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La musica nell’opera di D’Annunzio

I rapporti che intercorrono tra Gabriele D'Annunzio e la musica sono numerosi e possono essere osservati da diverse
angolature e da diversi punti di vista. D'Annunzio ha avuto il merito di operare un tentativo di apertura verso orizzonti
europei la collaborazione con Claude Debussy nel Martyre de Saint Sébastien, ma anche con altri compositori italiani.

Io mi soffermerò sull’influenza che la musica di Wagner ebbe sull’arte di D’Annunzio.

«Riccardo Wagner non soltanto ha raccolto nella sua opera tutta questa spiritualità e questa idealità intorno a lui, ma,
interpretando il nostro bisogno metafisico, ha rivelato a noi stessi la parte più occulta della nostra intima vita»

Due sono i romanzi che più di altri sono ricchi di implicazioni musicali wagneriane: Il Fuoco e Il Trionfo della Morte.
La trattazione che D’Annunzio fa della musica nei succitati romanzi sarà in ogni modo occasione per ricollegarsi alla
personalità del poeta ed ai suoi rapporti con la cultura italiana ed europea, mostrando strettissimi legami tra biografia ed
invenzione, tra realtà e fantasia.

Il trionfo della morte

Nella lettera indirizzata a Francesco Paolo Michetti, del Trionfo della morte, datata aprile 1891, d'Annunzio dichiara
l'ambizione che lo infiamma: «V'è, sopratutto, [...] il proposito di fare opera di bellezza e di poesia, prosa plastica e
sinfonica, ricca d'immagini e di musica.»

D'Annunzio comincia a scrivere questo romanzo nel settembre del 1889, un anno dopo Il Piacere, e lo terminerà ben 5
anni dopo. La complessità dell'opera, infatti, giustifica la lunga e meditata gestazione.
Giorgio Aurispa, come lo Sperelli de Il Piacere, è un esteta alla ricerca di un significato alto e nobile da conferire alla
propria esistenza, in contrapposizione alla volgarità e banalità del vivere comune.
Cercherà come un disperato questo significato passando attraverso varie esperienze: la musica, il misticismo, il tentativo
di recupero degli affetti familiari, l'abbandono alla forte passione sensuale per Ippolita, consumata in un eremo immerso
nella campagna e a contatto con la vita semplice dei contadini.
Tutto, però, appare vano e alienante. Ad ogni esperienza cui segue la disillusione, il protagonista si sente intimamente
estraneo. Persino la presenza della sua amante gli diventa fastidiosa. Aveva sperato che Ippolita, con la sua prorompente
sensualità, avesse potuto guarirlo da tutti i mali esistenziali e rappresentare la risposta ad ogni dubbio. Invece, lungi
dall'esserlo, la donna verrà avvertita come una nemica e la morte sarà l'unica possibile soluzione al "mal di vivere".
Giorgio sente veramente affine a sé lo zio violinista, Demetrio, uccisosi anni prima per il disgusto verso la vita arida e
miserabile della provincia, troppo inferiore alle proprie ambizioni e aspirazioni e alle proprie capacità di arte e vita.
Giorgio vede nel suicidio di Demetrio un modello da seguire. Egli si recherà con Ippolita sull'alto di una rupe e si
getterà di sotto, precipitandosi nella morte insieme alla sua compagna che, disperatamente, tenterà invano di sottrarsi
all'abbraccio fatale.

Il Trionfo della morte va nella direzione di un romanzo psicologico incentrandosi sulla visione soggettiva del
protagonista, sull’esplorazione della sua coscienza. L’intreccio dei fatti è costituito dalla dinamica dei processi interiori:
la vicenda si può dire che si svolga dentro la mente di Giorgio Aurispa.

La musica ne Il trionfo della morte

Ne Il trionfo della morte la musica è una presenza costante: l'incontro tra Giorgio Aurispa ed Ippolita Sanzio avviene
all'insegna della musica come del resto la loro morte. La musica sembra dunque essere causa e artefice di tutta la
vicenda, capace, con le sole forze del suo fluire, di unire e disunire, inno all'amore ma anche alla morte. Ma esistono
altri episodi all'interno del romanzo in cui la musica, seppur non protagonista, è presenza costante ed inquietante: il
dialogo doloroso tra Aurispa e la sorella Cristina mentre il suono di un pianoforte proviene in lontananza dalla casa
paterna; la musica che giunge ora sì ed ora no, portata dal vento; la rievocazione della personalità dello zio Demetrio,
personalità che Giorgio Aurispa sente più che mai vicina:

«Teneva il violino. Si passò una mano su i capelli, alla tempia, sopra l'orecchio, con un atto che gli era familiare.
Accordò l'istrumento, diede la pece all'archetto, incominciò la Sonata. La sua mano sinistra correva sulle corde, lungo
il manico, premendolo con la punta delle dita scarne, convulsa e fiera, mentre di sotto la pelle il gioco dei muscoli era
cosi palese che faceva quasi pena. La sua mano destra eseguiva la cavata con un gesto largo e impeccabile».

Il trionfo della morte è senza dubbio, fra tutti i romanzi contemporanei, quello più direttamente ispirato da Tristano e
Isotta di Wagner. Dal principio alla fine, e specialmente verso la fine, ne porta il segno fatale e la grandiosa impronta.
L'ultima parte del romanzo contiene un'analisi del Tristano di cui non conosco l'eguale per intelligenza e per fedeltà, per
il compiacimento che lo scrittore pone nel riconoscersi e nell'ammirarsi - sotto le vesti del suo eroe - nel suo terribile,
funesto modello.

«Nel preludio del Tristano e Isolda - scrive - l'anelito dell'amore verso la morte irrompeva con una veemenza inaudita,
il desiderio insaziabile si esaltava in una ebbrezza di distruzione. Per bere laggiù in onor tuo la coppa dell'amore
eterno, io voleva consacrarti con me sul medesimo altare alla morte.»

D'Annunzio rivela e traduce in parole, nel Preludio di Tristano, l'insaziabile desiderio esaltato fino all'ebbrezza della
distruzione. Quando Tristano le «appariva in piedi, immobile, con le braccia conserte, con lo sguardo fisso nelle
lontananze del mare», mentre « gli occhi di Isolda, descrive il D'Annunzio, accesi d'una cupa fiamma, contemplavano
l'eroe, sorgeva dal golfo mistico il motivo fatale, il grande e terribile simbolo d'amore e di morte, in cui è racchiusa
tutta l'essenza della tragica finzione. E Isolda con la sua bocca medesima proferiva la condanna: ‘’Da me eletto, da me
perduto’’
La passione metteva in lei una volontà omicida, e svegliava nelle radici dell'essere un istinto ostile all'essere, un
bisogno di dissolvimento, di annientamento. Ella si esasperava cercando in sè, intorno a sè una potenza fulminea che
colpisse e distruggesse senza lasciar vestigio. Il suo odio si faceva più atroce al cospetto dell'eroe calmo ed immobile
che sentiva sul suo capo addensarsi la minaccia e sapeva l'inutilità d'ogni difesa.»

E' nel secondo atto, dopo l'Inno alla notte,ascoltiamolo questo ineguagliabile traduttore in poesia ed interprete
sensibilissimo della musica wagneriana:

« ...Nell'orchestra parlavano tutte le eloquenze, cantavano tutte le gioie, piangevano tutti i dolori, che mai voce umana
espresse. Su dalle profondità sinfoniche le melodie emergevano, si svolgevano, si interrompevano, si sovrapponevano,
si mescevano, si stemperavano, si dileguavano, sparivano per riemergere. [...] Nell'impeto delle progressioni
cromatiche era il folle inseguimento d'un bene che sfuggiva ad ogni presa pur da vicino balenando. Nelle mutazioni di
tono, di ritmo, di misura, nelle successioni di sincopi era una ricerca senza tregua, era una bramosia senza limiti, era il
lungo supplizio del desiderio sempre deluso e mai estinto.»

E più avanti:

«Le parole si udivano distinte sul pianissimo dell'orchestra. Una nuova estasi rapiva i due amanti e li sollevava alla
soglia del meraviglioso impero notturno. Essi pregustavano già la beatitudine del dissolvimento, si sentivano già
liberati dal peso della persona, sentivano già la loro sostanza sublimarsi e fluttuare diffusa in una gioia senza fine,
senza risveglio, senza tema, senza nome».

La descrizione di D'Annunzio è assai poco indirizzata verso la tecnica musicale e tutta tesa a rendere il senso
dell'immedesimazione del protagonista con il personaggio wagneriano e con la sua fine prossima e inevitabile.
L’annotazione di più significativo valore è,senza alcun dubbio, quella di aver colto una delle caratteristiche peculiari
dell'opera del musicista traslandola in letteratura col suo gusto,stimolando intimamente in modo che si abbia un legame
il più profondo possibile: l'opera come dramma unicamente interiore.

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