sotto
il peso dei macigni, erano di fatto costretti a guardare per poterne
trarre pentimento e rimorso. Da una parte, dunque, troviamo
ricchezza di rappresentazioni, immagini, bassorilievi, esempi di arte
figurata; dallaltra, invece, un paesaggio che suscita una profonda
sensazione di solitudine, un pianoro squallido, privo di anime e
rilievi,

livido,

del

colore

della

pietra.

Questa

marcata

differenziazione paesaggistica comporta, a livello testuale, una


altrettanto evidente distinzione di costrutti stilistici.
In Purgatorio XII il verso incipitario di ciascuna terzina compresa tra
il verso 24 e il verso 36 inizia, anaforicamente, con la terza persona
singolare del verbo vedere:
Vedea colui che fu nobil creato
pi chaltra creatura, gi dal cielo
folgoreggiando scender, da lun lato.
Vedea Briareo fitto dal telo
celestial giacer, da laltra parte,
grave a la terra, per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
7Emilio Santini in G.Getto (a cura di), Letture dantesche, II volume/Purgatorio,
Sansoni, Firenze 1966, p. 924.
8Dante, Purgatorio X, vv. 28-33: L su non eran mossi i pi nostri anco,/
quandio conobbi quella ripa intorno/ che dritto di salita aveva manco,/ esser di
marmo candido e adorno

armati ancora, intorno al padre loro,


mirar le membra di Giganti sparte.
Vedea Nembrt a pi del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
chn Sennar con lui superbi fuoro9.
Come si pu notare, ciascuna terzina presenta un esempio di
superbia punita, il quale esempio viene al lettore presentato
attraverso

lintermediazione

dellosservazione

autoptica

dellAlighieri. In due esempi di superbia punita la vista si carica di


una complessit maggiore: nella rappresentazione della tracotanza
dei giganti che si avventarono contro Giove per spodestarlo, Dante
sottolinea soprattutto il comportamento dei vincitori, Apollo, Atena
e Marte, che, ancora in armi a difesa del padre Giove, vengono colti
nellatto di osservare le membra dei giganti sparse per il campo di
battaglia. Similmente avviene a riguardo di Nembrot, effigiato
intento ad osservare fissamente coloro che, suoi compagni,
insuperbirono nella piana di Sennar.
Si viene dunque a creare, in questi due casi, una sorta di gioco
visivo, per cui il poeta concentra la sua visione su determinate
immagini che, a loro volta. osservano altre figure. A partire dal
verso immediamente successivo, il 37, abbiamo al contempo una
variazione ed una continuit. Il poeta continua infatti a descrivere
gli exempla di superbia punita, ma questa volta ad essere posto in
posizione incipitaria ed anaforica in tutte le terzine sino al verso 48
non pi il vedea precedente, bens la interiezione esclamativa OO Niob, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
9 Dante, Purgatorio XII, vv. 24-36.

tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!


O Sal, come in su la propria spada
quivi parevi morto in Gelbo,
che poi non sent pioggia n rugiada!
O folle Aragne, s vedea io te
gi mezza ragna, trista in su li stracci
de lopera che mal per te si f.
O Robom, gi non par che minacci
quivi l tuo segno; ma pien di spavento
nel porta un carro, sanza chaltri il cacci 10.
La variazione anaforica permette, a mio modo di vedere, di
realizzare una sorta di accrescimento della tensione patetica,
giacch Dante sostituisce, allinizio di ogni terzina, lindicazione
immediata dellatto visivo con la presentazione diretta delloggetto
della visione stessa (enfaticamente anticipato dallO).
In ciacuna terzina, per, rimane forte la presenza della sfera
tematica del vedere:
Vedea al verso 38; parevi al verso 41; ancore vedea al verso 43; par
al verso 46.
la prima terzina di questo secondo gruppo di versi, inoltre, riprende
il medesimo gioco visivo che si era notato in due delle terzine
precedenti: anche in questo caso il campo semantico relativo alla
vista riguarda sia il poeta, che osserva limmagina scolpita in
bassorilievo, sia loggetto della visione di Dante, Niobe che a sua
volta viena colta, nel processo ecfrastico, intenta nellatto di
osservare . Persino limmagine dei 14 figli di Niobe ormai morti
richiama, sebbene per contrasto, la sfera visiva. Il participio passato
10 Dante, Purgatorio XII, vv. 37-48.

spenti, che certamente pi intensivo e poetico rispetto a quanto


non avrebbe potuto essere il ben pi semplice morti, in fondo non fa
che presentare la morte nella prospettiva della vista, enfatizzando e
rimarcando, allinterno di un fenomeno olistico che concerne ogni
facolt e percezione umana, limmagine dello

spegnersi della luce

11

della vista nei figli, oggetti, a loro volta, della visione degli occhi
dolenti della madre.
Dal verso 49 ancora quattro terzine con anafora incipitaria nel
primo endecasillabo di ciascuna terzina, ed ancora sottolineatura
dellimportanza della vista, con il verbo Mostrava in anafora.
Mostrava ancor lo duro pavimento
come Almeon a sua madre f caro
parer lo sventurato addornamento.
Mostrava come i figli si gittaro
sovra Sennacherib dentro dal tempio,
e come, morto lui, quivi il lasciaro.
Mostrava la ruina e l crudo scempio
che f Tamiri, quando disse a Ciro:
<<Sangue sitisti, e io di sangue tempio>>.
Mostrava come in rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
e anche le reliquie del martiro.
Questra struttura compositiva certamente legata, come notato da
critici e commentatori, ad un gioco di tipo acrostico:
le quattro terzine comincianti con vedea, assieme a quelle con o e
mostrava danno infatti vita allacrostico VOM, cio uomo, volendo
11 Dante, Purgatorio XII, vv. 49-60.

con ci significare lacrostico che, tra tutti i vizi, la superbia quello


che pi caratterizza negativamente lessere umano.
Indiscutibile, tuttavia, permane limportanza del fattore visivo
nellintelaiatura complessiva degli exempla di superbia punita. La
variazione anaforica, infatti, permette anche al poeta di presentare
gli esempi stessi di superbia punita sub triplice specie: dapprima
attraverso lintermediazione degli occhi di Dante, poi, per il tramite
dellinvocazione, in presa diretta; infine, con mostrava, abbiamo il
riferimento al materiale, il rilievo sul duro pavimento, nel quale
sono effigiate le immagini. In questo modo, dunque, la visione delle
immagini da parte di Dante viene, di fatto, scomposta nei suoi tre
elementi costitutivi: se il poeta (soggetto della visione) osserva su
dei rilievi (materiale) delle immagini (oggetto della visione), questi
tre elementi, nella realt, non possono che agire sinergicamente e
sincronicamente, mentre, nel testo, vengono presentati uno dopo
laltro, quasi come fossero indipendenti luno dallaltro. La sfera
sensoriale della vista, insomma, viene, in questo canto, colta,
studiata ed analizzata dal poeta in tutte le sue componenti, in tutte
le sue sfumature e sfaccettature, sotto tutti, potremmo dire,

possibili punti di vista.


Lindicazione della sfera visiva continua anche nei versi successivi,
dove troviamo Vedeva al verso 6112, Mostrava al verso 6313, due
volte il verbo vide in un unico verso, il 6814, per concludere, infine, al
verso 72, con l'imperativo veggiate15.
12 Dante, Purgatorio XII, v. 61: Vedeva Troia in cenere e in caverne;
13 Dante, Purgatorio XII, v. 63: Mostrava il segno che l si discerne!
14 Dante, Purgatorio XII, v. 68: non vide mei di me chi vide il vero.
15 Dante, Purgatorio XII, v. 72: s che veggiate il vostro mal sentero!

Attenendoci

considerazioni

di

tipo

meramente

numerico-

statistico, su 72 versi complessivi dedicati alla descrizione della


cornice, troviamo 23 termini, tra verbi e sostantivi, attinenti alla
sfera tematica della vista, degli occhi, del vedere. Queste analisi,
assieme alle riflessioni sopra esposte, permettono, da un lato, di
definire il vedere e la vista come le key words dellintero canto
mentre, dallaltro, non fanno che sottolineare con maggiore forza il
contrasto rispetto a quello che avverr nella cerchia degli invidiosi.
Il lettore, infatti, appena uscito, assieme a Dante, da una cornice
straordinariamente ricca di immagini ed effigi, ambedue ancora
assorti (si pu immaginare) nella contemplazione estatica delle
stesse, non pu che avvertire

con forza il brusco scarto nella

descrizione paesaggistica ed ambientale della seconda cornice,


introdotta nel tredicesimo canto sin dai primissimi versi: Ombra non
li n segno che si paia (v.7): ombre e segni che avevano popolato
i precedenti canti dei superbi persistono nella memoria di un
passato imminente di cui si deduce da un lato l'inutilit, dall'altro
l'assenza frustante
Quanto di qua per un migliaio si conta,
tanto di l eravam noi gi iti,
con poco tempo, per la voglia pronta;
e verso noi volar furon sentiti,
non per visti, spiriti parlando
a la mensa damor cortesi inviti16
In

quel

furon

sentiti,

non

per

visti

il

lettore

percepisce

immediamente di trovarsi di fronte ad una nuova atmosfera, un


16Dante, Purgatorio XIII, vv. 22-27.

nuovo

ambiente,

una

nuova

realt.

Il

verbo

parlando

semanticamente indicativo della nuova situazione in cui si collocano


le anime di questa cornice: il fatto dominante non pi la vista, ma
ludito, le parole, le note musicali, i suoni che si aggirano per laria
non con continuit ma come improvvisi lampi sonori accompagnati
da tonalit dolci e garbate.
In questa nuova cornice a svolgere il medesimo compito delle
sculture della cornice precedente sono ora <<spiriti vocali>>,
<<voci>>che misteriosamente si aggirano per laria le quali,
attraverso gli esempi pronunciati ad alta voce che percorrono laria,
inducono allamore, alla carit, al recupero dei valori antitetici
allinvidia. Dante non pi vede ma ode, come indicano chiaramente
sia ludisse del verso 3117 che ludirai del verso 4118.
Al verso 43 ritorna lindicazione della sfera visiva: eppure, in un
modo per certi versi paradossale, proprio la ripresa di questo campo
semantico non fa che sottolineare, nel canto, la tensione cui viene
sottoposta lazione stessa del vedere, la quale, infatti, viene
espressa non dal semplice verbo vedere, n dai sinonimi osservare,
mirare o rimirare, bens dallespressione ficcare gli occhi; indicativo,
in questo contesto, anche l'epistrofe di Virgilio al sole, la quale, se
da un punto di vista tematico si giustifica con la necessit, per il
pellegrino fiorentino e per la sua guida, di desumere dalla traiettoria
salvifica dei raggi del sole la strada illuminante della Grazia che
bisogna perseguire, permette, anche, sotto la prospettiva stilisticoretorica, un simbolico contrasto con un ambiente in cui proprio la
vista ad essere oggetto di violenza. L'immagine di Virgilio che
fisamente al sole li occhi porse (v. 13) contrasta dunque sia con
17Dante, Purgatorio XIII, v. 31: E prima che del tutto non si udisse
18Dante, Purgatorio XIII, v. 41: credo che ludirai, per mio avviso,

l'immagine del ficcare degli occhi del poeta nel tentativo di scorgere
le anime dei penitenti purgatoriali della cornice (v. 43), sia con il
campo semantico generale del nuovo canto, concentrato sull'udito
inteso, in quest'ottica, anche come unico strumento effettivo per
gli ammonimenti morali del cerchio, in sostituzione dell'atto visivo.
La vista, dunque, non solo ha assunto nel nuovo contesto di
riferimento

unimportanza secondaria rispetto a quella proposta

dalludito, ma anche laddove essa si trovi ad essere indicata e


presentata, assume toni straziati, tesi, sofferenti, perfettamente
consoni alla natura e alla pi intima essenza dellinvidia.
Cambiano le modalit della azione visiva perch a mutare, in primo
luogo, sono gli oggetti della vista stessa: mentre, infatti, nella
cornice dei superbi Dante e Virgilio osservano intagli in marmo
candido e addorno, in quella degli invidiosi devono cercare di
scorgere

notare,

distinguendoli

dallambiente

circostante

omocromo, ombre con manti al color de la pietra non diversi 19.


Nella cerchia degli invidiosi, inoltre, la vista non causa di
sofferenza e tensione esclusivamente nellatto stesso della sua
realizzazione, nel suo compiersi difficoltoso, ma diviene anche
tramite di osservazioni dolorose20, immagini sofferenti di visioni
sofferte.
i nuovi penitenti, infatti, si presentano al poeta coperti di vil cilicio,
gli occhi cuciti con fil di ferro, il loro comportamento ed
atteggiamento era identico, dice Dante, a quello che assumono i
ciechi ai quali manca la roba, il necessario per vivere, quando
stanno davanti alle chiese, nei giorni in cui si concedono
19Dante, Purgatorio XIII, vv. 47-48: guardami innanzi, e vidiombre con manti/
al color de la pietra non diversi.
20Dante, Purgatorio XIII, v. 57: per li occhi fui di grave dolor munto.

indulgenze, per poter chiedere lelemosina. L'accostamento con le


figure dei ciechi implica una, effettiva, identit assoluta di
condizione: agli invidiosi, infatti, esattamente come ai ciechi, luce
del ciel a s largir non vole;

tuttavia, l'aspetto sul quale

maggiormente si concentra l'attenzione e l'analisi del poeta non


determinato tanto dalla condizione di cecit assoluta degli invidiosi,
quanto dalle cause che rendono possibili tale condizione; ci che
provoca la sofferenza del poeta non infatti la visione della cecit
dei penitenti, ma i loro occhi cuciti dal fil di ferro. L'elemento chiave
del tormento degli invidiosi dunque la sofferenza visiva prima
ancora della mancanza della vista stessa, giacch quest'ultima
diretta conseguenza della prima.
Anche nella descrizione della condizione dei ciechi mendichi il poeta
enfatizza la piet e la commiserazione destata negli uomini alla
vista delle loro sofferenze21.
Con lindicazione della terribile condizione di cecit cui sono
sottoposti gli invidiosi si raggiunge lacm della degradazione del
processo visivo realizzata dal poeta nel passaggio dal canto XII al
canto XIII. Nei primi 60 versi del XIII canto la vista passa da
elemento

decisivo

determinante,

tramite

di

immagini

qualitativamente equvalenti alla realt, come era stata nella cornice


dei superbi, a condizione sofferente e straziata, fino a giungere, in
una sorte di climax discendente culminate nel verso 61, alla
esplicita menzione della cecit, negazione assoluta della vista.
Il poeta, nel passare accanto ai penitenti, sottolinea una condizione
di disagio psicologico che gli giungeva dal sentirsi un privilegiato, in
quanto dotato di vista, in un mondo di gente spoglia di tale bene.
21Dante, Purgatorio XII, vv. 64-66: perch n altrui piet tosto si pogna,/ non
pur per lo sonare de le parole,/ ma per la vista che meno agogna.

Questo contrasto viene espresso chiaramente nei versi 73-74:


A me pareva, andando, fare oltraggio,
veggendo altrui, non essendo veduto;
Il verso 74 pu essere accostato al verso 68 del XII canto, nel quale
Dante, a rimarcare leccezionalit qualitativa dei rilievi incisi,
sottolinea che:
non vide mei di me chi vide il vero,
In ambedue i casi troviamo un confronto, sviluppato nel giro di un
unico verso, tra la condizione del poeta e quella di altri individui
(determinati nel primo caso, indeterminati nel secondo), ed in
ambedue le circostanze lelemento di comparazione determinato
dal grado di sviluppo delle facolt visive.
Tuttavia, mentre nel canto XII il verso in oggetto comincia con la
negazione non vide (riferita allosservatore diretto) per arrivare ad
indicare che, in realt, il poeta vedeva delle immagini superiori alla
consueta qualit artistica, e dunque la sua vista risultava sublimata,
in quanto scorgeva direttamente, in immagini nientaffatto diverse
dalla natura, la realt effigiata nelle immagini stesse, nel secondo
caso il confronto si apre con lindicazione positiva determinata dal
participio veggendo, riferito questa volta, in una sorta di chiasmo
rispetto al verso 68 del canto XII, a Dante stesso, mentre quello che
si vuole veramente sottolineare, lelemento chiave del confronto,
la condizione dei penitenti, che non vedono. Nel canto XII, il canto
della vista, il confronto , insomma, tra chi vede naturalmente e chi,
pur

osservando

rappresentazioni

artistiche,

di

fatto

viene

equiparato al primo, in quanto la rappresentazione risultava essere


per nulla inferiore alla realt; nel XIII, invece, il confronto non pi
incentrato sulle qualit e sui gradi di intensit di un bene comunque
posseduta da ambedue i membri di riferimento del paragone, ma si
svolge, in maniera decisamente pi netta e radicale, tra chi
possiede e chi (l'invidioso) non possiede quella determinata facolt.

La presentazione degli invidiosi


Dagli

elementi

sopra

osservati

emergono

alcune

delle

caratteristiche peculiari degli invidiosi danteschi. I tratti pi


significativi della descrizione di tale categoria di penitenti possono
essere agevolmente suddivisi in due categorie:
una

paesaggistico-coloristica

comprendente

la

descrizione

dellambiente nudo, scabro, essenziale nonch lindicazione del


livido colore della pietra e delle anime ricoperte di manti al color de
la pietra non diversi; la seconda invece costituita dalle indicazioni
sulla sofferenza visiva ed i tormenti cui sono sottoposti gli invidiosi.
Il contrappasso , in questo caso, chiaro:gli occhi degli invidiosi,
infatti, operarono in vita solo in modi maligni, ribaltarono la retta
visione delle cose; linvidia, per Dante, una forma di cecit
morale, una privazione della luce.22. Poich, nel corso della loro vita,
questi penitenti hanno guardato di sbieco e di traverso i beni altrui,
adesso vengono privati di tale bene, ed i loro occhi sono cuciti con
un fil di ferro, coperti di cilicio, di panno setoloso, ruvido e
22Cfr. Getto, Loc. cit. , p. 444: << Linvidia un peccato che viene da vilt,
cio bassezza morale, e per questo gliinvidiosi sono vilmente vestiti, e hanno
gli occhi cuciti con un fil di ferro perch proprio attraverso gli occhi, mal
sopportando la vista dei beni altrui, essi fecero penetrare il peccato nel loro
cuore.>>

pungente, livido come il loro peccato.


Significative indicazioni sulla natura simbolica ed allegorica della
cornice degli invidiosi vengono offerte dal commento al Purgatorio
di Benvenuto da Imola: quia illa strata erat facta ex lapide livido. Et
hic nota quod sub ista artificiosa fictione autor dat subtiliter
intellegi, quod vitium superbiae est manifestissimum, et reddit se
notissimum per multa signa; vitium vero invidiae est occultissimum,
sed manifestatur aliquando in colore livido: sicut apparet de facto
quod unus vel audiens felicitatem, gloriam vel honorem alterius
variat colorem, et respargitur livore....
Si pu dire dunque che natura e penitenti vivano in perfetta
simbiosi, amalgamandosi in un insieme dove risulta difficile
distinguere luna dagli altri.23, accomunati come sono dal colore
livido, che pertiene ad entrambi.
La figura pi significativa dellintera cornice degli invidiosi
certamente quella

rappresentata da Sapia senese: limmagine di

invidioso rappresentata da Sapia quella di un individuo che gode


della sofferenza altrui, in questo caso dei suoi stessi concittadini. La
sua invidia la guida a sperare il peggio, una disgrazia per la sua
stessa citt: con la sua storia Dante introduce linvidioso colto
nellattimo

del

godimento,

connesso,

inesorabilmente,

in

un

rapporto di proporzionalit inversa con le vicende degli invidiati.


Indicativa, nella narrazione di Sapia, la ripresa della potenza della
vista, fonte allora di godimento e gioia, ora, invece. di tormento e
sofferenza:

23 Cfr. Musumarra, loc. cit., p.445: << i manti degli invidiosi, al color de la
pietra non diversi, contribuiranno a mantenere questa tonalit ambientale che,
mossa da unintenzione allegorica- la rispondenza tra peccato e luogo della
pena- si tradotta in una spirituale e poetica atmosfera di paesaggio>>.

Eran li cittadini miei presso a Colle


in campo giunti co loro avversari,
e io pregava Dio di quel che volle.
Rotti fur quivi e vlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia
letizia presi a tutte le altre dispari24
Cos commenta il passo il critico Zenatti: << Vivace, drammatica, la
scena della battaglia, che si svolge nel piano di SantAntonio dinanzi
agli occhi di lei. Ritta alla finestra del suo castello, quei suoi occhi
invidiosi ella affisa nelle schiere dei combattenti, pregando Iddio
della sconfitta dei suoi Senesi, della sconfitta dellodiato nipote, e di
lor strage. Ecco gli avversari sono in campo, di fronte, e
sattaccano; ecco rotti i Senesi; eccoli in fuga (...) e sorge Sapia
pazza di gioia feroce, e sprezza ormai anche Dio 25>>. Anche nella
descrizione del comportamento di Sapia, dunque, ad essere
enfatizzata la componente visiva, la vista ossessiva incentrata e
concentrata sulloggetto invidiato.
Limmagine degli invidiosi nella Divina Commedia, tuttavia, non si
limita al solo XIII canto del purgatorio:la loro presenza, al contrario,
risulta essere costante allinterno del poema, a partire dal primo
canto dellInferno, laddove, nell'episodio della profezia del feltro,
Dante auspica la cacciata della lupa (simbolo della avarizia) nello
stesso inferno da cui la prima invidia dipartilla linvidia introdotta in
questo contesto quella di Lucifero, invidioso, appunto, sia della
felicit e della superiorit di Dio, sia dellumanit fedele al signore.
Dante, per esperienza personale, conosceva bene anche i risvolti
24 Dante, Purgatorio XIII, vv. 115-120.
25A. Zenatti, Il canto XIII del Purgatorio, Sansoni, Firenze 1933, p. 22.

sociali dell'invidia ed era perfettamente consapevole di quanto


l'astio, il rancore, i risentimenti personali potessero macchiare ed
inquinare il tessuto sociale comunale, compreso, naturalmente,
quello della sua Firenze. In quest'ottica si colloca il discorso di
Ciacco nel sesto canto dell'Inferno, laddove, a proposito dei
fiorentini, viene riferito che:
superbia, invidia ed avarizia
le tre faville che hanno i cuori accesi.
mentre, in precedenza, riferendosi direttamente alla citt di Firenze,
Ciacco dice a Dante che:
(...) la tua citt, ch piena
dinvidia s che gi trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Unaltra celebre presenza dell' Invidia nellinferno dantesco quella
ravvisabile nel XIII canto, dedicato alla descrizione del girone dei
suicidi. Lo scenario del girone infernale , in un certo qual modo,
simile a quello degli invidiosi: esso, infatti, costituito da un fitto
boschi di pruni foschi e selvaggi, nel quale risuonano lamenti, senza
per che venga scorta persona alcuna: anche in questa occasione,
dunque, assistiamo ad un depauperamento della funzione visiva. In
Purgatorio XIII la luce oscurata dalle rocce livide, qui, invece, da
secchi e grossi alberi che fanno avanzare nell'ombra i due
viaggiatori. L'invidia viene introdotta a riguardo di uno dei
personaggi pi conosciuti e studiati dell'intera Commedia: Per Della
Vigna. Pier della Vigna, segretario alla corte di Federico II, cadde

vittima delle accuse calunniose dei cortigiani, originate dallastio


per la posizione preminente che il giurista capuano era riuscito ad
ottenere alla corte di Sicilia:
Io son colui che tenni ambo ..le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi
serrando e disserando, s soavi,
che dal segreto suo quasi ognuom tolsi;
al che :
La meretrice che mai da lospizio
di Cesare non torse gli occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiamm contra me li animi tutti
L'esito della vicenda sar, come ben noto, terribile e drammatico. Il
principe prester fede alle calunnie presentate dai cortigiani e
ripudier il segretario, facendolo arrestare, accecare e tradurre in
carcere. Non sopportando un cos gran disonore, Pier Della Vigna si
suicid. La sua storia testimonia dunque, in maniera emblematica,
la forza che pu possedere un sentimento malevolo come quello
dell'invidia, nonch le conseguenze devastanti che esso pu
comportare ed arrecare anche a persone che siano riuscite, con il
loro operato a raggiungere posizioni di prestigio e potere.
Un richiamo all'invidia ricorre anche nel XV canto dell'inferno,
laddove Brunetto Latini, scagliando uninvettiva contro i concittadini
di Dante, arriver ad imputare loro gli stessi peccati di superbia,
avarizia ed invidia gi presentati da Ciacco, seppur in ordine
inverso:

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi


gent avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
Meritevole di menzione anche la storia di Romeo di Villanova,
presentata nel
Vi canto del Paradiso.
Personaggio storico, nato attorno al 1170, fu ministro e gran
siniscalco dellultimo conte di provenza Raimondo Beringhieri IV, al
quale non solo riusc a recuperare la citt di Nizza, ma, soprattutto,
assicur matrimoni alle sue quattro figlie.
Il virtuoso prodigarsi di Romeo fin per essere malvisto dagli altri
nobili, e gli procur ingratitudine e miseria; in questo caso la sfera
d'azione dell'invidia si sposta dal campo visivo, che abbiamo visto
essere ancora operante nella storia di Pier Della Vigna, a quello
verbale,

con

l'esplicito

riferimento

alle

parole

ingiuriose

calunniose che comportarono la caduta in disgrazia del principe.


E poi il mosser le parole biece
a dimandar ragione a questo giusto,
che li assegn sette e cinque per diece,
indi partissi povero e vetusto;
Il quadro generale della presentazione dell'invidia dantesca , come
si pu desumere dalle varie testimonianze riportate, variegato e
poliedrico, pur nella presenza di importanti elementi di continuit
tra le varie vicende. l'invidia si presenta come un sentimento
sostanzialmente onnipresente, attestato in fonti bibliche (Lucifero e,

come vedremo, Caino sono due exempla biblici ripresi da Dante a


proposito degli invidiosi), ma anche classico-pagane (Aglauro);
sentimento individualmente sperimentato (Sapia e il suo godimento
personale alla disfatti dei compagni senesi), ma anche dalle
significative ripercussioni sociali, sia in ambito comunale e cittadino
(Firenze), sia in quello cortigiano signorile (Pier Della Vigna e
Raimondo). L'aspetto che, tuttavia, merita, in questo contesto, di
essere maggiormente sottolineato relativo a quella fortissima
componente di sofferenza, dolore e tormento che accompagna e si
lega fortemente al sentimento dell'invidia, indipendentemente dal
fatto che essa sia un sentimento personalmente sperimentato
(vedasi la punizione per analogia degli invidiosi, che soffrono, nel
purgatorio come gi in vita, per una condizione visiva distorta), sia
che, al contrario, Dante focalizzi l'attenzione su chi non prova ma
subisce gli effetti dell'invidia, dove l'azione lesiva e deleteria, in
questa circostanza, naturalmente svolta dal corredo di accuse e
di maldicenze ad essa strettamente connesse..
Ma nella Divina Commedia troviamo, oltre alle varie figure di
invidiosi

appena

introdotte,

anche

la

descrizione

dellorigine

dellinvidia stessa, originata, dice il poeta, da un disordine damore.


Esattamente a met del Purgatorio, in posizione di grande evidenza,
Dante inserisce la trattazione sulla natura dellamore, da cui deriva
la

suddivisione

dei

vizi

nelle

varie

cornici.

Il

presupposto

fondamentale per la classificazione dei vizi nel purgatorio dato


dalla constatazione della presenza dellamore in ogni creatura;
questo amore risulta essere di duplice natura: lamore naturale,
sempre senza errore, e quello di elezione, che pu errare in duplice
senso: volgendosi verso fini malvagi, oppure indirizzandosi al bene
con troppa o troppo poca intensit. Ora, a proposito del male che si

volge verso fini sbagliati e malvagi, Dante sottolinea come ogni


creatura non possa odiare se stessa n lEssere primo, cio Dio. Ne
consegue, dunque, che lunica forma di odio, lunico male che si
pu effettivamente e concretamente desiderare quello contro il
prossimo.
Da questa tipologia di odio nascono negli essere umani la superbia,
linvidia, lavarizia: Il superbo:
E chi, per esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
chel sia di sua grandezza in basso messo;
linvidioso viene presentato con questo parole:
chi podere, grazia, onore e fama
teme di perder perchaltri sormonti,
onde sattrista s che il contrario ama;
. Dellirato, infine, vien detto che:
ed chi per ingiuria par chaonti,
s che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che l male altrui impronti.
La definizione dellinvidia e quella della superbia sono state
giudicate da alcuni critici eccessivamente somiglianti; in particolar
modo il Porena sostiene che:
<< Dante aveva bisogno di far rientrare la superbia nella categoria
dellaltrui male, e ne ha fatto un quissimile allinvidia, discernendola

in quella distinzione sottile che il superbo vuole deprimere gli altri,


linvidioso vuole abbassare a s gli altri, per non rimanere pi
basso, mentre la differenza dei due peccati tanto profonda, che
spesso la superbia non invidiosa, e quasi sempre linvidioso non
superbo>>. In realt Dante segue, in questa presentazione dei vizi,
il pensiero di S. Tommaso, nella cui Summa theologica si trova che :
<<Augustinus dicit in libro De Virginitate quod superbia invidiam
parit, nec umquam est sine tale comite>>. Il superbo, insomma,
pu anche essere invidioso, come dimostra emblematicamente
lesempio di Lucifero, la cui insubordinazione a Dio fu dettata sia da
superbia, ritenendosi superiore a questi, sia da invidia, laddove chi
si reputa superiore si trova, di fatto, in una condizione di inferiorit
rispetto a qualcunaltro, creduto inferiore. Cos Lucifero viene
assunto da Dante come primo esempio di superbia punita nel XII
canto del Purgatorio, in Paradiso XXIX viene ricordato il maladetto/
superbir di colui che tu vedesti/ da tutti i pesi del mondo costretto,
mentre in Paradiso IX del principe delle tenebre viene citata
linvidia, non la superbia. Laspetto che, tuttavia, maggiormente mi
preme mettere in risalto in questa definizione dantesca dellinvidia
la caratterizzazione della stessa come sofferenza (sattrista)
provata alla vista dei beni altrui: il superbo, infatti, spera di poter
acquisire una posizione di prestigio, ed unicamente per tal fine
(sol per questo) che non esita a sminuire o a vedere sminuiti gli
altri; linvidioso, invece, teme di perdere lonore e la fama che gi
possiede e, per questo, ama la sofferenza altrui. Mentre, insomma,
la superbia, nella definizione dantesca, nasce da una speranza,
linvidia ha origine dal timore e si configura essenzialmente come
tristezza (sattrista). La definizione di Dante si ricollega a quella
della Summa Theologia di San Tommaso, il quale defin linvidia

come una vera e propria tristitia de bono alterius, tristezza


derivante

dall'altrui

bene.

Il

passo

di

San

Tommaso

particolarmente importante ai fini della nostra indagine per lo


spessore

filosofico-morale-dottrinario

che

contraddistingue

la

Summa. Il problema dell'invidia era stato, naturalmente, osservato


ed analizzato in ambiente cristiano molto prima delle osservazioni
di Tommaso; del resto, il testo sacro offriva e presentava un buon
materiale di analisi e ricerca, con i suoi numerosi esempi di astio e
livore malevolo: la gi menzionata vicenda di Lucifero, la storia di
Caino ed Abele, la reciproca rivalit tra Giacobbe ed Esa; il
rapporto conflittuale tra Saul e Davide; i fratelli di Giuseppe che
vendono come schiavo il fratello, ed ancora, nel Nuovo Testamento,
la consegna stessa di Ges ad opera dei sommi sacerdoti,
determinata da astio e risentimento; l'episodio del figliol prodigo,
laddove il figlio maggiore, invidioso delle attenzioni paterne nei
confronti del figlio minore dissoluto, rivendica con forza i propri
diritti; la celebre immagine delle carit non invidiosa di San Paolo
nelle Lettere ai Corinzi.
Un ventaglio cos ampio ed esteso di exempla biblici spinse i grandi
Padri della chiesa a riflettere e studiare in maniera approfondita il
fenomeno dell'invidia: si inseriscono in questo contesto l'omelia di
Basilio di Cesarea, poi tradotta in latino da Rufino, ed il trattato de
zelo

et

livore

di

Cipriano.

Queste

opere

si

pongono

fondamentalmente come guide spirituali per le comunit di fedeli;


esse sono, infatti, intessute di continui riferimenti agli episodi biblici
appena citati, appelli accorati ai fedeli affinch questi non cadano
nella tentazione di un peccato considerato il pi grande male che
possa capitare all'anima umana, esaltazione della concordia e
della solidariet fraterna come contraltare all'egoismo e alla

malevolenza

invidiosa:

ritorneremo

su

questi

testi

quando

analizzeremo il lessico della sintomatologia invidiosa, visto che essi


offrono, in tal senso, indicazioni importanti in virt di un utilizzo
continuo di termini semanticamente indicativi. Quello che invece
manca

in

questi

testi,

proprio

in

virt

della

loro

funzione

principalmente educante-ammonitoria, , nonostante un elevato


numero di descrizioni delle varie manifestazioni fenomeniche
dell'invidia e dell'invidioso, una riflessione sul significato proprio
dell'invidia,

sulla

sua

essenza,

sui

suoi

elementi

costituivi.

Riflessione ed analisi che, invece, non potevano non essere presenti


in un'opera, come la Summa, che, invece, proprio si proponeva uno
studio razionale e dottrinario-filosofico sui grandi temi della
religiosit cristiana. San Tommaso, nello specifico, discute il tema
dell'invidia nella Quaestio XXXVI.
La Quaestio, suddivisa in quattro articoli, fornisce non solo una
definizione dell'invidia, ma anche una importante distinzione
semantica tra l'invidia stessa ed altre passioni ad essa in qualche
modo accostabili ed avvicinabili, mantenendo, tuttavia, importanti
elementi di differenza e contrasto, prontamente rilevati dal filosofoteologo.
Nel primo articolo (Utrum invidia sit tristitia) Tommaso distingue
l'invidia dal timor: ambedue sono accomunati dall'essere forme di
tristitia de bono alieno:
L'invidia si distingue per dal timore in quanto, mentre questo si
configura

quando

il

bene

altrui

coincide

con

un

pericolo

direttamente rivolto verso di noi, come quando temiamo che


l'esaltazione di un nemico possa in qualche modo lederci, l'invidia
soffre per il bene dell'altro solo in quanto il bene altrui viene ad

identificarsi, agli occhi dell'invidioso, come una diminutio della sua


persona26.
Nel secondo articolo (utrum invidia sit peccatum), Tommaso, oltre a
riprendere la differenza tra timore ed invidia, tematizza altre
importanti distinzioni: l'invidia viene infatti distinta dallo zelus in
quanto quest'ultimo sentimento pur essendo, come l'invidia, una
tristitia de alienis bonis, al contrario di essa, dice Tommaso, non
nasce dal dolore per il fatto che qualcuno possieda un determinato
bene, ma dalla sofferenza, provata dallo zelosus, a non possedere
quel determinato bene27: alla vista dell'altrui bene, dunque, chi
prova zelus spinto a riflettere sulle proprie mancanze e debolezze,
cercando, propria sulla spinta dei successi altrui, di migliorare e
raggiungere gli stessi traguardi ed obiettivi. L'ultima distinzione
riguarda il rapporto tra invidia e nemesis. In questo caso, la
differenza si basa essenzialmente su una componente di merito,
assente nel caso dell'invidia e presente, invece, nella nemesi.
Contrariamente all'invidioso, il quale soffre sic et simpliciter per il
bene altrui, chi prova nemesis soffre per la felicit degli altri, nel
momento stesso in cui chi usufruisce di un determinato bene
appare esserne indegno, non meritarlo28.
La classificazione di Tommaso si ricollega esplicitamente alla
Retorica aristotelica. Lo Stagirita, nel secondo libro della Retorica,
defin lo sdegno come una sofferenza provata dinnanzi ad una
26 Contigit autem id quod est alienum bonum apprehendi ut malum proprium. Et secundum
hoc de bono alieno potest esse tristitia . Sed hoc contigit dupliciter. Uno modo, quando quis
tristatur de bono alicuius inquantum imminet sibi ex hoc periculum alicuius nocumenti: sicut
cum homo tristatur de exaltatione inimici sui, timens ne eum laedat. Et talis tristitia non est
invidia, sed magis timoris effectus (). Alio modo bonum alterius aestimatur ut malum
proprium inquantum est diminutivum propriae gloriae vel excellentiae.
27 Alio modo potest aliquis tristari de bono alterius, non ex eo quod ipse habet bonum, sed ex
eo quod nobis deest bonumillud quod ipse habet. Et hoc proprie est zelus.
28 Tertio modo aliquis tristatur de bono alterius inquantum ille cui accidit bonum est eo
indignus. () Et haec tristitia () vocatur nemesis.

fortuna immeritata ; proprio per questo, continua


Aristotele, non si prover sdegno con un uomo giusto, o coraggioso,
o se acquister la virt, ma per la ricchezza, il potere, le cariche
pubbliche, le amicizie ed altri beni simili.
Poich ci che antico sembra prossimo a ci che naturale, gli
uomini

si

sdegneranno

maggiormente,

tra

le

persone

che

possiedono il medesimo bene, con quelli che si trovano a


possederlo da minor tempo: le persone arricchite da poco tempo
infastidiscono pi di quelle che sono ricche da maggior tempo; lo
stesso discorso, sottolinea il filosofo, vale per tutti gli altri beni.
Lo sdegno viene provocato, in generale, sia quando una persona
meritevole non ottenga ci che le si addice, sia quando l'inferiore si
oppone al superiore.
Aristotele passa poi ad analizzare l'invidia: lo sembrerebbe
opposto alla piet, identificandosi, dunque, con l'indignazione; in realt,
esso viene definito dal filosofo come una forma di dolore di fronte
alla vista della buona fortuna altrui, non al fine di raggiungere o
ottenere qualcosa o per motivazioni legate al merito effettivo del
possesso, ma solo a causa del fatto che siano altri a possedere un
bene, soprattutto quando il benestante si configura come una
persona

di

pari

condizione

rispetto

all'invidiante.

Con

pari

condizione Aristotele intende le persone vicine in rapporto alla


nascita, alla parentela, all'et, alla disposizione d'animo, alla
reputazione, agli averi.
Infine Aristotele analizza lo zelo, definendolo anch'esso come
sofferenza di fronte alla buona fortuna altrui; la sofferenza, tuttavia,
in questo caso, non nasce dal fatto che siano altri ad avere un bene,
ma dal fatto che siamo noi a non averlo.

L'emulazione spinge l'uomo alla ricerca del possesso del bene in


questione, mentre l'invidia spinge soltanto a privare l'invidiato della
sua risorsa. Il sentimento opposto all'emulazione il disprezzo.
Tra tutti sentimenti analizzati in questa specifica sezione della
Retorica, solamente l'invidia si configura come propria di un animo
gretto e meschino. La piet e lo sdegno, in quanto congiunte ad una
nozione di merito, sono proprie di un animo nobile, proprio come lo
zelo, in virt di quella sua componente emulativa che spinge l'uomo
a migliorare continuamente se stesso.
Prerogative di un animo nobile, continua Aristotele, sono, oltre al
provare sofferenza dinnanzi ad una altrui disgrazia immeritata o ad
una altrui fortuna immeritata, anche il provare gioia dinnanzi ad una
altrui disgrazia meritata o ad una altrui fortuna meritata. La
corrispondente passione gioiosa dell'invidioso, viene da Aristotele
definita come , e si identifica in quella particolare sensazione di
gioia, piacere e felicit che l'invidioso prova alla vista delle
sofferenze altrui, senza che queste siano effettivamente meritate o
giustificate, ma solo perch spettano ad altri.
Simile, ma ancor pi emblematica, la presentazione dell'invidia
nelle due Etiche aristoteliche:
nell'Etica a Nicomaco Aristotele definisce la virt come giusto
mezzo, come mediet tra due vizi, uno per eccesso, l'altro per
difetto: cos, dice il filosofo, il coraggio si configura come giusto
mezzo tra gli estremi della temerariet e della vilt. Tuttavia,
prosegue Aristotele, non tutte le passioni o le azioni ammettono la
mediet: alcune di esse, infatti, implicano gi nel nome la
malvagit, come la malevolenza, l'impudenza, l'invidia. Riguardo a
queste passioni, dunque, non sar mai possibile agire rettamente,
ma si sar sempre in errore.

Come non pu esserci eccesso e difetto della mediet, cos non vi


mediet dell'eccesso e del difetto. Ora, proprio lo phtonos viene
presentato, nelle due Etiche, come vizio determinato da un eccesso:
nell'Etica Nicomachea l'invidia viene presentata come eccesso di
dolore e sofferenza, in quanto l'invidioso soffre per la gioia altrui a
prescindere dal fatto che essa sia meritata o meno, mentre chi
prova indignazione (il virtuoso) soffre dinnanzi alla gioia altrui solo
quando questa immeritata; l'opposto per difetto, infine, l', prova
gioia dinnanzi alle sofferenze altrui. Anche nell'Etica Eudemia
l'invidia ricoprir il ruolo di vizio per eccesso, in una triade che vede
nuovamente la nemesis come mediet virtuosa e, come difetto, un
vizio anonimo, ma provato dall'.
Le distinzioni e classificazioni di Aristotele e Tommaso sembrano
dunque essere molto chiare: nelle loro riflessioni filosofiche l'invidia
si identifica in un sentimento ben preciso, dotato di caratteristiche
proprie e specifiche che lo distinguono da altre passioni. La stessa
chiarezza, tuttavia, non regnava nella pratica linguistica corrente,
esattamente come, anche ai nostri giorni, la definizione di una
parola sul vocabolario, specie a proposito di termini dall'elevata
polisemia, pu non corrispondere sempre e del tutto all'uso abituale
che di essa viene fatto nella pratica quotidiana; a questo,
naturalmente, vanno aggiunte considerazioni relative allo sviluppo
diacronico

dei

fenomeni

linguistici,

con

annessi

slittamenti

semantici che in alcuni casi, come ad esempio quelli relativi al


lessico delle emozioni e delle passioni, risultano essere assai
marcati. Nella pratica dell'analisi testuale delle fonti antiche,
dunque, si pu notare una ricchezza semantica fortemente
accentuata, sia per ci che concerne il termine greco sia per quel
che riguarda il lessema latino invidia.

Basterebbe, del resto, consultare le pagine del Thesaurus Linguae


Latinae e del Thesaurus Linguae Graecae, nonch dei relativi
vocabolari di riferimento, per rendersi conto delle differenti
accezioni e sfumature di significato che presentano i due termini: Al
di l della precisione e della sottigliezza della classificazione di
Aristotele, dunque, i greci, e, come vedremo, anche i latini, offrono,
dal punto di vista semantico, e dunque anche concettuale, un
quadro molto pi complesso e variegato su questo fenomeno.
L'origine dei due termini ed invidia poggia su due basi
completamente diverse: mentre il termine invidia, come abbiamo
gi avuto modo di notare a proposito del Purgatorio di Dante, e
come noteremo ancora meglio nelle Metamorfosi di Ovidio, nasce e
si colloca in una sfera ben precisa, con indicazione chiara, nella sua
stessa radice, di un determinato atto, quello visivo (videre), e di un
prefisso (in) negativizzante, che connota l'atto medesimo come
un'azione visiva contorta, obliqua, sofferta, con conseguente
collegamento, molto vivo, presente e sentito a Roma, con il
fenomeno del cosi detto evil eye, e, dunque, con la superstizione, la
fascinazione, la fattura, il malocchio, in greco il significato proprio
del termine
come abbiamo visto, le etimologie proposte per i termini invidia e
invidere

delineano due aspetti dell'invidia, uno legato al mondo

apotropaico e superstizioso, l'altro, invece, legato alla sfera degli


effetti deleteri e dannosi del sentimento.
Il termine inglese envy include, dentro di se, i seguenti sentimenti:
mortificazione (mortification) e malevolenza (ill-will) occasionate
dalla vista del benessere altrui, malanimo, opposizione, contrasto,
ma anche desiderio di emulazione, ammirazione (ammiration).

La molteplicit di sfumature ricoperte dai termini inglese e italiano


non fa che confermare la definizione di sentimento composito
assegnato all'invidia da psicologi ed antropologi: Spielman

29

, ad

esempio, ha delineato quattro componenti essenziali del livore:


l'ammirazione per il bene usufruito da altri (covetousness), ferita
narcisistica, (narcissistic wound) implicante, a sua volta, senso di
inferiorit e inadeguatezza rispetto all'avversario (feelings of
inferiority, smallness, humiliation) forte desiderio rivolto all'oggetto
invidiato, odio, moderato (resentment, ill-will) o severo (spite,
maliciousness, malevolence, a wish to harm ) nei confronti della
persona invidiata.
Il

britannico

Joffe30

ha

invece

individuato

sei

componenti

fondamentali dell'invidia: aggressione (aggression), odio(hate),


risentimento (resentment), ammirazione (admiration), desiderio
(covetousness), narcisismo (narcissism); in maniera simile si sono
mosse le indagini di Ben-Ze'ev31, di Parrot32, di Rosenblatt33.
Abbiamo gi avuto di vedere, analizzando la Retorica di Aristotele,
come i greci, da un punto di vista teorico,potessero distinguere,
lessicalmente e semanticamente, l'invidia dall'emulazione e dallo
sdegno, lo dallo e dalla ; abbiamo, per,
anche anticipato come le testimonianze letterarie forniscano, nel
29 P.M. Spielman, Envy and jealousy: an Attempt at Clarification, <<Psychoanalitical
quarterly>>, 40 (1971), pp.
30 W.G Joffe, A Critical Review of the Status of Envy Concept, <<international Journal of
Psychoanalysis>>, 50 (1969), pp.
31 Ben-Ze'ev, The Subtlety of Emotions, Cambridge 2000, p.301. Per o scrittore israeliano
l'invidia contempla tanto osilit quanto ammirazione verso l'invidiato, ed occasionalmente
speranza, disperazione, autocommiserazione.
32 W.G.Parrott, The emotional Experiences of Envy and Jealousy, pp.12-15. L'autore concentra
la sua attenzione sul senso di desiderio frustrato, sentimento di inferiorit (il quale pu
manifestarsi come tristezza,ed ansiet), risentimento, (con le varie sfumature di dispiacere,
rabbia, odio). Anche nell'analisi del Parrott, comunque, trova spazio la componente di
ammirazione e desiderio di emulazione come elemento costitutivo dell'invidia
33 A.D.Rosenblatt, Envy, Identification and Pride, <<Psychoanalytic Quarterly>>, 57 (1988),
pp.63-64. Per l'autore tratti distintivi dell'invidia sono un senso di inadeguatezza ed
incapacit ed un senso di frustrazione e di rabbia nei confronti del contendente.

complesso, una visione meno chiara e radicale e, decisamente, pi


sfumata dei contorni semantici tra i diversi termini.
Indicativa, a tal proposito, come osservato recentemente da
Sanders, la celebre sezione della contesa delle Opere esiodee, nella
quale il poeta di Ascra distingue tra una buona ed una cattiva .
L' .cattiva, che nella teogonia veniva presentata come figlia
della notte, parente di, favorisce la guerra luttuosa e la discordia,
mentre l' buona esorta il neglittoso al lavoro, in quanto questi
osserva il vicino che si affretta a seminare e a coltivare la casa,
venendo, cos, spinto all'emulazione. 34
Il

contesto

di

riferimento

dunque,

quello

dello

zelos,

dell'emulazione: tuttavia, per indicare l'attivit del vasaio che, sotto


la spinta della buona contesa, gareggia con il vasaio e del artigiano
che gareggia con l'artigiano, Esiodo utilizza il verbo phthoneo.
Nella poesia lirica arcaica il termine phthnos comincia ad essere
connotato pi chiaramente in direzione dell'invidia malevola cui
siamo maggiormente abituati.
Mimnermo contrasta il sentimento di invidia provata da un uomo
glorioso quando questi in vita con la lode ad esso rivolta una volta
morto ,
`; Numerosi anche i detti dei sette sapienti
sull'argomento, documenti importanti, questi, non solo perch
l'invidia viene, chiaramente connotata, nell'ottica di una condotta di
vita virtuosa e regolata, come una passione deleteria e da estirpare,
ma anche perch, nelle testimonianze dei sette savii, l'invidia inizia
ad essere connotata come vera e propria malattia, indebolimento
fisico della persona che prova il sentimento: si va cos dai generici
consigli a non invidiare nessuno non provare invidia
34 ,

verso i beni mortal fuggire l'invidia della


moltitudine e guardarsi dai cattivi propositi di coloro che ci odiano
,
,

ad accostamenti, molto pi interessanti, e

destinati ad avere una significativa eco e fortuna letteraria (con


vasta risonanza soprattutto nei padri della chiesa), con la ruggine
che attacca il ferro ( ,
) o la malattia che colpisce il
grano ( ,
). Un passo di Teognide offre testimonianza
di una ripresa, per il verbo, dell'originario significato di privare, non
concedere: il messaggero delle Muse, quando arriva a possedere
conoscenze straordinarie non deve privarne gli altri, mantenendone
un possesso geloso ( ,
/ , ).
In generale, accostandoci all'interpretazione di Sanders, possiamo
dire che in lyric then, it is clear that Phthonos is used in its
expected and classical sense of begrudging or destructive envy:
phthonos is felt against someone who has desired possessions; it is
linked with hatred and it leads to destructive actions.
L'autore della letteratura greca arcaica in cui la tematica dell'invidia
sembra rivestire, ancor pi che in altri, un' importanza decisiva
certamente Pindaro.
Il termine , e, soprattutto, i suoi derivati , ,

compaiono,

all'interno

della

produzione pindarica, ben ventisei volte35. Non sorprende, dunque,


che la tematica dell'invidia negli epinici pindarici sia stato oggetto
di

numerosi

articoli

saggi,

nonch

di

una

monografia

35 Cfr. O. 1.47, 2.94, 6.7, 74, 8.55, 11.7, 13.25; P. 1.85, 2.90, 3.71, 7.19, 8.72, 10.20, 11.29, 54;
N 4-39, 8.21, I 1.44, 2.43, 5.24, 7.39; Pa 2.55; Parth. 1.8; Frg. 212.

specificamente dedicata. La frequenza della comparsa dell'invidia in


Pindaro si collega direttamente alla gloria e l'onore che accomunano
il poeta ed il vincitore.
Si pu dire, anzi, che la presenza stessa dell'invidia non rappresenti
altro che la conferma, sebbene ex negativo, del successo raggiunto
dall'atleta e dal laudator. Pindaro, non a caso, gioca molto, nei suoi
epinici, su questa duplice componente, enfatizzando il successo del
lodato attraverso la denigrazione della condizione degli invidiosi,
costretti a stare nell'ombra, in disparte, agendo attraverso le
maldicenze e le calunnie. Si pu dire, dunque, citando Glenn Most,
che envy and slander are not only the enemies of praise, but also
its perverted, ugly but indispensable ally In quest'ottica, lo
si configura nel suo aspetto pi

basso e degradato, come

atteggiamento ostile alla gloria altrui, sofferenza dettata dal vedere


il successo, agonale e poetico, degli altri.
Per quel che concerne lo zelos, possiamo dire che Hesiod is not the
only one for whom zelos implies more than emulative rivarly.
Il verbo compare due volte nell'Inno omerico a Demetra;
Calipso afferma che gli dei sono crudeli e gelosi, perch non
permettono ad una dea di giacere assieme ad un mortale (
, ,
, );
Odisseo teme la gelosia di Alcinoo nel vederlo assieme alla figlia
Nausicaa ( ); Hera
prova invidia nel vedere Leto dare alla luce un figlio forte e vigoroso
(

,

). In tutte queste occorrenze il significato proprio del verbo

oscilla tra l'invidiare ed il provare gelosia, ma certo non veicola


quello

spirito

di

emulazione,

quella

volont

di

entrare

in

competizione per raggiungere il bene posseduto da altri che in


seguito caratterizzeranno il termine.
Secondo Sanders, a partire dall'et della lirica arcaica che il verbo

ed

il

sostantivo

acquistano

definitivamente

il

significato di ammirazione, desiderio, spirito di emulazione 36:


neither of the Arckhilokhos fragments portray envy as obviously
and solely destructive, and both they and the Theognis fragment
could be paraphrased by the english I envy you for some good,
which

is

at

best

weak

form

of

admiration.

Emulazione,

ammirazione, volont di imitazione diventeranno i significati


fondamentali del termine per tutta l'et classica. Indicativo
l'accostamento, in alcune testimonianze, di con il verbo
mimeisthai37Le differenze tra e divengono ancor pi
evidenti laddove, come accade in un buon numero di fonti, vi sia un
accostamento tra i due sostantivi: Nell'Agamennone di Eschilo, ad
esempio, Clitemnestra incita Agamennone, titubante dinnanzi alle
lodi smaccate della moglie, dicendo che una persona non invidiata
anche non ammirata ( ; Edipo,
nella tragedia sofoclea Edipo re, lamenta il fatto che tutti i suoi beni
abbiano fatto provare a Creonte cos tanto da fargli provare
(
,
,
); Una testimonianza di Tucidide mostra ancor
meglio il passaggio tra zelos e phthonos, ammirazione/emulazione
36 , ; ,
,
;
37 Cfr, Isocr. 1.11.7; 1.36.3; 2.34.8, 8.142.10; 12.16.3.

ed invidia: Pericle sostiene che i popoli che vogliono seguire


l'esempio di Atene nell'acquisizione di possedimenti d'oltre mare,
sono spinti all'emulazione di Atene stessa, conformandosi al suo
modello; tuttavia, non riuscendo nelle loro intenzioni, sono pronti a
mutare il loro (nobile e positivo) intento iniziale in bieco phthonos(
; ,
Un simile procedimento viene presentato anche da
Socrate nel dialogo Menesseno di Platone: Socrate, infatti, sostiene
che, quando Atene si trovava in una condizione di grande
prosperit, ella dapprima provoc, negli altri, un grande
(volont

di

emulazione

ed

imitazione)

poi,

come

ulteriore

passaggio, si pass dall'imitazione all'invidia (


,
, ,

Nelle Leggi di Platone l'Ateniese sostiene che, laddove in una citt
non vi fossero ricchezza e povert, non vi sarebbero, al contempo,
n n , n

n 38.E' dell'oratore

Demostene, infine, la considerazione per cui i discorsi funebri in


onore dei grandi uomini dovrebbero ispirare emulazione per la loro
e non invidia per gli onori a loro concessi:
,
. Queste testimonianze forniscono, dunque, un quadro
abbastanza

chiaro

di

una

differenziazione

semantica,

ormai

ampiamente sviluppatasi in et classica, tra e .


Tuttavia, uno studio di Suzanne Said dedicato al ruolo di invidia ed
emulazione nelle orazioni di Isocrate ha mostrato in maniera

38 ,
: ,

efficace come, ancora nel IV secolo, i due termini potessero essere


soggetti a differenti considerazioni assiologiche.
Isocrate,

infatti,

accanto

alla

classica

dicotomia

zelos

positivo/phthonos negativo, accanto al gi osservato passaggio,


presentato, ad esempio, nel Panatenaico, tra impossibilit di portare
a

compimento,

emulativo

per

sottinteso

inadeguatezza
dallo

zelos

o
e

incapacit,
conseguente

il

processo

rifugio

nel

sentimento passivo, ignavo, dello phthonos, introduce, in molti suoi


passi, una diversa visione dei due sentimenti, presentando, accanto
ad uno zelos negativo, che si configura, per, non alla maniera
arcaica, come phtonos, ma come cattiva imitazione (rimane
imitazione,

dunque,

ma

errata,

distorta

deviata,

laddove

l'imitazione stessa vada ad essere diretta verso oggetti non


meritevoli di essere imitati: l'oggetto svaluta l'azione, dunque),
anche uno phtonos -positivo che, anche in questo caso, non viene
concepito, alla maniera esiodea, come zelos, ma come sdegno,
nemesis.
Il significato di sdegno ricoperto dallo phthonos introduce ad un
altro aspetto molto importante per la comprensione della tematica
dell'invidia:

la

sua

inconfessabilit

ed

suoi

tentativi

di

mascheramento con altre emozioni e sentimenti, in primis con


quello dello sdegno e della giusta indignazione.
Come abbiamo gi avuto modo di osservare, Aristotele, nella
Retorica, aveva definito la nemesis o, meglio, il verbo sostantivato
to nemesan, come dolore provato alla vista di chi gode di un bene o
di

una

fortuna

senza

averla

meritata,

sentimento

tradotto,

abitualmente come indignazione e sdegno. E' da rilevare, al


contempo, come, per lo Stagirita, non ogni forma di fortuna sia
degna di suscitare la nemesis: solo le ricchezze, il potere ed i beni

ad essi collegati possono, se acquisiti in maniera indegna ed


ingiusta, suscitare sdegno.
La raccolta di testimonianze presentate da Sanders mostra come, al
di fuori dell'attribuzione del sostantivo agli dei, nel periodo classico
il termine venga utilizzato meno di quindici volte per indicare un
comportamento

indignante

censurabile: 39

in

tutte

queste

occorrenze, inoltre, non si fa mai riferimento al possesso di


ricchezze e potere che invece, secondo la Retorica, costituiscono la
base per la costituzione e formazione del sentimento in oggetto.
Il termine indicato per esprimere l'indignazione in questi specifici
contesti era, infatti, ancora una volta quello di phthonos,.
La possibilit di slittamento semantico del termine dal concetto di
invidia a quello di indignazione visibile e ben documentabile nei
testi oratori:
Un ricco che si fosse trovato a doversi difendere dinnanzi ad una
giuria popolare soleva, infatti, attribuire allo phthonos-invidia la
causa principale che stava alla base delle azioni dei suoi oppositori
ed accusatori; all'opposto, quando la giuria era mossa da un
accusatore ad assumere un atteggiamento di opposizione dinnanzi
ad un ricco o ad un potente, l'oratore tendeva a sottolineare i
sentimenti antidemocratici, di hybris sociale che, a suo dire,
contraddistinguevano

l'operato

dell'accusato.

,
39

, ,
.

.

, .Il
richiamo, in questo caso, nonostante la distinzione concettuale
aristotelica tra i termini, non poteva che essere rivolto non
all'invidia- phthonos,ma, evidentemente, allo sdegno-nemesis che
avrebbe dovuto animare la giuria popolare. Situazione simile veniva
riflessa dalle considerazioni della Rhetorica ad Alexandrum, nella
quale venivano presentate e descritte, come condizioni scatenanti
phthonos,

anche

il

possesso

di

una

ricchezza

detenuta

ingiustamente ed illegittimamente.


,
, ,
, ,

,

, ,
Il concetto di invidia-nemesi aveva, oltre che
in campo retorico-forense, importanti applicazioni anche in campo
politico, configurandosi come il senso di giusta indignazione nei
confronti

del

ricco,

del

potente,

del

facoltoso

che

facesse

ostentazione eccessiva delle proprie ricchezze e del proprio potere,


evitando di impiegare parte delle proprie ricchezze e disponibilit

economiche per il bene della collettivit, utilizzandole, ad esempio,


per le liturgie che, in quest'ottica, divenivano strumenti di controllo
e regolazione dell'ostilit del popolo verso i potenti, o che, proprio
nell'espletamento delle liturgie, mostrassero in maniera eccessiva i
privilegi derivanti dal loro stasus economico e sociale.
Un altro significato del termine phtonos che merita particolare
attenzione , infine, quello di gelosia. Il termine gelosia, derivato dal
greco zelos, racchiude, proprio come quello di invidia, una
molteplicit di sentimenti: Freud individuava quattro componenti
principali: ferita narcisistica, opposizione ad un rivale (vero o
presunto), auto-critica; Shengold parlava, pi vagamente, di un
misto di odio ed amore; Sharpsteen individuava soprattutto rabbia,
paura e tristezza; Parrot, invece, insicurezza, paura della perdita,
rabbia; Spielman credeva che la gelosia avesse una molteplicit di
aspetti simili all'invidia (come l'emulazione, narcisismo leso, rabbia,
risentimento) unita per, rispetto all'invidia, ad una maggiore
componente di sospetto e mancanza di fiducia generale, che
sfociava spesso, per lo studioso, nella vera e propria paranoia. In
generale, le osservazioni sul fenomeno della gelosia sottolineano e
rimarcano alcune differenze con quello dell'invidia. 1) l'invidia un
desiderio per ci che uno non possiede, mentre la gelosia un
desiderio di custodire e mantenere ci che gi si possiede; 2) la
gelosia presuppone un rapporto che si vuole esclusivo con un
determinato oggetto od una determinata persona; 3) la gelosia
comporta una rivalit personale, mentre l'invidia nasce in un
contesto di contrasto ed opposizione sociale; 4) l'invidia sempre
distruttiva, mentre la gelosia comporta soprattutto un forte
desiderio di conservazione, mantenimento e custodia, divenendo
distruttiva solo quando la persona gelosa trova conferma ai propri

sospetti (situazione, questa, che per comporta, oltre al sentimento


di gelosia vero e propria, anche un misto di rabbia ed invidia verso
chi si scopre usufruire del bene che volevano fosse solo nostro). Al
di l delle distinzioni metodologiche, tuttavia, indiscutibile un
rapporto di dipendenza e collegamento tra le due passioni, come
confermato, tra l'altro, dall'uso comune ed abituale dei sostantivi,
uso per il quale, spesso, si utilizza il termine gelosia per indicare, in
realt,

una condizione di invidia; Inoltre, come rilevato in

particolare da Peter Salovey, it is a rare situation that will clearly


involve either envy or jealousy alone...more useful is to recognise
that there are many situations that will involve some combination
of jealousy and envy. Consultando il vocabolario italiano SabatiniColetti, si possono notare, infatti, due diverse accezioni del termine
gelosia: una, che identifica la gelosia come sentimento proprio di
chi vive nella paura di vedersi sottratto l'oggetto del proprio amore,
l'altra, per la quale la gelosia si identifica come avversione verso
chi ci sembra ottenere pi attenzioni dalla persona che amiamo o
che stimiamo, avversione che sembra difficile non interpretare
come effettivamente sorta da un senso di invidia.
Il greco e, vedremo, anche il latino testimoniano un continuo
intersecarsi delle due passioni, con la gelosia spesso definita da
invidia e phthonos, mentre gli stessi termini invidia e phthonos
potevano anche prestarsi, in determinate occorrenze, ad assume il
senso di gelosia possessiva.
Cos, ad esempio, nei Memorabili di Senofonte Odisseo, con
l'eliminazione di Palamede, intende preservare, gelosamente, la
propria reputazione di pi saggio tra i greci. Isocrate sostiene, nel
Panegirico, la superiorit di Atene anche in relazione al fatto che
essa non ha negato, gelosamente, i propri beni alle altre citt ma,

anzi, le ha rese partecipi. Sono soprattutto i dialoghi platonici


mostrare le testimonianze pi chiare del termine nella sua
accezione di gelosia. Un concetto continuamente espresso nei
Dialoghi, infatti, che il saggio non prover phthonos a condividere
la propria sapienza con gli altri. Celebre anche la concezione del
demiurgo aphthonos del Timeo che, proprio in quanto tale, volle che
tutte le cose fossero il pi possibile vicine al suo stato di perfezione.
Immagine che trova un parallelo nel Fedro, dove Platone presenta
le anime umane come bighe alate; bighe che possono, dice il
filosofo, compiere numerosi

percorsi contemplando molte visioni

nel cielo a seguito degli dei che, essendo belli, sapienti e buoni, non
sono gelosi dei loro privilegi.
Parallelamente, il termine zelotypia, che finir con l'indicare la
gelosia amorosa, veniva impiegato anche per designare the kind of
a covetous resentment of another's good. Cos, ad esempio, viene
presentata nella classificazione stoica delle passioni, laddove la
zelotypia viene presentata come sofferenza provata alla vista di
qualcuno che riesce ad ottenere ci che noi gi possediamo,
definizione rispecchiata da Cicerone nelle Tuscolane disputationes,
con il termine latino obtrectatio: there is no reference here to the
role of a third party, to the alienation of affection, or to losing what
is one's own. Utile, in quest'ottica, il lavoro di Konstan, che ha
mostrato, in un articolo dedicato sulla semantica di zelotypia, una
serie di passi della letteratura greca in cui il significato primo del
termine sembra essere quello delineato dalla definizione stoica
sopra esposta.
Invidia latina

In un articolo apparso sulla rivista <<glotta>> nel 1993, lo studioso


tedesco Hans Wieland si occupato di indicare una serie di passi
della letteratura latina, nei quali il verbo invidere e gli aggettivi
invidus/ invida si trovavano ad essere collegati con il verbo
semplice videre, formando quella che lo studioso definisce una
latente Antithese: i passi sono effettivamente interessanti, e penso
valga la pena riproporli sinteticamente: nel primo libro del De rerum
natura, ad esempio, Lucrezio, sottolineando l'incapacit della vista
umana a cogliere il movimento degli atomi, ricorre all'immagina di
un'invida natura che ha precluso all'uomo tale possibilit: sed quae
corpora decedant in tempore quoque,/ invida praeclusit speciem
natura videndi40; nell'undicesimo libro dell'Eneide, Enea, scorto il
cadavere di Pallante, lamenta la crudelt della sorte, che non ha
permesso al giovane di rivedere la casa del padre Evandro n la
nascita del regno di Enea: <<tene>> inquit, <<misernade puer,
cum laeta veniret,/ invidit fortuna mihi, ne regna videres/ nostra
neque

ad

sedes

victor

veherere

paternas? 41;

sempre

nell'undicesimo libro, inoltre, Diomede, durante il dialogo con il


messo latino, ricorda l'intervento divino che gli ha impedito di
rivedere la sposa diletta e la bella Calidone. Invidisse deos, patriis
ut

redditus

aris/

coniugium

optatum

et

pulchram

Calydona

viderem?42.
Negli esempi proposti chiaro il collegamento tra l'invidia e la sfera
dell'azione visisa. Al contempo, tuttavia, chiaro come il rapporto
sussistente tra i termini sia di contrasto e di opposizione. La sorte,
gli dei, la natura, a causa della loro invidia, hanno impedito a
qualcuno di vedere qualcuno/ qualcosa.
40 Lucr. 1. 320-321
41 Verg. Aen. 11. 42-44
42 Verg. Aen. 11. 269-270

Come

si

configura,

per,

questa

opposizione?

Per

Wieland,

l'aggettivo invidus avrebbe il significato originario di che non la


scia vedere. L'opposizione, a suo dire, sembra dunque essere
quella radicale, del tipo vedere/non vedere. In questo modo, il
valore da attribuire al prefisso in di invidere sarebbe quello
privativo. Lo studioso presuppone, infatti, un valore originario di
invidus/invida come nicht sehend o unsichtbar; Il passaggio al
concetto di privazione visiva,

(sichtverhinderung), e quindi al

significato proprio, per Wieland, dell'aggettivo (che impedisce la


visione),

si

comprenderebbe

per

mezzo

della

trasposizione

dell'aggettivo dal soggetto che non vede alle circostanze che


impediscono la visione. In altre parole il procedimento quello
tipicamente metonimico, che

si verifica nell'assegnazione di un

aggettivo a soggetti inanimati. Cos una nox caeca una notte che
non fa vedere, la lux ignava di cui parla Giovenale43 , di fatto, la
nostra Domenica, giorno in cui non si lavora, un immemorem
amnem44 un fiume che causa oblio, un'insomnis cura45 un
affanno che non d tregua,
Per Wieland, dunque, il valore da conferire al prefisso in sia in
invidus che in invidere sarebbe, sostanzialmente, quello privativo. A
questo valore del prefisso rimanderebbe, per lo studioso, anche una
analisi semantica che sul verbo ha offerto un passo del grammatico
Priscilliano. Il grammatico, infatti, aveva interpretato il verbo come
non videns, aggiungendo, per, una precisazione importante: hoc
est, non ferens te bene agentem videre. Questa aggiunta, che
Wieland interpreta come una semantische Einrenkung, fornisce
dunque

una

precisazione

importante

al

valore

privativo

da

43 Iuvenal. 14.106 Sed pater in causa, cui septima quaeque fuit lux/ ignava et partem vitae non
attigit ullam
44 Stat. Silv. 5.2.96
45 Lucan. 2. 239

assegnare all'in, Pi che un aggiustamento semantico, infatti, a me


pare che la precisazione di Priscilliano si configuri, piuttosto, proprio
come la volont di non ingenerare confusione morfologica (che si
sarebbe creata interpretando invideo come, sic et simpliciter, non
video) e chiarendo che non video vale, in realt come non ferre
videre. Nella precisazione di Priscilliano, dunquei, non solo il non
videns diventa videre, ma la sfera visiva, riammessa nella sua
positivit, diventa la condizione necessaria e sufficiente per
l'invidia: senza l'azione visiva, infatti, non potrebbe realizzarsi quel
non

ferre

videre

che

costituisce,

per

Prisciliano,

l'essenza

dell'atteggiamento invidioso. L'idea, dunque, non quella di una


visione negata, di un non a vedere assoluto, ma di una visione tesa
e

sofferente.

L'interpretazione

non

si

discosta

molto

dalla

presentazione dantesca degli invidiosi, che abbiamo gi esaminato.


Nel Purgatorio, infatti, la pena cui sono sottoposti gli invidiosi non
quella di una cecit naturale, bens una vera e propria tortura
visiva, simbolo ed emblema di quella visione straziata e sofferta che
aveva contraddistinto in vita questa categoria di penitenti.
Un ulteriore ostacolo per l'interpretazione del prefisso in come
privativo deriva, oltre che dalla semantica, anche dalla morfologia.
Come sottolineato dal dizionario etimologico Ernout-Meillet, infatti,
il prefisso in non assume mai valore privativo dinnanzi ad un verbo:
il contrario di scio nescio, di lego neglego, di volo ne volo>nolo.
Anche davanti ad un sostantivo il valore privativo poco
documentato46 per in.
A proposito del valore da assegnare al prefisso, lasciando da parte
quello privativo, Leumann ha riconosciuto nel verbo composto, lo
stesso preverbo di ignosco, a suo dire comparabile con il sanscrito
46 vd. l'opposizione otium/negotium; fas /nefas

anu, con il significato di nach, hinterher; opinione, questa,


successivamente respinta dagli studiosi A.Ernout-A. Meilett, i quali
hanno accostato il verbo invidere al greco , con il significato di
<<jeter le mauvais oeil >>. In questo caso, evidente che il
valore assegnato al prefisso sia non pi privativo, ma negativo, nel
senso di <<guardare contro, guardare con sguardo cattivo>>.
C.Pascal aveva distinto, a seconda del valore specifico da conferire
al preverbo, due distinti forme di invidere: la prima formata con un
in

avente

valore

intensivo,

nel

senso

di

<<guardare

con

attenzione>>, riallacciandosi, per questa accezione del prefisso, a


Cicerone, che, nelle Tuscolanae, definisce l'invidia come un intueri
nimis: verbum invidendi ductum est a nimis intuendo fortunam
alterius;. la seconda, invece, con in avversativo che trasformerebbe,
in questo caso, il senso del verbo in guardare contro, quindi odiare.
Il prefisso in indicherebbe, dunque, l'ostilit dello sguardo invidioso,
la sua natura di occhio contorto ed obliquo che si volge con ostilit
verso la cosa o la persona invidiata. Al contesto del malocchio, nel
quale la vista ,

storta, obliqua, malvagia ed ostile, ma anche,

contemporaneamente, potenziata ed intensificata nel suo rivolgersi


a ci che si invidia, pu ben adattarsi anche la testimonianza di
Cicerone, ripresa da Pascal.
La connessione con il malocchio presentata come significato
proprio ed originario del verbo da A.Ernout-A.Meillet, Wnchs47,
Stiewe, oltre che nel ThLl, dove quello di mala vis oculi viene
indicato, appunto, come primo ed originario significato. Il termine,
dunque, deriva la sua negativit direttamente dallo sguardo ostile e
malevolo che caratterizza la persona invidiosa. Significativo,
infatti, che la costruzione originaria del verbo fosse transitiva e
47 R.Wnsch, Anmerkungen zur lateinisches Syntax, <<Rh.Mus.>>, 69 ( 1914), p. 133

prevedesse, dunque, la presenza di un complemento oggetto,


esattamente come avviene per i verba videndi inspicio ed intueor.
Cicerone, infatti,

citando un passo

del

Melanippo

di Accio,

deprecava, nelle Tuscolane, l'avvenuta sostituzione dell'accusativo,


cui originariamente si ricollegava il verbo, con il dativo utilizzato ai
suoi tempi48.
Secondo Wnsch, il progressivo passaggio dall'accusativo al dativo
sarebbe stato giustificato dal fatto che, nella costruzione invideo
aliquid alicui, l'attenzione e l'enfasi maggiore sarebbero state poste,
pi che sull'oggetto invidiato, sulla persona oggetto dell'invidia e
dello sguardo malevolo; in questo modo, si sarebbe realizzata una
progressiva evanescenza della forma a due elementi, sino ad
arrivare all'uso esclusivo del dativo (di svantaggio), per indicare la
persona ed in seguito, per analogia, anche l'oggetto 49.
Per Stiewe, invece, il passaggio dal complemento in accusativo a
quella in dativo sarebbe conseguenza della necessit di deviare il
potere dell'evil eye, mutando l'oggetto diretto con un caso obliquo:
Wer etwa aliquis me invidet sagte, nannte die Gefahr bei Namen
und mochte seinen Schaden noch erhohen; ein aliquis mihi
invidet klang schwebend, weniger bedenklich 50. In questo senso, il
cambio

di

costruzione

si configura

come

eine

kleine,

aber

beachtenswerte Erscheinung des Sprachtabu 51.


La costruzione del verbo con il dativo, della cosa o della persona,
divenne assolutamente dominante a partire da Plauto 52. Due dativi,
48 Cic. Tusc. 3.20 nomen invidiae, quod verbum ductum est a nimis intuendo fortunam alterius,
ut est in Melanippo (Acc. 424 Ribb.) quisnam florem liberum meum invidit? Male latine
videtur, sed praeclare Accius, ut enim idere, sic invidere florem rectius quam flori.
49 Cfr. Wunsch, op.cit., pp. 133-134.
50 K.Stiewe, op.cit., p.170
51 Vd, supra, nota 42
52 Per il dativus personae cfr., e.g.,Plaut. Bacch. 544 sibi ne invideatur... cavent; Capt. 583 est
miserorum, ut malevolentes sint atque invideant bonis; Curc. 180 dum mi abstineant
invidere; Persa 776 bene ei qui invidet mi et ei qui hoc gaudet; Ter. Eun. 410 invidere omnes
mihi; Lucil. 704 nulli me invidere, non strabonem fieri saepius deliciis me istorum. Per il
dativus rei cfr. e.g. Plaut. Most. 307 qui invident, ne umquam eorum quisquam invideat

non erano comunque mai utilizzati quando ad essere indicati erano


sia

l'oggetto

che la

persona

che era oggetto

dell'invidia 53;

generalmente, infatti, l'oggetto veniva espresso in accusativo e la


persona in dativo54, oppure, secondo un'altra forma abituale, si
prevedeva la possibilit che la persona venisse indicata da un
genitivo possessivo. Occasionalmente la persona veniva indicata
con il dativo e l'oggetto con una proposizione causale introdotta da
ob55, propter56, quia57 ad indicare, dunque, il motivo per cui
qualcuno/qualcosa era oggetto di invidia.
All'atteggiamento malevolo ed invidioso rimanda anche il significato
del verbo come maligne negare, inteso sia nel senso di non
concedere, rifiutare sia in quello, meno attestato, di rapire,
strappare via. In questa forma, la cosa rifiutata veniva, per lo pi,
indicata con l'accusativo, la persona cui si rifiutava con il dativo 58.
Laddove l'oggetto negato si configurava come un'azione impedita,
veniva a formarsi una sententia prohibitiva59, a cui poteva essere
legato o meno un complemento di termine (con la funzione di
prosus commodis; Verg. Aen. 5.541 nec.. Eurytion praelato invidit honori
53 E. Stout, The Constructions Invideo aliquid alicui and invideo alicui aliqua re,
<<Classical Philology>>, 20 (1925), p. 145
54 Dubbio Plaut. Most.51 quasi invidere mihi hoc (accusativo o ablativo?) videre Grumio, quia
mihi bene est. Chiaro, invece, Cic. Mur. 88 quid invidendum Murenae aut cuiquam nostrum
sit in hoc..consulatu. Cfr. anche, e.g. Fam. 9.16.5 quid mihi nunc invideri potest? Verg.
Georg. 1.504 iam pridem nobis caeli te regia, Caesar, invidet
55 Cfr. e.g Sen. Dial. 3.16.6 si bono viro ob mala facinora irasci convenit, et ob secundas res
malorum hominum invidere convenit
56 Cic. Fam. 1.9.2 quos tibi partim inimicos esse intellegetis propter tuam propugnationem
salutis meae, partim invidere propter illius actionis..gloriam; Sen. Epist. 87.34
multis...propter sapientiam, multis propter iustitiam invidetur.
57 Cfr. e.g. Plaut. Most. 51 quasi invidere mihi hoc videre, Grumio, quia mihi bene est.; Filastr.
1.1 ei deum invidisse quia scientiam.. detulit mulieri bonae rei atque malae.; Aug. In
Psalm. 44.22 idep.. magis illo invidebant, quia.. in illo gratia praevalebat.
58 Cfr.e.g. Catull. 64.170 Fors.. nostris invidit questibus aures; Virgil. Eclog. 7.58 Liber
pampineas invidit collibus umbras; Virgil. Aen. 4,234 Ascanione pater Romanus invidet
arces?; 8.509 mihi ... senectus invidet imperium; 11.43 tene.. miserande puer... invidit
fortuna mihi, ne regna videres nostra?
59 La costruzione poteva prevedere una proposizione introdotta da ne come, e.g., in Val.Fl.
3.306 invidere dei, ne... haec rursus adirem litora.; Ps. Quint. Decl. 10.3 pater invidit matri,
ne filio frueretur.; la proposizione poteva essere introdotta anche da ut/ut non come in Virg.
Aen, 11.269 invidisse deos...ut coniugium... et.. Calydonia viderem?;Hier. Adv. Pelag. 1.19
cur inviderit deus creaturis, ut non omnes eadem polleant maiestate.

dativus

incommodi).

L'azione

negata/rifiutata

poteva

essere

indicata anche con un'infinitiva60.


Nella seconda met del I sec. a.C., si diffuse un'altra costruzione per
invidere nel senso di rifiutare: A partire, infatti, da Tito Livio, che
fornisce la prima testimonianza in merito, la cosa rifiutata venne
espressa con l'ablativo, mentre la persona rimase in dativo 61.
Un'altra forma, meno diffusa, viene riportata e testimoniata da
Orazio, prevedeva invece il genitivo della cosa rifutata 62.
Nel caso del sintagma dativo-ablativo, la forma era ricalcata su
quella dei verbi come arceo, privo, mentre, per il genitivo di Orazio,
la struttura ripresa era direttamente quella del greco
Invidia e malocchio
Come riportato da Valentina Chinnici, la scissione fra invidia e
malocchio oggi per noi un dato culturale acquisito. La prima
etichettata come stato psicologico, vizio o difetto morale, la cui
esistenza comunemente riconosciuta e accettata, anche perch
subita o provata. La vita stessa, si pu dire, ne offre continui
attestati di verifica empirica. Il malocchio (o fascinazione o
fattura) invece considerato momento di folclore, patologia sociale,
superstizione popolare. I due fenomeni, pertanto, sono oggetto di
studi e discipline distinte: l'invidia appannaggio, principalmente,
di psicologi, filosofi, sociologi, mentre il malocchio campo di
indagine per antropologi e per studiosi di costumi e tradizioni
60 Cfr., e..g., Hor. Sat. 1.2.100 plurima, quae invideant pure tibi adparere tibi rem; Ovid. Met.
4.157 nos, ut quos ..amor iunxit.. , componi tumulo non invideatis eodem.
61 Cfr. e.g. Liv. 2.40 non inviderunt laude sua mulieribus viri; Plin. Epist. 2.10.2 quousque et
tibi et nobis invidebis, tibi maxima laude, nobis voluntate? Sen.Dial. 7.23.3 quid..est, quare
illius opibus bono loco invideat sapiens? 7.24.5 ut tibi rationem reddam, qua nulli mortalium
invideo; Tac. Ann. 1.22.2 ne hostes quidem sepultura invident.
62 Hor. Sat. 2.6.84 neque ille mus rusticus sepositi ciceris nec longae invidit avenae; Hil. In
Psalm. 2.15 Deus bonorum eorum, quae in se sunt aeterna, non invidens.

popolari. Come ha scritto De Martino, tuttavia, l'alternativa fra


magia e razionalit uno dei grandi temi da cui nata la civilt
moderna(....). La consapevole alternativa tra magia e razionalit
non appartiene alla magia naturale del Rinascimento, ma piuttosto
alla successiva et illuministica: e infatti alle soglie di questa, noi
ritroviamo nell'inauguratore della nuova epoca, Francesco Bacone,
la laicizzazione completa del fascinare e dello stregare, intesi
ormai come mero rapporto psicologico.
La tematica dell'invidia collegata alla vista ed al processo visivo
trova giustificazione e fondamento nell'importanza assegnata dagli
antichi agli occhi come specchio dell'anima, entit riflettenti i
caratteri e gli aspetti interiori di un individuo. La testimonianza pi
chiara, nella letteratura latina, della connessione animus-oculi
probabilmente quella fornita da Plinio il Vecchio: oculus unicolor
nulli; communi candore omnibus medius colos differens. Neque ulla
ex parte maiora animi indicia cunctis animalibus, sed homini
maxime, id est moderationis, clementiae, misericordiae, odii,
amoris, tristitiae, laetitiae. Contuitu quoque multiformes, truces,
torvi, flagrantes, graves transversi, limi, summissi, blandi. Profecto
in oculis animus habitat. Ardent,intenduntur, umectant, conivent.
Hinc illa misericordiae lacrima, hos cum exosculamur, animum
ipsum videmur attingere, hinc fletus et rigantes ora rivi. Quis ille
est umor in dolore tam fecundus et paratus aut ubi reliquo
tempore? Animo autem videmus, animo cernimus.
Fu per la scuola filosofica aristotelica, nel IV sec. a.C., ad indagare
per prima, in maniera sistematica, i rapporti tra il corpo e l'anima di
un individuo.
Il vincolo stabilito dal trattato fisiognomico tra occhio ed anima
diverr un topos fisso nella letteratura. Secondo Anton Nuno, la

prima testimonianza esplicita, nella letteratura latina, degli occhi


specchio dell'anima fornita dal De oratore di Cicerone: Nella
sezione del terzo libro dedicata all'actio, Cicerone sottolinea
l'importanza del vultus e degli oculi nella manifestazione di
determinate emozioni. L'oratore, per riuscire ad esprimere ed a
manifestare adeguatamente sentimenti come l'ira, la paura, la
compassione, il dolore, pu ricorrere a differenti toni di voce, ad
articolazioni e pose corporee determinate per ciascun pathos.
L'elemento fondamentale, sottolinea per il retore, l'espressione
del viso,che a sua volta dipende completamente da quella degli
occhi. L'actio scaturisce direttamente dall'anima, ed il volto lo
specchio dell'anima: Sed in ore sunt omnia, in eo autem ipso
dominatus est omnis oculorum; quo melius nostri illi senes, qui
personatum ne Roscium quidem magno opere laudabant; animi est
omnis actio et imago animi vultus, indices oculi: nam haec est una
pars corporis, quae, quot animi motus sunt, tot significationes
possit efficere; neque vero est quisquam qui eadem conivens
efficiat.
Praticamente coetaneo di Cicerone Lucrezio, il quale es el unico
autor que conocemos que se burla de la idea de que los ojos son el
espejo del alma. Testimonianza, dunque che, sebbene in negativo,
conferma una credenza evidentemente talmente diffusa nella
societ da dover essere sottoposta a smentita.
L'importanza attribuita allo sguardo dalle varie scuole fisiognomiche
viene confermata dalle indicazioni di un anonimo trattato latino
sull'argomento, il quale cos si esprime, ad inizio della sezione
specificamente dedicata allo sguardo Nunc de oculis disputandum
est, ubi summa omnis physiognomoniae constituta est. Nam et
aliarum partium signa si oculi affirmaverint, tunc rata magis et

certa sunt. Ex oculorum enim indiciis physiognomones sententias


suas confirmantet. hic omnis eorum est auctoritas constituta.
Le caratteristiche dello sguardo invidioso rientrano all'interno delle
peculiarit tipiche del viso e degli occhi del kaks e kakourgos. Nel
trattato fisiognomico aristotelico la malvagit di carattere viene
connessa ad uno sguardo incavato, simile a quello delle scimmie;
Ateneo riporta un'altra definizione aristotelica, per la quale gli occhi
esposti al di fuori delle orbite sarebbero indice di malvagit
assoluta. Nell'ampia sezione che Polemone dedica alla descrizione
degli occhi, troviamo espressa l'idea che una pupilla pi piccola del
resto dell'occhio e particolarmente scura sia segno di malvagit e
cattiveria63 Allo stesso modo, un occhio piccolo e concavo tipico di
un individuo malvagio. Altro elemento rappresentativo di una innata
malvagit costituito dalla secchezza delle palpebre, da occhi rossi
fulgenti come il fuoco, dalle pupille con un punto rosso al centro.
L'anonimo del trattato fisignomico latino riprender in buona parte
le considerazioni di Polemone. Altre fonti, sempre incentrate su
analisi fisiognomiche, accostano direttamente la piccolezza e la
secchezza e la piccolezza degli occhi all'invidia ed, in particolare, al
processo consuntivo che la caratterizza. Occhi secchi, pallidi e
sanguigni sono altrettanti sintomi di una natura invidiosa. Un'altra
caratteristica

che

merita

di

essere

menzionata

proposito

dell'occhio invidioso quella costituita dalla sua obliquit.


Nella quattordicesima epistola del primo libro, Orazio, confrontando
la placida vita di campagna ai problemi ed agli affanni del vivere in
citt, sottolinea come, abitando nel suo podere, non vi sia alcun
oculus obliquus in grado di limare i suoi agi (sua commoda)64. Nel
63
64 Non istic obliquo oculo mea commoda quisquam/ limat, non odio obscuro morsuque
venenat;

suo commento alle Epistole oraziane, Porfirio definisce l'espressione


obliquus oculus come invidus oculus.
Un aspetto interessante di quest'ultima testimonianza costituito
dal fatto che l'azione del limare venga accostata da Orazio
all'occhio invidioso. L'invidia, dunque, non rimane un sentimento
passivo, tutto interno alla sfera passiva del soggetto che la
sperimenta, bens in grado di agire, ed agire in modo diretto
sull'oggetto invidiato. Sono proprio queste le modalit d'azione
tipiche del malocchio. In questa accezione invidia (malocchio) ed il
verbo invideo (gettare il malocchio) rientrano all'interno della sfera
del fascinus.
Il termine fascinus deriva dal greco , come testimoniato da Aulo
Gellio65.

Secondo

il

dizionario

etimologico

Ernout-Meillet

la

corrispondenza anomala = testimonierebbe l'origine tracio-illirica


della parola.
Il significato-base della parola appunto quello di malocchio.
Con il termine fascinus si indicava, a Roma, quel particolare tipo di
influenza nefasta e negativa che, in base alla credenza comune e
popolare, non necessitava di alcuna pratica, di alcun rituale, di
alcuna cerimonia, per poter essere attuata.
Proprio questi aspetti distinguevano, da un lato, il fascinum da altre
pratiche come la devotio, l'imprecatio e la magia, che prevedano
agenti definiti ed un rituale sufficientemente standardizzato,
dall'altro contribuivano, proprio per questo motivo, a renderlo un
fenomeno ancora pi pericoloso e temibile. Chiunque, infatti,
poteva sentirsi minacciato dal fascinum. In alcuni casi, addirittura, il
fascinum poteva anche agire come una vera e propria forma di
forza involontaria.
65 Gell. 16.2.4. item fascinum appellatum quasi bascanum et 2fascinare esse quasi
bascinare

Su

fascinazione,

invidia

malocchio,

sono

interessanti

le

considerazioni di De Martino: Con questo termine fascinazione si


indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al
tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una
forza occulta, che lascia senza margine l'autonomia della persona,
la sua capacit di decisione e di scelta. Col termine affascino si
designa anche la forza ostile che circola nell'ario, e che insidia
inibendo e costringendo (.) La fascinazione comporta un agente
fascinatore e una vittima, e quando l'agente configurato in forma
umana, la fascinazione si determina come malocchio, cio come
influenza maligna che procede dallo sguardo invidioso (onde il
malocchio anche chiamato invidia).
Il termine greco e quello latino, in particolare, designano l'influenza
maligna e perniciosa che un individuo pu esercitare sulle persone
che incontra, senza ricorrere ad alcuna formula magica, ad alcun
sortilegio, ad alcuna cerimonia.
Chiunque, in qualsiasi momento e dovunque poteva essere oggetto
di

agenti

fascinatori.

Il

fascinum

operava,

sostanzialmente,

attraverso due strumenti principali: la parola e la vista.


Era credenza comune, nel mondo antico, che le lodi eccessive e
smaccate potessero causare il malocchio e, dunque, per mezzo del
fascinum, potessero portare alla distruzione ed all'annichilimento
del lodato. Tale possibilit esplicitamente introdotta, per la prima
volta nell'ambito della letteratura greca, nell' Agamennone di
Eschilo, in cui, in una delle scene pi famose e celebri del dramma,
il capo della spedizione greca a Troia cerca di difendersi contro le
lodi eccessive a lui rivolte dalla moglie Clitemnestra. Nel caso
specifico,

le

lodi

dell'infida

moglie

del

comandante

hanno

l'intenzione e lo scopo, volutamente perseguito, di scatenare sul


marito lo phthonos.
In Plauto personaggi che hanno lodato eccessivamente le ricchezze
proprie od altrui ricorrono all'espressione praefiscine per stornare
l'influenza del malocchio Plinio il vecchio offre testimonianza di
alcune popolazioni nelle quali alcuni individui erano in grado di
affascinare per mezzo della parola: in eadem Africa familias
quasdam
laudatione

effascinantium
intereant

Isigonus

probata,

et

Nymphodorus,

arescant

arbores,

quorum

emoriantur

infantes.
La settima ecloga delle Bucoliche di Virgilio accosta la mala lingua
all'invidia.
Il pastore Tirsi si augura di poter essere incoronato dai pastori
d'arcadia affinch Codro scoppi d'invidia; se lo stesso Codro, inoltre,
dovesse lodarlo pi del consentito, Tirsi chiede di poter essere cinto
di fiori d'elicriso, per poter scacciare la fascinazione di un a lode
eccessiva, che comporta il malocchio e che nasconde invidia 66. Altra
nota attestazione della mala lingua quella del settimo carme di
Catullo, in cui il poeta rifiuta di dare indicazione precisa del numero
dei baci di Lesbia in grado di soddisfarlo, affinch i curiosi non
possano farne il conto n i maligni gettarne il malocchio (mala
fascinare lingua)67.
66 Vrgil. Ecl. 7.25-28 patores, hedera cresentem ornate poetam/ Arcades, invidia rumpantur ut
Ilia Codro;/ aut, si ultra placitum laudarit, baccare frontem/ cingite, ne vati noceant mala
lingua futuro.
67 Per Nuno, op.cit, p. 143, il carme catulliano congloberebbe due diverse forme di attacco alla
felicit degli innamorati:, una costituita dal malocchio, l'altra dall'utilizzo di mala carmina:
<<en este caso, resulta tremendamente peculiar la expresin mala fascinare lingua. Es el
nico caso que conocemos en la literatura latina en donde la manera de fascinar sea a
travs de la lengua. Da la sensacin de que, de nuevo, se trata de una licencia potica a
travs de la cual Catulo une el poder danino de dos maldiciones, la del ojo, y los mala
carmina>>. Preferisco, tuttavia, seguire l'interpretazione di Dickie, Malice, envy and
inquisitiveness in Catullus 5 and 7,<< Papers of the Leeds international Latin Seminar>>,
VII 1993, p.17, per il quale l'invidere ed il mala fascinare lingua <<both signify drawing the
Evil Eye on to someone or sometjing by speaking in such a a way as to attract the Evil Eye of
some other being to the person or object mentioned>>.

L'altro strumento privilegiato della fascinatio era, come anticipato,


quello degli occhi. Plinio il vecchio riporta la notizia di Isigono, per il
quale vi erano popoli dell'Illiria e della Triballia capaci di affascinare
ed uccidere con lo sguardo: Esse in Triballis et Illyriis adicit Isigonus,
qui viso quoque effascinent interimantque quos diutius intueantur,
iratis praecipue oculis, quod eorum malum facilius sentire puberes;
a questa osservazione, Plinio aggiunge una considerazione di tipo
somatico: notabilius esse quod pupillas binas in singulis habeant
oculis. Huius generis et feminas in Scythia, quae Bythiae vocantur,
prodit Apollonides. Phylarchus et in Ponto Thibiorum genus
multosque alios eiusdem naturae, quorum notas tradit in altero loco
geminam pupillam, in altero equi effigiem; eosdem praterea non
posse mergi, ne veste quidem degravatos. Haut dissimile iis genus
Pharmacum in Aethiopia Damon, quorum sudor tabem contactis
corporibus afferat.Feminas quidem omnes ubique visu nocere quae
duplices puppilas habeant.
Cicero quoque apud nos auctor est, adeo naturae, cum ferarum
morem vescendi humani visceribus in homine genuisset, gignere
etiam in toto corpore et in quorundam oculis quoque venena
placuit, ne quid usquam mali esset quod in homine non esset 68. Al
di

delle

indicazioni

etnografiche,

le

preoccupazioni

per

l'insorgenza del malocchio potevano riguardare, nella pratica


quotidiana, ad esempio la sfera amorosa, con l'esempio fornito dal
carme 5 di Catullo, ma, pi in generale, qualsiasi bene posseduto
da chi subisce il malocchio, come ad esempio gli agnelli di cui parla
Virgilio nella terza Ecloga.
Se per la credenza nella forza, nella potenza, ed anche nella
simbologia degli occhi, era teoria condivisa da latini e greci, furono
68 Plin. N.H. 7, 16-18.

principalmente

quest'ultimi

ad

individuare,

nell'ambito

del

malocchio, un processo, per cos dire, scientifico, che potesse


spiegare

l'influenza

dello

sguardo

invidioso

nell'invidiato.

La

testimonianza pi importante, in questo senso, fornita da un


passo dei symposiaka

di Plutarco. Gli effetti dell'invidia vengono

interpretati con la teoria delle , emanazioni provenienti dai corpi


che colpiscono i sensi e stabiliscono comunicazioni tra esseri
diversi, La teoria delle per spiegare il meccanismo della vista non
era certamente idea originale di Plutarco. Essa era gi stata
introdotta da Empedocle e, dopo di lui, da Democrito. Plutarco,
tuttavia, contamina la teoria empedoclea con dottrine pneumatiche,
sostenendo che il moto dei corpi sia causato da un moto di
pulsazioni determinato dall'attivit respiratoria. Gli occhi, essendo
la parte del corpo maggiormente soggetta a questo tipo di
movimento, anche quella che rilascia il maggior numero di
efflussi. Pu essere interessante notare, come rilevato da Dickie,
che questa teoria dell'influenza reciproca degli occhi in virt della
loro particolare predisposizione al movimento sia espressa anche in
uno dei problemata pseudo-aristotelici, in un passaggio in cui viene
spiegata la causa della contagiosit di malattie oculari e di
consunzioni: l'occhio, viene detto nel problema, , ed , in quanto
tale, in grado di divenire ci che vede. Muovendosi in risposta a ci
che in movimento, un occhio che scambia uno sguardo con un
altro occhio disturbato o malato diviene anch'esso disturbato e
malato. In questo modo, afferma Plutarco nel suo trattato, gli occhi
di una persona invidiosa, infettati dal male dell'anima, cui sono
strettamente congiunti, nel momento in cui fisseranno lo sguardo su
un oggetto invidiato trasmetteranno lo

phthonos all'oggetto,

infettandolo anch'esso. Anche il sentimento amoroso nasce dalle

medesime premesse: l'uomo colto da piaceri e dispiaceri in


relazione all'azione che provocano su di lui gli oggetti veduti. La
vista stimola l'inizio dei sentimenti d'amore , i pi grandi e i pi forti
dell'anima, al punto che l'amante, continua Plutarco, si scioglie fino
a dissolversi in essa allorch si trova a guardare la persona amata.
Il

dissolvimento

dell'amante

nasce

dunque

da

uno

sguardo

ricambiato dell'amato. La luce, il flusso emanato dall'oggetto


desiderato provoca, di fatto, un vero e proprio dissolvimento,
annientamento dell'amante: nell'azione della vista amorosa, il
piacere

ed

il

dolore

si

mescolano

insolubilmente

donde

la

denominazione di Eros come .


Nel caso dello phthonos si verifica il medesimo processo, ma
diversamente orientato. Mentre, infatti, l'occhio dell'amante subisce
gli effetti

della

vista

dell'amato,

rischiando

in

tal

modo

il

dissolvimento, l'occhio dell'invidioso, assolutamente insensibile


all'eros, attacca ed aggredisce l'oggetto: l'amante subisce un
depauperamento

ad

opera

dell'oggetto

osservato,

l'invidioso

produce una consunzione dell'oggetto che osserva.


All'interpretazione di Eliodoro, esposta negli Etiopica, per il quale lo
phthonos si configurer come vera e propria malattia capace di
infettare l'aria circostante ed in grado, attraverso essa, di penetrare
nel corpo umano attraversando i pori corporei, Basilio, nella IV
omelia, sull'invidia, riprender l'importanza della vista e degli occhi
nel processo passionale dell'invidia, importanza, poi, ulteriormente
sottolineata e rimarcata dagli altri padri della chiesa. .
.
Abbiamo avuto modo di osservare le sfumature semantiche
principali del verbo invideo. Riassumendo, il significato originario
del verbo era quello di

<< guardare di malocchio>>; da questa attestazione originaria,


che lo collegava, anche come costruzione, ai verba videndi, il verbo
poi passato al significato di invidiare, dolersi dinnanzi alle fortune
altrui, essere ostile e maldisposto, significato, questo, che sembra
stare alla base di tutte le occorrenze di invideo in latino. Come gi
anticipato, infatti, anche la sfumatura di invideo come negare,
rifiutare, non concedere o rapire vengono ricondotte, dal curatore
del lemma nel ThlL Stiewe, ad un maligne negare, rifiutare per
malevolenza o invidia.
Per quel che concerne, invece, lo status quaestionis relativo alle
ricerche sulla semantica ed al valore di invidia nel mondo romano,
la situazione viene cos riassunta, in un recente articolo, da
Valentina Chinnici: la semantica di invideo e dei suoi derivati risulta,
com' noto, una delle pi complesse. A differenza di altri
Werbegriffe latini, indagati in ampie e sistematiche indagini
semantiche (si pensi soprattutto a certi studi lessicali di ambito
francese), su invidia esiste una letteratura variegata, ma anche
frammentata e parziale, che riflette d'altro canto la poliedricit di
un termine quanto mai versatile69.
L'interrogativo principale che dobbiamo porci in questo contesto il
seguente: il termine latino invidia risultano essere contraddistinto e
caratterizzato da quella ricchezza semantica che abbiamo visto nel
suo corrispettivo greco phthonos?
Un'esauriente risposta al problema viene fornita da Robert Kaster in
un lavoro dal titolo, eloquente, di Invidia, nemesis, phthonos and
the roman emotional economy. Lo studioso americano sostiene la
tesi per cui, per una sorta di 'economia emozionale' realizzatasi nel
mondo romano, la singola etichetta semantica di invidia racchiude e
69 V. Chinnici Passioni retoriche a confronto: invidia vs. misericordia, <<

restringe un'ampia variet di sentimenti e slanci emotivi, tra cui


quelli espressi dai termini greci nemesis e phthonos. Tuttavia,
preferisco seguire la definizione che, citando lo studio di Kaster,
riporta nel suo saggio Simonetta Nanna la quale, alla definizione
succitata, sostituisce quella di economia lessicale: il mondo romano,
sottolinea la studiosa, era ben consapevole della vastit di uno
stato effettivo plurivalente qual' l'invidia.
I romani, come i greci, conoscevano, dunque, le caratteristiche e le
differenze tra vari stati ed affezioni 70, nonch la molteplicit di
sfumature semantiche concernenti un medesimo termine, ma le
loro distinzioni lessicali spesso non coincidono con quelle oggi
abitualmente in uso, conglobando all'interno di un medesimo
lessema polisemie oggi perse. Quello osservato da Kaster ,
insomma, un fenomeno sostanzialmente simile a quello che
abbiamo visto essere presente nel mondo greco, con il termine
phthonos utilizzato per indicare un insieme di affetti ed emozioni
distinte, varianti dall'invidia all'indignazione, dallo zelo alla gelosia.
Al di l della definizione utilizzata, comunque, il lavoro di Kaster
utilissimo anche per l'approccio metodologico utilizzato dallo
studioso. La ricerca di Kaster prende le mosse da una lettera di
Cicerone ad Attico, in cui l'Arpinate, scrivendo dalla Cilicia nel
settembre del 51 a.C, risponde come segue alla notizia che un suo
rivale, M.Calidio, sia stato sconfitto alle elezioni consolari tenutesi
proprio in quell'anno: quod scribis libente repulsam tulisse eum qui
cum sororis tuae fili patruo certaret, magni amoris signum. Itaque
me etiam admonuisti ut gauderem; nam mihi in mentem non
70 Cfr. Hier. In GaL.5.21 invidia, quam non putemus idem esse quod zelum, quia zelus et in
bonam partem accipi potest, cum quis nititur ea, quae meliora sunt, aemulari invidia vero
felicitate aliena torquetur et in duplicem scinditur passionem; cum aut ipse est aliquid in eo, in
quo alium esse non vult, aut alium esse videns meliorem dolet, se ei non esse consimilem;;
Aug, in Psalm. 104.17 invidia est.. odium felicitatis alienae.

venerat. 'non credo' inquis. Ut libet; sed plane gaudeo, quoniam


interest71
L'aspetto che Cicerone vuole sottolineare, dunque, che se egli
avesse gioito della disfatta di Calidio solo perch riguardava Calidio,
un suo rivale in politica, il suo sarebbe stato stato un atteggiamento
malevolo, dettato dallo phthnos. Rallegrarsi della disfatta del suo
avversario non perch, semplicemente, questa sia capitata al suo
avversario, ma bens perch si trattava era una disfatta meritata,
era invece segno di nobilt d'animo. Il passaggio presentato dal
testo dunque quello tra un sentimento di phthonos ed uno di
nemesi.
Ma perch, si chiede Kaster, Cicerone deve ricorrere ai termini greci
per indicare il sentimento di indignazione e l'invidia? La risposta a
cui giunge lo studioso che se Cicerone avesse dovuto ricorrere
alla lingua latina avrebbe dovuto costruire una frase del tipo invidia
interest invidiae,l'invidia differente dall'invidia,l'invidia una
cosa, l'invidia un'altra.
Questo perch, in latino, il lessema invidia copriva gli ambiti di due
differenti termini greci: phthonos e nemesis, appunto. A partire da
questo esempio, lo studioso costruisce una vera e propria tabella
tassonomica dei valori possibili ricoperti da invidia, tabella che si
struttura su una divisione essenziale di base: in un lato dello
schema Kaster pone tutte le occorrenze di invidia prive di un
qualsiasi riferimento ad una menzione di merito o demerito (fuori,
insomma, dal campo della nemesi), mentre, nell'altro, vengono
collocate le testimonianze di invidia utilizzate in riferimento ad un
principio di

ingiustizia e di demerito. A sua volta, questa macro-

distinzione viene ripartita in ulteriori suddivisioni, visto che l'invidia


71 Cic. Att. 5.19.3

del lato sinistro viene suddivisa tra invidia provata alla vista di un
bene perch un bene72, ed invidia provata alla vista di un bene
perch il bene il tuo e non il mio 73. In ambedue i casi, la resa greca
del termine sarebbe stata phthonos. La sfumatura del termine, in
ambedue

casi,

corrisponde

perfettamente

alla

definizione

aristotelica di sofferenza provata alla vista della felicit altrui.


Ancor pi interessante la divisione del lato destro dello schema: la
distinzione, in questo caso, tra un'invidia provata perch qualcuno
usufruisce di un bene che noi riteniamo legittimamente nostro, e
l'invidia

che

si

prova

dinnanzi

ad

un

atteggiamento

che

oggettivamente travalica regole e principi sociali e generali.


Il primo un contesto di giustizia autoreferenziale e soggettiva: a
sense of right that is self-regarding, and therefore potentially selfserving. The characteristic thought here is that the good you enjoy
is rightfully mine74. Tra gli esempi presentati da Kaster in questo
insieme vi anche un passo dell'Eneide, tratto dal quinto libro: nel
contesto dei giochi funebri in onore di Anchise, Enea promette
premi preziosi a chi riuscir a colpire una colomba in volo. Ad
uccidere l'animale sar Eurizione; il premio tuttavia, verr concesso
ad Aceste perch, pur non avendo ucciso l'animale, la frecce da lui
scagliata divenne oggetto di un improvviso prodigio 75.
Il buon Eurizione, dice Virgilio, non invidi l'onore ad Aceste: nec
bonus Eurytion praelato invidit honori/ quamvis solus avem caelo
deiecit ab alto76.
72 Come esempi di invidia virtutis Cfr. ad Herenn. 4.36, Cic. Cat. 1.28-29, Balb 15-16,18,
Rab.Post. 48, Phil 8.29-31, Sall. BC 3.2, 37.3, Iug 10.2, Ad Caes. 2.8.7, 2.13.7, Comm.Pet. 3940, Hor. Serm 2.3.133.24.31-32, 4.8.24, Epist.2.1.12, Livio 2.7.4-8, 6.11.3, 8.31.2-3, 35.43.1,
38.49.5, Prop. 3.1.21, Phaedr 3.9.5, Sen Dial. 7.19.3, 8.8.2, Epist. 74.4, 79.13, 87.34, 5.10.3,
Epist. 1.8.6, Pan 14.5, Quint.Inst. 3.1.21, 12.11.7, Tac. Agr. 1.1, Dial.23.6, Ann 2.71,
Princ.Hist. 2.4
73 Cfr. Cic. De or. 2.209, TD.3.20, 4.16-17, Ov. Met. 2.780-782, Sen. Dial. 6.19.6, 11.9.3-9.
74
75 Virg. Aen. V. vv.485-543.
76 Virg. Aen. V. vv. 541-542.

Riprendo le parole di Kaster a proposito del passo in oggetto: the


comment is added because in ordinary circumstances Eurytion
would have felt invidia , and indeed would have been quite justified
in that feeling (..). But Eurytion is bonus here precisely because
he sees that these are not ordinary circumstances and so is willing
to forgo his right77.
Anche questo gruppo di testimonianze, pur rientrando nell'ambito
del greco phthonos, permette gi di capire le intersezioni ed i
contatti semantici che possono innestarsi all'interno del lessema
invidia, in maniera analoga a quanto visto per il greco. evidente,
infatti, che, se ci poniamo nell'ottica di un osservatore ed
indagatore esterno alla psicologia del personaggio Eurizione,
l'atteggiamento

di

invidiare

qualcosa

qualcuno

perch

lo

riteniamo nostro rientra nell'ambito della gelosia possessiva, quindi


dello phthonos. Se per, assumiamo il punto di vista di chi prova il
sentimento, di Eurizione quindi, non possiamo che provare nemesi
di fronte a chi si appropria di un bene che stimiamo sia dovuto solo
a noi. Lo scarto riposa, naturalmente, nell'assunzione di due
prospettive differenti, una che viene sottolineata ed indagata da un
osservatore esterno, che identifica nell'invidia-phthonos la molla e
l'origine di determinate azioni; l'altra, al contrario, che pretende di
fare della propria idea di giustizia una norma universale, con la
possibilit anche di mascherare, pi o meno volontariamente, la
propria invidia come indignazione.
L'ultimo insieme di fonti racchiude tutti quei testi che fanno
riferimento all'idea di invidia in contesti di leggi, precetti e norme
generali ed universali: l'ambito, quindi, della nemesi.

77 R.Kaster, op.cit., p.260.

Invidia latina crea, in questo caso, con il sostantivo pudor il


medesimo campo di relazioni che sussiste nella lingua greca tra
nemesis e aidos, come osservato dalle indagini di Redfield 78,
Cairns79, Williams80. Aidos is the most ethical emotion in Homeric
society. Esso si configura, sostanzialmente, come sensibilit e
ricettivit ai giudizi degli altri. In questo senso, il termine pu essere
inteso come senso di vergogna, Nel ventiquattresimo canto
dell'Odissea, Teti, chiamata da Zeus, prova esitazione, ammettendo
di vergognarsi a mescolarsi agli dei immortali. Odisseo prova aidos
ad essere visto nudo da un gruppo di giovani fanciulle, le dee
dell'Olimpo provano aidos a vedere Ares ed Afrodite colti nell'atto
di amore; l'aidos di Nausicaa le impedisce di raccontare al padre del
suo matrimonio; Penelope, sempre in virt del suo aidos, non vuole
andare sola tra gli uomini. ed Odisseo non vuole essere visto
piangere.
Contraltare al senso di aidos il sentimento di nemesi. L'aidos
blocca

ed

inibisce,

frenando

qualcuno

dal

compiere

una

determinata azione, la nemesi rappresenta una condizione di


eccitamento del proprio sdegno e risentimento: aidos inhibits action
by making the heroes fell that if they acted thus they would be out
of place or in the wrong. Nemesis drives one to attack those who
have shown themselves lacking a proper aidos. Aidos is thus a kind
of hypothetical anticipation of nemesis.
Penelope, ad esempio, sostiene che la sua figura sarebbe oggetto di
biasimo da parte degli abitanti di Itaca, se lasciasse il padre privo di
un lenzuolo funebre.
78 J.Redfieled, Nature and Culture in the Iliad: The tragedy of Hector, University of Chicago
Press, Londra 1975, pp.113-119
79 D.L.Cairns, Aidos: The Psychology and Ethics of Honour and Shame in ancient greek
Literature, Oxford University Press, Oxfored 1993, pp.51-54.
80 B.Williams, Shame and Necessity, University of California Press, Los Angeles 1993, pp. 8081.

In un passo dell'Odissea i proci vengono invitati dal cantore Fineo a


provare nemesi per il loro atteggiamento, come se osservassero le
loro azioni dall'esterno.
Il senso di aidos porta a conoscere il campo di relazioni, di obblighi
e doveri che ci legano agli altri e che legano gli altri a noi.
Nell'eventualit in cui questo campo di relazioni venga forzato,
disatteso, non rispettato, chi si rende protagonista di atti e gesti che
rompono l'equilibrio sociale dovrebbe, a meno di non essere un
shameless, provare un senso di vergogna. Indipendentemente dal
senso di aidos provato o meno, tuttavia, scatter comunque la
nemesis del resto del tessuto sociale, sorta dal senso di aidos altrui;
nemesis che si configurer in ranging from shock, contempt, and
malice to righteous rage and indignation.
Le due emozioni sono, cos, the inner and outer aspects of the same
thing: failures of aidos provoke the nemesis of others, and the
nemesis of others evoke aidos in oneself.
Il termine latino pudor denota, seconda Kaster, a sense of
displeasure with oneself caused by vulnerability to just criticism of
a socially diminishing sort.
La resa migliore del termine, dunque, dovrebbe essere quella di
vergogna e senso di vergogna. Il pudor, infatti, comporta sia un
senso di pentimento e rimorso per aver commesso un'azione che
non andava portata a compimento, sia una spinta ed una volont,
dettata appunto dal senso di vergogna, a non compiere gesta ed
azioni errate, turpi, vergognose.
Kaster dedica particolare attenzione alla componente di auto-analisi
ed auto-critica derivata del senso di pudor. Una persona che prova
pudor, infatti, soffre non solo perch stata vista, o perch teme di
essere vista da qualcun' altro nel compiere un'azione socialmente

sbagliata, ma anche perch in grado di riconoscere, da se stessa,


quando un determinato atteggiamento e comportamento non
corrisponde a certi canoni e modelli abituali di comportamento. In
questo senso, il pudor, inteso come riconoscimento, analisi e
valutazione interiore di azioni e gesta che riesce ad inibire atti
sconvenienti o porta alla vergogna per ci che si compiuto, pu
opporsi al metus.
Un buon esempio dell'inner aspect del pudor pu ravvisarsi nella
rinuncia da parte di Marco Terenzio Varrone, secondo il resoconto
dello storico Valerio Massimo, della carica di dittatore, a lui offerta
dal senato dopo il disastro di Canne. La rinuncia alla carica nasce, in
questo caso, da un senso di vergogna provato direttamente da
Varrone, senza che si avverta il bisogno, da parte sua, di conoscere
il giudizio pubblico. Un chiaro accostamento tra pudor ed invidia
presente in un passo del De grammaticis et rhetoribus di Svetonio,
a proposito della figura del retore Albucio Silo, importante retore
dell'et augustea: egit et causas, verum rarius, dum amplissimam
quamque sectatur, nec alium in ulla locum quam perorandi. Postea
renuntiavit foro partim pudore, partim metu:nam cum in lite
quadam centumvirali adversario, quem ut impium erga parentes
incessebat, ius iurandum quasi per figuram sic obtulisset-iura per
patris matrisque cineres, qui inconditi iacent! et alia in hunc
modum- arripiente eo condicionem nec iudicibus aspernantibus,
non sine magna sua invidia negotium adflixit 81. Albucio Silo, volendo
gettare sul suo avversario l'opprobrium di empiet verso i genitori,
lo invita a giurare sulle loro ceneri. Con questo gesto spettacolare,
per, Silo dimentica i tecnicismi della legge civile, in base ai quali la
parte alla quale era stato proposto un giuramento avrebbe potuto
81 Suet. Gramm. 30.3-5

vincere la causa semplicemente giurando nella forma richiesta.


L'errore nel quale cade Silo provoca nel retore pudor, negli altri (sia
in chi aveva assistito direttamente al dibattito, sia in chi ne era
venuto a conoscenza), invece, invidia, da intendersi, naturalmente,
nel senso di indignazione- nemesi.
Una delle sezioni pi celebri del De agricoltura di Catone dedicata
al confronto tra agricoltura ed attivit commerciali ed usura:
est <o> interdum praestare mercaturis rem quaerere, nisi tam
periculosum sit, et item fenerari, si tam honestum sit, maiores
nostri sic habuerunt et ita in legibus posiverunt: furem dupli
condemnari, feneratorem quadrupli... mercatorem autem strenuum
studiosumque rei quarendae existimo, verum, ut supra dixi,
periculosum et calamitosum. At ex agricolis et viri fortissimi et
milites

strenuissimi

gignuntur,

maximeque

pius

quaestus

stabilissimusque consequitur minimeque invidiosus minimeque


male cogitantes sunt qui in eo studio occupati sunt 82.
Nella prospettiva di Catone, solo l'agricoltura si configura come
attivit

totalmente

onesta.

Il

commercio

invece,

attivit

pericolosa, mentre l'usura si configura come attivit peggiore di


quella del ladro (furem dupli condemnari, feneratorem quadrupli); in
quanto tale, l'usura attivit in grado di provocare lo sdegno ed il
risentimento popolare e sociale.
Cicerone, nella Pro Caelio, rifiuta di chiedere, per il suo cliente,
l'indulgenza

tradizionalmente

concessa

alle

esuberanze

della

giovent: Celio, infatti, non solito abbandonarsi, contrariamente a


molti suoi coetanei, alle libidines ed alle petulantia che sono solite
arrecare invidia83.
82 Cato. Agr. 1.4.
83 Cic, Cael. 30 itaque ego severitati tuae ita oportet respondere non audeo. Erat enim eum
deprecari vacationem adulescentiae veniamque petere. non , inquam, audeo; perfugiis nihil
utor aetatis, concessa omnibus iura dimitto; tantum peto ut, si qua est invidia communis hoc

Lo stesso Cicerone, nelle Catilinarie84, ritorna frequentemente sul


tema dell'invidia che alcuni cittadini avrebbero provato in reazione
alla sua volont di opporsi ai progetti di Catilina; reazione, questa,
che si configura come una forza ed opposizione dai tratti talmente
forti e marcati da impedire la condanna a morte di Catilina, che
and dunque in esilio. Il trionfo del dittatore Cornelio Cosso, cos
come descritto da Tito Livio, fu oggetto di invidia da parte dei
cittadini romani, perch ottenuto non in seguito ad una vittoria
contro un hostis, un nemico pubblico, bens, contro un civis
romanus, Manlio Capitolino, alleato dei Volsci 85. Il trionfo di Cosso
appariva, dunque, non tanto come un gesto di forza e potere,
quanto di un abuso tracotante e superbo contro un cittadino. Per
questi motivi invidiaeque magis triumphus quam gloriae fuit.
Nell'Epigramma 3,25 di Marziale uno schiavo, precedentemente
marchiato dal padrone, salva la vita dello stesso durante il periodo
delle proscrizioni. Quest'azione comport, nei confronti del padrone
che aveva punito uno schiavo rivelatosi poi cos fedele, l' insorgere
dell'invidia86.
In tutti gli esempi citati si pu capire come l'invidia si configuri
come reazione sdegnata dinnanzi ad atteggiamenti socialmente o
tempore aeris alieni, petulantiae, libidinum iuventutis, quam video esse magnam, tamen ne
huic aliena peccata, ne aetatis ac temporum vitia noceant.
84 Cic. Cat. 1.22 tametsi video, si mea voce perterritus ire in exsilium animum induxeris,
quanta tempestas invidiae nobis, si minus in praesens tempus recenti memoria scelerorum
tuorum, at in posteritatem impimpendeat; 1.28 quid tamen te impedit? Mosne maiorum? At
persaepe etiam privati in hac re publica perniciosos civis morte mutarunt () an invidiam
posteritatis times? 1.,29 sed si quis est invidiae metus, num est vehementius severitatis ac
fortitudinis invidia quam inertiae ac nequitiae pertimescenda? Cfr. anche 2.3, 15, 3..3, 2829., Sull. 9.33, Dom. 44, Har.Resp. 61, Pis.72, Mil 82, Phil. 3.18, Leg. 3.26,.
85 coniecto in carcerem Manlio satis constat magnam partem plebis vestem mutasse, multos
mortales capillum ac barbam promisisse, observatamque vestibulo carceris maestam
turbam. Dictator de Volscis triumphavit, invidiaeque magis triumphus quam gloriae fuit;
quippe domi non militiae partum eum actumque de cie non de hoste fremebant; unum
defuisse tantum superbiae, quod non M .Manlius ante currum sit ductus.
86 Proscriptum famulus servavit fronte notatus/ non fuit haec domini vita, sed invidia. Cfr.
Val.Max. 6.8.7 ipse (servus) nihil aliud quam umbra et imago suppliciorum suorum,
maximum esse emolumentum eius a quo tam graviter punitus erat salutem iudicavit,
cumque abunde foret iram remittere, adiecit etiam caritatem.

moralmente ritenuti inaccettabili. L'indeterminatezza del soggetto


di invidia lascia trasparire un senso di sdegno generalizzato, una
reazione della collettivit intesa come organo di controllo e censura
dei comportamenti individuali.
L'ambiguit del termine, invidia, tuttavia, non era unicamente di
carattere

semantico.

Cicerone

documenta,

infatti,

anche

un

ulteriore elemento di confusione lessicale a proposito del termine,


dettato dalla difficolt di interpretare il lessema come avente valore
attivo o passivo87. L' Arpinate, infatti, proprio per evitare questo tipo
di confusione, decide di ricorrere al termine invidentia, derivato dal
participio presente di invideo, per indicare l'invidia attiva, ossia
quella provata e sperimentata dal soggetto qui invidit. Il termine,
tuttavia, nonostante l'autorit ciceroniana, non riusc ad imporsi nel
panorama degli usi linguistici, trovando scarne attestazioni negli
autori contemporanei e futuri.
Il lemma del ThlL mostra bene la complessit della parola,
strutturandosi attraverso la dicotomia

invidia passiva88-invidia

attiva. Del resto, come recentemente sottolineato da Claude


Moussy, anche l'antonimo di invidia, cio gratia, poteva applicarsi
sia in senso attivo (benevolenza rivolta a qualcuno), sia in senso
passivo (amicizia, benevolenza di cui si era oggetto e destinatario).
Particolarmente importante l'accezione passiva del termine: in
essa rientrano, anzitutto, le testimonianze del sostantivo con il
senso di malocchio, inteso come vis quaedam infesta felicitati, forza
occulta di cui si vittima; oltre, poi, ad un senso assoluto del
termine, in cui la valenza passiva determinata dal contesto, il ThlL
87 Cic. Tusc. Etenim si sapiens in aegritudinem incidere potest, posset etiam in misericordiam,
posset in
invidentiam. Non dixi invidiam, quae tum est cum invidetur; ab invidendo autem
invidentia recto dici potest, ut effugiamus ambiguum nomen invidiae, quod verbum ductum est
a nimis intuendo fortunam alterius.
88 Cfr. ThlL p.199, coll. 63 ss., invidia, ea qua premimur ab aliis invidentibus: sive i.q. livor, sive
indignatio, offensio sim. (sc. contracta), quae notiones saepe seiungi non possunt..

documenta anche alcuni esempi di costruzioni verbali: tra queste


rientra il verbo essere (esse), in congiunzione con il nominativo
(invidia est), sia, soprattutto, con il dativo finale (invidiae esse,
formula accostabile ad esse odio=essere oggetto di odio), In
congiunzione con altri verbi, risultano essere scarse le attestazioni
di

invidia

passiva

come

soggetto

(logico);

decisamente

pi

numerose sono le attestazioni di invidia passiva come oggetto


logico (espresso, quindi, in accusativo). In questo contesto rientrano
le testimonianze sulla necessit, di fuggire ed evitare l'invidia;
concetto espresso attraverso espressioni come invidiam vitare,
amoliri, fugere, effugere.
L'insieme pi corposo di testi con il termine avente funzione di
oggetto logico, documenta, tuttavia, il processo, opposto, di
creazione, eccitazione di invidia, parola che, in questo contesto,
assume spesso il significato di sdegno, ostilit, impopolarit.
Stiewe distingue, a questo proposito, due diverse sfumature da
attribuire ad espressioni come invidiam facere, movere, excitare et
sim.
Un'azione, un gesto, una situazione, un possesso, potevano
provocare invidia-ostilit, malevolenza senza che, nel testo, venisse
esplicitata una effettiva volont di procurarla. Cos un abuso senza
ritegno, un sopruso, una sedizione, un uso eccessivo e smodato di
potere e ricchezza, ma anche un qualsiasi gesto che potesse creare
malevolenza in qualcuno, erano in grado di provocare odio ed
ostilit costituzionalmente, naturalmente e direttamente, in virt
della loro stessa natura. Mi limito a citare un paio di esempi: Nella
Guerra Giugurtina, Sallustio ricorda il rifiuto di Emilio Scauro ad
accettare le offerte economiche dei legati di Giugurta, affinch un
tale abuso non causasse quell'ostilit e sdegno che solito

generare; nel 461 a.C. Il figlio di Lucio Quinzio Cincinnato, Cesone,


venne incriminato, nel contesto della lotta tra patrizi e plebei del V
secolo, per l'uccisione del fratello del plebeo Marco Volscio Fittore.
Mentre molti importanti personaggi della vita politica e militare
assunsero la difesa di Cesone, ricordando ad esempio la sua
intraprendenza ed il suo coraggio in battaglia, il padre, secondo il
resoconto di Tito Livio, rifiut di ricordare i meriti del figlio per la
patria, al fine di non accrescere l'impopolarit nei suoi confronti. Il
concetto che viene espresso, dunque, che una lode eccessiva dei
meriti del figlio avrebbe potuto accrescere, spontaneamente e
contro le intenzioni del lodante, l'invidia verso Cesone.
Vi erano, per, altre occasioni e circostanze nelle quali l'eccitazione
dello sdegno non scaturiva spontaneamente come riflesso di
determinate

azioni,

ma

veniva

volontariamente

ed

intenzionalmente rivolto ed indirizzato a qualcuno, per tramite di


specifiche tecniche. Non a caso, le fonti che testimoniano queste
occorrenze

di

invidia

rientrano,

nella

grande

maggioranza,

all'interno del contesto politico e forense.


Antonio, nel dialogo ciceroniano de oratore, nel presentare gli
accorgimenti necessari ad un retore per coinvolgere emotivamente
i giudici, sottolinea ed enfatizza la vis del sentimento d'invidia89.
Esso di gran lunga il pi violento di tutti, e ci vuole non meno
fatica a frenarlo che a suscitarlo (sed haud sciam an acerrimus
longe sit omnium motus invidiae nec minus virium opus sit in ea
comprimenda quam in excitanda). Gli uomini provano invidia
soprattutto verso i loro pari o coloro che sono ritenuti inferiori; essi
possono, per, anche invidiare chi superiore, soprattutto se questi
fa mostra di s in modo intollerabile, oltrepassando i confini della
89 Cic. De or. 2.209-211.

legge (invident autem homines maxime paribus aut inferioribus,


cum se relictos sentiunt, illos autem dolent evolasse; sed etiam
superioribus

invidetur

intolerantius

se

saepe

iactant

et

vehementer

et

aequabilitatem

eo

magis,

communis

si

iuris

praestantia dignitatis aut fortunae suae transeunt).


Se l'oratore vuole eccitare l'invidia contra questa condizione di
privilegio, deve insistere sul fatto che essa non frutto di virt, ma
di vizi e colpe (quae si inflammanda sunt, maxime dicendum est
non esse virtute parta, deinde vitiis atque peccatis, tum, si erunt
honestiora atque graviora, tamen non esse tanti ulla merita,
quantam insolentiam hominis quantumque fastidium)
Per sedare l'invidia, al contrario, l'oratore dovr mostrare come la
condizione del benessere del cliente sia stata ottenuta con grande
fatica, affrontando grandi pericoli, ed a vantaggio della comunit,
non per interessi personali (ad sedandum autem, magno illa labore,
magnis periculis esse parta nec ad suum commodum sed ad
aliorum esse conlata).
Il sentimento di cui parla il retore evidentemente composito: esso
scaturisce alla vista di una condizione di superiorit (come l'invidia),
ma si esaspera quando si ritiene che tale superiorit e condizione di
benessere sia immeritata (come l'indignazione). Compito del buon
oratore sar, dunque, quello di sfruttare la carica di tale motus,
enfatizzando l'indignazione dinnanzi ad un comportamento indegno,
ma, al contempo, mantenendo sempre viva, anche se sotto traccia,
la forza dell'invidia contro la condizione dell'avversario. Questo
aspetto ben evidenziato da Wisse, il quale sottolinea, a proposito
delle riflessioni ciceroniane, quella medesima ambiguit semantica
che abbiamo visto contraddistinguere, in generale, il lessema di
invidia: so whereas Aristotle () distinguishes two feelings as

originating from different motives () Cicero regards envy as based


on both motives together. This approach seems to me superior to
Aristotle's, or at least more practical. Aristotle states that envy is an
emotion felt by bad people, indignation one felt by good ones, but
the distinction between good and bad is notoriously difficult to
maintain in such an absolute form, and the same goes for the true
motives of the feelings involved90.
Un concetto simile a quello presenato nel de oratore era stato gi
espresso, questa volta direttamente da Cicerone, nel trattato
giovanile de inventione91, in un passo in cui l'invidia era stata
accostata a sentimenti affini, come l'odio e il disprezzo: in odium
ducentur, si quid eorum spurce, superbe, crudeliter, malitiose
factum proferetur; in invidiam, si vis eorum, potentia, divitiae,
cognatio (pecuniae), proferentur atque eorum usus arrogans et
intolerabilis, ut his rebus magis videantur quam causae suae
confidere,

in

contemptionem

adducentur,

si

eorum

inertia,

neglegentia, ignavia, desidiosum studium et luxuriosum otium


proferetur.L'importanza dell'invidia nei tribunali verr, in seguito,
ribadita anche da Quintiliano, il quale, nell'Institutio oratoria, mette
in rilievo come fosse una pratica consolidata in ambito forense
suscitare un clima di odio ed impopolarit contro il proprio
avversario92
Quando, al contrario, si vuole sedare l'invidia, l'oratore potr
puntare, come strategia difensiva, sulla tapeinosis. Questa tecnica,
teoricamente espressa da Antonio, trova vivida eco in molte

90 J.Wisse, Ethos and pathos from Aristotle to Cicero, Amsterdam 1989, p.292.
91 Cic. De inv. 1.22
92 Quint. Inst. 5.6.5 Quae excusatio si deerit, hoc unum relinquetur, ut invidiam sibi quaeri ab
adversario dicat atque id agi, ut in causa, in qua vincere non possit, queri possit.

orazioni

ciceroniane,

nelle

quali

il

rapporto

tra

invidia

commiserazione finisce per configurarsi come una dyadic relation93.


Nell'orazione in difesa di Murena, ad esempio, l'Arpinate, indulge sui
motivi per cui il console dovrebbe essere commiserato, sia nel caso
in cui venga privato del consolato, sia nel caso in cui riesca a
mantenerlo: in entrambi i casi non sussiste alcuno spazio per
l'invidia, ma solo per la piet.
Anzi, sottolinea Cicerone, laddove Murena riuscisse a conservare la
carica di console, dovrebbe essere commiserato proprio perch
destinato a divenire vittima inevitabile, data la sua posizione, di
invidia: misericordiam spoliatio consulatus magnam habere debet,
iudices; una enim eripiuntur cum consulatu omnia; invidiam vero
his temporibus habere consulatus ipse nullam potest; obicitur enim
contionibus seditiosorum, insidiis coniuratorum, telis Catilinae, ad
omne denique periculum atque ad omnem iniuriam solus opponitur.
Quare quid invidendum Murenae aut cuiquam nostrum sit in hoc
praeclaro consulatu non video, iudices; quae vero miseranda sunt,
ea et mihi ante oculos versantur et vos videre et perspicere
potestis94.
La commiserazione comporta dunque un alleggerimento del peso
dell'invidia che grava sul cliente, spesso associato al trasferimento
di questa verso la controparte, in un procedimento che verrebbe da
definire inversamente proporzionale95.
Invidiam facere, dunque, equivale a suscitare lo sdegno popolare;
per ottenere tale scopo, a volte, non servono neppure le parole, le
93 L'espressione utilizzato da M.Zerba, op.cit., p. 300, a proposito del rapporto invidia-amor
nel de oratore.
94 Cic. Mur. 87-88.
95 V.Chinnici Pasisioni retoriche a confronto: invidia vs misericordia, <<Paideia>>, 62 (2007),
p.234.
La coppia oppositiva misericordia-invidia compare in molti altri passaggi delle orazioni
ciceroniane;
cfr, e.g., de or. 2.189, 2.203, 2.206, 2.214; Brut.188; Rab.Post 46.

calunnie, le diffamazioni scoperte: risulta pi forte il linguaggio non


verbale.
A differenza, infatti, di altre passioni retorico-oratorie, l'invidia non
pu contare su un contagio immediato, non si trasmette in modo
mimetico dall'oratore al pubblico: antifrastica all'amor ed alla
misericordia, nonch alla gratia, al favor ed alla gloria, ma
affine all'odium, all' offensio, all'iracundia, invidia necessita di
specifici accorgimenti per essere suscitata 96.
Nella pro Sestio Cicerone ricorda come Gabinio, nella sua qualit di
tribuno della plebe, usasse mostrare alla contio, locus invidiae per
eccellenza, una tela dove era dipinta la villa di Lucullo, al fine di
suscitare l'invidia popolare contro costui. Cicerone, a sua volta, per
attaccare Gabinio ricorre al medesimo espediente a cui era ricorso il
suo avversario per rendere inviso Lucullo: additare alla vista di tutti
la villa di Gabinio, villa talmente grande da mettere in ombra quella
di Lucullo97.
Uno fra gli espedienti visivi pi usati (ed abusati) per muovere a
compassione i giudici era certamente quello del cosi detto
<<spettacolo

dell'infanzia>>,

spettacolo

che,

spesso,

si

configurava come una vera e propria sfilata di bambini in lacrime.


Nelle Verrine, Cicerone lascia intravedere la critica dell'oratore
Ortensio,

avvocato

difensore

di

Verre,

che

lo

accusava

di

demagogia per aver introdotto, tra i testimoni, un ragazzino orfano


e vestito a lutto: hic etiam priore actione Q.Hortensius pupillum
Iunium praetextatum venisse in vestrum spectum et stetisse cum

96 V.Chinnici, Et sine culpa invidia ponatur (Cluent. 5):le finzioni di Invidia in Cicerone oratore,,
p. 220.
97 Cum sciat duo illa rei publicae paene fata, Gabinium et Pisonem, alterum..villa edificare in
oculis omnium tantam, tugurium ut iam videatur esse illa villa quam ipse tribunus plebis
pictam olim in contionibus explicabat, quo fortissimum ac summum civem in invidiam homo
castus ac non cupidus vocaret.

patruo testimonium dicente questus est et me populariter agere


atque invidiam commovere quod puerum producerem clamitavit 98.
Gli esempi riportati permettono di osservare e verificare un
collegamento molto stretto tra il sentimento di invidia che doveva
essere scatenato e quello della misericordia, per mezzo del quale si
spingeva il pubblico all'indignazione.
Quanto questi elementi potessero essere utili per suscitare lo
sdegno popolare, viene ben mostrato da una controversia di Seneca
padre, il cui Thema il seguente:
Quidam,

cum

haberet

filium

et

divitem

inimicum,

occisus

inspoliatus inventus est.


Adulescens sordidatus divitem sequebatur; dives eduxit in ius eum
et postulavit, ut, si quid suspicaretur, accusaret se. Pauper
ait:<<Accusabo, cum potero>> et nihilominus sordidatus divitem
sequebatur.

Cum

peteret

honores

dives,

repulsus

accusat

iniuriarum pauperem99.
Il problema di fondo costituito dalla controversia consiste nella
determinazione della colpa di iniuria perpetrata dal giovane: Di
fatto, l'unica offesa di natura verbale, consisteva in quella minaccia
di una possibile futura accusa formale che il ragazzo aveva rivolto al
presunto assassino; accusabo, cum potero. Resta tuttavia poco
verosimile che quell'unico accenno minaccioso del ragazzo a
un'eventuale formalizzazione di un'accusa precisa avesse scatenato
un'invidia popolare tale contro il nemico del padre. 100
Il retore Albuzio, nella simulazione del dialogo tra i due contendenti,
fa specificare meglio, nelle parole del ricco, il tema dell'ingiura. Dice
il ricco, infatti:
98 Cic. Verr. 2,1, 151-152.
99 Contr. 10.1.
100 V. Chinnici, op.cit.,

Ut scias... te invidiam mihi facere, cum dixissem: accusa me, non


negasti te accusaturum, sed respondisti: accusabo, cum potero.
Il Crimen, dunque, di cui pare essere accusato il giovane proprio
quello di invidiam facere, di suscitare l'odio contro il ricco.
Il crimine, inoltre, non si limitava solamente alla minaccia verbale,
ma anche, e soprattutto, all'insieme di atteggiamenti ed azioni del
giovane: il suo vestirsi trasandato ed a lutto (sordidatus), in
opposizione al ricco candidatus (vestito con la toga candida), le sue
lacrime continue, il seguire passo dopo passo il presunto assassino
del padre il suo mostrare gli aspetti pi gretti della sua condizione
economica; tutto questo insieme di atteggiamenti non aveva altro
fine se non quello di attirare l'invidia-nemesi popolare contro un
uomo ricco che, dopo aver ucciso il padre del ragazzo, ora veniva
implorato e seguito dal ragazzo orfano, vestito di stracci. Le sue
azioni ed il suo aspetto rappresentavano autentici capi d'accusa
contro il ricco.
Aspetto, quest'ultimo, che bene viene evidenziato, all'interno della
controversia, dalla questione pregiudiziale sollevata dal retore
Gallione: se si possa accusare per ingiurie chi fa ci che a tutti
lecito fare; l'idea del ricco, evidentemente che: licet flere, licet
ambulare qua velis, licet sumere vestem quam velis sumere. Sed
nihil, inquit, licet in alienam invidiam facere. Sordidatus es, non
queror; sed si sordes tuae invidiam mihi concitant, queror 101.
Come evidenziato dal giurista Ulpiano 102, tale meccanismo invidiamisericordia, lecito e contemplato nelle aule del tribunale, venne
101 Contr.10.1.9.
102 Dig. 47.10.15.27.Generaliter vetuit praetor quid ad infamiam alicuius fieri, proinde
quodcumque quis fecerit vel dixerit, ut alium infamet, erit actio iniuriarum. Haec autem fere
sunt, quae ad infamiam alicuius fiunt: ut puta ad invidiam alicuius veste lugubri utitur aut
squalida, aut si barbam demittat vel capillos submittat, aut si carmen conscribat vel
proponat vel cantet aliquod quod pudorem alicuius laedat. In base alle osservazioni di A.D.
Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano, vol.I, Et repubblicana, Milano 1979,
p.54 n.23. L'editto del pretore sarebbe da datarsi attorno al secondo decennio del I secolo
a.C.

sanzionato, al di fuori di esse, con un editto del pretore che vietava


risolutamente qualsiasi parola, gesto o atteggiamento che potesse
arrecare l'invidia contro qualcuno, rendendolo impopolare ed inviso:
in questo senso, l'invidia suscitata nelle piazze diventa iniuria.
Altre tecniche con le quali si poteva provocare lo sdegno popolare
erano costituite dall'indossare abiti a lutto 103, gettarsi ai piedi di un
potente104, svolgere la flagitatio105, mostrarsi umili per sottolineare
ed enfatizzare il carattere oppressivo del contendente 106, fino ad
arrivare, con le forme estreme, al suicidio 107.
Questi esempi, pur nella diversit dei contesti e delle situazioni di
riferimento, manifestano, al contempo, un importante elemento di
continuit, costituito dal fatto che, come rilevato da Kaster, in tutti i
casi una persona che prova invidia-nemesis cerca, con le modalit
sopra esposte, di scatenare il medesimo sentimento nell'uditorio nei
riguardi di qualcuno che detiene arbitrariamente, ed ingiustamente,
un potere od un privilegio. Kaster, ed altri con lui, hanno individuato
anche quello che potremmo chiamare il vero e proprio spazio
scenico
o teatro, per questo invidiam facere: esso costituito dalla contio,
cos descritta da Kaster: the contio is the formal space for creating
nemesis-script invidia under the Republic, where the contio is to
invidia what the iudicium is is to crimen: the contio aims to create a
consensus that someone has done something for which he should

103 Cfr. e.g. Stat. Theb, 6, 41-44.


104 Cfr. e.g. Sen. Contr, 10, 1.1.
105 Cfr. Cic. Verr. 2.4.41, Quint. D Min. 279.16, 316.4, 11, 318.4; Tac. Ann. 11.34, 16.10; Petr.
Sat. 14. 6-7, 101.3,
107.10; Ser. Ad Aen. 2.124 flagitat id est invidiose poscit, unde et quod flagitatione
dignum est flagitium dicitur
106 Quint. Inst. 6.2.15-16.
107 Cfr. Sen. Contr, 7.3.4, 10.3.15; Quint. Inst. 9.2.85-86; Tac. Ann. 3.16, 6.29, 12.8; Suet. Cal.
56.1; Serv. Ad Ecl. 8.
60

be ashamed; the iudicium creates the formal judgement that he has


done something for which he should be punished 108.
L'eccitazione dello sdegno poteva trovare altri contesti in cui
svilupparsi, oltre a quello della contio, come il senato o gli
accampamenti militari.
L'analisi dell'espressione invidiam facere nel contesto forense
retorico divenne il punto di partenza per uno dei contributi pi
importanti, per quanto ormai datato, sulla semantica di invidia:
invidia. Ein semasiologischer Beitrag di Erik Wistrand. Lo studioso,
infatti, riporta, nel suo articolo, un insieme di passi, principalmente,
ma non solo, di carattere retorico, in cui il termine semplice invidia
sembra ricoprire, per quello che Wistrand definisce una sorta di
processo brachilogico109 il significato di invidiam facere
La fonte principale di queste occorrenze l'institutio oratoria di
Quintiliano110; non mancano, tuttavia, testimonianze derivate da
altre fonti, come il commento serviano all'Eneide 111, il Satyricon di

108 R. Kaster, op. cit, p.


109 E. Wistrand, op.cit., p.356 Dies Substantivum steht offenbar mit einer Art Brachylogi fr
die Handlung invidiam
facere.
110 Cfr. e.g.,4.2.113 an non M.Tullius circa verbera civis Romani omnes brevissime movet
affectus, non solum condicione ipsius, loco iniuriae, genere verborum, sed animi quoque
commendatione? Summum enim virum ostendit, qui, cum virgis caederetur, non ingemuerit,
non rogaverit; sed tantum civem Romanum se esse cum invidia cadentis et fiducia iuris
clamaverit; 114 quid Philodami casum nonne cum per totam expositionem incedit invidia,
tum in supplicio ipso lacrimis implevit?; 4.3.15 quidquid dicitur praeter illas quinque, quas
fecimus, partes, egressio est, indignatio, miseratio, invidia, convicium, excusatio, conciliatio,
maledictorum refutatio; 6.1.14 illa vero iucundissima, si contingat aliquod ex adversario
ducere argumentum, ut si dicas. reliquit hanc partem causae, aut invidia premere
maluit, aut ad preces confugit merito, cum sciret haec et haec. 9.2.8 interrogamus.. aut
invidiae gratia, ut Medea apud Senecam: quas peti terras iubes? Aut miserationis, ut
Sinon apud Vergilium.
111 Serv. Ad Aen. 1.39 Pallasne exurere classem] classem ad invidiam posuit, ut pro una navi
classem dicat; Ad Aen.4. 535 nomadumque petas] invidia a personis; petam mulier et
regina nomadas, id est vagos?, Ad.Aen. 10.22 clausa moenia] ad quae in extremis solent
adflicti confugere. Magna invidia: scimus enim ultimum esse praesidium in castra confugere
et hostilem impetum plerumque differee, sicut factum est in bello Troiano. Modo ergo dicit
ademptam esse etiam hanc aram misericordiae, siquidem intra muros hostis insultat.

Petronio112, la Tebaide di Stazio113, gli Annali tacitiani114, le Vite dei


Cesari115 di Svetonio.
Per Wistrand, inoltre, non solo il sostantivo invidia ma anche
l'aggettivo invidiosus sarebbe stato influenzato, semanticamente,
dall'espressione

invidiam

facere.

Nel

ThlL,

che

si

ricollega

direttamente alle teorie del Wistrand. Riscontriamo, infatti, una


suddivisione simile a quella gi riscontrata per invidia: sotto
l'accezione passiva del termine, troviamo l'interpretazione di
invidiosus/invidiosa come res quae movent invidiam in auctores,
possessores116.
Sempre sotto l'accezione passiva, il ThlL riporta anche il significato
tecnico dell'aggettivo: in questo senso, invidiosus/invidiosa si
riferisce a verba, preces, criminationes ita vel ea mente prolatae, ut
in eum, qui petitur oratione, commoveant indignationem 117.
112 Petr. 14.5 cum primum ergo explicuimus mercem, mulier operto capite, quae cum rustico
steterat, inspectis diligentius signis iniecit utramque laciniae manum magnaque
vociferatione latrones tenere clamavit. Contre nos perturbati, ne videremur nihil agere, et
ipsi scissam et sordidam tenere coepimus tunicam atque eadem invidia proclamare, nostra
esse spoilia, quae illi possiderent. Sed nullo genere par erat causa, et cociones, qui ad
clamorem confluxerant, nostram scilicet de more ridebant invidiam, quod pro illa parte
vindicabant pretiosissimam vestem, pro hac pannuciam ne centonibus quidem bonis
dignam. Wistrand, op.cit., p. 363, mostra di non condividere la traduzione , fornita da Ernout,
di eadem invidia come anims d'une mme ardeur jalouse, intendendo invidia, nel passo
specifico, come convicium, querela. Cfr., inoltre, Petr. 97.9; 101.2.
113 In Stat. Theb. 6.43-44 viene descritta la reazionde dei Pelasgi dinnanzi ai lamenti delle
donne di Nemea per la morte del figlio del re Licurgo. Il fanciullo era stato affidato alla
custodia di Ipsipile, ma questa, accompagnando i Pelasgi assetati ad una fonte, lo aveva
temporaneamente abbandonato, per poi trovarlo, al suo ritorno, ucciso da un serpente. Nel
vedere i Pelasgi durante le esequie, la regina e le altre donne innalzarono forti lamenti: al
che : sensere Pelasgi/ invidiam et lacrimis excusant crimen obortis.. Per Wistrand, op.cit., p.
365, invidia varrebbe come muta accusa. I lamenti avrebbe dunque la funzione di eccitare
lo sdegno, piuttosto che di testimoniare la malevolenza personale delle donne.
114 Cfr. e.g., Tac. Ann. 6.29 Pomponius Labeo.. per abruptas venas sanguinem effudit;
aemulataque est coniunx Paxaea.. sed Caesar missis ad senatum litteris disseruit.. illum,
quia male administrata provinciae aliorumque criminum urgebatur, culpam invidia velavisse,
frusta conterrita uxore, quam etsi nocentem periculi tamen expertem fuisse. Il tentativo di
Pomponio consisteva, dunque, nel rendere, attraverso il suo gesto estremo,i mpopolare
Tiberio. Invidia vale, dunque, per invidia excitanda in Tiberium. Cfr., inoltre, ann. 3.67; 4.53;
16.10; 11.34; Hist. 1.82.
115 Cfr. e.g. Suet. Cal. 56; Claud. 38; Nero 34.
116 Cfr. e.g.,
117 Cfr., e.g., Cic.. Verr. II, 2.113 cum... magis invidioso crimine quam vero arcesseretur; Cic.
Part. 137 genus eius modi calliditatis.. trahatur in odium iudicis cum quadam invidiosa
querella; Quint. Inst. 9.2.38 sive ad invocationem aliquam convertimur.. sive ad invidiosam
explorationem; 11.3.50 deinde quasi obiurgatio sui est.. tum invidiosiora: tamen
haec..iudicii..forma terret oculos; Tac. Dial. 41.4 quid invidiosis et excedentibus modum

Indipendentemente dal fatto che l'agitazione dello sdegno e del


risentimento fosse voluta o meno118, le testimonianze prese in
esame da Wistrand e Stiewe mostrano comunque, a loro dire, in
maniera chiara l'accezione dinamica di

invidiosus, nell'ottica

dell'invidiam facere.
Il medesimo fenomeno viene, infine, rinvenuto da Wistrand, anche
in relazione all'avverbio invidiose. Il ThlL, riporta, anche in questo
caso, dapprima il significato primario dell'avverbio come facere vel
dicere aliquid ita ut indignatio commoveatur in dicentem vel
facientem119; In seguito viena ripresa l'indicazione del termine
peculiariter et technice, nel senso di dicere o facere aliquid ita, vel
ea

mente,

ut

in

eum,

qui

petitur

oratione,

commoveatur

indignatio120.
Tre anni dopo il contributo di Wistrand, Ingrid Odelstierna pubblic
un saggio, l'unica opera sull'invidia latina ad avere il taglio di una
vera e propria monografia, nel quale la studiosa contestava
sistematicamente

le

argomentazioni

del

filologo

tedesco.

L'Odelstierna, pur ammettendo la possibilit di poter tradurre


l'espressione invidiam facere alla maniera di Wistrand, notava,
tuttavia, evidenti distorsioni operate dallo stesso Wistrand in alcuni
testi per adattare l'espressione al suo significato pregnante.
defensionibus opus est?
118 In Ovid. Met. 5.512-513, Cerere, adirata per la il rapimento della figlia Persefone, da parte
di Ade, si reca da Giove tutta rannuvolata in volto e con la chioma scampigliata: Ibi toto
nubila vultu,7 ante Iovem passis stetit invidiosa capillis, Stiewe (op.cit., p.165, nota 15), che
segue Wistrand, (op.cit. p.358),nel considerare presente, in questo contesto,il valore
dinamico di invidiosus, sostiene che l'objektive Feststellung di Cerere sia in grado di
suscitare, per se, sdegno contro Giove, indipendentemente dalla subjektive Absicht dies zu
tun.
119 Cfr., e.g., Rhet. Her. 4.20.28 vivis invidiose, delinquis studiose, loqueris odiose; Cic. Ac. 2.
146 tu nunc Catule lucere nescis, nec tu Hortensi in tua villa nos esse. Num minus haec
invidiose dicuntur quam illa tua?; Vell. 2.45.3 neque.. quisquam aut expulsus invidiosius aut
receptus est laetius quam Cicero.
120 Cfr. e.g., Cic. Mil. 12 quibus contionibus .. meam potentiam invidiose criminabatur
tribunus; Quint. Inst. 4.2.62 non magis proprium narrationis est magnifice dicere quam
miserabiliter, invidiose, graviter, dulciter, urbane

In particolare, nei passi in cui venivano descritti i lamenti indirizzati


agli dei per la perdita di un caro o per qualche disgrazia,
l'espressione invidiam facere non poteva assumere il significato
dinamico descritto da Wistrand, ma solo quello di mostrare la
propria indignazione
Per l'Odelstierna, di conseguenza, sarebbero molti meno di quanti
supposti da Wistrand i passi della letteratura latina in cui invidia
assumerebbe il valore dinamico di agitazione dello sdegno altrui;
nella maggior parte dei casi, infatti, il sentimento sarebbe provato o
manifestato direttamente dallo stesso soggetto che invidiam facit.
La studiosa rifiutava anche l'idea di un influenza di invidiam facere
su invidiosus; il significato dell'aggettivo come ci che provoca
ostilit e sdegno, sarebbe, infatti,

derivato, secondo Odelstierna,

direttamente dal valore proprio del suffisso aggettivale osus come


pieno di x,
Il passaggio dal senso di pieno di invidia a colui/ci che provoca
invidia sarebbe derivato da un fenomeno metonimico, mediante
l'applicazione, cio, dell'aggettivo ad oggetti inanimati. In italiano,
ad esempio, quando utilizziamo l'espressione <<giorno felice>> o
<<giorno triste>> non intendiamo, in realt, riferire l'aggettivo
direttamente al sostantivo giorno (che, di per se, non pu essere n
felice n triste) bens all'insieme delle circostanze che lo hanno reso
triste o felice per noi. Il <<giorno triste>>, triste, in realt, perch
provoca tristezza. Allo stesso modo, per l'Odelstierna, applicando il
procedimento con invidiosus si pu spiegare il passaggio dal senso
di pieno di odio, odioso a ci che provoca odio. Partendo da
questo presupposto, ed agendo analogamente a quanto visto per
invidiam facere, Odelstierna arriva a vedere il significato principale
dell'aggettivo proprio in plenus invidiae. La parte successiva della

sua analisi , infatti, costituita dal tentativo di rinvenire, nelle fonti


in cui la scuola di Wistrand aveva rinvenuto il significato di
invidiosus come faciens invidiam, il senso di pieno di sdegno, odio,
risentimento121.
Per quel che riguarda il sostantivo invidia, Odelstierna arriva a
negare praticamente qualsiasi forma di valore metonimico al
termine, sia nel senso della causa per indicare l'effetto (invidia
come manifestazioni di odio e risentimento e, dunque, lamenti,
proteste, accuse indignate) sia in quello dell'effetto per indicare la
causa (parole ed azioni che provocano odio e risentimento).
Per quanto, infatti, la studiosa ammetta la possibilit di tradurre
invidia come lamentele, accuse, proteste, di fatto la resa della
parola nel lavoro dell'Odelstierna quasi sempre quella di
risentimento, odio, malevolenza (ill-will), nel suo senso primario e
non metonimico. Anche nei passi in cui invidiam facere assume il
significato di rimproverare, accusare, Odelstierna mostra sempre un
recelo invencible a valerse en sus traduciones del sentido de
<<reproches>>.
A. Pariente, autore di un articolo che si configura, in realt, come
una vera e propria recensione al lavoro dell'Odelstierna, mostra di
condividere alcuni aspetti del lavoro della studiosa. Anche Pariente,
infatti, si mostra dubbioso nel pensare che il significato di invidia
come excitacin del odio possa essere derivato da una brachilogia
di invidiam facere; pi probabile, per lui, pensare che il significato
pregnante di invidia possa dipendere dal valore metonimico di
invidia come acusacin, reproche indignado. I passaggi, logici e
semantici, supposti sono dunque i seguenti: invidia sdegno- invidia
lamenti, parole, accuse sdegnate- invidia eccitazione dello sdegno.
121 Cfr., e.g., Cic. Pro Mil. 5.12; Ovid. Met. 5.512; Suet. Aug. 43; Quint. Inst. 4.2.62; 4 2.120;
Tertul. De pudic. 14; Tertul. Advers. Marc 2.24;

Questo aspetto, sottolinea Pariente, viene praticamente sempre


disatteso dalle rese dell'Odelstierna, per la quale, come abbiamo
appena visto, invidia vale, praticamente sempre, nel suo valore non
metonimico, ed invidiam facere, di conseguenza, significa mostrare
la propria indignazione.
Accettando questa interpretazione, si va incontro, tuttavia, ad un
buon numero di difficolt: prima di tutto, la resa di invidia come ill
will va a scontrarsi con una nutrita serie di passaggi della
letteratura latina in cui il termine non viene utilizzato direttamente
in riferimento al risentimento provato dal soggetto, bens, agli atti
concreti in cui si manifesta il risentimento stesso; in secondo luogo,
seguendo la teoria dell'Odelstierna, dovremmo, nell'espressione
invidiam facere, attribuire al verbo facere un significato come
ostendere, manifestum facere,. Come rilevato da Pariente, tuttavia,
il verbo facere arrivato al massimo a ricoprire, oltre ai suoi
significati tradizionali, anche quello dire narrare raccontare, ma solo
raramente, in epoca tarda, e come esito ultimo di un processo di
trivializzazione. Non sussistono attestazioni, invece, del verbo
facere inteso nel senso di mostrare, rivelare.
Per quanto riguarda l'aggettivo invidiosus, infine, Pariente, pur non
contestando, a livello di teoria grammaticale, l'interpretazione
morfologica

dell'aggettivo

proposto

dall'Odelstierna,

critica

le

conclusioni cui giunta la studiosa di vedere nel significato di pieno


di invidia il nocciolo semantico del termine.
Pariente, infatti, sostiene la possibilit che il significato che provoca
odio, indignazione proprio dell'aggettivo possa derivare, oltre che
dalla strada seguita da Odelstierna (dal senso cio, di invidiosus
inteso

come

plenus

invidiae),

anche

da

altre

due

possibili

alternative: la prima prevede un influsso diretto di invidia intesa

come parole o atti che provocano odio: pues, naturalmente, si


existi un invidia con ese sentido, todo lo que provocase la envidia
o el odio era porn naturaleza y esencia invidiosus.
Pariente, inoltre, riporta l'esempio di un aggettivo come odiosus il
cui significato attestato dalle fonti quello passivo di oggetto di
odio, che provoca odio.
chiaro, dunque, come, a lato del tipo normale di derivazione
aggettivale in osus con il significato- attivo!- di pieno di x , la lingua
potesse formare anche aggettivi in osus con il significato di pieno
di x... sulla base, per, di un'idea passiva originaria (che oggetto
di x).Non , dunque, improbabile che anche il termine invidia, affine
ad odio anche per l'impiego in costruzioni, passive, come est odio/
est invidiae, potesse formare un aggettivo in osus con base passiva
originaria; base che, naturalmente, llevaba implicita la significacin
attiva <<lo que provoca odio>>.
Il significato di plenus invidiae piuttosto da ricercarsi, pi che in
invidiosus, che ha principalmente senso passivo, nell'aggettivo
invidus, che ha sempre valore attivo.
Le critiche pi forte alle teorie della studiosa vennero per poste dal
curatore del lessema invidia per il ThlL, Stiewe, il quale non solo,
come abbiamo avuto modo di vedere, ha riservato uno spazio
intero, sotto la voce passiva del termine, all'accezione della parola
sotto il profilo forense e retorico, ma confut a pi riprese la teoria
dell'Odelstierna (con espliciti vix recte Odelstierna presenti nel
ThlL). In generale, possiamo dire che lo studio di Odelstierna, pur
contenendo certamente spunti ed analisi interessanti, riconosciuti
anche dai critici, viene a rappresentare, con il suo estremismo
semantico, el movimiento pendular extremo hacia el lado opuesto
rispetto alla tesi del Wistrand.

In seguito, studi e lavori come quelli di Pschl, Weische ed


Hellegouarc'h,

finirono col consacrare la parola invidia come

termine tecnico del linguaggio politico della societ romana.


Gli studi sull'invidia e sulla sua famiglia lessicale fin qui menzionati
hanno contribuito ad evidenziare e sottolineare ulteriormente la
ricchezza e lo spessore semantico del termine, chiaramente
evidenziato dal Thesaurus.
Invidia pu avere valore attivo, passivo, dinamico; pu indicare il
sentimento bieco e gretto presentato e descritto da Aristotele, ma
pu anche indicare lo sdegno ed il risentimento; invidiosus pu
avere valenza attiva (raramente), passiva e dinamica, mentre dal
punto di vista semantico eredita le ambiguit del termine da cui
deriva. Invidere pu indicare l'azione dell'invidiare, ma anche
quello, derivato, di negare, rifiutare, togliere per malevolenza; in
alcuni passi pu anche presentare il significato etimologico
originario di gettare il malocchio.
A questo proposito, interessante lo schema proposto da Kaster. Lo
studioso rileva come, all'interno del phthonos-script di invidia, sia
possibile rinvenire l'impiego del sostantivo, dei due aggettivi
invidus ed invidiosus, del verbo invidere. Nel nemesis script, invece,
compaiono principalmente invidia ed invidiosus, mentre sono rare le
attestazioni di invidere ed addirittura nulle quelle di invidus.
La ricchezza semantica della famiglia lessicale di invidia ha
permesso, anche nel mondo latino, lo stesso fenomeno che
abbiamo gi visto verificarsi in quello greco, la possibilit, cio, di
slittamenti semantici continui dei termini, spesso anche all'interno
di medesimi contesti (al variare, naturalmente, del soggetto cui
viene riferito il sentimento). Questo fenomeno risulta essere

particolarmente intenso e presente soprattutto in due ambiti:


quello, ancora una volta, politico e quello delle lamentazioni funebri.
A proposito di quest'ultimo, Kaster riporta numerosissimi esempi di
invidia-nemesis provata o aizzata contro gli dei, per la morte di una
persona cara:
Una buona testimonianza , ad esempio, fornita dall'Epicedion
Drusi.
Alla morte di Druso, afferma l'autore anonimo del componimento,
gli dei si nascosero nei loro templi, perch avevano vergogna di
incrociare gli sguardi degli officianti il funerale, temendo la loro
invidia: Dique latent templis neque iniqua ad funera vultus/
Praebent nec poscunt tura ferenda rogo:/ Obscuros delubra tenent;
pudet ora colentum/ aspicere invidiae, quam meruere, metu..
Indipendentemente dalla resa precisa del termine invidia, che pu
essere reso come sdegno, indignazione ( a mio parere resa migliore
rispetto a quella di eccitazione dello sdegno), oppure come accuse,
critiche, parole piene di indignazione, comunque evidente, in
questo passo, la presenza dello nemesis script. giusta indignazione
che gli uomini provano, e scatenano, contro gli dei, rei di averli
privati di un caro. Qui, naturalmente, la prospettiva cui si guarda
all'azione quella degli uomini, tanto vero che, viene detto, gli dei
si vergognano di assistere al funerale, che come dire, passando
dal piano letterario a quello della realt e della concretezza
dell'avvenimento, che gli dei dovrebbero vergognarsi di ci che
hanno fatto.
Questa menzione degli dei che si vergognano, o dovrebbero
vergognarsi, delle loro azioni, permette di capire la motivazioni che,
nella grande maggioranza delle attestazioni, sembrano muovere gli
dei a causare la morte di una persona o la perdita di un qualcosa di

caro. Secondo Kaster, infatti, contrariamente a ci che accade nella


letteratura greca, dove gli dei di Eschilo ed Erodoto colpiscono
principalmente chi cerca di avvicinarsi al loro status, superando i
confini ed i limiti umani e, dunque, peccando di hybris (ma,
abbiamo visto, le cose non sono cos immediate neppure in questo
campo), ed eccezion fatta per pochissimi casi in cui la letteratura
latina riprende il medesimo pensiero (tra l'altro a proposito di
condottieri stranieri come Annibale ed Alessandro), il sentimento
attribuito agli dei nella maggior parte delle fonti latine sembra
effettivamente essere quello di invidia malevola, privare qualcuno
di un bene perch un bene, o privarlo perch non si vuole che egli
ne usufruisca122; la conclusione cui giunge lo studioso mette bene in
evidenza le interconnessioni tra i diversi aspetti di invidia: that the
gods are so taken to act out phthonos script invidia makes them
plausible targets of nemesis- script invidia.
Un passo della congiura di Catilina di Sallustio offre un esempio
dello stesso processo, di natura, questa volta, politico-sociale: ea
res in primis studia hominum adcendit ad consulatum mandandum
M.Tullio

Ciceroni.

Namque

antea

pleraque

nobilitas

invidia

aestuabat,et quasi pollui consulatum credebant, si eum quamvis


egregius homo novus adeptus foret. Sed, ubi periculum advenit,
invidia atque superbia post fuere.
Naturalmente,

adottando

l'ottica

dell'autore,

la

concezione

dell'invidia provata dai nobili non potr essere che quella dello
phthonos-gelosia; sentimento malevolo, dunque, come confermato
dall'accostamento con il termine superbia, proprio di chi non vuole
condividere il proprio status con altri, custodendo gelosamente le
122 Cfr Carm.Epigr. 54. 2-3; Prop. 1.12. 7-9; Vell.Pat. 1.10.4; Sil. Pun. 4.397-400, 12. 236-238,
14 .580-584; Val.Flacc. 2.. 375-377, 3. 306-308. Analoga la concezione dell'invidia fati, per
la quale Cfr.., e. g., Ov. Pont. 2. 8.57-60; Sen. Apoc. 3. 2; Phaedr. 5. 6; Plin. NH 35. 92, 35.
196; Stat. Theb. 10. 384-385; Stat. Silv. 2 .1.120-122. invidia Fortunae:

proprie prerogative. chiaro, per, che, assumendo la prospettiva


dei nobili presentati nel testo, il sentimento da loro provato sar
stato anche quello di phthonos-invidia, ma certamente, in ogni
caso, vista la facilit del mascheramento emotivo dell'invidia di cui
abbiamo parlato, esso si sar configurato, nella loro ottica, come
nemesis invidia.
I nobili, insomma, avrebbero visto negli homines novi pronti ad
ascendere alle massime magistrature repubblicane, un segno di
sovvertimento dell'ordine sociale costituito: ci li avrebbe spinti,
inevitabilmente, a provare nemesis-invidia contro di loro.
Un altro esempio citato da Kaster costituito da un passo del De
humanitate et clementia di Valerio Massimo, in cui viene descritta
la clementia di Cesare nei confronti dei suoi nemici. In particolare,
viene detto, questa fu la reazione di Cesare all'udire la morte di
Catone: Catonis quoque morte Caesar audita et se

illius gloriae

invidere et illum suae invidisse dixit.


Per quella che Kaster definisce come la Valerius's overall historical
sensibility, sentimental and soaked in kitsch as it is.. il termine
sarebbe da intendere nel

senso, presente anche nelle lingue

moderne, di invidia benevola, cio come desiderio di emulazione,


ammirazione per l'altro. Se proviamo ad assumere la prospettiva di
Cesare, dobbiamo ricordare, sostiene Kaster, che Cesare era pur
sempre l'autore dell'Anticato, e che, dunque, quando affermava di
invidiare la condizione del rivale, non fosse del tutto alieno dal
provare invidia malevola nei suoi confronti, trattandosi, pur sempre,
della sua (di Catone) gloria. Lo stesso Catone, pur seguace della
dottrina stoica, poteva, da essere umano, provare invidia per la
gloria di Cesare; anche l'invidere di Catone poteva nascondere uno
phthonos-script di invidia. Il suicidio di Catone, tuttavia, rientrava, al

contempo, nella tipica casistica di gesti, estremi in questo caso, che


potevano produrre indignazione contro qualcuno, configurandosi,
dunque, come nemesis.
secondo libro delle Metamorfosi di cui ci occuperemo, ritengo si
possa riprendere il filo della narrazione dantesca che avevamo
interrotto al secondo paragrafo, per cominciare ad analizzare la
figura

di

Aglauro.

Vedremo

come

la

descrizione

ovidiana

dell'episodio che vede protagonista la giovane ateniese aiuter non


solo ad osservare altri aspetti dell'invidia romana, come la sua
connessione con la vista, il suo collegamento con la tematica della
gloria letteraria, o la descrizione particolareggiata delle sofferenze
della fanciulla, che ricalca gli stilemi classici della sofferenza degli
invidiosi nel mondo antico, ma permetter , anche, una conferma
della polisemia insita nel termine, con le oscillazioni che abbiamo
avuto modo di notare nelle fonti studiate.
Di queste ambivalenze e slittamenti semantici avremo modo di
occuparci nell'analisi del testo ovidiano, proprio perch in esso, a
mio modo di vedere, il termine invidia si carica di volta in volta, a
seconda del soggetto che prova invidia, di sfumature differenti, le
quali

fanno

oscillare

il

significato

del

termine

dall'invidia

propriamente detta alla gelosia, alla indignazione. Queste differenti


accezioni del termine non devono, naturalmente, in relazione a
quanto

osservato

sinora,

essere

viste

come

specificamente

ovidiane: piuttosto, Ovidio sembra approfittare della polisemia del


lessema per giocare, nei rapporti interpersonali tra i personaggi del
secondo libro, con le differenti accezioni del termine, gi conosciute
ed ampiamente diffuse nella lingua latina.
Queste riflessioni permettono di scorgere nella storia di Aglauro un
livello di complessit, quanto meno semantica, maggiore rispetto a

quanto non rilevato da alcuni critici e commentatori che hanno


constatato, sic et simpliciter, l'invidia

provata da Aglauro nei

confronti della sorella e quella della dea Giunone verso la stessa


Aglauro, senza considerare le implicazioni che poteva comportare
l'attribuire invidia a due personaggi distinti, mossi da finalit ed
obbiettivi differenti all'interno del racconto.
Torniamo, dunque, per iniziare a conoscere il personaggio di
Aglauro, al Purgatorio.

Aglauro: Dante e Ovidio.


Il quattordicesimo canto del Purgatorio dominato, pressapoco
interamente, dalle figure di Guido del Duca e Ranieri da Calboli.
I primi 129 versi del canto sono infatti dedicati al colloquio tra i due
nobili e Dante, colloquio incentrato su tematiche politiche e sociali.
Solo a partire dal verso 130, quando Dante e Virgilio sono ormai
rimasti soli, il poeta presenta la serie degli esempi di invidia punita i
quali, a differenza di quelli della carit, vengono pronunciati a voce
altissima, gridati.
Dante presenta due esempi, tratti dalle sue due principali fonti di
ispirazione: La Bibbia e le Metamorfosi di Ovidio.
Il primo esempio, quello derivante dal testo biblico, costituito
dalla vicenda di Caino, che, per invidia, uccise il fratello. La sua
storia rappresenta, allinterno della Divina Commedia, lacm di
degradazione cui pu spingere il risentimento invidioso. Caino,

infatti, nella Bibbia, uccide direttamente, con le sue stesse mani, il


fratello, colpevole, ai suoi occhi malati, di godere delle grazie di Dio.
Nessun ricorso alla delazione, nessuna interposta persona, nessuna
intermediazione

tra

invidioso

invidiato:

linvidioso

agisce

direttamente, e nella maniera pi grave e violenta, contro la


persona da lui invidiata.
Terribile il gesto da lui compiuto, terribile la condizione in cui viene
presentato da Dante: a causa dellorribile delitto da lui commesso
chiunque potr farsi esegutore del suo castigo. La sua punizione
consiste nella attesa perenne della punizione stessa.
Diversa, ma in parte simile, la figura di Aglauro: simile, perch,
anche in questo caso, lepisodio citato da Dante si inserisce, nella
fonte di pertinenza, allinterno di un contesto intimo, familiare,
domestico: linvidia di Aglauro riguarda, infatti, la sorella Erse.
Comune ad entrambe le vicende, inoltre, loggetto suscitatore
dinvidia, cio il rapporto stretto tra Dio, nel monoteismo cristiano,
una dio (hermes), nel politeismo pagano, ed un essere mortale
(rispettivamente Abele ed Erse).
Mentre per, come abbiamo detto, la punizione di Caino si snoda su
due piani temporali distinti, in quanto la punizione presente si
concretizza nellattesa della punizione futura, la punizione di
Aglauro viene descritta nel suo essersi compiuta, nel suo essersi gi
realizzata. Nel testo ovidiano sar possibile notare un processo
punitivo, riguardante appunto Aglauro, che si snoder in due fasi
diverse, laddove il processo litomorfico verr a manifestarsi come
conseguenza estrema, ultima anche sul piano temporale, di un iter
degradante e corruttivo gi precedentemente iniziato e descritto. La
pietrificazione di Aglauro, che in Dante appare nella sua puntualit,
come atto compiuto e realizzato (divenni), infatti in Ovidio

processo ed azione ampiamente descritta nel suo insinuarsi,


formarsi

plasmarsi.

Questo

aspetto

incoativo,

tratto

che

caratterizza per altro, molti (ma non tutti) processi metamorfici


allinterno dellopera ovidiana, si carica per, nellepisodio di
Aglauro, di una complessit maggiore, inserendosi, completandolo
al contempo, in un altro processo, unaltra metamorfosi potremmo
dire, che interessa la figlia di Cecrope: quello, vale a dire, innestato
dallinsorgere dellinvidia, linvidia personificata, nei precordi della
giovane ateniese. Questo procedimento pare essere dettato, oltre
che

da

esigenze

narrative,

anche

dalla

particolare

natura

dellinvidia, che, a differenza di altre passioni forti presentate nelle


Metamorfosi, come lira, ma anche come lamore, appare meno
violenta,

meno

esplosiva,

ma

pi

continua,

un

sentimento

strisciante che si diffonde e pervade lintera figura di Aglauro,


devastandola sia interiormente che allesterno, nella sua figura,
nella sua persona, nei suoi stessi tratti somatici. Ovidio ha dunque
trovato, nella particolare fenomenologia dellinvidia, nel suo tipico
manifestarsi e diffondersi a poco a poco allinterno dellanimo e del
corpo, nel suo modificare progessivamente ed inesorabilmente
gesti, atti, azioni e pensieri, unintrigante materia di analisi ed
osservazione, materiale che ben poteva prestarsi, tra laltro, ad
essere inserito allinterno di un racconto metamorfico, in quanto
esso stesso, in fondo, gi metamorfico. Aglauro, insomma, si
trasforma due volte, quando inizia ad invidiare, e quando smette di
farlo, dopo essere stata trasformata in pietra da Mercurio. Eppure,
anche dopo la litomorfosi, linvidia continuer a lasciare, come
vedremo, traccia di s nel corpo rigido ed indurito della Cecropide:
La pietra nella quale viene mutata lateniese, non . infatti,
sottolinea Ovidio, di colore bianco, perch la sua mente, sconvolta

dallinvidia, laveva oramai irrimediabilmente infetta. Linvidia,


dunque, sembra voler sottolineare il poeta con questa bella
immagine una passione che inquina, una forza in grado di mutare
e trasformare completamente lessenza stessa della persona che ne
affetta e colpita. Certo, unimmagine cos vivida ed icastica
dellinvidia e dei suoi effetti non poteva non impressionare
lAlighieri, assiduo lettore di Ovidio, il quale dal poeta latino sembra
aver ripreso non solo la semplice figura di Aglauro assurta a
paradigma di invidia punita, ma anche limmagine dei penitenti
purgatoriali con manti al color della pietra non diversi; non una vera
e propria metamorfosi, in questo caso, ma una sorta di mimetismo
cromatico che pura inganna Dante, per il quale le ombre degli
invidiosi sembravano fondersi con la roccia formando un tutto
indistinto; sembravano davvero, insomma, essere pietra.
Aglauro nel secondo libro delle Metamorfosi
Se, nel passo del Purgatorio che abbiamo appena analizzato,
Aglauro appare e scompare, come fulmine subitaneo, dopo aver
assorto la sua funzione ammonitrice e paradigmatica, nelle
Metamorfosi il personaggio Aglauro compare ben due volte, in due
episodi diversi, narrati e presentati da due narratori diversi,
allinterno del medesimo libro, il secondo.
La prima presentazione di Aglauro avviene allinterno di un contesto
di significativa complessit narrativa: il poeta, narratore di primo
livello riprende, nei primi 409 versi del II libro, la narrazione della
tragica vicenda di Fetonte, interrotta alla fine del primo libro; a
partire dal verso 409, comincia un nuovo filone narrativo, incentrato
su uno dei temi

principali, se non il tema principale, delle

Metamorfosi: le avventure erotico-sentimentali degli dei nellottica


di rapporti extraconiugali.
A dare inizio allintera sequenza nel secondo libro proprio il padre
degli dei, Giove, che, nel suo giro perlustrativo delle grandi mura
del cielo al fine di determinare lo stato conservativo delle stesse
dopo il disastroso passaggio del carro senza controllo guidato da
Fetonte, scorge, rimanendone profondamente colpito, una vergine
di Nonacra, Callisto (vv. 381-410).
I versi seguenti, sino al v. 530, sono incentrati sulla drammatica
vicenda della stessa Callisto, il suo disperato tentativo di resistere
alla violenza perpetrata da Giove, la scoperta dei segni della
violenza perpetrata ai suoi danni da parte delle ninfe compagne di
Diana

Cinzia,

la

nascita,

frutto

dello

strupo,

di Arcade,

la

trasformazione di Callisto trasformata in orsa da Giunone, pazza di


gelosia a causa della scappatella del consorte Giove, l incontro,
angoscioso e drammatico tra madre-orsa e figlio cacciatore nelle
selve, il loro catasterismo ad opera dello stesso Giove.
La vicenda di Callisto termina poi, con una coda finale, nella scena,
immediamente successiva, di Giunone che, adirata per la sorte
toccata alla rivale damore, si reca presso le divinit marine Oceano
e Teti, chiedendo loro di impedire la discesca nei gorghi azzurri della
costellazione dellOrsa (vv. 508-530). Gli dei del mare acconsentono
e Giunone torna a solcare il limpido cielo alla guida del suo cocchio
tirato da pavoni screziati (vv.531-534); ed proprio da questa
ultima immagine, quella cio delle penne pictae (v.533) dei pavoni,
che il poeta trova il punto di collegamento, il pretesto narrativo
potremmo dire, che permette il passaggio ad una nuova sequenza
narrativa, dominata dalla figura della cornacchia, nella sua triplice
veste di protagonista, narratrice e nuovamente protagonista,

agente allinterno di una delle storie da ella stessa narrate.


Limmagine del pavone prima candido e poi screziato ricorda infatti
ad Ovidio la vicenda del corvo chiacchierone, al quale le ali, in un
primo tempo bianche proprio come quelle dei pavoni, erano state
rese nere da Apollo, a mo di punizione per una colpa commessa
dalluccello (vv. 536-541).
Proprio dal corvo avr inizio il successivo segmento narrativo,
dominato dallincontro del corvo stesso con la cornacchia.
Questa transizione (cos come molte altre nel poema) parsa, alla
critica moderna, ma anche gi a quella antica, ingenua ed
insoddisfacente123.
misconosciute

Certamente non possono essere taciute o

le

numerose

occorenze,

allinterno

delle

Metamorfosi, nelle quali la transizione tra una storia e laltra appare


essere legata alle esigenze del carmen deductum, della perpetuitas
carminis, configurandosi come espediente narrativo piuttosto che
come effettivo collegamento tra le storie narrate. La transizione
narrativa

spesso

tenue,

legata

al

movimento

fisico

(e,

conseguentemente, narrativo) di un personaggio da una vicenda


allaltra, oppure, in altri casi, da veri e propri agganci artificiali,
predisposti ad hoc dal narratore principale; eppure, sottolineare la
marcata componente narrativa delle Metamorfosi non comporta,
necessariamente, la sottolineatura della loro assoluta artificiosit,
del risolversi assoluto del testo in essa. Il trattamento del mito in
123 Per quel che concerne la critica antica, celebre il giudizio di Quint. Inst.or. 4.1.77 (giudizio,
questo, incentrato sul ruolo generale delle transizioni nelle Metamorfosi): illa vero frigida et
puerilis est in scholiis adfectatio ut ipse transitus efficiat aliquam utique sententim et huius
velut praestigiae plausam petat, ut Ovidius lascivire in Metamorphosesin solet; quem tamen
excusare necessitas potest, res diversissimas in speciem unius corporis colligentem. Per gli
orientamenti moderni della critica, sostanzialmente concordi con il giudizio di Quintiliano, Cfr
F.J. Miller, Some Features of Ovids Style, CJ 16 (1920-1921), pp. 464-476; J.M.Frecaut, Les
transitions dans les Metamorphoses dOvide, REL 47 (1968), pp. 247-263; E.J.Kenney, The Style
of Metamorphoses, in Ovid, Greek and Latin studies: Classical Literature and Its Influence,
Londra 1973; G.K.Galinsky, Ovids Metamorphoses: An inroduction to the Basic Aspects,
Bekeley-Los Angeles 1975, pp.42 e 79-109.

Ovidio ha certamente perso molto di quella componente educativoformativa cos presente, invece, nella tragedia greca, nellepica
arcaica nonch, ancora ai tempi di Ovidio, nellEneide virgiliana.
Tuttavia, io credo che questi aspetti, per quanto uniti ad una
artificiosit di linguaggio, ad un concettualismo, ad un gusto per
lartificio narrativo anchessi estranei alla tradizionale sostenutezza
linguistica tipica della gravitas epica, non

possano impedire di

scorgere, dietro le vicende metamorfiche di questa sezione, se non


proprio una indicazione morale pienamente espressa quanto meno
un indirizzo, un orientamento in tal senso.
Lintera costruzione narrativa che racchiude al proprio interno la
vicenda di Aglauro anzi efficacemente impiegata, con una fitta
rete di rimandi, paralleli, accostamenti lessicali, stilistici, tematicocontenutistici tra una vicenda e laltra, a collegare le storie tra loro
e queste, a loro volta, allInvidia, che apparir, icasticamente
descritta

rappresentata

dal

narratore,

proprio

alla

fine

dellinsieme delle vicende precedentemente descritte, quasi a


costituire una sorte di chiave e sigillo per la comprensione finale di
molte delle storie dellintera sequenza.
Abbiamo avuto modo di vedere, nellanalisi della Commedia
dantesca, limportanza assunta dalla voce e dalla vista nella
descrizione degli effetti, delle conseguenze, delle caratteristiche
stesse dellinvidia. Queste due medesime componenti, fattore visivo
e fattore fonico-vocale, torneranno con grande insistenza proprio
nella intera sequenza narrativa che prenderemo in esame, a
cominciare, come efficacemente messo in luce da Keith, autrice di
un

fortunato

commento

al

II

libro

delle

metamorfosi,

dal

collegamento testuale che permette lo shift, il passaggio, dalle

vicende di Giunone, temporaneamente abbandonata dal narratore,


a quelle del corvo.
Il passaggio, come gi anticipato, tra le vicende di Callisto e quelle
del corvo fornito da un accostamento di tipo ornitologico, a sua
volta giustificato da considerazioni cromatiche. Laccostamento
indicativo della mentalit fluttuante del narratore Ovidio, dei suoi
<<desultori processi analogici>>.

Locchio del lettore, dinnanzi

alla scena solenne di una divinit trainata da un carro, viene


invitato a soffermarsi sul traino del carro stesso, formato da pavoni
screziati, esattamente come, un tempo, bianche erano le piume del
corvo.
Ogni aspetto del reale, ogni sua componente pu costituire lorigine
di nuovi racconti, di nuove narrazioni, in un rapporto continuo ed
incessante tra le varie realt, le varie componenti del mondo:
Di maris adnuerant. Habili saturnia curru
ingreditur liquidum pavonibus aethera pictis,
tam nuper pictis caeso pavonibus Argo,
quam tu nuper eras, cum candidus ante fuisses,
corve loquax, subito negrantes versus in alas.
Il parallelo immediato con lEcale di Callimaco, testo che
costituisce la fonte, come meglio vedremo in seguito, di questa
sezione specifica delle Metamorfosi.
Anche nellEcale troviamo, infatti, in una sezione apparentemente
slegata dalle vicende principali dellepilio ellenistico, un dialogo tra
due uccelli; sempre in essa, inoltre, uno dei due interlocutori, una
cornacchia (), profetizzando la futura punizione del corvo

(), accosta loriginario candore delluccello alla purezza di tre


elementi naturali:
,
,

La ripresa evidente, oltre che per gli aspetti contenutistici, anche
per quelli formali; Il poeta latino, tuttavia, opera sul testo, sul suo
modello letterario, sostituendo due elementi della comparazione
originaria (la spuma del mare ed il latte) con altri due uccelli che, in
aggiunta alla figura del cigno, lunica conservata rispetto al modello
ellenistico, costituiscono un confronto esclusivamente inerente al
mondo ornitologico. Ora, proprio in questo confronto, che trova la
propria

origine

giustificazione

in

osservazioni

cromatiche,

possiamo trovare, in nuce, quello che diverr lelemento chiave e


dominante della sequenza successiva, incentrata sui temi della
delazione, dellindiscrezione e dellusus vocis. le oche (anseres),
infatti, vengono s introdotte e presentate come uccelli candidi, il
tertium comparationis che permette il raffronto con la natura
originaria del corvo rimane sempre quello della purezza del
piumaggio;

eppure,

proposito

di

esse,

Ovidio

ricorda,

proiettandolo nel futuro (servaturis, v.539), lepisodio chiave della


preservazione del Campidoglio dalla razzia barbara, episodio del
quale, come ricordato anche da fonti storiche, componente
fondamentale fu quella della vigili voce degli uccelli:
corve loquax, subito nigrantes versus in alas.
nam fuit haec quondam niveis argentea pennis

ales, ut aequaret totas sine labe columbas


nec servaturis vigili Capitolia voce
cederet anseribus nec amanti flumina cygno.
Come giustamente sottolineato da Keith, la collocazione, a livello
testuale, della vigili voce delle oche tra le due attestazioni della
loquacit del corvo: <<explicitly contrasts the gooses appropriate
use of his vox with the ravens inappropriate use of his lingua>>.
Ovidio, dunque, introduce gi, sia pur in manier indiretta ,
allinterno del paragone tra gli uccelli, sorto da osservazioni e
considerazioni di tipo squisitamente cromatico, il tema-chiave della
voce. Elemento, questo, che viene poi esplitamente presentato ed
introdotto nei due versi successivi, appena terminato il confronto:
Lingua fuit damno: lingua faciente loquaci,
qui color albus erat, nunc est contrarius albo.
Lintera sequenza, dal verso 535 al verso 541, pu essere
considerata una sorta di introduzione generale alla storia che il
poeta si accinge a presentare, introduzione nella quale vengono ad
essere presentati e messi in luce tutti gli elementi fondamentali
delle vicenda in oggetto: al verso 535 viene presentato lattore
principale con il suo attributo chiave: la storia che sta per essere
narrata tratter, ci viene detto, di un corvus loquax; nello stesso
verso, viene poi presentato lavvenimento fondamentale che lo
vede direttamente coinvolto, una sorta di metamorfosi cromatica
del corvo che ha visto improvvisamente mutare le sue ali da
bianche in nere; con il confronto tra uccelli dei versi 536-539 viene
presentata la condizione iniziale del corvo, il suo candore originario,

la sua purezza; infine, con la coppia di versi 540-541 viene


presentata la causa della trasformazione, gi anticipata, come
detto, nel paragone precedente: Lingua fuit damno. Questi due
versi non sono, in fondo, nientaltro che lesegesi del verso 535: per
riprendere una terminologia specificamente aristotelica potremmo
dire che essi includono nella prospettiva del to dioti quegli stessi
due elementi, la loquacit e la trasformazione, che al verso 535
erano stati presentati nella prospettiva del to oti: se in questultimo
verso, insomma, viene presentato un corvo chiaccherone che ha
visto mutare le sue ali, negli ultimi due versi della sequenza
introduttiva ci viene detto che il corvo ha mutato le sue ali perch
chiaccherone. Ovidio, in questi sezione, ha dunque gi presentato la
storia prima ancora di narrarla: ha anticipato chi si trasformer,
quale fosse la sua condizionale di partenza, quale quella post
metamorfica, ed anche quale sia stata la causa del suo mutamento.
Ai versi 542-544 comincia la narrazione vera e propria delle
vicende.
Pulchrior in tota, quam Larissaea Coronis,
non fuit Haemonia:placuit tibi, Delphice, certe
dum vel casta fuit vel inobservata.
il tema di partenza , ancora una volta, quello di una storia damore
tra un dio ed una fanciulla; gli attori protagonisti sono, nel caso
specifico, Apollo e Coronide: ma la storia damore tra i due dura,
quanto meno a livello testuale, pochissimo. Al poeta non interessa,
differentemente da quanto si verifica in numerose altre occorenze
delle Metamorfosi, soffermarsi sulla descrizione dellinnamoramento
di Apollo, sugli effetti che la vista della vergine crea in lui, sulla

presentazione di un incontro amoroso: tutti questi aspetti vengono


riassunti nel testo, in maniera estremamente sintetica, con un unico
verbo: placuit: Anche la colpa di Coronide, ladulterio ed il
tradimento di Apollo viene evocato, suggerito pi che presentato
nei fatti, attraverso lespressione dum vel casta fuit.
Ad Apollo Coronide piacque (ed in questa espressione sono
evidentemente condensate tutte le immagini, starordinariamente
icastiche, legate alla sfera erotico-sentimentale che troviamo in
numerose altre vicende del poema) finch rimase pura (sfera,
questa delladulterio, a proposito della quale, vale il discorso fatto in
precedenza, molto pi diffusamente si sofferma il poeta in
numerose altre occorenze). La storia damore tra Apollo e Coronide
dura, in fondo, il tempo di due emistichi. E dura tanto poco, perch,
nel caso di specie, dovr costituire solamente lo sfondo di
riferimento del tema principale: quello, come detto, della delazione,
di un cattivo usus vocis. Latto della delazione viene, infatti,
introdotto subito allinterno della vicenda damore, attraverso il
participio inobservata (v.544), enfaticamente accostato, per il
tramite della disgiuntiva vel, al casta precedente. In tal modo viene
sottolineata limportanza del ruolo del delatore e della delazione
stessa nella cessazione, che vedremo essere tragica, della vicenda
sentimentale: Febo Apollo fu innamorato di Coronide finch ella si
mantenne casta o almeno finch non fu spiata124. Coronide poteva
quindi, sembra possibile desumere dal testo, conservare laffetto di
Apollo mantenendosi pura e non tradendolo, ma, anche una volta
traditolo, sarebbe potuto rimanere lamata del dio, se solo non fosse
stata osservata. Ed proprio in questo punto che Ovidio riprende il
124 Significativa la correlazione vel-vel del verso 544: dum vel casta fuit vel
inobservata.

personaggio chiave, il corvo, presentandolo con la perifrasi aves


Phoebeius; perifrasi informativa, questa, perch aggiunge una
notizia importante a quanto detto in precedenza; Il corvo era
luccello favorito di Apollo, era dunque legato in maniera diretta al
dio (vedremo come questo aspetto, un rapporto di particolare
affetto e legame ad una divinit, si presenter con grande
insistenza nelle vicende della sezione testuale che sta per aprirsi).
Luccello scopre la tresca e si reca spedito a denunciare il tutto ad
Apollo
(vv. 545-547). Nel suo tragitto viene per intercettato dalla
cornacchia, la quale viene subito presentata da Ovidio nel suo
attributo

fondamentale

per

il

passo

in

oggetto:

garrula,

chiaccherona.
.. sed ales
sensit adulterium Phoebeius, utque latentem
detegeret culpam, non exorabilis index
ad dominum tendebat iter; quem garrula motis
consequitur pinnis, scitetur ut omnia, cornix,
auditaeque viae causa << Non utile carpis>>
inquit <<iter: ne sperne meae presagia linguae>>.
Garrula cornix del verso 548 richiama, in disposizione chiastica, il
corve loquax del verso 535. La ripresa di questi artifici letterari,
evidentemente, va ad inserirsi allinterno di quel contesto di
enfatizzazione dellelemento vocale-fonatorio, che abbiamo visto
essere dominante nella prima parte della sezione, e che torner,
con significativa ripresa, anche nellepisodio della manifestazione di
Invidia in Aglauro, presentandosi come concreta possibilit di

realizzazione pratica della stessa nellatto, anche questo ripreso


dalla vicenda di Coronide, della delazione.
In questa sezione testuale, Ovidio, con magistrale architettura
narrativa, crea un gioco di piani temporali davvero suggestivo,
sfasando, di fatto, le prospettive di tutti i protagonisti principali
della vicenda, nonch del lettore stesso: Il narratore di primo livello,
Ovidio,

onnisciente:

conosce

quale

sar

lesito,

infausto,

dellintera vicenda e ne rende edotto il lettore, come abbiamo visto.


Il corvo vive la vicenda nel suo delinearsi, nel presente del suo
svolgersi, senza immaginare la conseguenza della sua azione; la
cornacchia, infine, ricorre ad un termine che gioca, evidentemente,
sullintersecarsi dei diversi livelli di consapevolezza delineati sino ad
ora: il sostantivo praesagium vale infatti, in latino sia come presagio
che come presentimento, con una sfumatura di significato che
permette di accostare, nel primo caso, la cornacchia al medesimo
campo di informazioni del narratore e del lettore (anche se il lettore
viene messo di fronte al fatto gi compiuto, mentre la cornacchia
vedrebbe compiuta nel futuro un azione comunque ancora
delineantesi nel suo tempo presente), nel secondo caso, invece, la
cornacchia rimarebbe perfettamente inserita nel tempo di sviluppo
e formazione delle vicende narrate, avvicinandosi, sotto questo
aspetto, al corvo, dal quale rimarebbe comunque distinta per
linfluenza che, in essa, riveste il campo temporale del passato,
foriero di importanti esperienze per la cornacchia, grazie alla quali
essa pu riuscire ad immaginare, quanto meno, lesito futuro dei
fatti, peraltro ga noti al lettore.
Credo si possa sostenere che, allinterno delle Metamorfosi, la
sezione costituita dai versi 534-539 rappresenti, in assoluto, uno

degli interventi di maggiore distacco del narratore primario rispetto


alla materia trattata.
Come sottolineato da Giampero Rosati, nelle Metamorfosi :<<dietro
lintreccio degli inganni e delle apparenze, il narratore tiene
saldamente il dominio della realt>>. Ovidio, infatti, interviene
spesso nella narrazione degli avvenimenti; proprio in quanto
narratore

onnisciente,

il

narratore

primario

pu

agire

sulla

trattazione di una determinata storia, anticipando lesito di date


vicende,

mostrando

gli

<<aspetti

pi

segreti

della

realt

effettiva>>, confermando o smentendo le opinioni dei personaggi


narrati.
Ovidio, tuttavia, spesso compie queste operazioni scostandosi solo
per un momento dal flusso narrativo della storia, il tempo esatto per
mandare un segnale al lettore, per mostrare il suo distacco dalle
vicende, la propria superiorit conoscitiva rispetto ai personaggi
narrati; a riprendere le parole di Vinge a proposito della storia di
Narciso, possiamo dire che spesso Ovidio <<infrange lillusione del
lettore perch fa notare la presenza del narratore>>.
proprio da questo far notare, dallapparire, spesso subitaneo ed
improvviso, del narratore, dallintrecciarsi, allinterno della stessa
storia, della visione parziale ed incompleta dei personaggi con
quella onnisciente e totalmente comprensiva del narratore, che
traggono origine alcune delle pi belle vicende delle Metamorfosi:
storie nelle quali lintervento del narrante agisce sul flusso della
storia, velando di una forte ambiguit aggettivi, verbi, sostantivi.
Lambiguit nace proprio dal fatto che i punti di vista di chi narra e
di chi narrato spesso si sovrappongono, facendo s che il
significato

di

un

determinato

termine

possa

assumere

due

sfumature diverse a seconda dellottica con la quale lo si osserva.

Da qui il gusto per il concettualismo, per la polisemia, per larguzia


verbale ed i witz stilistici che contraddistinguono in molti punti la
narrazione ovidiana. Da qui anche il gusto per lironia: <<la figura
dellironia agisce sullo scarto tra il livello di comprensione ingenuo
del personaggio ignaro del suo errore e il livello di comprensione del
lettore e dellautore che godono di una superiorit conoscitiva
rispetto al personaggio>>.
Lintervento ironico del narratore serve a <<creare un distacco
dalla narrazione, a insidiare la funzione poetica, a farla trasparire
agli occhi del lettore in un complesso gioco di profanazione>>. Il
paradigma di questa tecnica narrativa certamente costituito dalla
storia di Eco e Narciso, presentata nel III libro delle Metamorfosi. La
vicenda, celeberrima ed oggetto di uno studio approfondito da parte
di Giampero Rosati, emblematica dello straordinario virtuosismo
cui sa giungere Ovidio; sfruttando pienamente le potenzialit che
offrivano, da un punto di vista linguistico, i due temi principali della
storia di Narciso, il tema della eco e quello del riflesso e poi
dellamor sui, Ovidio crea una trama linguistico-concettuale che
avvolge il lettore, lo irretisce in <<unorgia di suoni ed effetti
speculari>>.
Narciso avvolto in una trama di inganni, di illusioni, ed il narratore
enfatizza le ambiguit di un rapporto autoreferenziale: Il bel
giovane contempla le due stelle che sono i suoi occhi, si innamora
del suo steso volto, desidera se stesso.
Lintervento del narratore nella materia narrata crea una frizione
narrativa, in virt della quale la visione del personaggio e quella del
narratore arrivano a congiungersi in un medesimo verso; cos, al
verso 420, il narratore osserva:

Spectat humi positus geminum, sua lumina, sidus


Il soggetto Narciso che contempla due stelle (geminum sidus); il
narratore per interviene nel flusso della vicenda, nel suo svolgersi,
nel suo formarsi, e delinea, con quel sua lumina, un apposizione di
geminum sidus che per poteva valore solo per il narratore e non,
almeno per il momento, per il protagonista.
L'apposizione, dunque, non ha un valore meramente formale:
delinea, anzi, un cambio di prospettive, un blocco temporaneo del
flusso narrativo, un estrinsecarsi del narratore dalla storia.
Ancora pi efficace lintervento di Ovidio nelle espressioni dei versi
425-426:
Se cupit inprudens et, qui probat, ipse probatur,
dumque petit, petitur...
Narciso ancora non era giunto alla consapevolezza dellinganno cui
era soggetto, per cui, nei due versi in oggetto, la prospettiva del
personaggio identificata solo dai verbi di forma attiva probat e
petit; le forme medio passive sono un aggiunta del narratore
onnisciente. , infatti, nellottica esclusiva del narratore onnisciente
che Narciso poteva essere visto e identificato com amante di se
stesso. Solo al termine della vicenda, solo quando il protagonista
arriva ad acquisire coscienza dellidentit tra amante e amato le
prospettive di narratore e protagonista arrivano a coincidere; prima,
invece, proprio perch la narrazione scorre e fluisce, laccostamento
tra le due differenti visioni, con lo slittamento e il passaggio
repentino dallottica del narratore a quella del personaggio e

viceversa, creano una frizione ed un contrasto continuo allinterno


del testo.
Il lessico usato dagli studiosi e dai critici descrive precisamente le
modalit sottili per mezzo delle quali il narratore interviene, in
punta di piedi, su molte vicende: Ovidio fa trasparire, fa notare,
insidia la finzione poetica.

Alla base vi sempre, dunque, la

narrazione, il suo scorrere sul quale inerviene il narratore, creando


ambiguit.
Abbiamo avuto modo di vedere come, nel nostro caso specifico,
Ovidio crei, invece, immediatamente un distacco dalle vicende
allinizio della nuova sequenza narrativa del libro II, a partire dal
verso 534.
Quel distacco leggero e sottile, quellironia sfumata e raffinata che
troviamo presente, nella sua acm, nella vicenda di Narciso, qui
diventa evidente, chiara, programmatica; il lettore non deve cercare
sfumature di significato, ambiguit lessicali, tracce del narratore;
questultimo infatti, si presenta da solo, esce per otto versi (vv. dal
flusso narrativo, cristallizandolo e congelandolo, ed anticipa al
lettore gli elementi chiave della vicenda del corvo, lo scheletro dei
fatti. Riprendendo lespressione, molto citata a proposito del
continuum

diegetico

delle

Metamorfosi,

di

flusso

narrativo,

possiamo dire che, mentre in altre occorrenze (come abbiamo visto


a proposito della vicenda di Narciso) il narratore primario emerge
dalle acque del fiume della narrazione, qui invece sembra
osservarne il flusso, insieme al lettore, sulla riva.
In questa prospettiva, anche le apostrofi rivolte ai personaggi delle
due

differenti

sequenze,

Narciso

il

corvo,

presentano

caratteristiche e peculiarit loro proprie; lapostrofe a Narciso << il


manifestarsi della sua consapevolezza critica, un cosciente uscire

allo scoperto del narratore che denuncia la sua presenza e svela la


finzione cui lui stesso ha dato vita>>; serve, insomma, per creare
distacco dalla narrazione inserendosi nel corso della narrazione
stessa; lapostrofe al corvo, assieme ai versi seguenti, pone la
figura del narratore fuori dal narrato, ancora prima di cominciare a
narrare la nuova storia.
Quella stessa ironia, quello slittamento dei livelli di comprensione
tra lettore-narratore-personaggi, che in tante altre vicende trovano
viva eco sul piano del tessuto linguistico, creando <<illusione e
spettacolo>>, qui non presente: il narratore troppo distante ed
il lettore troppo informato per poter pensare alla realizzazione
efficace di giochi verbali, ad una sfumatura semantica che permetta
un accostamento di prospettive tra narratore e protagonisti delle
vicende.
Il procedimento seguito da Ovidio appare simile, sotto questo punto
di vista, alla promitio delle fabulae di Fedro, dove la morale della
storia anticipa la narrazione della storia stessa. Del corvo,
ovviamente, viene prima anticipato il processo di trasformazione
cromatica; per questo processo frutto di una colpa, ed Ovidio
anticipa anche questa. I versi 540-541 sembrano racchiudere la
morale della vicenda del corvo: lingua fuit damno: lingua faciente
loquaci, qui color albus erat, nunc est contrarius albo.
Il senso, la morale di questa favola sui generis dunque che lingua
fuit damno, la lingua ha danneggiato il corvo. Ad una atmosfera
favolistica rimanda, chiaramente, anche il dialogo tra due animali, il
quale costituisce un tratto caratteristico, un leit-motiv delle fabulae:
tra gli animali protagonisti delle favole, inoltre, troviamo, sia in
Esopo che in Fedro, anche il corvo ed significativo il fatto che,
nelle vicende che lo vedono direttamente coinvolto, il pennuto

debba sempre patire gravi consequenze e pesanti punizioni proprio


a causa della sua voce, delluso smodato della sua lingua.
Possiamo

avvicinare

questa

struttura

introduttiva

con

quella

presentata, proprio allinizio del III libro, a proposito delle vicende di


Atteone:
Dopo aver narrato, nei versi precedenti, gli avvenimenti che
portarono alla fondazione della citt di Tebe, Ovidio interviene
direttamente, rivolgendosi a Cadmo: Tebe era sorta, tu, Cadmo,
avevi per suoceri Marte e Venere, potevi contare su tanti figli e
figlie, nonch su molti nipoti; eppure, continua Ovidio, bisogna
sempre attendere lultimo giorno di un uomo per poter giudicare
sulla sua felicit.
Anche Cadmo, infatti, ebbe da patire gravi dolori:
Prima nepos inter tot res tibi, Cadme, secundas
causa fuit luctus, alienaque cornua fronti
addita, vosque, canes satiatae sanguine erili.
At bene si quaeras, fortunae crimen in illo
non scelus invenies;quod enim scelus error habet?
Anche in questo passo Ovidio si rivolge in seconda persona al
protagonista del suo racconto e, anche in questa occasione,
anticipa la metamorfosi successiva, prima ancora di cominciare a
presentarla nel dettaglio; altro aspetto che merita di essere
sottolineato la presenza, in ambedue i passi, di un giudizio, una
riflessione generale e complessiva sulle vicende; nel caso di
Atteone il giudizio incerto, oscilla tra culpa ed error, in quello del
corvo, al contrario, il giudizio molto pi netto e deciso.

Il gioco di sfasatura dei piani temporali incide in maniera importante


anche sulla natura della predizione della cornacchia.
Certo, vi sono altre occorrenze nelle Metamorfosi nelle quali al
lettore viene presentato in anticipo lesito futuro di accadimenti, per
il tramite, ad esempio, di oracoli, ammonimenti e profezie. Eppure
chi si accosti al testo, in tutti gli altri casi, viene sempre coinvolto
direttamente nella narrazione degli avvenimenti, sia perch gli
oracoli presentano, in alcune circostanze, tratti tra loscuro ed il
paradossale, sia perch, comunque, le predizioni non vengono
praticamente mai inserite in cornici narrative che presuppogano,
come loro necessaria conseguenza, scarti di piani temporali.
La profezia della cornacchia, invece, presenta sul piano narrativo,
sotto la prospettiva del lettore, la peculiarit di essere un presagio
di un avvenimento futuro, che Ovidio colloca gi nel passato
rispetto

al

tempo

della

narrazione

principale,

del

quale,

soprattutto, il poeta stesso aveva in anticipo predetto gli esiti finali.


E chiaro, dunque, che la profezia/presagio della cornacchia non ha
un valore effettivo per lo sviluppo futuro delle vicende, ma
mantiene un valore importante perch il lettore, gi informato su
tutto, pu giudicare ex post, sulla base delle proprie conoscenze, il
comportamento sprezzante del corvo.
La profezia della cornacchia, inoltre, ha la particolarit di nascere
dalla esperienza passata delluccello, acquisendo dunque credibilit
ulteriore, in quanto la cornacchia aveva avuto modo di conoscere i
rischi e le consequenze di quel medesimo tipo di comportamento ed
atteggiamento che ora vedeva manifestarsi nel corvo. Lesito di
questa complessa operazione narrativa fa si che in realt, ad essere
veramente importante nella vicenda della cornacchia sia non tanto
il futuro della predizione, ma il passato della sua esperienza, e che,

prima ancora di essere un oracolo, ella assuma il ruolo di


paradigma, di exemplum.
Proprio sotto questultima prospettiva, quella cio relativa alla
funzione di exemplum rivestito dalla storia della cornacchia,
possiamo realizzare un accostamento, significativo nella sua
diversit, con un altro passo delle Metamorfosi nel quale una storia
funge, appunto, da modello per unaltra.
Lesempio in questione tratto dalla parte conclusiva del III libro; in
essa, troviamo narrata la drammatica vicenda del re di Tebe Penteo
che si oppone ferocemente allintroduzione, nell sua citt, del culto
bacchico; lodio, lostilit, il furor di Penteo nei confronti della
divinit talmente acceso che il re arriva a pretendere addirittura
larresto del dio; al posto di Bacco, tuttavia, viene tradotto in
carcere il marinaio Acete, il quale racconta la sua storia al re:
Durante una sosta nellisola di Chio dei marinai tirreni, suoi
compagni di navigazione, avevano preso in ostaggio un bellissimo
giovane; Acete percepisce subito nel giovane la presenza della
potenza divina e cerca di opporsi al sopruso, venendo per
sopraffatto. Il giovane mostra la sua vera natura: Bacco, un dio.
I marinai promettono a Bacco di condurlo a Nasso, ma, in realt,
fingendo di puntare sullisola, cambiano la direzione della rotta. Il
dio, accortosi dellinganno che gli era stato teso, manifesta tutta la
sua potenza e punisce gli empi trasformandoli in delfini. Ad essere
risparmiato solo il pio Acete, divenuto fedele compagno del dio.
Non appena il narratore conclude la storia Penteo lo condanna a
morte; ma ecco che Acete si rivela una maschera: sotto le sue
spoglie e la sua immagine era celata, in realt, proprio la figura di
Bacco.

Il tema conduttore di queste vicende quello dellapparenza


ingannevole: i marinai ignorano che il giovane ostaggio sia in realt
Bacco, esattamente come, nella cornice della storia, il re Penteo
ad ignorare che lo stesso Bacco si nasconda sotto la figura di Acete:
<<incapace di scorgere il valore di

exemplum nella storia

perfettamente speculare narratagli da Acete-Bacco, Penteo sordo


anche alla rivelazione, alla occasione offertagli dalle parole di
Acete>>. Questultimo, infatti, per garantire la veridicit del suo
racconto relativo ai prodigi di Bacco, giura nel nome del Dio:
Per tibi nunc ipsum (nec enim praesentior illo
est deus) adiuro.
Giustamente Rosati sottolinea lambiguit lessicale dellaggettivo
praesens:

mentre,

infatti,

alle

orecchie

di

Penteo

praesens

conserverebbe il suo significato prettamente religioso di propizio, il


lettore vi coglierebbe il suo senso pi <<immediato pieno>> di
presente (presente fisicamente, nella figura di Acete). Anche in
questo caso il testo rivela la natura complessa del linguaggio, i suoi
differenti livelli e le sue molteplici sfaccettature configurandosi,
ancora una volta, come spettacolo.
Il paradigma della cornacchia, come abbiamo visto, si colloca in
tuttaltro contesto. il modello offerto dalla cornacchia chiaro e
limpido, non deve essere desunto da espressioni o frasi ambigue. In
esso il linguaggio, il suo ruolo, la sua funzione divengono piuttosto
oggetti di riflessione, elementi interni allexemplum piuttosto che
strumenti che agiscono sulla sua forma, sul suo stesso costituirsi. La
sezione di nostro interesse, dunque, presenta caratteristiche formali
che delineano, mi pare, una luce diversa sulle vicende presentate,

con un distacco temporale e conoscitivo tra lettore e protagonisti


molto pi forte e marcato rispetto a quanto non si verifichi in altre
vicende dellopera ovidiana.
Possiamo adesso passare, dopo le osservazioni formali, allanalisi
delle caratteristiche del corvo e della cornacchia. Vedremo come
alcune di esse si ripresenteranno nella figura di Aglauro e di altri
protagonisti delle vicende della nostra sezione, permettendo,
dunque, analisi comparate tra le storie che si susseguono.
Lincontro tra la cornacchia ed il corvo, che in Ovidio si protrae dal
verso 547 al verso 596, ha, come unanimamente osservato e
constatato dai commenti al passo, il suo antecedente letterario
diretto in un frammento dellEcale di Callimaco, autore tra i pi
importanti e significativi nel panorama di ricerca delle fonti delle
Metamorfosi.
Il lavoro che ha posto maggiore attenzione ai frequenti rimandi tra
testo callimacheo e ripresa ovidiana senza dubbio quello di Keith,
anche se, naturalmente, riprese ed osservazioni sono presenti gi
nei principali commenti al passo. E mia intenzione, dunque,
riprendere, nella prossima sezione, alcuni degli spunti del lavoro
della studiosa brittanica, per poter sottolineare le significative
innovazioni apportate dal poeta latino sul background testuale
ripreso da Callimaco.
I frammenti testuali pi estesi dellEcale callimachea sono stati
ricostruiti grazie ad importanti rinvenimenti papiracei. Sono perdute
22

righi

tra

Vindobonensis

la
(la

prima
quale

la

seconda

costituisce

la

colonna
fonte

della

Tabula

principale

di

informazioni sul testo), nonch undici righe tra la terza e la quarta


colonna. Non sicura la ricostruzione testuale della seconda e terza
colonna, caratterizzate da molteplici lacune.

La sezione di nostro interesse copre i frr. 70-74 Hollis:


................
............
... ..
.....
,
........
, .
,

,
;

. .... ...
71

,
.
72

73
..........
....... ....

.....
......
...., ....
... .........
...................
.
. .....
........
74

.....
... .
...... .

....
.... .
.... , ...
.

.

.

,
,
,

.
.
La frammentariet del testo tradito non permette di spingersi
troppo oltre nel campo delle osservazioni e dellanalisi; tuttavia,
come ben messo in luce nella prima parte del lavoro della Keith,
alcuni punti possono essere considerati chiari ed assodati:
Lutilizzo

delle

prime

persone

ed

delineano

chiaramente la presenza di una voce narrante alla prima persona


singolare che, come mostrato dal frammento 74 Hollis, non si
identifica

con

quella

del

narratore

principale.

Lindicazione

successiva dellispirazione delle Thriai nei riguardi della cornacchia


fa propendere nel vedere proprio nella cornacchia stessa la
narratrice di questa sezione testuale.
Discussa

lidentit

del

suo

interlocutore,

ma

un

numero

considerevole di indizi porterebbe ad identificare questultimo nella


figura della civetta; proprio la civetta, infatti, compare in un buon
numero

di

altri

frammenti

appartenenti,

quanto

meno

riconducibili, allEcale125. Oltretutto, se quello della cornacchia vuole


effettivamente essere un invito, rivolto al suo interlocutore, affinch
questo non si faccia foriero di cattive notizie, portando ad esempio
la propria condizione di ex favorita di Atena, non sembra arbitrario
arguire che luccello stesso, al quale si sta riferendo la cornacchia,
si trovi, ora, nella medesima condizione; quella, cio, di essere un
favorito della divinit. Sotto questo punto di vista, le testimonianze
di un rapporto privilegiato tra civetta ed Atena sono ampie e
numerose126.
125 Hollis frr. 77 (= fr. 326 Pf.), 167 (= fr. 519 Pf.), 168 (= fr. 608 Pf).
126 Cfr Ar. Av. 516; Ar. Eq. 1092. Utile anche Thompson, A glossary of greek birds, new ed.
Oxford, 1936, s.v . Assai significative, naturalmente, sono anche le testimonianze
numismatiche, per le quali si pu consultare B.V.Head, Historia Numorum, Oxford 1911, pp.

Il testo callimacheo, o quello che da esso traspare, presenta dunque


un dialogo tra due uccelli, uno dei quali, la cornacchia, descrive la
propria caduta dai favori di Atena a causa della delazione relativa
alle gesta empie delle Cecropidi, invita la civetta a non cadere nel
medesimo errore, ed infine profetizza, in un non lontano futuro, la
trasformazione cromatica delle ali del corvo, destinate a divenire
nere da bianche che erano.
Le analogie con il passo ovidiano sono evidentemente molteplici e
significative, sia dal punto di vista tematico (dialogo tra uccelli,
ruolo di narratore affidato alla cornacchia) sia dal punto di vista
lessicale. Significativo lo scarto dei piani temporali, per mezzo del
quale la sorte del corvo, che in Callimaco viene proiettata nel
futuro, in Ovidio si trova invece ad essere loggetto della narrazione
principale, facendo si che la cornix delle metamorfosi di fatto viva in
prima persona gli accadimenti che la korone dellecale aveva
profetizzato. In ambedue i testi, sia nella fonte che nel modello,
troviamo dunque narrazione al presente, narrazione del passato e
presagio relativo al futuro. Ad essere diverso, tuttavia, lo sfondo
generale di riferimento. In Callimaco lincontro tra i due uccelli
risponde evidentemente ad un gioco di variatio e raffinatezza
formale,

perfettamente

aderente

al

gusto

alessandrino:

<<Linserimento di animali parlanti nel poema epico (....) raggiunge


un duplice effetto: Da una parte sposta la narrazione alcune
generazioni indietro nel tempo: lesperienza della cornacchia
(fr.73,13

ss.),

come

quello

di

Nestore

nellIliade

copre

pi

generazioni umane (e con quelli di Nestore il suo discorso ha in


comune la cauta didatticit). Daltra parte, lestremo paradosso
degli animali che si esprimono ricalcando stilemi epici rappresenta
368-376. Sul rapporto tra cornacchia ed Atena Cfr. Paus. 2.11.7 e 4.34.6.

un

tour

de

force

stilistico,

toglie

spazio

agli

eventi

tradizionalmente eroici>>.
Ovidio dunque riprende un testo di gusto neoterico-alessandrino
dove il dialogo stesso nasce per esigenze di variazione rispetto al
tema eroico principale e lo adatta ad un contesto diverso, facendolo
divenire il punto di partenza di una sezione narrativa che invece
contraddistinta da una riflessione sul tema del linguaggio ed anche,
come vedremo, dellinvidia. Tensione che pu realizzarsi proprio
perch il corvo da personaggio di unazione futura diventa
protagonista di una vicenda presente, la cornacchia mantiene il
ruolo di oracolo mentre il lettore si colloca, in Ovidio ad un livello
pi alto di comprensione ed analisi, osservando, dallalto della sua
conoscenza

pregressa,

conoscendone

in

anticipi

lesito,

landamento degli avvenimenti narrati.


Il corvo loquax, inexorabilis index e la garrula cornix sono gli
interpreti e i protagonisti principali ed ideali di una sezione che si
concluder con la descrizione-rappresentazione dellInvidia e la
pietrificazione di Aglauro. La tematica della voce e del suo utilizzo
perverso, contaminato dal veleno dellinvidia, che troveremo in
Aglauro, si trova gi espresso nella cornice iniziale, nei protagonisti
dellavvenimento che costituisce la molla e lorigine stessa del
racconto dellepisodio delle Cecropidi. Ma la tematica dellusus
vocis non si limita alla cornice iniziale; essa ritorner, infatti,
nellepisodio di Chirone ed Ociroe ed anche in quello di Mercurio e
Batto, immediatamente antecedente alla vicenda stessa di Aglauro.
Lindex, letteralmente colui che indica, assume sovente, come in
questo passo, il significato di spia, delatore, con tutto lalone
dispregiativo che a questa figura strettamente connesso e legato.
Del resto, basta osservare le altre occorenze del termine nelle

Metamorfosi per rendersi facilmente conto delle conseguenze


devastanti che i delatori comportano, con il loro atteggiamento, in
molte delle vicende narrate nel poema: nel IV libro la storia damore
tra Leucotoe ed il Sole viene bruscamente oppressa dalla delazione
di Clitia

che,

dice

Ovidio,

fu

presa da

invidia,

invidit.

La

conseguenza, assai drammatica, dellinvidia di Clitia fu dunque la


sua delazione dellamore tra Leucotoe ed il Sole al padre di
Leucotoe che, furibondo e spietato, arriv addirittura a seppellire
viva la figlia; qui, come si vede, laccostamento invidia-delazione
immediato e diretto.
Nel VII libro, invece, non viene esplicitata la figura del delatore/della
delatrice, ma sempre ben in evidenza permane lesito infausto delle
delazione: Cefalo e Procri vedono crollare la loro storia damore
perch qualcuno, udendo Cefalo rivolgersi allaura, ed equivocando
il nome in Aura, riferisce a Procri la tresca segreta del compagno. La
morte di Procri sar conseguenza, anche se indiretta, della
delazione. In altri due passi la delazione viene sottoposta ad una
punizione:
Nel IV libro il Sole, delatore del rapporto amoroso tra Venere e
Marte, viene punito da Venere proprio con linnamoramento nei
confronti di Leucotoe, mentre, nel V libro, ad essere punita la
delazione di Ascalafo che, scorta Persefone a succhiare sette chicchi
di melagrana, fece la spia (impedendo la risalita di Persefone al
cielo) e venne punito con la trasformazione in gufo, uccellaccio del
malaugurio.
Possiamo notare, in molte delle sequenze presentate, una serie di
riprese incentrate su storie damore osservate furtivamente e
riferite altrettanto furtivamente (gli stessi aspetti che troviamo nel II
libro a proposito della delazione del corvo). Del resto, alla figura del

corvo veniva spesso intrisecamente legata, anche in altre fonti


letterarie, lattiva della chiacchera; significative, sotto questo punto
di vista, sono le osservazioni di Labate, il quale si soffermato sul
ruolo e le caratteristiche della figura del corax allinterno del
contesto del Satyricon di Petronio (la stessa etimologia del corvo
sarebbe, secondo le opinioni dello studioso, legata allazione del
chiaccherare: la radice di riferimento sarebbe, infatti, quella del
verbo ); ad un animale, dunque, che si distingue per la sua
voce, quasi naturale che venga attribuita, nella tradizione
popolare e nel mito, una funzione di annuncio.
Significative sono anche, in questo contesto, le altre attestazioni,
nelle

Metamorfosi,

dell'aggettivo

garrulus,

qui

riferito

alla

cornacchia.
Nel terzo libro, in una delle storie pi note e studiate dellintera
opera ovidiana, Ovidio narra le vicende di Narciso. Il giovane, figlio
della azzurrina Liriope, era ardentemente amato da fanciulli e
fanciulle. Su una di queste, Eco, si sofferma in particolare Ovidio:
Anche in questo contesto possiamo rilevare come lindicazione della
predisposizione alla chiacchiera e alla facondia da parte di Eco sia
accompagnato da una punizione che alla ninfa era derivata proprio
dal suo usus vocis:
Postquam hoc Saturnia sensit
<<Huius>>, ait, <<linguae, qua sum delusa, potestas,
parva tibi dabitur vocisque brevissimus usus>>.
Il termine si connota evidentemente di una sfumatura negativa, che
lo avvicina molto al significato di ciarla continua, pettegolezzo, nel

caso, specifico, chiacchiera vuota, destituita da ogni finalit che non


sia quella di distrarre Giunone dallo scoprire gli amori di Giove.
Laltra attestazione di Garrulitas nelle Metamorfosi si colloca nel V
libro; anche in questo caso il contesto significativo. Il termine
viene, infatti, riferito alle Pieridi, le figlie di Evippe della Peonia che
osarono gareggiare con le nove muse in una competizione canora.
In questa circostanza, per, le figure delineate come garrule non
usano la loro voce per ingannare i loro interlocutori, come fa Eco
con Giunone, ma abusano della loro voce, sfidando le muse e
ritenendosi, superbamente, ad esse superiori:
Intumuit numero stolidarum turba sororum
perque tot Haemonias et per tot Achaidas urbes
huc venit et tali committit proelia voce:
Desinite indoctum vana dulcedine vulgus
fallere! Nobiscum, siqua est fiducia vobis,
Thespiades, certate, deae.
Proprio in virt della loro folle tracotanza le Pieridi, sconfitte dalle
Muse

nel

canto,

Particolarmente

vengono

significativa

da

queste

risulta

la

mutate
scena

in
della

gazze.
loro

trasformazione: Le Pieridi non accettano la sconfitta ed assalgono le


muse:
Rident Emathides spernuntque minacia verba;
conataeque loqui et magno clamore protervas
intentare manus, pennas exire per ungues
adspexere suos, operiri bracchia plumis,
alteraque alterius rigido concrescere rostro

ora videt volucresque novas accedere silvis.


Gli esempi citati mostrano chiaramente devianze, errori nel corretto
utilizzo dellusus vocis, ma non sono i soli citabili. Altri esempi,
infatti, di distorto utilizzo del linguaggio sono offerti, dagli episodi,
simili sotto questo aspetto, di Mida e della Sibilla.
Mida chiede a Bacco di donargli la facolt di mutare in oro tutto ci
che toccher con le sue mani, la Sibilla invece, domanda a Febo una
quantita di anni di vita pari ai granelli di sabbia contenuti nelle sue
mani.
Ambedue si troveranno presto a dover fare i conti con le
conseguenze delle loro richieste: Mida non riuscir pi a nutrirsi,
mentre la Sibilla sar dannata ad una vecchiezza lunga ed
estenuante.
Un altra categoria citabile quella rappresentata dagli spergiuri:
Tra di essi troviamo Batto, i marinai che trasportano Dioniso,
Giasone, Il re di Troia Laomedonte, il re di Tracia Polimestore, i
Cercopi; tutti destinati a scontare punizioni molto severe per i loro
errori.
Possiamo dire, dunque, che il poema nel quale la voce gioca, pi
che in qualsiasi altro, un ruolo fondamentale, costituendosi, di fatto,
in un alternarsi continuo ed incessante di cornici e voci narranti; nel
quale gli artifici narrativi vengono impiegati in misura continua e
variabile,

con

metafore,

sillepsi,

ossimori,

parallelismi

ed

accostamenti vari, iperboli; nel quale parlano uomini, fiumi, dei,


ninfe, arbusti, piante, animali, ebbene, lo stesso poema mostra, al
proprio interno, le ambiguit, gli errori, le pecche e le malizie cui
pu essere sottoposto il linguaggio medesimo.

Mezzi

che

persuadono,

ammaliano,
la

voce

che

ed

il

affascinano,
iinguaggio

che

seducono

possono

per

che

anche

corrompere e distruggere; chi ne fa un uso sbagliato ne paga, nelle


Metamorfosi, conseguenze deleterie e terribili. In generale, l'intera
sezione del secondo libro contraddistinta da una sorta di
depauperamento complessivo, di straniamento della funzione del
linguaggio (oltrech della vista, come vedremo). Il corvo viene
abbandonato da Apollo perch chiaccherone, la cornacchia aveva
subito la stessa sorte, in virt dello stesso errore, ad opera di
Minerva, le parole di Minerva nella storia delle Cecropidi sono
destinate a rimanere inascoltate, le parole della cornacchia, che
aveva narrato di parole inascoltate, sono, a loro volta, disprezzate
dal corvo, la storia di Chirone anche la storia delloracolo mancato
di Ociroe, la vicenda di Batto incentrata, in fondo, su un gioco di
parole destinato a ritorcersi contro lautore stesso, quella di Aglauro
simile, per un verso, a quella di Batto, mentre, dallaltro, con la
sua pietrificazione e lirrigidimento conseguente dellapparato
fonatorio, ella diviene, con Batto, il paradigma del processo
degradante della voce: Ociro aveva si perso la voce umana e le
parole, ma manteneva pur sempre una propria voce, anche se sotto
forma di nitriti; Aglauro, invece, nec conata loqui est, nec, si conata
fuisset, vocis habebat iter.
Come si pu dedurre dalla, i motivi sottesi ad un cattivo utilizzo del
linguaggio possono essere vari: come si pu interpretare la
loquacit degli uccelli del secondo libro? Semplicemente come un
dato costitutivo della loro natura, o come un gesto causato e
scatenato da altri fattori? Una risposta a questa interrogativo pu
aiutarci a fornirla l'analisi di un

altro aspetto che sembra

caratterizzare la cornacchia ed il corvo: la loro curiositas.

Il corvo uno spione, ed anche la cornacchia, a ben vedere, non ha


perso il suo vizio originario. Era stata punita per la delazione,
scaturita dall'aver osservato di nascosto le azioni delle Cecropidi, e
nel momento in cui incontra il corvo, mostra tutta la sua curiosit
nel voler apprendere informazioni sul suo tragitto:
Ad dominum tendebat iter; quem garrula motis
consequitur pennis, scitetur omnia, cornix 127.
Emblematico il complemento oggetto legato a scitetur: la
cornacchia non vuole conoscere per sommi fatti gli avvenimenti,
non vuole avere informazioni parziali (in fondo, per presentare il suo
consiglio al corvo, sarebbe stato sufficiente conoscere la storia nei
suoi

lineamenti

essenziali),

vuole

sapere

tutto,

omnia.

Un

comportamento ed una predisposizione, questi, evidentemente


tipici di una persona curiosa. La cornacchia appare insomma
contradditoria nel suo comportamento: nel momento stesso in cui
vuole invitare il corvo a non fare lo spione, ella stessa, per prima, si
comporta da tale.
I termini curiosus, curiositas non hanno goduto, nel mondo latino, di
unaccezione particolarmente positiva, cos come, del resto, i loro
antecedenti greci 128, :
Nellapologia di Socrate, il filosofo ateniese viene accusato di
manifestare uno zelo eccessivo nello studio dei fenomeni naturali
127 Ov. Met. vv.
128Sul concetto di utile il lavoro di V. Ehrenberg,
polypragmosyne. A study in greek Politics, JHS 67 (1947) 61. Grossmann,
Politische schlagworter zur zeit des Peloponnesischen Krieges (Zurigo, 1950)
vede nella il termine di riferimento per designare la politica
attiva della democrazia ateniese, in contrapposizione allideale, proprio
dellaristocrazia, del =

(questo ardore eccessivo viene definito per mezzo del verbo


)129,mentre Plutarco, nel de curiositate130, vedr nella
il desiderio di conoscere il male degli altri. San
Agostino

nel

De

utilitate

credendi

definir

il

curiosus,

in

contrapposizione allo studiosus, come colui che studia e si occupa


di cose che non lo riguardano: ea requirit quae nihil ad se
adtinent131.
Laggettivo curiosus di attestazione rara prima di Apuleio, si trova
attestato due volte in Plauto. Importante soprattutto il passo dello
Stichus:
sed curiosi sunt hic complures mali
alienas res qui curant studio maximo
quibus ipsis nullast res quam procurent sua 132
eos omnis tam etsi hercle haud indignos iudico
qui multum miseri sint, laborent nil moror.
dicam auctionis causam, ut damno gaudeant
nam curiosus nemo est quin sit malevolus 133
Qui <<il parassita Gelasimo sta riflettendo tra il serio e il faceto
sullegemone componente malevola della natura umana, il cui
tratto distintivo proprio in uno sguardo inopportunamente attento
129 Cfr. Plat. Ap.
130 Cfr. Plut. Curios. 515 D.
131 Aug. Ut. cred. 9.22.
132 Pl. St. vv. 198-200.
133 Pl. St. vv. 205-208.

alle vicende altrui, nel tentativo, esecrabile, di cogliere il male degli


altri nel suo svolgersi>>.
Due passi, uno di Seneca il vecchio e laltro di Svetonio collegano il
termine direttamente alle figure dei delatori e degli spioni 134.
In Cicerone, il primo, tra laltro, ad utilizzare il sostantivo curiositas
in una lettera ad Attico, il sostantivo, cos come gli aggettivi e gli
avverbi di riferimento, si caricano di duplice valenza: Nel De
finibus135, infatti, lArpinate elogia entusiasta linsatiabilis quaedam
e cognoscendis rebus voluptas. Lo stesso elogio presente nelle
Tuscolane: natura inest in mentibus nostris insatiabilis quaedam
cupiditas veri videndi136. Nel De officis, al contrario, emerge la critica
rivolta allo studio di res obscuras atque difficiles. easdemque non
necessarias137. Il contrasto trova probabilmente la sua spiegazione
nella diversit delle fonti seguite dal filosofo, ora aristoteliche, con
la

loro

lode

nei

confronti

di

una

scienza

completamente

disinteressata, ora stoiche, con la loro visione di una scienza


comunque improntata a criteri di utilit.
Nelle fonti cristiane la curiositas diviene il simbolo e lemblema
dellarroganza umana che, volendo superare lunica verit, quella
rivelata dalle Sacre scritture e dallo spirito divino, si mette alla
ricerca

degli

stupisce,

arcana

allora,

il

mundi,
fatto

fallendo

che,

inesorabilmente.138

spesso,

la

curiositas

Non

venga

134 Cfr. Sen. Contr. exc.6.2 lex eum tenet, qui iuvat exulem, non qui patitur
iuvari.-ignora, dissimula: lex te innocentem esse, non curiosum iubet.; Suet.
Aug.27.3
Pinarium..
cum
contionante
se
subscribere
quaedam
animadvertisset, curiosum ac speculatorem ratus coram confodi imperavit.
135 Cic. Fin. 4.12.
136 Cic. Tusc. 1,44.
137 Cic. Off. 1.19= Panaet.frg. 104
138 Cfr. Tert. Preascr. 8.1, 14.1, 14.3; Lact. inst.2.8.70 quae vero ad curiositatem et profanam
cupiditatem pertinebat reticuit, ut arcana esset. Quid ergo quaeris quae nec potes scire nec si
scias beatior fies? perfecta est in homine sapientia, si et deum esse unum et ab ipso facta esse
universa cognoscat.

strettamente legata alleresia e agli eretici, in quanto causa di


scelte deviate, errate, contrarie alla regula fidei139.
Una delle testimonianze pi importanti, in relazione alla nostra
ricerca, quella del VII carme di Catullo. Il poeta, rivolgendosi
allamata Lesbia, la quale aveva chiesto allo stesso Catullo quanti
baci potessero mai placare il suo ardente desiderio amoroso,
introduce

un

elenco

di

elementi

naturali

contraddistinti

da

innumerabilit; questo aspetto risponde ad una duplice funzione: da


un lato, esso testimonia, con le sue esagerazioni. e le sue iperboli,
linconmensurabilit del sentimento amoroso provato da Catullo:
dallaltro, per, linconmensurabilit stessa risponde ad una logica,
rituale-superstiziosa, di allontanamento dal male e dai pericoli
derivante dai curiosi:
quae nec pernumerare curiosi
possint nec mala fascinare lingua.
Il passo importante perch allinea la fascinazione alla curiosit. I
curiosi, spinti appunto dalla loro volont di conoscere tutto e
informarsi su tutto, potrebbero venire a conoscere il numero esatto
dei baci scambiati dai due amanti, e, in tal modo, compiere malefici.
Proprio per stornare questo pericolo Catullo richiede allamata un
numero pressapoco infinito di basia. Del resto, come abbiamo visto,
gi lo stesso Stichus plautino testimoniava come curiosus nemo est
quin sit malevolus .
Il collegamento tra invidia e curiosit era gi presente in fonti
greche. In un anonimo frammento comico ad una figura non nota,
definita come luomo pi invidioso di tutti,

viene chiesto perch

139 Cfr. Hil. C. Arr. 15,25 credamus ergo quod legimus, prorsus inquirere formidemus; scribtum
est enim:<<et in multis operibus eius ne sis curiosus; Zeno. 2.4 curiositas reum efficit, non
peritum.

mai egli, con tanta curiosit, osservi le disgrazie ed i mali altrui,


mentre non si preoccupa minimamente dei propri affari:
, , , ,
;140
Filone, nel De Abrahamo141, parla di uomini che tengono le loro
orecchie ben aperte in virt della loro spiccata curiosit (
) per poter udire le gioie e le disgrazie
degli altri, nel primo caso rattristandosi, nel secondo, invece,
godendo ( , ).
Questo passo testimonia una connessione importante con un altro
aspetto, unaltra faccia, potremmo dire, dellinvidia: quella della
142.
Essa, strettamente congiunta allinvidia, consiste nella gioia,
provata dallinvidioso, alla vista delle disgrazie altrui, sentimento,
questo, ripreso dal termine latino malevolentia143, presente in
Plauto144, Sallustio145, Cicerone146.
Filone stesso definisce gli invidiosi amanti del male e delle
sofferenze altrui, odiatori del bene degli altri:
147.
140CAF Adesp. 359 (Kock III.476)=Plutarch De curiositate 515 d
141 Phil. Abr. 20-21.
142Accostamenti invidia-malevolenza gi nelle fonti greche: Cfr. Epict. 2.16.45:
, ,, ,
, , , . Cfr, inoltre, sulla definizione di
Andronic.Rhod. 5: ;
Stob. Eclog. 2,7,92 w: .
143 Il ThlL (VII 199, 34-35) riporta, tra i vari significati di invidia, anche quello di malevolentia.
Per converso, il lemma malevolentia (Th.L.L VIII 179, 1-14) riporta, tra i vari sinonimi, anche
quello di invidia.
144 Cfr. Capt. 583: est miserorum ut malevolentes sint atque invideant bonis.
145 Cfr.Catil. 3,2: malevolentia et invidia.
146 Cfr. Tusc. 4,20: voluptatis autem partes hoc modo describunt, ut malevolentia sit voluptas
ex malo alterius sine emolento suo.

147 Questa caratteristica dellinvidioso, in realt, solo apparentemente paradossale. Egli,


infatti, amando laltrui male, ama il proprio bene, proprio perch esso si identifica con il male di
chi si invidia. Odiando laltrui bene, si odia il proprio male. Ci non impedir, tuttavia, ad Ovidio
di giocare proprio su questa paradossalit di Invidia, al momento della sua presentazione e
descrizione.

A connettere ulteriormente tra loro i vari termini interviene la


testimonianza plutarchea del De curiositate, per la quale la
si identifica in un forte desiderio di udire i mali
degli altri, non rimanendo scevra, in questo modo, dalla e
dalla , manifestazioni, a loro volta, di una malvagit
generale di carattere: 148. Due orazioni di Libanio149, infine,
accostano la al verbo .
Laccostamento tra curiosit ed invidia/malevolenza dunque cos
ben testimoniato dalle fonti greche che, a riprendere le parole di
Matthew Dickie, possiamo dire che:<<It is possible that the Romans
independently made the same connection, but more probably they
took the idea over from the Greeks>>.
Il De curiositate di Plutarco descrive anche le occupazioni principali
dei curiosi: essi non prestano alcuna attenzione a matrimoni, feste,
processioni, mentre tengono le orecchie ben aperte se odono
notizie scandalose, come, per esempio, quelle relative alle liti tra
fratelli o, come ben testimoniato anche dalla nostra cornacchia, agli
adulteri150.
Visto laccostamento tra curiosit ed invidia, ed appurata, da
espliciti rimandi testuali, linnata predisposizione del corvo alla
chiacchera, alla loquacit, allindiscrezione, possiamo qualificare il
comportamento del pennuto nel II libro

delle metamorfosi come

effettivamente invidioso?
Glenn Most, in un articolo dedicato principalmente allanalisi
dellinvidia negli epinici pindarici, ha delineato nella prima parte del
suo lavoro, evidentemente a scopo propedeutico per lindagine che
148 Plut. Curios. 518 C.
149Lib. Decl. 3.85 ; ; Lib.Decl.45.5
, .
150 Plut. Curios. 518 A.

stava

presentando,

una

differenza

tra

linvidia

ed

un

altro

sentimento ad essa molto vicino e facilmente accostabile: la


gelosia. Riprendiamo le parole dello studioso su questo punto:
<<A feels jealousy when the X in question is a unique human
individual, but envy when the X is merely one member, human or
not, among others of a class of valuable objects. If I see the woman
I love walking hand in hand down the street (...) with some other
man, I will fell not envy, but jealousy; if I see an extraordinarily
beautiful woman with whom I am not in love doing the very same
thing, I will fell not jealousy, but, if anything besides admiration,
then envy>>.
Le azioni del corvo, analizzate sotto una prospettiva psicologica
moderna, sembrano dunque rientrare maggiormente nella sfera
della gelosia.
Nella vicenda che lo vede coinvolto, infatti, possiamo notare la
presenza

di quel rapporto a tre che costituirebbe lelemento di

caratterizzazione tipica di tale sentimento. Non a caso il corvo viene


presentato da Ovidio per il tramite della perifrasi aves Phoebeius, a
sottolineare il rapporto di stretta vicinanza e familiarit tra il dio e
luccello. Questo rapporto viene, per, minacciato, nella prospettiva
del corvo, dallamore appassionato che Apollo comincia a nutrire nei
confronti di Coronide, amore che rischiava di allontanare il corvo
stesso dallaffetto e dalla vicinanza con la sua divinit protrettice.
Ora, una situazione molto simile a questa pu essere rintracciata
nella gi citata vicenda di Clitia, raccontata da Leuconoe, una delle
Minieidi.
Leuconoe racconta la storia damore, appasionata ed intensa, tra il
Sole e la fanciulla Leucotoe: La narratrice si sofferma, con dovizia di
particolari, sullesclusivit del rapporto che lega il Sole alla ragazza:

proprio il dio che, pi di ogni altro, dovrebbe osservare e vedere


ogni cosa non fa che contemplare Leucotoe (quique omnia cernere
debes/Leucothoen spectas), solo su quella vergine fissa lo sguardo
a cui tutto il mondo ha diritto (et virgine figis in una/quos mundo
debes, oculus).
Lamore per Leucotoe fa dimenticare al Sole Climene, Rodo e Clizia
che, invece, proprio in quel periodo bramava fortemente di unirsi al
dio, soffrendo per il disprezzo cui era soggetta (Clytie quamvis
despecta

petebat/

concubitus

ipsoque

illo

grave

vulnus

habebat/tempore).
Anche in questo caso, dunque, ci troviamo di fronte ad una
situazione che sembrerebbe rimandare alla sfera della gelosia: un
iniziale rapporto amoroso tra il Sole e Clizia, lintervento di una
rivale, il rischio, per Clizia, di perdere lamore e le attenzioni del dio.
Al verso 234, Ovidio, per descrivere i sentimenti provati dalla ninfa
abbandonata, ricorre al verbo invidit, lo stesso verbo usato, in
latino, per indicare l azione dellinvidia.
Questa

scelta

lessicale

significativa,

perch

permette

di

comprendere le difficolt che gi gli antichi presentavano nello


stabilire distinzioni concettuali.
Il significato originario del termine e del verbo , del
resto, pu applicarsi tanto allinvidia che alla gelosia. Il verbo, in
Omero, ricorre pressoch esclusivamente nellaccezione di rifiutare,
non concedere, negare, vietare, opporsi. Questi significati sono,
seconda Cassola, slegati, in Omero, da qualsiasi collegamento e
riferimento con il sentimento di

invidia e gelosia eventualmente

provati da chi rifiuta qualcosa a qualcuno; in realt, come


testimoniato da Most, in un passo dellOdissea il verbo
ricorre due volte nel giro di pochi versi, nel primo caso con

laccezione di to wish to forbid, nel secondo, invece, con la


sfumatura, evidentemente gi presente nel termine, di invidiare gli
altrui beni .
Indipendentemente, comunque, dalle prime attestazioni effettive
del significato di invidia per lo greco, il collegamento tra le
due sfumature di significato pare abbastanza chiaro: chi prova
invidia, infatti, oltre a provare dolore per le gioie altrui, prova anche
desiderio di privare gli altri del bene in oggetto. Linvidioso, dice
infatti Aristotele, anche malevolo, e la malevolenza, come
abbiamo anticipato, si identifica appunto nel piacere che si prova
alla vista delle sofferenze altrui. In questo modo, lidea del rifiuto,
come abbiamo visto insita nel verbo , viene interpretata
come <<negazione nata da malevolenza ed invidia>>. Ovviamente
lidea del rifiuto rientra anche nellaccezione di come
gelosia: la volont di desiderio esclusivo di un determinato bene
porta al rifiuto, alla negazione di quel bene nei confronti degli altri
possibili fruitori, che, dunque, ne vengono maliziosamente ed
intenzionalmente privati.
In greco il termine che maggiormente si avvicinava alla nostra
concezione di gelosia amorosa era quello di . Sul termine
e sui suoi significati si soffermato recentemente Konstan, il quale,
in assenza di una definizione aristotelica della , ha
analizzato principalmente le definizioni che a tale parola sono state
fornite dagli Stoici. Una testimonianza importante in proposito viene
fornita dal dossografo Diogene Laerzio, il quale riporta la definizione
di come di un dolore provocato dal fatto che qualcun
altro possa godere di un bene che possediamo; simile la definizione
di Giovanni Stobeo, il quale contrappone

a :

mentre il primo concetto indica, secondo Stobeo, la sofferenza

provata alla vista di un bene altrui che anche noi vorremmo, ma


non abbiamo, il secondo termine richiama la sofferenza derivata dal
fatto che anche altre persone siano riuscite ad ottenere un bene
che noi gi possedevamo. I due termini greci richiamano, dal punto
di vista semantico, la contrapposizione tra la propria sofferenza e la
gioia altrui nonch la volont di privare gli altri di un certa risorsa
solo per malevolenza nei loro confronti. Questa definizione, come si
pu notare, non limitata, come rimarcato da Konstan, ad un
riferimento alla sfera amoroso-sentimentale n alla paura di
perdere il bene in questione, ma indica il dispiacere e la sofferenza
provati nel vedere gli altri godere di quel determinato bene; mentre,
insomma, le definizioni attuali di gelosia si concentrano soprattutto
sullelemento oggetto di gelosia e sulla paura di perderlo, in origine
il termine si riferiva principalmente al rapporto di rivalit con gli
altri, configurandosi come una rivalrous emotion esattamente come
lo -invidia. Secondo lo stesso Konstan, infatti, il termine
poteva essere utilizzato nel significato pi generale, presente anche
nella parola , di possessive jealousy, Questo naturalmente
non significa che la non potesse venire applicata anche
in contesti strettamente attinenti alla sfera sentimentale, come
testimoniato dallo stesso Diogene Laerzio; tuttavia, in mancanza di
tale contesto, la parola poteva essere utilizzata sia nel senso,
appena descritto, di gelosia possessiva, sia in quello di vera e
propria invidia per i beni degli altri. Cicerone, infatti, tradurr in
latino con obtrectatio, fornendo questa definizione nelle
Tusculanae disputationes: obtrecatio autem est, ea quam intellegi
volo, aegritudo ex eo quod alter quoque potiatur eo
quod ipse concupiverit. Lo stesso Cicerone ricorrer al termine

nelle lettere ad Attico per indicare linvidia sociale e


politica.
Questo influsso e concatenarsi reciproco tra i sentimenti di invidia e
gelosia, gi presente nelle fonti greche ed influenzata dalla natura
composita del sentimento della gelosia, si pu ben cogliere anche
nella descrizione e rappresentazione del comportamento geloso nel
mondo greco e latino.
Mentre, infatti, il termine , come rilevato da Elaine
Fantham, verr utilizzato prevalentemente in contesti prosaici e
comici in episodi dalla marcata violenza sessuale, la poesia latina,
come quella greca sostenuta, ricorrer piuttosto, in situazione
chiaramente contraddistinte dalla presenza di un amante geloso,
allutilizzo di verbi come saevire151, e dolere152, a sostantivi come
timor e suspicio153, ad aggettivi come furibundus testimoniando
dunque, pi che la presenza di un termine chiaro e specifico per il
sentimento in questione, la parcellizzazione e frantumazione dello
stesso nelle sue componenti fondamentali, come ira, rabbia, paura,
sospetto, dolore ed, appunto, invidia verso il/la rivale, nonch una
forte attenzione per le manifestazioni fenomeniche della gelosia.
Properzio, ad esempio, descrive la gelosia di Cinzia in 3.8
tratteggiandola in una serie di atti, azioni, atteggiamenti, gesti
improntati principalmente al furor (cum furibunda mero mensam
propellis et in me/proicis insana cymbia plena manu, vv. 3-4) ed al
dolor (aut in amore dolere volo aut audire dolentem,/ sive meas
lacrimas sive videre tuas, vv.23-24)154. Per quel che riguarda,
151Cfr. Prop. 4.8.55 fulminat illa oculis et quantum femina saevit; Ovid. A.A. 2.461 Cum bene
saevierit.
152Cfr. Prop. 2.5.15 nec tu non aliquid, sed prima nocta, dolebis; Ovid. A.A. 2.448 felicem, de
quo laesa puella dolet.

153
154Cfr Prop. 4.8.52 dove il sentimento della gelosia provata da Cinzia viene espresso con il
medesimo ricorso al furore irrazionale ed impulsivo, indicato con laggettivo furibunda: non
opeosa comis, sed furibunda decens.; simile, in generale, alla presentazione della sofferenza di

invece, le attestazioni latine dellinvidia in ambito amoroso, la


Nanna ha ravvisato in Plauto il << di una tradizione
letteraria, in virt della quale, nella successiva poesia damore, il
termine invidia designer topicamente il sentimento astioso che
linnamorato nutre nei confronti di un rivale in amore, reale o
immaginario che sia>>. Il termine utilizzato da Plauto nel Mercator
quello di malevolentia, che abbiamo visto essere strettamente
connesso con linvidia, sia nelle definizioni di autori greci (nella
forma dell) che in quelle di autori latini. Provare
sofferenza per i beni altrui e gioia per le altrui sofferenze, oltre ad
essere sentimenti consequenziali luno allaltro, divengono, dunque,
laddove laltro si identifichi con il rivale in amore, vere e proprie
forme di gelosia, e linnamorato <<finisce col diventare invidus e
malevolus (qui alieno male gaudet aliisque detrimentum afferre
studet). Le stesse storie di gelosia delle Metamorfosi vengono
connotate secondo una molteplicit di sfumature, con unenfasi di
volta in volta incentrata sullansiet, il dolore, la sofferenza, la
rabbia, linvidia provata dalla persona gelosa: cos la gelosia di
Giunone per Io, nel primo libro, viene descritta essenzialmente
come ansia, preoccupazione, timore. La dea viene, infatti, descritta
intenta a fissare lo sguardo nel centro dellArgolide, per scorgere
dove fosse il marito, avendolo gi colto in flagrante molte volte;
anche dopo aver avuto in sorte la rivale mutata in vacca, prosegue
Ovidio, la dea continu a temere il tradimento del consorte Giove
(Paelice donata non protinus exuit omnem/ diva metum , timuitque
Iovem et fuit anxia furti, vv. 622-623).
Cinzia in Properzio quella che Ovidio vuole che lamante crei intenzionalmente nellamata in
A.A. 445-46454 fac timeat de te , tepidamque recalface mentem:/ palleat indicio criminis illa
tui;/ o quater et quotiens numero conprendere non est/ felicem, de quo laesa puella dolet:/
quae, simul invitas crimen pervenit ad aures,/ excidit, et miserae voxque colorque fugit./ Ille
ego sim, teneras cui petat ungue genas,/ quem videt lacrimans, quem torvis spectat ocellis,
quo sine non possit vivere, posse velit..

Fineo, nel quinto libro, reagir allunione di Perseo con la promessa


sposa Andromeda con rabbia, furore ed azioni violente (inque
repentinos convivia versa tumultus/ adsimilare freto possis, quod
saeva quietum/ ventorum rabies motis exasperat undis, vv. 5-7);
Cefalo, nel settimo libro, teme che lamata Procri possa averlo
tradito (esse metus coepit, ne iura iugalia coniunx/ non bene
servasset, vv.715-716), gli innamorati, infatti, sostiene Cefalo,
hanno paura di tutto (sed cuncta timemus amantes, v.719); la
medesima sensazione di paura e timore verr non a caso provata
dalla stessa Procri alla notizia, non veritiera, del tradimento di
Cefalo (Credula res amor est: subito conlapsa dolore,/ ut mihi
narratur, cecidit, longoque refecta/ tempore, se miseram, se fati
dixit iniqui,/ deque fide questa est et crimine concita vano,/ quod
nihil est metuit, metuit sine corpore nomen,). I personaggi gelosi
delle Metamorfosi, oltre a soffrire interiormente, sperimentano al
contempo sensazioni di rabbia e furore contro gli avversari in
amore, come Deianira che, alla notizia del tradimento di Eracle
verr

descritta

da

Ovidio

come

oscillante

tra

volont

di

riappropriarsi dellamato con azioni attive e concrete (<<quid


autem/ flemus?>> ait. <<Paelex lacrimis laetabitur istis!/ Quae
quoniam adveniet, properandum aliquidque novandum est, vv.143145) e, al contempo, desiderio di distruzione della rivale (<<Quid si
me, Meleagre, tuam memor esse sororem/ forte paro facinus,
quantumque iniuria possit/ femineusque dolor, iugulata paelice
testor?>>, vv. ), o come il gigante Polifemo nel tredicesimo libro il
quale, in maniera del tutto conforme alla sua natura, giunger ad
un parossismo del furor contro Aci con tratti iperbolici e snaturati,
giacch,

nel suo caso, non si tratter pi semplicemente

di

eliminare il rivale, ma addirittura di squartarlo e smembrarlo

(Viscera viva traham divulsaque membra per agros/ perque tuas


spargam- sic se tibi misceat!-undas, vv. 865 866).

In altri casi,

tuttavia, la reazione che comporta la gelosia molto simile a quella


arrecata

dallinvidia-malevolenza;

paradigmatico,

sotto

questo

aspetto, latteggiamento di Giunone nei confronti della morte di


Atteone: I giudizi sulla vicenda di Atteone,

mutato in cervo e

dilaniato dai cani per aver visto involontariamente la dea Diana


nuda durante un bagno ad una fonte, furono, afferma Ovidio nel
terzo libro, assai discordi (Rumor in ambiguo est, v.253); soltanto
Giunone, la consorte di Giove, non discute sullopportunit o meno
della punizione del giovane, ma, semplicemente, gode della
sciagura occorsa al casato di Agenore, in virt dellodio maturato
contro la rivale fenicia, Io (Sola Iovis coniunx non tam, culpetne
probetne,/ eloquitur, quam clade domus ab Agenore

ductae/

gaudet, et a Tyria conlectum paelice transfert/ in generis socios


odium, vv. 256-259). A questa malevolenza-gelosia Ovidio collega
immediatamente la gelosia-invidia provata dalla stessa Giunone
verso Semele, anchella conquista del sommo Giove (Subit ecce
priori/ causa recens, gravidamque dolet de semine magni/ esse
Iovis Semelen, vv. 259-261). Significativa anche la reazione di
Giunone verso la rivale: non un attacco diretto contro Semele, ma il
ricorso alla calunnia, alla maldicenza, azioni tipiche anche delle
persone morse dallinvidia. A questo esempio possiamo aggiungere
quello dellanonima ninfa che, come narrato nel quarto libro, mut
Dafni in pietra pur di sottrarlo al controllo della rivale (<<Vulgatos
taceo>> dixit <<pastoris amores/ Dalphnidis Idaei, quem nymphe
paelicis ira/ contulit in saxum: tantus dolor urit amantes, vv. 276278)

testimoniando

anchessa

una

forte

componente

di

malevolentia ed un atteggiamento assieme geloso ed invidioso nei

confronti della rivale. Unulteriore importate conferma dello stretto


rapporto di interdipendenza

tra le due passioni fornito dal

Filocolo di Giovanni Boccaccio:


La narrazione della cornacchia: la vicenda delle Cecropidi
La narrazione della cornacchia, inserita nella tecnica del racconto a
cornice, del racconto dentro il racconto, deve dunque fungere da
insegnamento al corvo: la storia della cornix nasce infatti dalla sua
esperienza

personale,

esperienza

assai

simile

quella

ora

sperimentata dal corvo.


Anche la cornacchia, infatti, era stata punita (da Minerva nel caso
specifico) a causa di una delazione relativa alle vicende delle
Cecropidi, come lei stessa racconta:
..Nam tempore quodam
Pallas Erichtonium, prolem sine matre creatam,
clauserat Actaeo texta de vimine cista
virginibusque trinus gemino de Cecrope natis
et legem dederat, sua ne secreta viderent.
Abdita fronde levi densa speculabar ab ulmo,
quid facerent: commissa duae sine fraude tuentur
Pandrosos atque Herse; timidas vocat una sorores
Aglauros nodosque manu diducit; et intus
infantemque videt adporrectumque draconem.
acta deae refero; pro quo mihi gratia talis
redditur, ut dicar tutela pulsa Minervae
et ponar post noctis avem..

La cornacchia <<tratta con riservatezza una storia che i poeti, sin


da Omero, hanno difficolt o imbarazzo a narrare>>. Efesto aveva
cercato di possedere la vergine Minerva; nellamplesso, tuttavia, il
dio era riuscito solamente a gettare il proprio seme sulla gamba di
Minerva; questo stesso seme, deterso con un battufolo di lana e
gettato a terra, aveva fecondato il suolo generando Erittonio.
La dea aveva poi affidato la cesta con dentro Erittonio alle figlie del
re ateniese Cecrope, le quali, spinte dalla curiosit, finiranno con
laprire il cesto, subendo, per questo, unatroce punizione.
Quello appena presentato non che lo scheletro della vicenda, ma
importante sottolineare, per questa come per molte altre storie
mitiche, la variet e le divergenze, spesso importanti e significative,
tra una versione e laltra del mito.
Come abbiamo avuto modo di notare in precedenza, la fonte del
testo ovidiano certamente lHecale di callimaco; rimandando, per
il testo greco dellHecale relativo alle vicende delle Cecropidi, al
capitolo 4, possiamo ora sintetizzare i punti di omogeneit tra fonte
e greca e testo delle Metamorfosi, ben delineati ed analizzati dai
commenti al passo. La cornix ovidiana, riprendendo lesempio della
cornacchia

callimachea

nellHecale,

descrive

il

proprio

coinvolgimento nella vicenda delle Cecropidi; Le due cornacchie


descrivono le istruzioni ricevute dalle figlie di Cecrope da Atena
(Met. 2.552-556; Hollis fr, 70.5-6); nelle

Metamorfosi, come

nellHecale, le sorelle disobbediscono agli ordini e scrutano il


contenuto della cesta (Met. 2.558-61; Hollis fr. 70.12-14); la
cornacchia, dopo aver assistito alla scena, riporta la notizia ad
Atena, la quale si adira e punisce luccello (Met. 2.562-68; Hollis frr.
72-73).

Queste affinit tematiche, alle quali possono essere aggiunte anche


quelle di cattere formale e linguistico155, non devono per far
dimenticare le divergenze, profonde, tra i due testi (quello ovidiano
e quello callimacheo),

prima di tutto in relazione alle diverse

finalit ricoperte dalle due storie.


In Ovidio, come abbiamo visto, la storia della cornacchia funge da
modello per il corvo156; nellHecale le finalit sono di tipo eziologico:
la storia che troviamo nel testo callimacheo, infatti, vuole spiegare
lassenza delle cornacchie dallAcropoli di Atene (Hollis fr.73);
ovviamente questa divergenza di finalit si interpreta bene alla luce
dei diversi contesti in cui sono calati i due racconti mitici: nel testo
di callimaco, il collegamento con le vicende di Teseo descritte
nellHecale appare di non immediata evidenza 157, mentre, nel testo
ovidiano,

linserimento

della

cornacchia,

ccontraddistinta

da

caratteristiche assai simili a quelle del suo interlocutore, poteva


prestarsi bene ad un incontro incentrato sul tema della voce e della
garrulit.
Non meno importanti le differenze relative allidentit delle sorelle
colpevoli tra le due storie, differenze che, tuttavia, non riguardano
esclusivamente i rapporti intertestuali tra Hecale e Metamorfosi,
Callimaco ed Ovidio, ma, pi in generale, la tradizione complessiva
del mito, su questo punto specifico abbastanza confusa.

155Cfr. cista, Met. 2.554-. Hollis fr. 70.14; nodos.. manu diducit, Met. 2.560-
, Hollis fr. 70.14; virginibus tribus gemino de Cecrope natis, Met 2.555- ,
Hollis fr. 70.5; secreta, Met. 2. 2.556- , Hollis fr. 70.6.
156 La presentazione della vicenda delle Cecropidi in chiave eziologica giungeva a Callimaco
dallattidografo Amelesagora, citato da Antigono di Caristo: Cfr. Antig. Hist. mirab. 12
, , .
157 Probabilmente i due uccelli dellHecale discutono sullopportunit di annunciare alleroe
ateniese la morte della vecchietta ospitale; il tema chiave della digressione, dunque, appare
essere quello relativo alla

In Callimaco tutte e tre le sorelle vengono presentate come


colpevoli ; situazione identica in Euripide 158. Pausania159 attribuisce la
responsabilit del gesto alle sorelle di Pandroso, ad Erse ed Aglauro
dunque; anche nel mitografo Apollodoro160 troviamo la colpevolezza
delle sole Erse ed Aglauro; Amelesagora, secondo la notizia
riportataci da Antigono di Caristio, avrebbe, invece, indicato come
colpevoli Aglauro e Pandroso161.
Differenti sono anche le punizioni riservate alle colpevoli nei vari
rami della tradizione: secondo la testimonianza di Pausania, le due
sorelle, Erse ed Aglauro, dopo aver aperto la cesta, impazzirono
avendone visto il contenuto e, in preda alla follia, si precipitarono
gi dalla rocca di Atene, dove la ripa era pi scoscesa 162;
Apollodoro riporta, nella sua Biblioteca163, due differenti versioni
della fine delle cecropidi colpevoli; alcuni (), dice Apollodoro,
sostengono che le fanciulle furono uccise dal serpente contenuto
allinterno del cesto164; altri, invece,

prosegue il mitografo,

sostengono che fu Atena a rendere pazze le fanciulle, al punto di


farle precipitare dallacropoli165.
Le fonti distinguono, dunque, tra una morte immediata procurata
alle cecropidi dal serpente, ed una morte non immediata e non
direttamente conseguente allapertura della cesta, bens preceduta
158 Eur. Ion. . .
159 Paus. 1.18.2 .
,
. ;
1.27.3 .
.
160Appolod. 3.14 ,
. .
161 Antig. Hist. mirab. 12 , , (..)
, , .
162 1.18.2 , .
163 Cfr. supra, nota 67.
164 Apollod. 3.14 .
165 Apollod. 3.14
.

da uno stato di follia indotta, di pazzia, causato o dal serpente o, in


altre testimonianze, dalla dea Atena adirata.
Diverse tra loro le testimonianze delle le fonti, differente dal resto
della tradizione la testimonianza ovidiana: ununica colpevole,
Aglauro, e nessuna indicazione di una punizione.
La mancanza della punizione si spiega in base a due ordini di
considerazioni:
prima di tutto, dobbiamo ricordare che a narrare la storia delle
Cecropidi in Ovidio la cornacchia, la quale ha deciso di raccontare
la vicenda al corvo per una finalit ben precisa: ammonirlo degli
svantaggi che possono essere arrecati dalla diffusione di notizie
indesiderate, accostando la sua storia a quella del corvo (quid
fuerim quid simque, vide meritumque require:/ invenies nocuisse
fidem, vv. 551-552). Alla cornacchia interessa solamente informare
il corvo dellerrore da lei commesso; la storia delle figlie di Cecrope
costituisce, per lei, solo lo sfondo del suo racconto, proprio perch il
suo racconto incentrato su se stessa, lei la protagonista
principale.
Nel momento in cui Aglauro disfa i nodi e la cornacchia, osservato il
tutto, corre a riferire la notizia a Minerva, la sovrapposizione tra la
sua vicenda e quella del corvo totale: la vicenda delle Cecropidi,
narrata proprio per creare questa sovrapposizione, ora non pi
menzionata, viene temporaneamente abbandonata dal narratore,
che concentra la sua attenzione sulla cornix e sulle conseguenze
della sua delazione. Lelemento di congiunzione tra le storie della
cornacchia e del corvo era infatti quello relativo alla denuncia di atti
illeciti alle rispettive divinit di riferimento; una volta ripreso questa
tema, la cornacchia poteva andare avanti nella narrazione, senza
tornare sulla vicenda delle Cecropidi. La cornix, dopo aver riferito al

corvo

la

punizione

inflittale

da

Minerva,

continuer

narrazione, ritornando ancora pi indietro nel tempo,

la

sua

narrando

della sua originaria condizione umana e della sua metamorfosi; non


a caso, lunica punizione introdotta nel suo racconto quella che lei
stessa aveva subito ad opera di Minerva. Quello offerto dalla
cornacchia un buon esempio delle diverse prospettive, delle
diverse angolazioni con le quali le storie delle Metamorfosi vengono
presentate e narrate La narrazione di una storia legata alla figura
del narratore, il quale, essendone padrone e depositario, pu anche
decidere, per conseguire certi scopi, di enfatizzare determinati
aspetti a discapito di altri, oppure presentare le vicende sotto il
proprio, personale, punto di vista, adattando il mito alle esigenze
specifiche del suo racconto. Ne conseguono variazioni, prospettive
inedite, nuovi approcci a vicende mitiche note e consolidate da
lunga tradizione: In questo caso, la storia non raccontata per il
semplice gusto del racconto, ma vincolata, legata, ad unaltra
finalit (la funzione ammonitoria), per la quale viene introdotta, ed
alla quale viene adattata. Questa variazione di prospettiva, che
permette al poeta di porre sotto una nuova luce miti antichi, oltre a
corrispondere ad un principio di poetica gi pienamente affermatosi
in et ellenistica, pu permettere, nel caso specifico del passo in
esame, lintroduzione di una vicenda, come quella delle cecropidi,
che, se per la cornacchia vale unicamente in relazione a ci che
quella storia aveva comportato per lei, per il lettore vale come una
nuova storia, inserita in un contesto tematico ben delineato, del
quale sembra condividerne alcuni aspetti fondamentali. Il lettore
dotto delle Metamorfosi doveva conoscere il mito delle Cecropidi;
ora, per, nel testo ovidiano, si avvicina alla storia in una
prospettiva nuova, sotto una nuova ottica. Il punto di vista, in

questo caso, infatti assunto da un animale che spia, nascosto da


una tremula frasca, loperato delle sorelle.
Eppure,

nellintreccio

continuo

di

storie

che

costituisce

le

Metamorfosi,

anche la vicenda delle Cecropidi si inserisce

perfettamente

nella sezione testuale del II libro, Nel gioco di

scatole cinesi, di racconto dentro il racconto, la figura di Aglauro si


avvicina molto a quella del corvo e della cornacchia. Il corvo spia gli
amplessi furtivi di Apollo e Coronide, la cornacchia osserva
furtivamente le Cecropidi, le quali, a loro volta, osservano il
contenuto della cista, divenendo al contempo soggetto ed oggetto
di visione.
Il parallelo non si ferma per solamente allindicazione testuale
dellatto visivo.
Come abbiamo visto, il narratore introduce la punizione del corvo
prima ancora di narrane la storia; la cornacchia presenta, nel
racconto in prima persona, la punizione cui era stata sottoposta;
ambedue le punizioni erano diretta conseguenza della loro garrulit,
ma anche della loro curiosit, della loro smania discorgere, vedere,
osservare atti, gesta, azioni di altri personaggi.
Aglauro si allinea perfettamente al corvo ed alla cornacchia in
questa smania visiva, in questo desiderio eccessivo e smodato di
vedere ad ogni costo anche ci che non dato e concesso vedere.
Questo crea una attesa nel lettore, il quale conosce sia le punizione
del corvo e della cornacchia nel testo ovidiano sia, al di fuori di
esso, la punizione delle sorelle ateniesi nel mito greco di Eretteo,
punizione scaturita da motivazioni sostanzialmente simili. Questa
attesa viene temporaneamente disattesa nel proseguio della
narrazione della cornacchia, la quale, come abbiamo visto, non
racconter la fine della vicenda mitica, ma verr ripresa e

soddisfatta da l a poco, anche se inserita in un contesto e in delle


forme inedite rispetto a quelle presentate dalla tradizione mitica sul
tema.
Aglauro, come vedremo, verr infatti punita da Minerva con
linfusione del sentimento dellinvidia nei precordi della giovane, la
quale verr talmente devastata dallazione perniciosa e nefasta
dellinvidia da arrivare a desiderare la propria morte, a volersi
uccidere.
In

questo

desiderio

autodistruttivo,

in

questa

volont

di

autoannientamento possiamo scorgere una duplicit di significati:


vero, infatti, che il suicidio, leliminazione della propria persona
una

delle

conseguenze

dellinvidioso

(ed

in

pi

questo

gravi

cui

senso

la

pu

giungere

descrizione

si

lastio
adatta

perfettamente al contesto in cui sitrova ad essere inserita);


altrettanto vero, tuttavia,
Wimmel,

che, come sottolineato da Walter

in questa descrizione si pu scorgere, in filigrana, un

riflesso di una delle forme di punizione tramandate dal patrimonio


mitico a proposito delle Cecropidi:

abbiamo visto, infatti, la

testimonianza di Apollodoro, per il quale un filone della tradizione


mitica credeva in una pazzia improvvisa delle ragazze provocata
allintervento, non immediato, di Atena; tale pazzia avrebbe
provocato il suicidio delle sorelle.
In Ovidio Aglauro, che, ricordiamo, lunica colpevole, viene punita,
anche

in

(equivalente

questo
di

caso

Atena),

non
con

immediatamente,
una

punizione,

da

Minerva

linsorgere

del

sentimento invidioso, che molti tratti presenta in comune con


linvasamento provocato della pazzia. Anche la volont di suicidio di
Aglauro si accosta perfettamente ad ambedue i contesti.

Lazione dellinvidia sul corpo di Aglauro, inoltre, viene accostata da


Ovidio ad un dolore occulto, ad un morso; lInvidia diffonde per le
ossa della giovane un veleno. Anche questi elementi hanno duplice
valenza: sono coerenti con limmagine dellinvidioso, spesso legato
ed accostato, anche nelliconografia tradizionale , alla figura della
serpe, ma richiamano anche, al contempo, le fonti che parlavano
della morte delle Cecropidi ad opera del serpente custodito nella
cesta. Ovidio, dunque, ha riadattato un mito che trovava gi
presente nellHecale della sua fonte Callimaco. Mentre nella
tradizione del mito la punizione era conseguente alla curiosit delle
protagoniste, senza alcun riferimento allinvidia, nelle Metamorfosi
la storia viene, di fatto, spezzata in due parti, nella seconda delle
quali proprio linvidia acquista un ruolo rilevante.
Questoperazione, tipica di un poeta doctus che sa adattare,
riplasmare i miti in sempre nuove forme, anche a seconda delle sue
esigenze, resa possibile dal collegamento curiosit-invidia che
abbiamo visto essere presente gi nelle fonti greche, grazie al quale
possiamo dire, riprendendo le parole di Vlaentina Chinnici, che
<<Aglauro costituisce gi di per s un buon ricettacolo per
linvidia>>.
Sulle motivazioni che possono aver spinto Ovidio a vedere in
Aglauro lunica sorella colpevole, interessanti le annotazioni di
Keith, che si collega alletimologia dei nomi delle tre Cecropidi: i
nomi di Erse e Pandroso sono legati, etimologicamente, alla
rugiada; Pandroso, infatti, un nome composta da (tutto) e
(rugiada), mentre il nome Erse viene glossato, da Esichio,
con un analogo riferimento alla rugiada.
Il nome Aglauro, invece, oltre a non presentare un etimologia legata
alla

rugiada,

come

nel

caso

delle

due

sorelle,

legato,

morfologicamente e semanticamente, allaggettivo , il quale


aggettivo presenta il significato primario di splendente, brillante.
Per la studiosa sarebbe stata proprio questa divergenza etimologica
a motivare la scelta di Ovidio, che avrebbe, di fatto, proiettato sul
piano narrativo una differenza insita sul piano del linguaggio.
Personalmente, credo si possa motivare in altro modo la scelta
ovidiana, pur rimanendo nel piano delle analisi etimologiche
descritte dalla Keith.
Laggettivo , infatti, spesso utilizzato nellaccezione di
illustre, nobile, glorioso, da cui anche il verbo (rendere
splendido,

glorificare),

indica

propriamente

la

lucentezza,

lo

splendore, la brillantezza, anche riferita ad oggetti di uso comune,


come, ad esempio, i vasi decritti nel contesto della narrazione
omerica.
Chantraine, non a caso, ricollega il termine allaggettivo latino
splendidus, il quale, a sua volte, nellevidente collegamento con il
sostantivo

splendor,

rimanda

alla

medesima

immagine

di

lucentezza e brillantezza, gi presente nellaggettivo greco.


Avremo modo di vedere come, al termine del processo di litomorfosi
di Aglauro, Ovidio si periti di introdurre un elemento, una
caratteristica particolare del processo metamorfico che ha coinvolto
la donna ateniese:
al verso 831, infatti, il narratore, dopo aver descritto nel dettaglio le
trasformazioni

subite

da

Aglauro,

introduce

una

notazione

cromatica relativa al prodotto finale della trasformazione (la pietra


nella quale era stata mutata la protagonista):
nec lapis albus erat; sua mens infecerat illam.

Il processo consuntivo cui era andata incontro Aglauro era stato


talmente devastante ed interiormente sconvolgente che neppure la
nuova

natura

della

fanciulla

poteva

rimanere

esente

dalle

trasformazioni operate dal veleno dellinvidia sul corpo della


giovane.
Anche in questo verso, dunque, possiamo notare una duplicit di
piani e di prospettive: la precisazione di Ovidio, infatti, vale sia sul
piano immediato di comprensione e lettura, giacch la bianchezza e
la lucentezza sono tratti

caratteristici delle pietre, sia su quello

extratestuale e linguistico, con riferimento alletimologia del nome


di Aglauro.
Dobbiamo ricordare, inoltre, che anche il corvo originariamente era
contraddistinto dalla lucentezza del piumaggio (candidus, v.534;
niveis pennis, v. 536); lucentezza che avrebbe perduto a seguito
della delazione, coprendosi di penne nere (nigrantes alas, v. 535).
Queste osservazioni cromatiche permettono, dunque, un nuovo
accostamento tra i protagonisti delle vicende di questa sezione
narrativa, confermando la presenza di continui ponti tematici,
linguistici e lessicali tra una storia e l'altra.
Abbiamo gi avuto modo di sottolineare l'importanza del fattore
visivo legato alla curiositas, ed il collegamento di quest'ultima con
l'invidia, a proposito delle vicende del corvo ed anche, come si
chiarir meglio in seguito, della stessa Aglauro; i medesimi aspetti
meritano di essere presi in considerazione anche in relazione alla
vicenda della cornacchia: anche la cornacchia poteva usufruire di
un rapporto privilegiato con la divinit (nel caso specifico, Minerva),
rapporto privilegiato che, a rispecchiamento della vicenda del
corvo, l'uccello era, evidentemente, desideroso di mantenere. Non a
caso, la cornacchia, dopo aver terminato la narrazione della vicenda

delle Cecropidi, continua a raccontare al corvo sia la sua


metamorfosi sia la sua sostituzione, nel rapporto con Minerva, da
parte di Nictimene, mutata in civetta.
Nictimine, racconta la cornacchia, si era colpevole di una crimine
terribile: aveva, infatti, profanato il letto del padre. La sua vicenda
ricordava, dunque, quella, indicibile, di Mirra. La versione della
storia in Igino ed in Servio, tuttavia, dimostra la malizia della
cornacchia: le fonti, infatti, testimoniano come Nictimene fosse
stata, in realt, violentata dal padre, e dal suo pudore deriva
l'abitudine notturna dell'uccello:

il pettegolezzo astioso della

cornacchia contro la civetta ha qualcosa di patetico se si considera


che questo uccello una sorta di numero uno tra gli animali per la
stabilit ed il successo della sua associazione con una divinit(....) si
annuncia gi qui il tema dell'Invidia che risulter dominante
nell'episodio di Aglauro.
ragionevole supporre, dunque, che la cornacchia, invidiosa della
nuova favorita di Minerva, potesse essere, quando era a lei a
godere dei favori della dea, gelosa di mantenere tale status ed, al
contempo, invidiosa di chiunque potesse minacciarne il rapporto
esclusivo. Dietro alla motivazione addotta dalla cornacchia per
giustificare la sua delazione, quella, cio, di volere mantenere salda
la fides verso Minerva, potrebbe nascondersene un'altra pi
perniciosa e pericolosa: quella di voler essere l'unica a godere e ad
usufruire dei favori della dea.
Del resto, l'intera caratterizzazione dei due animali che concorre a
presentarli come invidiosi: la loro curiositas, che abbiamo gi
descritto, il loro spiare da posizione nascosta ed occulta le azioni dei
rivali, il loro correre a riferire tutto agli dei, e dunque all'arma della
delazione, coincidono, oltre che con la generale delineazione della

figura

dell'invidioso,

anche

con

molti

dei

tratti

che

contraddistingueranno l'invidiosa Aglauro.


Ai verso 596-597 Ovidio presenta la reazione del corvo alle parole
della cornacchia; l'uccello, scegliendo, dunque, di non seguire i
consigli del suo interlocutore, corre a riferire ad Apollo di aver visto
Coronide congiungersi ad un giovane della Tessaglia.
La reazione del dio viene descritta nei versi immediatamente
successivi: la reazione si articola, sostanzialmente, in due fasi:
dapprima, Apollo viene colto da uno stupore talmente grande da
fargli cadere l'alloro dal capo e dal fargli smarrire il plettro dalla
mano ed il colorito dal volto, come dice Ovidio con arguta sillessi. A
partire dal verso 602, tuttavia, la passione che comincia a prendere
il sopravvento sul dio quella dell'ira, come chiaramente espresso
dal testo. Apollo afferra le armi che aveva sempre a portata di
mano, l'arco e le frecce, tende l'arco, agganciata la corda agli
estremi, e colpisce il petto della fanciulla. chiaro come la
situazione descritta, bench presentata sotto l'aspetto dell'ira e
dello sgomento, si inquadri, tuttavia, all'interno dell'accezione pi
ampia, e comprensiva di questi stessi sentimenti, della gelosia.
Nel quadro della natura composita della gelosia, possiamo dire, in
conclusione, che mentre il corvo e la cornacchia sembrano
manifestare la gelosia essenzialmente nell'ottica della definizione
stoica, poi ripresa da Cicerone, Apollo, invece, reagisce alla notizia
del

tradimento

dell'amata

con

comportamenti

tipici

dell'innamorato infelice.
Conclusasi, con la morte di Coronide e la seguente punizione del
corvo, la macrocornice principale che, di fatto, aveva innescato
l'insieme dei racconti forniti dalla cornacchia, rimanere da chiudere,
all'interno del procedimento meta-diegetico, la vicenda delle

Cercropidi, rimasta priva di conclusione nella narrazione della


cornix.
Ovidio, tuttavia, non assolve subito il compito. Prima, infatti, si
occupa della narrazione di altre due vicende: quella di Ociroe e
Chirone, con la metamorfosi della figlia del centauro causata da una
sua predizione proibita, poi quella di Batto, mutato in pietra a causa
, anche in questo caso, del suo spregiudicato della parola e delle
menzogne rivolte a Mercurio. Lo stesso Mercurio, fuggendo in volo
dalle campagne di Pilo, scruta, rimanendone abbagliato, proprio una
delle Cecropidi, Erse, intenta, con le sorelle, a recare sulla rocca di
Pallade i puri e santi arredi.
Infiammato dall'amore e dal desiderio, Mercurio si dirige a volo
verso la reggia delle tre sorelle, raggiungendone la parte pi
interna. Qui incontra Aglauro, alla quale richiede aiuto per realizzare
la conquista amorosa della sorella.
Aglauro, prima ancora di rispondere alle richieste del dio, viene
colta da Ovidio nell'atto, a lei evidentemente congeniale, di vedere
e scrutare i movimenti e le intenzioni del dio. L'aggettivo isdem,
riferito

ad

oculis

permette

il

collegamento

con

la

vicenda

dell'apertura della cesta. La giovane, infine, richiede espressamente


a Mercurio, per soddisfare la sua richiesta, un gran quantitativo
d'oro. A questo punto ricompare, in scena, ex abrupto, Minerva, la
quale viene colta nell'atto di rivolgere una torva occhiata ad
Aglauro.

Ancora

una

volta,

dunque,

Aglauro,

diviene,

contemporaneamente, oggetto e soggetto visivo. Mentre, per, in


occasione della vicenda dell'apertura della cista, Aglauro era
oggetto della visione geloso/invidiosa della cornacchia, nel caso di
Minerva non credo si possa parlare propriamente di invidia. vero
che la visione della dea torva, come torvi sono gli occhi degli

invidiosi, ed altrettanto vero, come rilevato da Feeney, che il


sospirare profondo dal petto indica un'idea di sofferenza interiore e
corporea assimilabile ai sospiri di chi scruta con invidia le gioie
altrui; altrettanto chiaro, per, che le motivazioni addotte da
Ovidio per giustificare la sofferenza di Minerva rimandano al
contesto di una colpa e di una relativa punizione da espiare,
elementi, tra l'altro, presenti nella versione originale del mito.
Non a caso, infatti, Ovidio associa immediatamente, nella mente
della dea, i due distinti accadimenti, chiarendo, in questo modo,
come la sofferenza di Minerva nascesse, non dalla semplice
constatazione che Aglauro stesse godendo di un bene, ma dal fatto
che la Cecropide ne stesse godendo dopo aver disubbidito al
precetto divino in occasione dell'apertura proibita della cesta (Vertit
ad hanc torvi dea bellica luminis orbem/ et tanto penitus traxit
suspiria motu,/ ut pariter pectus positamque in pectore forti/ aegida
concuteret. Subit hanc arcana profana/ detexisse manu tum, cum
sine matre creatam/ Lemnicolae stirpem contra data foenera vidit,/
et gratamque deo fore iam gratamque sorori/ et ditem sumpto,
quod avara poposcerat, auro166).
Se ci ricolleghiamo alla definizione aristotelica della nemesis,
possiamo, con sicurezza, far rientrare il comportamento della dea
all'interno di questo orizzonte concettuale; Aglauro, infatti, pur
comportandosi empiamente, aveva la possibilit di divenire ricca ed
apprezzata da Mercurio: poteva godere, insomma di beni, senza che
questi fossero giustificati da adeguati meriti ed azioni.
Visto sotto quest'ottica, anche il ritardo nell'indicazione della
punizione di Aglauro assolve ad una funzione importante: il lettore,
infatti, avvezzo alla versione tradizionale del mito per cui le
166 Ov. Met. 2. 752-759.

Cecropidi

venivano

immediatamente

punite,

doveva,

evidentemente, rimanere molto sorpreso dell'iniziale mancata


descrizione della punizione nell'episodio della cesta (assenza
dovuta, come abbiamo visto, all'assunzione di un punto di vista
particolare, quello della cornacchia, che osserva la vicenda di
scorcio); quando, poi, Aglauro riappare nel testo, egli scopre, non
solo che Aglauro non era stata punita, ma che, nell'episodio di
Mercurio ed Erse, ella poteva recitare ancora un ruolo di primo
piano, traendo guadagni importanti dalle sue grette azioni. Quali
immaginiamo avrebbero potuto essere state le reazioni dei lettori di
fronte a questa situazione? Certo stupore, sorpresa, meraviglia, ma
anche, possiamo supporre, nemesis, anche, per dirla alla latina,
invidia. proprio sotto la spinta dello sdegno e del risentimento
che, a mio parere, devono essere interpretate le azioni di Minerva,
la quale, risoluta a far pagare ad Aglauro le conseguenze della sua
condotta disdicevole, decide di recarsi alla dimora di Invidia, per
convincerla ad infettare il corpo di Aglauro. Se l'episodio viene letto
in quest'ottica, esso pu rientrare nella casistica, presentata dallo
studio di Kaster, delle fonti in cui le due principali accezioni del
termine, invidia e sdegno, si trovano accostate nel medesimo
contesto: la situazione, nel caso specifico, sembra essere per certi
versi opposta a quella indicata da Kaster a proposito delle
lamentazioni funebri. Mentre, in quel contesto, la nemesi-invidia
degli uomini si configurava come reazione alla phthonos invidia
degli dei, in questo caso la nemesi invidia di una dea a provocare
l'insorgere della phthonos-invidia in una mortale.
Viene presentata, a questo punto della narrazione, una delle quattro
personificazioni del poema, assieme a quella del Sonno, della Fame
e della Fama. L'importanza delle personificazioni ovidiane stata

sottolineata, nell'ambito degli studi sulle Metamorfosi, soprattutto


dai lavori di Hardie e Solodow. Per quest'ultimo, in particolare, la
personificazione is the defining feature of Ovidian Metamorphoses,
as making visible, plain and clear of essences. A proposito
dell'invidia, lo stesso Solodow specifica: Ovid builds up his portraits
almost solely through descriptions of appearance, that is to say, of
surfaces. To understand Envy we need only to look at her. She
simply is what she seems to be L'allegoria di Invidia comincia,
prima ancora che dalla presentazione del personaggio, dalla
descrizione della sua dimora; dimora che, come nel caso delle altre
personificazioni ovidiane delle Metamorfosi, rientra perfettamente
all'interno del contesto allegorico generale. Il primo tratto, la prima
caratteristica

che

contraddistingue

la

casa

dell'Invidia

determinata dal nero marciume che la riveste: Protinus Invidiae


nigro squalentia tabo7tecta petit. Nel primo verso dedicato
all'ecfrasi della dimora di Invidia troviamo subito la parola tabum,
termine chiave non solo della sezione narrativa di nostro interesse,
ma, pi in generale, della sintomatologia della sofferenza invidiosa:
al verso 780, infatti, troviamo l'incoativo tabesco, riferito all'Invidia
che si strugge alla vista dei successi altrui, ed al verso 784 il
sostantivo tabes declinato nella forma dell'ablativo (tabe).
La

parola

tabes,

cos

come

tabum,

deriva

da

una

radice

indoeuropea t che trova riscontro anche in greco con il verbo


sciolgo, liquefo. Il sostantivo tabes designa sia il processo del
liquefarsi (per decomposizione della sostanza organica, per la
putrefazione), sia il prodotto che ne deriva (la sostanza organica
emessa dalle ferite e dai corpi in decomposizione; ma anche la
secrezione velenosa, la sudorazione). Il termine pu indicare anche
la malattia, l'infezione, il languore.

Pi complesso, invece, da un punto di vista grammaticale, il


sostantivo tabum, per alcuni grammatici antichi parola monoptota,
testimoniata dal solo ablativo tabo, che troviamo appunto in Ovidio.
Particolarmente significative, per la comprensione della semantica
del sostantivo, sono le attestazioni di tabum nell'Eneide, opera in
cui il termine appare in un buon numero di testimonianze: nel terzo
libro, ad esempio, tabum il sangue di Polidoro che cola dal mirto
spezzato di Enea; tabum anche il sangue che cola dalle membra
dei compagni di Ulisse squartati dal Ciclope; il sangue che cola
dalle teste mozzate di Caco; ma, soprattutto, tabum ricorda
l'immagine raccapricciante delle teste tagliate di Eurialo e Niso,
mostrate ai Troiani. In tutti questi esempi, il termine designa il
sangue, ma pi in generale i liquidi organici del corpo non pi in
vita, per lo pi di individui uccisi in modo violento e crudele. Il
termine

rimanda,

dunque,

ad

un'idea

di

scioglimento

di

consunzione, tant' vero che tabum verr utilizzato, sempre da


Virgilio, nelle Georgiche, in riferimento alla peste del Norico, mentre
l'aggettivo omoradicale tabidus verr ripreso, in associazione a
lues, per indicare la peste che colpisce i Troiani al loro arrivo a
Creta, nel terzo libro dell'Eneide. L'idea della consunzione legata
all'invidia ben presente e delineata prima ancora che il processo
consuntivo possa effettivamente essere descritto da Ovidio, sia in
occasione della presentazione dell'allegoria di Invidia, sia nella
descrizione delle sofferenze di Aglauro.
A rendere ancora pi icastica questa immagine, Ovidio associa a
tabum l'aggettivo nigro. L'importanza delle indicazioni cromatiche
all'interno

del

poema

epico

ovidiano

analizzata da Paul Barolsky.167


167 P. Barolsky Ovid's colors, <<Arion>>, 10.3 (2003), pp. 51-56.

stata

recentemente

Come sottolineato dallo studioso, le Metamorfosi mostrano, al


proprio interno, una gamma di sfumature cromatiche molto ampia e
ricca: Ovidio rileva, ad esempio, diverse tonalit di rosso; rutilus e
rubeus; il rosso sangue sanguineus; il rosso acceso ed intenso
puniceus; il rosso scuro (purpureo) purpura, ostrum fino ad arrivare
a murex, usato per indicare il colore rosso scuro del sangue.
Diverse anche le gamme del bianco (niveus, candidus, marmoreus)
e del giallo (flavus, fulvus, croceus). Il poeta, inoltre, gioca spesso
sull'accostamento tra pi colori, in particolare tra il bianco ed il
rosso, come nella descrizione del rosa suffuso sul candore di neve di
Narciso168. Nella presentazione di Invidia le indicazioni cromatiche
contribuiscono a creare un'atmosfera di oscurit che contrasta, in
maniera chiara, con i toni brillanti e luminosi di un altro luogo
allegorico, presentato all'inizio del secondo libro: la dimora del
Sole.
La reggia del sole, descritta in occasione della venuta di Fetonte,
era infatti tutta scintillante d'oro e di rame dai bagliori di fiamma
(clara micante auro flammasque imitante pyropo)169; lucido avorio
rivestiva il frontone, la porta a due battenti mandava sprazzi
d'argento (cuius ebur nitidum fastigia summa tegebat)170. All'interno
di essa il sole sedeva, avvolto in un manto purpureo, su un trono
scintillante di fulgidi smeraldi (purpurea velatus veste sedebat/ in
solio Phoebus claris lucente smaragdis)171. Anche il carro del dio
mandava sfavillanti bagliori, con il suo asse, le sue stanghe, i cerchi
delle sue ruote tutti forgiati in oro (Aureus axis erat, temo aureus,
aurea summae/ curvatura rotae, radiorum argenteus ordo;)172.
168
169
170
171
172

Cfr. Ov. Met. 3.423 in niveo mixtum candore ruborem.


Ov. Met. 2.2.
Ov. Met. 2. 3.
Ov. Met. 2. 23-24.
Ov. Met. 2. 107-108.

I colori associati all'invidia sono, al contrario, il nero, nelle due


sfumature di atreus e piceus, ed il colore, di non immediata
identificazione, indicato nel testo con ferrugineus. Per quel che
riguarda il nero, esso il colore tradizionalmente associato
all'invidia

nelle

fonti

latine173,

mentre

la

connessione

pare

praticamente assente nelle fonti greche. Per quel che riguarda


l'aggettivo ferrugineus interessanti le analisi di Edgeworth 174, il
quale ha osservato, nelle fonti, sfumature semantiche dell'aggettivo
che sembrerebbero avvicinarlo, in alcuni casi, al colore blu 175, in altri
al viola176, al nero177, al verde178; in altre occorrenze il termine indica
una generica condizione di oscurit 179. Ferrugineus , propriamente,
aggettivo derivante da ferrugo, termine che designa la ruggine del
ferro, esattamente come aerugo indica la ruggine del bronzo (aes).
In quanto tale il colore designato quello rosso scuro. Le immagini
dell'Invidia come ruggine che logora e consuma ben documentata
sia come aerugo180 che come ferrugo181 e rubigo182.
L'indicazione successiva relativa alla casa d'Invidia quella della
presenza di un freddo e buio generale: domus est imis in vallibus
huius/ abdita, sole carens, non ulli pervia vento,/ tristis et ignavi

173 Cfr, Hor. Epod. 6.15 an si quis atro dente me petiverit; Sen. Phaedr. 492-493 haud illum
niger/ edaxque livor dente degeneri petit; Stat. Silv. 1.3.102-103 sive / liventem satiram
nigra rubigine turbes; 4.18.16-17 procul atra recedat/ Invidia atque alio liventia pectora
flectat; Sil.Ital. 8.290-291 nigro allatraverat ore/ victorem Invidia; 11. 547-548 atra veneno/
invidia nigroque undantia pectora felle.
174 R.J.Edgeworth, What color is ferrugineus?, <<Glotta>>, 56 (1978), 297-305.
175 Verg. Aen. 6. 303 con 6.410; Non. 549.2Serv. Ad Aen., 9. 582.
176 Cfr., e.g., Verg. Ge. 1. 467; 4.183;
177 Cfr. e.g., Tib. 1.4.43; Ov. Met. 15. 789-790.
178 Ov. Met. 13. 960.
179 Cfr. e.g., Cat. 64. 227; Verg. Ge. 1. 467; Ov.. Met. 5. 404.
180 Cfr. Hor. Sat. 1.4. 100-101 hic nigrae sucus lolliginis, haec est/ aerugo mera; Mart. 2.61.5-6
uteris ore aliter nimiaque aerugine captus/ adlatras nomen quod tibi cumque datur; 10.33.56 ut tu, si viridi tinctos aerugine versus/ forte malus livor dixe.rit esse meos.
181 Cfr. Laus Pisonis 107 animusque mala ferrugine purus; Auson. 417.62-63 livor ubi est tuus
ferrugineumque venenum/ opportuna tuis inimicant pectora fulcis
182 Cfr.,e.g., Stat. Silv. 1.3.102-103 sive 7liventem satiram nigra rubigine turbes; Mart. 5.28.7
robiginosis cuncta dentibus rodit

plenissima frigoris, et quae/ igne vacet semper, caligine semper


abundet183.
Secondo Dickie184, la collocazione della dimora in un luogo nascosto
in fondo a una valle risponde ad una duplice motivazione allegorica:
la prima idea che si cela dietro all'allegoria data dalla
constatazione che spesso gli invidiosi sono persone collocate in una
posizione sociale bassa, di umile origine; l'altra, invece, nasce dalla
natura segreta ed occulta del sentimento.
Gi nel mondo antico era comune l'opinione che, ad essere vittime
di invidia, fossero soprattutto i ricchi ed i potenti;.usuale era, infatti,
l'accostamento della loro condizione con quella delle sommit
(summa) e delle vette delle montagne 185. Condizione, questa,
topicamente esposta al pericolo dell'invidia. Gli invidiosi, al
contrario, venivano spesso presentati, nelle fonti letterarie, sdraiati
per terra o nascosti nelle tenebre. L'Invidia ovidiana, non a caso,
viene colta dal poeta nell'atto del suo alzarsi da terra (surgit humo)
quando Minerva batte alla porta dell'abitazione 186. Lucrezio, nel De
rerum natura, descrive la sofferenza degli invidiosi nel vedere
l'invidiato rimirato nel suo incedere tra splendidi onori, mentre essi
sono costretti a voltarsi nel fango e nel buio: macerat invidia ante
oculos illum esse potentem,/ illum aspectari, claro qui invadit
honore,/ qui se in tenbris volvi caenoque queruntur 187. Ovidio
compara il livore ad un serpente nascosto che striscia in profondit
nella terra: livor, iners vitium, mores non exit in altos/ atque latens
183 Ov. Met. 2. 761-764.
184 M.Dickie, Ovid, Metamorphoses 2. 760-764., <<American journal of philology>>, 96
(1975), pp. 378-390.
185 Cfr. Lucr. 5. 112-113 e summo, quasi fulmen, deicit ictos/ invidia; 1131 invidia quoniam,
ceu fulmine, summa vaporant; Liv. 8.31.7 etenim invidiam tamquam ignem summa petere:
in caput consilii, in ducem incurrere: 45.35.5 intacta invidia media sunt: ad summa ferme
tendit; Vell.Pat. 1.9.6 quam sit adsiduus eminentis fortunae comes invidia altissimisque
adhaereat.
186 Ov. Met. 2. 771.
187 Lucr. 3. 75-77.

ima vipera serpit humo188. Lo stesso Ovidio, nei Remedia amoris,


ricorre all'immagine dell'invidia che raggiunge chi posto in alto
accostandola a quelle dei venti che soffiano con massimo vigore
alle grandi altitudini e a quella dei fulmini di Giove che si dirigono
alle vette: summa petit livor; perflant altissima venti, / summa
petunt dextra fulmina missa Iovis189.
La constatazione dei pericoli cui era sottoposta ogni forma di
eccellenza poteva servire anche come monito per privilegiare
atteggiamenti, comportamenti, stili di vita moderati: Orazio, ad
esempio, contrappone l'aurea mediocritas (immune da invidia) della
quale si faceva promotore, ai pini scossi dai venti ed alle alte torri
abbattute: auream quisquis mediocritatem/ diligit, tutus caret
obsoleti/ sordibus tecti, caret invidenda/ sobrius aula./ saepius
ventis agitatur ingens/ pinus et celsae graviore casu/ decidunt
turres feriuntque summos/ fulgura montis190.
L'invidia, inoltre, oltre ad essere sperimentata principalmente da chi
si trova in basso ed in sorta di oscurit sociale, essa stessa,
costituzionalmente, un vizio nascosto: l'uomo invidioso, infatti, non
d chiara manifestazione del suo sentimento e di ci che prova.
Contrariamente, ad esempio, all'ira, l'invidia, gi nel mondo antico,
era delineata, nella descrizione delle sue manifestazioni esteriori,
da tratti pi lievi e sfumati. Le azioni tipiche,ad esempio, in cui
venivano presentati gli invidiosi nell'immaginario greco-romano
erano quelle del mormorio, del brontolio, delle critiche segrete ed
occulte. Le parole segrete degli invidiosi erano, ad esempio, un
topos

188
189
190
191

frequente

negli

epinici

pindarici 191.

Altre

attestazioni

Ov. Pont. 3.3. 101.


Ov. Rem. 369-370.
Hor. Carm. 2.10.5-12.
Ol. 1.47 sgg.; Pyth. 1.81 sgg., 2.74 sgg., 11.28 sgg.,; Nem. 4.37 sgg., 7.61 sgg.

significative su questo aspetto si trovano in Erodoto 192 ed in


Callimaco, il quale, icasticamente, descrive l'invidia nel suo
denigrare ad Apollo, non a caso parlandogli negli orecchie, proprio
la poesia dello stesso Callimaco193. Nell'ambito della letteratura
latina, Terenzio194, Cicerone195, Orazio196 hanno sottolineato il
carattere

nascosto

dell'invidia,

dei

suoi

attacchi,

delle

sue

insinuazioni. Sidonio Apollinare, in una delle sue Epistole, nel


descrivere le azioni del coro degli invidiosi, che mai esprimono
apertamente i propri pensieri, utilizza il participio presente del
verbo mussito, a sua volta frequentativo di musso, verbo avente il
significato

di

bisbigliare,

sussurrare,

mormorare:

mussitans

quamquam chorus invidiorum /prodat hirritu rabiem canino,/ nil


palam sane loquitur pavetque/ publica puncta 197.
La stessa testimonianza di Sidonio, inoltre, mostra un'altra delle
immagini alle quali, nel mondo antico, venivano tradizionalmente
accostate le parole e le azioni degli invidiosi: quella del latrato
canino

(hirritu

l'accostamento

canino).
tra

Mentre,

invidia e razza

infatti,
canina

ai
non

nostri

giorni,

pare essere

particolarmente sviluppato, il mondo latino, pi ancora di quello


greco, scorgeva nel cane un insieme di elementi che permettevano,
di fatto, proprio un avvicinamento agli invidi. Erano, in particolare,
propri gli elementi, per cos dire, fonatori, latrati e ringhi dunque, a
creare l'anello di congiunzione principale.
Una delle testimonianze migliori, per questa immagine, fornita
dall'Epodo 6 di Orazio, con la presentazione dell'ignavus canis che,
192 Her. 7. 237.2.
193 Hym. 2.105.
194 Ter. Eun. 410-411. invidere omnes mihi/moredere clanculum.
195 Cic. Att. 1.13.4 tuus ille amicus.. nos, ut ostendit, admodum diligit, amplectitur, amat,
aperte laudat, occulte, sed ita ut perspicuum sit, invidet.
196 Hor. Ep.1.14.37-38 non istic obliquo oculo mea commoda quisquam/ limat, non odio
obscuro morsuque venenat.
197 Sid. Ep. 9.16.9-12.

come mostrato da Dickie, varrebbe come immagine simbolica della


figura dell'invidioso198.
Silio

Italico

presenta

un

invidioso

che

adlatraverat:

nigro

allatraverat ore/ victorem invidiae et ventis iactarat iniquis 199.


Seneca compara gli attacchi degli invidi contro i grandi uomini ai
latrati che i cani, minuti, rivolgono agli sconosciuti: et ad nomen
magnorum ob aliquam eximiam laudem virorum, sicut ad occursum
ignotorum hominum minuti canes, latratis200. Ammiano Marcellino
presenter, nelle sue storie, la figura dell'invidia intenta a
circumlatrare201 nel seguito di Augusto.
Ritornando al testo di Ovidio, il verso 763 introduce un altro
elemento fondamentale della sfera dell'invidia. Dopo aver definito
la casa con l'aggettivo, generico, tristis202, Ovidio parla di un ignavi
frigoris di cui sarebbe plenissima la domus. Questo freddo
simboleggia, come ben mostrato da Dickie 203, l'inattivit assoluta
che contraddistingue gli invidiosi. La fonte greca che mostra la
prima esplicita associazione tra invidia ed inerzia costituita dal De
Capienda ex Inimicis Utilitate di Plutarco. L'idea era per implicita
nelle divisioni tra zelos e phthonos di Esioso, Isocrate, Aristotele;
abbiamo gi visto, infatti, parlando dello phthonos, come, per i
greci, l'invidia nascesse dall'impossibilita dell'emulazione, dal non
poter realizzare una qualche forma di zelos. Per i romani valeva lo
stesso concetto: gli invidiosi erano dominati da una

inertia

sostanziale che impediva loro qualsiasi tentativo di un confronto


con il rivale.
198 Hor. Epod. 6. 1-2. Cfr.. M. Dickie, The disavowal of Invidia.., pp. 195-203.
199 Sil. 8-290-291.
200 Sen. Dial. 7.19.2.
201 Amm. 16.6.1. in comitatu vero Augusti circumlatrabat Ambitionem invidia.
202 Per la connessione tristia-invidia Cfr., e.g., Plaut. Capt. 583 est miserorum ut malevolentes
sint atque invideant bonis,; Truc. 743; Ter. Eun. 412 illi invidere misere; Verg. Ge. 3.37
Invidia infelix; Sen. Oct. 485 invidia tristis; Stat. Silv. 2.6.69 Invidia infelix.
203 M. Dickie, Ovid Metamorphoses, pp. 384-390.

La descrizione pi dettagliata del rapporto inertia-invidia quella


fornita da Seneca: inde ille adfectus otium suum detestantium
querentiumque

nihil

ipsos

habere,

quod

agant,

et

alienis

incrementis inimicissima invidia: alit enim livorem infelix inertia et


omnes destrui cupiunt quia se non potuere provehere: ex hac
deinde aversatione alienorum procesuum, et suorum desperatione
obirascens fortunae animus et de saeculo querens et in angulos se
retrahens

et

poenae

incubans

suae,

dum

illum

taedet

sui

pigetque204.
La fonte letteraria che per prima testimonia, anche per il mondo
latino, la connessione tra ignavi ed invidi pero quella delle
Bacchides di Plauto, introdotta durante la descrizione dei falsi amici:
multi more isto atque exemplo vivont, quos quom censeas/ esse
amicos, reperiuntur fasi falsimoniis,/ lingua factiosi, inertes opera,
sublesta fide./ nullus est quoi non invideant rem secundam
optingere:/ sibi ne invideatur, ipsi ignavi recte cavent 205. Cicerone,
nell'Ad Quirites post reditum descrive quattro classi principali di
individui che lo hanno danneggiato: tra queste, egli presenta anche
quella di tutti coloro che non potendo ottenere e raggiungere, a
causa della loro ignavia, i suoi stessi successi, hanno finito con
l'invidiare la sua fortuna: tertium, qui cum propter inertiam suam
eadem adsequi non possent, inviderunt laudi et dignitati meae 206.
Tacito, negli Annales, descrisse il filosofo Seneca intento e
concentrato sui suoi inertia studia ed invidioso di coloro che
esercitavano la loro eloquenza per la difesa dei cittadini (simul

204 Sen. Dial. 9.2.10-11.


205 Pl. Bacch. 540-544.
206 Cic. Red. Pop. 21; Cfr. Cic. Fam. 12.5.3 Ser. Sulpicii morte magnum praesidium amisimus;
reliqui partim inertes, partim improbi; non nulli invident eorum laudi quos in re publica
probari vident; Att. 4.3.5 numquam enim cuiusquam invidi et perfidi consilio est us(ur)us
nec inerti nobili crediturus.

studiis inertibus et iuvenum imperitiae suetum livere iis qui vividam


et incorruptam eloquentiam tuendis civibus exercerent 207).
Sulpicio Severo, rivolgendosi a coloro che avevano negato che
l'amico e maestro di Sulpicio, Martino di Tours, possedesse tutte le
virt e qualit che lo stesso Sulpicio aveva lui attribuito, li definisce
come infelices che preferiscono negare e rifiutare agli altri tutto ci
che essi non sono riusciti ad ottenere: sed infelices, degenere,
somnolenti, quae ipsi facere non possunt, facta ab illo erubescunt:
et malunt illius negare virtutes quam suam inertiam confiteri 208.
Uno dei campi privilegiati per la connessione tra invidia ed inerzia
nel mondo romano era quello bellico-militare. Nel ventiduesimo
libro dell'Ab Urbe condita di Tito Livio, Manlio Torquato, volendo
convincere il senato a non riscattare i prigionieri romani catturati
dai cartaginesi dopo Canne, introduce, tra le motivazioni per la sua
decisione, il fatto che i prigionieri, una volta riscattati, avrebbero
provato invidia per coloro che erano riusciti a scappare, visto che
questi si erano salvati grazie al coraggio ed al valore di cui avevano
dato mostra, mentre loro erano finiti schiavi a causa della loro
ignavia (aut non invidere eos cum incolumitati, tum gloriae illorum
per virtutem partae, cum sibi timorem ignaviamque servitutis
ignominiosae

causam

esse

sciant 209).

Lo

stesso

Livio

parla

dell'invidia e della segnitiam di chi rimane a casa nei confronti di chi


parte a combattere (segnitiam, invidiam,et obrectationem domi
manentium adversus militantes210). Plinio, elogiando le imprese
militari di Traiano sotto Domiziano, descrive l'imperatore come iners

207
208
209
210

Tac. Ann. 13.42.4.


Sulp.Sev. Dial. 1.26.
Liv. 22.60.21.
Liv. 34.34.7.

ed invidioso delle virt altrui (iners ipse alienisque virtutibus tunc


quoque invidus imperator211).
Un ultimo esempio, anch'esso ripreso da Dickie, tratto dall'Eneide,
a proposito di Drance, invidioso di Turno: Tum Drances idem
infensus, quem gloria Turni/ obliqua invidia stimulisque agitabat
amaris/ largus opum et lingua melior, sed frigida bello/ dextera 212. In
questo caso, l'idea dell'inerzia resa, proprio come nel passo
ovidiano, dall'aggettivo frigida. L'aggettivo frigidus, infatti, assieme
al sostantivo frigus, veniva comunemente utilizzato, come il verbo
omoradicale frigeo ed il suo incoativo frigesco, per indicare, come
testimoniato dal Thesaurus213, l'inattivit.
Giunta alla soglia, Minerva si ferma davanti alla porta e bussa con la
punta della lancia: Huc ubi pervenit belli metuenda virago,/ constitit
ante domum, neque enim succedere tectis/ fas habet, et postes
extrema cuspide pulsat.214
L'immagine della dea che si ferma sulla soglia e non entra entra
richiama, come notato dai commenti al passo, l'episodio della
chiamata della Fame ad opera di un Oreade dei monti, a sua volta
convocata da Cerere. L'Oreade non si avvicina alla Fame, ma le
parla da lontano: Hanc procul ut vidit (neque enim est accedere
iuxta/ ausa)215.Nonostante questo, tuttavia, appena arrivata alla sua
dimora, comincia a sentirsi a sua volta affamata (quamquam aberat
longe, quamquam modo venerat illuc,/ visa tamen sensisse
famem)216: per questo, dopo aver riferito il messaggio di Cerere
(relativo alla punizione di Erissitone), l'Oreade si leva a volo,
guidando nuovamente i draghi verso l'Emonia (retroque dracones/
211
212
213
214
215
216

Plin. Iun. Pan.14.5.


Verg. Aen. 11.336-339.
ThlL vol.vi. Coll. 1322, 1323 ss, 1331, 1339.
Ovid. Met. 2. 765-767Ov. Met. 8. 809-810.
Ov. Met. 8. 811-812.

egit in Haemoniam versis sublimis habenis)217. Il pericolo corso dalla


messaggera, dunque, quello di rimanere contaminata dalla Fame,
accostandosi all'entit o anche solo dimorando troppo a lungo nelle
sue vicinanze.
A proposito dell'incontro Minerva-Invidia, Feeney sottolinea come
l'atteggiamento restio mostrato dalla dea nella casa di Invidia
testimoni the shame which the dignified person feels at having
succumbed to this base vice218.
La mia opinione che, in realt, Minerva non stia combattendo una
sorta di battaglia psicologica interna tra senso di invidia provato e
volont di rimozione del medesimo, ma che, al contrario, il passo
testimoni come la dea non possa essere soggetta alla phthonosinvidia, che proprio lei vuole scatenare in Aglauro.
La dea si forma sulla soglia, non perch titubante, recalcitrante o
dubbiosa, ma, pi semplicemente, perch non le concesso (neque
fas!) entrare nella casa, avere contatti con lo phthonos. In questo
caso il neque fas equivale, a mio modo di vedere, all'espressione
neque fata coire sinunt utilizzato da Ovidio, nell'ottavo libro, per
indicare l'impossibilit di un incontro tra Cerere, e Fame (neque
enim Cereremque Famemque/ fata coire sinunt)219.
legge naturale e del destino che la dea che simboleggia
l'agricoltura non possa avere contatti con la personificazione della
Fame. Allo stesso modo, io credo che il neque fas del secondo libro
voglia rimarcare il fatto che non sia concesso a Minerva avere
contatti con l'Invidia (intesa nella accezione di phthonos). Anche
l'indicazione della dea che distoglie lo sguardo alla vista della
mostruosit dell'Invidia pu essere interpretata nell'ottica della
217 Ov. Met. 8. 812-813.
218 D.C. Feeney, The Gods in Epic, Oxford 1991, p. 246.
219 Ov. Met. 8. 785-786.

mancanza di qualsiasi tipo di rapporto tra Minerva e il sentimento


stesso.
Lo stesso l'episodio della contesa tra Minerva ed Aracne, presentato
dai sostenitori della figura di Minerva invidiosa, in realt mi pare
che possa essere letta nell'ottica dello nemesi-script di invidia.
Ovidio, infatti, sottolinea a pi riprese il comportamento sprezzante
di Aracne,

dapprima con il suo rifiuto a riconoscere la paternit

della dea sulla attivit della tessitura (scires a Pallade doctam/


Quod tamen ipsa negat)220; poi con il suo rifiuto della proposta,
offerta dalla stessa Minerva travestita da vecchia, a non sfidare la
dea e ad accontentarsi di essere la migliore tra le mortali
(<<Consilium ne sperne meum. Tibi fama petatur/ inter mortales
faciendae maxima lanae:/ cede deae, veniamque tuis, temeraria,
dictis/ supplice voce roga: veniam dabit illa rogantis>>/ Adspicit
hanc torvis)221. La tessitrice della Lidia, inoltre, ricama, nella sua
tela, storie di amori adulterini degli dei 222. Se vero, come
sottolineato da Ovidio, che la tela di Minerva, per la sua qualit, non
poteva essere oggetto di critiche n da parte di Minerva n
dell'Invidia, vero, anche, che questa osservazione concerne la
sfera propriamente artistica del lavoro. Esattamente come avviene
nell'episodio

di Aglauro

nel quale,

come

abbiamo

visto,

la

sofferenza di Minerva viene ricondotta subito da Ovidio alla


trasgressione della Cecropide ad un precetto divino, anche in
questa circostanza, l'espressione della sofferenza della dea (doluit
successu

flava

virago)

viene

subito

ricollegato,

nel

verso

successivo, alla causa scatenante; causa che rientra nella nozione


di demerito e trasgressioni di principi generali di giustizia che
220 Ov. Met. 6. 23-24.
221 Ov. Met. 6. 30-34.
222 Ov. Met. 6. 103-126.

costituisce la base per l'esplosione dello sdegno (Doluit successu


flava virago/ et rupit pictas, caelestia crimina, vestes)223.
La dea punisce Aracne, infatti, per la tracotanza mostrata e per
aver osato ricamare sulla sua tela, lei donna mortale, caelestia
crimina. Galinsky, analizzando il passo, sottolinea come it may well
be that the traditional accounts of the story had a moral purpose
and pilloried the hybris of Arachne. There is no indication, however,
that this is the point of Ovid's story () Minerva is victorious only
because her power, and not her art, is superior to Arachne's 224.
Come gi anticipato, la mia opinione che non solo la storia
testimoni, in pi punti, la hybris di Aracne, ma che proprio
l'osservazione portato da Galinsky a sostegno della sua tesi, il fatto,
cio, che Minerva punisca la donna di Lidia solo perch pi potente,
rappresenti,

in

realt,

proprio

il

punto

debole

della

sua

argomentazione: Ovidio, infatti, sottolinea pi volte, il fatto che


fosse proprio la stessa Aracne a non riconoscere la superiorit della
dea. Un tipo di comportamento, questo, che, come abbiamo visto
anche nelle fonti greche, comportava la nemesi divina. La punizione
di Minerva nasce da questa colpa e ristabilisce gli equilibri di forza,
negati da Aracne225.
Il resto della descrizione e della presentazione ovidiana dell'invidia
si snoda attraverso due linee fondamentali, tra loro strettamente
connesse: il tema della vista e quello della sofferenza. Minerva vede
e soffre, L'invidia vede e soffre, Aglauro vede e soffre. La vista, in
tutti i casi, straziata e tesa, sia perch l'oggetto ad essere tale
(come in Dante che soffre alla vista degli invidiosi nel Purgatorio),
sia perch, come nel caso dell'Invidia, il soggetto a proiettare,
223 Ov. Met. 6. 130-131.
224 K. Galinsky, Ovid's Metamorphoses: an introduction to the basic aspects, Berkley-Los
Angeles 1975, p. 83.
225

nella vista, i suoi tratti contorti. In Aglauro, infine, la vista stessa


ad assumere, per influenza dell'Invidia medesima, tratti esagerati,
confusi, distorti e grotteschi.
La vista che si offre a Minerva all'apertura della porta,
raccapricciante: L'invidia resa personaggio.
Sul ruolo delle personificazioni ovidiane si sono soffermati alcuni
degli studi pi importanti dedicati alle Metamorfosi (e non solo).
Solodow, ad esempio, ha definito le personificazioni presenti nelle
Metamorfosi come brilliant examples of the general striving towards
clarity, In questo senso, esse sono accostabili, secondo lo studioso,
al processo metamorfico stesso, il quale si configurava, sempre
secondo Solodow, come un processo di astrazione: Metamorphosis..
is .. a change which preserves, an alteration which maintains
identity, a change of form by which content becomes represented in
form; essal infatti introduce clarity of perception. It distills and
makes manifest human experience, It expresses no judgement. It
removes the obscurity created by an inner life or by the possibility
of change. It externalizes something about character, history, or a
relation. It regularly makes essence visible, plain, clear.
Feeney, dopo aver sottolineato il ruolo delle personificazioni sin
dalle origini della letteratura greca (Omero ed Esiodo), ha poi
rilevato come, a differenza degli esperimenti omerici ed esiodei
originari, in cui le personificazioni are (crucially) not characterful
agents who engage with human beings, occupyng the same
narrative space as the human characters, and interacting with them
in the same way as do the gods themselves, Ovidio e Stazio aprano
alle personificazioni allegoriche medievali e rinascimentali, nella
presentazioni

di

personificazioni

di

stati

d'animo,

passioni,

emozioni, entit astratte come veri e propri personaggi che

agiscono sulla scena come figure dotate di propri realt e


concretezza.

L'Invidia,

personificazioni,

the

in

particolare,

most

complex

rappresenta,
case.

Ovid's

tra

le

use

of

personification is at its richest here, for he presents us with a scene


in which characters act in the same realm of narrative as an entity
who embodies the timeless characteristics of their particular moral
failing.
Tissol ha analizzato le personificazioni ovidiane in relazione al
concetto, desunto dalla terminologia della critica letteraria antica,
di manifestazioni, visualizzazioni. Il termine, tradotto in latino
visiones da Quintiliano, designava the process by which the poet
makes something appear before the eyes of the audience, in vivid
imaginative actualization226. Le personificazioni ovidiane vennero
definite phantasiai, gi nel 1493, da Regio, il quale, a proposito
dell'Invidia, sottoline che Eleganti Phantasia Invidiae et corpus et
figuram humanam et actiones attribuit. Ea vero omnia describit
quae invidis inesse solent. La tecnica di personificazione operata
da Ovidio fa s che Invidia rappresenti contemporaneamente a
feeling affecting a person and the person affected 227. In quanto
personificazione un personaggio, ma un personaggio che soffre
l'essere se stesso, soffre l'essere incarnazione e rappresentazione
della sua essenza. Riprendendo una bella espressione citata da
Lowe228, possiamo definirla un personaggio medio-passivo, poich
sperimenta, ella stessa per prima, le sofferenze ed i patimenti che
infligge agli altri.

226
227
228 D.M. Lowe, Personification Allegory in the Aeneid and Ovid's Metamorphoses,
<<Mnemosyne>>, 61 (2008), p. 423.

L'Invidia, perci, viene raffigurata intenta a mangiare carni di vipera


(edentem/ vipereas carnes)229, pallida e macilenta in tutto il corpo
(Pallor in ore sedet, macies in corpore toto)230, ha i denti lividi e
guasti (livent rubigine dentes)231, il petto verde di fiele e sulla lingua
una patina di veleno (pectora felle virent,/lingua est suffusa
veleno)232. Ma soprattutto dalla vista che derivano le sue
sofferenze: Se Minerva distoglie lo sguardo perch non riesce a
sopportare la visione dell'Invidia, l'Invidia soffre proprio perch vede
il fulgore di Minerva e delle sue armi. L'accostamento dell'incoativo
intabescit con il gerudio di video enfatizza la relazione ed il rapporto
reciproco tra processo consuntivo e sfera visiva (sed videt ingratos
intabescitque videndo)233.
L'Invidia non per, solamente, un personaggio grottesco, ma
anche una figura paradossale (esattamente come il vizio che
rappresenta). Soffre nel vedere il benessere altrui, e gode delle
sofferenze (Risus abest, nisi quem visi movere dolores)234. Il suo riso
non suscitato dalla gioia, ma dal dolore (vixque tenet lacrimas,
quia nihil lacrimabile cernit)235. Ricevuto l'ordine di Minerva di
malavoglia, perch sa che la sua azione, l'avvelenamento di
Aglauro, arrecher soddisfazione alla dea, l'Invidia, dopo aver
contaminato, durante il suo passaggio in volo in direzione della
rocca di Atene, case, genti, citt, strappando le cime alle piante e
bruciando le erbe236, raggiunge, infine la stanza della figlia di
Cecrope.

229
230
231
232
233
234
235
236

Ov.
Ov.
Ov.
Ov.
Ov.
Ov.
Ov.
Ov.

Met.
Met.
Met.
Met.
Met.
Met.
Met.
Met.

2.
2.
2.
2.
2.
2.
2.
2.

768-769.
775.
776.
777.
780.
778.
796.
791-794.

Dopo essere entrata nella stanza della giovane ateniese, esegue ci


che le era stato comandato: con la sua mano color ruggine le tocca
il petto e le riempie il cuore di rovi uncinati (manu ferrugine tincta/
tangit et hamatis praecordia sentibus implet)237, le insuffla un
terribile veleno, come una pece, glielo diffonde per le ossa e glielo
spande dentro ai polmoni (inspiratque nocens virus piceumque per
ossa/ dissipat et medio spargit pulmone venenum;)238. A questo
punto Aglauro contaminata; tuttavia, continua Ovidio, affinch gli
appigli del male non restino vaghi, l'Invidia fa apparire dinnanzi agli
occhi di Aglauro la visione della sorella felicemente sposata con
Mercurio (neve mali causae spatium per latius errent,/ germanam
ante oculos fortunatumque sororis/ coniugium pulchrae deum sub
imagine ponit)239. Anche in questo caso, tuttavia, la visione provata
dalla fanciulla ateniese non potr essere che distorta e deviata:
l'invidia infatti, prosegue Ovidio, calca, esagera, enfatizza le tinte
della visione: cunctaque magna facit240.
I modelli letterari che avrebbero ispirato Ovidio per la descrizione
dell'avvelenamento di Invidia sono stati concordemente identificati
dai critici nella Fama e nell'Aletto virgiliana241. D'altronde, proprio
queste due entit, cosi come presentate da Virgilio, erano
contraddistinte da un insieme di caratteristiche che ben potevano
adattarsi alla presentazione allegorica del risentimento invidioso.
Con Aletto, in particolare, l'invidia condivide alcune peculiarit sia in

237 Ov. Met. 2. 798-799.


238 Ov. Met. 2. 800-801.
239 Ov. Met. 2. 802-804.
240 Ov. Met. 2. 805.
241 Cfr., in particolare, P. Hardie. The word Personified: Fame and Envy in Virgil, Ovid, Spenser,
<<MD>>, 61 (2008), pp. 101-115.

relazione

al

buio

ed

all'oscurit

che

le

circondano 242,

sia,

soprattutto, in relazione al loro specifico modus operandi243.


Aletto, infatti, dopo essere stata evocata dalle tenebre infernali da
Giunone per scatenare guerra tra Troiani e Latini, si reca a casa di
Amata imbevuta di gorgonei veleni. La dea dalla chioma livida le
lancia un serpente e glielo insinua nel seno fino alle profondit del
cuore (Huic dea caeruleris unum de crinibus anguem/ conicit inque
sinum praecordia ad intuma subdit)244. Il serpente strisciando tra le
vesti ed il liscio petto, si snoda senza morderla, e la inganna
rendendola folle (ille inter vestes et et levia pectora lapsus/ volvitur
attractu nullo fallitque furentem/ vipeream inspirans animam)245. La
veste di Amata si intride di umido veleno, agita i sensi e avviluppa
di fuoco le ossa (prima lues udo sublapsa venenum/ petemptat
sensus atque ossibus implicat ignem)246.
Indicativa, in ambedue i passi, la ripresa dei termini-chiave del
processo di avvelenamento e infezione 247, con l'utilizzo del verbo
inspirare248 atto ad indicare un veleno che viene, letteralmente,
insufflato, spirato dentro Aglauro ed Amata. Il veleno che infetta
Amata, inoltre, ha la peculiarit di agire lentamente: La regina dei
Latini, infatti, ha ancora la possibilit, prima che la fiamma velenosa
invada tutto il petto, di rivolgersi al marito Latino dolcemente,
secondo la consuetudine delle madri, affinch questi non conceda
in sposa la figlia Lavinia ad Enea 249;allo stesso modo, il virus che
242 Ov. Met. 2. 761-762 Domus est imis in vallibus huius/ abdita, sole carens;; Verg. Aen. 7.
325 infernisque ciet tenebris. Virgilio collocher anche l'Invidia negli inferi, in Ge. 3.
243 J.B. Solodow, op.cit., p. 200 sottolinea la differenza tra la strongly moralized Aletto di
Virgilio e le personificazioni ovidiane whose descriptions are specific, visible, human,
immediately understood, and free from moalizing.
244 Verg. Aen. 7. 346-347.
245 Verg. Aen. 7. 349-351.
246 Verg. Aen. 7. 354-355.
247 Cfr. Ov. Met. 2. 800 virus, 801 venenum; Virg. Aen. 7. 354 veneno.
248 Ov. Met. 200; Verg. Aen. 351.
249 Verg. Aen- 7. 356-358.

colpisce Aglauro si insinua lentamente, provocando una lenta


consunzione, secondo le modalit tipiche dell'invidia.
La figura della furia Aletto, inoltre, come messo in luce da Feeney,
rivestiva

gi,

in

Virgilio,

una

valenza

assimilabile

alla

personificazione, in quanto la sua presentazione, la sua, forma ed


immagine, potevano valere, anche quando fisicamente descritte,
come interpretazioni allegoriche della sua essenza piuttosto che
come attributi effettivi e concreti di un personaggio pienamente
mitologico.250
L' Aletto di Virgilio, tuttavia, non agisce sulla vista e sulla capacit
visiva di Amata. Non vi , infatti, nell'intera descrizione dell'episodio
di Amata ed Aletto un solo verbo che rimandi alla sfera visiva,
mentre, come abbiamo visto, la visione distorta e, soprattutto,
ingigantita

ed

ipertrofica

una

delle

peculiarit

principali

dell'Invidia ovidiana.
Per enfatizzare quest'ultimo aspetto probabile che il poeta si sia
ispirato ad un'altra celebre personificazione virgiliana: la Fama del
quarto libro dell'Eneide.
La Fama di Virgilio, infatti, un mostro orrendo ed informe, che
possiede tanti occhi, lingue, bocche, orecchi quante piume nel
corpo (monstrum horrendum ingens, cui quot sunt corpore plumae/
tot vigiles oculi subter (mirabile dictu),/ tot linguae, totidem ora
sonant, tot subrigit auris)251; non chiude gli occhi al dolce sonno,
mentre di giorno siede spiando sul culmine di un tetto (nec dulci
declinat lumina somno;/ luce sedet custos aut summi culmine

250 D.C.Feeney, op.cit., p. 163 She (Aletto) is a creature who embodies and revels in all
manner of evil... She need not necessarily have been so. Euripide's Lyssa is an interisting
case of a divine agent of madness who remains rational, emancipated from her
characteristic effect, Allecto, on the other end, is her essence. Cfr. D. Lowe, op.cit., pp. 422424.
251 Virg. Aen. 4. 181-183.

tecti)252. Anche in Virgilio, la vista della Fama si accompagnava ad


una stortura della realt dei fatti: la Fama, infatti, viene considerata
messaggera tanto del falso e del malvagio, quanto del vero;
annunzia ugualmente il reale ed il fittizio (tam ficti pravique tenax
quam nuntia veri)253. Tutto in lei enfatizzato ed esagerato,
compresa, evidentemente, la sua vista e le notizie da lei
riportate254. In particolare, come sottolineato da Tissol, l'Invidia
condivide con la Fama il potere dell'enargeia, la capacit, cio, di
creazione

di

vivide

immagini,

facolt

che

ambedue

le

personificazioni sembrano condividere con il poeta: our experience


as readers mirrors that of Aglauros, in that we have, just before,
witnessed the personification of Invidia as a richly detailed imago
before our eyes, so to speak255. Comune all'Aletto e alla Fama
virgiliana, oltre che all'Invidia di Ovidio, anche il contesto erotico
sentimentale che fa da cornice all'insorgere delle personificazioni:
La Fama permette a Iarba di venire a conoscenza dell'amore tra
Enea e Didone, Aletto interviene per sconvolgere il connubio EneaLavinia, l'Invidia insorge mostra ad Aglauro le nozze di Erse con
Mercurio.
Partendo proprio dalle analogie tra Fama ed Invidia, Alison Keith ha
ricollegato i rapporti tra le due entit nel secondo libro delle
Metamorfosi ad un significato, extra-testuale, di rapporto diretto tra
fama e gloria poetica e conseguente invidia. Questa sottolineatura
importante perch mette in luce un rapporto, gloria poeticoletteraria ed invidia, ben testimoniato dalle fonti: invidia, cos come
i

suoi

sinonimi,

greci

latini,

livor,

venivano

utilizzati

252 Verg. Aen. 4. 185-186.


253 Verg. Aen. 4. 188.
254 Ovidio riprender quest'immagine dell'enfatizzazione ed esagerazione della componente
visiva e verbale della Fama nella sua personificazione della stessa, presentata nel
dodicesimo libro delle Metamorfosi.
255 G.Tissol, op.cit., p. 67.

frequentemente dagli dell'antichit in metaphorical expositions of


their poetics256.
Nel campo della letteratura greca un ruolo di primo piano hanno,
ancora una volta, gli epinici pindarici257. Significativa anche la
testimonianza del poeta di ditirambi Timoteo, il quale conclude il
suo nomos lirico Persae con una richiesta, rivolta ad Apollo, di
difendere il poeta contro il criticismo che potrebbe scatenare il suo
nuovo genere poetico.
Anche le antiche Vitae dei poeti testimoniano episodi chiari di
invidia letteraria e poetica tra importanti intellettuali dell'epoca.
Riprendendo questa tradizione letteraria, Callimaco, nell'Inno ad
Apollo, introdurr il tema dello phthonos e della baskania in un
contesto di riflessione ed indagine poetica.
Nel panorama della letteratura latina, Virgilio presenter l'invidia
sconfitta e relegata nell'oltretomba, in un passo, il finale del
proemio del terzo libro delle Georgiche258, che stato oggetto di
numerose

interpretazioni

studi

dedicati

all'individuazione

dell'oggetto dell'Invidia (Virgilio stesso od Ottaviano), ma che


parrebbe non escludere istanze specificamente letterarie, anche
perch inserito in un contesto che, a detta di Thomas, costituisce
Virgil's most extensive statement of literary purpose. Lo stesso
Ovidio presenter il tema dell'invidia in relazione alla gloria
letteraria nella quindicesima elegia degli Amores259, in vari passi dei
Remedia

Amoris260,

nei

Tristia261

nonch,

all'interno

delle

Metamorfosi, nel famoso episodio di Minerva ed Aracne 262. Se


256 A.Keith, op.cit., p.127.
257 Cfr., e.g., Ol. 8.55, Pyth. 7.19, Isth. 7.39; Cfr., e.g., Ol. 1.47, Pyth 2.90, Nem. 8.21, Pyth
10.20, Isth. 1.44, 2.43.
258 Verg. Ge. 3.34-39.
259 Ov. Am. 1.15.1-2, 39-40.
260 Ov. Re,m. 365 ingenium magni livor detractat Homeri; Rem. 389 rumpere livor edax; Rem.
397 hactenus invidiae respondimus.
261 Ov. Tr. 3.4.43, 4.4.26, 5.8.24.
262 Ov. Met. 6. 129-30.

riconsideriamo il contesto generale in cui, nel secondo libro,


calata la personificazione dell'Invidia, in un insieme e gruppo di
storie, cio, che indaga e riflette proprio le conseguenze della
narrazione di storie e dell'usus vocis, possiamo ritenere sensate le
conclusioni della Keith, per la quale it is typical of Ovid's literary
sophistication to consider the specifically literary nature of Envy
in a passage that explores the risks and the rewards of storytelling263.
Le immagini, plasmate dall'Invidia, della sorella felice, costituiscono,
dunque, la base e l'origine delle sofferenze di Aglauro. La punizione
vera e propria cui viene sottoposta la Cecropide si divide
sostanzialmente in due fasi; Inizialmente la fanciulla viene colta e
morsa da un dolore occulto, si geme e si strugge:
Cecropis occulto mordetur et anxia nocte,
anxia luce gemit lentaque miserimma tabe
liquitur, ut glacies incerto saucia sole,
felicisque bonis non lenius uritur Herses
quam cum spinosis ignis subponitur herbis
quae neque dant flammas, lenique tepore cremantur.
Un valido parallelo, analizzato in particolare da Charles Segal, per le
modalit d'azione d'Invidia quello della Fame nell'ottavo libro
delle Metamorfosi. Ambedue questi esseri semi-allegorici sono
immaginati come spiriti maligni che, giungendo di notte, fanno
stillare il veleno nelle vene e negli organi pi interni delle vittime. La
Fame, esattamente come l'Invidia, soffia se stessa dentro Erisittone
263 A.Keith, op.cit., p. 131.

(geminis amplectitur ulnis/ seque viro inspirat)264, procedendo dalle


parte pi esterne fino dentro alle vene (faucesque et pectus et ora/
adflat, et in vacuis spargit ieiunia venis)265. Proprio come la
consunzione che strazia e tormenta Aglauro si nutre della visione
della fortuna della sorella, cos Erisittone si sveglia con la malattia
che progressivamente si diffonde attraverso il corpo ed arriva ad
immaginare nel sogno il cibo (petit ille dapes sub imagine somni 266).
Ambedue sono colti da una pazzia e devastazione interiore:
l'equivalente contemporaneo di questo orrore il lugubre potere del
vampiro, che rimane cos affascinante nella cultura popolare e nel
cinema: in entrambi i generi una forma mostruosa posseduta da
una

forza

soprannaturale,

prende

il

controllo

di

un

corpo

addormentato infondendogli nelle vene dei veleni che agiscono sia


sulla mente che nel corpo267.
La

prima

attestazione

letteraria

della

consunzione

prodotta

dall'invidia fornita da Menandro, anche se la descrizione


plutarchea della figura emaciata presente nel ritratto di Apelle la
calunnia testimonia come l'idea di un processo di consunzione
legato al livore fosse presente e diffuso gi in precedenza.
Il processo di scioglimento interiore al quale sono soggetti gli
phthoneroi veniva generalmente concepito come un divoramento
interno, spesso accostato e paragonato alla corruzione cui la
ruggine sottopone il ferro ed i vermi consumano il legno. Il verbo
maggiormente utilizzato, in greco, per indicare il processo era ; il
sostantivo , come indicato da Dickie e Dunbanin 268, compare per la
prima volta in un mosaico di Cefallonia, e verr poi impiegato
264
265
266
267
268

Ov. Met. 10. 818-819.


Ov. Met. 10. 819.820.
Ov. Met. 10. 824.
C.Segal. op.cit., pp. LXIII-LXIV.
K. Dunbanin-M.Dickie, op.cit., pp. 15-16.

numerose volte da Gregorio di Nissa e Giovanni Crisostomo. Il


latino, per indicare il medesimo processo, ricorre ai gi osservati
tabesco, incoativo di tabeo ed omoradicale di , ma anche a macies
e macresco269. Questo tarlo interiore comportava, naturalmente,
anche conseguenze a livello fisico, in particolare nel volto e negli
occhi: Gregorio di Nissa introduce, tra gli aspetti fisici tipici di una
persona rosa dallo phthonos, occhi sanguinanti, secchi, pallidi, fermi
e impassibili, incavati, avvizziti, le sopracciglia cadute e le ossa
sporgenti dalla carne.
L'oratore Libanio, per provare al consiglio dei Cinquecento le sue
sofferenze dettate da invidia, chiede loro di osservare i suoi occhi
iniettati di sangue, le sue mandibole pendule, il suo sfinimento, il
suo procedere e muoversi come un fantasma. Una tra le immagini
pi icastiche e vivide della sofferenza consuntiva dell'invidia
presente nell'Anthologia Latina, dove il Livor viene presentato come
un veleno tabificum che agisce consumando le midolla e lasciando
intatte le ossa, suggendo tutto il sangue dagli arti 270.
Un altro celebre paradigma della sofferenza invidiosa offerto dal
passo delle Metamorfosi quello dello phthonos che morde le sue
vittime. Aglauro, infatti, morsa (mordetur) da un dolore occulto.
I morsi interiori dell'invidia hanno permesso, in alcune fonti,
l'avvicinamento

dell'immagine

della

passione

invidiosa

con

determinati animali selvaggi, in particolar modo rapaci ed uccelli di


caccia. Petronio, in un frammento del Satyricon, accosta il luxus ed
il livor ad un avvoltoio271. Nella poesia dell'Anthologia citata in

269 Cfr. Hor. Ep. 1.2.57-59; Ov. Met. 2.775; Anth. Lat. 636.11.
270 Anth. Lat. 636. 1-3 livor, tabificum malis venenum,7 intactis vorat ossibus medullas/ et
totum bibit artubus cruorem.
271 Petr. Sat. Frg. 25 Mller.

precedenza272 il livor viene invece accostato all'uccello di Tizio, che


lacera e consuma la mente273.
Anche quando si parla dei morsi dell'invidia, tuttavia, l'immagine
che se ne ricava non tanto quella di ferite inflitte violentemente,
ma di un movimento molto pi profondo, meno intenso ma pi
continuo, accostabile piuttosto al rosicchiamento, cui rimanda
anche la similitudine, abbastanza comune, con la figura del verme
che, appunto, morde, rosicchiandolo, il legno. La stessa sfumatura
presentano, secondo Dunbanin e Dickie, i verbi
Le sofferenze di Aglauro non finiscono qui, per. L'immediata
conseguenza dell'Invidia quella di spingere Aglauro a non
permettere a Mercurio l'accesso alla casa, per non farlo avvicinare
ad Herse (denique in adverso venientem in limine sedit7 exclusura
deum274). Mercurio cerca di calmarla, la supplica; Aglauro, tuttavia,
rimane irremovibile: non si muover dalla soglia, se prima non avr
cacciato il dio (cui blandimenta precesque/ verbaque iactanti
mitissima <<Desine>> dixit./ <<Hinc ego me non sum nisi te
motura repulso>>)275. Proprio queste parole segnano, di fatto, la
sua condanna (<<stemus >> ait <<pacto>> velox Cyllenius
<<isto!>>276.
La figlia di Cecrope sembra essere,in fondo, nient'altro che
l'ennesima vittima dell'usus vocis errato e sciagurato che colpisce
gli altri protagonisti di questa sezione narrativa. Come giustamente
sottolineato da Monella, nell'episodio di Aglauro troviamo, invertito
di segno, lo stesso schema che avevamo visto sotteso alle parole di
Batto. La principessa ateniese, per presentare un fatto come
272
273
274
275
276

Cfr. Supra n. 206.


636.21-22 est ales Tityi usque vultur intus/ qui semper lacerat comestque mentem.
Ov. Met. 2.814-815.
Ov. Met. 2. 815-817.
Ov. Met. 2.818.

impossibile, pone una condizione vincolante: l'evento -A (che


Aglauro non si muova) collegato a -B (che non sia ancora riuscita
a cacciare Mercurio). Il tutto rivolto a dichiarare l'impossibilit di
quest'ultima eventualit, ovvero del fallimento della resistenza
passiva della fanciulla, in quanto anche -A presentato, ed inteso,
come un'iperbole, o, se vogliamo, come un (..) Che sia un caso o no,
il dio del linguaggio astuto interviene per la seconda volta nello
spazio di poco pi di cento versi a sovvertire la strategia
comunicativa

dell'avversario,

traslando

ci

che

era

detto

figuratamente sul piano pi concreto del linguaggio 277.


Eppure, nel caso di Aglauro l'invidia continua a giocare un ruolo
primario anche nel processo stesso della metamorfosi: la sua
pietrificazione, infatti, risponde a caratteristiche specifiche: gli altri
mutamenti

litomorfici,

descritti

nelle

Metamorfosi

sono

semplicemente indicati in maniera sintetica e fattuale, come nel


caso di Batto278, oppure, laddove il poeta voglia sottolineare un
aspetto o un particolare del processo, piuttosto sull'immediatezza
e sull'istantaneit del fenomeno che si concentra la sua attenzione.
Non a caso le litomorfosi e le trasformazioni in statue si strutturano
spesso, nel testo ovidiano, su un contrasto tra una forma durativa
come l'imperfetto, o il participio (presente, ma anche futuro, nella
forma della perifrastica attiva) che indicano l'azione che stava
compiendo il soggetto nel momento in cui stato bloccato ed
immobilizzato, ed il perfetto, che, con la sua puntualit aoristica 279,
denota il momento stesso del mutamento 280. Giampiero Rosati ha
277 P. Monella, op.cit., pp. 73-74.
278 Cfr. Ov. Met 2. 819 sgg.; 4. 276 sgg; 6. 301 sgg.; 10 241 sgg.; 13. 741 sgg.
279 Cfr. A. Traina, Propedeutica al latino universitario Bologna 2007, pp. 181. Per i valori del
perfectum cfr. pp. 212-218.
280 Per l'opposizione durativo- momentaneo nelle litomorfosi cfr. Ov. Met. 4.552-553
saltumque datura moveri/ haud usquam potuit scopuloque adfixa cohaesit; Met. 5.182-183
utque manu iaculum fatale parabat/mittere, in hoc haesit, signum de marmore, gestu., 185186 pectora Lyncidae gladio petit, inque petendo/ dextera deriguit nec citra mota nec ultra
est; 205 dum stupet Astyages, naturam traxit eandem, 232-233 Tum quoque conanti sua

definito questa tecnica di descrizione del processo litomorfico come


gusto

ovidiano

della

scena

improvvisamente

immobilizzata,

bloccata nella sua plastica immediatezza 281.


Nel caso della trasformazione di Aglauro, invece, l'aspetto continuodurativo non viene utilizzato unicamente per denotare l'azione che
stava compiendo il personaggio nel momento in cui stato
trasformato (at illi/ surgere conanti)282, bens, anche, per descrivere
il

procedere

del

mutamento

stesso.

Da

atto

subitaneo,

cristallizzazione improvvisa ed immediata, la litomorfosi diventa,


dunque, nel caso di Aglauro, processo. Il freddo della pietra invade,
infatti, dapprima le ginocchia (sed genuum iunctura riget), poi si
spande fino alla punta delle dita (frigusque per ungues/labitur283); le
vene impallidiscono, senza pi sangue (pallent amisso sanguine
venae)284.

L'immagine

quella

del

cancro

che

si

propaga

serpeggiando ed aggredisce le parti sane (utque malum late solet


inmedicabile cancer/ serpere et inlaesas vitiatis addere partes)285,
fino a che il gelo mortale, a poco a poco, le entra nel petto e le
occlude le vie del respiro (sic letalis hiems paulatim in pectora
venit/ vitalesque vias et respiramina clausit)286. L'utilizzo di verbi
come flectitur, labitur, serpere, la prevalenza di spondei, la
presenza di termini metricamente pesanti come inmedicabile e
respiramina contribuiscono significativamente a creare un generale
senso di lentezza alla metamorfosi287.
Il processo descritto , ancora una volta, assimilabile a quello
prodotto dall'Invidia, la quale, dunque, si cela, come per sua natura,
vertere lumina cervix/ deriguit.
281 G. Rosati, illusione e spettacolo.., p. 147.
282 Ov. Met. 2.819-820.
283 Ov. Met. 2.823-824.
284 Ov. Met. 2. 824.
285 Ov. Met. 2.825-826.
286 Ov. Met. 2.827-828.
287 V.Chinnici, Volti d'invidia.., p. 115, definisce la presentazione della metamorfosi di Aglauro,
anche in relazione al mutamento di Batto, una descrizione al rallentatore.

dietro le pieghe di una Metamorfosi che, pertanto, trova nell'astuzia


di Mercurio e nelle parole incaute di Aglauro solo le concause del
proprio insorgere. Il soffocamento, non a caso, l'altra principale
penitenza

e sofferenza

cui sono

sottoposti gli invidiosi gi

nell'immaginario antico; ancora Dunbanin e Dickie presentano


importanti testimonianze a riguardo: testimonianze che, di fatto,
permettono una suddivisione del processo di soffocamento in due
insiemi: uno, costituito da fonti che vedono nel soffocamento un
atto volontario dell'invidioso, che, non riuscendo a sopportare le
fortune altrui, pone fine alla sua vita impiccandosi. Cos, ad
esempio, troviamo che il successo di Marziale aveva prodotto
un'invidia cos forte nel suo rivale Charino, che questi, impazzito e
fuori di s, livet, rumpitur, furit, plorat/et quaerit altos unde pendeat
ramos288.
Di un altro invidioso di Marziale, Procillo, ci viene presentata la
volont di impiccarsi, dopo aver visto una candida fanciulla
rivolgere le sue attenzioni proprio all'epigrammista:
Chiara anche l'immagine del Livor fornita da Silio Italico: Scipione
Africano, scendendo agli inferi per parlare con lo spirito del padre
incontra, tra i mali che affliggono l'umanit, proprio il Livore colto
nell'atto dello strozzarsi: hinc agens utraque manu sua guttura
Livor289.
Ma il soffocamento invidioso, oltre che come auto-impiccagione,
poteva

configurarsi

anche

come

strangolamento

emotivo.

L'invidiosus, infatti, non poteva dar sfogo compiutamente al proprio


sentimento, non poteva, in virt della natura segreta ed occulta
della passione stessa, farlo esplodere. L' atto dello strozzarsi,
dunque,

si

288 Mart. 8.61.1-2.


289 Sil. 13. 584.

configurava

come

vera

propria

espressione

dell'impotenza dell'invidioso. L'oratore della Declamatio 30 di


Libanio ammette, davanti al Consiglio, che lui ed il suo vicino
avevano spesso provato un senso di soffocamento dinnanzi alla
ricchezza altrui. Galeno parla del soffocamento invidioso di coloro
che non erano riusciti a confutare le sue teorie. In una iscrizione
apotropaica di origine cristiana, rinvenuta a Dokimeion in Frigia, lo
phthoneros veniva scacciato ed allontanato, con la minaccia che si
sarebbe soffocato in virt della sua stessa malizia. In un altra
iscrizione, in questo caso latina, l'invidioso, alla vista dello
splendore dei bagni di Sullechtum in Tunisia, viene ritratto prostrato
a terra, con il fiato corto, come sottolineato dal participio del verbo
anhelare, respirare a fatica290.
La pietrificazione, inoltre, compare, come sottolineato da Brillante,
come effetto della vista dei Telchini, demoni tradizionalmente
associati all'invidia. Il loro sguardo, come quello di Atena e della
gorgone, era in grado di spaventare e pietrificare all'istante.
L'oggetto della loro visione perdeva progressivamente sensibilit,
fino ad irrigidirsi, nel gelo della morte. Il verbo che meglio rendeva
questo processo era, per il greco, , per il latino torpeo291.
La pietrificazione si ricollegava, per la mancanza di sensibilit, la
fissit del volto, la mancanza di respiro, per il passaggio dalla
flessibilit, dal calore del corpo alla freddezza cadaverica ad una
vera e propria condizione di morte.
L'occhio invidioso, in questo caso, provoca una sospensione delle
funzioni vitali negli organismi viventi. Questa caratteristica e
peculiarit dei Telchini, dettata dal loro sguardo invidioso, permette,
sempre secondo Brillante, la loro identificazione come inventori
290 A. Beschaouch, <<Rend. Acc. Linc>>. 23 (1968) ,p. 61 en perfecta cito baiaru(m) grata
voluptas/ undantesque fluunt aq(uae) saxi de rupe sub ima./ nisibus hic nostris prostratus
libor anhelat./ quisquis amat fratrum veniat mecumq(que) latetur.
291 Cfr. C. Brillante, op.cit., p. 24.

dell'arte292. Aglauro, cos come le vittime dello sguardo pietrificante,


viene privata, da Mercurio ma ancor prima dall'Invidia, di alcune
fondamentali qualit, come l'agilit delle membra ed il calore
corporeo, ma si trasforma, al contempo, in un'opera d'arte che, nel
rapporto di mimesis arte-natura, ricalca fedelmente il modello
naturale: infatti lo stesso oggetto naturale, divenuto immagine.
Ben diversa la potenza di Eros nella storia di Pigmalione, che
costituisce l'esatto opposto rispetto alla vicenda di Aglauro. Nella
vicenda di Pigmalione, infatti, Afrodite attribuisce all'immagine i
tratti dell'essere vivente, l'opera d'arte arriva addirittura ad
innalzarsi al livello del modello293. L'invidia, con il concomitante
intervento di Mercurio, esattamente come avviene per lo sguardo
dei Telchini, pu agire solo alla maniera opposta, formando
un'immagine s perfetta, proprio perch l'oggetto di mimesis
cristallizzato nella sua immagine esteriore, ma morta, priva di
respiro e soffio vitale.
Nell'ultimo verso dedicato alla descrizione della pietrificazione di
Aglauro Ovidio rileva anche una particolarit cromatica di Aglaurostatua: la pietra in cui era stata mutata non era bianca; la sua
mente, infatti, l'ha resa scura (nec lapis albus erat: sua mens
infecerat illa294). Questa notazione si inserisce in una delle
caratteristiche

principali

delle

metamorfosi

ovidiane.

Nelle

Metamorfosi, infatti, stata riscontrata295 una precisa logica che


regola sviluppo e conclusione delle singole storie, logica in base alla
quale i mutamenti di stato e forma dei vari personaggi devono
mantenere qualche tratto comune con lo stato e condizione
antecedente alla metamorfosi. In questo senso la trasformazione
292
293
294
295

C.Brillante, op.cit., pp. 33-42.


Cfr. Ov. Met. 10. 243-297.
Ov. Met. 2.832.
Sul tema

cui i protagonisti vanno incontro deve apparire in qualche modo


come l'esito pi naturale e coerente con il loro carattere, il
comportamento abituale, i desideri e le aspirazioni che li animano.
In questo ambito non fa alcuna vera difficolt includere anche le
trasformazioni subite pi o meno ingiustamente , o quelle
comunque non richieste esplicitamente, che conservano una certa
coerenza e congruit con lo stato antecedente di chi ne vittima 296.
L'episodio di Aglauro sembrerebbe, di primo acchito, mostrare un
buon esempio di questo fenomeno: la statua in cui era stata mutata
la Cecropide, infetta dal tarlo dell'invidia, non poteva conservare la
purezza del candido marmo. La continuit tra fase pre e post
metamorfica viene sottolineata dalla ripresa del verbo inficere
(inficerat, v. 832), che richiama l'imperativo infice rivolto all'Invidia
da Minerva (v.784) e dall'ambiguit dell'illam finale, che pu riferirsi
sia alla fanciulla che alla lapis.
A differenza per, di altre storie delle Metamorfosi, come quella di
Licaone/lupo o di Anassarete/roccia, in cui effettivamente il
mutamento diventa proiezione e rappresentazione morfologica,
formale, esteriore di stati d'animo o caratteristiche proprie, stabili,
radicate dei personaggi297, o come quella di Niobe, nella quale la
pietrificazione morfologica si accosta in piena sintonia, anche da un
punto di vista linguistico298, con pietrificazione emotiva della donna
296 P. Esposito, I seganli delle metamorfosi, p. 13.
297 Cfr. Ov. Met. 1.236-239 in villos abeunt vestes, in crura lacerti:/ fit lupus, et veteris servat
vestigia formae;/ canities eadem est, eadem violentia vultus,/ idem oculi lucent, eadem
feritatis imago est.; Ov. Met. 14.757-758 hoc quoque non potuit, paulatimque occupat
artos,/ quod fuit in duro iam pridem pectore, saxum.
298 Cfr. E.Pianezzola, La metamorfosi ovidiana come metafora narrativa. Lo studioso italiano
ha sottolineato, a proposito dell'episodio di Niobe straziata dinnanzi ai cadaveri dei figli, il
doppio livello semantico del perfetto deriguit (Ov. Met. 6.303). Il significato del verbo,
infatti, varrebbe sia nel senso proprio di irrigidirsi fisicamente (per il freddo, ad esempio) sia
in quello, traslato e figurato, di irrigidirsi per la paura, il dolore, etc... Ovidio riprenderebbe,
nel passo citato, il significato metaforico, caricandolo anche del significato proprio che resta
temporaneamente in ombra, ma che si preciser nell'episodio della pietrificazione fisica e
concreta di Niobe, Cfr., per una analisi delle teorie di Pianezzola, Paolo Menella, Deriguitque
malis (Ov. Met. 6.303). Litomorfosi e antropomorfosi nell'epos ovidiano, pp. 59-79.

alla vista dei cadaveri dei figli, la metamorfosi di Aglauro , in


qualche modo, ambigua: se vero, infatti, che il risultato finale, una
pietra scura, si inserisce in una linea di continuit con la figura di
Aglauro infetta dal tarlo e dal veleno dell'invidia, anche vero,
tuttavia, che il processo si struttura in due fasi che originano da due
cause distinte: nel caso di Aglauro, infatti, la metamorfosi in pietra
scaturisce, come visto, direttamente dalla provocazione a Mercurio
e dalla reazione del dio. Si pu, allora, supporre che la litomorfosi
causata da Mercurio in risposta alle provocazioni verbali di Aglauro,
non rappresenti, di per se stessa, il naturale mutamento di forma
dovuto all'ethos o alle emozioni sperimentate dal personaggio al
momento

della

trasformazione;

In

quest'ultimo

caso,

infatti,

sarebbe stato plausibile pensare piuttosto ad una trasformazione in


fonte o in qualche altra entit liquida, visto che le conseguenze del
veleno

con

cui

era

stata

infettata

avevano

provocato

una

consunzione ed uno scioglimento interiore 299.


In questo caso Ovidio sottolinea come sia la litomorfosi stessa, sorta
da conseguenze derivanti dall'utilizzo poco accorto del linguaggio, a
subire, corrompendosi cromaticamente, l'azione di degradamento
dell'invidia, demone e veleno in grado di colpire ed avvelenare,
dunque, non solo gli uomini, ma anche i loro cambiamenti di forma,
provocando, di fatto, una metamorfosi (cromatica, proprio come
quella del corvo300) della loro metamorfosi. Ci e reso possibile dal
fatto

che,

come

abbiamo

gi

anticipato,

la

pietrificazione

dell'ateniese pu essere vista come conseguenza di invidia solo ad

299 Cfr. Ov. Met. 2. 807-811 lentaque miserrima tabe/ liquitur, ut glacies incerto saucia sole,/
felcisque bonis non lenius uritur Herses,/ quam cum spinosis ignis subponitur herbis,/ quae
neque dant flammas, lenique tepore cremantur. Cfr. Met. 5. 425 sgg, 632 sgg.; 7.380 sg.; 9.
649 sgg.; 15. 547 sgg.
300 Cfr. Ov. Met. 2. 541.

un livello pi profondo di lettura: la causa esplicitata dal testo ,


infatti, solo quella derivata dall'astuzia di Mercurio 301.
Questo procedimento pu assurgere a paradigma, a mio modo di
vedere, dello sviluppo complessivo dell'intera sequenza narrativa:
se vero, infatti, come indicato dal narratore primario, che il tema
di

collegamento

tra

le

singole

vicende

della

sequenza

rappresentato dall'utilizzo della voce e del linguaggio, vero, per,


al contempo, che, nelle vicende dei protagonisti principali della
sequenza stessa (il corvo, la cornacchia, Aglauro) la presenza
dell'invidia,

anche

laddove

non

chiaramente

esplicitata,

fa

comunque sentire il suo nefasto influsso, fungendo da molla per


l'azione dei personaggi302.
Al di sotto, dunque, di quello che , a tutti i gli effetti, il tema
principale delle vicende, l'usus vocis e le sue drammatiche
conseguenze, esattamente come in filigrana nella pietrificazione
finale di Aglauro, striscia, torbido, nefasto e corruttore, il veleno
dell'invidia.

301 Sul ruolo di Mercurio e la sua scaltrezza nell'approfittare delle pecche del linguaggio di
Batto ed Aglauro nel secondo libro delle Metamorfosi, in contrapposizione all'ingenuit di
Apollo mostrata nel primo e secondo libro, incentrato il lavoro di B.R, Fredericks, Divine wit
vs. divine folly. Mercury and Apollo in Metamorphoses 1-2, pp. 244-249.
302 Cfr. A.Keith, op.cit., p. 125 Invidia may (..) have played a role in the crow's narrative, in the
crow's hostile references to Nyctimene (Met. 2.589-95); in prompting the raven to tell Apollo
about Coroni's infidelity (Met. 2.543-47, 569-99); and even, perhaps, in Apollo's murderous
anger at Coronis, his response to the raven's report.

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