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L'alfabeto italiano
L'alfabeto italiano ha origine, per gran parte, da quello latino, sebbene col tempo sia evoluto stabilendo delle
peculiarit che l'hanno differenziato dal suo progenitore.
L'alfabeto italiano consta di 21 lettere:
A; a a - lettera
A
E; e e lettera E
I; i i
P; p pi
U; u u
B; b bi - lettera
B
F; f effe lettera
F
L; l elle
Q; q qu
V; v vu / vi
M; m emme
R; r erre
Z; z zeta
G; g gi lettera
G
N; n enne
S; s esse
H; h acca
O; o o
T; t ti
C; c ci lettera C
D; d di lettera
D
U; u u
D; d di
F; f effe
Consonanti.
R; r erre
M; m emme
N; n enne
G; g gi
B; b bi
P; p pi
H; h acca
C; c ci
V; v vu / vi
Q; q qu
L; l elle
O; o o
S; s esse
T; t ti
Z; z zeta
Sebbene l'alfabeto della lingua italiana sia composto da 21 lettere, convenzionalmente, si usa indicare un
totale di 26 lettere, poich vi sono altre cinque lettere le quali, bench non facenti parte del classico alfabeto
italiano, sono oramai entrate nell'uso comune, grazie ad alcuni vocaboli di lingue straniere (soprattutto della
lingua inglese) entrati nella nostra vita di tutti i giorni.
Ecco le cinque lettere integrate nel nostro alfabeto:
J; j i lunga
K; k cappa
W; w doppia
vu
X; x ics
Y; y ipsilon / i
greca
di (preposizione)
da (preposizione)
li (pronome)
la (articolo)
e (congiunzione)
ne (pronome/avverbio)
si (pronome)
se (congiunzione/pronome)
-In caso di parole omografe (di medesima grafia ma significato diverso) non obbligatorio ma spesso
opportuno segnare l'accento, per distinzione. Es: condmini / condomni.
-O in caso di parole la cui pronuncia possa risultare difficile. Es: ecchmosi.
-Queste le principali regole da seguire per l'utilizzo corretto degli accenti in scrittura.
-Dove l'accento non venga indicato, non mancher comunque di farsi notare nella lingua parlata.
La punteggiatura
Il sistema di comunicazione verbale si avvale di diversi strumenti affinch l'interazione tra gli interlocutori
sia efficace. Parliamo dell'insieme di simboli e parole che, affiancati ad una valida comunicazione non
verbale (gesti ed espressioni facciali), portano a compimento lo scambio relazionale. Ma, mentre con la
gestualit riusciamo ad abbattere le barriere linguistiche perch non legati strettamente alla sfera semantica
della comunicazione, con il verbale non possiamo prescindere da accorgimenti convenzionali, al fine di una
trasmissione comprensibile.
A tal proposito, come per la comunicazione vocale moduliamo i toni, disponiamo di un insieme di simboli
grafici per la lingua scritta, la punteggiatura, composta da:
- punto (.), pausa lunga usata per identificare la conclusione di un pensiero, per separare due periodi
differenti. Anche per abbreviazioni (Signora/Sig.ra);
- virgola (,), pausa breve, usata per: separare una frase subordinata dalla principale, mettere in rilievo una
porzione di testo isolandola dal resto, sostituire una congiunzione, elencare;
- punto e virgola (;), che trova perfetta collocazione nei periodi di complessit intermedia, dove un punto
rappresenterebbe una fine troppo incisiva, e la virgola una eccessivamente breve. Si rivela utile per separare
(e allo stesso tempo tenere insieme) periodi definiti ma concettualmente non diversi;
- due punti (:), interruzione simile al punto e virgola ma con diversa funzionalit; ha infatti finalit
esplicative, quando introduce elenchi o citazioni, introduce discorsi diretti, in caso di testi narrativi;
- punto esclamativo (!)/interrogativo (?), il primo conferisce al periodo una pausa declamatoria e incisiva,
il secondo, lo conclude con un'intonazione di richiesta, di dubbio.
- puntini di sospensione (), un arresto morbido del discorso, per lasciarlo in sospeso e riprenderlo subito
dopo;
- virgolette (" " o ), usate per introdurre una citazione, un discorso diretto, per mettere in rilievo una
parte del discorso;
- lineette (- o ), perlopi usate per introdurre un commento all'interno di un periodo (), una sorta di
didascalia; per evidenziare un'associazione terminologica (Es: eco-bio) o per elencazione;
- parentesi ( ), usate anch'esse per introdurre un inciso all'interno di un discorso.
Le teorie moderne sul corretto utilizzo della d eufonica sono tante e discordanti: c' infatti chi si ostina a
preservarne l'utilizzo nella forma pi antica, proponendo locuzioni ormai in disuso, come od avendolo e
chi, invece, si limita a usarla a cospetto della preposizione a (ad) e della congiunzione e (ed).
Un uso indistinto di questa particella pu per portare a fenomeni di cacofonia, come anticipato, alquanto
fastidiosi, dove un ripetersi di sillabe con il medesimo suono non affatto indicato.
E' invece consigliabile utilizzare la d finale in corrispondenza di parole che iniziano con la medesima vocale
della proposizione a cui fanno seguito, per esempio: ad aspettare, ad annuire, ed entrare, ed
enunciare, eccetera.
Fanno eccezione a questa regola parole il cui incontro di vocali non ha eguaglianza alcuna ma per le quali
il supporto eufonico preferibile affiancarlo, come per una locuzione di uso comune, quale: ad esempio.
Non vi sono dettami linguistici specifici sul corretto uso della d eufonica, pertanto, essendo uno strumento
di ausilio alla pronuncia, bene affidarsi a questa, in caso di incertezza: dove non si certi se usarla o
meno, facciamo una prova di lettura e affidiamo il compito di decidere al nostro orecchio; dopotutto,
l'effetto sonoro delle parole che vogliamo rendere il pi armonioso possibile.
Maiuscole
La maiuscola una regola ortografica che trova, nell'ambito del sistema linguistico, diversi contesti di
applicazione: dall'obbligo grammaticale alla forzatura commerciale/reverenziale.
La maiuscola va usata all'inizio di un periodo, dopo punti d'interpunzione quali: punto fermo, punto
esclamativo, punto interrogativo, puntini di sospensione (solo in caso di proposizione conclusa), due
punti (solo in caso di introduzione del discorso diretto).
Nei nomi propri di persona (Mario), soprannomi (Riccardo Cuor di Leone), appellativi
antonomastici (il Poeta Dante), pseudonimi/nomi d'arte compresi.
Nei nomi comuni che identificano un individuo/organo ben preciso e aventi cio valenza di nome
proprio, usiamo la maiuscola reverenziale (il Profeta, l'Avvocato) mentre manterranno la minuscola nel
contesto accettivo di nome comune (l'avvocato di Giulio).
Nei nomi propri di luoghi geografici: citt (Venezia, Roma), fiumi/laghi/catene montuose/eccetera
(Tevere, Alpi).
Nei nomi di punti cardinali (Nord, Est, Mezzogiorno, Settentrione) e di corpi celesti (Marte, Giove).
Mantengono la minuscola il sole, la terra, la luna, eccetto che per riferimento scientifico (il Sole la stella
madre del sistema solare/oggi il sole splende).
I nomi di popoli in passato richiedevano la maiuscola (gli Inglesi, i Romani) mentre ai giorni d'oggi
possiamo tranquillamente ometterla, poich non costituisce errore; invece obbligatoria la minuscola in
caso tali nomi siano utilizzati come aggettivi (il popolo francese) a meno che non si parli di denominazioni
ufficiali (la Repubblica Popolare Cinese) o questi siano utilizzati come sostantivi relativamente alla
connessione geografica (le industrie nel Milanese).
Analisi logica
Nella lingua italiana, il processo attraverso il quale diamo ai singoli componenti di una frase la giusta
attribuzione (di significato e appartenenza), quello definito dall'analisi sintattica degli elementi, che
identifichiamo come analisi logica (o sintassi).
presenti
in
una
frase?
Ma per rispondere a queste domande, necessario conoscere e distinguere le singole parti componenti il
periodo oggetto dell'analisi.
In una proposizione, possiamo avere elementi fissi e variabili.
Gli elementi fissi sono:
- il soggetto, ovvero l'elemento a cui la frase si riferisce, colui che compie o subisce un'azione espressa
attraverso un altro elemento fisso che il predicato, con il quale concorda in persona, genere (dove espresso)
e numero, colui che si trova in una condizione;
- il predicato, cio l'elemento che dice qualcosa a proposito del soggetto: chi , com', cosa fa, cosa subisce,
in che situazione si trova.
Il predicato pu essere nominale, se costituito da verbo + nome o aggettivo o verbale, se composto da
un verbo predicativo (verbo che ha un senso compiuto anche se utilizzato da solo) di
forma attiva o passiva, transitiva o intransitiva (per gli approfondimenti sulle forme vedi paragrafi dedicati).
Esempio: nella frase Giulia partita, Giulia il soggetto che compie l'azione di partire, quindi partita
il predicato verbale.
Se volessimo invece una frase con il predicato nominale, avremmo: Giulia alta, dove alta corrisponde a
un aggettivo.
Nota: nel predicato nominale la voce del verbo essere detta copula, mentre il nome dell'aggettivo o del
nome che vi si accompagnano si definiscono parte nominale del predicato.
Abbiamo poi elementi variabili, come i complementi, che rappresentano parti del discorso che integrano la
proposizione ampliandola con informazioni di qualsiasi genere, la completano.
Distinguiamo complementi diretti, indiretti e avverbiali.
I complementi diretti sono parti del discorso che si integrano alla frase in maniera diretta, senza chiamare a
sostegno altri elementi della proposizione e si identificano in: complemento oggetto, complemento
predicativo dell'oggetto, complemento predicativo del soggetto.
Es: ho mangiato una mela (complemento diretto).
I complementi indiretti integrano la frase attraverso
una preposizione, un avverbio usato come tale.
Es: ho mangiato una mela a casa (complemento indiretto).
l'aggiunta
di
una locuzione
prepositiva,
Potrete approfondire le singole voci con i relativi esempi nel paragrafo dedicato ai complementi diretti e
indiretti.
Attributo e apposizione possono aggiungersi alla frase per caratterizzarla, riferendosi direttamente al
soggetto, al complemento o alla parte nominale del predicato: l'attributo generalmente un aggettivo che si
unisce al nome per qualificarlo (es: ha scritto un bel libro) mentre l'apposizione un nome che si affianca a
un altro per definirlo meglio, es: ti presento l'ingegnere Rossi.
Una volta assimilati i concetti preliminari, possiamo eseguire l'analisi della frase, che ci vedr impegnati nel
distinguere tra frase minima, semplice e complessa:
- la frase minima composta solo da soggetto e predicato (nominale o verbale);
- la frase semplice composta da soggetto, un solo predicato e complemento;
- la frase complessa ha le medesime caratteristiche di quella semplice, ma pu constare anche di pi di un
predicato, con ciascuno una parte di proposizione (sintagma) annessa.
MORFOLOGIA
Sostantivo, l'uso dei sostantivi - il nome in grammatica
Con la categoria grammaticale dei sostantivi indichiamo persone, oggetti, animali, luoghi, idee o fatti completi per genere
(maschile e femminile) e numero (singolare o plurale).
Il sostantivo o nome, una parte variabile del discorso che, insieme al verbo, rappresenta la base su cui sviluppare
l'enunciato. Distinguiamo categorie di nomi:
- propri, con cui identifichiamo individui (nomi di persone, cognomi, appellativi) o singole entit (storiche, geografiche,
letterarie, ecc. ): Mario, Venezia, Spagna, ecc;
- comuni, che identificano elementi (persone, cose, animali, luoghi, ecc. ), in modo generico, all'interno di classi o
categorie: il libro, il ponte, il gatto, ecc;
- concreti, usati per indicare elementi tangibili percepibili con i sensi: casa, profumo, ecc;
- astratti, usati per definire elementi o concetti immateriali: logica, felicit, paura, ecc;
- individuali, per identificare singoli individui o entit (persone, animali, cose, concetti) indicandoli con il loro nome
proprio o comune: tazza, donna, fiume, ecc;
- collettivi, che designano insiemi di individui, animali o cose: gente, mandria, stormo, ecc.
Dal punto di vista della forma, distinguiamo nomi:
- primitivi, che non derivano da nessun'altra parola, formati soltanto da radice e desinenza: quest'ultima rappresenta il
morfema variabile che ne contraddistingue genere e numero: uomo, rosa, ecc;
- derivati, che nascono dall'aggiunta di prefissi o suffissi ai nomi primitivi: citt/cittadino, giustizia/ingiustizia, ecc;
- composti, formati dall'unione di due parole, siano esse nomi, che nome + aggettivo, nome + verbo, nome +
avverbio, aggettivo + avverbio, o simili combinazioni (filospinato, sordomuto, benestare, ecc. )
-o cambiano in -a (maestro/maestra);
(eroe/eroina), o mantengono la
quelli terminanti in
-ista distinguono il genere solo alle forme plurali (i turisti/le turiste) mentre al singolare rimangono invariati (il turista/la
turista).
Per la formazione dei plurali dei nomi, si segua invece lo schema seguente:
i sostantivi terminanti in
-o, -e prendono -i al femminile (la mano/le mani, la legge/le leggi) e al maschile (il faro/i
fari);
alcuni terminanti in
-ca e -ga prendono -chi e -ghi al maschile (patriarca/patriarchi), e -che e -ghe al femminile
(amica/amiche);
-logo formano il plurale in -loghi, se indicano cose (dialogo/dialoghi), in -logi (psicologo/psicologi) se indicano persone;
-cia e -gia prendono -cie e -gie (farmacia/farmacie) o -ce e -ge se sulla i del morfema non
da consonante (spiaggia/spiagge);
-io prendono -ii se sulla i cade l'accento (addio/addii) e -i se invece non non vi cade
parola tempio (templi).
Sostantivi
Altri plurali si formano diversamente da quanto proposto dalla norma, ne troviamo esempio nei nomi composti che vedono
volgere al plurale:
- il secondo termine, se a comporli sono due sostantivi dello stesso genere (cassapanca/cassapanche);
- il termine corrispondente al genere maschile, se a comporli sono due sostantivi di genere
diverso (capofamiglia/capifamiglia);
- entrambi i termini che li compongono, se trattasi di sostantivo + aggettivo (pellerossa/pellirosse);
restano invariati invece i nomi composti formati da due verbi, da un verbo e un avverbio o da un verbo e un
nome (saliscendi, portamonete, ecc. )
Alcuni nomi non hanno il singolare (es: occhiali) e alcuni non possono essere volti al plurale (es: giutizia): vengono perci
detti nomi difettivi.
I nomi che invece hanno due plurali corrispondenti a significati diversi, sono detti sovrabbondanti. Ne citiamo alcuni:
il braccio (i bracci della gru/le braccia dell'uomo);
il gesto (i gesti delle mani/le gesta eroiche);
il ciglio (i cigli della strada/le ciglia degli occhi); ecc.
L'avverbio
Nella lingua italiana, le parole costituenti le parti variabili del discorso, per la precisione quelle che servono a precisare
circostanze e modi di un determinato stato o di un evento, e che alterano, nella maggior parte dei casi, il significato di
alcune parole, sono avverbi.
In grammatica, l'avverbio modifica e integra il significato di un verbo, principalmente.
Es: suona meravigliosamente la chitarra.
In questo caso, la stessa parola, molto, avverbio in funzione di un altro avverbio: precocemente.
indubbio che, piuttosto di un semplice vengo!, l'intera proposizione cos formulata, grazie al s che ha funzione di
avverbio, sia pi forte ed espressiva.
Possiamo considerare avverbi anche alcune locuzioni, quindi dette avverbiali, in quanto espressioni formate da pi parole
aventi il medesimo significato di un normale avverbio.
Queste, dunque, dell'avverbio assolvono identica funzione, pertanto, dove avremo parole come molto, poco, troppo, vi
saranno in egual misura locuzioni quali all'incirca, n pi n meno, ecc.
Ma vediamo il tutto nello specifico.
Da un punto di vista formale possiamo distinguere due classi di avverbi, quella lessicale e quella derivata: con avverbi
lessicali indichiamo parole che non derivano da altre (presto, bene, male, sempre, ecc. ) mentre con avverbi
derivati intendiamo il contrario e quindi parole derivanti da altre, il cui processo di formazione, nella lingua italiana, vede
l'apposizione del suffisso -mente per gli aggettivi (attentamente, brevemente, comodamente, ecc. ) oppure -oni, direttamente
alla radice di un sostantivo o di un verbo: ciondoloni, bocconi, ecc.
Sulla base della funzione che svolgono all'interno dell'enunciato, identifichiamo alcuni avverbi per il modo con cui indicano
l'azione compiuta, per il tempo e luogo in cui la collocano; altri per l'opinione espressa sulla parola che affiancano. Per
questo distinguiamo:
- avverbi di modo o maniera, che precisano il modo in cui avviene l'azione, e sono:
in -mente = brevemente, gentilmente, ecc;
in -oni = cavalcioni, carponi, ecc;
quelli aventi la forma di aggettivi al maschile = forte, chiaro, alto, ecc;
altri = bene, male, volentieri, purtroppo, ecc;
locuzioni corrispondenti comprese (di corsa, pi piano, pi alto, ecc. );
Alcuni avverbi hanno funzione focalizzante, cio quella di trasformare una parte della frase in corrispondenza della
struttura informativa dell'intera proposizione; di questa categoria fanno parte gli
avverbi anche, perfino, solamente, addirittura, ecc. Su questi avverbi si focalizza l'importanza dell'enunciato.
Come gli aggettivi, anche gli avverbi hanno dei gradi comparativi :
- di uguaglianza: premettendo le parole tanto o cos oppure posponendo come o quanto (coslentamente come/tanto
lentamente quanto);
e superlativi:
- relativo: si forma anteponendo al grado positivo la locuzione il pi e posponendo il termine possibile (il pi veloce
possibile).
Confondere gli avverbi con preposizioni, aggettivi, pronomi e congiunzioni uno dei rischi maggiori che si possano correre
nell'interpretare i vari elementi del sistema linguistico italiano. Per distinguerli, ci baster ragionare sul fatto che:
- gli aggettivi, a differenza degli avverbi, concordano sempre in genere e numero con il sostantivo che accompagnano;
- gli avverbi non collegano pi elementi, come fanno le congiunzioni, ma fanno riferimento a un elemento soltanto per
volta;
- le particelle ci, vi, n, posso essere distinte dai pronomi quando indicano uno stato o un moto a luogo: in quel caso sono
avverbi.
Abbiamo visto come, nella grammatica italiana, gli avverbi ricoprano un territorio vasto e vario e riescano a integrare parti
del discorso determinando quello che sar poi il significato finale dell'enunciato. Usati in ambiti circostanziali, dove si
occupano di integrare la relazione tra soggetto e predicato; in concomitanza di sintagmi aggettivali o avverbiali, fornendo e
modificando il quadro spazio-temporale della frase in cui l'azione collocata, manipolando concetti di modalit, quantit e
volont. Elementi eterogenei del discorso, diversamente applicabili per avere, ogni qualvolta, una resa diversa del
messaggio esposto.
Gli aggettivi
La classe degli aggettivi, semanticamente identificata come una delle categorie appartenenti a quella degli specificatori,
anch'essi impiegati nella funzione di modifica dei nomi, flessibile per genere e numero, e, in accordo con questi,
relativamente al nome cui si riferiscono, d luogo a diverse sottoclassi, che identifichiamo all'interno di due macrocategorie, che sono quelle degli aggettivi qualificativi e degli aggettivi dimostrativi.
Gli aggettivi qualificativi si differenziano da quelli dimostrativi per una questione di mobilit, fondamentalmente, poich,
mentre gli altri devono sempre essere preposti rispetto al nome cui si riferiscono, questi possono essere collocati prima o
dopo di esso.
Svolgono funzione:
- attributiva nei confronti del nome che modificano o descrivono (la casa luminosa);
- predicativa, quando si serve di un verbo per esprimersi (il traguardo sembra inarrivabile);
- referenziale, quando definiscono la qualit un fenomeno autonomo (il caldo arrivato), assumendo alcune propriet
caratteristiche del nome (aggettivo sostantivato);
- avverbiale, quando modificano il significato di verbi o intere frasi (il treno corre veloce).
Gli aggettivi determinativi conferiscono alle parti del discorso cui fanno riferimento delle caratteristiche indicative,
indefinite, di appartenenza, oppure ne indicano la posizione spazio-temporale, la quantit dal punto di vista numerico e
introducono tra queste espressioni di domanda o esclamazione.
Sono:
- dimostrativi, che collocano il soggetto/oggetto del discorso nel tempo o nello spazio, rispetto alla posizione
dell'interlocutore, e sono questo, codesto, quello (concordanti in genere e numero con il termine cui si riferiscono),
es: questa mela, quel quaderno, a quei tempi, ecc, e stesso, medesimo, tale, usati in senso identificativo (di uguaglianza,
perlopi) nei confronti di animali o cose. Es: legge sempre gli stessi libri;
- numerali, che al nome che accompagnano conferiscono una quantit numerica precisa e, relativamente al tipo di
informazione data, distinguiamo due gruppi importanti, quello dei numericardinali (uno, due, dieci, cento, mille, - due
libri, una matita, dieci quaderni) e dei numeriordinali (primo, secondo, terzo, - il quinto posto, il primo giorno, ecc. );
- indefiniti, usati per indicare unit o quantit indefinite, singolarit o pluralit imprecisate, di forma variabile e
non: qualcuno, qualche, alcuno, ciascuno, taluno, molto, troppo, poco, vario, altrettanto, ecc. Es: viene a
trovarci ogni settimana, portando qualcuno della famiglia;
- esclamativi e interrogativi, che, usati in forma diretta e indiretta, hanno forma identica e si differenziano soltanto in base
alla loro funzione, ovvero quella di introdurre una domanda o un'esclamazione relativamente alla quantit, qualit e identit
dei nomi a cui si riferiscono, e sono: che, quale, quanto. Es: quanto pensi di restare?, dimmi quale hai
scelto, che meraviglia!, ecc;
L'aggettivo quale anche sostituibile con come si usa altres in funzione relativa, indicando una relazione tra i due nomi
in mezzo ai quali si colloca, es: ho ricevuto una promozione quale ricompensa del lavoro svolto.
Aggettivi e verbi sono nozionalmente affini, poich esprimono stati o condizioni da entrambi designati, concettualmente
uguali:
- Quel ragazzo indisciplinato (aggettivo);
- Quel ragazzo non ha disciplina (verbo).
L'aggettivo dunque una parte variabile del discorso che determina in modo preciso o relativo le caratteristiche di un nome.
Per un approfondimento su tutte le parti variabili e invariabili del discorso vi rimandiamo alla rubrica sulla Morfologia,
presente sul nostro portale.
I pronomi personali
Altra parte invariabile del discorso che in questa sede vogliamo approfondire quella del pronome, elemento linguistico
che svolge una sostituenza anaforica e deittica, in riferimento al contesto relativo all'espressione linguistica alla quale si
sostituisce. Il pronome, infatti, si usa come sostituente alle varie parti del discorso (nomi, aggettivi, sintagmi o intere
proposizioni.
Sono definiti pronomi deittici quelli che fanno riferimento diretto alla situazione discorsiva nella quale si introducono,
es: lei la promessa sposa; e pronomi anaforici quelli che riconducono ad elementi singolidel contesto cui prendono parte,
es: Ecco il fratello di Mario. Lui ha studiato a Parigi.
I pronomi detti personali, hanno la funzione principale di indicare i partecipanti al discorso e, oltre a questa, possono far
riferimento a elementi quali sintagmi preposizionali o aggettivali, mentre non possono essere accostati ad aggettivi o
sintagmi in funzione attributiva.
Sono flessi per persona, genere, numero e funzione: quest'ultima pu essere di soggetto o di oggetto. I pronomi usati come
complemento possono essere tonici (dotati di accento proprio e sono presenti in quasi tutti i contesti in cui appaiono dei
sintagmi, es: lui che uscito) o atoni (privi di accento proprio, si appoggiano al verbo, al quale vengono anteposti o
posposti immediatamente, es: lo guardo stasera).
Ecco un piccolo schema per un apprendimento veloce dei pronomi personali, nelle varie funzioni:
In funzione di soggetto:
1a, 2a, 3a persona singolare: io, tu, egli/ella/esso - plurale: noi, voi, essi/esse.
In funzione di complemento/forma tonica:
1a, 2a, 3a persona singolare: me, te, lui/lei/s - plurale: noi, voi, loro/s.
In funzione di complemento/forma atona:
1a, 2a, 3a persona singolare: mi, ti, lo (gli, ne)/la (le, ne)/si - plurale: ci, vi, li (ne)/le (ne)/si.
Nota: non commettete mai l'errore di ripetere il pronome personale, dando luogo a spiacevoli espressioni come a
me mi piace (si dice a me piace) o di usarlo nella stessa funzione di un nome che nella frase gi presente, es: al nipote
il nonno deve dire... e non al nipote il nonno deve dirgli... , ecc.
I pronomi possessivi
Come gi approfondito nel paragrafo dedicato ai pronomi personali, per introdurre la categoria linguistica dei pronomi
possessivi, necessaria una premessa:
l'uso del pronome, nella grammatica italiana, prevede la sostituzione del nome o di altre parti del discorso. Questa
sostituenza detta deittica quando l'intero contesto consta di un riferimento diretto nei confronti del pronome che si va ad
introdurre, es: lui il disertore (la frase ci indica l'attribuzione data al nome espresso con il pronome lui), mentre viene
denominata anaforica quando soltanto i singoli elementi del contesto in cui il pronome va ad operare vi fanno riferimento,
es: Ti presento la sorella di Andrea. Lei ha organizzato la festa.
In questo caso, il pronome lei trova riferimento diretto soltanto nella parte della frase che introduce la persona di cui si
parla, cio la sorella.
Si parla di pronomi possessivi quando si ha una sostituzione del nome volta a indicare l'appartenenza della persona,
dell'animale o della cosa a cui l'enunciato fa riferimento.
Essi sono, alla 1a, 2a, 3a persona singolare: mio, tuo, suo/sua e plurale: nostro, vostro, loro.
Solo alla 3a persona troviamo invece proprio e altrui.
La loro funzione duplice: possono infatti svolgere funzione di aggettivi qualificativi, tanto quanto quella di semplici
pronomi, forma sotto la quale occorre sempre posporli all'articolo: il mio libro, il tuo diario, la sua penna, il loro gatto, ecc.
importante ricordare che:
- suo si usa solo quando il possessore uno,
es: hanno distrubuito i libri: Lucia ha preso il suo?;
- proprio si pu sostituire a suo e loro, solo in caso il possessore sia anche il soggetto della frase,
es: tra tutti gli alunni Anna e Mauro non riuscivano a vedere i propri;
Il pronome possessivo pu inoltre essere d'uso con valore sostantivato, in frasi come questa:
Ognuno libero di dire la sua, ovvero: ognuno libero di dire la propria opinione.
L'articolo determinativo
Un articolo, in grammatica, una parola che principalmente accompagna, precedendoli, sostantivi o sintagmi nominali,
definendone e limitandone i concetti da espressi e concordando con questi in genere e numero.
Gli articoli che andremo ad analizzare in questo portale sono gli articoli determinativi e indeterminativi. In questo
paragrafo vedremo nello specifico gli articoli determinativi.
In italiano, si fa uso dell'articolo determinativo per indicare, attraverso il nome che accompagna, qualcosa di preciso;
adoperato per specificare nomi comuni, concreti o astratti, aggettivi, pronomi, e accompagnano, in alcuni casi, descrizioni
fisiche.
Al maschile troviamo gli articoli
il, lo (al singolare) e gli (al plurale),
mentre per il genere femminile abbiamo
la (al singolare) e le (al plurale).
Vediamo come di norma si usano gli articoli determinativi:
- il e i si usano davanti ai nomi maschili inizianti per consonante (il libro, i piatti);
- lo e gli si usano davanti ai nomi maschili che hanno per iniziale:
pn- (lo pneumatico);
ps- (gli psicologi);
gn- (lo gnomo);
z- (gli zoccoli)
x- (lo xilofono);
y- (lo yogurt);
s- seguita da consonante (gli scogli);
i- seguita da vocale (lo iodio);
davanti a un nome iniziante per vocale useremo l'articolo lo apostrofato, es: l'albero;
- la e le si usano davanti a tutti i nomi di genere femminile (es: la barca) e, come per l'articolo lo, davanti a un nome
iniziante per vocale, l'articolo la si apostrofa, es: l'albicocca.
Quando invece l'articolo viene omesso:
- nelle numerazioni;
- davanti ai nomi di citt, tranne che in alcuni casi in cui compreso, come il Cairo, la Spezia, ecc. ;
- nelle apposizioni;
- con alcuni complementi di luogo (andare a casa, recarsi a scuola, ecc. ) ;
- in quasi tutte le locuzioni avverbiali (di proposito, in fondo, ecc. );
- in espressioni aventi funzione di avverbi qualificativi (con calma, con intelligenza, ecc. );
- in generale, in tutti i casi in cui un sostantivo, una congiunzione o espressioni di valore modale integrino il significato del
termine o espressione che segue, ad esempio: carte da gioco, in bicicletta, in vestaglia, senza giacca, ecc.
L'articolo indeterminativo
Gli articoli indeterminativi fanno parte della categoria dell'articolo, cio una parte variabile del discorso che si premette al
nome o, in alternativa, a un aggettivo o a un pronome, per indicare non con precisione (come avviene con quelli
determinativi) ma in maniera generica quello che tali elementi indicano, all'interno del discorso. Concordano in genere e
numero con le parti del discorso che accompagnano.
Sono usati ad esempio con i sostantivi non numerabili, in espressioni come un po', con i nomi propri che indicano
un'opera d'arte, anche; davanti a nomi che definiscono un'intera categoria.
Per il genere maschile abbiamo gli articoli un e uno, mentre per il femminile, una.
L'articolo indeterminativo plurale non esiste, poich, come vediamo con l'esempio dell'espressione gli uni e gli altri non
flesso per numero ma corrisponde a un pronome.
Analizziamo nello specifico il comportamento di questa categoria di articoli:
- un si usa davanti ai nomi maschili inizianti per vocale (un armadio);
- uno utilizzato davanti ai nomi maschili che cominciano per:
gn- (uno gnomo);
pn- (uno pneumatico);
ps- (uno psicologo);
z- (uno zaino)
y- (uno yogurt);
x- (uno xilofono);
i- seguita da vocale (uno iettatore);
s- seguita da consonante (uno sceriffo);
- una si usa davanti a tutti i nomi di genere femminile (es: una casa) e, in caso si trovi davanti a un nome iniziante per
vocale, si apostrofa, es: un'amaca.
Nota: non si apostrofa mai l'articolo maschile un, poich trattasi di una forma tronca, e non della forma elisa dell'articolo
maschile uno e quindi avremo un albero e non un'albero, un atrio e non un'atrio, e cos via.
Essendo il verbo, dal punto di vista sintattico, l'elemento portante della frase, attorno al quale si sviluppano i restanti
elementi, esso svolge una funzione predicativa (indica un'azione, fatta o subita) nei confronti di un sintagma nominale (due
o pi parole aventi un legame logico stretto) pertanto, la sua forma varia a seconda del modo e tempo caratterizzanti l'azione
esposta.
Tale flessione viene chiamata coniugazione e incide nella sola desinenza (parte finale e variabile del verbo) quando
la radice (parte stabile) rimane immutata, e in tal caso si parler di verbi regolari, mentre incide in entrambe le parti se si
tratta di verbi irregolari.
- 1a coniugazione, indica i verbi che all'infinito finiscono in -are (parlare, pubblicare, ecc.);
I verbi che all'infinito non terminano in nessuna delle tre, rientrano nella seconda coniugazione, ad
esempio tradurre, comporre, ecc.
Dal punto di vista della forma, possiamo giostrare tra le seguenti coniugazioni:
Una delle principali caratteristiche dei verbi la possibilit di constare di un complemento oggetto o meno; perci abbiamo:
- modi finiti, che indicano il soggetto che compie l'azione, per tipologia e numero*
(indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo);
- modi infiniti, detti impliciti, poich non indicano chi compie l'azione (infinito, participio, gerundio).
*La flessione del verbo, nella sua funzione predicativa, coinvolge un elemento fondamentale del processo di comunicazione
che la Persona, intesa come colui che compie o subisce l'azione, a cui attribuiamo i valori
di prima, seconda o terza persona, che possono esprimersi al singolare o al plurale.
A comporre il sistema di coniugazione verbale sono anche i tempi, che consistono nella collocazione temporale delle azioni.
Questi sono presente, passato e futuro, e si dividono in:
- tempi semplici, che constano, nella forma attiva, di un'unica parola (scrisse) e, in quella passiva, del
verbo essere anteposto al participio passato di quello che segue (sono amato);
- tempi composti, che constano, nella forma attiva, dei verbi essere o avere anteposti al participio passato del verbo che
seguono (ha scritto) e, in quella passiva, del verbo essere + stato + participio passato del verbo (fossero stati scritti).
I verbi ausiliari
Per poter focalizzare i verbi ausiliari all'interno del panorama morfologico della nostra lingua, dobbiamo prima aver chiari
i concetti di coniugazione (attiva, passiva, riflessiva, impersonale), di modi e tempi verbali, e di genere
transitivo e intransitivo, pertanto, vi rimandiamo all'approfondimento presente al capitolo de Il verbo.
I verbi essere e avere, oltre a figurare come tempi verbali autonomi, vengono detti ausiliari, poich d'aiuto nella
formazione di voci verbali composte, attive e passive. Agiscono sui Modi verbali:
- Indicativo: tempi passato prossimo, trapassato prossimo, trapassato remoto, futuro anteriore;
Si usa il verbo essere (anteponendo i suoi tempi semplici al participio di stare stato Es: sono stato) per esprimere un
concetto di condizione, di stato, appunto; il verbo avere (che forma i tempi composti con i propri tempi semplici Es: ho
avuto) si usa per esprimere un concetto di azione.
Non esiste una regola che attribuisca ad ogni verbo il suo ausiliare; i casi di incertezza, purtroppo sono frequenti. Tuttavia,
la norma ci conferma che si coniugano con l'ausiliare essere:
- i verbi intransitivi che indicano un'azione subita dal soggetto, non volontaria (sono nato);
e con l'ausiliare avere:
- i verbi intransitivi che indicano un'azione volontaria del soggetto (ho annuito).
Possono essere usati indistintamente entrambi gli ausiliari con verbi che ammettano solo la forma impersonale (era
piovuto/aveva piovuto)e con verbi intransitivi la cui forma sia modale (o servile), che aggiunga ovvero un concetto di
possibilit, obbligo, necessit, volont o capacit al verbo che segue (il quale, coniugato al tempo infinito, chiarir quale dei
due ausiliari utilizzare - Es: ho dovuto scrivere/sono dovuto andare). Verbi quali dovere, potere, volere, sapere, solere o
locuzioni come essere capace di, essere in grado di, ecc. possono avere funzione di verbo modale.
L'indicativo figura tra i modi verbali finiti della lingua italiana. Esso esprime una condizione di fatto, una constatazione
della realt; usato per rappresentare una certezza, e, talvolta, una possibilit probabile. Tra tutti i modi verbali, l'Indicativo
quello pi utilizzato.
Trova maggiore applicazione all'interno di proposizioni principali, es: io scrivo una lettera ( un dato di fatto,
un'osservazione oggettiva), ci nondimeno, esso figura spesso nelle subordinate, quando queste esprimono una certezza, una
sicurezza. Es: Non dovrai preoccuparti, io sar l con te.
Per la coniugazione delle voci verbali, il modo Indicativo si avvale di quattro tempi semplici e quattro tempi composti,
ognuno dei quali indica la temporalit dell'azione, e sono:
- presente;
- passato prossimo;
- imperfetto;
- trapassato prossimo;
- passato remoto;
- trapassato remoto;
- futuro semplice;
- futuro anteriore.
Imperativo
L'imperativo rappresenta, insieme all'indicativo, al congiuntivo e al condizionale, un modo finito della lingua italiana. Esso
si usa per esprimere un comando, indicare un ordine, formulare consigli, suppliche, con tono pi o meno perentorio, a
seconda dei casi. Non viene, di norma, specificato il soggetto.
L'unica forma con cui si esprime l'imperativo quella del presente, ed essendo possibile coniugarvi soltanto la 1a persona
plurale (es: andiamo!) e la 2a persona singolare e plurale (es: vieni qui!, uscite!), tali esortazioni possono essere
formulate servendosi di altri modi verbali, vediamo in che modo:
- per esprimere un comando che riguardi non il presente ma il futuro, ricorreremo al tempo del futuro
indicativo. Es: dopo cena andrete subito a dormire;
- per impartire ordini generici, istruzioni o rivolgersi alla seconda persona informale, usiamo
l'infinito. Es: fare attenzione, non disturbare, ecc.;
- per rivolgersi alla terza persona, in termini di cortesia o in luogo di esortazioni e inviti, ci serviamo del congiuntivo.
Es: prego, si sieda, che vengano pure, ecc.;
- per formulare un'espressione negativa, utilizziamo il non anteposto all'infinito del verbo, per la 2a persona singolare
(non andare!), anteposto al congiuntivo, per la 3a persona sing. o pl. (non scriva!); si mantiene invece l'imperativo per la 2a
persona plurale (non urlate!)
Questo modo, utilizzato in termini informali, vede l'associazione dei pronomi, ad esempio: guardali, non voltarti (o
non ti voltare).
Diversamente, con l'imperativo formale, il pronome precede il verbo: mi dica, ci indichi, ecc.
Raddoppia invece la consonante, con la 2a persona dei verbi dire, dare, andare, stare, fare. Es: dimmi, falle, vacci.
Essendo l'imperativo un modo con cui si esprime un'imposizione, sia nella lingua scritta che in quella parlata si potrebbe, se
non fossero usati a tal scopo alcuni accorgimenti linguistici, dar luogo a spiacevoli effetti: previsto, infatti, l'uso di
comportamenti di cortesia, sostituendo spesso al tipico tono categorico dettato dalla perentoriet degli intenti, forme
indirette, ponendo ad esempio una richiesta piuttosto che impartire un comando.
Una frase di questo tipo, ad esempio: Mi serve quel libro, passamelo! pu essere resa in forma pi cordiale, in questo
modo: Mi passeresti quel libro, per cortesia? Ne avrei bisogno.
Abbiamo formulato la stessa richiesta, con il medesimo intento, semplicemente usando il condizionale al posto
dell'imperativo. Ci si ottiene usando anche espressioni come per favore o per piacere. Spesso, in societ, tali accortezze si
rendono necessarie.
Condizionale
Il condizionale, modo verbale della lingua italiana che si annovera tra quelli denominati finiti, il mezzo attraverso il quale
indichiamo un fatto come incerto, di dubbia realizzazione perch sottoposto a determinate condizioni, di volta in volta
espresse con forme differenti tra loro;
esso pone una condizione sulla base della quale un'azione potr essere possibile:
ti accompagnerei volentieri, se avessi la macchina.
Si noti come, per dar luogo alla condizione, piuttosto che porre in rilievo l'espressione coniugata al condizionale, si faccia
leva su una determinata parte della frase (se avessi la macchina); diversamente, avremmo la sola proposizione principale ad
esprimere il concetto:
ti accompagnerei volentieri.
Congiuntivo
Tra i modi finiti della lingua italiana, troviamo il congiuntivo, che interviene all'interno della proposizione, principale o
subordinata, per presentare un'azione non oggettiva, incerta, ipotizzabile e di certo non rilevante; il modo della possibilit
desiderata, usato dopo verbi la cui funzione quella di esprimere sentimenti, pensieri, opinioni,
come ritenere, pensare, immaginare, ecc. Es: immagino che sia come dici.
Nelle proposizioni indipendenti, il congiuntivo pu avere valore concessivo, per segnalare una concessione,
un'approvazione anche forzata (malgrado la festa sia finita, che venga pure.), esclamativo (vedessi quanto bella!) o,
ancora, dubitativo, per esprimere una condizione di dubbio (che abbiano deciso di interrompere la terapia?).
Il congiuntivo si presta ad essere utilizzato negli enunciati che esprimono desiderio, speranza (congiuntivo ottativo),
es: Volesse il cielo!, quanto negli enunciati il cui intento di supplica, consiglio, o di impartire un ordine (congiuntivo
iussivo o esortativo), es: che lo faccia pure. Ci pensi lui, se cos interessato.
Tali funzioni, simili tra loro per forma (perlopi di richiesta esposta in maniera pi o meno perentoria) ma diverse per
intenti, vengono assolte dal congiuntivo in sostituzione, per la coniugazione della terza persona, ad un altro modo verbale,
l'Imperativo, che approfondiremo nel paragrafo dedicato.
Questa variazione di modo si rende necessaria per esprimere la modalit deontica, secondo la quale la proposizione viene
definita e qualificata in termini di permesso e obbligo.
Maggiormente presente nelle proposizioni subordinate, il congiuntivo viene solitamente introdotto da:
- congiunzioni: che, affinch, sebbene, qualora, a meno che,(ovunque egli sia, spero che stia bene; devo
vederlo, sebbene non mi aiuti);
- espressioni impersonali: bene che, probabile che, necessario che (per non correre rischi, bene che tu ne stia alla
larga);
- aggettivi o pronomi indefiniti: chiunque, qualunque, ovunque, dovunque, qualsiasi (ti seguir ovunque tu vada);
o, infine, si presenta in formule cristallizzate come queste: sia quel che sia, vada come vada, costi quel che costi.
- presente;
- passato;
- imperfetto;
- trapassato.
Infinito
L'infinito considerato una forma verbale a morfologia ridotta, che non possiede, ovvero, flessione di Persona n consta di
un variegato panorama di tempi verbali: si limita infatti a indicare l'azione; una voce univoca, indeterminata, che pu far
riferimento a qualsiasi persona, a qualsiasi numero (singolare o plurale) e a qualsiasi tempo.
Esso si compone di una radice invariabile e di una desinenza che termina in base alle tre coniugazioni (-are, -ere, -ire) e
coniuga esclusivamente alle forme presente (Es: stare, scrivere, colpire) e passato, per le quali ricorre agli
ausiliari essere e avere (Es: essere stato, avere scritto, avere colpito). Questa flessione ridotta comporta delle restrizioni
d'uso a livello predicativo; per questo motivo, l'infinito figura tra i modi non finiti della lingua italiana.
Mentre alcune caratteristiche del verbo restano intatte, data la non flessibilit della forma, altre, invece, si modulano in base
alla funzione sintattica della parte del discorso a cui si vanno a combinare. Possono pertanto assumere funzioni pari
a nomi, aggettivi, avverbi.
Le propriet caratteristiche di questo modo verbale, dunque, sono molteplici; vediamo come interagisce con elementi quali
voci verbali, preposizioni e proposizioni:
- si accosta a verbi modali per attribuire una specifica modalit all'azione (posso venire in treno);
- pu essere retto da una proposizione cui anteposto un verbo non modale (vado a scrivere);
- pu svolgere funzione di nome (ho voglia di dormire);
- introduce proposizioni subordinate di diverso tipo (invece di scrivere, ascolta la lezione).
Questo modo, anche detto impersonale, svolge la sua funzione principale in frasi esclamative, interrogative e imperative
negative (non punirlo!, parlarmi in quel modo! Chi si crede di essere?).
Per esprimere, dunque, concetti generici e in maniera indeterminata, facciamo ricorso al modo infinito, che evoca in maniera
semplice e diretta, il naturale significato del verbo, cos come lo si trova sui dizionari della lingua italiana.
Abbiamo visto come il participio nella lingua italiana possa avere funzioni attributive, sostantivate, predicative, in
relazione all'applicazione d'uso dello stesso. E proprio perch partecipa, in maniera attiva e passiva alle varie funzioni, si
chiama in tal modo.
Gerundio
Il gerundio un modo verbale non finito della lingua italiana che si compone dei tempi presente (scrivendo, cadendo, ecc.)
e passato (avendo scritto, essendo caduto, ecc.).
La funzione verbale svolta da questo elemento morfologico si esplica in alcuni tipi di frasi dipendenti, es: essendo stato in
vacanza durante le prove, non potrai pi partecipare al musical; esprime concetti temporali, casualit e consequenzialit
di un azione rispetto a un'altra.Ma vediamo nel dettaglio come si comporta.
Come accade per gli altri modi verbali infiniti, anche il gerundio pu svolgere funzioni talvolta diverse da quelle
esclusivamente predicative, semplificando di molto l'esposizione dell'enunciato, agendo direttamente nella proposizione
subordinata. Pu infatti assolvere funzione:
- avverbiale, approntando modifiche a un predicato o a una frase completa (sbagliando s'impara = imparo, se sbaglio);
- concessiva,in accordo con la particella pur (pur avendo molti soldi, non siamo felici = anche se abbiamo... );
- causale, indicando la causa di una situazione (non conoscendo i fatti, taccio = siccome non conosco... );
- temporale, collocando temporalmente l'evento esposto nell'enunciato (lo vidi rientrando a casa = mentre rientravo... );
- ipotetica, ponendo una condizione da cui dipender il realizzarsi o meno quanto espresso nella reggente (continuando in
questo modo, finirai con l'ammalarti! = se continuerai in questo modo... );
Pu sostituirsi a una congiunzione (quando, mentre, se, anche se), un po' come il participio con i pronomi relativi: siamo
andati via correndo (mentre correvamo).
Il gerundio contribuisce inoltre a formare delle perifrasi verbali, ovvero delle espressioni (locuzioni o giri di parole)
volte ad esprimere valori modali, aspettuali o temporali che non vengono normalmente indicati dalle forme verbali esistenti:
- dovendo partire alle otto, ci alzeremo presto (perifrasi modale indica il concetto di dovere, di possibilit);
- sto facendo quel che posso (perifrasi aspettuale - sottolinea la contemporaneit dell'evento);
- sto per andare (perifrasi temporale - colloca temporalmente un evento nel momento cui l'enunciato fa riferimento).
Abbiamo visto come i due tempi di cui consta questo modo verbale vengano utilizzati per mettere l'azione espressa in
rapporto con il verbo della proposizione principale, sotto i vari aspetti appena delineati (temporale, causale, ecc. ) e, in
particolare, come il tempo presente indichi, nella frase dipendente, un'azione di una certa contemporaneit rispetto a quella
espressa nella frase principale (es: uscendo dalla porta di casa, vide Laura) e come, invece, il tempo passato, esprima
un'azione anteriore rispetto a quella indicata nella frase principale (es: essendo uscito dalla porta di casa, si trov davanti
Laura).
I verbi transitivi
Una delle maggiori peculiarit delle voci verbali facenti parte del ramo morfologico della lingua italiana, la possibilit di
reggere o meno un complemento oggetto. In questo caso, si parler di forma transitiva o intransitiva del verbo.
Il verbo di genere transitivo quando l'azione indicata specifica il soggetto (o l'oggetto) che subisce l'azione. Es: ho
letto un libro.
- attiva, con la quale si evidenzia che il soggetto dell'enunciato compie un'azione, partecipe allo svolgimento dell'evento
indicato (Mario ha scritto un libro);
- passiva, con la quale si evidenzia, all'interno dell'enunciato, il soggetto che subisce l'azione indicata (il libro stato scritto
da Mario);
- riflessiva, con cui l'azione indicata nell'enunciato si riflette sul soggetto stesso che la esegue, in parte o completamente.
Con il soggetto, solitamente, concorda in genere, persona e numero, un pronome personale (mi sono lavato = ho lavato me
stesso).
A differenza dei verbi transitivi, i verbi intransitivi sono quelli che non transitano su un complemento e quindi su un
oggetto, pertanto, non rendono possibile la trasformazione dell'enunciato dalla forma attiva a quella passiva.
Le forme del verbo sono attive o passive in relazione al rapporto che stabiliscono con il soggetto. Quando una voce verbale
attiva, il soggetto che compie l'azione rappresenta l'agente della frase; quando questa passiva, invece, l'agente si
identifica nel complemento oggetto, anche detto complemento d'agente. Perch il complemento diventi il soggetto,
necessario che il verbo in questione sia transitivo.
Caratterizzante la forma passiva dell'enunciato l'utilizzo dell'ausiliare essere (o, in taluni casi, del verbo venire) in
combinazione con il participio passato del verbo scelto per indicare l'azione.
Es: Marco stato sgridato dalla nonna.
Si ricorre, talvolta, anche all'uso del -si passivante, che non specifica l'agente che compie l'azione e trova espressione
anteponendo la particella pronominale si alla terza persona (singolare o plurale) del verbo transitivo in questione.
Tra la frase alla forma attiva e quella avente la forma passiva non vi differenza di significato.
Molti verbi si prestano ad avere entrambe le forme: alcuni, ad esempio, solitamente collocati tra i verbi intransitivi, si
trovano ad espletare funzione transitiva, perch seguiti da complemento o volti alla forma passiva. Es: Luca pianse lacrime
amare.
Pertanto, talvolta non possibile fare delle classificazioni esclusive che definiscano quali verbi si prestino unicamente a una
forma o all'altra. Spesso, ci baster analizzare il contesto nel quale l'evento enunciato si pone, per trarre la conclusione
esatta.
I verbi impersonali
Si dicono impersonali i verbi che, nella lingua italiana, non rimandano a un determinato soggetto esternante l'azione e, non
essendo quest'ultima attribuibile come avverrebbe in caso di voci verbali dalle forme differenti, la coniugazione relativa a
questi verbi, propriamente detta impersonale, avviene soltanto alla terza persona.
Es: occorre essere puntuali.
Non vi , dunque, nel processo di coniugazione, flessione del verbo alle varie persone, in quanto la condizione espressa
nell'enunciato non appartiene a nessuno; n vi la possibilit di formare voci verbali all'imperativo.
Tra i verbi impersonali, i pi noti sono certo quelli che enunciano un concetto legato alla natura, pi precisamente alle
condizioni atmosferiche, come nevicare, albeggiare, piovere, ecc.
Non serve che si faccia riferimento a una persona perch il messaggio possa essere espresso.
Es: oggi nevica.
Es: qui, in inverno, piove continuamente.
Questi verbi vengono usati soltanto alla terza persona singolare e nelle forme implicite quali infinito, participio e gerundio.
La terza persona plurale pu essere coniugata alla forma impersonale soltanto facendovi riferimento in senso figurato.
Es: piovono insulti come mai prima d'ora.
Sebbene le norme grammaticali indichino l'ausiliare essere come quello destinato a sostenere la forma dei
verbi impersonali, nella lingua corrente, esplicitamente per quelli che indicano condizioni atmosferiche, entrambi gli
ausiliari si usano indifferentemente:
Es: ieri piovuto/aveva piovuto tutto il giorno.
Altri verbi, oltre agli ausiliari, possono essere altres assimilati agli impersonali, pur non essendo tali e, ovviamente,
verranno usati alla terza persona.
Es. possono esserci dei ritardi.
Oltre a rappresentare fenomeni atmosferici, i verbi impersonali definiscono funzioni di sentimento, attraverso voci
verbali quali pentire, rincrescere, vergognare, annoiare, ecc. (pentirsi di... , vergognarsi, ecc. ) e funzioni di
piacere/dovere/necessit servendosi di verbi quali avvenire, convenire, sfuggire, importare, essere lecito, ecc. (
lecito domandare, ecc. ).
Per volgere un enunciato alla forma impersonale, si pu anche ricorrere all'uso della particella pronominale si, in unione
con voci verbali transitive o transitive attive mancanti di complemento oggetto. Con questo espediente, tutti i verbi possono
essere volti alla forma impersonale.
Es: da oggi si dorme un'ora in pi.
Infine, ci si pu avvalere di alcune locuzioni o espressioni composte dal verbo essere e un nome, un avverbio o un
aggettivo, per dare all'enunciato una forma impersonale, come meglio, una fortuna, importante, ecc.
Es: meglio che tu dica subito tutto ci che sai.
Preposizioni
Si chiamano preposizioni alcune parti (parole) invariabili del discorso che trovano collocazione specifica davanti a
un sintagma (unit sintattica che definisce un insieme di suoni aventi la stessa logica all'interno della frase), con il quale
instaura un rapporto di reggenza, determinando, di conseguenza, le relazioni esistenti tra i diversi elementi dell'enunciato.
Le preposizioni possono essere anteposte a sintagmi nominali, aggettivali e avverbiali; possono affiancare pronomi e
verbi all'infinito. Ogni combinazione di sorta d vita a quello che viene definito un sintagma preposizionale (dall'unione di
preposizione + sintagma) ed pertanto questo il nesso che mette in relazione gli elementi tra loro, rapportandoli in vario
modo all'interno della frase.
le preposizioni proprie non svolgono, all'interno della frase, funzioni diverse da quelle preposizionali, e definiscono una
classe di parole semplici quali di, a, da, in, con, su, per, tra, fra
es: ricorda di passare a prendere la nonna
in questo caso, la preposizione di introduce un verbo all'infinito;
es: tra poco far buio
in questo contesto, la preposizione tra, definisce una relazione temporale tra gli elementi; ecc.
e una classe di parole articolate, quando il sintagma che le segue composto da un articolo determinativo
(il, lo, la, i, gli, le) che si fonde con le preposizioni di, a, da, principalmente, dando luogo ad espressioni come
del (di + il), della (di + la), dello (di + lo), ecc;
al (a + il), alla (a + la), agli (a + gli), ecc;
dallo (da + lo), dagli (da + gli), ecc.
Piccola nota: non possibile accordare le preposizioni tra e fra con gli articoli; facoltativo
farlo con articolo + con mentre per quanto riguarda la preposizione per l'accordo ormai
caduto in disuso.
La preposizione su si fonde anch'essa con gli articoli ma si colloca, per comportamento
sintattico, tra le proposizioni improprie.
Le preposizioni improprie vengono di norma classificate tra gli avverbi, in quanto sintatticamente autonome, poich non
legano obbligatoriamente con alcun sintagma nominale.
Sono dunque semplici parole, per la precisione avverbi (sotto, sopra, davanti, dentro, fuori, prima, ecc. )
e aggettivi (lontano, vicino, lungo, secondo, ecc. ) o anche locuzioni (in mezzo a, per mezzo di, a causa di, ecc. ) che per
l'occasione prendono il nome di locuzioni prepositive che vengono utilizzate come delle vere e proprie preposizioni.
Es: ho la macchina dietro quel camion (prima avverbio che funge da preposizione);
Es: la casa si trova proprio lungo questa strada (lungo aggettivo che funge da preposizione);
Es: in mezzo alla strada c' una busta di plastica (in mezzo a locuzione prepositiva).
Identificare immediatamente quale preposizione usare semplice: basta pensare quale articolo utilizziamo per introdurre un
determinato nome. Ad esempio:
se il nome gatto, l'articolo di, perci la preposizione relativa sar del: del gatto.
Congiunzioni
Le congiunzioni, all'interno della grammatica, sono parti invariabili del discorso, volte a definire una correlazione logica tra
sintagmi o intere proposizioni, all'interno del periodo nel quale intervengono.
Si tratta quindi di parole funzionali che, come le preposizioni, svolgono una funzione di collegamento, la quale pu avere
caratteristiche coordinanti, in quanto effettua un collegamento tra pi parole collocate sul medesimo piano logico e
sintatticamente affini, o subordinanti, quando invece la congiunzione colloca due proposizioni facenti parte di un periodo
su piani logici diversi, stabilendo cos un rapporto di subordinazione che spinge l'una ad essere retta dall'altra, che
automaticamente diviene reggente. Questo per quanto riguarda l'aspetto funzionale.
Rispetto invece alla forma, possiamo distinguere:
- congiunzioni semplici, composte da un'unica parola: e, o, ma, n, anche se, ecc;
- congiunzioni composte, derivate dall'unione di una o pi
parole: perch (per + che), oppure (o + pure), poich (poi + che), ecc;
- locuzioni congiuntive, costituite da pi parole: non appena, a patto che, anche se, ecc.
Tornando all'aspetto funzionale, le congiunzioni coordinanti e subordinanti si suddividono a loro volta, stabilendo delle
categorie sulla base del legame logico che instaurano con gli elementi facenti parte delle proposizioni che vanno a integrare.
- copulative(positive o negative): e, anche, pure, n, neppure, ecc (ho studiato storia e filosofia);
- avversative: ma, per, anzi, tuttavia, piuttosto, nondimeno, ecc (sono stanca, tuttavia legger);
- disgiuntive: o, ovvero, oppure, altrimenti, ossia, ecc (nolegger un giallo o un thriller);
- dichiarative(o esplicative): infatti, invero, cio, ecc (aveva detto di s, infatti poi venuto);
- conclusive: quindi, ebbene, eppure, perci, ecc (sono gi le otto, quindi resteremo a casa);
- correlative: e... e, o... o, sia... sia, n... n, non solo... ma anche, ecc (non era n rosso n bianco);
e per le subordinanti:
- dichiarative: che, come, ecc (tutti sanno che hai partecipato al provino);
- finali: perch, affinch, che, ecc (ripeto affinch tu capisca);
- condizionali: se, purch, qualora, a patto che, ecc (te lo regalo a patto che lo usi);
- causali: poich, siccome, dal momento che, per il fatto che, ecc (restiamo a casa, poich nevica);
- concessive: seppure, sebbene, bench, per quanto, ecc (ha vinto, sebbene giochi male);
- consecutive: cosicch, in modo che, ecc (metto le cuffie, cosicch tu possa studiare in silenzio);
- comparative: cos... come, pi... che, meglio... che, ecc (meglio mora che bionda);
- temporali: mentre, finch, quando, prima che, come, dopo che, ecc (entra, prima che piova!);
- modali: come, come se, ecc (non so come tu sia riuscito ad aggiustarla, non essendo meccanico);
- interrogativeindirette: come, se, quando, perch, ecc (Non so se accetter);
- avversative: laddove, mentre, ecc (siamo andati al cinema, mentre avrei preferito non uscire);
- limitative: che, per quanto, in quanto, ecc (per quanto ne sappiamo, non sono sposati);
- esclusive: senza, salvo che, eccetto che, ecc ( partito senza avvertirmi).
La congiunzione che, in particolare, oltre a determinare un legame tra gli elementi delle proposizioni, assume il ruolo
di complementatore, in quanto usato in maniera generica e senza valori specifici nell'introduzione di frasi subordinate,
esprimendo pertanto un semplice segnale di subordinazione alla proposizione reggente.
Le interiezioni
Una categoria di parole difficilmente classificabile all'interno della grammatica senza dubbio quella delle interiezioni: gli
elementi che la compongono non rientrano in alcuno schema di reggenza, non interagiscono con il senso stretto del
significato dell'enunciato a cui prendono parte, n possono essere modificati da altri parti del discorso; non hanno regole
linguistiche precise di distribuzione all'interno del discorso e possono comparire da soli formando periodi di testo isolati.
Identifichiamo le interiezioni tra le parti invariabili del discorso, che non hanno alcun legame sintattico con gli elementi
linguistici ai quali si vanno ad affiancare, utilizzate perlopi per esprimere condizioni di agitazione, reazioni improvvise,
stati d'animo concitati.
In base alla forma, distinguiamo interiezioni proprie, improprie e locuzioni interiettive.
Le interiezioni proprie sono cos denominate per la loro funzione, puramente interiettiva, e sono: Ah!, eh!, ehi!, oh,
ahim!, urr!, ehm..., beh, boh, mah, ahi, ohi, uffa, puah!, ecc.
Le interiezioni improprie sono parole appartenenti a categorie ben definite all'interno della grammatica, come verbi,
aggettivi, avverbi, sostantivi, che in alcuni contesti si prestano a comportarsi come delle interiezioni. Queste sono: bene!,
evviva!, peccato!, accidenti!, ottimo! su!, zitto!, ecc.
Le locuzioni interiettive sono espressioni composte da due o pi parole o, ancora, da frasi aventi un valore di espressione
emotiva, come mamma mia!, meno male!, porca miseria!, poveri noi!, al riparo!, ecc.
Le interiezioni possono avere valore assertivo, esclamativo o interrogativo; non si limitano, dunque, come spesso
erroneamente supposto, ad esprimere emozioni quali dolore, gioia, stupore, ecc, che potremmo catalogare come
espressioni esclamative.
Vediamo nel dettaglio le differenze.
Nell'espressione:
Ah, va bene
Ah rappresenta un'interiezione a valore assertivo;
Eh? Cosa dici?
Eh l'interiezione a valore interrogativo;
Toh! Chi si vede!
Toh indica un'esclamazione.
l'intonazione, inoltre, a giocare un ruolo nodale per la corretta interpretazione delle interiezioni: intonazioni ed emissioni
foniche ascendenti o discendenti possono focalizzare diversamente l'intenzione di questi elementi ad uso delle diverse
espressioni all'interno delle quali si collocano.
Es: ah, ; ah!
Talvolta, per quanto questo compito sia assolto genericamente da nomi o verbi, le interiezioni possono avere
valore onomatopeico, si veda il caso di espressioni di mimesi del suono come quelle universalmente usate dei fumetti, ad
esempio: crash!, tonf!, argh!, ecc.
Abbiamo visto come le interiezioni svolgano diverse funzioni all'interno della lingua, spesso semplicemente utilizzate come
veri e propri segnali discorsivi, ovvero espressioni che informano sullo svolgimento del discorso, dal suo inizio alla sua
conclusione, come i saluti, che rappresentano il simbolo per eccellenza dello scambio comunicativo:
- Buongiorno, come stai?
- Bene. Oggi una bella giornata, no?
- Beh, s, lo .
Una sorta di intuizioni quindi, che i partecipanti allo scambio si comunicano a vicenda, spesso per indurre la
comunicazione, codificando i messaggi a dovere, a prendere una direzione precisa.
Le figure retoriche
Lo strumento comunicativo della parola ci permette di spaziare tra una vasta scelta di elementi del linguaggio umano,
attraverso i quali esprimiamo, manipoliamo concetti, conferiamo loro degli aspetti diversi a seconda del messaggio da
trasmettere. Vocaboli, sinonimi e punteggiatura non sono le sole, principali astuzie di cui ci serviamo, anzi, spesso proprio
dietro a una forma ricercata che preferiamo celare il messaggio, ricorrendo all'espediente della figura retorica, che elabora il
concetto attraverso immagini pi suggestive.
Questo artifizio ci permette di agire su diversi aspetti del concetto da esprimere: possiamo semplicemente alterare la forma
delle parole, avvalendoci in questo caso delle figure di dizione, oppure affinarle con una forma pi ricercata (figure di
elocuzione) o, ancora, trasformarne il significato (figure di significato o tropi). Possiamo altres operare sulla musicalit
del messaggio, giocando con le sillabe, creando un'atmosfera di suoni ripetuti (figure di ritmo), oppure spezzare la staticit,
alternando l'ordine delle parole (figure di costruzione o di posizione) o, diversamente, giocare sulle immagini,
precisamente intorno alla concezione che si possa avere di esse, servendoci delle figure di pensiero.
E' gi nel Settecento che vediamo applicato l'uso della retorica nel campo artistico; con la manipolazione dell'arte attraverso
immagini evocative al centro dell'interesse dei letterati dell'epoca. La trasmissione era perlopi finalizzata a riprodurre
verbalmente suoni e immagini ad effetto persuasivo.
Studi moderni basano le proprie ricerche su quest'ottica tradizionale in cui vengono collocate le figure retoriche, tracciando
nuove concezioni delle stesse che vedono impiegata la linguistica moderna, settore che ha gi costituito le basi di una
contemporanea contestualizzazione di questo espediente comunicativo, estremamente utile per l'interpretazione di varie
discipline in continua evoluzione, come la psicoanalisi.
L'allegoria
La prima figura retorica che andiamo ad approfondire l'allegoria, mezzo attraverso il quale mistifichiamo il significato
letterale del messaggio che vogliamo comunicare spostandoci su un piano simbolico, che ci permette di modificarne i
connotati attraverso l'uso di immagini e concetti estremamente suggestivi; un legame dunque tra la realt e l'immagine
dietro la quale celata una connessione tra significato e significante che non pu essere svelata con un semplice approccio
emotivo, come si verifica per la metafora, che vedremo pi avanti, bens mediante un discernimento intellettuale, quasi
sempre puramente soggettivo. Necessita di un'elaborazione razionale, di un'interpretazione che porti alla luce il pensiero
astratto rappresentato in apparenza in forma concreta quanto affascinante.
Esempi tipici di allegoria li troviamo nell'emblematica opera della Comeda (ormai nota come Divina Commedia), come la
selva oscura, simboleggiante la vita impura, viziosa; e come non far riferimento a le tre fiere, escogitate per alludere alla
predisposizione umana verso il peccato.
Un contesto di fascino e mistero, la figura dell'allegoria, che ci guida verso un'analisi morale e psicologica del testo, verso
una comprensione che colga appieno ogni sfumatura sapientemente nascosta.
L'allitterazione
Adlitterare, dal latino, significa letteralmente "allineare le lettere". Il termine allitterazione deriva appunto da questo e
consiste nella ripetizione di suoni (fonemi), quindi di lettere o sillabe consequenziali (all'interno della stessa frase).
Tale espediente usato per dare ridondanza, per mettere in rilievo la corrispondenza possibile tra le parole usate; per
evocare sensazioni simili a quelle rese con l'onomatopea, facendo riferimento a suoni rigidi e netti (reiterando lettere
quali: r, g, c, s), a suoni pi morbidi e armoniosi (utilizzando le lettere l e v) o, ancora, che stimolino una visione
di ampiezza, riproducendo ad esempio la vocale a.
Possono essere ripetute le semplici vocali, e in questo caso parleremmo di assonanza (approfondimento in un paragrafo a
parte), che corrisponde all'avvalersi di vocali uguali, come in questo esempio: amare come volare.
Abbiamo ripetuto le vocali a - e, riproducendo un'allitterazione assonantica.
Possiamo invece ricorrere a suoni prodotti da consonanze, che otteniamo con l'utilizzo di sillabe graficamente e
foneticamente simili(consonanza), dando luogo stavolta ad un'allitterazione consonantica. Vediamone un esempio con le
L'allusione
Con l'allusione lasciamo intendere un determinato concetto utilizzando un sostantivo (un nome che indica
una persona, una cosa, un luogo, una qualsiasi entit), ovvero, affermiamo qualcosa con l'intento di farne
cogliere una differente.
Il termine stesso ci indica in realt con che tipo di figura retorica avremo a che fare, se pensiamo che alludere significa
sottintendere, accennare a qualcosa, lasciar capire...
Solitamente, il sostantivo in questione ha un qualche connotato storico importante, pressoch concordante con il pensiero da
esprimere.
Potremmo accennare ad esempio alla battaglia di Waterloo per indicare tra le righe una sconfitta, in questo modo: Per la
conclusione di quell'importante progetto si prevede un Waterloo oppure: Non stato altro che un Waterloo. Poteva essere
evitato.
La sconfitta ha un rapporto di similarit con il termine Waterloo, poich quest'ultimo denuncia un insuccesso, un fallimento.
Si presta, dunque, ad essere adoperato in tal senso.
Non soltanto storico, tuttavia, pu essere il nesso proposto: abbiamo facolt di spaziare tra le pi disparate connessioni
mitologiche o letterarie, pertanto possiamo, un po' come il concetto di antonomasia ci insegna, inquadrare una perpetua per
individuare una serva fedele (riferimento letterario da I promessi sposi) oppure parlare di labirinto (contesto mitologico)
per lasciar intendere una situazione difficile da sbrogliare, un intarsio di vicende complicate, magari.
L'antonomasia
Come abbiamo visto per i primi due casi, l'uso delle figure retoriche comporta la possibilit di dilettarsi con le parole,
conferendo loro, talvolta, delle peculiarit tali da essere percepite in maniera diversa, soggettiva anche, giungendovi per vie
traverse.
Anche l'antonomasia ci offre uno strumento per operare tali accorgimenti: essa consiste in una sostituzione letterale di una
determinata parola con una locuzione, una specie di appellativo o, per di pi, un gioco di parole (perifrasi) che le attribuisca
un tono celebrativo, una sorta di etichetta di distinzione. Letteralmente, il termine si traduce in: chiamare qualcuno o
qualcosa con un altro nome o figura che ne contraddistingua la qualit.
Spesso scambiata con il soprannome, questa figura retorica si utilizza per indicare con un unico nome o modo di dire un
determinato concetto, vediamo come:
- Utilizzando un nome proprio per attribuire al concetto ci che quel nome rappresenta:
Quel ragazzo un Casanova per intendere Quel ragazzo un seduttore;
- Utilizzando un nome generico o una figura che indichi quel determinato concetto:
Il Poeta Maledetto per indicare Charles Baudelaire.
Con l'antonomasia si conferisce al concetto espresso una qualit che abbia importanza distintiva, che eccelga tra le altre:
- l'artista per antonomasia Leonardo Da Vinci;
- il cattivo per antonomasia Jack Nicholson
L'assonanza
Spesso, nei paragrafi precedenti, per spiegare la funzione di figure retoriche o di strumenti della comunicazione, abbiamo
fatto riferimento ad una branca della linguistica (scienza che studia il linguaggio umano) che si occupa di elaborare la
percezione dei suoni che ne fanno parte: la fonetica. Secondo tale disciplina, l'accostamento di suoni simili in un testo,
all'interno di uno stesso periodo, pu dar luogo ad un particolare fenomeno che agisce solitamente nel contesto della
metrica, denominato assonanza, di cui abbiamo osservato gi qualche esempio, nel paragrafo dell'allitterazione. Ma
analizziamolo con precisione.
Si chiama assonanza la corrispondenza fonica tra le sillabe finali di due o pi parole all'interno della stessa frase.
Un'armonia di forme che si intersecano musicalmente tra due o pi versi.
Possiamo riconoscere diverse tipologie di assonanza, infatti abbiamo:
- l'assonanza tonica: quando a coincidere soltanto la vocale su cui cade l'accento (bere/caff);
* ricordiamo anche l'esistenza della consonanza tonica, che incide allo stesso modo dell'assonanza, ma unicamente sulle
consonanti.
- l'assonanza atona: quando, al contrario di quella tonica, a collimare sono soltanto le vocali (o sillabe) su cui l'accento non
cade (sole/mele);
La domanda retorica
Attraverso la figura della domanda retorica, noi utilizzatori imponiamo una riflessione all'interlocutore e, allo stesso
tempo, asseriamo o neghiamo qualcosa.
Non si tratta, infatti, di una vera domanda, considerato che questa consiste nel porre un quesito al quale non sono previste in
alcun modo risposte di tipo convenzionale, giacch il riscontro che si vuole ottenere implicito in essa.
Non , questa, una vera richiesta di informazioni: implica un comportamento di risposta che non ammette controversie di
sorta, che non vada in contrasto con quanto di insito nella domanda, che colga dunque l'invito a riflettere e, di conseguenza,
a concordare in un modo o nell'altro (sia in caso di affermazione che di negazione).
Come possiamo notare, la domanda stessa suggerisce la risposta: il concetto espresso ci chiarisce gi le idee su quello che
il pensiero di chi la pone al riguardo.
Una domanda retorica pu essere usata per stimolare l'interazione tra due o pi persone, pu agire da dichiarazione esplicita
sebbene detenga un carattere implicito.
Quando noi poniamo una domanda con queste caratteristiche, lo facciamo per istigare una conferma o, anche, per
confermare, con tono scherzoso e tra le righe, la nostra posizione su quel determinato argomento. Pu risultare essere un
mezzo scomodo per chi, dall'altra parte, la riceve: potrebbe trovarsi nel ruolo di chi, a malincuore, si trovi spiazzato di
fronte ad una qualche evidenza, rimarcata, appunto, dalla domanda stessa.
Eufemismo
Sentiamo spesso parlare di eufemismo nella lingua corrente, nel modo comune di dialogare, quasi come fosse uno
strumento nodale della comunicazione, di uso comune, appunto.
bene sapere, per, che l'eufemismo un artificio del discorso, non un suo elemento di struttura base, infatti rientra nella
categoria delle figure retoriche al servizio della lingua italiana.
Quando parliamo di eufemismo, intendiamo indicare l'espediente utilizzato nella lingua italiana, parlata e scritta, per
alleggerire il tono di un discorso, per non mettere in rilievo quella che, senza l'ausilio di un'espressione appositamente
inserita in sua sostituzione, rappresenterebbe un'eccessiva caricatura del discorso, un dar luogo a una comunicazione con
fin troppa carica espressiva, appesantita, o, perch no, banalizzata.
Esempi di eufemismo:
L'iperbole
Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come, grazie agli strumenti offerti dalle figure retoriche, siamo in grado di
mistificare concetti attraverso immagini simboliche, di alterare la percezione delle espressioni linguistiche giocando
sull'effetto sonoro prodotto dai vari fonemi o unit di parole, di creare suggestivi virtuosismi che fungano da strumento
commerciale, anche.
E non tutto: possiamo addirittura esasperare un concetto, manipolandolo in eccesso o in difetto, nell'intento di conferire
maggior credibilit al messaggio espresso, nonostante spesso si ottenga esclusivamente il risultato di apparire esagerati,
bench l'unica intenzione sia quella di rafforzare un'affermazione.
E' questo, per l'appunto, il compito dell'iperbole: esaltare un concetto all'estremo, esagerandone la realt, per attribuirgli
maggiore espressivit e amplificarne l'effetto.
Un secondo e arrivo;
Siamo soliti usare questo espediente linguistico in situazioni comuni della nostra vita, tanto che ormai ne fa parte come una
sorta di espressione gergale che, bench spesso fraintesa per la sua vena egocentrica, alla portata di tutti e da tutti
compresa all'istante. Non si pu dire, perci, che non sia uno strumento valido per una comunicazione immediata e di
successo.
Ipotassi
Altra figura retorica di cui vogliamo parlare in questa sede l'ipotassi, probabilmente poco nota nella sua precisa accezione
di figura retorica ma indubbiamente molto usata nel linguaggio parlato e scritto.
Come riconosciamo l'ipotassi?
Troviamo la risposta semplicemente osservando la struttura sintattica del periodo di riferimento, il quale oggetto di livelli
diversi di subordinazione, ovvero di dipendenza l'uno dall'altro dal punto di vista temporale o strettamente logico, es: dopo
aver cenato, andai in camera mia e presi un libro.
Lo scopo quello di mettere in rilievo la relazione di reggenza/dipendenza esistente tra le proposizioni proposte, ovvero il
rapporto di subordinazione caratterizzante una proposizione in corrispondenza di una principale.
identificato come un metodo raffinato di elaborazione della prosa classica, ma spesso lo si rileva anche in poesia.
Al contrario, la paratassi, la struttura secondo la quale le frasi vengono coordinate in un rapporto di indipendenza, di
equivalenza reciproca, e non, quindi, di subordinazione.
La metafora
All'interno della vasta categoria delle figure retoriche troviamo qualcosa che ha vagamente a che fare con la similitudine,
con la differenza, in questo caso, di non trovare avverbi o locuzioni avverbiali a sostegno. Tale figura si identifica
nella metafora, ovvero un significato essenzialmente astratto sostituente un determinato termine o concetto.
L'evocazione di figure e immagini della massima espressivit, l'apportare nuovi significati semantici alla frase in oggetto, il
comunicare attraverso espedienti che stimolino sensazioni forti e attraenti, rappresentano la finalit d'uso di questo artificio
del discorso.
L'utilizzo di tale figura retorica volto a sovrapporre un nuovo significato, una forte immagine evocata al termine originario
oggetto della trasformazione, con il quale, peraltro, il termine metaforico ha una sorta di attinenza, un qualche rapporto di
somiglianza sul quale si sviluppa tale trasferimento concettuale.
Alcuni esempi per chiarire meglio che tipo di immagini si possano ottenere attraverso l'uso della metafora: si chiamano ad
esempio verdi gli anni che contraddistinguono la giovinezza (gli anni verdi) o si pu dare a qualcuno della volpe per
identificarne la furbizia (sei una volpe!) e cos via, si andranno a ricercare immagini pi o meno evocative di ci che
normalmente, attraverso semplici parole concrete, andremmo a evidenziare.
Ossimoro
Definiamo ossimoro la combinazione di due termini il cui rapporto reciproco solitamente incompatibile e vede uno dei
due fortemente determinante nei confronti dell'altro.
Questa figura retorica ha la funzione di dare vita, all'interno del testo in cui inserita, ad un contrasto che crei originalit, un
significato dalla forma nuova che diviene quasi umoristico, a seconda dell'associazione fatta.
Troviamo alcuni esempi di ossimoro nelle combinazioni di parole brivido caldo, copia originale, silenzio assordante e
cos via.
Una sorta di particolare paradosso: due concetti contrari che si accostano a formare una locuzione che assume un significato
proprio, che col tempo, in moltissimi casi, diviene d'uso comune, soprattutto nell'ambito della lingua parlata.
Possiamo parlare, quindi, di un'alchimia di parole nata da due concetti separati che reciprocamente si contraddicono.
Similitudine
Attraverso la figura retorica della similitudine poniamo due particolari entit (persone, cose concrete o astratte come
oggetti o sentimenti, situazioni, ecc. ) in relazione tra loro per definirne un rapporto di paragone, dando vita a collegamenti
semplici o ricchi di nessi comparativi, e per farlo ci serviamo di termini e locuzioni quali sembra, assomiglia, tale a...
, cos... come, ecc.
Espressioni, queste, che determinano la differenza sottile esistente tra similitudine e metafora, altra figura retorica,
quest'ultima, che gioca sulla trasposizione di significato, sul mostrare un quadro evocativo al massimo per inviare al lettore
un messaggio pi chiaro, che, attraverso figure e sensazioni a lui conosciute, gli facilitino la comprensione di ci che
effettivamente il testo oggetto della trasformazione vuol rappresentare.
La similitudine consiste quindi in uno strumento alternativo che si presta a favorire sul piano visuale il concepimento
del messaggio espresso, fornendo al lettore una chiave nuova e sicuramente pi immediata attraverso la quale analizzare il
contenuto della comunicazione e farlo proprio.
Esempi di similitudine possiamo trovarli in sede di luoghi comuni, vale a dire in espressioni come bianco come la neve
oppure caldo come il fuoco, ecc.