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Damiano Palano: La fabbrica della disperazione

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C Creato: 17 Febbraio 2016
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La fabbrica della disperazione


Franco Berardi e il disagio dellipermodernit
Damiano Palano
Il tempo della disperazione
Al termine del Disagio della civilt, dopo aver mostrato come il processo
della civilizzazione fosse il risultato del controllo progressivamente esercitato
sul corredo pulsionale degli esseri umani, Freud veniva a contrapporre luna
allaltra le due forze elementari che riteneva di avere scoperto, Eros e Morte.
E proprio nelle righe finale, aggiunte nel 1931, segnalava come i pericoli
maggiori per il genere umano giungessero dalla pulsione di morte e dalle
tendenze aggressive che ne discendevano:
Il problema fondamentale del destino della specie umana, a me sembra sia
questo: se, e fino a che punto, levoluzione civile degli uomini riuscir a
dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione
aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente
merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente
il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile
sterminarsi a vicenda, fino allultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicit,
apprensione[1] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn1).
facile riconoscere in quelle parole il riflesso cupo della stagione di barbarie che si avvicinava. Linsieme delle trasformazioni
epocali inaugurate dalla prima guerra mondiale aveva daltronde indotto il padre della psicoanalisi a rivedere sensibilmente il
proprio quadro teorico generale. E anche se linteresse per i temi politici era affiorato gi dal grande affresco di Totem e tab, le
dinamiche della societ attrassero lattenzione Freud soprattutto a partire dallo scoppio del conflitto e dopo il crollo dellImpero,
un evento che rappresent anche per il medico viennese il tramonto del mondo di ieri in cui aveva vissuto (e creduto) e linizio di
unera di disordine. Il cammino che doveva condurre Freud al Disagio della civilt e al riconoscimento sconcertante della
pulsione di morte col quale prendeva atto che la tendenza aggressiva rivela nelluomo una bestia selvaggia, alla quale
estraneo il rispetto per la propria specie[2] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn2) era anche un percorso intellettuale di
disillusione rispetto ai grandi sogni della scienza positiva. Lambizione di poter guarire gli esseri umani dal loro disagio, portando
alla luce le correnti misteriose che si agitavano nel fondo della psiche, si trovava alla fine a urtare contro un ostacolo insuperabile,
aprendo le porte a un cupo pessimismo, per molti versi simile a quello che aveva indotto i grandi realisti del passato a descrivere
il legno storto della natura umana.
La pista indicata dal Disagio della civilt e da altri scritti freudiani degli anni Venti, come soprattutto Massenpsychologie und Ich
Analyse[3] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn3), doveva in seguito essere battuta anche da molte altre indagini, pi o meno
fedeli rispetto agli insegnamenti del padre del psicoanalisi, tra cui quasi inevitabile ricordare Massenpsychologie des
Faschismus di Wilhelm Reich, Escape from Freedom di Erich Fromm, o Eros and Civilisation di Herbert Marcuse, ma tra cui
sarebbe ingiusto dimenticare anche suggestivi testi come Psicanalisi della guerra atomica e Psicoanalisi della guerra di Franco
Fornari[4] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn4). E anche negli ultimi anni un sentiero di riflessione di questo tipo stato
seguito, seppur ormai marcando una sostanziale distanza da Freud, per esempio da Massimo Recalcati, che in alcuni suoi
interventi giornalistici si spinto a interpretare fenomeni politici come il terrorismo di matrice islamista, alla ricerca di una
spiegazione collocata al livello della psicologia della massa, ossia delle generali condizioni psicologiche che contrassegnano
una determinata societ[5] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn5). Per quanto suggestive siano le sollecitazioni che provengono
da queste indagini, il crinale su cui esse si muovono al confine tra lambito della psicologia del singolo individuo e la sterminata
landa delle condizioni economiche, politiche e culturali di una determinata societ non pu che essere sempre estremamente
scivoloso, ed cos quasi inevitabile cedere a semplificazioni che finiscono con lo smarrire, al tempo stesso, la specificit delle
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motivazioni individuali e lautonomia (oltre che la complessit) dei fenomeni politici. Se infatti la ricostruzione psicologica del
quadro culturale di una determinata fase storica pu offrire formidabili elementi per interpretare fenomeni politici o anche le scelte
che un singolo individuo si trova a compiere, una simile impostazione rischia quasi sempre di spingere verso il riduzionismo
psicologico. Un riduzionismo in base al quale saltando ogni anello intermedio non solo fenomeni politici e culturali complessi
vengono ricondotti a determinanti psicologiche, ma secondo cui persino la stessa condizione del singolo appare riducibile alle
dinamiche della psicologia di massa, proprio secondo quello schema che tracciava Freud al termine del Disagio della civilt,
quando scriveva che la consapevolezza degli esseri umani del potere raggiunto sulle forze naturali spiegava buona parte della
loro presente inquietudine, infelicit, apprensione.
proprio questo scivoloso crinale, affollato di insidie, che decide di percorrere Franco Berardi nel volume Heroes. Suicidio e
omicidi di massa, il suo libro probabilmente pi inquietante se non altro per le storie individuali che vengono considerate come
esemplari ma in cui giunge anche a completa maturazione un pessimismo dalle radici profonde[6] (http://tysm.org/francoberardi/#_edn6).
Nel libro di Berardi vengono infatti ripercorse le storie personali di folli criminali che utilizzano armi micidiali per sterminare decine
di innocenti, prima di togliersi la vita, ma queste vicende sono assunte come spie di un disagio generale, che non coincide solo
con la patologia di casi estremi, perch riflette piuttosto la diffusione di massa di comportamenti patologici. Non neppure
necessario sottolineare come nella lettura che sorregge Heroes si annidino molteplici rischi, che non sono solo quelli di
semplificare fenomeni inevitabilmente complessi. E non va neppure mai dimenticato che le ipotesi di Berardi sul disagio
dellipermodernit non hanno n pretendono di avere un valore sul piano clinico (un valore che daltronde non avevano
neppure le ipotesi freudiane sul fondamento e sul destino della civilt), e vanno piuttosto a collocarsi sul terreno di
uninterpretazione culturale del presente, dalla quale non sono peraltro mai assenti le preoccupazioni pi strettamente politiche
sulle possibili modalit di azione in un contesto tanto fortemente segnato dalla mutazione[7] (http://tysm.org/franco-berardi
/#_edn7). A dispetto di tutte queste cautele, il pessimismo di Berardi non pu essere probabilmente archiviato in modo frettoloso,
e non se possono liquidare le estremizzazioni come il semplice vezzo intellettuale di un provocatore culturale aduso alliperbole.
Perch a ben guardare, al netto delle estremizzazioni e delle provocazioni (che certo ci sono), il ritratto che Berardi ha delineato,
investigando da vicino la mutazione tecnologica degli ultimi due decenni, coglie davvero alcuni aspetti cruciali. E vale dunque
senzaltro la pena prendere sul serio le sue ipotesi, evitando di ricondurre le sequenze del suo itinerario allinterno della griglia
interpretativa del post-operaismo italiano (che almeno nel suo caso appare oggi molto simile a una gabbia distorcente), e
rendendo il dovuto merito a uno sguardo che non da oggi si rivelato capace di cogliere tutte le insidie della trasformazione.
Leffige di Franco Berardi con quel soprannome Bifo, con cui ancora alle scuole medie cominci a firmare le proprie opere
rimane per molti versi incastonata, come un tassello insostituibile, nel mosaico di quella rive gauche in minore che fu la Bologna
degli anni Settanta. Una Bologna forse persino immaginaria, ma non per questo meno nitida nei suoi contorni, in cui stanno le
ballate malinconiche di Francesco Guccini, gli esperimenti di Roberto Roversi e Lucio Dalla, il poliziotto Antonio Sarti e
lextraparlamentare eternamente fuoricorso Rosas, il mediattivismo goliardico di Radio Alice, il mao-dadaismo di A/traverso,
il Settantasette e il convegno sulla repressione, i dolori sentimentali di Boccalone e le performance di Roberto Freak Antoni, e
in cui un posto donore non pu che essere occupato proprio da Franco Berardi, che del movimento bolognese politico, ma
anche culturale e artistico fu pi che un semplice animatore. Ma proprio il fatto che limmaginario collettivo lo abbia rivestito
degli abiti (peraltro tuttaltro che adatti alla sua personalit) del reduce, insieme probabilmente alle doti istrioniche che lo rendono
ancora oggi un formidabile affabulatore, ha finito col precludere la possibilit che in Italia si sviluppasse intorno alla sua riflessione
e alle sue ipotesi un dibattito serio, come invece accade da anni allestero, dove i libri di Bifo sono tradotti e discussi.
Confrontandosi con la riflessione di Berardi, le pagine che seguono tentano invece di cogliere gli elementi pi preziosi dellindagine
sul disagio dellipermodernit che lintellettuale bolognese ha avuto modo di condurre nel corso degli ultimi decenni. Ma, al
tempo stesso, cercano anche di portare alla luce un rischio che si annida nella sua prospettiva. Un rischio che affonda le radici
nella stessa logica di un percorso ormai lungo quasi mezzo secolo, e il cui esito paradossalmente tende a configurare una
sorta di rimozione del conflitto dallo spazio dalla teoria.

Il mondo insensibile
Non certo sorprendente che Franco Berardi definisca Heroes come un libro orribile (H 211). Per gli squarci che apre sul
disagio di unumanit tanto sofferente quanto colpevole di violenze efferate, il volume in molti passaggi risulta davvero urtante,
sgradevole, doloroso. Gli assassini di cui il libro si occupa tracciando gli schizzi biografici di personaggi come James Holmes,
autore di una strage in un cinema del Colorado durante la prima del Cavaliere oscuro, come Pekka Auvinen, diciottenne che nel
novembre del 2007 uccise nove coetanei in una scuola finlandese, come Seung-Hui Cho, studente di origine coreana colpevole
del massacro di trentadue persone in ununiversit della Virginia, e come Andres Breivik, che il 22 luglio 2011 stermin
settantasette persone, a Oslo e nellisola di Utoya, dove era in corso il raduno estivo dellorganizzazione giovanile del Partito
laburista non sono comunque considerati tanto nella loro specificit, ma piuttosto come segnali di un processo pi ampio. Non
sono episodi marginali, scrive infatti Berardi, dovremmo leggerli come il sintomo estremo di una sofferenza che dilaga al cuore
della societ contemporanea, perch il capitalismo finanziario la fabbrica dellinfelicit, un buco nero che inghiotte i beni
comuni, il prodotto del lavoro, e soprattutto inghiotte la gioia, la speranza, e la possibilit stessa di vivere la vita (H 12).
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La scelta chiaramente provocatoria, spiazzante, di partire da casi tanto estremi per ricostruire un clima emotivo non pu che
calare sul libro unipoteca formidabile, suscettibile agli occhi di molti persino di squalificare lintera operazione, perch quella
scelta pu apparire come una scorciatoia che dalle azioni di alcuni individui (i cui tratti sono peraltro desunti solo da informazioni
giornalistiche) conduce sino alla societ e a una condizione psicologica generale. A dispetto di tutte queste forzature, e delle
provocazioni culturali, lipotesi che guida linterpretazione di Berardi offre senzaltro degli elementi di riflessione tuttaltro che
secondari, nella direzione di una fenomenologia del presente, o persino di una fenomenologia della fine, come recita il titolo di
uno degli ultimi libri dellintellettuale bolognese[8] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn8). Non credo che il suicidio si possa
ridurre a ununica causa, data la complessit psicologica della scelta di rinunciare alla vita, scrive Berardi, prevenendo le critiche
di eccessiva semplificazione, ma, al tempo stesso, osserva che quando i numeri sono cos incredibilmente alti, quando il suicidio
diviene un fenomeno di massa qualche motivazione comune deve esserci (H 183). E la chiave del ragionamento, la spiegazione
della dimensione di massa che assume il suicidio, sta pi che nei ritratti criminali, inevitabilmente grotteschi, un po come i ritratti
della vecchia criminologia fin de sicle nel titolo del volume, Heroes: un titolo il cui significato, per, si presta facilmente a
essere frainteso, se non del tutto distorto. Il titolo si richiama infatti a un disco di David Bowie pubblicato nel 1977, nel quale
lartista britannico coglieva una trasformazione radicale nella figura delleroe: un eroe che non pi un soggetto, ma solo un
oggetto, una cosa, un feticcio, riproducibile costantemente, allinterno di un quadro in cui dunque la realt viene sostituita dalla
simulazione e da simulacri. Come scrive Berardi nelle pagine introduttive: La forma epica delleroismo scomparsa verso la fine
della modernit, quando la complessit e la velocit degli eventi umani hanno soverchiato la forza e la volont. Quando il caos
prevale leroismo epico sostituito da grandi macchine di simulazione. Lo spazio del discorso epico viene occupato dalle
corporazioni semiotiche, apparati che emanano illusioni largamente condivise. Questi giochi di simulazione spesso prendono
forma di identit, come accade nelle sottoculture popolari, come il rock, il punk, la cybercultura e cos via. Le origini della forma
pi moderna di tragedia stanno qui: sulla soglia le illusioni sono scambiate per realt, e le identit sono percepite come
unautentica forma di appartenenza (H 16-17). E proprio a partire dal fatidico 1977 un anno per Berardi non solo
simbolicamente cruciale il mondo trasmigr dalla sfera dellevoluzione umana alla sfera della de-evoluzione, o
de-civilizzazione, gli eroi si trasferirono in unaltra dimensione: si dissolsero, e divennero fantasmi, mentre la razza umana,
inseguendo finti eroi fatti di illusoria sostanza elettromagnetica, perse fede nella realt della vita e dei suoi piaceri e cominci a
credere solo nellinfinita proliferazione delle immagini (H 17). La trasformazione in simulacro della realt cui allude, un po
cripticamente, il titolo del volume infatti per Berardi lelemento cruciale della trasformazione che abbiamo vissuto nel corso
dellultimo quarantennio, oltre che la caratteristica quintessenziale del semiocapitalismo, il regime contemporaneo nel quale la
valorizzazione del capitale basata sulla costante emanazione di unenorme quantit di informazione (H 35).
Se nella lettura del semiocapitalismo proposta da Berardi un posto importante occupato dalla de-materializzazione della
produzione, ci su cui attira soprattutto lattenzione sono gli effetti che la trasformazione produce sugli individui, e cio la
mutazione cognitiva e psichica che limmersione prolungata in un ambiente digitale pu produrre: unimmersione che, al di l dei
contenuti che vengono effettivamente proposti allattenzione dei singoli, tende a produrre, soprattutto in virt delliperstimolazione,
un effetto di desensibilizzazione allesperienza corporea della sofferenza e del piacere (H 59). E i terribili crimini di massa
compiuti dagli individui considerati in Heroes costituiscono cos una manifestazione eccezionale di una tendenza generale di
mutazione della reattivit mentale (H 59). A produrre la desensibilizzazione sono naturalmente molti processi, ma Berardi ne
individua in particolare due, e cio, da un lato, la dissociazione dellapprendimento linguistico dallesperienza affettiva corporea,
e, dallaltro, la virtualizzazione dellesperienza (H 60). Nel quadro proposto da Berardi non pu per mancare un riferimento alla
dimensione pi specificamente economica, e cio non tanto al ruolo che le macchine vengono a svolgere nellinterazione con gli
individui, quanto allutilizzo specifico che ne viene fatto allinterno del semiocapitalismo, e dunque sulle conseguenze che da tale
utilizzo derivano. Il semiocapitalismo, scrive per esempio Berardi, si fonda sullo sfruttamento delle energie mentali: lattenzione
sotto assedio, sia nello spazio della produzione che in quello del consumo, e una simile iper-stimolazione dellattenzione
implica un investimento costante di energia nervosa, [] molto pi difficile da gestire e molto pi imprevedibile di quanto lo fosse
la forza muscolare che era al lavoro nella catena di montaggio industriale (H 147). Quando evoca liper-stimolazione
dellattenzione, Berardi si riferisce a tutti quegli aspetti che vengono spesso ricondotti alle caratteristiche di ci che spesso
definito capitalismo cognitivo, biocapitalismo o bioeconomia, ossia a una trasformazione indagata a lungo dal
post-operaismo, non senza qualche semplificazione e unenfasi talvolta persino esasperata sulla tendenza[9] (http://tysm.org
/franco-berardi/#_edn9) che rende sempre pi labili i confini tra vita e lavoro, e che viene invece a trasformare tutto il nostro
tempo di vita in tempo di lavoro, grazie per esempio alla connessione costante in rete e alla telefonia mobile. In un contesto di
questo tipo, molti degli strumenti tradizionalmente utilizzati dai lavoratori per negoziare il prezzo del proprio tempo di lavoro
risultano del tutto inadeguati. Il tempo di lavoro, scrive Berardi, frattalizzato, ridotto a frammenti minimi che possono essere
riassemblati, e la frattalizzazione rende possibile per il capitale trovare continuamente le condizioni per il ridurre al minimo il
salario (H 150); inoltre, senza prossimit spaziale e continuit temporale, i singoli lavoratori non sembrano in grado di opporre
alcuna significativa resistenza[10] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn10). E anche perch non incontra alcuna resistenza reale,
la stimolazione dellattenzione che contrassegna il semiocapitalismo tende a innescare una vera e propria mutazione.
Lorganismo conscio e sensibile sottoposto a una pressione competitiva crescente, a unaccelerazione degli stimoli, a uno
stress costante dellattenzione, tanto che e qui si colloca un passaggio cruciale linfosfera in cui la mente si forma ed entra
in relazione con altre menti, diviene unatmosfera psicopatogena (H 151).
Naturalmente la connessione tra la formazione dellatmosfera patogena e i casi estremi ricostruiti da Berardi nel volume non
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pu che risultare labile, e in questo sta forse laspetto pi provocatorio del volume. Un legame invece pi forte appare quando lo
sguardo si sposta su altri fenomeni di suicidio, in cui le dimensioni non possono far trascurare il peso delle influenze ambientali. In
questo caso, Berardi si riferisce per esempio al suicidio cui ricorsero gli amerindiani dopo la colonizzazione spagnola, per
sottrarsi alla condizione di schiavit, o al Paputan balinese, esperienze che sono dolorosamente tornate alla mente in occasione
per esempio della lunga catena di suicidi di dipendenti altamente qualificati di France Tlcom[11] (http://tysm.org/franco-berardi
/#_edn11), oppure al gesto estremo di quei giovani operai cinesi, che per protesta contro le terribili condizioni di lavoro negli
impianti Foxconn, si sono tolti la vita gettandosi dal tetto delle fabbriche dormitorio in cui erano occupati, o alle migliaia di
contadini indiani che dal 1997 si sono uccisi, schiacciati dai debiti contratti con la Monasanto per acquistare le sementi[12]
(http://tysm.org/franco-berardi/#_edn12). Questo tipo di suicidio, compiuto quasi sempre sul posto di lavoro, si avvicina infatti
davvero molto e probabilmente molto di pi dei casi estremi e terrificanti degli stragisti cui dedicata la prima parte di Heroes
a un comportamento in cui il suicidio diventa la reazione degli esseri umani quando essi si trovano di fronte alla distruzione dei
propri riferimenti culturali, e allumiliazione della loro dignit, ossia proprio quella reazione che induce Berardi a riconoscere che
il suicidio segna cos profondamente la scena del nostro tempo (H 169). Ed proprio il caso dei suicidi dei dipendenti di
France Tlcom a offrire la pi nitida illustrazione di una logica terribile, che investe in modo specifico i lavoratori cognitivi.
Come scrive Berardi, i lavoratori cognitivi sono stati costretti nella trappola della creativit: le loro aspettative sono sottomesse
al ricatto produttivo, poich sono obbligati a identificare la propria anima (la parte linguistica ed emozionale delle loro attivit) con
il proprio lavoro; e dunque i conflitti sociali e linsoddisfazione sono percepiti come fallimenti psicologici, il cui effetto la
distruzione dellautostima (H 177). Gli strumenti adottati dalla direzione aziendale per aumentare la produttivit la meritocrazia,
la competizione, lindividualismo rompono la solidariet fra colleghi, col risultato di lasciare solo il lavoratore dinanzi ai compiti
crescenti richiesti, che vengono comunque accettati nonostante siano impossibili da svolgere. Perch gli impiegati accettano
questi compiti impossibili che gli vengono affidati? si chiede Berardi, e la risposta che fornisce centrata proprio sullassenza di
solidariet fra colleghi: perch la solidariet stata rotta, e ogni lavoratore solo di fronte al ricatto del merito, e allumiliazione
della valutazione individuale che sta nelle mani di una gerarchia di mascalzoni, e ci che segue un sentimento di colpevolezza,
ansiet, risentimento reciproco per la percezione dellincapacit di aiutarsi lun laltro e di creare solidariet (H 180). La
depressione condivisa appare dunque, in questa prospettiva, come lesito ricercato di una determinata strategia aziendale,
rivolta a esaurire le persone fino al punto in cui perdono ogni autonomia, ogni senso di solidariet, cos da diventare del tutto
dipendenti dagli automatismi dello sfruttamento (H 181).
La cifra distintiva, che definisce il contesto culturale e sociale in cui matura la diffusione di massa del suicidio, dunque data dalla
combinazione tra la precariet lavorativa (intesa come la cancellazione delle regole che sono state create nella relazione tra
operai e capitale, e particolarmente la cancellazione del contratto che garantisce la continuit e la regolarit H 215) e i due
processi della diffusione delle tecnologie informatiche e della creazione della rete digitale: processi che hanno reso possibile la
precarizzazione, nella misura in cui hanno consentito di ricombinare azioni produttive svolte in assenza di qualsiasi prossimit
spaziale[13] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn13). La convergenza di questi processi conduce per a un dato ulteriore, che
Berardi identifica come la disgregazione dei due pilastri etici su cui si fondava la societ moderna: per un verso, la responsabilit
del borghese (davanti a Dio e di fronte alla comunit territoriale), per laltro la solidariet tra lavoratori, in virt della quale ogni
singolo era legato ai suoi compagni di lavoro dalla coscienza di condividere i medesimi interessi (H 215). Oggi la situazione si
profila invece come radicalmente opposta su entrambi i fronti. Il capitalista post-borghese non si sente responsabile della
comunit e del territorio, perch il capitalismo finanziario totalmente deterritorializzato e non ha alcun interesse nel benessere
futuro della comunit, mentre il lavoratore post-fordista non ha pi lo stesso interesse dei suoi colleghi, ma al contrario deve
ogni giorno competere per il lavoro e il salario sul mercato deregolamentato e precario (H 215-216).
Lobiettivo del libro di Berardi non consiste per solo nella denuncia del carattere nichilista del capitalismo cognitivo, perch
lambizione anche quella di delineare o forse solo prefigurare una strategia capace di rispondere alla partita del futuro:
una partita che si giocher nei prossimi decenni tra le alternative di una definitiva automazione del cervello collettivo e
lautonomia consapevole dellintelletto generale (H 216), tra la sottomissione della mente alle regole della neuro-macchina
globale secondo il principio competitivo delleconomia capitalista e lemancipazione della potenza autonoma dellintelletto
generale (H 219). Lambizione cio quella di individuare un metodo etico di sottrazione alla barbarie presente, oltre che di
elaborare il modo di interpretare i nuovi valori etici che la barbarie porta con s (H 220). E il fatto che venga evocato un
metodo etico, come possibile percorso di fuoriuscita dalla barbarie, non certo casuale, perch Berardi ritiene che il terreno
della tradizionale azione politica sia, pi che concretamente impraticabile, sostanzialmente incapace di incidere sulla realt del
mutamento.
La soluzione che viene profilata non pu per non apparire deludente, o quantomeno ben poca cosa dinanzi alla capacit
soverchiante del cupo panorama descritto nellintero volume. Di fronte allo spasmo contemporaneo effetto della
penetrazione violenta dello sfruttamento capitalista nel campo delle info-tecnologie, che coinvolge la sfera della cognizione, della
sensibilit e dellinconscio Berardi evoca infatti la caosmosi teorizzata da Felix Guattari nel suo ultimo libro, ossia il
passaggio osmotico da uno stato di caos a un nuovo ordine, inteso per solo nei termini di unarmonia tra la mente e lambiente
semiotico, e anche come condivisione simpatetica di un comune ambiente mentale (H 232). In sostanza, dal momento che la
coscienza troppo lenta per elaborare linformazione che proviene dal mondo in accelerazione, e che dunque il mondo non pu
essere tradotto in un cosmo, ordine mentale, sintonia e simpatia, abbiamo bisogno di una trasformazione, il salto a un nuovo
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ritornello, a un nuovo ritmo: la caosmosi il passaggio da un ritmo di elaborazione cosciente (ritornello) a un altro ritmo, che sia
adatto a elaborare quel che il ritmo precedente non poteva elaborare, un salto nella velocit della coscienza elaboratrice, e di
conseguenza la creazione di un differente ordine di elaborazione mentale (H 233-234). E sempre utilizzando la terminologia di
Guattari, la strada che conduce alla caosmosi passa per la costruzione di un caoide: un decodificatore vivente del caos,
una sorta di de-moltiplicatore, un agente di re-sintonizzazione, un agente linguistico che si liberi dal ritornello spasmico, una
forma di enunciazione (artistica, poetica, politica, scientifica) che riesce ad aprire i flussi linguistici a ritmi e cornici interpretative
diverse (H 234-235). Ma, in realt, il caoide evocato nelle pagine finali rimane senza un volto, che non sia quello di una
sottrazione rispetto alla politica e alla partecipazione politica, o quello di unironica presa di distanza da ogni profezia che riguardi
il destino (pi o meno catastrofico) dellumanit[14] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn14). E proprio per questo lincubo
totalitario dipinto in Heroes sembra in fondo destinato a non incontrare alcuna seria resistenza.
Il pessimismo che trasuda quasi da ogni pagina di Heroes, come daltronde dagli altri libri recenti di Franco Berardi, pu risultare
sorprendente a chi non abbia seguito litinerario teorico compiuto negli ultimi anni dallintellettuale bolognese, e forse soprattutto a
quanti ricordino Bifo solo come il profeta di quella generazione dellanno Nove che, ormai quasi quarantanni fa, privilegiava
una pratica della scrittura trasversale, si proponeva di liberare il desiderio e intendeva il linguaggio come una pratica di
sovversione permanente capace di far saltare la dittatura del significato e la dittatura del politico[15] (http://tysm.org
/franco-berardi/#_edn15). A dispetto di questa immagine, il pessimismo di Heroes ha per radici molto profonde, che in qualche
modo affondano proprio negli anni Settanta. Innanzitutto perch Heroes pu essere letto come il provvisorio punto di approdo di
un percorso di ricerca sulle trasformazioni del lavoro avviato pi di quarantanni fa, quando Berardi seppe cogliere con
indiscutibile lungimiranza il ruolo che avrebbe avuto il lavoro intellettuale e intravedere la logica delle sue metamorfosi
successive. Ma, in secondo luogo, anche perch il pessimismo che trapela da tutte le pagine di Heroes rappresenta per molti
versi la conseguenza forse imprevista di quella critica della politica intrapresa negli anni Settanta, che ancora oggi seppur
in forme mutate continua a contrassegnare la prospettiva di Berardi.

Le contraddizioni dellinfosfera
Nella ricca produzione teorico-politica di Berardi, Heroes in effetti solo il capitolo pi recente, nel quale peraltro agevole
ritrovare molti se non tutti i fili che tengono insieme la riflessione dellintellettuale bolognese da pi di trentacinque anni. Gi
allinizio degli anni Settanta, Berardi cominci infatti a interrogarsi sul significato politico che la creazione artistica poteva
assumere nel nuovo contesto sociale e produttivo, e dunque a delineare il quadro in cui avrebbero preso forma le sperimentazioni
mao-dadaiste di A/traverso[16] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn16). Contemporaneamente, inizi per anche a indagare
trasformazioni del lavoro e in particolare i processi che venivano a coinvolgere il lavoro intellettuale. Nelle pagine di Scrittura e
movimento, riflettendo allindomani della grande ondata di mobilitazioni che aveva investito nel 1973 il ciclo dellauto in tutta
Europa (e naturalmente a Torino), sosteneva che quel movimento aveva rappresentato per molti versi lapice della parabola
delloperaio massa, e che proprio la vittoria di questa figura faceva prevedere linizio di una nuova fase e dunque la definizione di
una differente configurazione. In questa nuova composizione di classe, scriveva infatti, il lavoro intellettuale e tecnico,
lintelligenza produttiva (la wissenschaft-technische-Intelligenz) tende a diventare determinante (SM 8). E questo processo
poneva una serie di problemi inediti, che riguardavano innanzitutto il tipo di organizzazione adottato dai diversi gruppi dellestrema
sinistra, inadeguato alle modificazioni in atto, ma anche la crisi della figura dellintellettuale, il quale, pur assumendo ormai i tratti di
produttore di informazioni produttive, scriveva Berardi, non aveva fino a quel momento saputo assumere coscientemente
questo nuovo ruolo, continuando invece ad agire entro la cultura come istituzione, a considerare separatamente la sua
collocazione materiale dalla sua pratica testuale, dalla sua operativit cosciente (SM 24). Le sperimentazioni comunicative di
A/traverso e poi di Radio Alice costituivano in gran parte il tentativo di adottare uno stile comunicativo adeguato alla centralit
del lavoro intellettuale e, al tempo stesso, un modo per prefigurare una nuova forma di azione politica[17] (http://tysm.org/francoberardi/#_edn17). E in questo senso, il ruolo ambivalente del processo di massificazione della forza-lavoro intellettuale e
tecnico-scientifica era un elemento quasi fondativo nella riflessione di A/traverso. Come si leggeva sulla rivista nellottobre del
1975: Lintelligenza tecnico-scientifica prodotta dentro il conflitto operai-capitale, ma, dal momento che linformatizzazione
del processo lavorativo massifica e proletarizza uno strato sociale di lavoratori intellettuali, e questi si incontrano con la forzalavoro scolarizzata e politicizzata che si formata negli anni 60-70, si apre una nuova decisiva contraddizione[18]
(http://tysm.org/franco-berardi/#_edn18). In altre parole, nel momento in cui il lavoro intellettuale si proletarizza, questo strato
diviene portatore dei bisogni pi avanzati, ma anche come detentore del sapere sociale accumulato diviene portatore della
possibilit materiale di trasformazione operaia del meccanismo produttivo, da strumento di intensificazione dello sfruttamento a
strumento di liberazione dal lavoro[19] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn19)
Proprio nello spazio in cui i linguaggi delle avanguardie artistiche dei primi decenni del Novecento parevano diventare patrimonio di
un critica di massa, andavano a collocarsi anche gli episodi principali della riflessione teorica condotta da Berardi negli anni
Settanta. Al di l dellefficacia di questi strumenti e delloriginalit dellintera riflessione, lo scenario sociale doveva sensibilmente
modificarsi alla svolta degli anni Ottanta, quando il mutamento del quadro politico faceva emergere le prime tracce di quel
pessimismo radicale che oggi si ritrova nelle pagine di Berardi. Nel giugno del 1981, A/traverso per esempio scriveva che era
cominciato il tempo del dopo, un dopo che si presentava come un deserto di cui non vediamo la fine[20] (http://tysm.org
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Damiano Palano: La fabbrica della disperazione

http://www.sinistrainrete.info/teoria/6642-damiano-palano-la-fabbrica-...

/franco-berardi/#_edn20). Ma ci cui si riferiva questo testo non era il clima segnato dalla repressione e dalla spirale della
violenza, seguita al rapimento di Aldo Moro, e neppure il riflusso che aveva spinto molti militanti ad allontanarsi dallimpegno
politico. Il deserto cui alludeva A/traverso era piuttosto lorizzonte della mutazione antropologica che si profilava ormai
nitidamente. Una mutazione differente da quella di cui Pier Paolo Pasolini aveva intravisto i contorni qualche anno prima, nei
famosi editoriali apparsi sul Corriere della Sera[21] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn21), ma i cui effetti non erano meno
dirompenti. Citando McLuhan, A/traverso prevedeva infatti lemergere di un processo di ritribalizzazione, innescato dalle nuove
tecnologie, e in questa diagnosi affioravano gi molti degli elementi che si riconoscono anche oggi nellinterpretazione di Berardi:
oggi lambiente in cui viviamo costituito non pi di oggetti, ma di segnali la cui anima il potere comunicativo e
informativo di cui sono stati dotati. Viviamo in un ambiente definibile come infosfera, universo animato nel quale
pulsano messaggi che qualcuno ha inviato perch altri possa riceverli, se vuole, o talvolta anche se non vuole. Una
seconda caratteristica delle ritribalizzazioni delle facolt intellettive la rimitizzazione della memoria, con tutti gli effetti
(spesso sconvolgenti) che questa pu produrre. Linformatizzazione, limmagazzinamento della conoscenza e della
memoria e la loro automatizzazione, tendono a ridurre e cristallizzare la memoria viva, individuale del passato e del
vissuto. La memoria tende ad essere sempre meno memoria umana, e sempre pi memoria informatica. Questo produce
effetti che oggi possiamo cominciare solo ad intravvedere. Il passato viene percepito come tempo senza profondit, come
tempo non vissuto, come mera configurazione ottica. Alla percezione del vissuto e della sua pluralit si sostituisce la
piattezza di una percezione tutta contemporaneizzata, senza dinamicit e senza diacronia. La fine della ragione critica
probabilmente inscritta inevitabilmente in questa de-memorizzazione. Ma al tempo stesso sono tutte da scoprire le
potenzialit di rimitizzazione delluniverso[22] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn22).
In quella fase, lo sguardo di Berardi non rinunciava a ritrovare, dentro la mutazione, delle potenzialit notevoli. In un frammento
del gennaio 1980, poi pubblicato nel volume Presagi, scriveva per esempio che, nella sincronizzazione senza sintesi e senza
soggetto della percezione, era necessario far funzionare nuovi punti di intersezione, cercare e produrre i suoni capaci di
attraversare e trasformare il ritmo della nostra epoca, traversare il deserto fatto di segno che non si traducono in un unico
linguaggio comprensibile[23] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn23). In altri termini, il nuovo nomadismo ossia la mobilit
territoriale delle trib videoelettronica poteva essere concepito anche come una realt che consentiva di fuggire
costantemente dalle condizioni create dalla crisi capitalistica cercando dovunque possibilit di vita residuali[24] (http://tysm.org
/franco-berardi/#_edn24). Un simile ottimismo doveva per mostrare di l a poco tutta la sua ingenuit, e per questo risultano oggi
molto pi profetici i versi di Game over, un poema videoelettronico firmato da Berardi insieme a Enzo Crosio e apparso su
A/traverso nellottobre 1981: Vince sempre la macchina. La funzione esponenziale della velocit elettronica abbatte luna dopo
laltra le funzioni della reattivit biologica. / E prima o poi perdi[25] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn25).
Anche se Berardi riconobbe negli anni Ottanta, oltre lomologazione e la superficialit, anche un arcipelago di esperienze
creative autentiche, di opere e di situazioni del tutto indifferenti alla logica del mercato, nel corso del decennio divenne piuttosto
chiaro che si era ormai indirizzati verso una mutazione antropologica, sociale, paradigmatica, verso un mutamento confuso, e
in molti punti inquietante, allinterno del quale si profilava anche una nuova forma di totalitarismo, disincarnato ed astratto, ma
non per ci tollerabile[26] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn26). Quasi inevitabilmente, pi che verso il futuro, lo sguardo di
Berardi un po come lAngelus novus di Paul Klee continuava a volgersi per verso il passato, nel tentativo di trovare una
spiegazione alla catastrofe politica e esistenziale con cui si erano chiusi gli anni Settanta. Ed era in fondo per questo che, in
occasione del decennale dal Settantasette, in Dellinnocenza, torn a riflettere su quel movimento. Un movimento di cui Bifo
non nascondeva affatto le ambiguit, che riconduceva alla compresenza di due diverse correnti. La prima riproduceva il modello
classico delle rivoluzioni del ventesimo secolo. La seconda invece partiva dalla constatazione di un processo: il processo di
liberazione del tempo umano dalla necessit del lavoro industriale (I 37). Questa seconda corrente dunque concepiva il
movimento come consapevolezza pratica di un processo di proporzioni immense e dagli effetti sconvolgenti: il processo di
estinzione del lavoro industriale e di generale trasformazione dellattivit umana (I 38). E proprio in virt di tale consapevolezza il
Settantasette poteva essere considerato come un anno di premonizione: un anno in cui cio, allinterno del movimento, emerse
la percezione (euforica prima e poi disperata) di un processo di mutazione dellattivit umana, dellaggregazione e della
comunicazione sociale, della stessa attivit cognitiva e della trasmissione del sapere che oggi si sta dispiegando, e di cui ci
manca ancora una comprensione adeguata (I 38). Il titolo con cui nel giugno 1977 un numero di Zut-A/traverso annunciava,
non senza qualche dose di provocazione goliardica, la rivoluzione finita, abbiamo vinto, stava a indicare cos due processi
distinti: da un lato, che la concezione moderna della rivoluzione doveva essere abbandonata per sempre, a vantaggio della
creazione di unarea sociale capace di incarnare lutopia di una comunit che si sveglia e si riorganizza fuori dal modello
predominante di scambio economico del lavoro e del salario (I 49); dallaltro, quasi si trattasse di una sorta di scongiuro,
lindicazione di un atteggiamento mentale, il progetto di creare le condizioni per affrontare in termini di sperimentazione
consapevole e collettiva il processo di estinzione del lavoro (I 50).
Se il Settantasette, secondo Berardi, tent dunque di dare una forma soggettiva, politica, riconoscibile e pratica a questo
processo individuato astrattamente, in modo puramente teorico, questo sforzo naufrag dinanzi alla realt di una transizione
postindustriale che, di fatto, contrappose luna allaltra forza-invenzione e forza-lavoro[27] (http://tysm.org/franco-berardi
/#_edn27). Ma la fine della rivoluzione sancita dal Settantasette era comunque, agli occhi di Berardi, un dato irreversibile, che
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chiudeva anche con la dialettica, nel senso che quella che al pensiero dialettico appare come sofferta alienazione del lavoro,
come dolorosa espropriazione dellattivit, pu diventare estraneit gioiosa, e dunque non pi una destinazione finale, una
soluzione dialettica, un aldil storico nel Superamento, bens un attivo sottrarsi al lavoro ed una estraneit produttiva, utile (I
70). Forse proprio qui stava leredit ancora preziosa del movimento sconfitto, nella sua innocenza, ossia nella capacit di
concepire la condizione della rivolta non pi come rivolta storica, come volont di istituire un mondo storico giusto, ma come
attivo sottrarsi, come saggezza, oltre che come adattamento capace di rifiutare la menzogna storica, e dunque di sottrarsi alla
dimensione delladattamento storico per misurare direttamente lesperienza del singolo su un ritmo che non quello della storia,
bens del fluire del tempo storico (I 107). E quando oggi, al termine di Heroes, Berardi evoca la necessit dellironia e della
sottrazione, non fa altro che riproporre in modo solo leggermente diverso la saggezza innocente di cui il Settantasette
almeno in una sua componente si fece portatore.
Nel corso degli anni Ottanta Berardi non cess per di osservare quanto stava avvenendo al lavoro mentale nel corso della
rivoluzione comunicativa. Nel saggio Il paradosso della libert utilizz infatti unidea destinata a tornare molto spesso nei suoi
scritti successivi. Riprendendo una formula di Ken Wilber, scrisse che lattivit mentale lattivit di un campo formato da flussi
di energia e di informazione che si intersecano, e che possono essere visti come sostanze che si mescolano nel cervello
sociale, dando forma a una sorta di psicochimica del sociale[28] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn28). E soprattutto chiar
in che termini la sempre pi pervasiva rivoluzione comunicativa incidesse su questa psicochimica:
Psicofarmaci, regolatori chimici del cervello [] si sommano in questo processo di produzione del sistema nervoso
sociale, che diviene il processo di produzione centrale del sistema postindustriale. per questo che il sistema potrebbe
designarsi come societ della produzione immateriale. Il campo mentale pervaso e permeato da flussi materiali, in
quanto materia sono le onde elettromagnetiche, e materia sono le pillole di Valium; ma il loro prodotto immateriale. Il
campo di circolazione di questi flussi possiamo definirlo infosfera. La mente individuale proietta il suo mondo come
ecosfera[29] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn29).
Anche se la fenomenologia della mutazione non poteva che essere solo ai capitoli iniziali, Berardi coglieva come la modificazione
della psicochimica sociale avesse implicazioni dirompenti sul terreno della percezione sociale e sul terreno politico. Il principale
effetto della colonizzazione della mente umana e della proliferazione dei segnali riguardava infatti la percezione del tempo e
dunque la trasmissione della memoria. Il modello dellistanteneit comunicativa, la trasmissione di segni sostitutivi dellevento
reale, osservava, determina una mutazione del meccanismo di base della memorizzazione: azzerata la percezione stessa
della diacronia, dello svolgersi degli eventi nel tempo, della successione degli istanti nel vissuto[30] (http://tysm.org/francoberardi/#_edn30). E se tutto questo pareva determinare una cancellazione della profondit temporale, della percezione stessa
della continuit dellesperienza personale nel passato nel presente verso il futuro[31] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn31),
sanciva anche, prevedibilmente, la chiusura definitiva di qualsiasi azione politica indirizzata verso il futuro, e dunque di qualsiasi
progetto utopico di trasformazione radicale. Col risultato di rendere la depressione una condizione di massa:
Quando limmaginazione utopica ha mostrato segni di disattivazione, nel sistema cognitivo sociale, le antenne delle
generazioni culturali che si erano formate nellepoca di massima espansione di quella facolt hanno cominciato a non
ricevere pi segnali. La depressione pu essere interpretata come incapacit di decifrare e percepire coscientemente i
segnali in arrivo. Linput di senso sembra ridursi a zero Il narcisismo investito nella ricerca di senso si rovescia quindi in
depressione. Il nichilismo spettacolare del sistema planetario militarizzato agisce come una bomba metafisica, come
linnesco di un processo di devitalizzazione di cellule informate secondo uno schema finalizzato, teologizzato, orientato
verso il senso, verso lutopia di un mondo razionale, verso il superamento dialettico. Il cervello sociale della generazione
polarizzata sul senso si spappola e diviene incapace di immaginare, cio di proiettare scenari concreti del futuro. Un
disturbo dellimmaginazione allorigine della depressione: limmaginazione del futuro non ha pi alcuna concretezza,
alcuna vitalit. La depolarizzazione depressiva trova una traduzione adeguata ed un equilibrio nel regime psicochimico
delleroina, assuefazione ossessiva, reazione obbligatoria ad uno stimolo ripetitivo. [] La depressione azzeramento
dellinput informativo, perch i recettori di impulsi, polarizzati sul senso, non riescono a registrare impulsi. Gli impulsi
che circolano nellinfosfera videoelettronica funzionano secondo un codice indecifrabile: la ricezione consapevole tende a
ridursi a zero, o forse il piano della consapevolezza si sposta. Si ha limpressione che non accada pi nulla, proprio mentre
la quantit di informazione diviene infinitamente pi alta. Ma in questo circolo pu determinarsi una ripolarizzazione
selvaggia [] Il mondo senza verit, resosi percepibile ad un cervello sociale privo del filtro del senso, bombarda il
sistema nervoso inducendo dinamiche di panico o di conformismo ed omologazione[32] (http://tysm.org/franco-berardi
/#_edn32).
Bench il quadro iniziasse senzaltro a tingersi dei toni cupi del pessimismo, nella descrizione che forniva allora Berardi si poteva
ravvisare ancora qualche traccia di ambiguit. La contrazione della percezione temporale e lazzeramento della percezione della
diacronia in qualche modo lasciavano ancora qualche elemento di speranza, se non altro perch, a cavallo tra anni Settanta e
Ottanta, in tutta Europa i movimenti subculturali giovanili avevano innalzato la bandiera del No-Future, in una chiave non lontana
da quella logica di sottrazione in cui Berardi indicava in fondo il nucleo portante della saggezza innocente del Settantasette. Il
moderato ottimismo con cui al principio degli anni Ottanta si poteva guardare a questi movimenti metropolitani, alla fine del
decennio non poteva essere per riformulato negli stessi termini, e non a caso Berardi enfatizzava soprattutto gli elementi critici
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del processo in atto[33] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn33). La fenomenologia della mutazione doveva per procedere
ulteriormente, in questa stessa direzione, nel corso del decennio seguente. Se nel volumetto Lavoro zero Berardi riproponeva
lattualit di un programma di riduzione dellorario di lavoro, come perno di una piattaforma rivendicativa per i nuovi movimenti, in
quel testo lambiva anche linsieme delle trasformazioni che avevano investito il lavoro mentale. E scriveva, per esempio, che il
coinvolgimento dei lavoratori nel processo produttivo diviene essenzialmente coinvolgimento dellenergia nervosa, un
coinvolgimento il cui effetto era la nascita di una forma di psicopatia. La contraddizione sociale si manifesta sempre pi nella
forma della sofferenza mentale, notava inoltre in un passaggio per la verit incidentale, e per questo la sofferenza mentale non
pi un margine della vita sociale, non pi un fenomeno limitato e segregabile, ma dilaga nel cuore stesso della vita produttiva,
ne diviene il principale prodotto sociale[34] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn34). Ma lintero ragionamento, oltre che a
sostenere la necessit della riduzione generalizzata dellorario di lavoro, era finalizzato a mostrare la senescenza della logica
economica di misurazione dellattivit intellettuale in base al tempo individuale di lavoro[35] (http://tysm.org/franco-berardi
/#_edn35). E proprio per la scarsa attenzione riservata alla radicalit della svolta in atto, Berardi sarebbe tornato criticamente su
questa insufficienza del proprio volumetto, che, come avrebbe scritto in un testo pubblicato nel 1995, aveva dimenticato
lelemento cruciale, ossia lintegrazione fra linfoproduzione e ci che definiva come Neuromagma. Un elemento che faceva
presagire scenari catastrofici:
Io vedo due processi dominanti nella nostra epoca, che sono diversi in tutto, ma convergono nel senso della catastrofe
implosiva. Il primo processo quello della deterritorializzazione tecnologica. Frammenti di sapere digitalizzato
trasformano la produzione, la comunicazione, lesperienza quotidiana in un Neuromagma modulare, sottoposto a una
ininterrotta ricombinazione. Il ciberspazio si espande illimitatamente e a crescente velocit, mentre il tempo di
elaborazione cosciente non pu espandersi alla stessa maniera e alla stessa velocit. Quanto pi si espande la sfera del
conoscibile, tanto pi aumenta lindecidibilit e lansia dellattore umano. Questo mette in moto un secondo processo,
completamente diverso dal primo: il residuo di fisicit che la digitalizzazione non ha potuto eliminare dalla scena sociale
reagisce con un movimento disperato di riterritorializzazione. Il cervello incapace di elaborare una infosfera troppo
ampia, troppo veloce, troppo densa, si abbarbica alle (illusorie) certezze fondamentali: le certezze dellidentit, della terra,
del sangue, del popolo, della fede (N 25-26).
Negli anni Novanta, la mutazione appariva per a Berardi ancora ambivalente, nelle sue potenzialit. Certo per un verso si
presentava come un processo di irreversibile mutamento biologico e genetico dellorganismo, ma al tempo stesso, Berardi
osservava: Il processo di riorientamento non certamente lineare n consapevole, ma segue percorsi difficili da comprendere,
anche perch chi cerca di analizzare questo processo coinvolto a sua volta, e perch in questo quadro si sviluppano nuove
competenze, e queste nuove competenze si trasmettono da un organismo a un altro come per via di un contagio virale (MC
18-19). Se da un lato segnalava le conseguenze distruttive del panico, della depressione, del sovraccarico, dellanestesia (MC
53), dallaltro non pareva escludere leventualit che si trattasse degli effetti legati a una transizione, e che come voleva
daltronde lutopia cyberpunk esistessero i margini per una sorta di riappropriazione della tecnologia. Cos, seppur
marginalmente, evocava la sorpresa del riapparire improvviso di un ritmo singolare nella trama della realt che pretende
allidentico, la sorpresa dellattualizzarsi dellevento. Una sorpresa che naturalmente comprendeva lirruzione dei movimenti:
Anche i movimenti, scriveva infatti, appartengono a questa categoria di condivisione di sogni, di creazione di mondi, perch il
movimento si configurava ai suoi occhi come uno spostamento del luogo che porta gli individui nella condizione di vedere in
comune un nuovo orizzonte, un orizzonte che non si vede che da quel luogo deterritorializzato (MC 172-173).

Punto di non ritorno


Qualche anno dopo, in Exit, il discorso si faceva da questo punto di vista pi chiaro, anche se forse proprio in questa fase la
posizione di Berardi risentiva in modo ambiguo della seduzione dellestetica cyberpunk. La via duscita dalla prospettiva della
devoluzione e cio da una prospettiva in cui lo sviluppo delle forze in campo progrediva, senza per permettere loro una
espressione lineare, e dunque rimanendo entro modelli inadeguati, limitanti, cancerogeni era individuata infatti in una
mutazione che istituisca una nuova sintonia tra organismo cosciente e ambiente, tra cervello umano in funzione e sfere
dellintelligenza passata accumulata (E 17). Levoluzione cui pensava non era comunque un processo politico, bens un
processo antropologico, di cui con pi di qualche ambiguit tratteggiava i contorni:
Lo strumento che appare capace di agire sulla relazione mente-mondo lingegneria neurochimica, e larte, che poco alla
volta prende coscienza di essere una funzione dellingegneria neurochimica. Occorre agire sulla forma della relazione
mente-mondo, e sulla consistenza neurochimica dellattivit mentale. Il metodo Prozac tende a diventare il metodo
generale dellazione di re-sintonizzazione mutagena. Milioni di persone prendono capsule che riprogrammano la mente
umana: qui sta la svolta essenziale della civilt occidentale. La riprogrammazione postumana, la fuoriuscita dallumanit.
La libert futura quella di riprogrammare il proprio corpo, la propria mente, la propria reattivit grazie a tecniche di
alterazione psicochimica e biogenetica. Libert di essere quello che si vuole essere, cio di proiettare il mondo che si vuole
proiettare (E 30).
Quando alla met degli anni Novanta del secolo scorso rintracciava nel metodo Prozac una delle vie che potevano condurre
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nella direzione della riprogrammazione postumana e della re-sintonizzazione mutagena, Berardi subiva probabilmente
linfluenza di una sorta di neo-psichedelismo, che puntava a stabilire una connessione tra le contro-culture degli anni Sessanta e
le utopie cyberpunk, e che trovava un campo di elaborazione per esempio nei testi e nelle iniziative di Franco Bolelli[36]
(http://tysm.org/franco-berardi/#_edn36), oltre che in alcune iniziative delleditrice Castelvecchi[37] (http://tysm.org/franco-berardi
/#_edn37). Il fascino di questa opzione doveva per rapidamente dissolversi, e gi pochi anni dopo, al volgere del millennio, nelle
pagine di La fabbrica dellinfelicit la prospettiva almeno sotto questo profilo sembrava essersi nettamente modificata. Le
coordinate interpretative generali della trasformazione rimanevano immutate, ma si approfondiva la fenomenologia della
condizione del lavoratore cognitivo, che sottolineava in particolare come questa nuova figura tenda a considerare il lavoro
come la parte pi interessante della sua vita e come, per questo, cessi di opporsi al prolungamento della giornata di lavoro,
estendendo anzi il tempo di lavoro per propria decisione e volont (FI 55). Naturalmente la sensazione di indipendenza e di
autonomia dellinfolavoro nascondeva la realt di una nuova forma di dipendenza, incarnata nella fluidit automatica della
rete, la quale consentiva gi allora per esempio mediante il telefono cellulare la ricombinazione continua di una miriade di
frammenti di produzione, elaborazione, smistamento e decodifica dei segni, e di unit informazionali di ogni tipo (FI 68-69)[38]
(http://tysm.org/franco-berardi/#_edn38). Se una componente rilevante del post-operaismo italiano vedeva in queste
trasformazioni un segnale dellesaurimento della legge del valore e, dunque, della caduta della razionalit produttiva del sistema
basato sullo scambio mercantile, a Berardi interessavano pi le conseguenze psico-sociali di un totalizzante investimento di
desiderio nel lavoro. E cio innanzitutto la desolidarizzazione generalizzata (FI 56), il panico e la depressione di massa. La
depressione, scriveva per esempio, intimamente legata allideologia dellautorealizzazione, e allimperativo felicista, e proprio
in questo senso notava anche che luso delle sostanze psicostimolanti o antidepressive era laltra faccia della nuova
economia, e che lassuefazione alle sostanze psicotrope, quelle che si comprano in farmacia e quelle che si comprano al
mercato illegale era un elemento strutturale delleconomia psicopatogena (FI 76). Come si visto, non si trattava di elementi
nuovi, perch Berardi aveva gi evocato il panico e la depressione come conseguenze della pervasivit dellinfosfera, ma senza
dubbio nella Fabbrica dellinfelicit in chiave critica, nei confronti per esempio di entusiasti della Rete come Pierre Lvy, ma in
realt anche in chiave (implicitamente) autocritica, rispetto al moderato ottimismo di alcuni anni prima lenfasi sulle componenti
psicopatogene della nuova economica cresceva notevolmente. E, soprattutto, queste componenti venivano a contrassegnare
non tanto uno specifico utilizzo delle nuove tecnologie, quanto la stessa struttura dellinfosfera:
Linfinita variet dellinfosfera supera le capacit di elaborazione dellorganismo umano tanto quanto la sublime natura
supera le capacit di sentimento delluomo greco, quando il dio Pan si presenta allorizzonte. Linfinita velocit di
espansione del ciberspazio e linfinita velocit di esposizione di segnali che lorganismo percepisce come vitali per la
sopravvivenza producono uno stress percettivo, cognitivo e psichico che culmina in unaccelerazione pericolosa di tutte le
funzioni vitali, il respiro, il battito cardiaco, fino al collasso. [] non si tratta tanto di una psicopatia individuale, ma della
manifestazione individuale di una psicopatia sociale largamente diffusa, tendenzialmente generalizzata. E il
comportamento collettivo che mostra i segni pi evidenti del panico. Daltra parte il panico collettivo genera fenomeni
come laggressivit irrazionale contro gli emigrati, come la violenza insensata di massa negli stadi, ma anche fenomeni
apparentemente normali come quelli che caratterizzano le relazioni personali nello spazio urbano contemporaneo (FI
78-79).
Sebbene non si trattasse di temi nuovi per la riflessione di Berardi, gli elementi della fenomenologia della mutazione parevano
ormai coordinarsi sempre pi strettamente dentro una visione quantomeno pi cupa, in cui le tracce di speranza, se non
svanivano del tutto, divenivano comunque pi labili. E cos appariva gi nei suoi tratti di fondo lipotesi che sorregge Heroes, e che
stabilisce una connessione diretta tra il sovraccarico infosferico, la desolidarizzazione e le manifestazioni pi o meno
devastanti della psicopatia sociale:
Questi comportamenti non possono essere affrontati con gli strumenti della persuasione politica o della repressione
giudiziaria per il semplice fatto che non hanno quasi nulla a che fare con la politica, lideologia, ma dipendono da una
psicopatia sociale scatenata dal sovraccarico infosferico, dalliperstimolazione e dallo stress cognitivo ininterrotto a cui
lorganismo sociale sottoposto a causa dellelettrocuzione permanente. E lelettrocuzione permanente la condizione
normale di un sistema in cui le tecnologie comunicative di rete (che inserisce lorganismo in un flusso infinito iperveloce
di segnali economicamente rilevanti) sono usate in condizione sociale competitiva. Quando lorganismo raggiunge un
punto insostenibile di sovraccarico pu manifestarsi una crisi di panico che lo porta al collasso, oppure pu determinarsi
uno scollegamento dellorganismo dal flusso della comunicazione, e una improvvisa demotivazione psichica che gli
psicologi chiamano depressione (FI 79).
Dinanzi alla portata di questa trasformazione, Berardi riconosceva per anche qualche ambivalenza, e in particolare ravvisava nel
movimento di Seattle il primo segnale di una possibile azione di ricombinazione. Il cognitariato, e cio il soggetto del lavoro
cognitivo, non era comunque da interpretare come un soggetto pi o meno potenzialmente centrale, come negli anni Sessanta
era stato loperaio massa, e soprattutto la sua azione che pure Berardi auspicava ponesse alla base la rivendicazione di un
salario minimo planetario non doveva essere intesa in termini politici, bens come unazione di ricombinazione. Lazione
culturale, sociale, politica, che si svolge nella rete telematica non affatto un processo sovrastrutturale, e proprio per questo la
caratteristica necessaria per un movimento radicale doveva consistere nella capacit di attraversare i circuiti della
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comunicazione globale con i flussi destrutturanti (FI 188). Il concetto guida diventava cos, ai suoi occhi, quello di
ricombinazione, sempre nella convinzione che solo il lavoro cognitivo potesse decostruire e ricombinare la macchina di
coordinazione produttiva del capitale globalizzato (FI 190)[39] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn39).
Nei quindici anni che separano La fabbrica dellinfelicit da Heroes, Berardi non ha cessato di impegnarsi generosamente per
dare concretezza allidea della ricombinazione come forma di azione capace di contrastare la logica del
semiocapitalismo[40] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn40). L11 settembre 2001 doveva per calare pi di unombra sulle
speranze della ricombinazione, ed era proprio a ridosso degli attentati contro le Twin Towers che Berardi iniziava a delineare la
sua previsione pi fosca, secondo la quale il sucidio-omicidio si massa era destinato a diventare unepidemia. Dopo gli attacchi,
in un testo in cui riprendeva alcune suggestioni di Jean Baudrillard, scriveva infatti che la vera novit emersa l11 settembre, vero
e proprio punto di non ritorno, era il suicidio micidiale:
Negli ultimi tempi abbiamo assistito alle prime manifestazioni di questa nuova moda, che nei prossimi anni destinata
a dilagare. Una pandemia di furiosa infelicit si sta diffondendo: seduzione consumista ed esclusione fanno una miscela
spaventosa nella periferia povera del mondo. Il crollo delle illusioni idiote della new economy diffonde linfelicit nelle
stesse metropoli occidentali. Folle di giovani maschi umiliati si vestiranno di esplosivo e andranno a farsi esplodere nei
bar affollati dellora di punta. [] Nessuna civilt pu resistere allonda durto del suicidio di massa, e nessuna
repressione potr fermarla. [] Ci che spinge al suicidio sono lodio e la disperazione, due beni disponibili in grande e
crescente quantit. A questo si aggiunge la disponibilit di strumenti di sterminio che pu usare chiunque abbia una
conoscenza tecnologica poco pi che elementare. Il punto di non ritorno superato. Il suicidio micidiale dilaga come un
virus autoreplicante, provoca reazioni aggressive da parte dei dominatori, e queste a loro volta moltiplicano le azioni di
suicidio micidiale. Nel pianeta dilaga il disumano, incontenibile perch pervasivo e autoreplicante[41] (http://tysm.org
/franco-berardi/#_edn41).
Nel clima successivo all11 settembre 2001, Berardi non esitava a evocare anche lo scenario apocalittico di un futuro ormai
prossimo, nel quale il contagio cannibalistico si sarebbe diffuso nelle pieghe della vita quotidiana, eliminando centinaia di
milioni di discendenti delluomo di Neanderthal, e distruggendo ogni residuo culturale di umanit, per lasciare in vita trib
ipertecnologiche disumane[42] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn42). E anche se avrebbe in seguito moderato i toni
apocalittici, Berardi non avrebbe nella sostanza rivisto quellipotesi cos fosca, che alcuni anni dopo in Dopo il futuro, un saggio
concepito come una sorta di contrappunto al Manifesto futurista di Marinetti, a un secolo dalla sua pubblicazione torn infatti a
ribadire ulteriormente. A dispetto di ogni utopia, sosteneva allora Berardi, la net-economy aveva sancito una completa
flessibilizzazione e frattalizzazione del lavoro, la totale dipendenza del lavoro cognitivo dallorganizzazione capitalistica della
rete globale e la dipendenza del pensiero dal flusso di informazione (DF 107). Queste trasformazioni non producevano solo
implicazioni politiche o economiche, perch in realt innescavano soprattutto una psicopatologizzazione della relazione sociale,
di cui erano sintomi evidenti lutilizzo massiccio di psicofarmaci, lepidemia di disturbi dellattenzione e anche la diffusione del
suicidio. Il fenomeno suicidiario, scriveva Berardi, divenuto latto politico cruciale sulla scena politica globale, un fenomeno
che sembrava suggerire che il genere umano era ormai fuori tempo massimo e che la disperazione era diventata il modo
prevalente di pensiero sul futuro (DF 108). Ci stiamo abituando allidea di convivere con una disperazione pericolosa che
costeggia sempre pi da vicino la vita quotidiana, e proprio in uno scenario in cui il futuro era destinato a divergere radicalmente
dalla speranza, il suicidio acquistava un significato diverso rispetto al passato. Il suicidio, e in particolare il suicidio micidiale, la
strage che si accompagna alla cancellazione della propria esistenza senza speranza e senza futuro, scriveva infatti Berardi, il
vero fenomeno emergente dellepoca che segue al crollo di ogni speranza, al dissolversi di ogni alternativa sociale e politica (DF
127). E proprio questa ipotesi viene oggi a costituire il cuore di Heroes, oltre che lelemento pi sconcertante di un quadro
sempre pi privo di elementi di speranza, sempre pi vicino a una distopia senza alcuna via duscita.
Certo lodierno pessimismo di Berardi pu apparire semplicemente come una conseguenza delle trasformazioni del
semiocapitalismo, ma probabilmente non solo il frutto dellindagine condotta con indubbia coerenza sulle metamorfosi del
lavoro e, pi in generale, sul complesso di una mutazione che viene a modificare la condizione umana. Oltre a scaturire
dallesplorazione degli effetti che comportano la frammentazione e la frattalizzazione del lavoro, il pessimismo di Heroes
come cercano di mostrare le prossime pagine nasce infatti anche dalle conseguenze delle scelte teoriche compiute da Berardi
negli anni Settanta, con lobiettivo di contrastare le derive politiciste dei gruppi della sinistra radicale e, al tempo stesso, di
raccogliere la sfida che proveniva tanto dalla rivoluzione femminista del partire da s, quanto dalla critica della vita
quotidiana concretamente praticata dai movimenti metropolitani. infatti proprio per un coerente sviluppo di quelle scelte che
Berardi giunto a rimuovere dal proprio campo teorico la politica, e dunque a espellere qualsiasi elemento di potenziale conflitto
dal cupo affresco del semiocapitalismo.

Composizioni
Cos come lindagine sulla metamorfosi del lavoro, anche la critica della politica contrassegna fin dalle prime tappe il percorso di
Berardi, anche perch essa viene intesa non senza fondamento come uno sviluppo del tutto lineare delle ipotesi operaista.
Ipotesi cui certo lintellettuale bolognese impresse una curva originale, ma di cui per non abbandon le principali intuizioni. In
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effetti Berardi pu essere considerato come il pi visionario fra gli esponenti di quel filone teorico-politico ben pi eterogeneo di
quanto spesso si riconosca che fu loperaismo italiano[43] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn43). E da questo punto di vista,
il suo primo libro, Contro il lavoro, che poco pi che ventenne pubblic nelle Edizioni della Libreria Feltrinelli[44] (http://tysm.org
/franco-berardi/#_edn44), segnalava gi in modo evidente come la sua lettura della rivoluzione copernicana proposta da Mario
Tronti in Operai e capitale procedesse in una direzione ben diversa da quella seguita da quasi tutte le componenti delloperaismo
e del post-operaismo: non tanto perch riconosceva nelle lotte operaie il motore dellinnovazione tecnologica, quanto perch
rompeva piuttosto nettamente con alcuni principi di fondo della tradizione novecentesca del movimento operaio, come soprattutto
lidea della conquista la macchina dello Stato come tappa necessaria verso ledificazione del socialismo, e perch configurava la
rivoluzione come un processo conflittuale che procedeva nella direzione di una progressiva riduzione dellorario di lavoro[45]
(http://tysm.org/franco-berardi/#_edn45). Ma in questa rilettura, la posizione di Berardi era probabilmente molto pi fedele al
metodo indicato dalla rivoluzione copernicana di quanto non fossero invece le versioni che, al principio degli anni Settanta,
riscoprivano il leninismo e tornavano a riaffermare la necessit di un partito di avanguardie politiche. Proprio lavversione al
leninismo (e al politicismo che ne derivava, nella lettura proposta dai principali gruppi della sinistra extraparlamentare dei primi
anni Settanta) doveva indurre Berardi a mettere severamente in discussione non solo una specifica forma organizzativa, ma, per
molti versi, la stessa idea di unazione politica organizzata.
Il punto di avvio di questa critica che si intreccia sempre con la riflessione sul nuovo ruolo del lavoro intellettuale risale a pi di
quarantanni fa, e cio al momento in cui, gi nel 1970, Berardi usc da Potere operaio, sulla base delle convinzione che questa
organizzazione avesse abbandonato limpostazione originaria che incentrava tutte le rivendicazioni su un piano strettamente
salariale e avesse invece adottato un quadro molto pi tradizionale, segnato dal recupero del leninismo, da un marcato
politicismo e da un esasperato volontarismo[46] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn46). In questo modo come avrebbe
sostenuto retrospettivamente Berardi, quasi trentanni dopo Potere operaio aveva finito col recuperare una vocazione
prometeica, secondo la quale la conquista dello Stato (o quantomeno lo scontro con la macchina dello Stato) era il
passaggio obbligato per realizzare un radicale progetto di trasformazione delle relazioni sociali. Ma, al tempo stesso, spostando
lasse della sua azione verso il confronto-scontro con lo Stato, Potere operaio aveva anche riconvertito i propri obiettivi, che erano
passati dallazione rivendicativa nei luoghi di lavoro alla costruzione di un partito rivoluzionario non molto lontano dal modello
bolscevico (e dunque a unattivit indirizzata principalmente al proselitismo e alla formazione ideologica delle avanguardie)[47]
(http://tysm.org/franco-berardi/#_edn47). Proprio nel tentativo di contrastare la deriva imboccata da Potere operaio (e dallo
stesso Negri), a partire dal 1970 Berardi intraprese una strada che lavrebbe condotto a considerare come ormai inservibile il
modello organizzativo leninista o neo-leninista, centrato sul ruolo delle avanguardie (tanto esterne, quanto interne).
Proseguendo quella stessa strada, in seguito Berardi avrebbe inoltre sviluppato una critica della politica sempre pi radicale:
una critica che sarebbe approdata non solo ad attaccare le ipotesi sullautonomia del politico, ma soprattutto a negare
qualsiasi autonomia reale, e dunque qualsiasi potenzialit, allazione politica. Lungo quel percorso in cui Berardi avrebbe
incontrato tanto il pensiero di Deleuze e Guattari quanto le sollecitazioni che provenivano dal movimento femminista si sarebbe
delineata una riflessione estremamente originale, che peraltro sviluppava fino al punto estremo alcune delle originarie ipotesi
delloperaismo di Tronti[48] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn48).
Il rifiuto della deriva leninista di Potere operaio indusse Berardi innanzitutto a storicizzare lesperienza dei gruppi extraparlamentari della fine degli anni Sessanta. I gruppi rivoluzionari, si leggeva per esempio nelle pagine introduttive di Scrittura e
movimento, datate aprile 1973, hanno segnato linizio della loro fine proprio nel momento in cui hanno riscoperto il leninismo,
perch da allora avevano iniziato a pensare che il movimento dovesse essere diretto dal loro progetto e che dunque gli
organismi di massa (comitati, nuclei, assemblee, consigli) fossero o dovessero funzionare come effettive cinghie di trasmissione
della loro direzione (SM 12). Al contrario, il movimento, secondo la lettura di Berardi, era ormai sostanzialmente in grado di
determinare in modo del tutto autonomo dalle organizzazioni le proprie scadenze conflittuali, ma il dato era soprattutto che la
proliferazione dei comportamenti conflittuali attraverso unestensione a cerchi concentrici, che dalla fabbrica raggiungeva il
territorio poneva una serie di problemi diversi rispetto al passato. Nonostante questa analisi sembrasse convergere con la
lettura proposta in quegli stessi mesi da Negri (anche per lutilizzo di espressioni fortemente ambigue)[49] (http://tysm.org/francoberardi/#_edn49), in realt lo sviluppo successivo and in una direzione differente, che escludeva totalmente qualsiasi margine di
riutilizzo di schemi anche vagamente neo-leninisti: la convinzione era infatti che i comportamenti e i bisogni contenessero in
se stessi una potenzialit antisistemica (che non richiedeva alcuna mediazione politica), ma anche che qualsiasi mediazione
organizzativa dovesse finire col riprodurre meccanismi distorsivi, destinati a deviare la spinta conflittuale verso obiettivi fittizi.
Proprio in questa fase, daltro canto, la crisi del gruppi innesc un lungo dibattito diretto contro lidea di una militanza concepita
come missione e come sacrificio personale. Come scrisse il Gruppo Gramsci in uno dei suoi documenti pi significativi, era
necessario un diverso modo di fare politica, che non rimuovesse la dimensione privata della vita, ma che, al contrario,
prefigurasse concretamente e praticamente i primi embrioni di vita diversa [50] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn50). Dal
punto di vista teorico, uno degli sforzi principali di rilettura delloperaismo, capace di tener conto di questa estensione del conflitto,
fu senza dubbio la teoria dei bisogni sviluppata sulle pagine della rivista aut aut, anche sulla scorta di alcune suggestioni di
gnes Heller[51] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn51). Anche Berardi che peraltro fin dal 1973 non aveva esitato a scrivere
che La pratica della felicit sovversiva, per celebrare lesperienza di migliaia di giovani, che nel loro modo stesso di vita
quotidiana si pongono fuori dellestablishment (SM 9) imbocc questo stesso sentiero, ma probabilmente egli port a
conseguenze ancora pi radicali, anche sul piano teorico, la critica alla militanza.
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Attorno alla met degli anni Settanta, la nuova centralit dei bisogni e dei comportamenti sugger a molti intellettuali militanti
tra cui naturalmente lo stesso Berardi la necessit di riprendere e sviluppare quella critica della politica che Marx aveva
solo abbozzato. Il fatto che quel progetto fosse considerato cos urgente era legato, oltre che alle dinamiche del conflitto sociale,
allesigenza di criticare le ipotesi sullautonomia del politico avanzate in quegli anni dal padre delloperaismo, Mario Tronti,
anche perch quelle ipotesi erano allora intese da molti come una sorta di legittimazione teorica della strategia del
compromesso storico enunciata da Enrico Berlinguer e concretizzatasi nellappoggio del Pci ai governi a guida
democristiana[52] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn52). Lo stesso Berardi non manc di criticare le ipotesi trontiane degli
anni Settanta[53] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn53), ma a differenza di molti altri, che intesero la critica della politica
sostanzialmente come unindagine rivolta a mettere in luce le funzioni capitalistiche dello Stato e a chiarire quali fossero i margini
conflittuali che in quella sfera si aprivano utilizz quel grimaldello teorico anche contro le pretese della politica rivoluzionaria
portata avanti dai gruppi. In Teoria del valore e rimozione del soggetto, forse uno dei suoi libri pi importanti, non veniva infatti
semplicemente svolta come recitava il sottotitolo una Critica dei fondamenti teorici del riformismo, perch Berardi si
scagliava in special modo contro le stesse premesse della teoria leninista del partito (e in particolare contro lidea cardine della
coscienza di classe). La premessa di tutto il discorso, in cui emergeva gi la combinazione fra limpostazione operaista e la
filosofia di Deleuze e Guattari, era che la societ capitalistica si fondasse su una rimozione fondamentale, la rimozione della
soggettivit autonoma di classe operaia, della classe come movimento che realizza i suoi bisogni nella lotta contro
lorganizzazione del lavoro e per il potere (TV 31). Se il compito politico che Berardi si prefiggeva consisteva nel far riemergere il
rimosso, dal punto di vista teorico lesigenza era invece quella di mostrare i meccanismi con cui la teoria marxista aveva
provveduto a rimuovere comportamenti e i bisogni. In questa prospettiva, la politica diventava semplicemente il luogo in cui i
bisogni delle masse sono ridotti ad immagine spettacolare, a riflesso di un riflesso, ritualizzati e ridicolizzati, mentre la loro reale
urgenza rimossa, cancellata (TV 139). Ma se questa rimozione che aveva raggiunto il culmine tra gli anni Trenta e gli anni
Cinquanta era stata messa in crisi dalleruzione dei bisogni alla fine degli anni Sessanta, i gruppi della sinistra radicale
avevano finito col riprodurre i medesimi meccanismi di rimozione, che in particolare occultavano la trasformazione che si
svolgeva nella vita quotidiana:
Lesperienza dei gruppi ha esaurito la propria capacit di direzione rivoluzionaria e di trasformazione del movimento,
proprio perch non pi mediazione politica delle esigenze materiali delle masse, ed invece riproduce un vecchio modo di
comporre le spinte politiche rimuovendone lautonomia e la materialit, e riducendole entro categorie teoriche e schemi
organizzativi volontaristici ed in ultima analisi terroristici e polizieschi. La politica, nella pratica dei gruppi come dei
partiti della tradizione seconda e terzo internazionalista unificazione terroristica; il personale, la forma della vita
quotidiana, nella sua funzionalit ed interdipendenza con la forma complessiva dei rapporti di classe, viene
terroristicamente ridotta alla forma categorizzata, passata, (rituale) del politico; e se rifiuta di essere ridotta a questo
schema, viene rimossa, espulsa dalla sfera della politica, eliminata come residuo irriducibile alla politica. Ma il terreno
della liberazione del personale, della collettivizzazione del quotidiano il terreno decisivo non meramente come sfera
del personale, ma come terreno di trasformazione (organizzativa) dellesistenza delle masse (TV 140-141).
Nelle pagine di Finalmente il cielo caduto caduto sulla terra, lanalisi teorica sulla rimozione dei bisogni si spostava verso il
presente, proponendo come alternativa a ogni struttura organizzativa pi o meno leninista la formula del piccolo gruppo in
moltiplicazione ed in ricomposizione trasversale (FC 8). Se per un verso riconfermava la convinzione che sul terreno del
quotidiano i bisogni collettivi raggiungessero la loro qualit politica (FC 23), Berardi salutava per solennemente anche la fine
della politica. Una fine determinata dalla stessa modificazione del conflitto, il quale dai luoghi del lavoro concentrato si era
esteso alla societ, penetrando nel reticolo di micro-comportamenti, per loro stessa natura inafferrabili dalla logica della
mediazione politica, e alla ricerca piuttosto della via della sottrazione, ossia di quella che Berardi chiamava allora separ/Azioni:
il terreno della politica, da sempre terreno della rimozione del soggetto, non pu pi darsi che come spettacolo quando il
soggetto si colloca altrove ed emerge sulla scena della storia. Ed allora anche per il capitale, se pure il nucleo centrale di
ogni suo sforzo resta la trasformazione del tempo di vita in valore, per la mediazione del lavoro, il sistema di controllo
non pu che articolarsi e seguire disperatamente, per la dinamica delle separ/Azioni, delle fughe. Ed ecco il sistema
del controllo rincorrere il movimento su questo terreno post-politico, e farsi criminologia, psichiatria, sociologia del
lavoro, analisi del linguaggio, nuova didattica, sociologia. E mentre i loschi figuri del riformismo armano nuovi Noske
contro gli operai, e i loro professori ex-marxisti cianciano di autonomia del politico, la realt delle cose la fine della
politica, la sua definitiva trasformazione in spettacolo, in nostalgica messa in scena del controllo del tutto sulle parti (FC
34).
Lette a quasi quarantanni di distanza, inevitabile che le valutazioni formulate allora da Berardi debbano apparire segnate, pi
che da distorsioni ideologiche, dalle urgenze politiche del momento. Ci nondimeno, non pu sfuggire la lucidit con cui veniva
intravista nel terreno post-politico, proprio dei comportamenti, la dimensione in cui pi ancora che al livello dello scontro
politico (e della repressione) si sarebbero effettivamente giocati i destini della ristrutturazione. Sotto il profilo della riflessione
teorica, uno degli aspetti pi significativi del discorso era la rivendicazione delleredit delloperaismo italiano, o quantomeno di
alcune sue intuizioni. In effetti, in alcuni passaggi fondamentali, Berardi indicava lo strumento che aveva consentito di rompere il
meccanismo della rimozione dei bisogni, e dunque di reinserire il soggetto nella teoria, nella nozione operaista di composizione
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di classe:
Non si deve partire dal partito per parlare della classe, n dallo Stato per capire il movimento, n dal capitale per capire la
lotta: la classe operaia il motore dello sviluppo, ma quindi agente reale della ristrutturazione, delle vicende che
vengono trasferite nel cielo della politica. Ma come possiamo allora comprendere, interpretare quello che accade nella
realt di classe, se solo partendo di l possiamo capire tutto il resto? La risposta sta proprio nel concetto di composizione
di classe, nel quale si comprendono non solo le relazioni sociali fra settori proletari e operai, fra strati sociali
proletarizzati, non solo il rapporto fra lavoro vivo e lavoro morto, operai e struttura tecnologica, ma anche il patrimonio
organizzativo, culturale, di consapevolezza che nel corpo concreto della classe inscritto. Ecco cos che le forme
organizzative sono comprese come articolazioni del soggetto reale, e non come suoi surrogati ipostatici; e la coscienza di
classe non pi lidea socialismo a cui la classe-reale deve adeguarsi, ma diventa anchessa una articolazione del
movimento reale del soggetto. Ecco cos che la storia non pi lo svolgimento necessario in cui i soggetti trovano la loro
identit e mediazione, ma lo spazio reale ed impregiudicato in cui il soggetto operaio sviluppa la sua storia contro lo
stato, la cui storia si pretende Storia (TV 24)[54] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn54).
Il rilievo che assegnava alla nozione di composizione di classe non era puramente rituale, perch effettivamente lintera
riflessione di Berardi pu essere considerata come uno sviluppo, o forse una dilatazione, di questa intuizione. A ben vedere,
daltronde, gi nel suo primo libro Berardi aveva sostenuto la necessit di scoprire, allinterno della composizione di classe e
nella complessit dei rapporti tra operai e capitale non semplicemente un dato tecnico, ma soprattutto tutta una fascia di
rapporti politici, di organizzazione e di repressione, che di volta in volta si cristallizzano in un dato livello di sviluppo economicotecnologico[55] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn55). E non casualmente, pi di recente Berardi ha proposto di non utilizzare
il termine operaismo per indicare il paradigma teorico che prende forma a partire dai Quaderni rossi e dalla rivoluzione
copernicana di Tronti, perch quel termine coniato peraltro, almeno inizialmente, con finalit polemiche tradirebbe le intuizioni
principali dellintero filone. In alternativa, ha sostenuto cos lutilit della formula composizionismo, una formula che, proprio
enfatizzando limportanza della composizione di classe, sarebbe in grado di cogliere qualcosa di pi essenziale nel metodo e
nello stile di pensiero dei teorici delloperaismo, oltre che di evidenziare le connessioni con la riflessione di Deleuze e Guattari:
Che cosa vuol dire composizionismo? Vuol dire metodologia che si propone di analizzare il processo storico come
intersecarsi, districarsi, comporsi, separarsi di flussi che hanno una consistenza quasi gassosa. La scienza della
trasformazione sociale sta molto pi vicino alla chimica degli stati gassosi che alla meccanica sociologica. Non ci sono
forze compatte, soggetti unitari, portatori di volont univoche. Non ci sono volont; ci sono flussi di immaginario,
depressioni dellumore collettivo, improvvise illuminazioni. Dispositivi astratti che concatenano flussi. Valvole, rubinetti,
mixer che tagliano, mescolano, combinano flussi ed eventi. Non c un soggetto che si oppone ad altri soggetti, ma vi sono
flussi trasversali di immaginario, di tecnologia, di desiderio, e questi producono visione od occultamento, felicit o
depressione collettiva, ricchezza o miseria. Daltra parte il processo storico non un piano omogeneo sul quale si
oppongono soggettivit omogenee, oppure progetti linearmente identificabili, e linearmente confliggenti. piuttosto un
divenire eterogeneo nel quale agiscono segmenti differenti come lautomazione tecnologica, la psicosi panica, la
circolazione finanziaria e lossessione identitaria o competitiva[56] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn56).
La terminologia adottata da Berardi nella propria definizione del composizionismo mostra forse qualche consonanza con le
formule utilizzate dal post-operaismo degli ultimi ventanni, se non altro per la centralit assegnata alla riflessione di Deleuze e
Guattari anche nelle opere di Hardt e Negri, ma risulta invece abissalmente distante dal lessico delloperaismo degli anni
Sessanta, e in special modo dalla terminologia adottata nelle formulazioni pi classiche della teoria della composizione di classe,
che si possono trovare soprattutto negli scritti di Romano Alquati e nelle ricerche di Sergio Bologna, oltre che naturalmente (ma in
realt solo in modo piuttosto implicito) in Operai e capitale. A dispetto di questa discontinuit terminologica, il
composizionismo di Berardi, cos come la centralit che negli anni Settanta assegnava ai comportamenti e ai bisogni per la
definizione della composizione di classe, non costituiscono affatto una rottura concettuale rispetto al quadro operaista, o
quantomeno con le linee della rivoluzione copernicana proposta negli anni Sessanta. Bench soprattutto Tronti conservasse
anche allora pi di qualche legame (non solo sentimentale) con la tradizione del movimento operaio e con il leninismo, la principale
operazione compiuta in Operai e capitale consisteva infatti proprio nellidea secondo cui il potenziale antagonista dei
comportamenti operai allinterno del processo di produzione non richiedeva alcuna mediazione politica, e proprio questa idea
avrebbe daltronde suggerito limmagine della rude razza pagana, che, a dispetto della propria assenza di ideali, disponeva
della formidabile arma della pressione sul salario nella propria lotta contro il capitale. Gi in quegli anni alcuni indizi facevano
intravedere le prime tracce della svolta di Tronti verso lautonomia del politico[57] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn57), ma
lidea di base formulata in Operai e capitale e al fondo dellesperienza di Classe operaia sembrava comunque riconoscere una
sostanziale autonomia, un carattere immediatamente politico e una oggettiva centralit proprio ai comportamenti operai. La
classe operaia, aveva scritto infatti Tronti, possiede una strategia spontanea dei propri movimenti, mentre il partito non ha
che da rilevarla, esprimerla, organizzarla[58] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn58). E nel saggio pi lungo compreso in
Operai e capitale, ribadendo lidea secondo cui la classe era solo strategia, aveva anche precisato che la strategia vive [] a
quel livello in forma tutta oggettiva, nel senso che una prospettiva strategica, come quel del rifiuto, si presenta materialmente
incorporata nei movimenti di classe della massa sociale operaia[59] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn59). Nonostante una
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simile impostazione, lasciasse pi di qualche margine alla reintroduzione di un ruolo del partito (se non altro perch non chiariva
quali fossero i limiti entro cui poteva operare la tattica), Berardi non avrebbe fatto altro che sviluppare fino alle estreme
conseguenze spontaneiste la tesi trontiana che assegnava la definizione della strategia ai comportamenti materialmente
depositati nella composizione di classe. E daltronde, quando nel 1970 polemizz con la deriva leninista di Potere operaio,
utilizz proprio la vecchia tesi secondo cui la strategia si trovava tutta nella classe e nei grandi movimenti che dentro le masse
avvengono[60] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn60).
Se dunque il composizionismo pu essere considerato come uno dei pi originali (e coerenti) sviluppi delle intuizioni operaiste,
probabilmente quella impostazione era destinata a produrre delle conseguenze impreviste. Come avrebbe sostenuto Tronti negli
anni Settanta, e come tornato a sottolineare pi di recente Carlo Formenti, loperaismo tendeva infatti a trascurare
lautonomia della politica: unautonomia che non coincide soltanto con lautonomia della sfera istituzionale dalle logiche
dallaccumulazione capitalistica, ma che comprende anche lautonomia del ceto politico dalla societ e, forse soprattutto, i
meccanismi di formazione delle identit collettive. Naturalmente non solo questa sottovalutazione della complessit della politica
a spiegare gli esiti successivi talvolta abissalmente distanti, e in qualche caso persino contraddittori del post-operaismo. Ma,
forse, proprio questa rimozione della politica a chiarire quali siano le radici del pessimismo odierno di Berardi. Al termine di un
pi che quarantennale percorso un percorso che si snoda dalla critica della struttura organizzativa neo-leninista adottata dai
gruppi della sinistra extra-parlamentare, alle sperimentazioni degli anni Settanta, alla traversata del deserto compiuta negli anni
Ottanta oggi Berardi giunge infatti non tanto ad articolare una semplice critica della politica, quanto a operare una vera e
propria rimozione della politica. E come si vedr nelle prossime pagine quella stessa rimozione che oggi conduce verso il
vicolo cieco di un implacabile pessimismo, e non senza paradossi ad accantonare quelle medesime intuizioni del filone teorico
operaista di cui pure Berardi (pur con qualche piccola riserva) ha sempre tentato di custodire leredit pi preziosa.

Fine della politica


Non certo difficile trovare qualche dimostrazione allipotesi secondo cui Berardi avrebbe eliminato la politica dal proprio quando
teorico. Persino il pi distratto lettore di Bifo anzi destinato a trovare nei suoi testi degli ultimi trentanni decine di passaggi in
cui si avverte che le strategie per affrontare la mutazione e le sue insidie non possono essere rinvenute sul terreno politico. Al
principio degli anni Novanta, scriveva per esempio che, dinanzi al mutamento paradigmatico, i tempi della politica non sono pi
capaci di interagire utilmente con quelli della mutazione in corso, e che per questo era necessario pensare ad altre temporalit,
quella lentissima delladeguamento culturale e quella velocissima delle tempeste neurochimiche[61] (http://tysm.org/francoberardi/#_edn61). In Neuromagma, pochi anni dopo, questa tesi sarebbe ritornata rafforzata dallidea secondo cui la mutazione in
corso determinava una sorta di estinzione della politica come sfera della decisione autonoma rispetto al circuito produttivo e alla
dimensione della programmazione. Il problema della politica, scriveva infatti commentando Pierre Lvy, viene interamente
assorbito dentro lattivit stessa del lavoratore mentale, e in particolare del programmatore, con una serie di conseguenze
radicali. La scelta tra alternative, per un verso, non si colloca pi al livello della macropolitica, delle decisioni globali che si
prendono dallalto dello Stato, ma a un livello microfisico, microsociale, delle interfacce tecniche e delle interfacce tecnosociali, a
un livello che possiamo definire nanopolitico (N 46). Dallaltro, precisava, la politica non pu pi essere considerata come scelta
globale sullinsieme delle funzioni sociali esercitata dallalto di una funzione decisionale estranea alla produzione, perch diviene
scelta puntuale e determinata fra alternative duso di un sapere, invenzione di interfacce tra informazione cristallizzata e uso
sociale, architettura congitiva, ecologia della comunicazione (N 48). E nella Fabbrica dellinfelicit tornava a ripetere, ancora una
volta:
Forse della politica che occorre propriamente sbarazzarsi. Questarte del governo non ha infatti pi alcun realismo in
una societ infinitamente complessa, nella quale la volont incapace di perseguire i suoi scopi, e nella quale gli scopi
sono miraggi, perch non poggiamo pi i piedi su un terreno stabile, ma navighiamo in un oceano assolutamente
instabile. Siamo alla ricerca di un metodo del cambiamento che sia libero dalle premesse (ora ingannevoli) della
governabilit, della finalit, della riducibilit del mondo a disegni razionali. La politica fu una tecnica capace di produrre
effetti dinsieme a partire dal governo di un certo numero di processi decisivi. Noi dobbiamo agire in una situazione nella
quale i processi decisivi sono infiniti, ingovernabili, e i mutamenti hanno carattere frattale e ricombinante. del tutto
insensato proporsi un rovesciamento delloceano frattale nel quale navighiamo. Solo andando nel senso del processo
possiamo introdurre elementi di modificazione del processo. La modificazione pu avere solo un carattere frattale, e in
nessun modo un carattere frontale (FI 23).
Anche se le pagine finali di Heroes riformulano in termini sostanzialmente analoghi a trentanni fa la proposta di una saggezza
innocente e dellironia, si potrebbero leggere come piccole indizi di una almeno implicita revisione della valutazione sul ruolo della
politica linteresse e la speranza con cui Berardi ha negli ultimi anni guardato a Occupy Wall Street, alla Primavera araba, agli
Indignados (ossia a movimenti capaci di riattivare la dinamica sociale della solidariet e della lotta consapevole della classe
sfruttata per farla finita con lo sfruttamento[62] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn62)), e anche la simpatia con cui ha
osservato lascesa del Movimento 5 Stelle in Italia e la vittoria elettorale di Syriza[63] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn63).
Ma la revisione operata su questo punto non deve essere sovradimensionata, perch a dispetto di queste tracce Berardi
continua a ribadire ancora una volta la medesima sfiducia nelle possibilit dellazione politica.
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Nel recente La nonna di Schuble, un volume nel quale raccoglie alcuni scritti dedicati alla crisi dellUnione europea, Berardi
aggiunge per esempio ulteriori motivi al suo pessimismo, affiancando allanalisi delle conseguenze strutturali dei processi descritti
in Heroes, anche una diagnosi spietata del drammatico fallimento di tutte quelle speranze che avevano visto nellEuropa unita uno
spazio possibile per estendere la democrazia e la cittadinanza: un fallimento che, per Berardi, destinato a innescare derive
incontrollabili verso la violenza e persino verso la guerra. La sconfitta politica patita dal governo greco nel luglio 2015, dopo che
gli elettori ellenici si erano dichiarati in maggioranza per il No alle condizioni poste dalle istituzioni internazionali per rifinanziare il
debito, segna infatti per Berardi e non senza ragioni il capolinea del progetto europeo[64] (http://tysm.org/franco-berardi
/#_edn64). E, da questo punto di vista, con unonest intellettuale che neppure il suo pi acerrimo critico potrebbe negargli,
compie unautocritica radicale, nella quale rimprovera a se stesso e a buona parte degli intellettuali radicali europei il sostegno
alla causa europeista, e dunque di non avere compreso quale fosse il destino inevitabile scritto a Maastricht un quarto di secolo
fa. Troppo a lungo abbiamo creduto che il problema fosse pi Europa politica, pi democrazia e simili baggianate, scrive
nellintroduzione al volume, mentre da Maastricht in poi si stava costituendo un dispositivo assolutamente originale la cui funzione
va intesa in una prospettiva molto pi ampia, una prospettiva che ambiva a cancellare la specificit europea del secolo operaio,
la specificit europea della democrazia sociale e della solidariet (NS 20-21)[65] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn65). E in
questo senso riconosce il clamoroso errore di appoggiare la causa del S in occasione dei referendum del 2005 sulla
Costituzione europea in Francia e Olanda, una sorta di punto di snodo di tutte le vicende successive, nella convinzione del tutto
progressista che la realizzazione di un mercato europeo effettivamente unico e privo di barriere fosse la condizione necessaria
per avviare un processo liberatorio[66] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn66).
La sconfitta di Alexis Tsipras nella trattativa con le istituzioni europee, agli occhi di Berardi, sembra dunque confermare in modo
inequivocabile limpossibilit, a qualsiasi livello, di uninversione di rotta. facile prevedere che leffetto della resa di Syriza sar il
crollo della residua credibilit delle forze politiche di sinistra, scrive per esempio, non senza aggiungere in termini che non
sembrano lasciare margini di ambiguit che la nuova composizione precaria del lavoro sembra impedire la formazione di un
movimento di lotta sociale, che nella composizione sociale del presente non sembra potersi formare resistenza, n opposizione
politica, perch la struttura produttiva precaria rende impossibile lorganizzazione solidale, e che cinismo isolamento
depressione sono le conseguenze di questa condizione (NS 16-17). La valutazione generale del ruolo e delle potenzialit della
politica sembra dunque uscire addirittura rafforzata dalla catastrofe europea e dalla visione cupa ma al tempo stesso realistica
della deriva nazionalista che attende il Vecchio continente. E naturalmente secondo Berardi la via duscita da questo micidiale
circolo vizioso non pu passare dalla politica, ma solo ancora una volta da una logica di sottrazione:
Occorre partire dal coraggio della disperazione, occorre fare di questo coraggio il punto di formazione di un nuovo stile
culturale che sta al di l della pretesa politica di governare il futuro. Ci significa prima di tutto: dire la verit, senza
riproporre soluzioni che non funzionano pi, e senza attribuire alla volont una funzione che la volont non ha pi.
Salvaguardare il nucleo di possibilit progressiva che il capitalismo non ha finora potuto distruggere, che consiste nel
contenuto scientifico e tecnico del lavoro cognitivo. Inventare forme di sopravvivenza e di felicit nei margini, e avviare
un processo lento di autonomia, che sia al contempo lento sgretolamento del castello malefico del capitalismo
finanziario (NS 22-23)[67] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn67).
Come si visto, una concezione tanto radicale quanto duratura dellimpotenza della politica non nasce da vicende contingenti, ma
il frutto di un lungo percorso anche auto-critico, un percorso le cui prime tappe risalgono gi ai primi anni Settanta. importante
per notare che, quando Berardi liquida la politica, relegandola tra i relitti del passato novecentesco, in realt si riferisce a due
aspetti differenti (anche se fra loro connessi). Innanzitutto, allude allidea secondo cui la politica identifica una sfera di decisione
non solo autonoma rispetto alle dinamiche economico-sociali, ma dalla quale sia possibile operare in modo demiurgico sulla
societ, dando compimento concreto a un progetto di trasformazione. In secondo luogo, intende indicare la dimensione
ideologica della politica, ossia la sfera delle identit cristallizzate, che finiscono col limitare la libert del singolo e con lindirizzare
il suo comportamento. Anche in questo caso le radici di una simile impostazione vanno individuate nella combinazione tra
loperaismo e la filosofia di Deleuze e Guattari, oltre che naturalmente nel coerente sviluppo della critica della politica articolata
negli anni Settanta. Ma ci che pi importa la critica allidentit e alle sue trappole dellidentit, una critica di cui non certo
difficile trovare le tracce nelle pagine di Berardi, e che riveste davvero un ruolo chiave per spiegare gli sviluppi odierni della
riflessione dellintellettuale bolognese.
Lidentit, scriveva per esempio Berardi in Neuromagma, nasce dal bisogno di affermare la verit in nome di unappartenenza,
e costituisce un surrogato di sicurezza, perch, dal momento che non possiamo trarre sicurezza dalla realt, speriamo di
trovare sicurezza nellidentit, nella continuit fanatica delle nostre proiezioni, nellossessione di una corrispondenza tra queste
proiezioni e la realt (N 12). Lidentit, precisava inoltre, il s visto dallaltro, la delimitazione del s da parte dellaltro, e
dunque anche la definizione dellaltro come limitazione, pericolo, potenziale aggressione (N 13). Una simile caratterizzazione
dellidentit chiarisce gi come per Berardi lidentit tenda a costituire una trappola, che impedisce le relazioni con laltro, che
alimenta la contrapposizione, che costruisce barriere fittizie fra gli individui, e non affatto sorprendente allora che scriva che i
confini dellidentit etnica, linguistica, sessuale possono essere definiti soltanto con unoperazione di violenza e di ignoranza (N
13). Ma questi aspetti cos negativi vengono ulteriormente aggravati dalla mutazione in corso, perch, dinanzi alla
frammentazione e alla frattalizzazione dellesperienza, la risposta tende a essere quella che Berardi definisce seguendo
ancora una volta Deleuze e Guattari una riterritorializzazione aggressiva. Lo sradicamento e la deterritorializzazione prodotta
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dal capitalismo produce infatti una tendenza a ricostruire nuove identit: La perdita didentit produce una reazione di paura,
dinsicurezza psichica, scriveva per esempio al principio degli anni Novanta, e pu mettere in moto processi di ricerca disperata
di unidentit nellunico modo che resta possibile: attraverso laggressione nei confronti dei diversi, attraverso una riaffermazione
artificiosa ma violenta di un rapporto con lorigine, con la radice, con il mito di superiorit che lomologazione capitalistica ha
inesorabilmente cancellato[68] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn68). Coerentemente, lossessione dellidentit allora
indissociabile dellaggressione e dallodio, perch non si pu pi ritrovare la propria origine se non attraverso il sangue dellaltro,
non si pu ritrovare la propria verit se non leggendola attraverso la distorsione che laltro ne compie (MC 100-101). Proprio
ribadendo questa convinzione in Heroes Berardi scrive allora che lossessione dellidentit primitiva non pu essere altro che
un vicolo cieco, perch la verit sul tuo essere nelle mani del tuo nemico, e solo la trasgressione del divieto delloppressore ti
conduce al nucleo della tua appartenenza, tanto che, per questo, afroamericani e armeni, tibetani e tamil, tutte le popolazioni
che hanno perduto la relazione vivente con la loro tradizione possono trovarla solo negli occhi delloppressore (H 139).
La critica allidentit e alle sue implicazioni politiche comprensibile, e per molti versi condivisibile. Ma, a ben vedere, non si tratta
solo di una critica indirizzata alle pretese delle identit etniche di essere naturali o originarie. Oltre a riconoscere che tutte le
identit specie nel processo di deterritorializzazione non possono che essere costruzioni culturali, Berardi tende a
considerare lidentit e dunque ogni identit come una trappola, che tende a bloccare il processo conoscitivo e a innescare
meccanismi di ritribalizzazione. Lidentit, scriveva per esempio in Mutazione e cyberpunk, una mappa che pretende di
guidare lungo il percorso, ma mente, il meccanismo in base al quale noi pretendiamo di riconoscere, di conoscere gi, di
possedere per appartenenza il sistema di valori, il sistema delle ritualit adatte per tenere il mondo sotto controllo, e in questo
senso non altro che una menzogna, un fattore di irrigidimento (MC 92-93). Ed proprio lidea secondo cui lidentit una
menzogna e un fattore di irrigidimento a costituire un ostacolo non da poco per la riflessione di Berardi. Se infatti la visione
dellidentit del tutto coerente con la proposta di Deleuze e Guattari, e se rappresenta anche un lineare svolgimento della critica
della politica articolata nel corso degli anni Settanta, per anche un elemento che tende a indirizzare le ipotesi di Bifo verso
un vicolo cieco teorico. Un vicolo cieco che, per un verso viene, a neutralizzare le intuizioni del metodo composizionista,
mentre, per laltro, conduce la ricerca verso un pessimismo assoluto, dal quale sparisce ogni margine di conflitto possibile.
Da un punto di vista generale, la visione dellidentit proposta da Berardi pu suggerire una serie di obiezioni, o quantomeno di
quesiti, la cui risposta tuttaltro che scontata. Innanzitutto, pur concordando con lidea secondo la quale non esistono identit
originarie e secondo cui dunque tutte le identit sono sempre invenzioni pi o meno riuscite, ci si pu chiedere se sia veramente
possibile essere senza identit, o se si debba invece, pi semplicemente, distinguere tra identit pi rigide e identit pi fluide,
o persino liquide, come vuole la metafora proposta da Zygmunt Bauman. Ma, se si riconosce che tutte le identit sono prodotti
culturali, inevitabile trovarsi dinanzi alla difficolt di una loro valutazione politica, perch ovviamente non possibile
considerare unidentit come pi progressista di unaltra, o pi reazionaria e retriva di unaltra, se non attingendo allimmagine
illuminista del progresso, o recuperando invece una filosofia della storia che assegna allo sviluppo capitalistico una funzione
civilizzatrice e dunque la capacit di creare un soggetto universale come la classe operaia. Talvolta Berardi sembra proprio
evocare una simile raffigurazione, come per esempio nel caso in cui in Heroes scrive che la classe operaia lo spazio
dellassoluto sradicamento, dellattiva dimenticazione di ogni identit, e che grazie allo sradicamento divenne possibile la ricerca
di un principio universale di emancipazione (H 140). Ma evidentemente, se seguisse davvero questa strada (che certo
consentirebbe di stabilire un discrimine netto tra unidentit universale buona e unidentit originaria cattiva e fittizia), Berardi si
troverebbe a revocare le proprie ipotesi di fondo almeno sotto due profili. Innanzitutto, perch si troverebbe a reintrodurre
surrettiziamente quella filosofia della storia progressista che ha strenuamente combattuto per quasi mezzo secolo, e, dunque,
perch attribuirebbe allassoluto sradicamento prodotto dalla deterritorializzazione capitalistica una funzione positiva, a
prescindere dallanalisi dellautonomia espressa dai lavoratori, per i quali la perdita di umanit (H 140), e cio laumento dello
sfruttamento reale, sembrerebbe invece un presupposto di liberazione. In secondo luogo, perch si troverebbe costretto a
replicare quella distorsione teorica che aveva rimproverato al riformismo, ossia una rimozione della realt della classe, in virt
della quale lunit della classe viene ricostruita non sulla base dellanalisi dei suoi movimenti spontanei, ma sulla base di una teoria
capace di valutare il carattere universale della coscienza della classe operaia (nella misura in cui essa possiede una visione
corretta della totalit del processo storico). Naturalmente Berardi a dispetto dellutilizzo di alcune espressioni non pu
procedere in questa direzione, e cos le tracce di un implicito progressismo sono soltanto molto labili, e non devono neppure
essere prese troppo sul serio. Ci nondimeno, le insidie che presenta lattacco costante indirizzato dallintellettuale bolognese
contro lossessione identitaria non possono essere liquidate come effetti di semplici infortuni linguistici, o come il pegno da
pagare a un lessico militante stratificatosi nei decenni. Quelle insidie devono essere interpretate infatti come le spie di una
contraddizione che mina dallinterno il quadro concettuale allestito da Bifo. Una contraddizione che pone luno contro laltro il
metodo composizionista e la schizoanalisi di Deleuze e Guattari, ma dinanzi alla quale Berardi non sembra disponibile a
decidere. E il risultato di questa indecisione che per un verso spinge a ritenere centrale il metodo composizionista, mentre
dallaltro non rinuncia alla critica dellidentit (e della politica) mutuato dai due pensatori francesi finisce col chiudere ogni spazio
teorico al conflitto e, soprattutto, col neutralizzare lo stesso concetto di composizione di classe.

Scomposizioni
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Fin dagli anni Settanta, come si visto, Berardi un convinto sostenitore del concetto di composizione di classe, un concetto
elaborato originariamente da Alquati sulle pagine di classe operaia ma in seguito al centro di diverse rielaborazioni[69]
(http://tysm.org/franco-berardi/#_edn69). Il ricercatore cremonese, con quella formula si riferiva ai movimenti con cui la
classe operaia italiana tende oggi a rovesciare la propria dinamica di forza-lavoro del capitale internazionale in una lotta
sociale, e, dunque, sia ai meccanismi materiali che gi li unificano parzialmente a livello sociale in potenziale di lotta politica,
sia alla catena delle complesse mediazioni attraverso le quali si esprimono, a volte, sul terreno politico diretto[70]
(http://tysm.org/franco-berardi/#_edn70). Per Alquati, come daltronde per Tronti, la distinzione cruciale era tra forza lavoro e
classe operaia, ossia tra il lavoro come elemento passivo del processo produttivo e il soggetto politico, in grado di rifiutare il
semplice ruolo di inerme fattore di produzione mediante la propria autonomia. A questa prima distinzione si affianc per ben
presto, soprattutto grazie ad alcune ipotesi formulate da Sergio Bologna sul finire degli anni Sessanta, anche la dicotomia di
composizione tecnica e composizione politica, una dicotomia in cui non erano assenti alcune ombre di determinismo, perch
essa tendeva a suggerire lidea che, a ogni determinata composizione tecnica della forza lavoro, dovesse corrispondere pi o
meno inevitabilmente una determinata composizione politica della classe operaia[71] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn71).
Se Negri continu ad adottare quella distinzione (che ancora oggi compare nei suoi libri, pur senza la vecchia impronta
materialistica), Bologna, a partire dagli anni Settanta e nel lavoro compiuto con la rivista Primo maggio, incominci a
problematizzare il concetto di composizione di classe, e la stessa distinzione tra composizione tecnica e politica, con
lintento principale di storicizzare e relativizzare la centralit delloperaio massa[72] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn72).
Per esempio, nelle Otto tesi per la storia militante, redatte da Bologna nel 1978 come documento di lavoro per avviare un
dibattito fra storici militanti, si chiariva che, per ricostruire lassetto della composizione di classe, era necessario considerare
non soltanto la composizione tecnica, la struttura della forza-lavoro, ma anche la somma e lintreccio delle forme di cultura e dei
comportamenti sia delloperaio massa che di tutti gli strati sussunti al capitale[73] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn73). In
questa prospettiva, era chiaro che la composizione politica doveva essere concepita come una dimensione tuttaltro che
determinata dal semplice assetto tecnico del processo lavorativo: la composizione di classe doveva cio essere considerata
come la somma e lintreccio delle forme di cultura e dei comportamenti degli strati sussunti al capitale. In altre parole, dunque,
la dimensione politica che poteva concretizzarsi, di volta in volta, in sedimentazioni ideologiche, in tradizioni conflittuali, nella
memoria politica poteva trasferirsi da un segmento allaltro della forza lavoro, senza che tali settori avessero in comune le
medesime condizioni tecniche di lavoro, e proprio per questo la stessa distinzione fra una composizione tecnica e una
composizione politica doveva essere considerata con molta cautela, evitando cio qualsiasi tentazione determinista.
Bench il percorso di Berardi abbia solo occasionalmente intersecato quello di Sergio Bologna, sono piuttosto evidenti alcune
analogie nel loro approccio: analogie che non comprendevano solo una severa critica al leninismo (e al neo-leninismo di Potere
operaio, che indusse entrambi a lasciare lorganizzazione pochi mesi dopo la sua fondazione)[74] (http://tysm.org/franco-berardi
/#_edn74), ma che si estendevano anche al modo di concepire la composizione di classe. In modo sostanzialmente
convergente con quanto sostenevano le Otto tesi, Berardi, come si visto, aveva infatti definito la composizione di classe
come una dimensione a cui andavano ricondotte non solo le relazioni sociali fra settori proletari e operai, fra strati sociali
proletarizzati, o il rapporto fra lavoro vivo e lavoro morto, operai e struttura tecnologica, ma anche il patrimonio
organizzativo, culturale, di consapevolezza che nel corpo concreto della classe inscritto. Questa concezione riconosceva
lautonomia (almeno relativa) dei comportamenti e dei bisogni, cristallizzati nella struttura soggettiva dei diversi settori, e in
particolare implicava la possibilit (anche se certo non la necessit) che i comportamenti e i bisogni si comunicassero tra
diversi settori di forza lavoro. In altri termini, ci significava che Berardi, nella propria definizione della composizione di classe
riconosceva ampi margini allautonomia culturale e politica di bisogni e comportamenti, nel senso che forme culturali,
sedimentazioni ideologico-politiche, tradizioni pi o meno definite (e mitizzate) potevano andare a consolidarsi nella struttura
soggettiva e comunicarsi tra settori di forza lavoro contrassegnati da una differente composizione tecnica. E, daltro canto,
quando propone oggi la nozione di composizionismo, in alternativa a quella a suo avviso fuorviante di operaismo, mette in
evidenza proprio questi aspetti, perch, contro ogni determinismo, il metodo centrato sulla composizione consentirebbe di
intravedere gli elementi di una concezione del processo sociale inteso come divenire eterogeneo nel quale intervengono
segmenti tecnologici, sedimentazioni culturali, intenzioni politiche e rappresentazioni ideologiche, concatenazioni macchiniche e
comunicazionali, insomma tutto ci che sfugge alle riduzioni della politica e della sociologia[75] (http://tysm.org/franco-berardi
/#_edn75).
Una simile impostazione doveva combinarsi con la critica della politica sviluppata da Berardi nella seconda met degli anni
Settanta, perch in quella fase la critica della politica implicava soprattutto un attacco alle forme di appartenenza identitarie
ascrivibili ai gruppi, ma ovviamente anche al Pci che impedivano di riconoscere la portata radicale delle trasformazioni che
maturavano nella vita quotidiana. Ma in realt quelle due differenti componenti mostravano almeno una potenziale divergenza,
che riguardava proprio le forme dellidentit e dunque dellappartenenza. Per un verso, Berardi riconosceva infatti che la
composizione di classe comprendeva anche il patrimonio organizzativo, culturale, di consapevolezza consolidato nella classe,
mentre, per laltro, tendeva a considerare ogni forma di identificazione come una nuova replica del meccanismo di rimozione. Da
un lato riconosceva cio che il patrimonio organizzativo, culturale, di consapevolezza che nel corpo concreto della classe
inscritto si andavano a depositare nella struttura della composizione di classe, e dunque ammetteva che una serie di elementi
politici e i processi di identificazione per esempio con organizzazioni o con subculture potessero andare a determinare il
livello storico del lavoro socialmente necessario[76] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn76). Dallaltro per sulla scorta di
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Deleuze e Guattari, ma anche sullonda della critica della vita quotidiana sviluppata dai movimenti giovanili e dai gruppi
femministi Berardi sosteneva che qualsiasi processo organizzativo e ogni processo di identificazione politica tendeva
inevitabilmente a perpetuare la rimozione dei bisogni. In sostanza, la politica, a qualsiasi livello, era sempre un terreno nel quale
la soggettivit storica, per sua natura irrappresentabile, veniva rimossa. La storia della politica, scriveva per esempio in
Finalmente il cielo caduto sulla terra, storia di una rimozione e di una sostituzione, perch sul terreno istituzionale della
politica, lunit diviene possibile a partire dalla rimozione dellautonomia e dalla rimozione del soggetto stesso, come soggetto
storico di bisogni, desideri, di comportamenti, e perch lorganizzazione si installa nello spazio di questa rimozione del
soggetto, come strutturazione di un soggetto ipostatico e volontaristico (FC 57). E da questo punto di vista, ogni forma di azione
politica non poteva che ricadere in questo meccanismo, perch lunit espressa dallazione politica nelle sue diverse
espressioni, dalla manifestazione di piazza alle elezioni non si definisce sulla base del [] bisogno, ma anzi ne rimuove la
materialit, toglie completamente di mezzo la esistenza di un soggetto in liberazione, in movimento e quindi in contraddizione (FC
57).
La lacerazione che si annidava nel ragionamento di Berardi nasceva evidentemente dal fatto che nel suo schema teorico
convivevano due diverse immagini dellidentificazione: da un lato, unimmagine che considerava la costruzione di unidentit
collettiva come lesito di un processo politico-culturale necessario non solo per larticolazione di un conflitto, ma anche per il
consolidamento dei bisogni; dallaltro, unimmagine che invece raffigurava la costruzione di unidentit collettiva come un processo
dagli esiti invariabilmente negativi. Nella posizione odierna di Berardi, evidente come riemerga proprio questa seconda visione
dellidentit, e come si visto non certo difficile trovare numerose conferme del sospetto con cui lintellettuale oggi continua
a guardare allossessione identitaria, alla ricerca di immaginarie identit nel passato, alla costruzione di mitologie irrealistiche,
alla perpetuazione di memorie che rimandano a un passato reinventato, oltre che naturalmente ai meccanismi di ostilit nei
confronti dellaltro (e cio a quei meccanismi che la costruzione di qualsiasi identit fatalmente comporta). E si tratta
evidentemente di una lacerazione che non pu essere realmente sanata, ma forse solo occultata, dal concetto di
soggettivazione, perch la soggettivazione secondo Berardi che ovviamente in questo segue Deleuze e Guattari nel
momento in cui si consolida in una vera e propria identit assume i contorni di un assoggettamento[77] (http://tysm.org/francoberardi/#_edn77).
La contrapposizione fra queste due componenti non contrassegna solo la riflessione di Berardi, perch in qualche modo coinvolge
lintera riflessione radicale italiana, tanto da determinare una vera e propria divaricazione che porta alla luce divergenze passate
inosservate (o quasi inosservate) per tutti gli anni Settanta. Per quanto concerne la vicenda delloperaismo, levento in cui
simbolicamente si consum la pi fragorosa rottura fra le anime che, pi o meno pacificamente avevano convissuto per un
decennio, fu il convegno su Memoria operaia e nuova composizione di classe organizzato a Mantova, nellottobre 1981, dalla
rivista Primo maggio e dallIstituto de Martino[78] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn78). A un anno di distanza dalla fatale
marcia dei quarantamila, il convegno che nelle intenzioni doveva dar forma a una societ di storici militanti si trasform in
una sorta di psicodramma collettivo, in cui, insieme ai motivi di attrito accumulati nel corso degli anni, vennero in superficie anche
concezioni del processo storico diametralmente opposte. In particolare, Valerio Marchetti, intervenendo a margine della
contrapposizione tra operaio di mestiere e operaio massa evocata da Giulio Sapelli, esponeva alcune tesi, scopertamente
provocatorie, intorno al nesso tra composizione di classe e memoria. C una specie di luogo comune intorno al quale ha
gravitato la maggioranza di questo convegno, un luogo comune che, chiariva Marchetti, consisteva nel rendere positiva la
memoria, ossia nel considerare la memoria come uno strumento che ha unimportanza centrale nella organizzazione dei cicli di
lotta[79] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn79). Quando si stabiliva un nesso fra memoria e composizione di classe in
realt ci si poneva su un terreno puramente storico, osservava per Marchetti, nel quale la protagonista non era la classe, ma
una generazione di storici militanti, o meglio, un ceto politico sconfitto che coltivava la propria memoria. La memoria di cui parla il
ceto politico operaio, secondo Marchetti, non aveva per niente a che fare con la memoria operaia, ma era solo una
scheggia del proprio disegno politico. Oltre a polemizzare con lintera prospettiva di una storia militante che, come tutti gli
storici, non poteva fare altro che pura e semplice necrofilia, parlare di cadaveri, del gi spento, di quello che morto, di
quello che non c pi Marchetti metteva per in questione la stessa ipotesi secondo cui la memoria, il consolidamento di un
patrimonio di lotte e di una cultura antagonista, erano sempre elementi di sviluppo del conflitto. La memoria questo era il
cuore della sua provocazione poteva infatti anche essere una forma di auto-disciplinamento, destinata a ostacolare lemergere
di nuovi processi conflittuali:

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E se la memoria fosse una struttura disciplinare? Se la memoria fosse lo strumento attraverso il quale noi conserviamo?
E se la memoria ultima conclusione fosse lo strumento attraverso il quale noi giudichiamo quello che viene fuori, la
novit? La memoria delloperaio di mestiere una memoria che ha giudicato i comportamenti delloperaio-massa. E li ha
giudicati cos duramente, in maniera cos inflessibile, da non entrare molto spesso nelle lotte che ha condotto
loperaio massa, fino al punto di allontanarsi da questo tipo di lotta che stata condotta in un determinato periodo
storico. La memoria ha sancito la differenza. Per quale motivo? Perch loperaio di mestiere voleva le lotte cos come le
aveva sempre viste. La memoria quella cosa oscena che secondo me fa dire di fronte a quello che accade, a quello che
viene fuori, alla novit questo lho gi visto! Questa cosa c gi stata!. E allora lavora sul piano dellanalogia storica:
tutto si riproduce cos come sempre stato. E allora vengono fuori dei comportamenti che non sono pi assimilabili a
quelli conservati dalla memoria operaia e si dice: Questi comportamenti sono fascisti!. qui la memoria che giudica.
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Damiano Palano: La fabbrica della disperazione

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Sono comportamenti che non si capiscono[80] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn80).


Nel suo intervento, Marchetti si collocava su una linea simile a quella che pochi mesi prima Negri aveva esposto in un suo articolo
polemicamente dedicato a un Elogio dellassenza di memoria, nel quale aveva sostenuto che la composizione di classe del
soggetto metropolitano non ha memoria perch non ha lavoro, perch non vuole lavoro comandato, lavoro dialettico, e perch
solo il lavoro pu costituire per il proletariato un rapporto con la storia passata[81] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn81). E
infatti, bench non cedesse allottimismo (un po forzato) di Negri, anche Marchetti metteva in primo piano il problema
rappresentato dalla nuova forza lavoro che emergeva da un territorio che non ha nessun rapporto con la memoria di classe, e
neppure con la memoria dello sfruttamento, dello sfruttamento secolare[82] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn82). Ma era
proprio in questo quadro che Marchetti, toccando un punto che pi tardi avrebbe ampiamente coltivato anche Berardi, si chiedeva
se avesse ancora un senso parlare di memoria per generazioni destinate a interagire con le macchine in modi completamente
diversi rispetto al passato:
di fronte ai nuovi circuiti che attraversa la memoria, di fronte alla memoria stampata, che cosa succede? Di fronte a un
cervello che non ha pi come livello di apprendistato la scuola o la professionalit operaia allinterno delle scuole
professionali o della fabbrica, ma che impara in un luogo totalmente altro, vale a dire nel tempo libero? [] Che cosa
significa, allinterno della struttura del tempo libero, lavorare il proprio gioco o giocare il proprio lavoro di fronte a un
computer il quale realizza tecnicamente la fusione di comando-esecuzione? I flipper, come voi saprete, sono strumenti
antiquati: ci giocavano gli operai-massa, erano strumenti che lasciavano un margine di creativit, uno spingeva,
quellaltro cercava di far rimbalzare la pallina, e i punti si accumulavano. Provate oggi ad andare di fronte a uno di questi
strumenti di gioco che non danno pi nessuna possibilit che intervenga la mano, la creativit e tutte queste balle che
fanno gioco nellimmaginario del ceto politico degli operai. Probabilmente ci sono altri luoghi di riproduzione dentro i
quali il cervello impara a pensare altre cose, impara a pensare in un altro modo. Questa la memoria di una forza lavoro
senza memoria. una memoria stampata. Una memoria che non prevede pi il ripensamento sullesecuzione. Bene. Che
rapporto esiste tra il tempo libero e le nuove tecnologie introdotte allinterno delle fabbriche? Perch finalmente si lavora
e si gioca con gli stessi strumenti o si comincia a lavorare con gli stessi strumenti con cui si gioca?[83] (http://tysm.org
/franco-berardi/#_edn83)
Molte delle domande che si poneva allora Marchetti, allalba della rivoluzione microelettronica, sono per molti versi le stesse che
continuiamo a porci oggi, e sono anche le stesse che da pi di trentanni indirizzano la ricerca di Berardi sulla mutazione. Forse
ancora pi che per le domande che poneva, lintervento di Marchetti era per significativo perch, negando un valore unificante
alla memoria storica delle lotte, faceva affiorare le lacerazioni che esistevano tra gli stessi ricercatori di formazione operaista.
Allinterno di Primo maggio, accanto alla componente operaista, rappresentata innanzitutto da Sergio Bologna, era tuttaltro
che marginale anche una componente che rimandava alla ricerca sulle forme di espressione spontanee del mondo popolare e
proletario, a Gianni Bosio e Danilo Montaldi: una linea che era rappresentata innanzitutto da Cesare Bermani, ma che si era
saldata con il progetto di ripensamento del concetto di composizione di classe portato avanti dalla rivista anche grazie ad allora
giovani ricercatori come Marco Revelli. Proprio Revelli, che nelle proprie indagini sulla classe operaia torinese aveva portato alla
luce non solo limportanza delle memorie dei vecchi militanti ma anche il ruolo delle memorie contadine degli operai massa
immigrati dal Sud, non poteva evitare di replicare nettamente alle provocazioni di Marchetti, anche perch dietro lesaltazione
della svolta tecnologica, intravedeva tutte le ambiguit della celebrazione di un individuo senza identit:
io credo esista un rapporto strettissimo fra memoria e identit; credo anche che la memoria sia un elemento costitutivo
dellidentit. Stiamo attenti, compagni, a teorizzare il valore positivo e liberatorio della mancanza di identit, perch il
soggetto privo di identit in primo luogo un soggetto disponibile a realizzarsi nella volont di potenza. Mi fa paura
questa esaltazione della mancanza totale della identit, perch lascia aperti spiragli su tempi storici che io non voglio
rivedere. Lindividuo senza identit , a mio avviso, il prototipo delluomo fascista; il prototipo delluomo degli anni 20
che, appunto, attraverso la mediazione con la potenza, ha risolto la propria crisi di identit[84] (http://tysm.org/francoberardi/#_edn84).
La contrapposizione che a Mantova emerse tra la posizione di Marchetti e quella di Revelli era davvero molto simile a quella che
percorreva la riflessione di Berardi in quello stesso periodo. Per un verso, anche Berardi, come Revelli, aveva riconosciuto il ruolo
essenziale della memoria e delle sedimentazioni delle lotte passate per la definizione della composizione di classe. Per laltro,
sviluppando per intero la propria critica della politica, era per giunto a una posizione simile a quella di Marchetti, non solo a
proposito dellassenza di memoria delle nuove generazioni, ma soprattutto a proposito del ruolo sostanzialmente negativo della
memoria e dellidentit. Dal momento che lidentit per Berardi, come si visto, una mappa che pretende di guidare lungo il
percorso, ma mente dato che un meccanismo in base al quale noi pretendiamo di riconoscere, di conoscere gi, di
possedere per appartenenza il sistema di valori, il sistema delle ritualit adatte per tenere il mondo sotto controllo, dato che
lidentit non altro che una menzogna, un fattore di irrigidimento la memoria non pu essere altro che un riflesso
dellidentit, che ne replica il meccanismo. La memoria non un diritto, ma parte dellidentit, scrive per esempio in Heroes,
e lidentit non si fonda sulla memoria, perch semmai lidentit crea la memoria (H 137). La frase La memoria un diritto
non solo una provocazione, dunque, ma una dichiarazione di guerra, dato che memorie diverse confliggono tra loro: una
dichiarazione di guerra senza fine che come per esempio nel caso della fondazione di Israele contenuta come una
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necessit inevitabile nella manipolazione della memoria e del diritto (H 137). Ed proprio per effetto di questa contraddizione
teorica irrisolta tra il composizionismo e la critica della politica che Berardi costretto nel vicolo cieco di un pessimismo
radicale. Un pessimismo che, come si visto, trapela da ogni pagina di Heroes, ma che scaturisce, ben prima ancora che dalla
realt della trasformazione tecnologica e dalla pervasivit della mutazione, dalla stessa impossibilit teorica di concepire il
conflitto.

Rimozioni
Bench le ipotesi di Berardi sul significato del suicidio, come sintomo pi evidente di una psicopatia di massa, possano
apparire unestremizzazione eccessiva, anche altri osservatori delle trasformazioni contemporanee hanno proposto
uninterpretazione simile. Bernand Stiegler ha sostenuto per esempio che la sincronizzazione di massa della coscienza e della
memoria avrebbe prodotto leffetto di uno smarrimento dellidentit soggettiva e, dunque, proprio la distruzione del narcisismo
primordiale potrebbe essere considerata come la causa anche della diffusione dei casi di suicidio/omicidio di massa[85]
(http://tysm.org/franco-berardi/#_edn85). Questa lettura viene tra laltro ripresa da Jonathan Crary nel suo 24/7, la cui
interpretazione generale non appare molto distante, o comunque incompatibile, con la descrizione degli effetti della penetrazione
dellinfosfera proposta da Berardi[86] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn86). Ma stato probabilmente Jean-Paul Gilbert, in
modo certo provocatorio, a sostenere che esiste un legame stretto tra lepidemia di suicidi e la logica dellipercapitalismo,
un modo di distruzione che, come scrive, raggiunge una redditivit assoluta, sfruttando quanti sono capaci di iperlavoro e
distruggendo tutti quelli che non lo sono[87] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn87).
Al di l delle suggestioni di queste letture, a ciascuna di esse e anche a quella di Berardi naturalmente legittimo (e forse
persino doveroso) muovere la critica di un eccesso di semplificazione e di una forzatura provocatoria che finisce col desumere il
tratto di unintera epoca da fenomeni che rimangono marginali. Accantonando simili osservazioni, per evidente anche a chi
sia meglio disposto nei confronti delle ipotesi al cuore di Heroes che nel discorso di Berardi si intrecciano due piani piuttosto
differenti, che pur avendo pi di qualche possibile intersezione reciproca, non inopportuno tenere distinti. Da un lato, infatti, la
lettura di Berardi si concentra sugli aspetti strettamente tecnologici che sarebbero allorigine dellepidemia di suicidi: in questo
caso, riemergono tutti i fili dellanalisi dedicata da pi di un trentennio allinfosfera, alla sua capacit di penetrazione e ai suoi
effetti di desolidarizzazione. In altre parole, seguendo questa prima pista, gli elementi determinanti della psicopatia di massa
devono essere ricercati nella frattalizzazione della percezione di s, ma anche nello squilibrio tra linfinita velocit di
espansione del ciberspazio e la limitata capacit percettiva dellorganismo umano: uno squilibrio da cui come Berardi sostiene
da molti anni scaturiscono tanto il panico quanto la depressione, che possono anche condurre a comportamenti aggressivi e
distruttivi. E Berardi non ha grosse difficolt a considerare come testimonianza estrema di questa tendenza alla
desolidarizzazione i comportamenti degli autori di massacri di massa, o un fenomeno come quello degli Hikikomori giapponesi,
che interrompono volontariamente qualsiasi contatto con altri esseri umani per vivere chiusi nella loro stanza. Accanto a questa
prima linea interpretativa che per molti versi quella cui Berardi ha lavorato con pi insistenza nel corso degli anni si trova
per unaltra argomentazione, che pone in primo piano, pi che gli aspetti strettamente tecnologici, degli elementi politici.
Quando evoca i casi dei suicidi degli operai cinesi che si gettano dal tetto delle fabbriche-dormitorio, quando ricorda la sequenza
di suicidi di dipendenti di France Tlcom, o quando ricostruisce la lunga catena di suicidi di contadini indiani indebitati con la
Monsanto, evidente che allelemento tecnologico non pu essere affidato il ruolo principale. Il fattore a cui pressoch
inevitabile ricondurre questi suicidi semmai una strategia politica di gestione della forza lavoro, e cio una strategia che implica
lesercizio di un potere finalizzato a perseguire gli obiettivi dellazienda. E, in questo caso, la desolidarizzazione non , almeno
principalmente, leffetto di una trasformazione tecnologica e della mutazione antropologica che la accompagna, bens lesito di
una gestione del personale che punta a distruggere qualsiasi coesione tra i lavoratori, per esempio mediante lintroduzione di
criteri meritocratici o rendendo strutturalmente instabile la relazione lavorativa.
Ovviamente si potrebbe obiettare che queste due linee argomentative luna basata sulla dimensione tecnologica della
mutazione, laltra invece sulla dimensione politica della frammentazione del lavoro possono essere ricondotte a una logica
comune, perch, per esempio, le potenzialit delle nuove tecnologie vengono utilizzate per frammentare e frattalizzare il
lavoro, e cio per dissolvere ogni traccia di solidariet fra i colleghi. Bench siano evidenti nella realt i margini di intersezione fra
le due dinamiche, Berardi sembra per privilegiare dal punto di vista teorico la prima linea di argomentazione, e cio quella linea
gi al centro della sua riflessione fin dagli anni Ottanta che si concentra sulle conseguenze strutturali della mutazione, sugli
effetti pressoch inevitabili di desocializzazione e desensibilizzazione. Naturalmente Berardi ha pi di qualche ragione nel
sospettare che questa mutazione abbia conseguenze dirompenti sotto molti profili, anche perch nessuna persona ragionevole
pu liquidare queste fosche previsioni solo in nome del vecchio anatema contro il catastrofismo apocalittico. Ci nonostante, non
si pu evitare di riconoscere che questo modo di interpretare le trasformazioni ha implicazioni notevoli, che non consistono tanto
nella tendenza a considerare il processo come un destino in fondo ineluttabile, quanto soprattutto nella sostanziale rimozione dal
quadro analitico di qualsiasi elemento conflittuale (anche solo potenziale). Se infatti la depressione di massa, insieme alle sue
manifestazioni pi drammatiche, viene intesa come il riflesso di un determinato ciclo storico-politico, o come lesito di strategie di
controllo della forza-lavoro, o anche come la testimonianza di uno Zeitgeist che, celebrando la fine della Storia, sancisce
lesaurimento dellimmaginario progressista occidentale, le conseguenze sono diverse: non tanto perch si venga a escludere che
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il futuro possa davvero procedere nella direzione di una costante desocializzazione e densibilizzazione del mondo, ma perch
lassenza o la presenza di vincoli di solidariet vengono ricondotte a fattori politici, alla contingenza di conflitti che, pur
inquadrandosi allinterno di un determinato assetto tecnologico, non hanno un destino predeterminato. Se invece si attribuisce la
psicopatia di massa alla formazione dellinfosfera, alla proliferazione informativa e alla pervasivit dei flussi comunicativi, alla
frattalizzazione del s, evidente che lunica possibilit di superare questa condizione deve essere collocata su un piano
antropologico: deve cio essere imputata a una modificazione delle modalit di interazione fra essere umano e ambiente
inevitabilmente proiettata in un incerto futuro postumano, e che sarebbe quantomeno ingenuo pensare possa essere
determinata in tempi brevi da unazione politico-culturale. Ed proprio questultima versione a emergere come prevalente nelle
interpretazioni di Berardi, il cui pessimismo non pu per questo non apparire sempre pi cupo e totalizzante, tanto da rendere
persino effimera qualsiasi ipotesi di invertire, o ricombinare, la logica della trasformazione.
A uno sguardo superficiale, il pessimismo di Berardi potrebbe apparire come una sorta di reazione a quellinfatuazione per le
nuove tecnologie di cui furono vittima molti teorici radicali soprattutto negli anni Novanta (e che induce ancora oggi molti esponenti
del post-operaismo italiano a vedere nello sviluppo delle macchine una sorta di pre-requisito per il superamento del
capitalismo). Il pensiero di Berardi, in altre parole, potrebbe sembrare una reazione che, pur rovesciando la logica dellottimismo,
conserverebbe lidea di un processo in fondo irreversibile[88] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn88). Liquidare in questo modo
un percorso di riflessione portato avanti per decenni con passione e coerenza sarebbe per, oltre che ingeneroso nei confronti di
Berardi, anche riduttivo, se non altro perch cos si finirebbero per trascurare le motivazioni che conducono oggi a delineare un
quadro tanto pessimista, nel quale ogni margine di conflittualit sembra assorbito dalla logica totalitaria del semiocapitalismo.
Le radici della posizione cui oggi giunge Berardi come si visto nelle pagine precedenti sono infatti molte profonde, e non
coincidono con quelle che, per esempio, alimentano da pi di quarantanni la ricerca di Negri e di altri esponenti dellItalian
Theory[89] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn89). Le ipotesi che oggi formula Berardi sono anzi proprio lesito estremo di un
percorso che, al principio degli anni Settanta, prese avvio da una critica radicale delle posizioni allora adottate da Negri e da altri
esponenti delloperaismo. Ma forse proprio negli approdi di quella critica che possibile ravvisare i presupposti del cupo
pessimismo cui perviene oggi. Perch, probabilmente, nella negazione del ruolo della dimensione politica o meglio,
nellespulsione dal quadro analitico della politica compiuta da Berardi a partire dagli anni Settanta che si possono ravvisare le
radici del pessimismo che emerge da Heroes e da tutti gli scritti pi recenti di Berardi.
Nel discorso di Berardi c un tratto comune a quello che indirizza le diagnosi formulate negli ultimi anni da Tronti sulla fine della
politica. A dispetto delle enormi differenze che distinguono le due analisi, alla base di entrambe si pu infatti riconoscere lo
stesso presupposto, ossia lidea non sempre esplicitata chiaramente secondo cui solo la concentrazione dei lavoratori in
uno stesso luogo, solo la prossimit, solo la condivisione di uno spazio fisico comune, consentirebbe meccanismi di
ricomposizione. La solidariet sociale, scrive per esempio Berardi, non un valore morale o ideologico: essa dipende dalla
continuit del rapporto tra individui nel tempo e nello spazio, ma a partire dagli anni Ottanta si mise in moto un processo di vera
e propria disaggregazione della composizione sociale operaia, allinterno del quale la precarizzazione realizz la distruzione
della coerenza degli interessi nel campo del lavoro[90] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn90). Per Tronti, invece, la
concentrazione dei lavoratori nel luogo di lavoro determinava le masse, senza fare massa, e cio determinava la nascita delle
masse lavoratrici, sindacalmente e politicamente organizzate, che erano a loro volta il contrario dei processi di massificazione,
indotti dalle produzioni, dai consumi, dalle comunicazioni, appunto di massa[91] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn91). Per
entrambi, il riconoscimento della fine della prossimit e della concentrazione non pu che condurre alla conclusione logica del
venir meno delle basi materiali della solidariet e dunque del conflitto. Ed infatti proprio questo lapprodo cui pervengono
entrambi, nonostante il fatto che Berardi oggi assegni a un elemento tecnico, come la prossimit spaziale, un ruolo cruciale
nella genesi del conflitto sia evidentemente in contrasto con quanto aveva sostenuto negli anni Settanta, a proposito
dellautonomia di bisogni e comportamenti (e bench lenfasi sulla dimensione oggettiva del processo lavorativo sia in patente
contraddizione con la definizione che pi volte ha fornito del composizionismo, una definizione tuttaltro che timida nel
riconoscere il peso fondamentale delle componenti soggettive e politiche, cristallizzate nei rapporti di forza e nella struttura
soggettiva della forza lavoro)[92] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn92).
Unalternativa a questa conclusione cos pessimista potrebbe essere naturalmente rappresentata dal classico ottimismo
post-operaista, che come avviene in modo paradigmatico nella riflessione di Negri assegna al capitale il compito di
predisporre le condizioni per far nascere un nuovo soggetto conflittuale e dunque di plasmare la nuova composizione tecnica da
cui dovrebbe scaturire il volto di una radicale composizione politica. Ma Berardi come si ben capito invece molto
lontano dallassecondare questo atteggiamento, nel quale peraltro continuano a sopravvivere tutti i miti del progressismo
novecentesco (oltre a qualche traccia della vecchia teoria del crollo). Al tempo stesso, proprio per londa lunga della vecchia
critica della politica sviluppata negli anni Settanta, Berardi non pu rinvenire neppure labili tracce di resistenza nelle
sedimentazioni politiche e culturali, come invece fanno per esempio Carlo Formenti e (seppur in termini problematici) lo stesso
Tronti[93] (http://tysm.org/franco-berardi/#_edn93). Come si visto nelle pagine precedenti, agli occhi di Berardi qualsiasi ipotesi
che torni a cercare al livello del politico un livello che comprende non solo la dimensione istituzionale, ma anche la dimensione
delle identit collettive, delle costruzioni culturali, delle forme in cui viene pensato il comune non pu che essere segnato da
uno stigma originario e incancellabile. Ed in fondo proprio per questo che tutta la sua riflessione sul disagio dellipermodernit
deve risolversi in un circolo vizioso che chiude ogni porta allingresso di tensioni conflittuali. Dal momento che qualsiasi forma di
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identit collettiva destinata a rimuovere i bisogni reali, a negare la realt dei comportamenti, a riprodurre i meccanismi
spettacolari della politica, allora la solidariet non neppure pensabile, perch non esiste nessuna base che non sia la base
tecnica offerta dalla stessa cooperazione lavorativa allestita dal capitale in grado di sorreggerla. Detto in altri termini, la
costituzione di un soggetto collettivo e la costruzione di unidentit comune a prescindere dal tipo di identit che si punti a
costruire non pu che proiettare il conflitto, dal piano della vita quotidiana, verso una sfera estranea, verso un conflitto simulato,
verso una contesa i cui protagonisti non sono altro che finzioni che nulla hanno a che vedere con i bisogni individuali. Per quanto
questo discorso abbia senzaltro un fondamento concreto se non altro perch mostra ancora una volta come la politica moderna
sia un regno popolato di finzioni lapprodo non pu che essere un pessimismo implacabile, perch, dinanzi alla penetrazione del
semiocapitalismo, non ci pu essere altro che desolidarizzazione. E dal momento che per Berardi la politica sempre e
inevitabilmente il regno della rimozione, la conseguenza paradossale cui approda la sua ricerca finisce per essere la rimozione
del conflitto, e cio limpossibilit stessa di pensare il conflitto.

Un altro cielo
A dispetto della morsa teorica che stringe Berardi in un pessimismo cos cupo, sarebbe ingenuo pensare di liquidare le sue
argomentazioni come gli inconvenienti di una contraddizione logica. Per quanto risulti segnato da toni tanto foschi, il quadro che
lintellettuale dipinge infatti in gran parte realistico, e in particolare le previsioni che formula sul nostro prossimo futuro e sul
futuro dellUnione Europea andrebbero prese in considerazione molto pi seriamente di quanto si tenda a fare. Il punto per
che il ragionevole pessimismo di Berardi tende a diventare un incubo senza via duscita, descrivendo una traiettoria in fondo non
molto diversa da quella che indusse i filosofi di Francoforte a leggere nella catastrofe tedesca degli anni Trenta il destino
ineluttabile della modernit. A dispetto della sua originalit e delle intuizioni preziose che consegna alla fenomenologia del
presente, il percorso teorico di Franco Berardi e il pessimismo dei suoi approdi sono comunque interessanti anche perch
consentono di ricostruire i meccanismi teorici che condussero buona parte della teoria radicale italiana a rimuovere la politica
(nella sua multidimensionalit) dal proprio spettro di indagine. Dopo gli anni Settanta, una buona parte degli esponenti della teoria
radicale italiana, e in particolare gli eredi delloperaismo, non rinunciarono interamente alle vecchie ipotesi, ma per motivi certo
del tutto comprensibili le declinarono in una direzione che finiva davvero per espellere la politica e tutte le sue dimensioni
problematiche. Abbandonando fra i cascami della storia insieme al leninismo esasperato, al volontarismo estetizzante, al
prometeismo incondizionato cui molti avevano ceduto nel decennio fatale del maggio strisciante anche tutti gli strumenti
della politica novecentesca, quei vecchi protagonisti concentrarono invece i loro sforzi nella costruzione di dispositivi teorici in cui
il mutamento veniva affidato alla logica stessa dello sviluppo, o meglio, a una sorta di rivisitazione allapparenza soggettivista
della vecchia Zusammenbruchtheorie, da cui naturalmente a dispetto dellenfasi sullontologia del soggetto si smarriva
proprio lelemento conflittuale che aveva contrassegnato la differenza italiana. Naturalmente, cos come fu ben lontano dal
cedere al fascino del leninismo, Berardi ha imboccato una strada ben diversa da quella seguita da molti esponenti del postoperaismo e dai pi ottimisti teorici del comune. Ma, pur seguendo una direzione opposta, con unoperazione per molti versi
speculare, ha proceduto a espellere dal proprio campo teorico la politica, considerata semplicemente come un relitto del
passato, come uno strumento inadeguato per fronteggiare la mutazione, oltre che, soprattutto, come uno strumento
inevitabilmente contaminato dal veleno della rimozione della vita quotidiana. E proprio per questo la tenaglia della sua teoria
non pu che chiudere in un pessimismo totalizzante ogni possibilit di conflitto, neutralizzando anche le intuizioni del
composizionismo.
Riconoscere i limiti del pessimismo della ragione cui indulge Berardi non pu certo indurre a ritenere pi meritevole, o
preferibile, un incondizionato ottimismo della volont. Ma forse pu contribuire a confermare la necessit di tenere
teoricamente aperti gli spazi per quanto marginali essi siano con cui pensare le tensioni conflittuali: tensioni che non
scaturiscono dallinflessibile logica provvidenziale dello sviluppo, ma che maturano anche sul terreno scivoloso nel quale si
muovono e si aggregano le identit collettive, i soggetti, le finzioni politiche. Cos, se si vuole evitare che tutti i nostri pi fondati e
meditati motivi di pessimismo vengano a stringere il credibile scenario del disagio dellipermodernit nellabbraccio mortale del
disagio della nostra teoria, diventa infatti necessario riconoscere che, per superare davvero il Novecento e i suoi traumi, non
probabilmente sufficiente rimuovere la politica o cancellarla dal proprio quadro visuale, ma necessario ripensarla, senza
dimenticare naturalmente le sue insidie. Perch la politica anche la dimensione in cui si costruiscono simbolicamente i soggetti
politici, e in cui si ridefiniscono nel conflitto quotidiano le identit collettive. E perch lautonomia del politico, pi ancora che
lautonomia dello Stato dalle logiche dellaccumulazione, identifica lautonomia relativa dei processi di costruzione culturale delle
identit collettive, lautonomia dei processi che plasmano politicamente societ e che danno forma alle sue parti. Ci non
vuol dire naturalmente che la critica della politica non debba restare nel nostro armamentario anche nel mondo post-politico che
ci circonda, che non si debba diffidare delle finzioni che affollano il cielo della politica moderna, o che si debba scambiare
ancora una volta una specifica finzione per lartefice della storia universale. Ma significa piuttosto che per superare davvero il
Novecento diventa oggi indispensabile tornare a confrontarsi con le ambigue suggestioni della politica, con tutte le sue
ingombranti finzioni e con le insidie dei suoi miti. E significa soprattutto che se non terminer leclissi che proietta unombra
tanto sinistra sul nostro futuro davvero diventer indispensabile inventarsi un altro cielo[94] (http://tysm.org/franco-berardi
/#_edn94).
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Note
[1] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref1) S. Freud, Il disagio della civilt (1929), in S. Freud, Il disagio della civilt e altri saggi, Bollati Boringhieri,
Torino, 2012, p. 280.
[2] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref2) Ibi, p. 246.
[3] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref3) Cfr. S. Freud, Psicologia di massa e analisi dellIo (1921), Einaudi, Torino, 2013, in cui da vedere anche
lintroduzione di D. Tarizzo, Quando un popolo muore, ibi, pp. VII-LI.
[4] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref4) Cfr. W. Reich, Psicologia di massa del fascismo (1933), Mondadori, Milano, 1974, E. Fromm, Fuga dalla
libert (1941), Mondadori, Milano, 1994, H. Marcuse, Eros e civilt (1958), Einaudi, Torino, 1967, F. Fornari, Psicanalisi della guerra atomica, Comunit,
Milano, 1964, e Id., Psicoanalisi della guerra (1966), Feltrinelli, Milano, 1988.
[5] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref5) M. Recalcati, Quei ragazzi terroristi in fuga dalla libert, in la Repubblica, 7 febbraio 2015, p. 19.
[6] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref6) In questo articolo alcune opere di Franco Berardi Bifo verranno indicate con le seguenti abbreviazioni,
accompagnate dal numero di pagina a cui rimanda il riferimento: DF = Dopo il futuro. Dal futurismo al Cyberpunk. Lesaurimento della Modernit,
DeriveApprodi, Roma, 2013; E = Exit. Il nostro contributo allestinzione della civilt, Costa & Nolan, Milano, 1997; FC = Finalmente il cielo caduto sulla
terra. Proletariato giovanile e movimento di liberazione, Squilibri, Milano, 1978; FI = La fabbrica dellinfelicit. New economy e movimento del
cognitariato, DeriveApprodi, Roma, 2001; H = Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini & Castoldi, Milano, 2015; I = Dellinnocenza. 1977: lanno
della premonizione, Ombre corte, Verona, 1997, p. 54 (I ed. Agalev, Bologna, 1987); MC = Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari
di fine millennio, Costa & Nolan, Genova, 1994; N = Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione, Castelvecchi, Roma, 1995; SM = Scrittura e
movimento, Marsilio, Padova, 1974; NS = La nonna di Schuble. Come il colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo, Ombre corte, Verona,
2015; TV = Teoria del valore e rimozione del soggetto. Critica dei fondamenti teorici del riformismo, Bertani, Verona, 1977.
[7] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref7) Traggo la formula ipermodernit proprio da Berardi, che qualche anno fa defin in questo modo la fase
storica in cui ci troviamo, in implicita polemica con lidea di postmodernit: Iper leffetto di costante ridefinizione che noi compiamo rispetto al
passato. [] Il prefisso iper rende questo effetto di risemiotizzazione, che si verifica quando alla cognizione sociale data si sovrappone una
macchina enunciativa pi complessa. Nel corso di questa sovrapposizione il mondo esistente non scompare, non viene cancellato e neppure
superato. Piuttosto viene risemiotizzato, cio viene visto secondo una prospettiva che ne muta il significato e il funzionamento. Perci legittimo
definire il passaggio di fine millennio come il passaggio dellipermodernit. Ipermoderno il mondo in cui le realt culturali esistenti, leredit concreta
della storia moderna e della tradizione arcaica, vengono risemiotizzate da un principio di tipo astratto e digitale che tende alluniformit su scala
planetaria. Il principio uniformante della digitalizzazione non cancella le differenze bens le integra, modificandone linterpretazione e la percezione da
parte dei soggetti stessi che in quelle culture vivono (N 167).
[8] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref8) Cfr. F. Berardi, And. Phenomenology of the end. Cognition and sensibility in the transition from
conjunctive to connective mode of social communication, Aalto Arts Books, Helsinki, 2014.
[9] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref9) Cfr. per esempio F. Chicchi G. Roggero, Introduzione. Le ambivalenze del lavoro nellorizzonte del
capitalismo cognitivo, in Sociologia del Lavoro, n. 115, 2009, pp. 7-27, A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma
di accumulazione, Carocci, Roma, 2007, A. Fumagalli S. Lucarelli, A Model of Cognitive Capitalism: a Preliminary Analysis, in European Journal of
Economic and Social Systems, n. 1, vol. 20, pp. 117-133, A. Fumagalli S. Mezzadra (a cura di), Crisi delleconomia globale. Mercati finanziari, lotte
sociali e nuovi scenari politici, Ombre corte UniNomade, Verona, 2011, Y. Moulier-Boutang (a cura di), Let del capitalismo cognitivo. Innovazione,
propriet e cooperazione delle moltitudini, Ombre Corte, Verona, 2002, e C. Vercellone, (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza
nellepoca postfordista, Manifestolibri, Roma, 2006.
[10] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref10) Perch le lotte possano creare un ciclo scrive Berardi, ci deve essere una prossimit spaziale dei
corpi del lavoro, una continuit esistenziale nel tempo. Senza questa continuit e questa prossimit le condizioni perch i corpi cellularizzati possano
divenire comunit non si danno. Il comportamento pu diventare onda solo quando c una prossimit continua nel tempo di cui il semio-lavoro non
dispone pi (H 150-151).
[11] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref11) A questo era dedicato uno degli ultimi scritti di Pino Ferraris, Francia: i suicidi sul posto di lavoro di
dipendenti altamente qualificati (2010), in Progetto Lavoro, n. 16, 2012, pp. 58-63.
[12] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref12) Un documento importante offerto, per questi casi, da P. Ngai J. Chan M. Selden, Morire per un
iPhone. La Apple, la Foxconn e la lotta degli operai cinesi, a cura di F. Gambino e D. Sacchetto, Jaca Book, 2015.
[13] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref13) Come sintetizza Berardi questo passaggio, tuttaltro che secondario: La precarizzazione stata resa
possibile dalla diffusione delle tecnologie informatiche e dalla creazione della rete digitale. Quando la produzione di beni si trasforma in informazione
e la rete diviene la sfera di ricombinazione delle azioni produttive che si verificano in luoghi distanti dello spazio e in momenti distanti del tempo, il
capitalista non ha pi bisogno di comprare tutto il tempo di vita delloperaio, gli bastano solo dei frammenti. La rete la macchina che
incessantemente cattura e ricombina frammenti di info-tempo dalloceano della vita e dellintelligenza sociale. Perci la precariet invade ogni spazio
della vita sociale, e permea le aspettative e le emozioni degli individui il cui tempo frammentato, frattalizzato, cellularizzato (H 215).
[14] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref14) E dunque scrive, proprio alla conclusione di Heroes: Non prendere parte al gioco, non attendere
alcuna soluzione dalla politica, non attaccarti alle cose, non sperare. Lironia distopica il linguaggio dellautonomia. Sii scettico, non credere alle tue
certezze e alle tue previsioni (e neppure alle mie). E non smettere di ribellarti. Ribellarti contro il potere necessario anche se non sai come vincere.
Non appartenere. Distingui il tuo destino dal destino dellumanit. Se vogliono fare la guerra, sii un disertore. Se sono schiavi e vogliono che tu soffra

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come loro, non accettare il ricatto (H 237).


[15] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref15) U. Eco, Anno Nove (1977), in Id., Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano, 1983, p. 61.
[16] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref16) Cfr. per esempio F. Berardi, Prassi e scrittura, in R. Alonge F. Berardi P. Bertetto R. Tessari,
Cultura lavoro intellettuale e lotta di classe, Guida, Napoli, 1973, pp. 135-182.
[17] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref17) A/traverso, Alice il diavolo, LErbavoglio, Milano, 1976. Interessanti per ricostruire le coordinate
teoriche delloperazione, anche F. Berardi, La barca dellamore s spezzata, SugarCo, Milano, 1978, e Id., Chi ha ucciso Majakovskij?, Squilibri,
Milano, 1977, oltre che il saggio di K. Gruber, LAvaguardia inaudita, Costa & Nolan, Milano, 1997, mentre, per una sorta di viaggio dentro le
sperimentazioni del mediattivismo, cfr. F. Berardi, Skizomedia (tre decenni di mediattivismo), DeriveApprodi, Roma, 2006.
[18] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref18) Grande disordine sotto il cielo, in A/traverso, ottobre 1975 (I 54).
[19] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref19) Ibi (I 54-55).
[20] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref20) La traversata del deserto, in A/traverso, giugno 1981 (E 79).
[21] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref21) Berardi ha dedicato alcune considerazioni alla riflessione di Pasolini sulla mutazione, per esempio,
in DF 66-69, oltre che in alcuni articoli apparsi in occasione del quarantennale della morte del poeta: F. Berardi, Lo sguardo lungo di Pasolini, 4
novembre 2015, in zeroviolenza.it.
[22] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref22) Trib videoelettroniche, in A/traverso, giugno 1981, poi ripubblicato in E 82-83.
[23] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref23) F. Berardi, Traiettorie, in F. Berardi F. Bolelli, Presagi. LArte e lImmaginazione visionaria negli anni
ottanta, Agalev, Bologna, 1988, p. 41.
[24] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref24) Ibi, p. 83.
[25] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref25) F. Berardi E. Crosio, Game Over. Poema videolettronico, in A/traverso ottobre 1981, poi
ripubblicato in E 82-83.
[26] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref26) F. Berardi, Laltra faccia del tempo presente, in F. Berardi F. Bolelli, Presagi, cit., p. 11.
[27] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref27) Un segmento del lavoro sociale opposto allaltro, mentre il progetto del 77 consisteva
essenzialmente proprio nella ricomposizione dellinvenzione e della estinzione del lavoro. Il prodotto di questa divergenza tra i due segmenti del
lavoro sociale si oggi consolidato sotto i nostri occhi (I 53).
[28] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref28) F. Berardi, Il paradosso della libert, in Id., Uno sguardo dallesterno. Perdere. Il paradosso della libert,
Agalev, Bologna, 1990, p. 156.
[29] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref29) Ibidem.
[30] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref30) Ibi, p. 159.
[31] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref31) Ibi, pp. 159-160.
[32] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref32) Ibi, pp. 162-163.
[33] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref33) Significativi, anche perch iniziavano a riconoscere limportanza della produzione immateriale,
erano alcuni brevi contributi centrati sulla trasformazione di New York, scritti al principio degli anni Ottanta: cfr. F. Berardi, New York terminal, in
Metropoli, 1980, n. 2, pp. 26-28, e R. De Maria F. Berardi, New York: citt della produzione immateriale, in Metropoli, 1981, n. 6, pp. 59-62.
[34] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref34) F. Berardi, Lavoro Zero, cit., p. 83.
[35] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref35) Il denaro (cio leconomia) e lo Stato (cio la politica) non possono pi governare n disciplinare il
mondo produttivo, quando al centro del mondo produttivo troviamo non pi la forza decerebrata, il tempo di lavoro manuale uguale, quantificabile,
ma il fluido psichico, leterea sostanza dellintelligenza, che sfugge ad ogni misura, che non si pu piegare ad alcuna regola senza produrre enormi
patologie, senza produrre un vero e proprio impazzimento, una vera e propria paralisi nella cognizione e nellaffettivit (ibi, p. 99).
[36] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref36) Cfr. per esempio F. Bolelli, Le nuove droghe. Dalla sintesi vegetale allestasi sintetica, Castelvecchi,
Roma, 1995, e Id., (a cura di), Starship. Viaggio nella cultura psichedelica, Castelvecchi, Roma, 1995, e Id., Vota te stesso, Id., Castelvecchi, Roma, 1996.
[37] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref37) Un esempio era, per esempio, Passaggi e Mutazioni di Fine Millennio (a cura di), Come si diventa
uno zippy. Neo-hippy e tecnologie davanguardia, Castelvecchi, Roma, 1995, ma, in questa esplorazione degli immaginari tecnologici, si inserivano
anche i volumi, curati dallo stesso Berardi, Cibernauti. Tecnologia, comunicazione, democrazia. Elementi di psiconautica, Castelvecchi, Roma, 1994,
Cibernauti. Tecnologia, comunicazione, democrazia. Ciberfilosofia, Castelvecchi, Roma, 1995, e Cibernauti. Tecnologia, comunicazione, democrazia.
Internet e il futuro della comunicazione, Castelvecchi, Roma, 1995.
[38] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref38) Sotto questo profilo, mostrando lindubbia capacit di cogliere il senso delle tendenze, Berardi
riconosceva la pervasivit consentita dalla telefonia mobile: Linfolavoratore si muove [] continuamente lungo le linee di lunghezza, larghezza e
profondit della sfera ciberspaziale; si muove per reperire segni, elaborare esperienza, o semplicemente seguire i percorsi della sua esistenza. Ma in
ogni momento e luogo egli raggiungibile, e pu essere richiamato a svolgere la sua funzione produttiva, e reinserito nel ciclo globale

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dellinfoproduzione. In un certo senso, il cellulare la realizzazione del sogno del capitale che consiste nel succhiare ogni possibile atomo di tempo
produttivo nellesatto momento in cui il ciclo produttivo ne ha bisogno, in modo da disporre dellintera giornata del lavoratore pagando solo i momenti
in cui viene cellularizzato. Linfoproduttore (o neurolavoratore) predispone il suo sistema nervoso come apparato ricevente attivo quanto pi tempo
possibile. Lintera giornata vissuta diviene sensibile allattivazione semiotica, che si fa direttamente produttiva solo quando questo necessario (FI
70).
[39] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref39) Perci, scriveva ancora, il cognitariato va considerato come lagente del processo di
ricombinazione capace di funzionare trasversalmente allintero campo del sociale. Cognitariato larea di coloro che elaborano, creano, fanno
circolare le interfacce tecnolinguistiche, tecnofinanziarie, tecnosociali, tecno-mediche ecc. che innervano sempre pi profondamente la societ
contemporanea. [] Solo coloro che svolgono il lavoro di costruzione degli automatismi possono decostruirli e riorientarli (FI 200-201).
[40] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref40) Cfr., per il concetto di ricombinazione, anche il volume F. Berardi A. Sarti, Run. Forma, Vita,
Ricombinazione, Mimesis, Milano, 2008.
[41] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref41) F. Berardi, Due civilt ripugnanti si fanno la guerra, in AA.VV., La guerra dOccidente. Scenari
dOccidente dopo le Twin Towers, DeriveApprodi, Roma, 2002, pp. 71-72.
[42] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref42) Ibi, p. 73. Cfr. anche F. Berardi, Unestate allinferno, Sossella, Roma, 2002.
[43] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref43) Sulla storia delloperaismo, cfr. almeno G. Trotta F. Milana (a cura di), Loperaismo degli anni Sessanta
da Quaderni rossi a classe operaia, Derive Approdi, Roma, 2008, e il testo di S. Wright, Lassalto al cielo. Per una storia delloperaismo (2002),
Alegre, Roma, 2008.
[44] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref44) Cfr. F. Berardi, Contro il lavoro, Libreria Feltrinelli, Milano, 1970.
[45] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref45) Pi di ventanni dopo, Berardi ripropose questa prospettiva nel volumetto Lavoro Zero, Castelvecchi,
Roma, 1994.
[46] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref46) Per una ricostruzione autobiografica di Berardi, cfr. le interviste riportate in G. Borio F. Pozzi G.
Roggero (a cura di), Gli operaisti, DeriveApprodi, Roma, 2005, pp. 75-88, e A. Grandi, Insurrezione armata, Rizzoli, Milano, 2005, pp. 53-63.
[47] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref47) Nel convegno fiorentino di Potere operaio, tenutosi nel gennaio 1970, il gruppo secondo Berardi
imbocc la strada verso la trasformazione in una sorta di partito neo-bolscevico. Come scrive, a proposito di quella discussione: Potere operaio
perde di vista la specifica novit metodologica e filosofica della sua esperienza politica, per rientrare, armi e bagagli, nella tradizione volontaristica del
marxismo-leninismo scolastico, del dogmatismo terzinternazionalista. In quel momento Potere operaio perde il senso della sua specificit teorica, che
racchiusa nellintuizione che la strategia sta tutta nella composizione sociale, nel divenire intellettuale, culturale, psichico, relazionale, comunicativo,
desiderante della socialit operaia. [] Riproporre il leninismo significa proprio ritornare alla religione volontaristica che ha prodotto il socialismo
reale, lo stalinismo, la violenza autoritaria dei partiti comunisti della Terza Internazionale e cos via (F. Berardi, La nefasta utopia di Potere operaio.
Lavoro tecnica movimento nel laboratorio politico del Sessantotto italiano, Castelvecchi, Roma, 1998, p. 117).
[48] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref48) Forse la pi completa discussione critica della riflessione operaista di Tronti svolta in F. Berardi, The
soul at work. From alienation to autonomy, Semitext(e), Los Angeles, 2007. Berardi ha dedicato anche al pensiero di Deleuze e soprattutto di Guattari
vari scritti, tra cui, in particolare F. Berardi, Felix, Sossella, Roma, 2001. Forse vale per la pensa di ricordare anche F. Guattari, Desiderio e rivoluzione,
a cura di Paolo Bertetto, Squilibri, Milano, 1978, nel quale la voce Bifo compariva spesso come contrappunto polemico a quella del filosofo francese,
soprattutto a proposito della concezione della classe operaia. Berardi per esempio osservava: Sono convinto che il soggetto del processo
rivoluzionario sia e continui ad essere la classe operaia, anche se precisava che con questo termine si dovevano intendere tutti gli strati sociali,
tutte le forme di esistenza, di espressione politica e microstrasformazionale che sono legate al rifiuto del lavoro (ibi, p. 28). Al contrario, Guattari
replicava: La tua definizione della classe operaia non corrisponde alla realt: una definizione ammirevole, ma la classe operaia non questo. La
classe operaia rischia di continuare ad essere il soggetto della storia (ibi, p. 29).
[49] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref49) Cfr. per esempio A. Negri, Partito operaio contro il lavoro, in S. Bologna P. Carpignano A. Negri,
Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 99-193.
[50] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref50) Gruppo Gramsci, Una proposta per un diverso modo di fare politica, in Rosso, n. 7, dicembre 1973, in
L. Castellano (a cura di), Aut.Op. La storia e i documenti: da Potere operaio allAutonomia organizzata, Savelli, Roma, 1980. p. 96.
[51] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref51) Cfr. P.A. Rovatti R. Tomassini A. Vigorelli, Bisogni e teoria marxista, cit., A. Negri P.A. Rovatti A.
Vigorelli, La discussione su i bisogni e il politico, in Aut aut, 1976, n. 155-156, AA.VV., Bisogni, crisi della militanza, organizzazione proletaria, in
Quaderni di Ombre rosse, n. 1, Savelli, Roma, 1977. Per la riflessione sui bisogni di Heller, cfr. soprattutto A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx,
Feltrinelli, Milano, 1974, Id., La teoria, la prassi e i bisogni, a cura di L. Manconi e A. Vigorelli, Savelli, Roma, 1978, e Id., Morale e rivoluzione, a cura di L.
Boella e A. Vigorelli, Savelli, Roma, 1979.
[52] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref52) Cfr. M. Tronti, Sullautonomia del politico, Feltrinelli, Milano, 1977. Una ricostruzione del dibattito
offerta da A. De Martinis e A. Piazzi, Alle origini dellautonomia del politico, in M. Tronti, Soggetti, crisi, potere. Antologia di scritti e interventi, a cura di
Antonio De Martinis e Alessandro Piazzi, Cappelli, Bologna, 1980, pp. I-XXVIII. Tra le critiche a Tronti, particolarmente importante (per la notevole
consonanza con la posizione di Berardi) era quella di F. Stame, Societ civile e critica delle istituzioni, Feltrinelli, Milano, 1977, e Id., Movimento e
istituzioni nella crisi, Savelli, Roma, 1978.
[53] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref53) Nella concezione trontiana dellautonomia del politico, scriveva per esempio nel 1977, scompare la
determinatezza storica, la materialit di classe delle istituzioni in quanto occultata lirriducibilit del soggetto-classe alle leggi delleconomia
capitalistica (TV 17).

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[54] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref54) Lo stesso passo riprodotto, con lievi variazioni, in FC 53.


[55] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref55) F. Berardi, Contro il lavoro, cit., p. 24.
[56] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref56) F. Berardi, La nefasta utopia di Potere operaio, cit., p. 148. Per unaltra definizione di
composizionismo, cfr. anche F. Berardi, The soul at work, cit., pp. 33-34.
[57] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref57) Al proposito rimando a D. Palano, Lultimo lampo del Novecento. Appunti di lettura intorno a Dello
spirito libero di Mario Tronti, in Tysm, vol. 28, 2 ottobre 2015 [http://tysm.org/mario-tronti (http://tysm.org/mario-tronti)].
[58] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref58) M. Tronti, Classe e partito (1964), in Id., Operai e capitale, cit., p. 113.
[59] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref59) M. Tronti, Marx, forza-lavoro, classe operaia, in Id., Operai e capitale, cit., p. 257.
[60] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref60) Lintervento pronunciato da Berardi a nome della sezione fiorentina di Potere operaio al convegno del
gennaio 1970 pubblicato (anonimo) col titolo Teoria, tattica, strategia, in Potere operaio, Atti del convegno di Firenze, Roma, 1970, e ripreso in F.
Berardi, La nefasta utopia di Potere operaio, cit., p. 16 merita di essere riletto, per cogliere la continuit reale tra le ipotesi degli anni Sessanta e il
discorso sul composizionismo: Che la strategia tutta nella classe, questo lassunto da cui la ricerca partita ed ripartita e deve ora ritornare
per poter ulteriormente andare avanti. Strategia sono i grandi movimenti che dentro la masse avvengono, il trasformarsi del proletariato in classe
operaia, lemergere oggettivo di centri direzione politica di coagulo della lotta dentro il tessuto generale della classe. La strategia il modo in cui il
lavoro vivo si compone e organizza la classe operaia, rifiuta se stesso come forza-lavoro, costringe il capitale a subire il dispotismo della sua
organizzazione. Strategia questo processo che si svolge e si realizza.
[61] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref61) F. Berardi, Uno sguardo dallesterno, in Id., Il paradosso della libert, cit., p. 79. Pi precisamente,
osservava: Alla politica deve sostituirsi una paradigmatica, in quanto il campo delle scelte si trasferisce dallambito della decisione politica allambito
dei paradigmi fondamentali che mettono in forma lintero sistema della percezione e della proiezione, ma quindi anche lintero sistema delle abitudini
di vita, degli stili, delle attese e dei bisogni, e di conseguenza anche di produzione e di consumo (ibi, p. 78).
[62] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref62) F. Berardi, La sollevazione. Collasso europeo e prospettive del movimento, Manni, Lecce, 2011, p. 60.
[63] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref63) Il nodo dei movimento toccato anche in F. Berardi, Sciame/interruzione, in A. Simoncini (a cura di),
Una rivoluzione dallalto. A partire dalla crisi globale, Mimesis, Milano, 2012, pp. 125-162.
[64] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref64) Alla fine dellestate, scrive, quella speranza sfumata per lasciare il posto a unagonia rancorosa.
chiaro a tutti che il progetto europeo irrimediabilmente fallito, anche se non si pu dire. Gravemente indebolito dalla crisi finanziaria del 2008,
politicamente fragile e scarsamente democratico (per usare un eufemismo), stato colpito al cuore dallarroganza del governo tedesco e dallottusit
della grande maggioranza (occorre dirlo) del popolo tedesco (NS 13) Ma aggiunge anche, contro ogni speranza di rivalsa: Da trentanni ormai, ogni
battaglia, ogni scontro, ogni confronto con la realt si risolvono in un arretrare della societ, per ricomporre le fila qualche metro pi indietro,
pensando che al prossimo assalto resisteremo, e che forse inizieremo la riscossa. ora di piantarla: non ci sar resistenza, non ci sar riscossa. Non
ci sar sinistra, perch nel Novecento la sinistra ha compiuto le scelte che hanno portato i lavoratori alla sconfitta e alla subalternit (NS 14-15).
[65] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref65) Per la verit, non si pu dire che Berardi non avesse compreso, almeno in parte, la logica di
Maastricht, perch per esempio aveva scritto: Il Trattato di Maastricht appesta le societ europee, nella produzione nella cultura nella psiche e nella
vita quotidiana. Non si potrebbe immaginare un percorso pi assurdo per costruire unentit politica viva di quello scelto da coloro che hanno avviato
lunificazione europea sulla base di un vincolo finanziario che costringe entro i suoi parametri ogni formula di vita sociale. Cfr. F. Berardi, Politiche
nEUROPAtogene, (1996), in NS 41.
[66] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref66) Con estrema franchezza, scrive: Fin che noi allocchi, guidati dai super-allocchi Dani Cohn-Bendit e
Toni Negri, ci ritrovammo a sostenere il s insieme al programma dei truffatori neoliberisti, mentre i fascisti del Front National interpretarono un
sentimento maggioritario, e vinsero il referendum (NS 29).
[67] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref67) In un saggio sul pensiero di Deleuze e Guattari, Berardi scrive, sempre in questa direzione: La
politica del futuro non assomiglier a quella del passato. La politica del futuro, poi: chiss se c il futuro? Chiss se c la politica? Se vogliamo
immaginarci un Che fare? Come agire? Come immaginare?, dovremmo farlo ipotizzando lidea (che naturalmente riconduce a Deleuze e
soprattutto a Guattari) che non ci sar politica. Ci sar terapia: e la terapia , in una certa misura, destinata a prendere il posto della politica. [] Non
credo che potremo mai disinnescare la bomba psichica con gli strumenti della politica; con gli strumenti della terapia schizoanalitica forse s, ma
questi sono in gran parte da inventare. In questo senso, forse, il terreno della sofferenza, della sofferenza psichica, probabilmente quello su cui
diventer pi facile costruire comprensione, condivisione. Cfr. F. Berardi, Introduzione al pensiero DG. Che cosa c dopo la fine del futuro?, in A.
Simoncini (a cura di), Dal pensiero critico. Filosofie e concetti per il tempo presente, Mimesis, Milano, 2015, pp. 210-212.
[68] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref68) F. Berardi, Come si cura il nazi. Iperliberismo e ossessioni identitarie, Ombre corte, Verona, 2009, p. 74
(I ed. Castelvecchi, Roma, 1993).
[69] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref69) Composizione della classe, in Classe Operaia, 1965, n. 1, p. 8.
[70] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref70) r.a. [Romano Alquati], Una ricerca sulla struttura interna della classe operaia in Italia, in Classe
Operaia, 1965, n. 1, p. 8.
[71] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref71) S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, in S.
Bologna et al., Operai e Stato. Lotte operaie e riforma dello stato capitalistico tra rivoluzione dOttobre e New Deal, Feltrinelli, Milano, 1972, pp. 13-46.
[72] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref72) Cfr. C. Bermani (a cura di), La rivista Primo maggio. 1973-1988, Derive Approdi, Roma, 2010. Ma, su

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questa riflessione, rimando anche a Nel cervello della crisi. La storia militante di Sergio Bologna tra passato e presente, in tysm literary review,
2013, n. 6 [http://tysm.org/wp-content/uploads/2013/11/Damiano-Palano-La-storia-militante-di-Sergio-Bologna.pdf (http://tysm.org/wp-content/uploads
/2013/11/Damiano-Palano-La-storia-militante-di-Sergio-Bologna.pdf)].
[73] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref73) Primo Maggio, Otto tesi per la storia militante, in Primo maggio, 1978, n. 11, p. 62.
[74] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref74) A questa convergenza (che in realt non ebbe mai alcuno sviluppo politico-teorico), Berardi si riferisce
per esempio in testimonianze riportate in A. Grandi, La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio, Einaudi, Torino, 2003, pp. 115-116.
[75] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref75) F. Berardi, La nefasta utopia di Potere operaio, cit., p. 18.
[76] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref76) Per evitare fraintendimenti, opportuno osservare che lespressione lavoro necessario pu essere
utilizzata (ed spesso utilizzata anche allinterno della riflessione operaista e soprattutto post-operaista), in modi differenti e con implicazioni teoricopolitiche persino opposte. Berardi utilizza infatti lespressione lavoro necessario per esplicitare lidea secondo cui la componente di lavoro umano
nel processo di produzione si riduce sempre di pi, in conseguenza della sostituzione del lavoro umano con processi automatizzati. In questo senso,
per esempio, negli anni Settanta scriveva: La forma principale della modificazione tecnologica, della composizione organica del capitale, nel modo
in cui si d, aumento dello sfruttamento operaio, aumento della capacit di dominio del capitale sul lavoro. La riduzione del lavoro necessario, se
segna una accresicuta capacit produttiva degli operai, si accompagna per a un aumento di plusvalore relativo, della quantit sottratta al lavoro
nellunit di tempo. La riduzione del tempo di lavoro necessario rende possibile la sostituzione del lavoro vivo; linteresse storico degli operai la
riduzione del lavoro, ma luso che il capitale ne fa nel senso contrario allinteresse operaio (FC 39). Secondo luso che ne fa Marx nel Primo libro del
Capitale, il tempo di lavoro necessario identifica invece la parte della giornata lavorativa nel quale loperaio produce solo il valore della propria
forza-lavoro, cio il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, col risultato che, come si legge nel settimo capitolo: La parte della sua
giornata lavorativa chegli consuma a questo scopo maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli
sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione (K. Marx, Il Capitale. Per la critica delleconomia
politica, Editori Riuniti, Roma, 1989, I, p. 249). Nella prospettiva della rivoluzione copernicana introdotta dalloperaismo, il lavoro necessario,
inteso come frazione della giornata lavorativa necessaria per riprodurre il valore della forza lavoro, non determinata da fattori oggettivi, ma il
risultato della sedimentazione dei conflitti. Proprio in questo senso nella composizione di classe si trova fissato il livello storicamente consolidato
del lavoro necessario (ossia il costo della riproduzione della forza lavoro che la classe operaia stata in grado di imporre con le proprie lotte), e per
questo il saggio del plusvalore (dato dal rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario) determinato non solo da fattori tecnici e oggettivi, ma anche
da un elemento politico come il livello del lavoro necessario, materializzato nel salario necessario. Lo stesso Negri adottava questa seconda
accezione in diversi scritti degli anni Sessanta e Settanta. Nel 1968 scriveva per esempio che il ciclo dello sviluppo funziona e si articola sullo
scontro di due strategie: quella operaia che dal livello della mera esistenza si svolge sino a comprimere il profitto mediante linnalzamento del salario
necessario, quella del padrone collettivo costretto a rispondere strategicamente allattacco operaio e quindi a muovere lintero proprio potenziale
economico e politico in questo scontro. Cfr. A. Negri, Marx sul ciclo e la crisi (1968), in S. Bologna et al., Operai e Stato, cit., p. 214. Alcuni anni dopo,
adottava questo schema per interpretare la crisi dello Stato-piano: Lo Stato delle proporzioni determinate caduto dinanzi alla massificazione
delle lotte, allestendersi della richiesta di salario caduto nello scontro che gli opponeva il lavoro astratto unificatosi come prassi collettiva nella
richiesta di un innalzamento del valore del lavoro necessario. Ci ha prodotto quello scarto delle proporzioni determinate fra lavoro necessario e
pluslavoro che si chiama inflazione (A. Negri, Crisi dello Stato-piano, Feltrinelli, Milano, 1974, p. 32).
[77] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref77) Il soggetto qualcosa di costituito, di solido, qualcosa che ha a che fare con la verit in una certa
maniera, scrive Berardi, mentre per Deleuze e Guattari limportante non il soggetto, non la soggettivit; ci che conta la soggettivazione, cio il
processo attraverso il quale si costituisce e si definisce il campo della soggettivit (F. Berardi, Introduzione al pensiero DG. Che cosa c dopo la fine
del futuro?, cit., p. 206). NellAnti-Edipo, Deleuze e Guattari contrapponevano per esempio il gruppo assoggettato, nel quale la produzione
desiderante viene schiacciata, al gruppo soggetto, un gruppo cio in i cui investimenti libidinali sono in s rivoluzionari. Cfr. G. Deleuze F.
Guattari, LAnti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), Einaudi, Torino, 2002, p. 400.
[78] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref78) C. Bermani F. Coggiola (a cura di), Memoria operaia e nuova composizione di classe. Problemi e
metodi della storiografia sul proletariato, Maggioli, Rimini, 1986.
[79] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref79) Ibi, p. 350.
[80] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref80) Ibi, p. 351.
[81] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref81) Cfr. A. Negri (Erkenntnisstheorie. Elogio dellassenza di memoria, in Metropoli, n. 5, 1981, poi in Id.,
Fabbriche del soggetto. Profili, protesi, transiti, macchine, paradossi, passaggi, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo ontologico, XXI Secolo,
Livorno, 1987, p. 160.
[82] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref82) C. Bermani F. Coggiola (a cura di), Memoria operaia e nuova composizione di classe, cit., p. 352.
[83] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref83) Ibi, pp. 352-353.
[84] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref84) M. Revelli, Osservazioni e riflessioni sullinchiesta operaia, in C. Bermani F. Coggiola (a cura di),
Memoria operaia e nuova composizione di classe, cit., p. 454.
[85] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref85) B. Stiegler, Passer lacte, Galile, Paris, 2003.
[86] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref86) Cfr. J. Crary, 24/7. Il capitalismo allassalto del sonno (2013), Einaudi, Torino, 2015.
[87] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref87) J.-P. Galibert, Suicidio e sacrificio. Il modo di distruzione ipercapitalistico (2012), Stampa Alternativa,
Viterbo, 2015, p. 16. Secondo largomentazione di Galibert: Lipercapitalismo non si accontenta di estorcere qualche ora al giorno di lavoro non
pagato. Pretende e ottiene la totalit della vostra esistenza: vuole che gli sacrifichiate tutta la vostra vita. E vi lascia liberi di scegliere il modo in cui

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Damiano Palano: La fabbrica della disperazione

http://www.sinistrainrete.info/teoria/6642-damiano-palano-la-fabbrica-...

offrirgliela: tutta insieme, oppure un po alla volta, goccia a goccia, accettando liperlavoro permanente che vi viene proposto. Lipercapitalismo
spinge al suicidio, perch suscita le due forme di sacrificio assoluto da cui trae profitto; il sacrificio definitivo del suicida e il sacrifico permanente del
suicidiario. Le societ della disciplina e del controllo cedono ormai il passo alle societ del sacrificio (ibi, p. 19).
[88] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref88) Per uno sviluppo di questa critica rinvio a D. Palano, Il bandolo della matassa. Forza lavoro,
composizione di classe, capitale sociale: note sul metodo dellinchiesta, in Intermarx, 2001 [www.intermarx.org], ora in Id., Il bandolo della matassa.
Pensiero critico nella societ senza centro, Multimedia Publishing, Milano, 2009, pp. 115-167, e Id., Dioniso Postmoderno. Classe e Stato nella teoria
radicale di Antonio Negri (2000), Multimedia Publishing, Milano, 2008, oltre che a Id., The excesses of cognitive capitalism, in Historical Materialism,
n. 3, 2013, pp. 229-245.
[89] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref89) SullItalian Theory, cfr. D. Gentili, Italian Theory. Dalloperaismo alla biopolitica, Il Mulino, Bologna,
2012, D. Gentili E. Stimilli (a cura di), Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, Derive Approdi, Roma, 2015, A. Toscano L.
Chiesa (eds.), The Italian Difference. Between Nihilism and Biopolitics, Re.Press, Victoria Australia, 2009, ma anche R. Esposito, Pensiero vivente.
Origine e attualit della filosofia italiana, Einaudi, Torino, 2010, e A. Negri, La differenza italiana, Nottetempo, Roma, 2005.
[90] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref90) F. Berardi, La sollevazione, cit., pp. 111-112.
[91] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref91) M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma, 2009, p. 58.
[92] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref92) Per un esame del percorso di Tronti, rinvio in particolare al saggio Il crepuscolo delloperaismo (2001),
compreso in D. Palano, I bagliori del crepuscolo. Critica e politica al termine del Novecento, Aracne, Roma, 2009, pp. 69-160, e a Id., Lultimo lampo del
Novecento, cit.
[93] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref93) Per quanto riguarda Formenti, la sua rivalutazione della dimensione dellautonomia del politico
emerge soprattutto in C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea, Milano, 2011, e Id., Utopie letali. Contro lideologia
postmoderna, Jaca Book, Milano, 2013. Al proposito, rinvio alle considerazioni svolte in D. Palano, Lenin a Pechino? Leggendo Utopie letali di Carlo
Formenti, in Tysm, vol. 10, n. 15, giugno 2014.
[94] (http://tysm.org/franco-berardi/#_ednref94) F. Berardi C. Formenti, Leclissi. Dialogo precario sulla crisi della civilt capitalistica, Manni, Lecce,
2011, p. 78.

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