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Gianni Celati

Angelica che fugge. Una lettura dellOrlando


Furioso
da griseldaonline, Marzo 2015

1. Eroi che girano a vuoto


All'inizio del poema ariostesco, Angelica che fugge nella selva ci trascina subito in un mondo dove
tutti agiscono in stati di incantamento o di fissazione prodotti dal gioco della sorte. La bella
Angelica fugge sul suo palafreno dal campo cristiano e incontra il paladino Rinaldo, che lei detesta
fin dal poema di Boiardo perch ha bevuto alla fontana del disamore, mentre Rinaldo l'ama e
l'insegue perch ha bevuto l'acqua dell'amore. E' l'inverso dell'inizio boiardesco, dove Angelica
inseguiva Rinaldo avendo bevuto alla fontana dell'amore, e Rinaldo la fuggiva avendo bevuto a
quella del disamore. Tutto sboccia di qui, su uno sfondo di vita vegetale, dove ci sono solo percorsi
erratici, gesti iperbolici, meraviglie dell'amore e dell'odio, e dove ognuno si perde correndo dietro
alle proprie fissazioni.

Subito, con Angelica che fugge e i suoi spasimanti che l'inseguono, duellano, ansimano per
possederla, ma poi non combinano niente, c' il senso d'un girare a vuoto che pare insensato, vano e
mattoide. Questi eroi che girano a vuoto sembra che non sappiano cosa stiano facendo, trascinati dai
furori maniacali dell'amore e dell'odio, da moti di attrazione e repulsione, secondo lo schema delle
due fontane. In loro non c' parvenza d'una libera volont di agire, nessuna traccia di quella
disgrazia che chiamiamo psicologia - solo teatrali sussulti, con risposte fisse in conseguenza di
eccitazioni esterne che li colpiscono. Poi, che gli eroi cavallereschi siano colpiti da una spada, da
una minaccia, da un grido di sfida o da un viso di donna (come "l'angelico sembiante" della nostra
eroina), la loro reazione sempre uguale; un furioso e automatico slancio verso la fonte dello
stimolo, verso lo scontro o l'inseguimento, dove la massima esaltazione legata alla gioia
bambinesca del cozzare e del percuotere.

Con tanti sfrenati slanci, si direbbe che girare a vuoto sia il loro destino naturale, per eccesso di
ardori. Angelica fugge da Rinaldo e incontra Ferra, il quale inizia un duello con Rinaldo per amore
di Angelica, che per gi fuggita di nuovo; nel frattempo, in questa selva dove tutti si perdono e si
ritrovano, Sacripante sta lamentandosi perch teme che un altro abbia colto il fiore verginale di
Angelica prima di lui; cos appena lei appare si dispone al "dolce assalto". Figuriamoci se combina
qualcosa - interrotto dall'arrivo della guerriera Bradamante, con cui inizia un duello; lei lo butta a
terra con un colpo di lancia, e via che parte alla ricerca del suo amato Ruggero, mentre arriva il
sudato Rinaldo che inizia un altro duello con Sacripante, e Angelica fugge di nuovo, etc.

Tutti ripetono le stesse mosse, e ogni incontro non fa che distrarci dal precedente; le azioni
rimangono sempre sospese, e gli eroi si disperdono verso altre gesta che saranno interrotte da nuove
distrazioni. Ci che fa germinare le trame non il significato o lo scopo delle azioni in corso, bens
le distrazioni che la rilanciano verso altre imprese e altri tragitti. Questa una specie di regola nei
poemi cavallereschi, dove c' sempre l'arrivo d'un messaggero che richiama l'eroe da un'altra parte,
o d'un altro cavaliere con cui ha inizio un nuovo duello, o d'una dama da soccorrere correndo verso
altre avventure. Non c' mai un duello, un incontro o uno scontro che vada in porto, salvo rari casi
che servono a concludere un ciclo di episodi. Il principio attivo del narrare qui l'arte del distrarsi
da ci che si sta narrando, come per una smemoratezza che ci devia verso nuove fantasie, ossia
verso altri giri a vuoto. Ogni linea d'azione ci porta sempre verso nuove trame, su tragitti divaganti
per distrazione da una meta; e ci che conta alla fine, non il senso delle imprese cavalleresche, ma
il disegno delle linee che tracciano, con cui le peregrinazioni eroiche prendono la forma di intrichi o
di arabeschi.

2. Eroi come maniaci selvatici


Nei poemi cavallereschi c' una riduzione d'ogni fantasia a puri moti fisici, dove anche i sentimenti
si manifestano come azione materiale di corpi che si scontrano - dall'amore inteso come "assalto",
fino ai pensieri che turbano la mente, spesso indicati da Ariosto come l'azione fisica di qualcosa che
"rode e lima" il cervello (I, 3; I,31; I,41). E' questa passione per la meccanica degli urti, delle spinte
inerziali dei corpi, che crea le meraviglie iperboliche delle gesta, sempre come moti fisici
irrefrenabili e maniacali maniacali perch danno il senso dellidea fissa, della reazione automatica
in rapporto a uno stimolo.

Gli eroi cavallereschi sembrano tutti dei monomaniaci, che ispirano una forma di divertita simpatia
o di riconoscimento familiare, come chi torna sempre alle proprie idee fisse e non riesce a vedere
altro. Ognuno ha la sua idea fissa che decide del suo destino, e Orlando va dietro alla fissazione di
raggiungere Angelica, Rodomonte di ergersi come il flagello del mondo, Marfisa di dimostrare il
proprio grande valore, Bradamante di ricongiungersi con l'amato Ruggero, Mandricardo di
mostrarsi il guerriero pi spavaldo che ci sia, Gradasso di conquistare la spada Durindana, Angelica
di sfuggire ai suoi spasimanti, etc. Questo l'unico senso e scopo dei loro comportamenti, la freccia
che definisce la direzione dei loro vagabondaggi da perpetui agitati, senza soste, senza riposo.

Ariosto non usa mai il termine "mania", ma tutto il suo poema pervaso dal gusto di narrare l'eterno
ritorno di moti bradi, di reazioni selvatiche, con la riconoscibilit di manie tipiche e proverbiali.
Non la mania ispirata da un dio, di cui parla Platone, e neanche una nozione patologica come nella
psicologia moderna. Le furie di Orlando, di Rinaldo, di Rodomonte, degli altri sono qualcosa come
l'incaponimento d'un animale per montare la femmina, o per scornare i rivali, o per dominare il
gregge, la mandria, il gruppo. Rispetto al gregge umano generico, l'eroe cavalleresco ha lo stesso
ruolo del montone tra le pecore, del toro nella mandria bovina, o del gallo nel pollaio; e le sue
turbolenze sono come quelle d'un montone o d'un toro che si lancia a testa bassa guidato da stimoli
beluini.

Non un caso se il mondo selvatico della foresta il teatro naturale degli eroi maniaci, lo sfondo
d'ogni duello e sperdimento, dove appena s'annuncia uno scontro scattano similitudini plurime ad
amplificare l'azione con metafore animali e vegetali. Cos, se due eroi combattono, tutta la foresta
trema o geme ai loro colpi; se si attaccano, sono come cani che si mordono, o montoni che cozzano
l'un con l'altro; se il nemico arretra davanti alla furia di Ruggero, sempre come una lepre in fuga;
se Rodomonte impazza per le vie di Parigi, come un toro che carica la folla; se Mandricardo agita
la spada, come un vento alpino che scuote la frondosa selva di marzo.

E' la similitudine a definire la tempra d'ogni eroe, come un emblema appeso alle sue azioni.
Rispetto a Boiardo e Pulci, in Ariosto c' una straordinaria crescita di similitudini a grappoli;
soprattutto con la vita vegetale e animale, pastorale o silvestre - similitudini che rimandano alla vita
fuori dalle mura cittadine, e danno ai furori eroici il senso di fenomeni naturali o di proverbiali
tropismi d'un mondo selvatico. D'altronde un eroe cavalleresco in una citt non ci sta a far niente;
una comparsa rara che viene a mettere tutto in subbuglio, come se fosse totalmente inadatto a quella
vita. Selvatica Angelica che fugge "tra selve spaventose e scure", lanciando spesso alte grida;
selvatico il gentile Ruggero quando si lancia tra i nemici; non parliamo del bestiale Rodomonte e
del feroce Mandricardo; e quanto a Orlando, che vaga impazzito d'amore, nudo e villoso, incarna
precisamente la figura popolare dell'uomo selvatico.

Ma la selvatichezza maniacale si vede soprattutto quando la furia d'un eroe s'abbatte su masse di
corpi anonimi, chiamate "populazzo vile", "sciocca folla", sciocca turba, sterminando eserciti o
folle che incontra sul suo cammino. Ed l'apice della gioia dei cozzi e delle percosse, quando il
poeta pu raccontare un massacro di folle in fuga, con pezzi di corpi scaraventati in aria, teste rotte
e ossa sbriciolate - immagine della mandria schiacciata dall'animale dominatore. Qui si nota la
differenza tra destino eroico e non eroico: dove il destino eroico corrisponde a un invasamento
selvaggio incontenibile, mentre il destino non eroico quello del gregge umano generico, fifone e
sciocco. E tanto le masse umane generiche sono volubili, pronte all'attacco o alla fuga secondo
come tira il vento ( la regola anche in Boiardo), altrettanto fissati sono gli eroi nei loro furori,
nell'incaponimento dei cozzi e percosse.

3. Schema paradossale della mania


Nella tradizione del romanzo cavalleresco, la mania specchio di moti selvatici proverbiali
finisce per collegarsi all'idea d'una follia fantastica che viene dalla tradizione lirica. Si pu pensare
al farnetico visionario di Dante nella Vita nova; ma ci si avvicina di pi pensando allincanto
amoroso in Petrarca, figurato come una trappola dove il pensiero si impania. Nelle liriche di
Petrarca, come in quelle molto petrarchesche di Ariosto, abbondano le metafore della trappola
amorosa, definita "rete", "nodo", "laccio", che sempre tessuta con chiome d'oro, come quelle della
bionda Angelica. Questo lemblema della mania amorosa in cui il poeta si incanta - ad esempio
nei sonetti ariosteschi: "La rete fu di quelle fila d'oro/ in che 'l mio pensier vago intric
l'ale..."(sonetto IX). E chi cade nella trappola di quella bionda malia, si trova non tanto a inseguire
una donna quanto unimmagine verso cui volano sempre i suoi pensieri: Non sarei di vedervi gi s
vago/ sio sentissi giovar, come la vista,/ laver di voi nel cor sempre limago (sonetto XVII).

Linseguimento a volte figurato come una cavalcata, una corsa sul sentiero dellerrore, dove
loggetto del desiderio fugge. E uno scenario petrarchesco che d alla passione amorosa il senso
dun incantamento destinato a restare unidea fissa e insensata. Perch limmagine inseguita sfugge
a ogni cattura, a ogni richiamo, mostrando il paradossale schema dinamico della mania: quanto pi
x linsegue, tanto pi y sfugge, per cui x e y resteranno sempre alla stessa distanza, e la trappola
damore appunto questa incolmabile distanza di fuga dellimmagine. Schema petrarchesco che si
pu applicare a tutti gli incantati cavalieri di Ariosto, innamorati o no, perpetuamente vaganti dietro
a unidea fissa. E il loro destino derranza figurato in epitome dai vagabondaggi di Orlando che
insegue Angelica fino all'impazzimento bestiale, dove la storia d'Orlando non fa che portare a
dimensione epica alcune metafore di Petrarca, come ad esempio: "S traviato 'l folle mio desio/ a
seguitar costei che 'n fuga volta...".

Angelica chiaramante un calco dell'immagine amorosa petrarchesca; e il suo nome non che
l'antonomasia della donna come "angelico sembiante", figura centrale della lirica amorosa. Ora, la
mossa narrativa nuova e strabiliante di paracadutare tale delicata figurina nel mondo selvatico,
tutto fisico, degli eroi maniaci che agiscono solo per incaponimenti beluini. Ed una novit che fin
dalla sua apparizione (in apertura del poema di Boiardo) mette in subbuglio tutto luniverso
cavalleresco. Perch, con la sua perpetua sfuggenza, Angelica subito come il motore, il primum
mobile dei giri a vuoto; la spinta inerziale dei moti maniacali; la traccia da cui nascono tutti gli
inseguimenti, tutte le trame. Lei incarna le proiezioni su cui lincantamento si fissa, il filo doro
con cui si ordiscono i nodi, le reti del desiderio.

Per questo Angelica la grande invenzione che rivoluziona il romanzo cavalleresco. Grande
invenzione di Boiardo, il quale la presenta come una maga che scatena invasamenti maniacali con le
proprie malie (Orlando innamorato, libro primo, 1,37). Ariosto la cita come "angelico sembiante",
"sembianza", parvenza che scompare (XI,8), "imago" (XII, 26); tutte metafore di un desiderio
puntato non tanto sulla donna quanto sulla sua immagine, come nelle liriche amorose del nostro
poeta: "l'aver nel cor di voi sempre l'imago". Ma nel nostro poema "imago" indica anche le figure
magiche con cui suscitare un incantesimo, come nel caso del mago Atlante che crea un castello dal
nulla per incanto (XXII, 23). E unaccezione diffusa del termine, riferita ai libri di magia, che
ricorre gi in Dante: "fecer malie con erbe e con imago" (Inferno, XX,123).

Come figura della malia e dell'incanto amoroso, Angelica un'inafferrabile "imago", che produce i
suoi effetti magici a distanza. Non un carattere con una sostanza psicologica, ma una traccia che
crea un intrico di inseguimenti a vuoto; romanzesco simulacro per suscitare il film dei desideri. Di
lei sappiamo solo che bionda, giovinetta di bellezza assoluta, e detentrice di un anello magico che
ha il potere di dissolvere gli incanti e di farla sparire. L'anello riassume la sua potenza di figura che
fuggendo o svanendo produce effetti di invasamento insensato: "donde lor sparve subito agli occhi,/
e li lasci come insensati e sciocchi" (XII,34). E gi da una delle prime scene nel poema di Boiardo,
quando svanisce nell'aria agli occhi dello strabiliato Ferra, fissata questa sua specialit di
mostrarci l'incanto dei desideri come potenza di immagini vane e sfuggenti.

4. Lincatturabile oggetto dei desideri


Si capisce perch questi eroi siano destinati a girare a vuoto in preda a una follia fantastica.
Neanche uno dei loro inseguimenti e desideri va in porto, n quello di Orlando e di tutti gli altri che
spasimano per Angelica, n quello di Gradasso che sogna di conquistar la spada Durindana, n
quello di Rodomonte di ergersi come il flagello del mondo. Neanche gli innamorati si ricongiugono
mai felicemente, n Zerbino e Isabella, n Brandimarte e Fiordiligi, n Olimpia col suo sposo
traditore. Lo schema paradossale della mania, dove il desiderio non pu mai raggiungere la cosa
inseguita, tiene in piedi tutte le trame del poema, senza eccezioni. (Quanto a Ruggero e
Bradamante, ci vuole il destino scritto nelle stelle, annunciato nel poema boiardesco, per trasgredir
questa regola e farli convolare a nozze).

Nel XII e XXII canto c' una spiegazione del moto errabondo a cui portano le idee fisse,
spiegazione in termini esemplari, da imparare a memoria. Qui si parla del palazzo incantato del
mago Atlante, il quale tiene prigionieri molti eroi con il trucco magico di far apparire a ognuno il
simulacro della cosa o della persona che va inseguendo. La mania un gioco di simulacri in cui
ognuno vede la propria fissazione, e "a tutti par che quella cosa sia/ che pi ciascun per s brama e
desia" (XII, 20). Cos ognuno corre dietro a una pura proiezione dei propri desideri, dei propri
amori o od, suscitata dal mago Atlante con la visione della sua idea fissa: "fingendo la sua imago"
(XXII,26).

Da notare la funzione della "imago", delle immagini, che sono schermi vuoti in cui ciascuno
proietta il film dei propri desideri. Sicch, inseguendo la stessa vana "imago", Orlando crede di
correre dietro ad Angelica, Ruggero crede di inseguire Brandamante, etc. Come nelle figure
magiche degli incantesimi, "l'imago" potente proprio perch non ha sostanza, solo una "finzion
d'incanto", che suscita mobilit del corpo o dei pensieri. Ma anche il segno che l'inseguimento dei
desideri un continuo girare a vuoto "per vani sentieri", e che l'oggetto d'ogni desiderio
irraggiungibile. Poi, dato che ognuno vede nel vuoto schermo delle immagini "quel che pi brama e
desia", la mania risulta un incantamento di cui ognuno prigioniero durante il suo peregrinare nel
mondo; come Orlando in cerca di "colei che nel carcere d'Amor lo tenea chiuso" (XII,66). E le idee
fisse degli eroi ariosteschi funzionano sempre come quelle della mania amorosa, che l'epitome di
tutte le manie - sono un richiamo che si segue senza poter fare altro, l'incaponimento dei cavalieri
votati al perpetuo errore dei desideri.
Nello stesso tempo, la contentezza che il poema ariostesco riesce a darci subito, con la fuga di
Angelica, appunto quella della mobilit continua, del perdere la meta per "vani sentieri", nel
dedalo di vagabondaggi in cui si sperdono i maggiori eroi. L'effetto dello sperdimento crea uno
stato di sospensione, in cui la lettura prende il senso dell'incanto: l'incanto di quando si va dietro a
qualcosa senza una meta, ma trascinati da un richiamo. Ed come se un segnale si muovesse
davanti ai nostri occhi, ipnotizzandoci con la sua mobilit, in un disegno labirintico - in una fuga di
linee che non hanno alcun valore specifico se non quello di stabilire relazioni con altre linee, con
altri percorsi, che ci portano da un intreccio all'altro, da uno sperdimento all'altro, per varianti delle
stesse mosse e delle stesse trame.

5. Veduta dinsieme: linee di fuga, intrichi, sperdimenti.


A una veduta dinsieme del poema, ci si accorge che tutto il suo impianto narrativo sboccia dalle
prime mosse di Angelica in fuga dai suoi spasimanti (Rinaldo, Ferra, Sacripante); perch si crea
subito un groviglio di trame che ci porteranno molto avanti, con tre linee di movimento (di
Angelica, di Rinaldo e di Bradamante), destinate a produrre molti altri episodi e molte
peregrinazioni degli eroi. Con la sua straordinaria mobilit, Angelica semina dietro di s linee di
fuga che si annodano e s'ingrovigliano, sempre pi lontano, nella vaghezza dei sogni. E la sua fuga
(alla nona strofa del primo canto) il bandolo d'una matassa, che poi svolgendosi crea un enorme
intreccio di fili narrativi - dove per poi tutte le sue linee si congiungono, tutte le trame si
intrecciano, dopo essere sbocciate come per crescita spontanea da una traccia iniziale.

La partenza di Angelica dall'accampamento di Carlo Magno la traccia che parte dal centro di tutte
le trame possibili (Parigi, fulcro del grande scontro tra cristiani e saracini); ma un centro che si
rivela subito un vortice da cui nascono moti centrifughi di sperdimento dei maggiori eroi (a parte
Astolfo e Marfisa, decentrati dall'inizio). Ed ecco la dinamica del poema: lo sparpagliamento degli
eroi pi forti e rinomati, cristiani e saracini, che non stanno l a combattere per la causa della loro
religione, ma vanno sempre vagando di qua e di l, per effetto di distrazioni dalle loro mete; fino a
coprire quasi tutte le aree geografiche conosciute, con i viaggi di Ruggero e Astolfo sull'ippogrifo. E
la vicenda di Orlando, l'eroe pi forte di tutti, che alla fine dell'ottavo canto parte in cerca di
Angelica, diventando poi ammattito d'amore, l'acme narrativo di tutti gli altri sperdimenti.

Cos il poema ha gi una forma abbastanza definita, perch le avventure di Orlando formano come
una linea dorsale, o punto di riferimento, in mezzo alle miriadi di trame. Allora lo scatto iniziale di
Angelica basta ad avviare la lettura, con un seguito di infinite varianti della sua fuga e del suo
inseguimento, come se si tirasse dietro tutti i fili del poema dopo aver seminato le prime trame. E
quando Orlando parte alla sua ricerca, crea una variante dell'inseguimento di Rinaldo, che era stato
deviato da altre imprese (viaggio in Inghilterra); ma anche l'inseguimento di Orlando deviato da
altre imprese (episodio di Olimpia, impresa di Ebuda), perch ad ogni punto come se bisognasse
perdersi in un giro pi largo, seguendo linee interne che creano amplificazioni successive e
mantengono il senso d'una perpetua sospensione. E Rodomonte che parte via per conto suo,
ammattito per il tradimento di Doralice, crea una variante della pazzia amorosa di Orlando; e
Ruggero e Bradamante, che si cercano e si perdono sempre, creano l'altre variante dell'inseguimento
amoroso reciproco; con l'altra variante di Zerbino e Isabella che si cercano sempre ma finiscono
male; con l'ulteriore variante di Brandimarte e Fiordiligi, che si cercano sempre, ma ogni volta che
si trovano si perdono subito di vista. Queste fioriture di varianti negli intrecci di trame ci
richiamano alla relazione interna tra le linee del poema; con centinaia di sperdimenti, distrazioni
dalla meta, incroci d'amore e di vendetta, dove come se tutti eseguissero i passi d'una danza
prescritta.
Restano fuori dal gioco le imprese solitarie di Astolfo, che in realt non insegue nessuno, ma
funziona come un aiutante magico destinato a ricucire le smagliature di tanti sperdimenti, in
particolare recuperando il senno di Orlando. Ed Astolfo che alla fine raduna tutti gli eroi dispersi
di qua e di l, da Orlando a Ruggero, da Gradasso a Brandimarte, fino a Rinaldo che corre verso
quel punto di raduno in cui si risolve la guerra tra cristiani e saracini. Sicch in una veduta dall'alto
di tutti questi grovigli, intrecci, linee divaganti, risulta che Angelica e Astolfo stanno come all'inizio
e alla fine del gioco. La prima la seminatrice di trame, la scatenatrice di sperdimenti, mentre
Astolfo il magico recuperatore di fili dispersi, fin dal suo viaggio di ritorno dall'Oriente, dove
recupera trame ed eroi persi per strada nel poema di Boiardo.

6. Larte ariostesca delle trame, pensata come unarte tessile


Nel poema di Boiardo c'era la stessa dinamica di sperdimento degli eroi partiti all'inseguimento di
Angelica, o sparpagliati per scenari della vaghezza romanzesca. Ma quello era anche il motivo della
sua incompiutezza, perch l'autore non era riuscito a riportare a casa tutti i suoi eroi, dopo averli
sparpagliati sulla carta geografica. Ariosto riprende uno a uno tutti i fili delle trame lasciate in
sospeso da Boiardo, con un'opera di tessitura che intreccia le azioni d'una cinquantina di dame e
cavalieri, oltre alle trame delle novelle e degli episodi laterali, le gesta delle figure sovrannaturali e
dell'enorme massa di guerrieri di sfondo - dove, negli intrecci principali che sviluppa, soltanto una
mezza dozzina di personaggi minori sono sue invenzioni.

Bisogna dire che in Ariosto l'invenzione di nuovi personaggi serve in funzione di nuove linee da
tracciare, di parallelismi da creare con altri intrecci, e non c' mai la scoperta di nuovi tipi di eroi
tetragoni o eccentrici che troviamo in Boiardo. Ariosto non coltiva effetti intensi e drammatici - a
parte l'episodio dell'impazzimento di Orlando, e le aggiunte dell'edizione 1532, con la storia di
Olimpia e il melodramma finale di Ruggero e Bradamante. Ma non coltiva nemmeno i giochi
comici troppo marcati, e lo si vede dal fatto che elimina gli aspetti molto buffi di Astolfo e di
Brunello, splendide invenzioni boiardesche. Al nostro poeta interessa soprattutto la continuit del
disegno, la continuit dei passaggi da una deviazione all'altra, il buon intreccio dei fili narrativi:
tutte cose che lasciavano spesso a desiderare in Boiardo. Perch Boiardo aggiungeva episodio a
episodio, seguendo le sue grandi trovate fantastiche, con una discontinuit che nel complesso rende
frammentari i suoi intrecci e traballante il suo poema. Invece il poema ariostesco sembra nascere
per giri concentrici a partire dalla prima fuga di Angelica, da un nucleo che si espande
armonicamente per amplificazioni successive.

Ariosto ha passato la vita adulta a limare e rimanipolare il suo gran poema, con amplificazioni che
espandono senza strappi il suo fitto intrico di imprese. In una lettera, lui chiamava una di queste
amplificazioni una "giunta", parola che forse viene dal linguaggio della tessitura, ed usata anche
nella lettera di Alfonso d'Este che per prima d notizia del poema ariostesco (luglio 1504). Le
"giunte" erano un lavoro di cucitura di nuove e vecchie trame cavalleresche, ricavate da altri poemi,
che tornavano a cose risapute, imprese o vendette da riprendere. L'arte ariostesca non quella
dell'invenzione strabiliante che troviamo in Boiardo, ma l'arte pi costante e operosa della tessitura,
delle "giunte", dei collegamenti, dei nodi, delle riprese senza strappi. E mi pare non ci sia modo di
capire come sta in piedi l'enorme labirinto di trame del suo poema, senza pensare a un'arte tessile,
che estende via via l'ordito della tela, in una crescita armonica di linee e motivi, fino ad avvolgersi
in un disegno compatto.

7. Ripetitivit degli schemi, trame come variazioni


Ariosto ricorre spesso a termini dell'artigianato tessile per illustrare gli sviluppi del suo poema,
come un artigiano che mentre lavora ci spiega i propri procedimenti. Nel lavoro di tessitura prima di
tutto ci sono dei fili (o "file" come dice lui), e l'intreccio dei fili crea l'ordito d'una tela, su cui si
formano i disegni delle trame. Quando un filo si intreccia con un altro, dopo averli annodati, il
tessitore ne lascia da parte uno e continua l'ordito con l'altro, per avviare nuove trame. Questo il
lavoro di intrecci, sospensioni, riprese, che il poeta illustra rivolgendosi al lettore: "Ma perch varie
file e varie tele/ uopo mi son, che tutte intendo ordire,/ lascio Rinaldo... e torno a dir di Bradamante"
(II, 30). Naturalmente si capito che i fili (o "le file") sono le linee di azione e di peregrinazione dei
vari eroi: c' il filo di Rinaldo, quello di Astolfo, quello di Orlando, quello di Angelica, quello di
Rodomonte, e tanti altri che si intrecciano nell'ordito della tela, abbandonati e ripresi secondo le
necessit di disegno.

Quando l'autore cambia filo narrativo e prende a seguire le azioni d'un altro eroe, come se
cambiasse il colore del filo, o la tonalit su cui intonarsi. La tonalit non dipende dal tipo d'azioni
d'un eroe, perch tutti fanno pi o meno le stesse cose, e cristiani e saracini sono trattati allo stesso
modo. Non come nella trame dei romanzi moderni, dove i personaggi servono a creare motivi di
imprevisto, con le loro scelte e il loro carattere. Qui l'arte narrativa ha bisogno di repertori di mosse
fisse, di attributi gi pronti, come l'immancabile gentilezza di Ruggero, l'immancabile furore di
Rodomonte, l'immancabile carattere fuggivo di Angelica; e quando il poeta riprende il filo delle
azioni d'un eroe, ritorna sempre alla stessa litania di attributi - Angelica, "ch'esser parea di tutto il
mondo schiva"; Ruggero, "che sempre uman, sempre cortese era"; Rodomonde, "il pagano altier
ch'in Dio non crede"; Marfisa, "cos altiera, che tutto 'l mondo a s pareva vile", etc

In queste sempre uguali presentazioni, si sente che ogni eroe un motivo - motivo figurale come
negli emblemi, motivo musicale come nelle melodie, fondato su un nucleo di attributi da cui spunta
la tonalit emotiva delle sue fissazioni. Le differenze dipendono da una diversa tonalit nella mania
di ciascuno, ma ancora di pi dall'effetto che ha l'incrocio d'una tonalit con l'altra. Ad esempio,
quando il gentile Ruggero si scontra col brutale Rodomonte, si crea uno speciale punto di
eccitazione, per la tonalit contrastante dei loro attributi. E la tonalit drammatica della mania di
Orlando sta in massimo contrasto con gli attributi di Angelica, schiva e sfuggente, come un tono
molto grave con un tono acuto, che marcano i poli opposti d'una scala tonale. Il filo narrativo d'ogni
eroe come un accordo di base che permette di sviluppare una serie di note successive attraverso i
suoi caratteri fissi. Infatti il nostro poeta spiega cos il suo lavoro, cio in termini musicali: "far mi
conviene come fa il buono/ suonator, sopra il suo strumento arguto,/ che spesso muta corda e varia
suono,/ ricercando ora il grave ora l'acuto" (VIII, 29).

La questione essenziale in fatto di trame cavalleresche come intrecciare i fili delle azioni variando
i motivi su cui intonarsi, in modo da rinnovare il gusto delle trame nonostante la ripetitivit degli
schemi. Anche questo ben spiegato dal nostro poeta: "Come raccende il gusto il mutar esca,/ cos
mi par che la mia istoria, quanto/ or qua or l pi varata sia,/ meno a chi l'udir noiosa fia"(XIII,
80-81). Dunque il passaggio da un filo narrativo all'altro non dipende dal senso risolutivo delle
azioni, ma da una necessit di variazione; il che significa la presentazione ripetuta d'un tema, ma
ogni volta modificato da qualche elemento.

Ad esempio, per tutto il poema Ruggero e Bradamante non fanno che inseguirsi e perdersi; e ogni
volta che si perdono di vista Ruggero si trova invischiato in un duello, o in un'altra avventura, che
introduce una amplificazione per linee interne sulla trama dell'inseguimento reciproco dei due
innamorati. Ma le distrazioni dal suo percorso sono altrettante variazioni sul tema del "gentil
Ruggero", dove il poeta sviluppa una serie di modulazioni diverse secondo il filo narrativo a cui si
aggancia, cio secondo i personaggi con cui l'eroe si invischia. Con risultati che ci lasciano di
stucco davanti alle metamorfosi del virtuoso fidanzato di Bradamante; il quale, capitato negli
amplessi della fata Alcina, diventa un ganimede che vive nell'ozio; nell'incontro con Angelica nuda,
dopo averla salvata dal mostro, diventa un ragazzotto voglioso di copulare senza tanti scrupoli;
negli scontri e diverbi soldateschi Rodomonte e Mandricardo, diventa uno smargiasso come loro; e
nell'impresa per salvare Ricciardetto, torna al suo ruolo di cavalier cortese.

8. Il bisogno narrativo delle discontinuit


Intrecciando i fili, il poeta deve creare continuamente delle discontinuit, con deviazioni e
sospensioni negli intrichi di trame, che servono a introdurre nuove variazioni su un tema. In realt
Ariosto adotta gli stessi modi di raccontare degli altri poeti cavallereschi, ma sviluppa al massimo
grado l'arte della sospensione. Alla base di quest'arte c' la tendenza dei poeti cavallereschi a creare
sempre distrazioni da ci che stanno narrando, e cosi introdurre disgiunzioni successive tra i fili
delle azioni che rimangono sospese. E la mossa prediletta da Ariosto appunto quella disgiuntiva,
che ripristina una discontinuit tra linee di azione sul punto di annodarsi - riapre il gioco e lo lascia
ancora sospeso.

I fortissimi Rodomonte e Mandricardo stanno per scontrarsi: "La pugna.../ era per seguire; ma quivi
giunse/ in fretta un messaggier che li disgiunse" (XXIV,107). Con l'artificio della disgiunzione, si
disegnano due linee che tendono a congiungersi, ma all'ultimo momento prendono l'andamento di
curve in direzioni diverse. Anche il primo duello tra Rodomonte e Ruggero sospeso da un
messaggero, il quale li richiama a Parigi; i due partono, ma sul loro tragitto trovano un bivio che li
separa; e il bivio il caso perfetto di disgiunzione di due linee su un piano: "ove la strada fa due
corna:/ l'un va gi al piano, l'altro va su al monte" (XXV,46). Pi ancora che l'intreccio dei fili,
questo artificio permette di usare il piano di fondo, o piano di continuit delle azioni, come una
superficie su cui disegnare linee sempre divaganti. Ma in Ariosto come se, appena si configura
una linea dritta, un "sentier dritto" che mena verso una meta, subito nascesse il bisogno di spezzarla
con un altro tragitto sinuoso, tortuoso, vagabondo: "Bisogna, prima ch'io vi narri il caso,/ ch'un
poco dal sentier dritto mi torca.." (VIII, 51) .

Osservazioni pi dettagliate andrebbero fatte sui tipi di linee che creano rotture o discontinuit. Ma
basta ricordare gli incontri e fughe di Angelica, in apertura del poema, nel primo canto, che sono
tutti deviazioni dal "sentier dritto". E gi qui troviamo un campionario di tipi di linee: 1) la linea che
divaga, attorcigliandosi e riportandoci allo stesso punto - percorso di Ferra); 2) la linea che si
biforca in un bivio - percorso di Rinaldo e Ferra; 3) la linea che si intrica e porta a un groviglio -
Angelica che si perde nella selva e incontra Sacripante; 4) la linea spezzata da un'altra linea che la
interseca - Bradamante che viene a interrompere il "dolce assalto" di Sacripante ad Angelica. Sono
percorsi che tornano in lungo e in largo nel poema, con sviluppi paralleli, mescolanze e grovigli,
che si potrebbero rappresentare su un piano. Perci le trame non mostrano alcun contenuto specifico
da interpretare; sono un tracciato di fili da cui spicca il motivo di un tema; e traducono il tema
dell'errare per "vani sentieri", cio dell'errore maniacale, in relazioni di linee che si snodano e si
annodano variamente.

Quello che conta, in tutto ci, la possibilit di aprire sempre una trama ad altre vicende, altri
percorsi, con molte variazioni su un tema, come il tema dell'inseguimento, della fuga, della
vendetta, dello spasimo amoroso. Ed ecco l'importanza del poeta che entra in scena e ci spiega il
suo lavoro; perch cos si crea un secondo piano di discorso, dove il poeta pu controllare gli effetti
di sospensione e di ripresa dei vari fili, con appelli all'ascolto come facevano i cantimbanchi
popolari: "Ma non dir d'Angelica or pi inante/ che molte cose ho da narrarvi prima.." (XII,66).
Annunciando ogni cambiamento di filo, il poeta pu permettersi stacchi improvvisi e disinvolti,
senza le fratture o i salti bruschi. Cos guidati nel dedalo degli intrecci, mentre gli eroi girano a
vuoto, noi non abbiamo mai il senso del momento vuoto, del ristagno narrativo. Questo mi sembra
il modo ariostesco di mantenere una percezione armonica dei passaggi, ossia di non lasciarci mai
confusi dall'intrico labirintico delle sue trame.

9. Sullo spazio e gli sfondi romanzeschi.


Nei romanzi moderni funziona il sottinteso che ogni libro che leggiamo sia (o debba essere) una
finestra che si apre sul mondo, con la messinscena duna finzione che serve a rappresentare una
certa realt, storica, geografica, sociale. Nei poemi cavallereschi tutto questo non ha senso. I poeti
cavallereschi, tenendosi tra il serio e il faceto, tra il paradosso e le trite convenzioni del romanzo
cantato in piazza , rendono chiaro che il loro punto di riferimento solo uno spazio di parole, lo
spazio del parlare; e dunque che le loro sono soltanto fabulazioni, panzane, favole. Infatti tutti
dicono di ricavare le loro storie dal leggendario libro del vescovo Turpino sui paladini di Francia,
assicurandoci che tutta farina del suo sacco; in questo modo possono inventare le panzane pi
inverosimili, in una specie di gara a chi le spara pi grosse, e poi scaricare ogni reponsabilit sulle
spalle del buon Turpino: Turpin che tutta questa istoria dice (XXXIII,38).

Il presupposto dei moderni romanzi realistici, che gli sfondi dellazione siano porzioni di mondo
reale rappresentato, implica un tal grado di determinismo che non lascia quasi pi niente nel vago.
Ed qui che linformazione rivendica i suoi diritti, e offre il suo contributo a sostenere le finzioni
romanzesche, per quanto cheap o stucchevoli siano. Nei poemi cavallereschi tale problema
informativo non si pone, e gli sfondi delle imprese eroiche si riducono quasi sempre a generiche
didascalie, come selva, monte, deserto, senza descrizioni ambientali. Che i paladini siano
nelle Ardenne, sui Pinerei, o nei deserti dell'Africa, i fondali dei loro vagabondaggi si somigliano
tutti - sono tragitti sospesi in un'indistinta lontananza di terre sconosciute, fondali dove tutto quello
che c' all'intorno resta nel vago, come se non esistessero luoghi umanamente abitati.

Penso ora ai paesaggi di sfondo che si vedono negli affreschi del palazzo della Schifanoia a Ferrara
(certamente familiari ad Ariosto), dove spuntano strane rocce, colline, corsi d'acqua stilizzati, e
costruzioni lontane dall'aria esotica. E il modello dun mondo che esiste solo come segno della
lontananza, e che era inteso come il mondo fuori dalle mura cittadine mentre il mondo cittadino
negli stessi affreschi figurato in basso, in primo piano. Ma l'idea che si ricava, anche da altri
esempi di pittura d'epoca, questa: che l'Oriente, il paesaggio esotico di terre lontane, cominci
appena fuori dalle mura cittadine, in uno spazio che si chiamava appunto foresta, selva, per dire
zone incolte e selvatiche, come nella fuga di Angelica "per lochi inabitati, ermi e selvaggi" (I,33).
Quello punto di vaghezza romanzesca in cui si muovono gli eroi cavallereschi - mondo stilizzato,
intrico di linee che conserva l'immagine labirintica della foresta, e che vuol dire solo una cosa:
lontananza di terre sconosciute.

In tutto questo non si vede alcun criterio rappresentativo, ma il criterio del vicino e del lontano che
organizza lo spazio dei racconti, e il valore figurale delle linee che lo movimentano. Il senso di
questo spazio sta nelle relazioni di linee che creano una serie di percorsi, dove ci inoltriamo - e dove
ci smarriamo anche noi come Rodomonte che (liquidato dallamata Doralice) Di pensiero in
pensiero and vagando(XXVII, 133). Leggendo il poema ariostesco, limpressione pi sicura
che nel suo spazio si possa muoversi solo cos, cio vagando di pensiero in pensiero, senza badare a
dove si va, o perdendo la strada del tutto. Ed perch questo spazio, con tutte le sue linee divaganti,
deviazioni e discontinuit, porta gi in s il senso dellerrare in una vaga lontananza, come quello
dei pellegrini che facevano rotta per luoghi ignoti verso la terra santa o lOriente.

Poi, il senso dellerrare in vaga lontananza trapassa in un regime di metafore, che sono ancora
quelle della lirica amorosa. Dice il poeta dun suo eroe: perduto in via pi grave errore( I,56). Nel
vocabolario petrarchesco, "errore" la metafora della passione amorosa; un traviamento come
quello di Dante che ha smarrito "la diritta via" metafora che prende un carattere pi
accentuatamente spaziale in Ariosto, dove diventa la sbandata peregrinazione degli eroi in preda alle
loro fissazioni. Ma, ancora meglio, Ariosto traccia l'immagine della mania amorosa come uno
sperdimento nel labirinto d'una selva, il teatro naturale delle imprese cavalleresche: "Gli come una
gran selva, ove la via/ conviene a forza, a chi va, fallire:/ chi su, chi gi, chi qua, chi l, travia..."
(XXIV, 2) E su queste metafore spaziali cresce la stupefacente forma del poema: poema dell'errore,
dell'errare, del perpetuo girare a vuoto, in un intrico di percorsi labirintici. (Mi sembra che sia stato
sempre il problema della critica ariostesca: lincapacit di giustificare tutti questi giri a vuoto;
cominciando dai contemporanei che rimproveravano al Furioso la struttura labirintica degli intrecci,
irregolare rispetto allepica classica.)

10. Simultaneit di linee, tempo senza durate specifiche


Torniamo all'opera di tessitura. "Tornando al lavor che vario ordisco/ ... dar le spalle/ a Francia
voglio, e girmene in Levante/ tanto ch'io trovi Astolfo paladino/, che per Ponente avea preso il
cammino" (XXII, 3-4). Qui il poeta annuncia che si passer dal filo d'una azione in Francia al filo di
Astolfo che in Levante. Poi Astolfo in dieci strofe attraversa quasi tutta la carta geografica,
arrivando in Francia, al castello del mago Atlante, dove liberer gli eroi tenuti prigionieri con
l'incanto. La discontinuit tra i fili cos annodati (quello di Astolfo, e quello dei prigionieri di
Atlante, in particolare di Ruggero) superata con un vero salto, che per mantiene un effetto di
continuit, perch nelle dieci strofe di mezzo il poeta ci ha raccontato le tappe dell'itinerario di
Astolfo.

Sotto le discontinuit tra i fili narrativi e i salti per colmarle, c' un piano di scorrimento a cui il
poeta ci richiama sempre, con il filo del suo discorso, enunciando i nomi dei luoghi che un eroe
attraversa nelle sue peregrinazioni. Questo d continuit al disegno di linee; ma quello che rimane
completamente nel vago il fattore tempo, ossia quanto ci abbia messo il buon Astolfo a fare il suo
percorso, e come questo coincida con gli sviluppi del filo di Ruggero, a cui il filo di Astolfo poi si
annoda. Nella narrativa moderna ogni coincidenza temporale ha bisogno di puntuali spiegazioni;
invece qui come se tutto avvenisse in una simultaneit di linee su un piano, per cui basta tracciare
la linea che dal Levante porta in Francia, e la questione risolto.

Nel nostro poema, tutti i passaggi da una trama all'altra, gli sviluppi intermedi delle azioni tra una
sospensione e una ripresa, danno sempre l'impressione d'un tempo che non scorre linearmente, ma
che sorge per momenti discontinui. Tra il XII canto dove si parla del palazzo incantato di Atlante, e
il XXII canto dove il poeta ne riparla come se tornasse allo stesso momento, Astolfo fa in tempo a
fare un mezzo giro del mondo, battere due giganti, fuggire dal paese delle amazzoni, tornare in
Europa, passare in Inghilterra per salutare suo padre, prender la nave per Calais e trovare il castello
di Atlante. Si potrebbe dire che il tempo della narrazione non coincide con quello della storia
raccontata; ma questo non spiega il fatto che qui non sia possibile dire cosa succede prima e dopo
nei vari fili narrativi ossia che i piani temporali dei due fili narrativi siano senza durata specifica.

Un altro esempio, pi complesso. Nel giro di tredici strofe, Angelica e Medoro si incontrano, si
innamorano e si sposano (XIX, 20-33) , poi vanno per imbarcarsi verso le Indie, e sulla spiaggia
incontrano un uomo bestiale, impazzito: "Ma non vi giunser prima, ch'un uom pazzo.." (XIX, 42).
Soltanto dopo dieci canti si capir che quel matto era Orlando, impazzito di gelosia. Ma intanto noi
lo avevamo lasciato mentre salvava Isabella dai maladrini (XII,42), e dopo lo ritroveremo mentre
salva Zerbino dei Maganzesi (XXII,53), ancora come un uomo savio. Dunque le due linee d'azione
(quella di Angelica e quella di Orlando) si svolgono simultaneamente, come tragitti spaziali senza
un ordine temporale. Infatti, anche immaginando che gli amori di Angelica e Medoro si sian svolti
mentre l'altro salvava Isabella o Zerbino, resta il fatto che nella successione delle vicende
Orlando compare sulla spiaggia come pazzo ancora prima di ammattire.
Questo scherzo in realt fa parte dei metodi di sospensione nel romanzo cavalleresco, dove si usava
annunciare un filo da riprendere, senza dire chi fosse l'eroe comparso in scena. Daltronde, Ariosto
lavora su una tela di percorsi cos ampia come non s'era mai vista; e un narratore che volesse
determinare tutti i punti temporali nei percorsi duna cinquantina di dame e cavalieri, e come si
collocano coerentemente i loro incontri nella successione delle vicende, non potrebbe mai avere la
disinvoltura permessa dal metodo dei romanzi cavallereschi. Pi avanti Orlando arriver tra i
pastori, e scoprir l'amore di Angelica e Medoro attraverso le scritte nella grotta (XXII,101); ma tra
questo momento e quello in cui lo ritroviamo pazzo sulla spiaggia (XXIX,59), ci verr raccontato
quasi mezzo poema, ed come se i personaggi fossero rimasti immobili come statue.

11. Tempo e spazio, unanalogia con i tappeti dOriente.


Nei poemi cavallereschi manca quel termine di riferimento che il tempo lineare della Storia, fatto
di frazioni uniformi con cui misuriamo tutto in secoli, anni, mesi. Dunque non ci sar la formula:
"Nel tal giorno, o mese, Orlando arriv nel luogo x"; bens: "Orlando (di cui si parlava prima) arriva
ora (mentre sto parlando) nel luogo x". E' il tempo indefinito delle leggende, sospese all'atto del
dire, del narrare. Nelle trame cavalleresche non c' mai sviluppo storico che scandisca le epoche o
l'et degli eroi, e le azioni cadono in tempo senza tempo che quello delle vicende eterne. Lo si
vede in quelle pitture o statue raccontate da Boiardo e Ariosto, dove le epoche future sono
raccontate come se fossero un destino in cui tutto gi fissato da sempre. Non tempo lineare che si
svolge verso limprevisto, ma sviluppo come quello duna pianta che gi inscritto nel seme da cui
dovr germogliare.

Nel nostro poema, l'unico effettivo riferimento allo scorrere lineare del tempo, compare alla fine del
canto XI, quando Orlando si ferma nell'inverno e riprende in primavera la sua ricerca di Angelica. A
parte ci, tutto avviene in una simultaneit senza stagioni, che si espande senza durata; e anche il
tempo per compiere i tragitti un tempo senza durata, senza scansioni in giorni o mesi o anni.
Quanto ci mette Astolfo ad attraversare l'Africa col suo esercito? Quanto dura il viaggio di Ruggero
sull'ippogrifo? Qui ci sono solo corse, inseguimenti, fughe, momenti discontinui che non si sa
quanto durino; ma sentiti come se tutto avvenisse in una stagione ideale delle imprese
cavalleresche, con prati e boschetti sempre fioriti, gli eroi eternamente giovani e gagliardi: "come
nei giardini dei ricordi d'infanzia, dove il tempo fermo alla sua pi perfetta giornata" (Ermanno
Cavazzoni).

Ogni volta che annoda un filo all'altro, il poeta riprende gesti o azioni d'una scena precedentemente
abbandonata, come se il tempo fosse rimasto immobile in una serie di punti discontinui, tutti sullo
stesso piano, con solo gli sviluppi momentanei di una azione. Ed una riduzione del linguaggio a
un sistema di segni che parlano solo di quello che ha rapporto col presente immediato, con
l'immediata possibilit di venire indicato: "Chi fosser quelli, altrove vi fia detto;/ or no, che di
Ruggier prima favello" (XXV, 4). Queste variazioni di intreccio non riguardano il passaggio da un
prima a un dopo, ma piuttosto il passaggio da un "qui, ora" ad un "altrove" sul filo del discorso - un
"altrove" a cui giungeremo con altri giri per ritrovare quella trama. Pi che un significato delle
azioni, il lavoro di annodare i fili tende a fornire un senso posizionale, per cui il poeta e il lettore si
ritrovino sempre di pari passo, ossia nell'eterno presente in cui si sta parlando.

Ad esempio: Astolfo salito in paradiso e sta discutendo con San Giovanni ("lo scrittor de
l'evangelo"), ma il poeta dice che vuole tornare a parlarci di Bradamante, persa di vista due canti
prima, in cerca di Ruggero e in preda alla gelosia: "Resti con lo scrittor de l'evangelo/ Astolfo
ormai, ch'io voglio far un salto,/ quanto sia in terra a venir gi dal cielo..." (XXXV, 31). Da notare
l'idea di "fare un salto" gi dal cielo: come se, davanti a una carta geografica, dicessimo che
dobbiamo saltare dal "qui" dove siamo, indicandolo col dito, al "l" dove abbiamo lasciato
Brandamante. Tessendo le sue trame, il poeta usa continuamente questi riferimenti deittici ("qui",
"l"), che indicano una direzione, dei punti di riferimento, ma non possono avere un significato se
non in base alla posizione di chi parla e chi ascolta - il punto sul filo del discorso ("qui, ora").
Questo uso ostensivo del linguaggio, ancorato al presente immediato dei segni deittici, traduce i
vagabondaggi della mente o del filo del discorso in forme spaziali, in una superficie piana di linee
intrecciate e divaganti.

Letto cos, il poema perde qualsiasi carattere rappresentativo, e si direbbe che la sua grande felicit
venga da uno svuotamento di tutte le motivazioni che non siano puramente figurali, disegnative,
dove tutto scivola via per momenti discontinui, ma in continui arabeschi di trame. Il miglior
paragone, mi sembra, quello dei tappeti d'Oriente, o "tappeti alessandrini", come dice Ariosto;
forme d'arte tessile prive d'ogni carattere rappresentativo, dove l'incanto figurale nasce dagli infiniti
nodi con cui i fili fanno apparire motivi grafici, che si intrecciano simultaneamente, senza passato o
futuro - il disegno d'un puro volo della mente. (Tutta larte europea a partire da un certo punto
rappresentativa, e le sue nozioni di spazio e tempo sono in funzione duna rappresentazione
prospettica. Il poema cavalleresco un felice caso di ritardo culturale.)

12. La recita cerimoniale del poeta


Anche negli altri romanzi cavallereschi, come nei cantari di piazza, il poeta dava indicazioni
sull'abbandono e la ripresa dei vari fili dell'azione, con certe formule fisse che arrivano fino a Pulci
e Boiardo. Ma in nessun altro poema cos presente la figura del poeta, che intrattiene il lettore con
molti discorsi, ed entra nel gioco narrativo come un personaggio al pari degli altri: anche lui guidato
da una mania, come i suoi eroi, in quanto poeta pazzo d'amore, quale si presenta subito (I,2), e non
senza farsi passare per un confratello del povero Orlando ammatito per la bella Angelica (IX,2).
Questa una recita che il poeta mette in piedi con notevole teatralit, facendo molti inchini al suo
signore Ippolito d'Este (cui dedicato il poema), evocando uno sfondo cerimoniale di lettori a cui il
suo racconto "grato esser suole" (spesso nominati), ma anche giustificandosi variamente con il suo
illustre patrono e con altri (le donne ad esempio). Insomma presentandosi come una figura ironica
nel senso proprio del termine - cio la figura di chi si fa piccolo davanti a chi lo ascolta.

Tradizionalmente la recita ariostesca stata vista soltanto come servilismo del povero Ludovico,
cortigiano prudente innanzi alla potenza dei suoi signori. Ma a me sembra si possa vederla in
tutt'altro modo, appena si toglie di mezzo l'idea d'un contenuto psicologico o morale, che sempre
un giudizio di marca umanistica. Si pu vederla come parte essenziale del disegno narrativo, in cui
si intrecciano due tipi di ordito. Il primo l'ordito del poeta, i suoi discorsi di prologo ai vari canti, i
suoi commenti saggi o faceti, le sue prosopopee della casata d'Este, che creano uno sfondo
cerimoniale e fungono da piano di continuit, come il colore di fondo in un tappeto. Il secondo
l'ordito delle trame in cui sono impegnati gli eroi: grande dedalo di intrecci in primo piano, fatto di
linee spezzate, deviate, sinuose, organizzato sulla regola della discontinuit.

Il piano di sfondo, ossia l'ordito del poeta, serve a stabilire un accordo cerimoniale col lettore,
ancorato al filo del discorso. Questo avviene con il gioco dei richiami a precedenti imprese degli
eroi, che il lettore deve conoscere: "So che tutta l'istoria avete letta" (XXXI, 26). Dunque il poeta si
richiama a un'intesa che data per scontata, nel senso che lui e il lettore hanno letto gli stessi libri,
hanno un sapere comune su un repertorio di gesta: di chi sia figlio il tale eroe, quali imprese abbia
compiuto, come si chiami il suo cavallo, etc. In secondo luogo, su questo piano cerimoniale, cio
sul filo del discorso, il poeta pu suggerire un'analogia tra le peregrinazioni e fissazioni dei suoi
eroi, e l'ardore di correre dietro alle parole sulla pagina: "Deh, perch a muover men son io la
penna/ che quelle genti a muover l'armi pronte?" ( XIV,108) Penna e inchiostro sono le sue armi di
poeta dalla mente vagabonda, e il parallelismo tra le imprese della sua penna e quelle delle spade
degli eroi va notato.
"Io far s con penna e con inchiostro,/ ch'ognun vedr..." (XXIX,2). Ecco Ludovico colto in un
gesto teatrale, mentre si lancia in uno dei suoi discorsi al lettore. Per quanto lui tenda a farsi piccolo,
sotto i panni del cerimoniere di corte, si presenta poi come un uomo fantastico, stralunato d'amore,
che usa la penna per inseguire favole avventurose, perdendosi anche lui nelle trame come i suoi
personaggi. E la sua recita presenta varie analogie con il vagabondare degli eroi, lo stesso senso di
instabilit perpetua, lo stesso tono di mania peregrina. A volte sembra colto dall'uzzolo improvviso
di sospendere il racconto per parlar d'altro che gli venuto in mente; altre volte si contraddice,
come quando proclama che le donne sono tutte ingrate, senza "un'oncia di buono", e poi si scusa
dicendo che vaneggiava per frenesia d'amore (XXX,3). Infine altre volte vagante coi suoi pensieri
fino a perdersi anche lui per vani sentieri: "Ma d'un parlar ne l'altro, ove sono ito/ s lungi dal camin
ch'io faceva ora?" (XVII,70).

13. Sulluso delle analogie: trame amorose e trame narrative


Con la sua recita da uomo fantastico, il poeta Ludovico collega l'estro narrativo all'invasamento
della mania, o all'epitome di tutte le manie, che quella amorosa. La mania amorosa la colla del
suo poema, in cui tutto tenuto insieme dalla "inestricabil ragna" dell'Amore (XIV, 52), con i
percorsi degli innamorati dispersi o delusi, e le fioriture di varianti negli intrecci che ho detto. Ma
facendosi passare per confratello dOrlando, cio impazzito per gli stessi motivi (XXIV,3),
Ludovico viene a dirci che narrando la storia dOrlando racconta la trappola damore in cui anche
lui caduto, e dunque che il suo estro narrativo e la sua follia amorosa fanno tuttuno. Che questo
sottinteso gli stesse a cuore, lo si vede dal fatto che fin dalla seconda strofa ha dichiarato che
riuscir a portare a termine il poema, soltanto se la pazzia amorosa non gli rode e lima il cervello
del tutto.

Trovo un motivo simile in Petrarca: "S'amore o morte non d qualche stroppio/ a la tela novella
ch'ora ordisco..." e mi viene da pensare a questo regime di metafore, dove le parole si dicono
esposte al pericolo che un altro ordito interrompa la loro tessitura dellopera. Che lamore sia
unaltra tessitura di fili, unorditura di trame, un luogo comune della lirica amorosa. Ad esempio
Boiardo, nel suo Amorum liber :"la rete d'Amor, che texta d'oro/ e da Vaghezza ordita con tanta
arte..." Lo stesso termine tessile, le fila, usato da Ariosto nelle sue liriche per parlare della
trappola amorosa (quelle fila doro, sonetto XXIX), e nel suo poema per parlare degli intrecci
narrativi. In queste metafore c un tale intrico di richiami analogici, dal versante della finzione
fabulatoria a quello dellinganno damore, che impossibile separare le due cose. Le figure
dell'ordito, dei nodi e dei fili, del laccio e della "ragna" (o rete), stringono in un fascio di analogie
qualcosa che appare il motivo centrale dello scrivere un ardore, una mania fantastica, che al
tempo stesso trappola, inganno, come quello di Angelica che ordisce a trama per incantare
Sacripante (I,51).

Leggendo il poema, dove queste metafore ricorrono quasi ad ogni pagina, si entra in universo
conformato come una tessitura, una rete, o ragna, dove si attirati e ci si perde, secondo la regola
della trappola amorosa. Ed una regola implicita, che rimanda ad uno spazio labirintico, dove tutto
sta in analogia con qualcosaltro, e dove dunque lanalogia che d senso alle cose, cos come la
similitudine che definisce la tempra dogni eroe. Il che approssimativamente pu essere raccontato
cos: Orlando vagante nella rete d'amore, come tutti gli altri eroi sono vaganti nella rete delle loro
manie, come il lettore vagante nella rete delle trame ordite dal poeta, come il poeta vagante nel
suo racconto sugli effetti della rete, esca, laccio, intrico, tela, fila d'amore. E un universo
completamente analogico e figurale; non una rappresentazione del mondo, ma un suo emblema
lemblema di un mondo tutto fatto dinganni, tutto basato sul principio dellordire, del tesser trame
e invischiare gli altri.

14. Il mondo come inganno e lalta meraviglia


Bisognerebbe ora schizzare unidea ariostesca del mondo sublunare, come initerrotto intrico di
trame, reti, errori, simulazioni, inganni. Intanto va notata lassociazione tra i trucchi magici e gli
imbrogli delle apparenze, come si parlasse delle stesse cose - i "falsi vestigi" (II, 23). Istruttivo
lesempio di Alcina, che incanta Ruggero coi suoi "angelici sembianti", e il cui corpo descritto
come un luogo di delizie muliebri(VII, 14.15); ma sotto tali parvenze suscitate con la magia, una
vecchia laida e decrepita. Poi allinizio del canto seguente, additata come il prototipo di tutti gli
"incantatori" e "incantatrici" che intrappolano gli altri "con simulazion, menzogne e frodi" (VIII, 1).
C una bella differenza rispetto allAlcina boiardesca, personaggio sovranamente mitico, sulla
balena in mezzo al mare, che in Ariosto diventa un esempio degli imbrogli quotidiani.

In questo mondo tutto fisico, ci che noi chiamiamo spirituale si riduce alla potenza magica
dell'occulto, che per non pare diversa da quella degli imbrogli e frodi che avvolgono tutta la vita.
Frode e occulto fan tutt'uno, in quanto generatori di finzioni, false parvenze, incantamenti che
suscitano "vani disegni" e "grate fantasie". Uno dei temi che pi ricorrono nel poema quello del
"falso sembiante": il modo di presentarsi ingannevole, il viso che non corrisponde a ci che nel
cuore: "Se, come il viso, si mostrasse il core..." Ecco l'effetto scatenante della trappola amorosa,
trappola spirituale ma in quanto errore, cattura delle apparenze "per forza d'incanto", proiezione
d'un desiderio sempre ingannevole: "Ingiustissimo Amor, perch s raro/ corrispondenti fai nostri
desiri?" (II,1).

La non reciprocit dell'amore un tema petrarchesco; ma al nostro Ludovico, sta pi a cuore la


mancata corrispondenza tra un dentro e un fuori - il volto che cela l'inganno, l'amante sincero che
diviene falso marito (episodio di Olimpia e Bireno), lo spasimante che un livido traditore (novella
di Ariodante). Gli interessa la divergenza, il malinteso, la disgiunzione tra la cosa e l'effetto che
produce. E l'idea di finzione si pone solo in termini di inganno o incantamento, che opera su una
disgiunzione tra un'apparenza e ci che essa cela, tra i segni e le illusioni che generano, tra
immagine e sostanza, come negli effetti della magia. In questo senso magia e finzione operano allo
stesso modo, facendo entrare l'occulto nel visibile, per opera delle illusioni, o inganni della mente. E
il libro magico riassume questa fatalit dei segni che generano finzioni, parvenze o incanti
irresistibili.

In tutto il poema la parola "libro" senza altre specificazioni significa libro di segni magici, che alla
lettura producono visioni di immagini insostanziali. Come quando Angelica incontra l'eremita, il
quale si cava di tasca il libro, ne legge una pagina, e subito ne esce "uno spirto in forma di valletto",
che "se ne va, da la scrittura astretto..." (II,15). Il motivo del libro porta in s il senso d'una fatalit
della scrittura, che serve a far sorgere le meraviglie dell'invisibile, o a riempire il visibile di incanti e
inganni, oppure a decifrare il segreto degli incantesimi (il libro magico di Astolfo). Il libro per
antonomasia quello di magia, e la sua lettura la lettura per eccellenza, perch suscita la potenza
di figure o segni che generano una "finzon d'incanto".

Nel canto IV il mago Atlante compare nell'aria sull'ippogrifo, con uno scudo che abbaglia e
stordisce, ma nell'altra mano il libro di magia che va leggendo:"Da la sinistra solo lo scudo avea,/
tutto coperto di seta vermiglia;/ ne la man destra un libro, onde facea/ nascer, leggendo, l'alta
meraviglia" (IV,17). Questa figurazione mostra "l'alta meraviglia" come qualcosa che nasce dalla
lettura del libro, ma che corrisponde a un puro effetto, disgiunto da qualsiasi sostanza. E un effetto
che d le traveggole, fa vedere una cosa per l'altra ("che comparir facea pel rosso il giallo"). I
cavalieri credono di veder calare dall'alto un guerriero tutto armato che viene a sfidarli; invece il
decrepito Atlante che va leggendo il suo libro, e con quello suscita attorno a s tutto uno scenario
romanzesco. La meraviglia un "admirar vehemente" (Tomaso Garzoni), uno sgranar d'occhi,
visione fabulatoria in cui pu succedere di tutto come nei sogni - culmine della finzione, "finzon
d'incanto", suscitata dai trucchi del mago Atlante.
Si capisce perch Angelica sia la figura centrale dell'ispirazione ariostesca, libera battitrice in un
mondo sublunare di inganni, figura che fugge per introdurci a un incanto, "imago" come i segni dei
libri di magia. Nel nostro poema, attraverso di lei, le metafore petrarchesche della trappola amorosa
fannno un giro, per sbarcare in una grande visione di meraviglia scettica: regno di reti, inganni,
esche d'illusione, finzioni e simulazioni a non finire. E per concludere questo schizzo del mondo
sublunare ariostesco, ricorder che il poeta, nella sua recita cerimoniale, arriva a fare una apologia
della simulazione, dato che non si pu farne a meno, tra i tanti simulatori che popolano "questa vita
mortal, tutta d'invidia piena" (IV,1).

15. Effetti della magia ed effetti della lettura


Angelica non ha funzioni sapienziali, come la beatitudine teologale che Dante insegue grazie a
Beatrice, o il lauro del martirio poetico che Petrarca insegue grazie a Laura. Di queste figure-guida,
ha perso la sostanza dottrinale, ma le rimasta la potenza dell'incanto, il fondamento dell'invincibile
malia, che condivide con la sua pi prossima antenata, la sfuggente Laura. Ma forse n l'una n
l'altra potrebbe avere tanta potenza, se la sua figura non portasse in s il ricordo d'una magia che
agisce a distanza, disgiungendo l'immagine dal corpo che rappresenta. Perch la disgiunzione che
separa la persona dall'effetto della sua immagine, mentre mostra che l'immagine una vuota
parvenza, produce la magia d'una casella vuota da riempire con l'immaginazione.

E' come nel palazzo del mago Atlande - si corre dietro a quel che non c', ma che vien suggerito in
figura. La lezione che impariamo nel palazzo dAtlante parla di questo magico incantamento su una
figura, unimmagine, che ci fa vedere quello che non c', con inversioni tra il visibile e l'invisibile,
come l'amore: "Quel che l'uom vede, Amor gli fa invisibile,/ e l'invisibile fa vedere Amore" (I,56).
Non potrebbe esserci una pi ardita figurazione della lettura romanzesca, quale inseguimento di
visioni in cui ognuno proietta le proprie smanie di afferrare qualcosa, che per solo un simulacro o
una fissazione nella sua mente: "A tutti par che quella cosa sia, che pi ciascun per s brama e
desia" (XII, 20). Cos mi sembra di capire un nesso che c' in Ariosto tra la lettura del libro di segni
magici e quella degli incantamenti nel suo poema, in cui siamo invischiati. La "finzon d'incanto"
con cui Atlante leggendo il suo libro suscita "lalta meraviglia" di immagini inconsistenti, mi
sembra la lettura ariostesca per eccellenza: un suscitamento di traveggole, come quando seguiamo
un segnale che ci ipnotizza, o corriamo dietro agli eroi incantati da una "imago" e questa diventa
anche la nostra fissazione. La lettura per eccellenza un inganno di immagini, figure, che agiscono
come le malie dei feticci magici.

Torniamo ad Angelica. Fin dalle prime strofe, leggendo noi le corriamo dietro come i suoi
spasimanti, per continue deviazioni e sperdimenti, linee che si intricano, si biforcano, fanno giri a
vuoto per tornare allo stesso punto. Se gli effetti che Angelica produce nei suoi inseguitori sono
quelli della trappola amorosa, va detto che l'incanto della lettura ha molti tratti dell'innamoramento
insensato, appunto di chi corre dietro a una fissazione. La lettura l'inseguimento di un'immagine
che si sottrae, lasciando una traccia vuota da riempire con l'immaginazione, grazie a una proiezione
di idee fisse nella mente. E adesso mi pare anche di capire perch Ludovico colleghi il suo estro
allinvasamento duna mania come quella dOrlando. Leggere o scrivere l'impresa del perdersi in
un "errore", l'incantato errare dietro a un'immagine fuggitiva, presi da un ardore insensato.

L'altra cosa che ho in mente quel sonetto di Petrarca dove Laura figura su un cavallo che fugge a
briglia sciolta. Tra lei e Angelica in fuga sul palafreno "per selve spaventose e oscure", c' la
differenza del labirinto selvatico, dove gli spasimanti spuntano come funghi; e c' il paesaggio della
vaghezza romanzesca, "per lochi inabitati, ermi e salvaggi", in cui si cela dovunque un pericolo di
cattura. Ma la differenza pi rilevante il moto perpetuamente errabondo di Angelica che passa
attraverso quel mondo di inganni e finzioni, sfuggendo a ogni trappola, compreso l'incanto nel
palazzo di Atlante. Angelica incarna l'instabilit delle immagini, che trovano la loro potenza nel
sottrarsi a ogni fissit, nell'essere sempre erratiche e inafferrabili. La potenza delle immagini
l'instabilit, la mutevolezza che ci rimanda sempre ad altro, la sfuggenza mercuriale di Angelica.

16. Qui si arriva ad uno smontamento della manie eroiche


Nel canto XXIII comincia l'impazzimento del grande eroe cristiano. Orlando legge in una grotta dei
graffiti che esaltano gli amori di Angelica col fante Medoro; poco dopo gli scoppia il pianto in gola
dalla gelosia; poi si riprende e si avvia verso un villaggio vicino, dove vede il fumo uscire dai
camini, e "sente cani abbaiar, muggiare armento". Mi ha sempre colpito che Leopardi riprenda quasi
le stesse parole per parlare d'un passero solitario a cui dedica il suo canto: "Odi greggi belar,
muggire armenti". Quello che Leopardi disegna la disgiunzione tra la vita collettiva e l'uno
solitario, l'individuo fuori dal gregge, fuori dal gruppo sociale. Forse nessuno ha fiutato cos bene la
caduta dell'eroe: quelle poche parole configurano un divenire anonimo, indifferenziato, ripetitivo,
dove la differenza tra il destino eroico e il destino comune non ha pi senso.

La caduta dell'eroe questa perdita di senso che trascina l'individuo nel divenire anonimo. Il nostro
Ludovico aveva gi annunciato qualcosa del genere con parole che potrebbero essere leopardiane:
"O conte Orlando, o re di Circassia,/ vostra inclita virt, dite, che giova?" (XIX, 31). L'alternativa
tra destino eroico e destino comune tenuta in bilico dal nodo centrale della vicenda di Orlando; e
l'amore di Angelica con Medoro risulta un pareggiamento delle sorti, una scommessa persa
dell'eroe, dato che un povero fante saracino ottiene quel che i pi grandi guerrieri hanno inseguito
invano: "O Ferra, o mille altri ch'io non scrivo,/ ch'avete fatto mille prove invano/ per questa
ingrata..." L'ingrata Angelica, s'intende, ma questa apostrofe mi fa venire in mente un repertorio di
pronunciamenti ariosteschi che sta sullo sfondo del poema.

Nelle Satire ariostesche le aspirazioni dell'uno che esce dal gregge anonimo per salire in alto,
trovano questa risposta: "in ch'util mi risulta.../ salir tanti gradi? meglio fra/ starmi in riposo e
affaticarmi manco". Che va confrontata con l'apostrofe ai cavalieri citata sopra. Le straordinarie,
brusche, anti-eroiche satire di Ariosto tornano a battere sempre lo stesso chiodo, cio la vanit delle
aspirazioni di salire in alto: "Chi brama onor di sprone o di cappello/ serva re, duca, cardinale o
papa;/ io, no, che curo poco questo e quello". Si pu vedere tali brame di onori come altre
figurazioni delle manie cavalleresche, i drammi dell'uno fuori dal gregge anonimo. Il rustego
Ludovico non smette di svalutarli, di satira in satira, in nome d'una vita media senza tante seccature,
dicendo anche che lui non ha nessuna voglia di andare in giro per il mondo; vuol starsene a casa, e
preferisce vagare con la testa su una carta geografica (Satira I). Non per niente Angelica finisce
sposa d'un semplice paggio, con semplici amori campestri che liquidano le faticose glorie della vita
eroica.

Ma ancora, Ludovico ha una specie di sua metafisica, anche quella completamente figurale, basata
su una carta del gioco dei tarocchi, il decimo arcano, la Ruota della Fortuna. E' la figura
dell'alternanza, per cui ci che in alto deve cadere in basso col giro della ruota; dunque salire in
alto vuol dire esser destinati a cadere in basso, come risulta dalla terza satira: "qualunque erge/
Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete". In questo mondo tutto materiale, ma senza vincoli di leggi
fisiche (sgominate dall'occulto e dall'inganno), l'unica figura di legge che esista: "Quella ruota
dipinta mi sgomenta/ che ogni mastro di carte a un modo finge:/ tanta concordia non credo che
menta"( Satira VII).

Nel nostro poema la Ruota della Fortuna nominata infinite volte, come altri nominano Dio per
dire la sorte: "O Fortuna crudel, chi fia ch'il creda,/ che tanta forza hai nelle cose umane..."
(VIII,62). La Ruota della Fortuna non rientra nel novero degli imbrogli e dell'occulto, o nell'inganno
totale del mondo "che s piace agli sciocchi" - il caso materiale, la materialit dei venti che
portano i naviganti fuori rotta, l'accidente che scompagina illusioni, presunzioni, manie "de la
volubil ruota tratte in fondo". Questa figura della mutazione porta inversioni di aspettative, scarti
rispetto a un destino fissato, alternanze in cui il previsto diviene imprevisto, e il bene diventa male,
come nel motto conclusivo del poema: "Pro bono malum". E' una regola a cui nessuno si sottrae,
per cui nello sviluppo delle trame tutti i personaggi sono soggetti a un regime di alti e bassi, senza
eccezioni. E nel poema appare come la legge del divenire anonimo che parifica glorie e biasimi,
destini eroici e no, mostrando che "il ben va dietro al male, e 'l male al bene,/ e fin son l'un de l'altro
e biasmi e glorie/.... che sempre la sua ruota in giro versa" (XLV, 4)

17. Il poema cavalleresco come enciclopedia di racconti


La legge di alternanza buon un principio narrativo, che serve a orientare le trame. Perch vero
che tutti gli eroi girano a vuoto, nel perpetuo errore; ma il loro peregrinare sempre dominato dal
giro delle sorti, per cui chi in alto deve cadere in basso, e viceversa. Ma c' un altro lato di questo
gioco narrativo: le azioni del poema sono inquadrate da un destino annunciato dai segni astrologici,
i "segni impressi all'osservate stelle" (III,15), che prevede il matrimonio di Ruggero e Bradamante,
da cui dovr nascere la gloriosa casa d'Este. Quello il punto focale nel dedalo di trame, che
presuppone la simultaneit di segni (astrali, magici) in cui gi inscritto tutto quel che deve
succedere. Ruggero e Marfisa stanno duellando, quando spunta a fermarli la voce del mago Atlante
che sapeva del loro duello, avendolo letto nelle stelle - era destino che i due si riconoscessero come
fratelli, proprio qui, in quel punto e momento (XXXVI,59).

Se tutto gi scritto nel libro delle stelle, cosa resta da raccontare? I racconti narrano come i destini
si realizzano, attraverso le fasi della contingenza, la legge di mutazione, la Ruota della Fortuna, gli
alti e bassi della vita. Ma anche questi cadono in un tempo indefinito, in illo tempore", come tutte
le leggende. L'unica cosa che d senso al divenire la mutazione di figure. Ad esempio, prima di
ammattire, Orlando un tipo da romanzo bretone, figura del cavaliere a lutto per le pene d'amore
(porta la sopravveste nera), simile al Tristano della Folie Tristan, come lui errante nella "amorosa
inchiesta". E si porta dietro un'aura tristanesca, fino alla fase dell'impazzimento (XXXII,133). Poi l
butta via la pelle da Tristano per incarnare la figura dell'uomo selvatico, figura proverbiale e
popolare, dandosi a svellere alberi (XXIII,136). Da quel momento le sue imprese non rientrano pi
nel repertorio delle gesta eroiche, ma nei racconti ridicoli su un idiota: come quando si porta il
cavallo sulle spalle per traversare un fosso, poi vuole barattarlo mezzo morto con un cavallo bello
vivo che gli piace di pi.

I giri della Ruota della Fortuna si manifestano soprattutto come variare dei generi di racconti.
Quando Rinaldo al suo crollo di maniaco geloso, e il racconto si trasforma di colpo in un'allegoria,
con laria da Roman de la Rose. Rodomonte, l'erede del gigante biblico Nembrotte spregiatore del
cielo, quando cade in disgrazia si tramuta in una specie di Aiace tradito dagli di. Mandricardo, un
Parsifal pi feroce, diventa una specie di Achille, l'eroe morto giovane che perde le armi. Angelica,
che la pi in balia della sorte fino all'incontro con Medoro, quella che risale al punto di felicit,
ritrovandosi nel genere bucolico virgiliano. Ruggero, destinato alla gloria di dare origine alla casa
d'Este, per arrivarci deve cadere in basso due volte: e in una cade in un racconto penitenziale da
leggenda aurea, poi nell'aggiunta del 1532 si ritrova in un melodramma che anticipa le solfe
dell'opera lirica. Cos il labirinto di trame, con gli alti e bassi della sorte, diventa una enciclopedia di
generi di racconto.

18. Astolfo e il volo sulla luna


Quella di Ariosto un'arte tutta figurale, dove le trame nascono sul filo del discorso come ghirigori.
Mi piacerebbe scrivere l'elogio di questa eccezionale fluidit, cominciando dall'endecasillabo
ariostesco, che si distende senza impacci e forzature metriche, al punto da darci l'idea d'un libero
scorrimento di immagini. Poi dell'ottava ariostesca, dove la frase gira oltre il limite della rima, e
spesso oltre il limite della strofa senza stacchi, ma con una limpidezza metrica come se fosse la
torsione dun prisma di cristallo. Poi degli ornamenti del parlare ("arte che tanto il parlar adorna..."),
unabbondanza mai vista nei poemi cavallereschi: dittologie a non finire, similitudini a grappoli,
apostrofi, chiasmi, iperbati, litoti, parallelismi, anafore e riprese a eco da una strofa allaltra, che
modellano i passaggi, orchestrano tutti i punti d'eccitazione, tengono insieme il frammentario
zibaldone delle gesta eroiche in una ariosa sospensione.

Ariosto si trova bene nei larghi ariosi, le vaste tele, dove ci sono molti fili da annodare. La sua vena
tende alla continua variazione su schemi collaudati, e funziona male nelle strettoie della
drammaticit. Si vede bene nelle sue liriche, cos petrarchesche, come svuota il fulcro drammatico
che anima lo scenario della trappola amorosa in Petrarca, per stare nei limiti d'una figurazione
proverbiale del poeta innamorato. Nessun incastro nellangustia petrarchesca tra la trappola d'amore
e il pensiero della morte (il dilemma petrarchesco che dice: "di qua dal passo ancor, che mi si serra/
mezzo rimango, lasso, a mezzo il varco...").

Il suo poema il trionfo della forma anti-drammatica, dove si oscilla tra stupore e riso, perch le
gesta eroiche prendono un'aria di insensatezza, ma parata da recita cerimoniale. Non c mai il
comico puro di Boiardo; ma piuttosto un umore slegato, senza fissaggio, dove il poeta pu aderire al
punto di vista di Orlando e maledire le donne, poi scusarsi dicendo che vaneggiava. Per lo stesso
motivo pu trascinarci con gli spasimi della maniacalit eroica, poi lasciarli deviare in una versione
anti-eroica. Un gran gioco di fabulazione che spiazza i concetti e le serie interpretazioni dottrinali a
cui siamo abituati.

Si capisce perch la legge di mutazione sia la sua musa; la volatilit degli umori, gi lodata da
Ludovico nelle sue liriche latine; la propensione dell'uomo fantastico, renitente ai legami, come
lui si descrive nelle Satire; il demone della variazione continua, nella fuga delle immagini, nella
mutabilit "in figuris", nella instabilit dei pensieri. Un mondo dominato da tale legge non pu
avere nessuna intensit drammatica, nessun fissaggio d'un destino migliore o peggiore, perch il
meglio e peggio non sono che fasi del giro della Ruota della Fortuna. Ma un mondo cos anche il
regno del meraviglioso senza fine, continua mutazioni di figure, dove il perpetuo girare a vuoto il
girare della sorte, il divenire che rende tutto instabile, comprese le teste matte degli uomini.

Devo parlare dell'eroe che pi incarna queste tendenze, il pi vicino al pensiero del fantasticante
Ludovico. Tra i maggiori eroi, Astolfo l'unico senza brame o manie riconoscibili, anche perch
non pi quel chiacchierone vanesio e comico che era in Boiardo. Ora rinato per metamorfosi da
una pianta, viene eletto ad aereo rappresentante della voglia vagabonda, di continue rotture e
deviazioni nel disegno di trame. Le pi belle avventure di Astolfo non sono che meraviglie della
mutazione magica di tutto - masse di africani che diventano un esercito cristiano, sassi del deserto
che diventano cavalli, rami d'albero che diventano una flotta, l'uomo selvatico che torna a essere il
grande guerriero pien di senno. Lo stesso Astolfo indefinibile; via via turista, agente magico,
Ulisse che scende agli inferi, Dante che sale in paradiso, inviato di Dio, stratega. Anche lui figura
mutevole, lo ricordiamo soprattutto come un segno errante nel mondo, fissato nell'immagine del
volo della mente, l che sale in aria sul cavallo ippogrifo.

Ma la massima mutazione figurale che introduce nel poema, la terra vista dalla luna, dove sale
assieme allevangelista San Giovanni. La Luna il suo arcano, diciottesimo dei tarocchi, regolatore
dei flussi e riflussi, l'attrattore di tutto quanto sta in sospensione sulla terra. Infatti il poeta dice che
lass si trova tutto quel che quaggi va perduto, ma cosa? "Non pur di regni o di ricchezze parlo,/ in
che la ruota instabile lavora;/ ma di quel ch'in poter di tor, di darlo/ non ha Fortuna..." (XXXIV,74).
Quaggi c' il divenire di ascese e cadute, secondo il giro della Ruota della Fortuna, l'effimero.
Lass invece ci sono le forme eterne, come in un iperuranio, dove per al posto delle idee di Platone
troviamo le manie proverbiali, le vane ambizioni di salire in alto, i desideri che girano sempre a
vuoto, le forme eterne dell'imbecillit umana.

Comunque, a differenza dei commentatori che parlano di ironia ariostesca, accusa dei vizi umani, io
credo che la visione di Astolfo dalla luna si profili come una grande meraviglia. Ecco i sospiri e le
lacrime degli amanti, la fama divorata dal tempo, i vani disegni che non giungono mai in porto, i
grandi imperi come vesciche piene di chiasso, le adulazioni come cicale scoppiate, le elemosina
come minestre versate a vuoto - tutto col gusto di presentare gli usuali miraggi umani come tropismi
simili a quelli delle piante e degli insetti, che perci diventano meraviglie da fiera, stupore senza
fine. Questa la grammatica di base del poema; l'intrico di linee d'attrazione in cui tutti si perdono
nell'errore, come gli eroi maniaci; tutti egualmente pazzi in balia del film dei desideri, nel divenire
anonimo, dove la saggezza non si sa proprio dove stia di casa. Una specie di discarica delle illusioni
mondane, cortesi, rapaci, amorose, eroiche, e poetiche (la fama), che fanno girare il mondo. Visione
di meraviglia scettica, aerea e senza confronti.

19. Note finali sulla forma del poema cavalleresco


Quello che ho cercato di annotare nell'Orlando furioso l'aspetto figurale delle sospensioni
multiple, che si accavallano nel corso del poema, tenendo assieme tutti gli intrichi delle trame. Il
loro aspetto precisamente quello di un arabesco, dove due linee si disgiungono per comporre
volute e intrecci separati, annodandosi con linee diverse, e al termine del loro percorso si
ricongiungono. Motivo orientale, che troviamo nei tappeti islamici o nei manoscritti persiani, ma
anche in disegni d'importazione europea: le decorazioni epigrafiche o quelle dell'architettura.

Considerando che i romanzi cavallereschi parlano di guerre tra cristiani e saracini, si pu anche
pensare che aderiscano a una voga orientale o "saracina" molto diffusa; e cercare qui il gusto per gli
intrichi di linee divaganti che forma il disegno dei poemi di Pulci, Boiardo e Ariosto. La voga
chiamata "saracina" era quella delle stoffe damascate, delle mussoline, del vasellame sassanide
usato dai Duchi dEste, degli arabeschi decorativi, dei grovigli vegetali nell'ornato delle architetture,
dei tappeti islamici che comparivano nella pittura sotto i piedi dei santi o delle Vergini. Corrisponde
a un gusto per un disegno non rappresentativo, non lineare, dove non c' distinzione tra forme
ornamentali e messaggi verbali (ad esempio, i versetti coranici nei tappeti).

Questa voga deve aver avuto qualcosa a che fare anche con l'artigianato letterario, insieme alle
fantasie orientali diffuse da Marco Polo. Nelle storie cavalleresche, dalla Spagna in rima, ai racconti
di Andrea da Barberino, a Pulci e Boiardo, cresce una visione fantastica di terre esotiche, d'un
Oriente quasi senza confini. Le fantasticazioni su terre d'Oriente, nel poema di Pulci producono
scombinate peregrinazioni di Orlando, Rinaldo, Ulivieri e qualcun altro. L si perdono Orlando e
Rinaldo, nella vaghezza di terre innominate, sempre pi lontani da Parigi, centro di sparpagliamento
dei paladini. Boiardo il primo a dare a quegli sfondi una collocazione geografica definita, usando i
riferimenti dei cartografi, ampliando le descrizioni d'ambiente, soprattutto di luoghi incantati; e nel
suo poema, il terreno delle gesta si espande fino alle pianure del Catai, all'Estremo Oriente, all'Asia
Minore, alle coste dell'Africa; tutte zone mostrate come luoghi "ermi e selvaggi", mondo fatto solo
di percorsi erratici e di vaghezza. Infine il poema ariostesco - se segnassimo su una superfice tutti i
nomi di luoghi nei tragitti dei suoi eroi, avremmo un disegno che copre l'intero globo descritto da
Tolomeo, visto a volo d'uccello. Ma Ariosto il primo ad aver chiaro che i migliori viaggi si fanno
con le fantasie, sulla carta geografica, e quello il vero volo della mente: "con Ptolomeo ... in su le
carte volteggiando" (Satira III).

La voga delle fantasie d'Oriente in Pulci un ingrediente aggiuntivo che allarga solo un po'
l'orizzonte; mentre diviene vistosa nell'Orlando innamorato, per gran parte ambientato in terre
esotiche, con stupefacenti invenzioni di nuovi eroi "moreschi" o "tartareschi" o "indiani" -
Rodomonte, Agricane, Gradasso, Marfisa, Sacripante, e altri. Ma la fabulazione sulle meraviglie
d'oriente condensata da Boiardo soprattutto nella figura di Angelica, figlia del re del Catai,
apparizione che trasforma il poema cavalleresco italiano. Lei nasce nel segno della fantasticazione,
del moto perpetuo, dell'instabilit della mente, sganciata da regole dottrinali del bene e del male,
proprio perch una pagana incantatrice, tessitrice d'inganni venuta in Europa a catturare i paladini
di Carlo Magno.

Dal momento preciso della sua apparizione, nel primo canto dell'Orlando innamorato, le trame
cavalleresche prendono un impulso insolito, cominciano a fiorire a grappoli sulla traccia d'una
inseguimento che andr sempre a vuoto, e sar sempre un tragitto errabondo, spezzato o divagante.
Mai s'era visto un fascio di tante linee da tenere assieme, e tanti viaggi multipli in Oriente, e
continenti attraversati con tanta disinvoltura. In Ariosto i motivi esotici diminuiscono di numero e
non danno un'immediata accensione fantastica come in Boiardo: ma pi chiaro diventa il disegno
delle trame, la serie di motivi ornamentali discontinui; ad esempio le novelle incassate nel disegno
del poema, che amplificano con parallelismi interni i suoi temi (del tradimento amoroso, le virt
delle donne, etc.); fino a produrre una vasta geometria di linee spezzate, che davvero si dispiegano
come quelle d'un tappeto d'Oriente.

Tralascio un confronto con il gusto delle trame incassate una nellaltra, che si vede nelle Mille e una
notte, e che non esiste nella nostra tradizione novellistica. Nulla ci dice che Boiardo e Ariosto
pensassero al gusto ornamentale dell'Islam; ma io parlo di forme che si elaborano seguendo le
convenzioni di un genere e uno stile collettivo. Anche nei romanzi di Bretagna, nei cicli dei paladini
di re Art, come nei romanzi di Chrtien de Troyes, c' un continuo errare dei cavalieri, con percorsi
vari a ghirigoro ("entrelacs"); ma non c' l'incastro di fasci di trame parallele che troviamo in
Boiardo e soprattutto in Ariosto; e non c' quel volo di figure che si sparpagliano su una carta
geografica senza confini - l'idea del mondo come pura meraviglia senza inizio e senza fine. (Questa
idea tra l'altro rientra nella dottrina coranica, scopro, leggendo Le isole mirabili di Angelo Arioli,
1989, pag. 133).

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