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GLOBALIZZAZIONE
Roberto Agostini
(r.agostini@unibo.it)
1
Cfr. i pericoli del “liberismo progressista” descritti in R. MIDDLETON, Studiare la popular music,
Milano, Feltrinelli, 1994, p. 177. Lo studio della popular music vanta una tradizione consolidata,
anche in Italia, dove la sezione italiana della IASPM (International Association for the Study of Po-
pular Music), «Musica/Realtà» e il GATM promuovono iniziative di studio sulla popular music fin
dal 1980.
Anzitutto bisogna sgombrare il campo da possibili equivoci sul concetto di po-
pular music. L’accezione moderna di ‘popular music’ nasce alla fine
dell’Ottocento in seno al pensiero intellettuale occidentale, il quale, mentre con-
solidava il suo interesse per le culture popolari e per il folklore, osservava preoc-
cupato le nuove forme di svago cittadino che stavano prendendo forma, il ruolo
fondamentale che qui assumevano alcuni generi musicali presto denominati ge-
nericamente ‘popular music’, e l’avviarsi di quel processo politico-economico di
“americanizzazione” che, nella seconda metà del Novecento, darà forma a
un’industria transnazionale dell’intrattenimento che imporrà a tutto il mondo in-
dustrializzato non solo un modello di mercato, ma anche una serie di formati e di
contenuti massmediatici.2 Insieme a molti esponenti del mondo intellettuale, i
musicologi e i critici musicali considerarono questi sviluppi in termini catastrofici,
concentrando la loro critica sulla diffusione di due fenomeni strettamente interre-
lati, la popular music e il consumo di massa, considerati segni evidenti di quella
progressiva regressione e omologazione del gusto causa prima dello svilimento
della musica d’arte e dell’esaurirsi delle tradizioni folkloriche. Di fronte al dila-
gare di mode musicali tanto standardizzate ed effimere quanto imposte
dall’industria, sembrava che per la ricerca artistica e per le tradizioni orali presto
non ci sarebbe più stato spazio alcuno.3 In epoca relativamente recente è stato
però efficacemente mostrato che porre la questione nei termini di una distinzione
tra una musica di ricerca che pretende di essere autonoma dalle logiche sociali ed
economiche e una musica di consumo commerciale e standardizzata è fuor-
viante, poiché significa assumere una distinzione tra “cultura alta” e “cultura
bassa” nelle sue varie declinazioni (arte vs consumo; testo vs contesto; estetico vs
funzionale, d’uso; individuo vs massa, e via dicendo) la cui infondatezza teorica è
già stata evidenziata da vari autori: nella società moderna, caratterizzata da di-
namiche sociali complesse e contraddittorie, i termini ‘alto’ e ‘basso’ si riferiscono
a pratiche culturali tra le quali esiste una certa continuità, piuttosto che a due tipi
di oggetto.4 Le questioni che lo studio del Novecento musicale solleva sotto questi
aspetti vanno dunque inquadrate in una cornice storico-critica più articolata e
ampia di quanto si è soliti fare. Credo che un buon punto d’inizio per abbozzare
tale cornice sia di ripensare la storia della musica moderna e contemporanea
prendendo in considerazione il ruolo del progresso tecnologico, dello sviluppo
del capitalismo, dell’emergere dell’intrattenimento massmediatico e delle relative
trasformazioni della società.5
2
Cfr. ibid., pp. 19-36 e, per una storia dell’industria musicale, P. GRONOW e I. SAUNIO, An
International History of the Recording Industry, London, Continuum, 1998.
3
In questa prospettiva, la riflessione più autorevole è quella di Adorno (cfr. T.W. ADORNO, Sulla
popular music, Roma, Armando, 2004).
4
Cfr. S. FRITH , Performing Rites, Oxford, Oxford University Press, 1996, pp. 3-74; ID.,
L’industrializzazione della musica e il problema dei valori, in Enciclopedia della musica, I: Il Nove-
cento, Torino, Einaudi, 2001, pp. 953-959; M. SORCE KELLER, Musica e sociologia, Milano, BMG
Ricordi, 1996, pp. 81-86; e, per una riflessione più generale, L. LEVINE, Highbrow/Lowbrow: The
Emergence of Cultural Hierarchy in America, London, Mass. - London, Harvard University Press,
1988.
5
Questa riflessione è in atto da tempo. Cfr. M. BARONI e L. CALLEGARI, Origini e storia della popu-
lar music, in What is Popular Music?, a cura di F. Fabbri, Milano, Unicopli, 1985, pp. 176-193; R.
MIDDLETON, Articolare il significato musicale - Ricostruire una storia della musica - Collocare il po-
polare, «Musica/Realtà», V-VI, nn. 15-16, dicembre 1984 e aprile 1985, pp. 63-84 e risp. 97-118;
CH. HAMM, La musica degli Stati Uniti, Milano, Ricordi/Unicopli, 1990; W. MELLERS, Musica nel
Nuovo Mondo, Torino, Einaudi, 1975; A. Blake, The Land without Music, Manchester, Manche-
ster University Press, 1997. Cfr. anche R. LEYDI, L’altra musica, Firenze, Giunti Ricordi, 1991, p.
156 sgg.
6
Cfr. J. MOLINO, Tecnologia, globalizzazione, tribalizzazione, in Enciclopedia della musica cit., p.
774 sgg., e J. TOMLINSON, Sentirsi a casa nel mondo, Milano, Feltrinelli, 2001.
7
Cfr. E. EISENBERG, L’angelo e il fonografo, Torino, Instar Libri, 1997, p. 152 sgg.; M. CHANAN,
Repeated Takes, London, Verso, 1995, p. 137 sgg.; P. PRATO, Suoni in scatola, Ancona-Milano,
Costa & Nolan, 1999, pp. 5-8; D. KAHN, Audio Art in the Deaf Century, in Sound by Artists, To-
ronto, Art Metropole, 1990, http://www.soundculture.org/texts/kahn_deaf_century.html (2 set-
tembre 2005); MOLINO, Tecnologia, globalizzazione, tribalizzazione cit., pp. 768-774.
8
Per la distinzione allografico/autografico, cfr. N. GOODMAN, I linguaggi dell’arte, Milano, Il
Saggiatore, 2003, p. 102 sgg. Per la sua applicazione alla musica, cfr. T. GRACYK, Rhythm and
Noise, London, Tauris, 1996, p. 31 sgg., e A.J. ZAK III, The Poetics of Rock, Berkeley, University of
California Press, 2001, pp. 21-23.
9
L’aura è «l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si
trova» (W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi,
1966, p. 22).
R. Agostini 3
la separazione tra produzione e fruizione, o schizofonia.10 Per questo, al fine di
differenziare l’oralità delle culture che non conoscono i media da quella media-
tica, Ong propone di parlare di “oralità secondaria”.11
Come la fotografia, la radiofonia, la cinematografia e la televisione, la fonografia è
dunque una di quelle forme di comunicazione elettronica moderna che, lungi dal
“riprodurre” alcunché, media la realtà producendo “illusioni”. Considerando che
oralità, scrittura e fonografia non esistono mai in modo puro, e che in musica il
loro rapporto è assai complesso, vale la pena precisare che il mio discorso in-
tende solo disegnare delle linee di tendenza che evidenzino la specificità del fun-
zionamento di alcune musiche nella nostra società, dove sono molte le musiche,
in primis quelle popular, ad essere caratterizzate dallo statuto fonografico, ovvero
da regime allografico, distribuzione di massa di originali e schizofonia. Che ciò
non sia stato ancora acquisito dalla musicologia tradizionale non sorprende, le-
gata com’è al testo scritto e indifferente com’è al supporto fonografico inteso
come fonte da affiancare a quelle comunemente accolte. Eppure l’importanza
della fonografia è stata sottolineata in vari studi, che hanno rilevato che l’impatto
delle tecnologie elettroniche sulla produzione e sulla diffusione della musica ha
dato origine ad un processo di adattamento della musica – la ‘mediamorfosi’ –
dalle conseguenza assai ampie.12
Un aspetto importante della mediamorfosi può essere còlto se mettiamo in rela-
zione l’evoluzione tecnica ai mutamenti avvenuti nella sfera economica e sociale.
La fonografia è stata la premessa all’industrializzazione della musica, il cui av-
vento ha sancito lo status di merce della musica e ha fatto del consumo la moda-
lità tipica della sua fruizione. E’ importante notare che le forti sinergie tecniche,
espressive ed economiche tra i vari settori dell’industria culturale hanno messo al
centro dei loro interessi proprio la musica, ed in particolare la popular music, che
è così diventata la musica più diffusa e ascoltata, entrando nelle vite delle persone
con un ruolo spesso addirittura cruciale nei processi di formazione e consolida-
mento delle identità individuali e sociali. E’ però importante collocare tali pro-
cessi nel loro contesto sociale, anch’esso mutato da un progressivo «movimento
di democratizzazione e di individualizzazione».13 Nell’èra moderna emerge
l’ideale della democrazia e acquisisce potere l’opinione pubblica; spariscono le
gerarchie di valori assolute e prevalgono i relativismi; le idee cominciano a cir-
colare tra i vari strati sociali, e i confini tra le élites e le altre culture si fanno sfu-
mati; diventano possibili nuove forme di distinzione sociale e nuove gerarchie
culturali, e nascono contrasti tra ideololgie dominanti e ideologie emergenti. La
10
La schizofonia è «la dissociazione dei suoni dal loro contesto originale» (M.R. SCHAFER, Il
paesaggio sonoro, Milano, Unicopli, 1985, p. 129).
11
Cfr. W. ONG, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 29 sg. Zumthor propone invece
l’idea di ‘oralità mediata’ (cfr. P. ZUMTHOR, La presenza della voce, Bologna, Il Mulino, 1984, pp.
26-30).
12
Cfr. K. BLAUKOPF, Musical Life in a Changing Society, Portland, Amadeus Press, 1992, pp. 248
sgg. Studi che approfondiscono le dinamiche dell’oralità secondaria e della mediamorfosi sono,
ad esempio, G. MONTECCHI, L’oralità ritrovata: paradigmi di una sfida globale, «Musica/Realtà»,
XXIV, n. 71, luglio 2003, pp. 103-123, e Music and technoculture, a cura di R.T.A Lysoff e L.C.
Gay jr, Middeltown, Wesleyan University Press, 2003.
13
MOLINO, Tecnologia, globalizzazione, tribalizzazione cit., p. 780.
14
Tagg è stato uno dei primi a sottolineare questo punto: cfr. PH. TAGG, Kojak. 50 seconds of
television music (1979), New York, The Mass Media Music Scholars’ Press, 2000, pp. 51-82.
R. Agostini 5
Partendo da questi stimoli, alcuni musicologi ed etnomusicologi di varia estra-
zione hanno iniziato un radicale lavoro di critica al paradigma musicologico al
fine di ridefinire il ruolo e le finalità della musicologia nel mutato contesto cultu-
rale.15 Al centro della critica c’è il fatto che il paradigma musicologico, centrato
sulla tradizione estetica occidentale, sulla scrittura, e sulle nozioni di ‘opera
d’arte’ e ‘autonomia della musica’, tende a presentarsi come il criterio unico e as-
soluto per decidere che cosa fa parte del campo di studio e che cosa no. L’idea è
di superare questa visione autoreferenziale, che fa coincidere i limiti dell’àmbito
disciplinare con la tradizione della musica d’arte occidentale, e ridefinire il ruolo
della musicologia nell’ottica dello studio del mondo musicale nella sua moltepli-
cità e complessità. Non si tratta d’accogliere in modo indifferenziato questa mol-
teplicità, ma di definire criteri e strumenti appropriati per affrontarne lo studio. In
questo senso, un approccio verso il quale molti autori convergono, consiste nel
centrare l’attenzione sulla musica come ‘fenomeno culturale’ piuttosto che sulla
musica ‘in se stessa’, e passare dallo studio della musica in quanto ‘opera’ allo
studio della musica come ‘attività’, ‘pratica’ o ‘esperienza’, superando il dualismo
‘testo/contesto’. Il concetto di ‘esperienza’ sembra particolarmente utile in questo
senso, poiché permette di impostare lo studio della musica come relazione com-
plessa, molteplice e dinamica tra un soggetto umano e un oggetto musicale. Per
affrontare lo studio della musica in questa prospettiva, molti autori mostrano
l’utilità di ricorrere agli strumenti sviluppati dalle scienze sociali che, insieme al
metodo storico e all’analisi musicale, sembrano essere utili per potenziare le no-
stre conoscenze riguardo le dinamiche culturali dell’esperienza musicale.
15
Cfr. Rethinking Music, a cura di N. Cook e M. Everist, Oxford, Oxford University Press, 2001;
Discipling music. Musicology and Its Canons, a cura di K. Bergeron e Ph.V. Bohlman, Chicago,
University of Chicago Press, 1992; Concert Music, Rock, and Jazz since 1945, a cura di E.W. Mar-
vin e R. Hermann, Rochester, University of Rochester Press, 1995; Keeping Score: Music, Discipli-
narity, Culture, a cura di D. Schwartz, A. Kassabian e L. Siegel, Charlottesville, University Press of
Viginia. 1997.
16
L’idea di ‘esperienza estetica’ è diffusa nella riflessione sull’estetica moderna. Cfr. G. GENETTE,
L’opera dell’arte, II: La relazione estetica, Bologna, CLUEB, 1998, p. 31sgg.; P. BASSO, Il dominio
dell’arte, Roma, Meltemi, 2002, cap. IV; e Il giudizio estetico nell’epoca dei mass media, a cura di
A.R. Addessi e R. Agostini, Lucca, LIM, 2003 (in particolare i saggi di Marco De Marinis, Jean Mo-
lino, e Piero Bertolini e Marco Dallari).
17
Cfr. L. MARCONI, Aesthetics of popular music, di prossima pubblicazione negli atti della XIII
conferenza della IASPM (Roma, luglio 2005). Per il concetto di ‘condotta’, cfr. FR. DELANDE, Le
condotte musicali, Bologna, CLUEB, 1993. Per il concetto di ‘competenza’, cfr. G. S TEFANI, Mu-
sica: dall’esperienza alla teoria, Milano, Ricordi, 1998, pp. 13-25, e MIDDLETON, Studiare la po-
pular music cit., pp. 247-249.
18
Cfr. ibid., p. 177.
19
La distinzione apollineo-dionisiaco è tematizzata in F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia
(1872), Milano, Adelphi, 1994. Per la prospettiva estetica qui segnalata, cfr. R. SHUSTERMAN, So-
maesthetics: a disciplinary proposal, «Journal of Aesthetics and Art Criticism», LVII, n. 3, 1999, pp.
299-313; MARCONI, Aesthetics of popular music cit.; Il giudizio estetico nell’epoca dei mass media
cit. (qui a nota 16); e il numero monografico del «Journal of Aesthetics And Art Criticism», LVII, n.
2, 1999, su “Aesthetics and the Popular Culture”.
20
Per una breve rassegna di studi, cfr. MIDDLETON cit., pp. 167-170. Cfr. anche B. BAUGH, Prologo-
mena to an aesthetics of rock music, «The Journal of Aesthetics And Art Criticism», LI, n. 1, 1993,
pp. 23-29, S. DAVIES, Rock versus classical music, «The Journal of Aesthetics And Art Criticism»,
LVII, n. 2, 1999, pp. 193-204, Ch. KEIL, Motion and feeling through music, in Ch. Keil e S. Feld,
Music grooves, Chicago, University of Chicago Press, 1994, pp. 53-76, J. MOLINO, Il puro e
l’impuro, in Enciclopedia della musica cit., pp. 1051-1063, e MONTECCHI, L’oralità ritrovata cit..
R. Agostini 7
sulla pratica musicale dal vivo. Questi elementi musicali sono alla base di
un’esperienza musicale diversa da quella della musica d’arte occidentale, ma non
per questo estranea alla dimensione estetica. Non si tratta però di distinguere i
repertorii in ‘d’arte’, ‘folk’ e ‘popular’ sulla base del loro statuto orale, scritto o fo-
nografico; si tratta piuttosto di riconoscere la specificità delle varie esperienze
musicali rilevando delle linee di tendenza all’interno di continua, tenendo conto
che elementi di derivazione orale e scritta possono essere riconosciuti in propor-
zioni variabili in tutte le musiche, e che l’avvento della fonografia riguarda tutte le
musiche, non solo la popular music. Solo tenendo conto di ciò possiamo osser-
vare che i repertorii che normalmente ricadono sotto l’etichetta ‘popular’ manife-
stano spesso una sintomatica continuità con la pratica orale nel far riferimento a
strutture musicali funzionali alla regolazione affettiva e alla sincronizzazione
motoria, alla memorizzazione dei canti e dei movimenti coreutici e ad un gene-
rale coordinamento senso-motorio ed affettivo tra fruitore ed esecutore (reale o
virtuale), generando esperienze che, sia nella dimensione registrata sia in quella
dal vivo, presentano aspetti su cui si sono utilmente concentrate le riflessioni sulla
valenza dionisiaca e somatica dell’esperienza estetica.
21
U. E CO, La canzone di consumo, nei suoi Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964, p.
282, dove si aggiunge anche che «mettere in discussione come radicalmente negativa la mecca-
nica dell’evasione episodica … può costituire un pericoloso esempio di ybris intellettualistica e
aristocratica». Gli studi di Tagg sono esemplari in questo senso (cfr. Ph. TAGG , Da Kojak al rave,
Bologna, Clueb, 1994).
22
Cfr. M. DE CERTEAU, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni del Lavoro, 2001, cap. III, e C.
LÉVI-STRAUSS, Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964, p. 29 sgg. Per un’applicazione in
musica di quest’approccio, cfr. G. STEFANI, L’arte di arrangiarsi in musica, «Carte semiotiche», II,
1986, pp. 97-114.
23
Cfr. A. APPADURAI, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001, p. 50 sgg., e SORCE KELLER cit.,
p. 85.
24
Cfr. K. NEGUS, Music Genres and Corporate Cultures, London, Routledge, 1999, cap. II.
25
Qui e in seguito mi riferisco alla tavola rotonda “Musicologia storica e musica di consumo”
(2002), dove è stato presentato questo intervento. Per la relazione di base citata, cfr. P. CECCHI, Su
alcune questione storiografiche circa la musica di consumo nel secondo dopoguerra, «Il Saggiatore
Musicale», X, 2003, p. 323-327: 325.
R. Agostini 9
corderò solo, come esempio, i cosiddetti turn-tablists o quei musicisti che cen-
trano la loro ricerca sulla pratica del campionamento, ben descritti da Veniero
Rizzardi in questa stessa tavola rotonda. In queste attività si evidenziano spazi di
ricerca e di pensiero specifici alla popular music, che spesso la musicologia, sulla
base del proprio paradigma consolidato, tende a non riconoscere. Essi c’invitano
ad aprire un importante fronte di ricerca: quello dei valori e delle identità chia-
mate in causa nelle varie esperienze musicali contemporanee, sia al fine di capire
meglio la popular music, sia per rileggere i repertorii storici e contemporanei in
una prospettiva inedita.