You are on page 1of 436

Elisabeth Haich

Iniziazione:
memorie di un’Egizia

Traduzione di Daniela Muggia


Copertina tratta da “Super nova awakening ”
di Valérie Vickland

\ r r
Presso le Edizioni Arista:
nella collana delle opere di Anne e Daniel MEUROIS-GIVAUDAN:
- L’ALTRO VOLTO DI GESÙ’ (Memorie d’un Esseno - voi. I)
- LE STRADE D’UN TEMPO (Memorie d’un Esseno - voi. II)
- VIAGGIO A SHAMBHALLA
- LE VESTI DI LUCE: leggere l’aura e curare per mezzo dell’Amore
- TERRA DI SMERALDO: testimonianze dall’Oltrecorpo
- RACCONTI D’UN VIAGGIATORE ASTRALE
- L’INCONTRO CON LUI
- I NOVE SCALINI: cronaca di una reincarnazione
nella collana dedicata alle FAVOLE INIZIATICHE:
- USA CIO’ CHE SEI, di Fun-Chang
- IL SUONATOR DI FLAUTO, di Paule Riby
nella collana SAGGEZZA:
- INIPI, IL CANTO DELLA TERRA, di A. Pazzogna e A.F. Cervo Zoppo
- SAGGEZZA: come far buon uso delle religioni, di Anagarika Silananda
- MEDITAZIONE: cos’è e come praticarla, di Sogyal Rinpoche
- SUFI: oltre l’ultima barriera, di Reshad T. Feild
nella collana FINDHORN:
- LE PORTE INTERIORI, di Eileen Caddy
nella collana I DEVA:
- FRATELLO ELFO, SORELLA FATA, di Johfra, Lórien, Kaijan
- IL RITORNO DEL POPOLO ALATO (Il libro degli Angeli), di Ken Carey
nella collana I GRANDI PRECURSORI:
- GIORDANO BRUNO, IL VULCANO DI VENEZIA, di Y. Caroutch
- LUCI DELLA GRANDE LOGGIA BIANCA, di Michel Coquet
nella collana ALTRI UNIVERSI:
- DI STELLA IN STELLA, di Serge Reiver
nella collana ENERGIE:
- REIKI: energia e guarigione, di Giancarlo Tarozzi
- CASA TRA TERRA E CIELO, di Jean-Charles Fabre
carte:
- I MESSAGGI DELL’UNIVERSO: un gioco di carte per andare oltre la mente
Riceverete gratuitamente il nostro catalogo ed
i successivi aggiornamenti richiedendolo a:
Edizioni ÀRISTA - Casella Postale - 10094 Giaveno (To)
telefono e fax (Oli) 9349128

Titolo originale dell’opera: ENITIATION


© Elisabeth Haich
© per l’Italia: Edizioni ÀRISTA s.a.s., Torino.
«I giganti erano in quel tempo sulla Terra,
dopo che i figli di Dio erano andati incontro
alle figlie degli uomini, e che queste avevano
dato loro dei figli: questi, furono gli eroi fa­
mosi nell’antichità.»
Genesi, 6-4
INDICE

Prefazione
Introduzione Cerco...................................................................... 1
Cap. I - Il risveglio.............................................................. 6
Cap. II - Luci e leoni........................................................... 15
Cap. Ili - I miei genitori non sono “i miei” genitori...........18
Cap. IV - Un’alba è un’altra cosa! .......................................24
Cap. V - Voglio andarmene................................................29
Cap. VI - Aspiro all’unità..................................................... 36
Cap. VII - L’uomo rosso........................................................ 38
Cap. VIE - Si delinea il mio futuro......... ............................... 41
Cap. IX - L’amore ed i suoi problemi..................................46
Cap. X - Primo incontro con la morte.................................50
Cap. XI - Prime visioni del futuro........................................54
Cap. XII - Il risveglio del passato..........................................57
Cap. XIII - Secondo incontro con la morte.............................62
Cap. XIV - Tenebre..................................................................66
Cap. XV - Una svolta decisiva............................................... 72
Cap. XVI - Lotta per ritrovare la luce.....................................79
Cap. XVII - Auspici..................................................................93
Cap. XVIII- Bagliori..................................................................96
Cap. XIX- Visioni.................................................................101
Cap. XX - L’aurora — Gli Ayur-Veda................................129
Cap. XXI - E la luce fu.......................................................... 144
Cap. XXII - Nota dell’autrice................................................. 147
Cap. XXHI - Il passato diventa presente..................................150
Cap. XXIV - Lui.......................................................................158
Cap. XXV - I figli di Dio........................................................ 167
Cap. XXVI - Anni di preparazione..........................................176
Cap. XXVII - L’albero della conoscenza del bene e del male . 190
Cap. XXVIII - Le dodici paia di qualità gemelle...................... 197
Cap. XXIX- I leoni.................................................................. 206
Cap. XXX- Esercizi di telepatia............................................210
Cap. XXXI- Il futuro...............................................................215
Cap. XXXII - Bo-Ghar ed il bastone della vita.........................229
Cap. XXXIII - Dall’insegnamento di Ptahhotep
Le sette ottave di vibrazioni
L’Arca dell’Alleanza................................236
Cap. XXXIV - La forma delle piramidi.....................................255
Cap. XXXV - I quattro volti di Dio..........................................273
Cap. XXXVI - Le epoche del mondo........................................296
Cap. XXXVH - Ultime preparazioni...........................................309
Cap. XXXVIII - L’iniziazione......................................................326
Cap. XXXIX - Sacerdotessa......................................................364
Cap. XL - Ci rivedremo......................................................370
Cap. XLI - Il leone...............................................................381
Cap. XLH - Nebbia e risveglio..............................................389
Cap. XLHI - Roo-Kha e le dodici compresse........................ 400
Cap. XLIV - ... e compare il giovane sacerdote.....................407
Cap. XLV - ImaeBo-Ghar...................................................411
Cap. XLVI - Le prove si ripetono...........................................416
Epilogo ........................................................................... 422
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE FRANCOFONA

La religione è il ritmo nazionale del popolo indiano: ad ogni batti­


to del cuore l’indiano avanza verso quello scopo eternamente glorio­
so che è realizzare Dio in sé.
Quando sente pronunciare il nome di Dio il suo orecchio affinato
ne coglie la melodia, ed egli la riprende, intonando un inno in Sua
lode; può non avere né cibo né un tetto (spesso, il suo unico riparo è
la volta celeste) ma possiede Dio in cuor suo.
Sa che nell’arena della vita è andato e venuto innumerevoli volte,
e che nel corso di miriadi di nascite ha goduto di tutto ciò che il
mondo creato poteva offrirgli; avendo riconosciuto la verità secondo
la quale tutto sulla Terra è di passaggio, nulla più lo soddisfa. Ora il
suo unico desiderio è trovare e raggiungere la fonte da cui sgorga
ogni manifestazione. Ecco perché, fin dalla più tenera infanzia, prega:
«medito sulla grandezza dell’Essere che ha creato quest’universo;
possa Egli illuminare la mia mente.»
La natura bella e maestosa gli ricorda questo Essere e diventa
oggetto di adorazione; i libri sacri di qualsiasi religione, che emanano
dal Soffio di Dio, ispirano all’indiano rispetto ed ammirazione, pro­
prio come colui che Lo ha trovato e può parlare della strada che
conduce a Lui.
Ho la gioia di essere seduto ai piedi di un’anima illuminata:
Elisabeth Haich, che è la mia maestra, il mio guru, ed è accanto a lei
che i delicati petali della mia anima hanno incominciato ad aprirsi.
Spesso una sua parola soltanto è bastata ad aprirmi gli occhi, e, tal­
volta, uno sguardo comprensivo conforta le mie convinzioni, un’os­
servazione gentile può spazzar via tutti i miei dubbi; ogni istante
passato accanto alla mia maestra mi offre nuove esperienze e mi
induce a progredire a grandi passi.
Quante volte le parole del mio guru hanno alleviato la mia soffe­
renza:
«Non vivere per il presente, non ti lasciare influenzare dalle cose
effimere. Vivi nell’etemità, al di là del tempo e dello spazio, al di là
delle cose finite, e nulla potrà più influenzarti.»
In presenza della mia maestra, godo di un’indipendenza di pensie­
ro assoluta perché ho imparato che non bisogna utilizzare i pensieri
degli altri nella propria vita:
«Non voglio che ti accontenti di seguirmi lungo la strada che mi
conduce allo scopo; scegli da solo la via che meglio corrisponde alle
tue aspirazioni più intime e vai avanti. Non accettare alcuna afferma­
zione soltanto perché proviene da me, perché, anche se riflette la
verità, non è la tua verità, non è il frutto della tua esperienza, e quindi
non può appartenere a te. Realizza il vero, ed esso ti apparterrà. Devi
vedere nella vita di coloro che hanno realizzato la verità solo la prova
del fatto che la meta può essere raggiunta.»
Quando pronunciò quelle parole, fui colto da un’irresistibile vo­
glia di accedere ad un’indipendenza assoluta, e fu così che mi liberai
a poco a poco dell’idea perniciosa che faceva sì che attendessi sempre
aiuto dall’esterno; non avevo bisogno di un maestro che mi influen­
zasse, ma di un maestro che mi insegnasse come non farmi influenza­
re.
Da molti anni, ho il privilegio di ascoltare le più profonde verità
espresse nel linguaggio di tutti i giorni; non ho ancora mai sentito
qualcuno che sappia esprimere chiaramente le rivelazioni bibliche e
la loro applicazione nella vita quotidiana meglio di quanto faccia
Elisabeth Haich. Ho viaggiato molto, ma nessun sacerdote ha saputo
schiarirmi le idee sul senso di quelle rivelazioni, sebbene abbia parla­
to con molti di loro. Come, d’altronde, avrebbero potuto farlo, prima
di aver realizzato “in sé il regno dei cieli”? E come potrebbe essere
altrimenti, fintantoché non si vive né si riconosce in sé la realtà di
queste parole: “Siete la luce del mondo” e “Siete i templi viventi
dello Spirito Santo”?
Centinaia e migliaia di persone hanno seguito le conferenze di
Elisabeth Haich e preso parte ai suoi gruppi di meditazione; e il
nostro più grande desiderio era vedere il suo insegnamento sotto for­
ma di libro.
Ad ogni sua conferenza, la nostra anima assetata di verità si arric­
chiva in modo prodigioso, e grande è la nostra gioia nel sapere che
una parte delle sue conoscenze si trova ora concentrata in quest’ope­
ra, quale introduzione alla grande arte della realizzazione del Divino
in noi e dalla conoscenza dell’“essere umano, questo sconosciuto”.
Scopriremo allora la grande verità: lo sviluppo di sé è la rivelazione
della perfezione che, fin dall’inizio, è nell’uomo. La religione è la
messa in atto del principio divino che, nell’uomo, attende di potersi
manifestare.
S. R. Yesudian
INTRODUZIONE

Cerco...
Cerco una spiegazione alla vita terrestre. Mi piacerebbe sapere
perché l’uomo nasce, perché, con tanta difficoltà, il bambino diventa
adulto, si sposa, mette al mondo altri bambini che, con altrettanti
problemi, diventeranno adulti, si sposeranno, avranno ancora più
bambini che, in età avanzata, perderanno le facoltà acquisite a prezzo
di immensi sforzi, per poi morire. Un’interminabile catena, senza
inizio né fine! Bambini che nascono continuamente, che apprendono,
che lavorano come matti per sviluppare appieno il loro corpo e la loro
mente, e che dopo un tempo relativamente breve vengono dati in
pasto ai vermi: tutto è ormai consumato.
Che senso può avere tutto questo? L’unico scopo è forse produrre
generazioni future?
E perché coloro che non si preoccupano soltanto di moltiplicare la
loro discendenza e ci lasciano un’opera spirituale, perché si trovano
anch’essi sottoposti alle stesse condizioni? Invecchiano, e la pietra
tombale si chiude su di loro e sul loro talento. Perché mai un Michelan­
gelo, un Leonardo da Vinci, un Giordano Bruno, un Goethe e tanti
altri sono venuti al mondo se poi hanno dovuto marcire, divorati dai
vermi che si sono ingrassati sui loro corpi di titani?
No! È impossibile che la vita sulla Terra sia così senza senso!
Dietro a questo ciclo apparentemente interminabile di nascite e morti
ci deve pur essere un senso profondo, per quanto possa apparire in­
spiegabile ad una mente confusa; deve pur esserci una ragione piena­
mente soddisfacente e sensata, vedendo la cosa dall’altra parte!
Ma dove, e come trovare quest’altra parte, quest’altro lato di ogni
cosa che deve assolutamente esistere? Dove e come trovare la via che
conduce a questa conoscenza?
Chi può indicarmi la direzione, dove trovare una persona che sia
2 Elisabeth Haich

iniziata a questo mistero, qualcuno che possa rivelarmi la verità na­


scosta?
Da sempre vi sono state sulla Terra persone eccezionali che, con
assoluta sicurezza, hanno parlato del segreto della vita; la loro esi­
stenza è stata la testimonianza delle loro convinzioni, e costoro sono
chiamati “iniziati”.
Ma dove e da chi questi “iniziati” ricevettero la loro iniziazione?
Ed a cosa furono iniziati?
Ad esempio, Socrate impugna la coppa di veleno con una calma
divina, la vuota tranquillamente, parlando obiettivamente, senza pau­
ra e sorridendo dell’effetto del veleno, spiegando come i suoi piedi
vadano raffreddandosi, come il freddo della morte, simile ad un ser­
pente, gli si avvolga intorno al corpo fino a raggiungere il cuore; è
cosciente dell’imminenza della morte, si congeda dai suoi fedeli di­
scepoli e chiude gli occhi. Soltanto una conoscenza assoluta può dar
luogo ad un atteggiamento tanto sereno di fronte alla morte! A quale
fonte Socrate ha attinto questo sapere? E gli altri giganti che, in
epoche diverse, hanno abitato la Terra, da dove hanno ricevuto la
conoscenza del mistero della vita e della morte, da dove hanno avuto
la loro iniziazione?
Ancora oggi dev’essere possibile trovare degli “iniziati” di questo
genere, e deve pur esserci un mezzo per ottenere un’iniziazione, Vini­
ziazione grande ed autentica.
La vita mi ha fatto capire che la Bibbia non è soltanto una sempli­
ce raccolta di favole, ma che è stata scritta da iniziati i quali, in un
linguaggio occulto, ci hanno trasmesso verità profonde e nascoste;
ora, la Bibbia dice: «Cercate, e troverete; bussate e vi sarà aperto.»
Obbedii dunque, e cominciai a cercare dappertutto: nei libri, in
antichi manoscritti, presso individui che mi sembravano in grado di
sapere qualcosa in fatto di iniziazione. I miei occhi e le mie orecchie
erano costantemente all’erta, e cercavo di scoprire nelle opere del
passato e del presente, negli insegnamenti degli antichi e dei contempo­
ranei, qualche tessera nascosta del misterioso mosaico dell’iniziazione.
E ne trovai! Di rado, all’inizio: qui e là, il mio orecchio interiore
riconosceva la voce della verità nelle parole di un libro o in quelle di
una persona. Allora continuavo in quella direzione, la direzione indi­
cata dal quella voce misteriosa che, simile al filo di Arianna, mi
conduceva sempre più lontano. A volte, trovavo nella mia città qual­
cuno che sapeva darmi eccellenti consigli e, in altri casi, quella voce
mi spingeva lontanissimo, all’estero, laddove l’insegnamento che ve­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 3

niva impartito concordava davvero con le parole che avevo sentito a


casa mia.
Fu così che incontrai persone sempre più dotte, che mi spiegavano
sempre meglio il mistero dell’iniziazione e del senso della vita; mi
imbattei naturalmente in qualche ignorante pretenzioso che si faceva
passare per saggio, ma riuscivo immediatamente a scoprire se si trat­
tava della «voce di Giacobbe con le mani di Esaù». Quei poveri
ciarlatani che si facevano passare per “iniziati” si tradivano subito:
non erano in armonia con loro stessi né con la loro vita, quindi, come
avrebbero potuto insegnarmi qualcosa sulle profonde verità della vita,
sull’iniziazione? In tal caso passavo oltre, sempre in cerca di colui
che possedesse la vera conoscenza, l’iniziato autentico.
Quando incontravo qualcuno che ne sapeva più di me, restavo con
lui per il tempo necessario ad apprendere tutto ciò che poteva inse­
gnarmi, poi riprendevo il cammino...
...Finché, un giorno, giunsi da una donna già attempata che viveva
in una specie di convento, circondata da un nugolo di ricercatori;
lavorava in stretta collaborazione con due giovanotti, un Indiano e un
Occidentale che chiamava “figli”. Durante il mio soggiorno nel mo­
nastero erano entrambi assenti, ognuno in giro per il mondo a com­
piere la propria missione, ossia rivelare la verità alla più ampia cer­
chia di persone possibile.
Quella donna era alta, con il portamento di una regina, ma aveva
gesti assolutamente semplici e naturali; gli occhi, d’un azzurro pro­
fondo, erano immensi ed ombreggiati da lunghe ciglia che conferiva­
no allo sguardo un’espressione davvero speciale. Aveva uno sguardo
gentile, comprensivo e sorridente, ma talmente penetrante da mettere
a disagio chi si trovava ad esserne il bersaglio. Questa donna, lo si
sentiva subito, vedeva dentro agli altri, leggeva i pensieri e riconosce­
va la struttura psichica di chi le stava davanti. Ascoltandola parlare in
mezzo al gruppo, mi venivano in mente degli interrogativi: lei sorri­
deva e, pur continuando a parlare, disponeva le frasi in modo da
rispondere esattamente alla domanda inespressa. Anche ad altri capi­
tava di vivere quella stessa esperienza. Non riuscii mai a tenerle testa:
al suo cospetto mi arricchivo sempre di più, i miei occhi spirituali si
aprivano, sicché realizzavo ancor meglio la sua grandezza e il suo
sapere, che si estendeva molto al di là delle mie conoscenze. Più
passava il tempo, e meno mi sembrava di conoscerla: ad ogni incon­
tro pareva manifestare una personalità “diversa”, sicché mi convinsi
che quella donna portava in sé e poteva manifestare qualsiasi caratte­
4 Elisabeth Haich

re della personalità umana e che, di conseguenza, non aveva più


alcuna personalità. Perché essere “tutto” significa simultaneamente
essere “nulla”.
«Madre — le chiesi un giorno — chi sei in realtà?»
«Chi? — Chiese a sua volta — Cos’è questo chi? C’è un solo ES­
SERE che è; ogni essere umano, ogni animale, ogni pianta, proprio
come ogni sole, pianeta o altro corpo celeste, non è altro che uno
strumento per manifestare quell’unico ESSERE che è. Quanti chi si
possono allora contare? Lo stesso Sé parla attraverso la mia bocca,
così come attraverso la tua e attraverso tutti gli esseri viventi. L’unica
differenza è che non tutti conoscono completamente il loro Sé, e quin­
di non tutti possono manifestare tutte le particolarità del Sé. Ma chi
Lo conosce perfettamente può manifestare tutte le caratteristiche pos­
sibili al mondo, giacché esse sono soltanto i diversi aspetti di un solo
ed unico ESSERE, di un solo ed unico Sé. La mia forma esteriore che
vedi e che pensi sia il mio “io”, è soltanto uno strumento per mezzo
del quale il Sé manifesta un suo certo aspetto, precisamente necessa­
rio in un dato momento. Smetti dunque di fare domande insensate per
sapere “chi” sono.»
«Madre — dissi ancora — come hai imparato a conoscere il Sé in
modo tanto perfetto da poterne manifestare tutte le particolarità? An­
che a me piacerebbe riuscirci! Racconta! Quali esperienze hanno fatto
di te questo strumento dai talenti così vasti del solo ed unico ESSE­
RE? Sei sempre stata a questo livello? Sei nata con questi doni?»
«Nata? “Io” nata? Hai mai assistito alla nascita di un “io”? Hai già
visto l’“io”? L’“io” non nasce e non nascerà mai. Il corpo soltanto
nasce. Il Sé divino è reale e perfetto, il Suo sviluppo non è dunque
possibile. Ma il corpo deve svilupparsi per poter manifestare le vi­
brazioni e le frequenze sempre più elevate del Sé. Persino il migliore
degli strumenti, il corpo meglio sviluppato, deve sottoporsi a questa
legge, anche il mio che è, d’altronde, ben lungi ancora dalla perfezio-
ne. E solo questione di tappe, nell’evoluzione: la creazione di un
V

corpo è sempre una reazione a catena, come si dice oggi, e quando


un’azione genera reazioni a catena, esse passeranno attraverso varie
fasi fintantoché avranno compiuto il loro ciclo. Nessuna forma mate­
riale di manifestazione può sfuggire a questa legge; e naturalmente lo
sviluppo del corpo va di pari passo con il mutamento del livello di
coscienza.»
«Significa dunque che anche tu sei passata attraverso varie fasi
evolutive, Madre? Com’erano? Raccontami! Tutto ciò che hai vissu­
Iniziazione: memorie di un’Egizia 5

to, tutte le esperienze che hai accumulato, fino ad elevarti all’attuale


livello di coscienza; raccontami tutto, per favore!»
«E perché dovrei raccontarti tutto questo? Ognuno, a modo suo,
deve raggiungere la perfetta conoscenza di Sé. La mia via non è la
tua, dunque non potrai seguir/a. Gli eventi, di per sé, non sono impor­
tanti, ma lo sono l’insegnamento e le esperienze che se ne traggono.
Non preoccuparti, troverai lungo la tua strada le stesse esperienze che
ho trovato sulla mia: i sentieri sono infiniti, ma la meta è unica!»
«Hai ragione, Madre; comprendo bene che non mi sarà possibile
avanzare lungo il tuo cammino, ma mi sarebbe di aiuto sapere come
hai acquisito le tue esperienze, perché, come tutti coloro che ti ascol­
tano, potrei imparare come trarre vantaggio da esse. Non sono curio­
sa di conoscere la tua storia, ma di sapere come hai cominciato a
cogliere la lezione che si nasconde in ogni evento, e a trame profitto.
Per favore, Madre, parlaci della tua strada! Sarebbe molto utile per
noi conoscere il tuo atteggiamento davanti alla vita, sapere come hai
reagito di fronte al tuo destino per allargare così tanto il tuo orizzonte
spirituale. Da tutto questo, potremmo imparare moltissimo!»
L’anziana donna mi guardò a lungo, poi disse:
«Vorresti sapere come ho reagito? E credi che sarebbe utile, a te e
agli altri, sentirne parlare? Va bene; può darsi che vi sia di aiuto
conoscere le esperienze che, a poco a poco, mi hanno aperto gli occhi
sulle leggi segrete della vita e sulle relazioni che legano fra loro i
destini di certe persone. Toma qui domani. A te e ad alcuni altri che
hanno gli occhi aperti sulle cose essenziali della vita, racconterò le
esperienze che mi hanno consentito di raggiungere l’illuminazione; vi
racconterò come ho vissuto la mia “iniziazione”.»
Ritornai l’indomani, con alcuni dei suoi discepoli più intimi, e lei
incominciò il suo racconto: e fu così che scrissi questo libro.
CAPITOLO I

Il risveglio
Simile ad un lampo, un dolore folgorante mi attraversò il corpo;
un attimo dopo, mi ritrovai a terra.
Pericolo! Aiuto! Ma non voglio quest’adulto qui, accanto a me,
quest’uomo spaventato che adesso mi vuole esaminare, non lo voglio!
Non mi piace, la sua presenza mi indispone in questo momento di
pericolo.
Mi precipitai nella camera in cui ci eravamo appena accomiatati
da quella bella estranea, dandole la buonanotte. Sapevo che poteva
aiutarmi e comprendermi; con lei mi sentivo sempre a mio agio: mi
piaceva il profumo che l’avvolgeva e, vicino a lei, mi sentivo sicura.
In quel momento, impaurita, corsi da lei, in cerca di aiuto; gemendo,
le mostrai la mano grassottella che penzolava pietosamente, rifiutan­
do di obbedire ai miei comandi. La bella signora mi guardò la mano,
posò precipitosamente l’abito al quale lavorava e gridò:
«Robert! Robert! Presto, vieni!»
Si aprì una porta ed entrò un uomo del quale sapevo vagamente
che apparteneva alla nostra famiglia; lo guardai per la prima volta con
attenzione: era alto, con un volto che sembrava d’avorio, capelli,
barba e baffi neri come l’ebano, e come i suoi occhi. Sprigionava un
tale vigore, una tale forza, che pareva tenesse tutti a debita distanza.
Diede un’occhiata al mio braccio e alla mia mano inutile e disse:
«Un medico, Stefi, chiama subito un medico!»
Zio Stefi corse via, e l’omone chiese come fosse accaduto. Gli rac­
contai che, dopo che Greta ed io avevamo dato la buonanotte, zio Stefi
mi aveva preso in spalla e portata fino in camera nostra. Scendendo ero
scivolata e, per impedirmi di cadere, zio Stefi mi aveva afferrata per la
mano: era proprio in quel preciso istante che il dolore mi aveva trapassa­
to il polso destro. Poi avevo cercato di muovere la mano, senza riuscirci.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 7

«Vedo — commentò l’omone — il polso è slogato. Mi spiace


molto, ora devo andare e non posso aspettare che arrivi il medico;
telegrafatemi appena avrete la diagnosi: starò sugli aghi* tutta la notte.»
Baciò sia noi che la Madre e uscì. Sorpresa, guardai la bella
estranea che si era sempre chiamata Madre e che, di conseguenza,
chiamavamo Madre.
Fino a quel momento avevo urlato con tutte le mie forze, profon­
damente delusa e ferita nel constatare che gli adulti non potevano
aiutarmi: non sapevano arrestare il dolore che mi torturava sempre
più, né, tanto meno, rimettermi a posto la mano; però, quando sentii
l’omone dire che avrebbe passato tutta la notte sugli aghi, il mio
stupore e la mia paura divennero tali che mi dimenticai di piangere, e
chiesi a Madre:
«Perché deve passare tutta la notte sugli aghi?»
Sorpresa, Madre scoppiò a ridere e rispose:
«Perché tuo Padre si preoccupa per la tua mano.»
Che risposta senza senso! Questa non era una spiegazione. L’omone
con i capelli e la barba nera - che chiamavamo Padre - aveva detto,
molto seriamente, che sarebbe stato sugli aghi, e adesso Madre mi
prendeva in giro; perché? Avevo soltanto ripetuto ciò che aveva detto
Padre. Padre si preoccupava e, per questo, avrebbe passato una notte
sugli aghi: cosa poteva voler dire? Si sarebbe forse punto dappertut­
to? Madre, che spesso cuciva, mi aveva mostrato che un ago poteva
essere una cosa pericolosa, che pungeva in modo sgradevole, e faceva
male! Un ago, dunque, doveva essere usato soltanto per cucire. Ecco
un’altra storia insensata da adulti, secondo i quali, a causa della mia
povera mano che mi faceva tanto male, Padre avrebbe dovuto passare
la notte sugli aghi, quegli aghi che andavano usati soltanto per cucire!
Sapevo già che gli adulti dicevano e facevano cose ridicole, ma
questa faccenda superava davvero ogni limite, e volevo saperne di
r.'ii

più. Ma non riuscii a chiarire il mistero degli aghi, perché zio Stefi
entrò con il medico.
Il dottore era alto, impressionante e gentile; mi guardò come se

* N.d.T.: il lettore deve situare questi eventi nell’Ungheria dell’inizio del seco­
lo; ne risultano alcune espressioni quali “essere sugli aghi” (cioè: “sulle spine”) che si
prestano nel corso del racconto ad un gioco di parole, e che quindi non sono state
tradotte. Questo vale anche per i termini “Padre” e “Madre”, che abbiamo lasciato
intatti e che traducono meglio di “mia madre” e “mio padre” il senso di estraneità che
anima la protagonista.
8 Elisabeth Haich

fossimo vecchi amici, mi sollevò da terra e mi trovai senza protezione


materna. Questo mi riempì di paura ed il movimento non fece che
raddoppiare il dolore, sicché ricominciai ad urlare energicamente. Il
dottore mi sedette sul tavolo, e vidi i miei piedini dondolare nel vuoto
sotto di me. Rise, scosse il capo e disse:
«Quant’è brutta, questa bambina, quando piange!»
Ero davvero stupefatta! Come? Aveva detto che ero brutta quando
piangevo? E come faceva a saperlo? Fino a quel preciso istante, ave­
vo sempre pensato che tutto fosse visibile, tranne la sottoscritta. Tutte
le altre creature, i grandi, la cuoca, Greta, il canarino, i miei giocatto­
li, insomma: tutto intorno a me era visibile, le mie mani, il mio panci­
no, anche i miei piedi, ma io... era davvero impossibile vedermi. In un
certo senso, io c’ero e non c’ero, ero da qualche parte, ma invisibile, e
non ero mai riuscita a vedermi né ad immaginare che fosse possibile
vedere quel qualcosa, quell’“¿o”. Quindi, quest’adulto, come poteva
vedere la mia disperazione, il mio dolore, i miei pianti, insomma, me?
Ebbene, se davvero poteva vedermi in quello stato, terrorizzata e
miserevole, doveva proprio essere un “brutto” spettacolo! Ne fui così
sorpresa che smisi di piangere e fissai il dottore con uno sguardo
inquisitorio.
Gli adulti si misero a ridere e Madre disse:
«Quant’è vanitosa, questa bambina: reprime persino il dolore per
non apparire brutta!»
Ecco di nuovo un’osservazione insensata da adulto: “vanitosa”,
cosa voleva dire? Come potevo essere vanitosa, se non sapevo neppu­
re che cosa volesse dire quella parola? E come potevo “apparire” se,
fino a quel momento, non sapevo di essere visibile? La mia profonda
convinzione era di essere colei che vedeva, che guardava: io sono
colei che vede tutto e io sono da qualche parte al di là del visibile.
Tutto questo mi passava per la testa, ed ero sul punto di rivolgere
altre domande, quando il medico mi prese la mano e la tirò così forte
che avrei urlato, tanto mi faceva male! Quel pazzo mi strapperà via la
mano, pensavo, e lui la torse ancora di più, quella mia manina che, in
un modo o nell’altro, era strettamente legata a me giacché “mf’ face­
va soffrire atrocemente, e la torse in modo da farle riprendere il suo
posto originale...
«Ecco — disse il medico — il polso si gonfierà un po’, ed è per
questo che adesso metteremo la manina su un cuscino: fra un po’ non
ce ne ricorderemo neanche più.»
Gli adulti ricominciarono a parlare della mia vanità che, persino
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 9

mentre il dottore mi sistemava il polso, mi aveva fatto trattenere le


lacrime. Madre sembrava particolarmente toccata, e questo mi rattri­
stò: vidi che quella bella signora che amavo tanto non mi comprende­
va. Anche se il medico poteva vedermi, restavo invisibile agli occhi
di Madre. Eppure, da lei emanava un amore immènso, quando, più
tardi, a letto, con la mano dolente sul cuscino, vidi finalmente il suo
volto chino su di me, sorridente, per farmi coraggio. La bontà e il
calore umano che emanavano dalla sua persona facevano sì che in sua
presenza non mi sentissi mai sola né abbandonata; sapevo di poter
contare su di lei e che, fino ad un certo punto, potevo anche esercitare
su di lei un certo potere: avevo in lei la più totale fiducia, e pian piano
mi addormentai. La notte trascorse, e la mia mano riprese ad essere
quello strumento obbediente, quell’amica fedele che, più tardi, mi
avrebbe dato così tanta gioia, davvero tanta, e che mi aveva aiutata ad
uscire dal mio stato di incoscienza.
Il dottore, però, si era sbagliato: non dimenticai mai quel piccolo
incidente che, per la legge delle associazioni, rimase inseparabilmente
legato al mio primo risveglio in questa vita, al mio primo passo verso
uno stato cosciente. Da quel momento in poi, la mia coscienza - la
mia memoria - rimase all’erta: ormai, osservavo con la massima at­
tenzione e con una grandissima concentrazione tutto quanto avveniva
fuori e dentro di me; da allora seppi di vivere in una famiglia, nella
quale l’omone possente era il padrone incontestato (Madre lo chiama­
va Robert, noi dovevamo chiamarlo Padre); tutto nella casa ruotava
intorno a lui, e Madre era sua, anima e corpo. La sua autorità si
estendeva su noi tutti, e, più tardi si sarebbe estesa su migliaia di altri,
come una tenda, come un guscio di protezione. Tutti coloro che ven­
nero a trovarsi nella sfera di influenza di Padre, poterono godere del
suo aiuto, di sicurezza e di prosperità.
Di mattina Padre non era a casa, e quindi potevo rimanere con
Madre, accompagnarla ovunque, persino in cucina: quando lavorava
ad una grande tovaglia, mi era permesso di sederle accanto e, con fili
di tutti i colori, potevo ricamare quello che volevo in un angolino del
tessuto. A mezzogiorno Padre tornava a casa e, dopo pranzo, Greta ed
io dovevamo ritirarci in camera nostra, cosa che non ci piaceva affat­
to. Greta era una bambina che faceva parte della nostra famiglia,
proprio come me, soltanto che, secondo quanto avevo sentito dire,
aveva tre anni di più. Quando mi era occorso il piccolo incidente al
polso, aveva quattro anni e mezzo, ed io un anno e mezzo.
L’estate seguente trascorremmo le vacanze in un villaggio vicino
10 Elisabeth Haich

ad un grande lago: abitavamo in una casetta circondata da un vasto


giardino e fiancheggiata da una bella fattoria. Greta ed io avevamo il
permesso di correre a piedi nudi, di andare con una donna dal volto
abbronzato e rugoso in una stalla a vedere una mucca, un vitello ed
innumerevoli conigli dagli occhi rossi. Tutto questo era davvero affa­
scinante. In giardino c’erano grandi fiori gialli, alti come alberi, che si
giravano sempre nella direzione del sole: era una cosa che mi piaceva
molto. Di quando in quando arrivava Padre, e allora dicevano “oggi è
domenica.” Altrimenti, restavamo da soli con Madre, e potevo rima­
nere con lei tutto il giorno. Tutti i giorni, andavamo in riva al lago e
pasticciavamo felici nell’acqua. Un giorno, Madre disse:
«Domani è domenica. Ma già oggi sarà una giornata magnifica,
perché arriva vostro padre.»
Non mi sembrava una gran buona notizia, perché Padre mi inte­
ressava davvero poco, e sapevo che, quando c’era lui, Madre non era
disponibile per nessun altro; allora dovevo andare a fare una passeg­
giata con Greta e Sofia, la figlia maggiore della contadina rugosa.
Una sera, mentre stavamo aspettando Padre, udii i vicini dire a
Madre che “il treno aveva deragliato”, il che spiegava il suo ritardo.
Madre ebbe molta paura, chiamò Sofia, le ingiunse di occuparsi di me
senza lasciarmi da sola neppure per un minuto, e corse alla stazione;
Greta potè andare con lei perché era “più grande”, e poteva correre
più in fretta di me, sicché restai da sola con Sofia.
Era buio, ormai, ed era la prima volta che mi era permesso di
restare in giardino fino a tardi. Era una faccenda molto esaltante, ma
non potevo fare a meno di provare un senso di insicurezza: avevo
l’abitudine di vedere tutto alla luce del giorno, ed ecco che, d’un
tratto, tutto diventava così vago... Sapevo che intorno a me c’erano
gli alberi, ma li distinguevo appena: i pioppi fremevano in modo
misterioso.
Le mie osservazioni si interruppero di colpo perché mi accadde
una cosa terribile: Sofia mi prese in braccio e mi portò vicino allo
steccato, dove una figura spaventosa uscì dall’ombra! Sembrava un
uomo con un mazzo di piume in testa: gli occhi, come carboni arden­
ti, rilucevano nel buio, e aveva una giacca con i bottoni brillanti.
Sulla spalla, portava un oggetto che percepivo essere molto pericolo­
so. Molto tempo dopo imparai che quella cosa si chiamava “un’ar-
ma .
Era una creatura repellente, e speravo proprio che Sofia ed io
saremmo fuggite, ma con mia grande sorpresa Sofia fece qualcosa
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 11

che era perfettamente senza senso: ormai mi ci ero abituata... Invece


di scapparsene via, si avvicinò allo steccato e permise addirittura a
quello spaventapasseri di mormorarle all’orecchio qualcosa con voce
cavernosa; poi, costui l’abbracciò e se la strinse al petto, e siccome
ero in braccio a lei, mi ritrovai stretta a lui, cosa che mi ripugnava.
Ma non era ancora finita! Due baffi enormi, come rami a forma di
corno aguzzo, gli pendevano dal volto; trasse a sé Sofia ancora di più,
e agì come se avesse voluto morderla. Finalmente, adesso Sofia si
ribellerà, mi dicevo, e ce ne andremo! Ebbene: neanche per sogno!
Passò il braccio libero intorno al collo di quella esecrabile creatura e
quando costui cercò di morderla (o mangiarla?), Sofia non girò nep­
pure la testa dall’altra parte, anzi: gli offrì le labbra, ed entrambi
fecero come se avessero voluto divorarsi l’un l’altra.
Io, presa fra i due, non riuscivo quasi neppure a respirare; cercai
con tutte le forze di tenermi il più lontano possibile da quell’orrenda
apparizione, e di tener fuori il naso, all’aria. La sua presenza mi era
insopportabile, proprio come il suo odore, nel quale dominava qual­
cosa ai amaro, particolarmente ripugnante: ma, a quanto pareva, loro
non se ne preoccupavano affatto. La mia testa era così schiacciata che
sentivo battere il cuore dell’uomo. Avevo l’impressione che volessero
entrare uno nella bocca dell’altra: ah, le azioni degli adulti! Li osser­
vavo, e non potevo neppure più riconoscere la gentile e coraggiosa
Sofia: era diventata un’estranea, che non mi sentiva neppure piange­
re. Poi, d’un tratto, così come era apparsa, la figura da incubo scom­
parve nel buio.
Un attimo dopo, con mio grande conforto, udii le voci di Padre e
Madre e, poco dopo, vidi i loro volti felici. I vicini accorsero tutti per
chiedere a Padre com’era accaduto il deragliamento, e Sofia fece
come se non fosse successo nulla, e non disse neppure una parola
circa l’orribile creatura che l’aveva stretta così forte: era lì, con
un’espressione innocente sul volto, e questa era un’altra bella sorpre­
sa per me! Non ebbi però il tempo di rifletterci sopra, perché Padre
aveva portato delle caramelle dalla città, ed ero molto ansiosa di
sapere se me ne avrebbero date quanto a Greta! La mia curiosità
venne immediatamente soddisfatta: ne ebbi altrettante. Come al solito
Madre mi rovinò la festa, perché quando volli mettermi in bocca tutte
le caramelle in una volta sola, me le prese per poi darmene una
soltanto dicendo che avrei potuto mangiarne una sola al giorno, dopo
mangiato. Quando sarò grande, vedrete: mi riempirò la bocca con
tutte le caramelle che vorrò! Per il momento, però, non c’era altro da
12 Elisabeth Haich

fare che consegnargliele ed andare a dormire. Quando Madre mi mise


a letto, le chiesi prima di pregare (perché dopo non mi era più per­
messo parlare):
«Madre, chi è che porta sul capo un mazzo di piume, sulla spalla
qualcosa di strano e sulla giacca bottoni che brillano anche al buio e,
Madre, chi è che puzza così tanto?»
Madre mi guardò sorpresa e rispose:
«Sono i gendarmi.»
«Madre — domandai ancora — i gendarmi mangiano la gente?»
Volevo sapere se quell’uomo aveva davvero voluto mangiare So­
fia o se aveva voluto qualcos’altro, e allora, che cosai
«No, no — disse Madre ridendo — proteggono la brava gente, e
quindi non avere paura, non vogliono mangiarti!»
Volevo spiegarle ancora che non si trattava di me, ma di Sofia, ma
lei mi baciò, mi rincalzò le coperte e disse:
«Fai un buon sonno, ora; tuo Padre mi attende.»
Restai sola con i miei pensieri e rimasi sveglia a lungo, a chieder­
mi che cosa avesse voluto il gendarme da Sofia e perché mai questa si
fosse lasciata abbracciare così forte al punto che anch’io ero stata
obbligata ad accettare queirinopportuna presenza; che senso dare a
tutto ciò? Come tutto ciò che non comprendevo, quell’incidente mi
disturbava, ma finii per addormentarmi. Il mattino giunse con un sole
radioso, ebbi la mia caramella ed andammo al lago per fare il bagno e
pasticciare nell’acqua. Lungo la strada incontrammo il gendarme: la
luce del giorno faceva di lui un adulto gentile, si fermò a chiacchiera-
re amichevolmente con Padre; tuttavia, non compresi perché facesse
come se non mi avesse mai vista in vita sua: eppure, doveva ben
ricordarsi di ciò che era accaduto la sera prima! Ma avevo ancora
paura dei suoi baffoni enormi e non osai chiedere nulla.
Quell’estate mi lasciò ancora un ricordo, che mi segnò profonda­
mente. C’era Padre, ed i fattori vestiti a festa stavano davanti a casa
loro, sicché sapevo che era domenica pomeriggio; udimmo le campa­
ne, ma non suonavano come al solito, era piuttosto come se non
volessero più smettere: e suonavano... suonavano... Ciò interruppe la
quiete domenicale. Un corteo disordinato cominciò a sfilare davanti a
casa nostra, e Padre e il figlio della contadina se ne andarono anch’es­
si, armati di secchielli ed asce. Madre ed alcune altre donne, restarono
con noi, ripetendo continuamente le stesse parole, “Padre nostro, che
sei nei cieli, non abbandonarci.”
Madre, anch’essa con aria molto seria, ci disse:
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 13

«Preghiamo tutti insieme perché Padre tomi a casa sano e salvo.»


Le chiesi allora dove fosse andato e perché, e lei spiegò che era
scoppiato un incendio al villaggio, e che Padre era corso in aiuto per
spegnerlo. Pregammo, ma ero curiosa di sapere che cosa significasse
“un incendio al villaggio”. Una signora disse che dal confine del
giardino si potevano vedere “le lingue di fuoco”, sicché volli andarci,
ma Madre me lo proibì. Invece Greta ebbe il permesso di andarci,
accompagnata dal figlio della droghiera, il che mi riempì di amarez­
za: perché lei poteva fare sempre cose che a me non erano concesse?
Solo perché aveva tre anni più di me? Se il fuoco era pericoloso, lo
era per lei come per me, anche se aveva “tre anni di più”!
Oh, quei tre anni! Quante volte, ma quante volte avrei ancora
dovuto sentirmelo dire? Ogni volta che mi avessero proibito ciò che
sarebbe stato permesso a lei, ed ogni volta che avessi rifiutato di
accettare la sua supremazia!
A tarda sera, tutti rientrarono alla spicciolata, stanchi, spossati,
raccontando come Padre avesse salvato molte abitazioni, come, con
gran sprezzo del pericolo, fosse entrato nelle case in fiamme per
trarre in salvo bambini e animali, e come avesse diretto le operazioni,
obbedito da tutti. Le sue idee geniali ed il suo incrollabile coraggio
avevano spronato gli altri soccorritori, e tutti avevano fatto miracoli
sicché, infine, l’incendio era stato domato. Quando Padre tornò insie­
me al figlio della contadina, Madre era radiosa e si gettò fra le sue
braccia esclamando:
«Mio caro, sei straordinario! Qualsiasi cosa tu faccia, sei straordi­
nario!»
Padre sorrise in silenzio. Era ricoperto di nerofumo, e si ritirò
subito per andarsi a lavare.
Che Padre fosse tanto straordinario, era una cosa che trovavo
normale: il concetto “Padre” significava per me “gran signore”, colui
che è al di sopra di tutti e che fa ciò che vuole; è colui che fa la legge,
ed è dunque normale che sia perfetto. Altrimenti, non sarebbe il “gran
signore”. Padre non presentava ancora un grande interesse per me, ma
mi dava un senso di assoluta sicurezza; non rappresentava d’altronde
neanche un problema, sicché non avevo da preoccuparmene. Tutta­
via, quando tutta la famiglia andava a passeggio insieme, Padre, Ma­
dre, Greta ed io, lui mi prendeva per mano per attraversare una strada,
ed io notavo che la sua mano sprigionava una forza sorprendente e
che aveva sempre le unghie immacolate. Fu così che trovai normale
che volesse immediatamente sbarazzarsi del nerofumo.
14 Elisabeth Haich

L’estate finì presto, e ci ritrovammo a casa. Un giorno presi co­


scienza del fatto che Madre, preparandomi per una passeggiata, mi
avvolgeva in uno spesso cappotto e mi metteva un berretto di pelo:
l’aria mi mordeva la pelle e mi dissero che quello era “il freddo”; il
naso ed i piedi non erano affatto contenti, ma dal cielo cadevano
fiocchi bianchi e, nelle vetrine, si potevano vedere dei babbi natale
con la barba bianca e tutti vestiti di rosso. Poi tornò il tempo del
cappello di paglia e del soprabito: tutto era in fiore e potemmo gioca­
re a palla e col cerchio nel giardino pubblico.
Quel periodo avrebbe potuto essere per me assolutamente felice,
se Madre non mi avesse talvolta amareggiata: mi tagliava regolar­
mente le unghie e tremavo ancor prima che cominciasse. La pelle,
sotto le unghie, era talmente sensibile che, dopo il taglio, qualsiasi
sfioramento, persino la carezza dell’aria, diventava per me una tortu­
ra. Urlando e con la mano aperta, evitavo qualsiasi contatto. Non era
un vero e proprio dolore, no, piuttosto una sensazione insopportabile.
La prima volta, Madre non seppe come reagire: pensò di avermi
tagliata per disattenzione e volle controllarmi le dita, ma piangevo
così forte che finì per chiamare il medico di famiglia. Costui le spiegò
che i miei nervi erano ipersensibili, cosa piuttosto rara, e consigliò di
tenermi le dita a bagno in una bacinella di acqua tiepida ogni volta
che mi avesse tagliato le unghie, e di lasciarmi giocare un pochino in
quell’acqua. Questo migliorò le cose, ma ci vollero ancora anni per­
ché la mia pelle riuscisse a sopportare il taglio delle unghie senza
danni.
Mia cara e dolce Madre! Con quale meravigliosa comprensione
cercò di superare tutte le difficoltà causate da quella mia sensibilità
fuori del comune! Se non avesse avvolto i miei nervi a fior di pelle in
tanto amore, sarei morta all’alba della vita. Grazie al tuo aiuto potei
crescere in buona salute, sviluppando lentamente e coscientemente
una forza di resistenza sufficiente: il tiepido nido che tu, Padre mio
generoso, e tu, Madre che sacrificasti tutto, mi avete offerto, mi per­
mise di diventare un essere utile; mi avete aiutata voi a domare la mia
sensibilità con forze sviluppate coscientemente. Allora ero solo una
bambina che di quella sensibilità non sapeva nulla: osservavo tutto,
volevo conoscere tutto, ma per quanto riguardava la salute, seguivo
sempre i tuoi preziosi consigli materni. La mia fiducia in te non aveva
limiti.
CAPITOLO II

Luci e leoni
L’inverno e l’estate si susseguirono e un giorno mi dissero che
avevo quattro anni. Greta andava già a scuola ed io l’ascoltavo con
grande attenzione quando leggeva fiera l’alfabeto. Quando non era a
casa, tormentavo mia nonna, la madre di Padre, che da qualche tempo
era venuta ad abitare con noi, affinché mi leggesse delle storie: ero
curiosa di sapere come sarebbero finite; volevo sempre sapere che
cosa succedeva alla gente, ed ero divorata dalla curiosità per la vita! Era
semplicemente meraviglioso pensare a tutto ciò che poteva succedere!
Naturalmente preferivo le favole, e zia Adi, una sorella di Madre
che veniva spesso a trovarci, era sempre pronta a soddisfare quel mio
desiderio: aveva un volto bellissimo, era adorabile e graziosa come
un gatto. I suoi occhi scuri avevano uno sguardo caldo, e da lei
emanava qualcosa che solo possiedono coloro che sono animati dal­
l’amore. Respiravo quel profumo di tenerezza che così poca gente
esalava. Quando arrivava zia Adi, ci precipitavamo gioiosamente su
di lei, tirandole impazienti il cappotto, e gridando: «Zia Adi, raccon­
ta!» E lei ci raccontava le più meravigliose storie di fate. Era infatica­
bile: sempre favole nuove, le più belle che, in seguito, abbia mai letto
o sentito. Quando ero ammalata, zia Adi veniva, raccontava ed io
dimenticavo la mia malattia: non osava interrompersi, perché allora le
chiedevamo: «... e allora... e poi... e dopo...???» finché non si decide­
va a riprendere il corso della favola. Ma quando zia Adi doveva
tornare a casa, da sua madre, quell’altra mia nonna che suonava il
piano così bene, restavo con Greta e la guardavo leggere il suo libro
di fiabe: volevo imparare anch’io. Le fiabe dei giornaletti per bambini
e dei libri non erano certamente belle quanto le fiabe di zia Adi, ma
erano pur sempre delle favole e quindi volevo conoscerle. Cominciai
dunque a studiare più da vicino i libri di Greta: contemplavo a lungo
16 Elisabeth Haich

le varie lettere e volevo leggere assolutamente, ma non sapevo che


cosa significassero quei piccoli disegni.
Una volta feci di nuovo un sogno che già si era ripetuto spesso,
nelle notti precedenti, e che mi aveva così tormentato che tutta la
famiglia ne era al corrente: correvo, correvo con tutta la velocità
consentita dalle mie gambe, e avevo un leone alle calcagna, pronto ad
acchiapparmi e a divorarmi. Correvo disperatamene, a perdifiato, ver­
so una casetta in fondo al sentiero. Lì c’era una donna con la porta
aperta, che mi aspettava tendendomi le braccia. Sapevo che, con lei,
sarei stata in salvo, e che il leone non avrebbe più avuto su di me
alcun potere; ma sentivo l’animale ormai vicinissimo, tanto vicino da
alitarmi sulla nuca... la sua criniera ormai mi sfiorava... eccolo... Con
l’energia della disperazione, faccio un ultimo balzo, sento un colpo e
urlo: «Madre...» poi, spossata, le cado fra le braccia. Sono in salvo, il
leone sparisce ed io mi sveglio, spaventata, con il cuore che batte
all’impazzata.
Dopo questo sogno, senza un attimo di esitazione, saltavo giù dal
letto, mi gettavo una coperta sulle spalle e correvo in camera dei miei
genitori, infilandomi nel letto di mia madre. Oh! il suo profumo bene­
detto, la calma, la pace che mi invadevano come un’acqua tiepida!
Madre mi prendeva fra le braccia e chiedeva:
«Di nuovo quel sogno? Ancora il leone?»
«Sì...» e, vicino a lei, il mio cuore si calmava, e mi addormentavo
in pace.
Al mattino, mi svegliai nel letto di Madre che si era già alzata: era
rimasta la sua camicia da notte e vi immersi il naso per ritrovare il
suo profumo. Padre, sdraiato nel letto accanto, leggeva il giornale;
capii allora che era domenica. Madre entrò, parlò con Padre che posò
il giornale accanto a me: lo presi, ne scrutai le lettere, le linee, le
forme nere piene di mistero, sulla carta bianca... Che significavano?
«Padre, dimmi che cosa vogliono dire queste lettere!»
E Padre rispose:
«Guarda bene: ecco una A, qui una N, questa è un’altra N, poi una
U, un’altra N ancora, una C e una I.»
«E queste?»
«Una D, una I, e poi una L, una A, una V, una O, una R, e un’altra
O.»
Osservai quelle lettere, e improvvisamente fu come se si sollevas­
se un velo davanti ai miei occhi, e mi si accendesse una luce nel
cervello... Una luce!!! Le lettere si aprivano alla mia comprensione!
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 17

Eccitatissima, e con una gioia pura, mi misi a leggere.


«Padre, Padre, questo vuol forse dire “annunci di lavoro”, vero?»
Mia Madre, stupita, mi stringe al petto, mi bacia, emozionata e mi
dice:
«Ma tu sai leggere!»
Padre si congratula con me, come se fossi adulta, e questo mi
mette un po’ in imbarazzo; poi arriva Greta, contentissima del fatto
che io sappia leggere, e dopo un po’ ne parla tutta la casa. Zia Adi,
che viene a pranzo da noi, deve saperlo subito: sì! So leggere, le
lettere non hanno più segreti per me, posso penetrarle. So leggerei
Per me, comincia una nuova era: leggo tutto quello che mi capita,
voglio imparare, imparare, imparareWÌ Leggo tutto ciò che è leggibi­
le: i libri di favole, le riviste per bambini, i libri scolastici di Greta, i
calendari, i giornali sulla scrivania di Padre, un opuscolo che un
uomo ha portato alla cameriera, e che mi informa su “il bacio, l’amo­
re, gli appuntamenti clandestini”, nonché su “l’assassinio, il crimine e
i cadaveri”. Ma quando chiedo a Madre spiegazioni su tutte quelle
cose incomprensibili e spaventose, lei mi strappa di mano il libretto e
dice:
«Per l’amor del cielo, dove l’hai preso?»
Poi corre in cucina, e proibisce alla cameriera di darmi da leggere
quella roba; che peccato! Ancora oggi, non so che accadde alla bella
contessa che si fece rapire da un uomo vestito di nero che la portò
lontano, su un cavallo, al galoppo...
Fu così che feci una triste esperienza: quando qualcosa mi appas­
sionava davvero, a Madre non piaceva. Mi convinsi presto che era
preferibile non parlare con gli adulti di argomenti interessanti, perché
le cose si mettevano sempre male: gli unici a cui potevo fare doman­
de, anche se molto raramente, erano i domestici di sesso maschile.
Sentivo di averli in pugno, e quando mi davano qualche informazio­
ne, non dicevano mai niente a Madre perché sarebbero stati i primi a
fame le spese.
CAPITOLO in

I miei genitori non sono “i miei” genitori


Avrò avuto cinque anni quando, un giorno, a pranzo, Padre parlò
del “direttore”. La conversazione degli adulti mi interessava sempre
molto, quindi chiesi:
«Padre, cos’è un direttore?»
«Un direttore è il capo di un ufficio; tutti devono fare quello che
dice lui, dirige tutto l’ufficio.»
«Ma tu, Padre, tu non gli obbedisci... Non può essere più in alto di
te!»
«Sì, — rispose Padre — io non sono ancora direttore e, di conse­
guenza, devo fare come vuole lui.» E Padre mi spiegò cosa fosse un
direttore, un capo.
No! Non potevo crederci. Un direttore superiore a Padre? Co­
m’era possibile? Era stata mia incrollabile convinzione, fino ad allo­
ra, che la parola “padre” significasse per tutti “il grande signore di
ogni cosa”: dirigeva il Paese, disponeva di tutti i tesori dell’impero, le
sue parole erano legge, e nessuno osava opporsi a lui. C’era un unica
persona a cui Padre a volte chiedeva consiglio, con II Quale discuteva
degli affari del regno: “Luì”, ma era qualcosa di assolutamente diver­
so! “Luì” non era proprio un essere umano.
Padre si trova al di sopra di tutti: come poteva avere un direttore,
suo superiore?
E forse, per la prima volta, guardai Padre con la massima attenzio­
ne: mentre lo osservavo, mentre lo studiavo, d’un tratto mi venne in
mente che quella persona che amavo così sinceramente, non era però
“mio padre”.
La mia coscienza si era risvegliata in questo ambiente, aveva ac­
cettato la situazione: ero qui, quella bella donna bionda era la Madre,
quell’uomo possente era il Padre: sì, qui, era il Padre, ma non mio
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 19

Padre! A casa mia non era mio Padre, lo era soltanto dove mi trovavo
in quel momento! Infatti, mi era estraneo quanto la bella signora;
semplicemente, mi ero a poco a poco abituata a loro. Erano persone
deliziose che mi volevano bene, per le quali ero importante e che mi
erano molto care; tuttavia, non erano né mio Padre, né mia Madre.
Soltanto l’abitudine aveva fatto sì che li chiamassi in quel modo;
fino a quel momento non ci avevo mai riflettuto sul serio: avevo
preso le cose come venivano giacché stavo bene con loro, mi davano
sicurezza, apprezzavano la mia presenza e trovavano che tutto ciò che
facevo fosse affascinante, delizioso, notevole. Allora, per quale ragio­
ne non avrei dovuto sentirmi bene in loro compagnia? Mi succedeva
persino di giocare piacevolmente con Greta, quando lei accettava di
dimenticare di essere più vecchia di me, “più vecchia di tre anni”. Sì,
tutto andava nel migliore dei modi. Zio Stefi veniva spesso, suonava
il piano e mi faceva vedere un sacco di cose affascinanti: faceva per
me delle bolle di sapone, oppure, con il temperino, fabbricava una
raganella con un guscio di noce, o un porcellino con un prugnolo e
degli stuzzicadenti. Una volta, mi portò una scatola di colori e un
pennello: potevo dipingere fiori meravigliosi e multicolori in un qua­
derno che era solo miol Finalmente, una cosa che non dovevo divide­
re con Greta! Zia Adi con tutte le sue buffe storie, le sue favole, era
adorabile; nonna, la madre di Madre, mi amava molto, era dolce, fine,
e mi sorrideva con molto amore: ogni volta che si sedeva al piano, era
una festa, e la sua musica divina mi incantava; stavo ad ascoltarla
affascinata. In questo campo, Madre ed io eravamo in assoluta armo­
nia: entrambe amavamo la musica più di ogni altra cosa.
L’altra mia nonna era una donna molto interessante, che mi rac­
contava dei suoi viaggi in paesi lontani, e spesso mi accompagnava al
museo nazionale dove c’erano tante cose affascinanti: grandi farfalle
provenienti da un’altra parte del globo (eppure, io le conoscevo be­
nissimo) e certi animali impagliati, immensi, che mi avevano spaven­
tata, ma poi Nonna mi aveva rassicurata.
Mi piaceva molto quando tutta la famiglia parlava con stupore e
piacere dei miei “talenti e successi” che, per me, erano del tutto
naturali. A quattro anni, Madre mi mostrò come usare l’uncinetto: in
men che non si dica, avevo confezionato un vestito per la bambola,
quella che restava sempre seduta su una poltrona perché non sapevo
che fame. Era senza vita, mentre io ero attratta solo da ciò che viveva.
Una volta finito il vestitino, si era rivelata una meraviglia per la
famiglia, e questo mi aveva sorpresa molto: se Madre poteva fare
ft Elisabeth Haich

pizzi così fini e così belli, perché mai si stupivano che io sapessi
lavorare con l’uncinetto? I miei dipinti sollevavano un tale entusia­
smo che Padre mi aveva regalato un salvadanaio a forma di maialino,
in cui infilava una moneta ogni volta che dipingevo un bel fiore.
Tutto questo, dunque, era così gradevole... Ma un giorno, arrivò quel­
la terribile sorpresa: Padre aveva un superiore!
Fu in quel momento che divenni assolutamente cosciente del fatto
di trovarmi qui, in questo ambiente, chiamato “casa”, e che tuttavia
non ero a casa, qui... Casa mia non era qui. Ne ero profondamente
convinta.
Se, in quell’epoca, avessi avuto le conoscenze di fisiologia che ho
oggi, avrei cercato immediatamente di sapere da dove venissero le
idee che mi passavano per la testa; ma, appunto, ero soltanto una
bambina, e sentivo ogni cosa in modo molto diretto, convinta co­
m’ero di essere stata strappata con violenza alla mia famiglia. Non
sapevo da dove venissi solo perché nel frattempo avevo dimenticato
ogni cosa: e chi altri, se non coloro che mi chiamavano “la loro
bambina”, avrebbero potuto darmi spiegazioni in proposito? Ma a
quelle domande certamente avrei ricevuto risposte incomprensibili,
che si sarebbero probabilmente concluse con il solito ritornello:
«Aspetta, quando sarai grande!»
Oh, quanto odiavo quelle parole! Aspettare di diventar grande? E
perché perdere ancora tanto tempo, camminando nell’ignoto, nel
buio? Volevo sapere tutto ora, non “un’altra volta”!
Rimuginai tutti questi pensieri fino a sera; quando fu ora di andare
a letto, Madre si sedette al mio capezzale e mi chiese:
«Come mai sei così calma, invece di giocare con la bambola? Sei
andata in giro per tutta la casa riflettendo: cosa ti tormenta? Dimme­
lo! Puoi raccontarmi tutto, chiedermi tutto.»
In quel momento l’amavo con tutto il cuore, aveva tutta la mia
fiducia: era dolce, tenera, bella. Mi dicevano spesso che era sempre
pronta a prendere le mie difese quando venivo rimproverata, e che
potevo trovar sempre rifugio in lei; e in quel momento, eravamo così
vicine l’una all’altra che pensai di poterle davvero dire ogni cosa. Le
gettai le braccia al collo e chiesi:
«Madre, da dove mi avete portata, da dove sono venuta fino a
voi?»
Un’espressione di sorpresa le si accese negli occhi, persino un po’
di timore, poi sorrise teneramente e mi disse:
«Esiste un mare grandissimo dove nuotano tutti i bambini piccoli;
Iniziazione: memorie di un 'Egizia 21

poi, quando due persone si amano e si rivolgono a Dio in preghiera


per avere un bambino, Dio chiede alla cicogna, sua fedele ancella, di
andare a pescare il bambino che Egli destina a queste due persone, e
di portarlo da loro. La cicogna prende il bambino nel becco e lo
depone accanto alla donna: è così che il piccolo riceve i suoi genitori
“terreni” e diventa un bambino “terrestre”».
All’inizio l’ascoltai con molta attenzione, ma mi resi presto conto
che mi stava raccontando una storia, come la favole di zia Adi. No!
Tutto questo non era reale! Lei non voleva dirmi la verità: come e
dove lei e Padre mi avessero trovata. Ero delusa, la guardai con insi­
stenza ma lei mi chiese di recitare la preghiera, mi diede la buona
notte e se ne andò. Rimasi da sola.
Da quel momento, la mia convinzione non fece che rafforzarsi:
Padre e Madre non erano i miei veri genitori, e quel paese non era la
mia vera patria: sapevo che Madre non mi conosceva, non mi vedeva',
ero e restavo un’estranea per lei, e tutti coloro che mi circondavano
mi divennero completamente estranei a loro volta. Non ci capivamo:
quando parlavo a Madre di argomenti per me ovvi, lei era talmente
stupita e sorpresa che correva ad informare Padre delle strane cose
che dicevo. E lui, a sua volta, si stupiva. Capivo che quelle cose erano
del tutto nuove per loro, che erano loro ignote, e le ripetevano ai
parenti e tutti mi prendevano in giro.
«Che strana bambina», spesso sentivo dire: eppure non mi trovavo
affatto strana, semmai lo erano gli altri. A poco a poco, cominciai a
sentirmi estranea rispetto a quelle persone che tuttavia amavo; intorno
a me tutto era piccolo, stretto, opaco. Profondamente radicata nel
subconscio, mi era rimasta la convinzione che “Lui” soltanto avrebbe
potuto comprendermi perfettamente, e che mi sarebbe tanto piaciuto
muovermi in camere più ampie, essere molto più libera, vivere in
mezzo a persone simili a me.
Quel senso di estraneità, di solitudine, non mi lasciò mai più, e,
anzi, ne divenni sempre più consapevole nel corso della mia vita.
Invano cercavo di trovare un punto di contatto; e siccome Madre
parlava dell’amore fraterno dicendo: «È bene avere una sorella con
cui parlare di tutto, e in cui riporre tutta la propria fiducia», decisi di
tessere una relazione di quel tipo con Greta; ma lei tradì la mia
fiducia, mi trattò dall’alto in basso con quei suoi “tre anni di più” e
una volta, quando le confidai un segreto, si affrettò a riportarlo a
Madre.
I miei sforzi fraterni non trovarono eco in lei, e rinunciai a tentare
22 Elisabeth Haich

altre aperture; vivemmo l’una accanto all’altra come due creature di


due mondi del tutto diversi che si fossero incontrate per caso. Tutti ini
erano estranei... estranei... tutti-
li tempo passava in fretta, e compii sei anni; un bel giorno, Madre
mi accompagnò a scuola, dove mi trovai fra bambini d’ogni tipo, con
la sensazione, sempre più acuta, di essere sola e diversa dagli altri.
Nella mia famiglia tutti mi amavano e io, a mia volta, amavo tutti.
L’amore regnava sovrano, il resto era secondario; ecco perché mi ci
trovavo bene. Ma i bambini della scuola mi erano del tutto estranei:
tra di loro si capivano benissimo, ma mi consideravano come una
specie di bimba prodigio; ed io li stupivo almeno quanto loro stupiva­
no me. Mi prendevano in giro, e questo mi faceva molto male; parla­
vano tutto il tempo di ciò che possedevano, mostrandosi reciproca­
mente le loro ricchezze: penne, matite, gomme... e realizzavano in
continuazione, cosa che trovavo ridicola e noiosa.
I libri, le favole, la musica e i musei: ecco cosa mi interessava. I
bambini rimanevano a bocca aperta e mi facevano strane domande;
loro giocavano con la bambola, a palla, con il cerchio, ed io con un
prisma che formava i colori più belli, e con una calamita che zio
Tony, l’altro fratello di Madre, mi aveva regalato. Era un oggetto così
misterioso! Il magnete attirava tutti gli spilli di Madre, e poi anche le
forbici diventavano magnetiche. Madre doveva tirar via con forza gli
spilli dalle forbici, se no ci finivano sopra. Sì, volevo conoscere la
forza che si nascondeva dietro il magnete, ed infine pensai che il
magnete dovesse amare gli spilli quanto Madre amava noi, e che io le
saltavo al collo proprio come facevano gli spilli con la calamita.
Questo sì che era interessante! Ma gli altri bambini si mettevano a
ridere, ed io ero sola... sola...
Quell’inverno presi lezioni di piano. Quando suonavo, mi sembra­
va che nella musica si nascondessero delle figure: esattamente quelle
che zio Tony fabbricava con il cartone chiamandole “figure geometri­
che”. Suonavo un pezzo dal quale sfuggivano moltissimi cubetti; e
poi ce n’era un altro, aguzzo dappertutto, sulle punte del quale saltel­
lavano delle piccole sfere. Quando andavo a passeggio nel parco con
Madre, ammiravo sempre il getto d’acqua della fontana, nel cui cen­
tro vedevo fate e gnomi danzare, volteggiare, saltellare. La danza
dell’acqua nella fontana era anch’essa musica', ma non l’udivo con le
orecchie: la vedevo. Sapevo che era musica, per me era assolutamente
ovvio! Eppure i miei compagni di scuola mi prendevano in giro quan­
do ne parlavo, e mi chiamavano “stupida”. Non capivo perché.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 23

La prima volta che sentii suonare altri bambini a scuola di musica


rimasi di sale: cosa? Non sentivano che stavano ferendo le figure
geometriche della musica? La maestra diceva: «Non seguite il rit­
mo»... come se il loro cuore stesse battendo aritmicamente; non senti­
vano dunque che erano stonati? Ahi! Quelle stecche erano insoppor­
tabili, a me veniva da piangere e loro non le notavano nemmeno! !
Guardavo con curiosità quei bambini: non avevano forse orec­
chie? Com’era possibile? I bambini, non erano dunque tutti fatti come
me? Allora pensavo che ogni bambino, ogni essere umano, vedesse e
sentisse come me, ma a poco a poco dovetti arrendermi all’evidenza,
ossia che la maggior parte dei bambini e delle persone avevano occhi
ed orecchi del tutto diversi dai miei e che per questo mi considerava­
no un animale da circo.
E rimasi da sola... sempre più sola.
CAPITOLO IV

Un’alba è un’altra cosa!


A primavera ero pallidissima e ad ogni pasto mi si ripresentavano
le stesse difficoltà: rifiutavo i cibi più raffinati, il mangiare non mi
interessava, e Madre cercava sempre di convincermi a mangiare. Ep­
pure, se non ci riuscivo... La minestra, se non altro, mi distraeva
ancora un pochino, perché cercavo di formare un grande cerchio con
gli “occhi” di grasso che nuotavano in superficie: li riunivo a due a
due, poi ne univo un terzo, un altro ancora, fino ad ottenere una
superficie più grande. Tuttavia i miei genitori non erano affatto con­
tenti di quel mio gioco: Padre mi mandò via da tavola a più riprese
perché non gli obbedivo, perché giocavo invece di mangiare e rifiuta­
vo carote e spinaci. Quando egli comprese che quella punizione non
mi toccava affatto (preferivo immergermi nella lettura, da sola, in
camera mia), chiese il parere di un medico, e costui consigliò di farmi
trascorrere l’estate al mare. Finiti gli esami scolastici, partimmo tutti
insieme.
Viaggiammo di notte. Madre preparò per i bambini comode cuc­
cette fatte di coperte, ed io mi addormentai; tuttavia, l’ambiente inso­
lito fece sì che mi svegliassi prima dell’alba. Padre e Greta dormiva­
no ancora, Madre era sveglia; le chiesi il permesso di sedermi vicino
al finestrino: avevo spesso sentito parlare della bellezza dell’alba, e vole­
vo approfittare dell’occasione per vivere personalmente quel momento.
Faceva ancora buio; feci capolino dietro la tenda e guardai: il sole
ancora non si vedeva, ma lentamente il cielo andava colorandosi...
andava schiarendosi... malgrado quel colore grigio, persistente. Il pa­
esaggio attraversato dal treno andava precisandosi: le case, i contadini
nei campi, i cavalli e le mucche, gli alberi, tutto quanto... ma il sole
non spuntava! Com’era possibile che facesse chiaro senza sole? Ne
fui molto colpita, ma sembrava proprio che fosse così! Quando ormai
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 25

faceva giorno, il sole si decise infine a spuntare all’orizzonte, apparve


in un bel cielo rosso che avevo atteso invano per un sacco di tempo;
ma quel colore era molto più pallido, come diluito, così diverso da
quello che mi ero aspettata di vedere! Che delusione! Non era una
vera alba!
Tutti si erano ormai svegliati nello scompartimento, e Padre mi
disse:
«Allora, ti è piaciuta l’alba? E la prima volta che la vedi in vita
tua; non è meravigliosa?» E mi sorrise.
Delusa e imbronciata, risposi:
«No, Padre, non era affatto bella! Un’alba non è così! Questa è
noiosa, dura troppo tempo, tutto è rovinato perché fa già chiaro, una
luce brutta e opaca che è già presente quando il sole compare. No, non
era affatto bella! Un’alba è qualcosa di molto diverso, diversissimo.»
Di cattivo umore, guardavo fisso davanti a me; Padre mi ascoltò
con pazienza e attenzione, come sempre, e nei suoi begli occhi neri
vidi passare un bagliore di interesse, di divertimento, uno sguardo che
mi prendeva in giro (tanto per cambiare!) con dolcezza, una luce
affabile.
«Ma cosa mi dici? L’alba deve essere diversa? Non sei contenta
dell’alba? E davvero incredibile che una marmocchietta come te non
%

sia soddisfatta dei fenomeni della natura e voglia dire al sole come
deve alzarsi! E come fai a sapere che dovrebbe essere diversa, dal
momento che è la prima volta che la vedi? Allora?»
Lo guardai e risposi:
«Non so da dove mi viene questa idea, né dove ho già visto un’al­
ba, ma so che è diversa. Il sole deve sorgere in un cielo buio e tutto
deve diventare chiaro istantaneamente, e non in modo noioso, opaco
e grigio, ma meravigliosamente rosso, porpora, luminoso, tutto il
cielo ed ogni cosa sulla Terra deve essere inondata di porpora. De­
v’essere molto, molto più bello, più sorprendente, più sublime. So...
me ne ricordo!»
«Ah, ah, te ne ricordi — rispose Padre sorridendo e prendendomi
in giro con dolcezza. — La tua immaginazione è davvero fertile!»
Poi prese la tazza di caffè che Madre gli porgeva ed aggiunse:
«Sono spiacente che l’alba non abbia avuto la fortuna di piacerti;
eppure oggi fa bello, e mi è difficile immaginare uno spettacolo mi­
gliore e più colorato. In questo, non posso esserti d’aiuto, sono del
tutto impotente!»
Non risposi, perché stavo tenendo il broncio. Non soltanto a causa
26 Elisabeth Haich

della delusione riservatami dall’alba, ma anche perché Padre aveva


detto che la mia immaginazione era fertile mentre sapevo esattamente
che si trattava di un ricordo, sì, di un ricordo! L’immaginazione era
una cosa diversa. Se mi rappresento qualcosa nella mia mente, questa
è immaginazione, ma l’alba, quella vera, non l’avevo affatto immagi­
nata! Essa viveva in me, impressa nella mia memoria ancora di più,
ad esempio, della giornata precedente, con tutti i suoi eventi. Ero
davvero seccata, come ogni volta che non riuscivo a provare qualcosa
di cui ero certa. Il mio cattivo umore durò finché, tutto ad un tratto, la
gente si precipitò nel corridoio e Padre esclamò:
«Il mare, bambini, venite a vedere il mare!»
Corremmo alla finestra e, laggiù, ancora lontano, il mare... Oh,
quel mare che adoravo!
Il treno oltrepassò ancora una montagna prima di giungere nel
golfo; ero molto eccitata e felice, perché sapevo benissimo di cono­
scere il mare, sapevo che non era la prima volta che lo vedevo. Era
così naturale per me che non mi stupii neppure di ciò che provavo:
guardavo, muta, e ascoltavo il mio cuore cantare:
«Mare amato, o mare, sempre uguale a se stesso, tu che compren­
di tutto, che senti tutto, che sopravvivi a tutto! Mare, amico mio, che
così spesso mi hai ascoltato, hai compreso le mie sofferenze, il mio
dolore, le mie gioie, tu che, con infinita eternità, hai saputo consolar­
mi ed elevarmi sopra al limite umano! Tu sei qui, nuovamente pre­
sente, immutato, posso tuffare lo sguardo nelle tue profondità ed
ascoltare le tue onde raccontare l’eternità...»
Padre mi sfiorò una spalla e chiese:
«Allora, come trovi il mare? Sei soddisfatta o dovrebbe essere
diverso?»
«No, Padre, il mare è esattamente come dev’essere. Ma la riva?
Perché c’è una riva dappertutto? Il mare dev’essere infinito, non si
deve vedere nessuna riva.»
«Sì, è vero, te ne accorgerai quando ci arriveremo. Qui siamo in
un golfo, ed è per questo che ti sembra che il mare sia circondato da
ogni parte; una volta laggiù, il mare ti si rivelerà senza rive, a perdita
d’occhio.»
Questo mi rassicurò. Ero entusiasta e mia sorella mostrava la stes­
sa gioia. Avevamo finalmente trovato un terreno di perfetta intesa:
godevamo di quel mare e, più tardi, quando cominciammo a cercare
conchiglie e cozze, diventammo ottime amiche.
Il soggiorno in quella stazione balneare fu un periodo felice. Padre
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 27

era pieno di gioia e questo si rifletteva su di noi; Madre era radiosa,


perché poteva passare tutta la giornata accanto a lui.
Un giorno ci recammo in una chiesetta circondata da un giardino
pieno di cipressi; Madre si inginocchiò e pregò a lungo, con devozio­
ne; vicino a lei, Padre rimase in piedi, con un’espressione grave.
Anche Greta si inginocchiò e pregò, e sebbene desiderassi raccoglier­
mi, non ci riuscii. Non mi inginocchiai perché non ne sentivo la
necessità. Non volevo piegare il ginocchio davanti a forme visibili!
Perché inginocchiarsi soltanto perché lo facevano gli altri? No, quello
no! Oppure, inginocchiarsi solo per fare la brava bambina? No! Dio
non aveva bisogno di questo, Dio vedeva ciò che era giusto e sincero,
dunque non mi inginocchiai e cominciai ad osservare la gente...
Passò un certo tempo, e già mi stavo annoiando, quando Padre
toccò la spalla di Madre che si alzò, e potemmo uscire. Tutto era
immerso nel sole; presi a saltellare e a correre da tutte le parti, senten­
domi molto più vicina a Dio in un raggio di sole che non nel freddo di
quella chiesa!
La sera, quando Madre venne a recitare la preghiera con me le
chiesi:
«Madre, perché hai pregato con tanto fervore in chiesa?»
«Pregavo Dio che ci mandasse un fratellino, se Egli desidera an­
cora darci un figlio.»
Rimasi senza parole. Un fratellino? Chissà se avremmo potuto
diventare amici? Sarebbe stato bello! Ora capivo la devozione di
Madre: pregare per un bambino... sì, questo aveva un senso!
Una notte d’inverno mi svegliai al suono di strani rumori prove­
nienti dalla camera dei miei genitori: i vagiti di un neonato. Un attimo
dopo, Padre comparve e ci chiese:
«Siete sveglie?»
«Sì, Padre!»
«Ho una magnifica notizia per voi: Dio vi ha mandato un fratelli­
no!»
Ah! Questo sì che era interessante, e volli immediatamente vedere
questo fratellino. Ma Padre mi chiese di essere paziente e di aspettare
fino al mattino: aveva un comportamento davvero strano, sorrideva
con dolcezza e teneramente, parlava a bassa voce, con un tono solen­
ne. Non osai insistere.
Giunse il mattino, e la nonna materna mi aiutò a vestirmi; andam­
mo nella camera da letto dei miei genitori, dove Madre era sdraiata
con un bambino piccolissimo fra le braccia: lo osservai attentamente
28 Elisabeth Haich

e notai i ciuffi di lunghi capelli neri molto fini che gli pendevano
dalle orecchie, come una scimmietta. Mi ero appena lavata, così fui
autorizzata ad accarezzargli la manina: tutti mi guardavano, tutti era­
no così solenni... così gravi...
Ora eravamo in tre bambini, ed ero più sola che mai.
CAPITOLO V

Voglio andarmene
In quel periodo, conobbi la sorella di mio padre: zia Raphaela, che
viveva in un’altra città con suo marito, zio Ferdinando. Vennero a
conoscere il nuovo arrivato, e quella donna così bella, così regale, mi
impressionò. Era alta quanto Padre, simile ad una dea greca, con un
volto di bellezza classica, nobile, imperturbabile, coronato da una
chioma d’ebano. Aveva gli stessi occhi neri e ardenti di Padre, e i
suoi movimenti erano maestosi, pieni di dignità, eppure così affasci­
nanti. Era il simbolo della bellezza e della distinzione, e l’amai appe­
na la vidi. Ne fui davvero contraccambiata, e spesso mi portava con
sé quando andava a far compere; suo marito era un uomo molto
saggio ed amabile, e ci intendemmo subito. Fu dunque con gran pia­
cere che appresi che avremmo trascorso l’estate in un paesino di
montagna, vicino al luogo in cui zio Ferdinando e zia Raphaela vive­
vano con i loro bambini.
Fu un’estate magnifica: Padre e zio Ferdinando mi permisero
spesso di accompagnarli nelle loro passeggiate. Com’erano belli, i
boschi ed i prati! Che meraviglia arrivare in cima ad una montagna ed
abbracciare con lo sguardo l’intero paesaggio... Laggiù in fondo, la
città, i villaggi con le loro case minuscole! Sì, qui, ero felice!
Ma di ritorno nell’ambiente familiare, quella gioia svaniva: Greta
era molto diversa da me, i suoi giochi erano molti diversi dai miei e
Madre si dedicava interamente al fratellino nuovo. Non cuciva più
insieme a me, non aveva più il tempo di rispondere alle mie sempiter­
ne domande, ed il senso di solitudine si acuì talmente in me che, a
poco a poco, mi staccai da tutti e non partecipai più alle attività
familiari. Per mia Madre ero diventata semplicemente disobbediente.
Una sera, all’ora di andare a letto, Madre mi sgridò: ero rientrata
troppo tardi dal giardino e non volevo andare a dormire. Stetti zitta,
30 Elisabeth Haich

ma Madre continuò a rimproverarmi, accusandomi di essere una bam­


bina molto disobbediente, e allora mi incollerii:
«Vedo bene che non mi amate, è dunque meglio che vi abbandoni
una volta per tutte.»
Madre, seccata, replicò:
«E allora vai, vai dove ti pare!»
Uscii di corsa, scesi le scale di volata, attraversai l’ampio giardino
e presi il sentiero del bosco, inoltrandomi nel buio verso la montagna.
Il giorno precedente, con Padre e zio Ferdinando, eravamo andati
lassù ed avevamo scoperto, in cima, una grande grotta chiamata “ca­
verna dei ladri”: era lì che volevo passare la notte, per riflettere su
cosa avrei dovuto fare. Nel buio, però, persi il sentiero e mi feci largo
attraverso i cespugli ed i rami, dirigendomi in linea retta verso la
caverna. D’un tratto sentii la voce di mia madre che mi chiamava: per
un attimo mi fermai, ma ripresi subito a correre. Madre chiamava e
chiamava, poi l’udii corrermi dietro: facevo così tanto rumore nei
cespugli che era facile seguirmi. Mi raggiunse, mi prese per le spalle
e, irritata, mi chiese:
«Non hai paura che un cane ti morda? Sei completamente pazza?»
Non risposi. I cani mi lasciavano del tutto indifferente e, d’altron­
de, sapevo difendermi benissimo. Volevo andarmene! Andare a casa
mia, là dove mi sarei sentita a casa, lontano da quegli estranei, da
questo ambiente in cui nessuno mi capiva. Erano pieni di bontà e di
amore, desideravano solo il mio bene, ma mi erano estranei, erano
diversi da me e diversi da quella gente di laggiù, là dove ero davvero
a casa.
Rientrammo senza dire una parola e mi aspettavo una punizione:
ma, con grande sorpresa, Padre e Madre tacquero. Soltanto Padre mi
guardò, tra il curioso e il divertito. La mia unica punizione fu che
Madre, dopo avermi messa a letto, lasciò la camera senza darmi la
buona notte.
Il giorno seguente i miei genitori fecero come se nulla fosse acca­
duto; seppi comunque che Madre si era spaventata della mia audacia
e che Padre rispettava e riconosceva il mio coraggio: per lui, quella
faccenda mi aveva fatta maturare. Quanto a me, non mi sentivo né
audace né coraggiosa; ero com’ero, e basta.
Greta, sempre docile, gentile e ben educata, mi guardò come se
fossi una criminale e abbassò gli occhi. La disprezzavo con tutto il
cuore per quella sua vile sottomissione.
L’inverno seguente mi dispensarono dall’andare a scuola: ero an­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 31

cora pallidissima, mi alzavo sempre con molta difficoltà. Un inse­


gnante privato venne dunque a casa con l’intenzione di riempirmi la
testa con ogni sorta di cose che mi annoiavano profondamente. Geo­
grafia! Perché imparare qualcosa di paesi che non conoscevo? Se
voglio conoscerli, ci andrò quando sarò grande e allora non avrò più
niente da imparare in proposito, pensavo. Ma fintantoché non li cono­
scevo, perché mai farmi ingurgitare tutti quei dati? Mentre l’inse­
gnante privato mi parlava del Paraguay, del Nicaragua e del Venezuela,
io ascoltavo sibilare il gas della lampada e quando il professore termi­
nò la lezione sul Sud America, gli chiesi se avesse sentito anche lui il
gas della lampada fischiare: mi rispose gentilmente che dovevo ascol­
tare ciò che mi diceva, e non il rumore della lampada.
«Ma è molto più interessante!» risposi.
Ne seguì una lunga conversazione tra l’insegnante e mia madre, a
proposito di quella strana bambina per cui era più interessante il
sibilo del gas che non la geografia; quando il professore se ne andò,
dovetti subire una lunga e seria ramanzina da parte di Madre, che
aveva deciso di inculcarmi la necessità dello studio.
«Va bene, va bene, sono contenta di studiare, ma non le cose che
volete insegnarmi voi» dissi.
Madre non si arrese e mi disse che, dal momento che ad ogni
modo dovevo presentarmi agli esami, era necessario imparare tutto
ciò che a scuola mi avrebbero chiesto. Volevo spiegarle che tutte
quelle cose non mi interessavano affatto, e lei voleva farmi ammette­
re che avrei comunque dovuto studiare: era impossibile capirci, ne
avevo abbastanza, volevo andarmene!
Volevo sapere la verità, volevo tornare dai miei veri genitori,
volevo vivere tra la mia gente, dove potevo fare ciò che volevo, dove
potevo giocare e non fare soltanto quelle noiosissime scale musicali,
dove sarei stata libera: per dirla in breve, dove sarei stata a casa mia...
Sedermi al buio in bagno divenne a poco a poco un’abitudine; i
piedi penzolavano nel vuoto e riflettevo su che cosa avrei dovuto fare.
Volevo andarmene... andarmeme via da qui... andarmene a casa! Non
osavo parlarne con Madre, perché sapevo che sarebbe andata in colle­
ra, sicché mi parve che la migliore soluzione fosse di scriverle una
lettera per spiegarle le mie ragioni, una lettera che avrei potuto conse­
gnarle al momento opportuno.
Madre era molto occupata con il fratellino; era una madre co­
scienziosa e non aveva mai affidato i suoi bambini ad altri. Era lei
stessa che si prendeva cura dei suoi piccoli, dando loro da mangiare,
32 Elisabeth Haich

lavandoli. Avevo dunque tutto il tempo necessario per scrivere tran­


quillamente la mia lettera. Scrissi molto educatamente e semplice-
mente che sapevo benissimo di non essere figlia loro, che Padre e lei
non erano i miei veri genitori, che mi avevano certamente trovata da
qualche parte e portata a casa loro, cosa che probabilmente rimpian­
gevano già di avere fatto, giacché non riuscivano ad amarmi. Chiede­
vo quindi loro di riportarmi al più presto là dove mi avevano trovata.
In termini concisi, le dicevo quanto fossi infelice qui, e che non
desideravo rimanerci più a lungo, a nessun prezzo. Sarebbe stato
meglio anche per lei, perché si sarebbe liberata, in tal modo, di tutte
le preoccupazioni che le causavo. Firmai con «ti bacio la mano»
seguito dal mio nome. La lettera era finita, ma ancora non osavo
consegnargliela: aspettavo il momento propizio.
Un bel giorno Madre ricevette la visita di certe sue amiche e
parenti: chiacchierarono, ammirarono i bambini, sia noi più grandi
che il nuovo arrivato, tutti e tre con i nostri abiti migliori. In seguito
andarono in sala da pranzo, dove erano ad attenderle il caffè e i
biscotti. Madre, in mezzo a quelle signore, era deliziosa, divertente, e
come al solito aveva preso posto a capotavola; era radiosa, bella,
serena, sicché pensai fosse il momento giusto per consegnarle la mia
lettera: non avrebbe potuto arrabbiarsi. Attesi che tutte avessero finito
il caffè per scivolar dietro la sua sedia e mentre scambiava qualche
parola con la sua vicina, le deposi la lettera sulle ginocchia. Mia
madre notò subito quella mia manovra, perché non amava che i bam­
bini si mischiassero con gli adulti; dovevano rimanere nella nostra
camera, ed uscirne soltanto se ci avessero chiamati. Occupata con le
sue ospiti, non potè chiedermi ciò che volevo, ma spalancò gli occhi
in uno sguardo sorpreso a quel mio gesto. Intascò la lettera e continuò
la sua conversazione come se nulla fosse: ero molto soddisfatta di
aver saputo scegliere un momento tanto opportuno!
Ma, quella sera, quando Padre tornò e gli ospiti si ritirarono, scop­
piò l’uragano... a cui, d’altronde, mi ero già preparata. Madre era
visibilmente spaventata e fuori di sé: tese a Padre la mia lettera e,
sconvolta, gli disse:
«Questa bambina è pazza, guarda cosa mi scrive!»
Poi si volse verso di me, con un’espressione di collera:
«Aspetta un momento. Se non siamo buoni genitori, possiamo
comportarci diversamente, e allora vedrai che avrai davvero altri ge­
nitori. Ma te ne pentirai!»
Padre lesse la lettera con molta attenzione e notai che la trovava
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 33

molto interessante; era molto difficile riuscire a turbare mio Padre,


sicché non la prese sul tragico, ma mi guardò con curiosità e chiese:
«Cosa intendi, quando dici che vuoi tornare dai tuoi veri genitori?
Chi sono questi “veri genitori”? Dove sono? Sciocca bambina!»
Per Padre, l’incidente era chiuso. Quando a Madre, ne rimase
irritata per giorni interi, parlò della mia lettera con la nonna, con zia
Adi, con zio Stefi e la mostrò persino al migliore amico di mio Padre,
il medico di famiglia. Costui era un uomo molto colto, riflessivo ed
esperto nella sua arte, ed era sempre stato un buon consigliere in tutte
le questioni del corpo e dell’anima. Mia Madre, amareggiata, gli rac­
contò (cosa che lui già sapeva) quanto tutta la famiglia si sforzasse di
rendermi felice e che, tuttavia, io volevo andarmene, piccola ingrata...
Egli ripeteva:
«Ma dove vuoi andare, stupida bambina, vuoi dirmi dove vorresti
andare?»
Ma se era proprio quella, la domanda a cui loro dovevano rispon­
dere: io non lo sapevo! Io volevo sapere dove loro mi avevano presa!
Il medico mi guardò con calma, con uno sguardo curioso e mi chiese
seriamente, come rivolgendosi ad un adulto:
«Cosa intendi con questo, bambina? Dimmelo francamente, su,
raccontami!»
Ma non volevo e non potevo più parlarne; volevo soltanto ritorna­
re là da dove ero venuta, là dove ero stata presa. Là dove ero a casa,
dove avrei potuto ritrovare creature come me.
Mi resi conto che non avrei potuto raggiungere quel mio scopo,
per il momento; avrei dovuto rimanere qui. Constatai che coloro che
mi circondavano ne sapevano quanto me sulla mia origine, se non
meno, sicché non potevo aspettarmi da loro la soluzione di que­
st’enigma; le mie domande erano riuscite soltanto a ferirli, a spaven­
tarli, e la mia lettera era stata un insulto per mia Madre, cosa che non
era mai stata nelle mie intenzioni. Tomai quindi nella camera dei
bimbi e qui trovai Greta con gli occhi bassi (non voleva più guardare
una bambina colpevole) il che mi fece sentire come una criminale.
No, la mia causa era senza speranza, e non ne avrei mai più parlato. I
miei dimenticarono a poco a poco l’incidente, e sulla mia anima scese
un velo sempre più opaco; non volevo più pensare alla mia vera patria
giacché mi sembrava impossibile imparare qualcosa di più su quel­
l’argomento.
In quell’epoca - avevo sette anni - Padre parlò a tavola del fatto
che l’essere umano fosse “la corona della creazione”.
34 Elisabeth Haich

«Cosa vuol dire?» chiesi.


«L’uomo è l’essere più perfetto della Terra, e null’altro esiste al di
sopra di lui» mi spiegò.
Ne fui costernata! Come - pensavo - Padre, così brillante, lui che
conosceva le risposte a tutte le domande, lui che, quando c’erano
discussioni, aveva sempre ragione, come poteva ignorare che esiste­
vano ancora sopra agli umani, i... come chiamarli... ? Giganti o titani,
no, non fisicamente, ma in sapienza ed in energia, esseri infinitamen­
te superiori agli uomini che ci guidavano con la loro autorità e che ci
aiutavano nel nostro sviluppo?
Osservai Padre per cercare di determinare se non volesse forse
tacere l’esistenza di questi esseri o se, davvero, ne ignorasse l’esisten­
za. Fissai il suo volto, e dovetti rendermi conto dell’evidenza: era
davvero convinto che l’uomo fosse la corona della creazione. Non
osai fare altre domande, perché sentivo profondamente che a “Lui"
non sarebbe piaciuto sentir parlare di queste cose segrete con persone
ignoranti. Bisogna saper tacere.
D’un tratto ebbi un sussulto: “Lui”\ Chi è, dunque, Colui alla cui
esistenza credo così naturalmente, Colui che è sempre con me, Colui
che è qui per aiutarmi? Chi è dunque Colui verso il quale alzo lo
sguardo con tanto rispetto e fiducia? Colui di cui riconosco l’indiscu­
tibile superiorità, al quale penso come a un rifugio quando mi sento
sola e incompresa, Colui che mi accoglie con amore e comprensione
assoluta, che non condanna mai, ma che prima mi ascolta, mi prende
sul serio, mi aiuta ad andare avanti, e che non mi abbandonerà mai,
mai, mai. Chi è? Dov’èl
Mentre cercavo una risposta a questo interrogativo, al mio sguar­
do spirituale apparvero d’un tratto due occhi coloro azzurro scuro,
occhi pieni di amore, onniscienti, onnipotenti, profondi come la volta
celeste... volli gridare il suo nome... ma le lettere erano troppo nasco­
ste nella profondità della mia memoria, il mio pensiero non era abba­
stanza preciso per farle tornare a galla e, d’un tratto, notai di essere
seduta a tavola con i miei, notai che Madre teneva il piccolo in
braccio e gli dava da mangiare con il cucchiaio... e la mia visione
svanì.
Passai il pomeriggio seduta alla scrivania, cercando con tutte le
forze di far risorgere i ricordi del mio inconscio... erano lì, ma non
potevo afferrarli. Immagini sfocate si abbozzavano di quando in
quando, cercavo di trattenerle, ma poi mi sfuggivano...
Eppure, una cosa mi era chiara: dacché ero diventata cosciente su
Iniziazione: memorie di un’Egizia 35

questa Terra, avevo sempre conservato in me l’immagine di qualcu­


no, qualcuno che chiamavo semplicemente e naturalmente Lui.
CAPITOLO VI

Aspiro all’unità
Un giorno mia madre ricevette l’invito di una cugina che, con i
suoi, aveva traslocato nella nostra città; ci vennero incontro sulla
scala esterna e i due ragazzi ci guardarono dall’alto in basso, mentre
noi li ispezionammo dalla testa ai piedi, senza una parola, fino al
momento in cui ci mandarono nella camera dei bambini.
Ci trovammo d’un tratto immerse in un universo maschile: un
treno che scivolava sulle sue rotaie, una tipografia in miniatura e una
lanterna magica. Ne fui molto impressionata, ma ciò che soprattutto
mi impressionò fu la quantità di libri che vidi: tutti libri di Giulio
Veme! Fu davvero un incontro importante e tornammo a casa a tarda
ora. Le due famiglie simpatizzarono, e ci incontrammo regolarmente
ogni settimana: quei pomeriggi si rivelavano gradevoli e divertenti,
perché i due ragazzi erano allegri e ben educati.
Come avevo letto una volta in un libro, ero alla ricerca “di un’uni­
tà eterna nell’amicizia”, ma i miei compagni di scuola si facevano
beffe di me e dicevano di non interessarsi a cose tanto stupide. Feci
dunque la mia proposta di concludere un patto “di eterna amicizia” a
quei due bambini, e loro trovarono che fosse un’ottima idea. Ma il più
giovane, che era anche il più volitivo e sapeva imporsi, rispose:
«Bisogna prima che ognuno di noi mostri la propria firma.»
Dovemmo dunque scrivere tutti il nostro nome su un pezzo di
carta; Greta e i due bambini ce la misero tutta per scrivere molto
grosso, dotando le loro iniziali di stupefacenti decorazioni, e renden­
do tutto il resto il più illeggibile possibile, completando l’opera con
una lunga coda ondulata; trovai tutto questo del tutto inutile, e scrissi
semplicemente il mio nome in modo leggibile.
Il più giovane dei due bambini guardò le firme e, considerando la
mia con uno sguardo di disprezzo, disse:
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 37

«Cosa? Vuoi concludere un patto di eterna amicizia, vuoi diventa­


re membro di un’alleanza e non sai neppure firmare in modo decente?
Non potrai far parte della nostra società se non farai una firma come
si deve.»
E con questo, gli altri tre conclusero “un patto di eterna amicizia,
per la vita e per la morte.”
Ero profondamente offesa, abbattuta, infelice; di ritorno a casa,
appena tolti cappotto e cappello, cominciai ad esercitarmi per trovare
una “firma”: scrissi il mio nome mille volte, con slancio, ornando la
prima lettera con una curva gigantesca, e rendendo le altre illeggibili:
cercavo di imitare la firma del medico che scriveva le ricette in modo
pressocché indecifrabile. Infine, terminai quell’opera d’arte con una
linea sinuosa che attraversava tutta la pagina, ma era un artificio, non
era autentico... eppure, il sabato seguente dissi fieramente ai miei
amici:
«Guardate un po’ qui, ho già una “firma”!» e scarabocchiai
un’imponente firma su un pezzo di carta. I due ragazzi e Greta con­
templarono il risultato, ed il più giovane sentenziò:
«Va bene. La firma è ancora troppo leggibile, ma è accettabile, e
ti accogliamo nella nostra alleanza.»
Avrei dovuto essere felice, giacché il mio auspicio si era realizza­
to, ma, stranamente, non ci riuscivo: no! C’era una nota stonata. E
quando, di ritorno a casa, mi misi davanti allo specchio per incontrare
“l’invisibile” - ovvero me stessa - faccia a faccia, sentii in me una
voce:
«Quella tua firma era falsa, non è a tua immagine. Credi di poter
ottenere cose vere con l’aiuto di cose false? Una vera amicizia per
mezzo di una falsa firma? Chi non può riconoscere la tua vera firma,
non può diventare un vero amico...»
Mi distolsi dallo specchio e andai a dormire, ma la firma che mi
era costata tanti sforzi mi era ormai intollerabile; sapevo che quella
“eterna amicizia per la vita e per la morte” era artificiale quanto la
mia firma, e che i ragazzi non avevano nessuna idea del tipo di amici­
zia che andavo cercando: un’amicizia eterna, al di sopra dello spazio
e del tempo, vera e reale! Rimasi dunque sola con la mia nostalgia di
un’amicizia autentica, di una autentica e vera unità... Sola... sola.
CAPITOLO VII

L’uomo rosso
All’età di nove anni vissi un’esperienza sconvolgente. Il mio fra­
tellino, che amavo teneramente, aveva allora due anni, e si ammalò
senza che il medico riuscisse a diagnosticarne la causa. Condividevo
la sua stessa camera e Madre era al suo capezzale. Il bambino dormi­
va ma, d’un tratto, fu colto dalla paura, guardò in una precisa direzio­
ne come se vedesse qualcuno, si alzò a sedere sul letto e urlò, spaven­
tato, con gli occhi spalancati per l’angoscia:
«Mamma, mamma, l’uomo rosso... l’uomo rosso mi assale!» e
agitò le mani come a difendersi da qualcuno; ancora una volta urlò:
«Mamma, aiutami, l’uomo rosso!» poi ricadde svenuto.
Madre lo prese subito in braccio, poi lo riadagiò pian piano nel
letto. Fece chiamare un medico, e mentre lo stavamo aspettando chiesi:
«Chi è quell’uomo rosso che ha visto il piccolo?»
Madre rispose: «Niente di reale, piccola mia. E la febbre che lo fa
V

sragionare, è il delirio, ha le allucinazioni.»


Il medico arrivò, esaminò il bambino e diagnosticò una polmonite.
Povera, cara mamma! Per tre settimane tenne il bambino fra le
braccia, giorno e notte, senza addormentarsi: non lo lasciò solo nep­
pure per un minuto. Ero sconvolta dalla battaglia che quel bambino
combatteva per vivere, e che sua Madre combatteva per lui. Fu forse
la prima volta in cui il cuore mi si aprì completamente a mia Madre,
forse la prima volta in cui la mia vista interiore contemplò quella sua
anima tutta fatta d’amore. Tremavo per la vita di quel fratellino e, da
quel momento in poi, mi sentii parte integrante di quella famiglia.
Quando mio fratello fu fuori pericolo, mi unii alla gioia della famiglia
e cominciai a sentirmi “a casa” anche qui.
Però, “l’uomo rosso” non lo dimenticai mai: Madre aveva cercato
invano di rassicurarmi, dicendomi che non si trattava di nulla di reale,
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 39

ma mio fratello l’aveva visto, c’era qualcosa che gli aveva permesso
di vedere un uomo rosso: e perché non doveva essere reale? La fac­
cenda di sapere che cosa avesse visto mio fratello non era affatto
chiusa per me, e ci pensavo spesso; allora, non sapevo che la risposta
sarebbe stata data un giorno, in India, molti, molti anni dopo.
Passò un anno, e traslocammo in un altro quartiere della città, un
quartiere pieno di verde, dove le case erano circondate da giardini;
dalle finestre, potevamo vedere le montagne.
Ripresi la scuola, e ricominciò la vecchia storia: le altre bambine
si stupivano di me quanto io di loro; giocavano con le bambole, e
trovavo che non fosse affatto divertente. Io invece leggevo libri, e
loro trovavano che fosse una cosa noiosa. Più crescevo, più leggevo
freneticamente: e non solo i libri che solitamente ricevono i bambini,
ma tutti i libri della biblioteca di mio padre. Fu lì che scoprii una serie
di volumi che mi fecero letteralmente venire la febbre: le opere com­
plete di Shakespeare! Divorai un libro dopo l’altro, e mi fecero una
tale impressione che per tutto il giorno non riuscivo a pensare ad
altro, né potevo separarmi neppure per un istante dal libro che stavo
leggendo. Vivevo come una sonnambula; a tavola non sentivo neppu­
re quando venivo interpellata. Vivevo il destino degli eroi e delle
eroine delle varie tragedie o commedie. In primo luogo cominciai con
leggere tutte le tragedie, sentendone gli effetti profondi nella mia
anima sconvolta; poi lessi le commedie, e risi a crepapelle sul divano.
A parte le opere di Shakespeare, un’altra imponente serie di libri
mi incuriosì e mi impressionò soprattutto il volume intitolato “Ricer­
che etnografiche”. In esso, scoprii la descrizione dettagliata delle va­
rie pratiche di superstizione e di magia nera. Ah! imparai cose che
fino allora mi erano state ignote, e che non potevo capire davvero... e
che riguardavano incantesimi, filtri d’amore e altre oscure usanze che
avevano a che fare con la vita amorosa. Dopo aver letto cose inimma­
ginabili ed aver mischiato tutto nella mia testa, andai da Madre per
chiederle:
«Madre, è proprio vero che quando uno vuol farsi amare da un’al­
tra, bisogna forare una carota dal di sopra, sputare tre volte attraverso
il buco e, a mezzanotte, lanciarla sopra la casa in cui dorme la perso­
na amata? Oppure bisogna bruciare un pezzettino di una camicia da
notte già usata, introdurne le ceneri in un dolce prima di cuocerlo, e
quando uno mangia quel dolce, si innamora perdutamente della pro­
prietaria della camicia da notte e poi fa tutto ciò che lei vuole?»
Madre, sempre più sconvolta, mi aveva comunque lasciata finire;
40 Elisabeth Haich

alla fine, però esclamò:


«Per l’amor del cielo, dove hai scovato questi orrori? Hai parlato
con la guardarobiera? Quante volte ti ho detto di non parlare di argo­
menti intimi con la cuoca e la cameriera? Dove hai sentito queste
assurdità spaventose di magia nera? Dimmelo subito!»
Certa della mia innocenza risposi:
«Non preoccuparti! Queste cose non devono essere poi così spa­
ventose, giacché uno scienziato se ne è occupato e ha fatto delle
ricerche in merito; ho letto tutto questo nei libri scientifici delle “Ri­
cerche etnografiche”.»
Madre si precipitò in biblioteca e portò via la chiave.
Questo, naturalmente, non sopì affatto la mia curiosità; mi erano
rimaste in mente un sacco di parole latine di cui non conoscevo il
significato, sicché chiesi a Madre di darmi l’uno o l’altro volume del
dizionario, con il pretesto di cercarvi informazioni sulle piante e sugli
animali che stavamo studiando a scuola. Ma mi assicurai, prima di
tutto, che quel volume comprendesse proprio le parole che mi interes­
savano... molto più delle piante e degli animali. Mi recai nella camera
dei bambini e studiai coscienziosamente le cose che volevo conosce­
re: fu così che, con il permesso di Madre, ma a sua insaputa, potei
leggere nel dizionario tutto quanto mi era stato proibito altrimenti.
Inoltre, Madre mi aveva rivelato che era possibile imparare dalla
guardarobiera cose affascinanti circa le credenze superstiziose, sicché
mi affrettai a trovare un’occasione per parlare in segreto a costei. E
allora udii storie di fantasmi, di superstizione, di stregoneria, le storie
più spaventose che si possano immaginare. Il risultato fu che non osai
più entrare da sola in una camera buia, e un giorno zio Stefi me ne
chiese il perché.
«Potrebbe apparire un fantasma» gli dissi.
«Oh, c’è un modo facilissimo per difendersi: fischia forte e tutti i
fantasmi scompariranno!» rispose.
Mi misi dunque a fischiare con ardore, ma il mio interesse per le
storie di fantasmi non diminuì per questo; fu così che, da un lato,
approfondii le mie conoscenze su un tipo di misticismo di livello
davvero primitivo e, dall’altro, sviluppai l’arte di fischiare ad un gra­
do di perfezione davvero sorprendente.
CAPITOLO Vili

Si delinea il mio futuro


Trascorremmo l’estate in riva ad un grande lago insieme a dei
parenti; quell’estate mi restò particolarmente impressa perché gli
eventi che accaddero mi tornarono spesso in mente molto più tardi.
Madre era sempre occupatissima con il mio fratellino, cosa che mi
permetteva di godere di una maggiore libertà. Andavo a fare il bagno,
giocavo nei prati e me ne andavo in giro per il bosco con un’amichet­
ta della mia età, mentre ognuna delle nostre madri credeva che la
propria figlia fosse a casa dell’altra. Fu un periodo denso di esperien­
ze: il lago era circondato dalle case, ed un giorno osservammo come
un giovane zingaro andasse, di casa in casa, a suonare una canzonetta
col suo violino per guadagnarsi un po’ di soldi. Anche mia nonna
dava dei concerti e guadagnava molti soldi, sicché cominciai a chie­
dermi se sarei stata capace di fare altrettanto. Quanto alla mia amica,
seguiva ciecamente tutto quanto le dicevo, e fu così che cominciam­
mo anche noi ad andare di casa in casa, direttamente sulle terrazze e
nei giardini, dove io declamavo il mio poema: la gente ci guardava
sorpresa e quando la mia amica presentava il piattino ricevevamo dei
soldi, a volte molti, a volte pochi, ma tutti ridevano di cuore. Una
signora mi chiese se mia madre fosse al corrente.
«No — risposi — è un’impresa privata. Mia madre non ne sa
nulla.»
«Proprio come pensavo — replicò la signora — fareste meglio a
tornare a casa, bambine!»
Quell’impresa privata promettente finì il giorno stesso della sua
fondazione; dopo esserci divise il ricavato, tomai a casa e, fiera di
me, mostrai le mie monetine di bronzo e di nichel dichiarando che me
le ero guadagnate. Poco mancò che mia madre svenisse!
«Per l’amor del cielo! — esclamò. — Come ti è venuto in mente?
42 Elisabeth Haich

Cosa penserà la gente? Che vergogna!»


«Perché? — chiesi. — Anche la nonna guadagna dei soldi con la
sua arte, e anche lo zingarello: e allora perché è una vergogna se
anch’io guadagno dei soldi declamando?»
«Cerca di capire, pazzerella, che tuo Padre ha un posto importante
in questo Paese, e che non puoi permetterti queste cose!» rispose.
«Mio padre non c’entra nulla con quello che faccio io; mio padre
è mio padre, e io sono io. Io non ho un posto di responsabilità, e
allora perché non potrei guadagnare dei soldi? Qualsiasi lavoro è
degno se viene fatto degnamente, ed io ho recitato benissimo!» escla­
mai, molto cosciente di quanto dicevo.
Irritata, Madre aggiunse:
«Sono cose che non puoi ancora capire, ma visto che le fai lo
stesso e che ti permetti anche di contraddirmi, non uscirai più dal
giardino!»
Fu così che persi la mia libertà, ma l’incidente ebbe altre conse­
guenze: il mio prozio, che aveva affittato l’altra metà della villa e che,
con i suoi, abitava quindi con noi, era un uomo adorabile, con uno
straordinario senso dell’umorismo. Fu messo al corrente della mia
trovata e volle sentirmi declamare: le due famiglie erano riunite a
tavola per la cena, quando propose di ascoltarmi subito dopo. Per me
era una pacchia! Gli adulti si sedettero in cerchio, io mi misi nel
mezzo, e recitai le poesie che avevo imparato a scuola: piacquero
moltissimo al mio prozio che me ne chiese altre.
«Non ne so altre» dissi.
«Allora, raccontaci qualcosa, quello che vuoi tu!»
«Posso raccontare la storia del libro che ho ricevuto in premio a
scuola, dopo gli esami?»
«Naturalmente! Ti ascoltiamo!»
Cominciai così a raccontare la storia del “Pastore di Wakenfield”.
Ma non mi accontentai di raccontarla, e recitai tutte le parti come se
fossi stata in teatro: quella del pastore che conduceva una vita santa, e
quella del giovanotto che, avendo conosciuto la figlia del pastore,
l’aveva poi sedotta; non avendo però alcun’idea di ciò che significas­
se “sedurre”, non comprendevo perché il pastore si fosse tanto irrita­
to. Ma nel libro era così, e io rimanevo fedele al testo; recitai la parte
degli innamorati che si incontravano nel buio e si mormoravano paro­
le tenere, poi quella del pastore, fuori di sé, che aveva voluto prende­
re il fucile ma il cui gesto era stato interrotto dalla sua dolcissima
moglie che l’aveva calmato, mettendogli la Bibbia fra le mani...
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 43

E gli adulti ridevano, ridevano... Quando decisi di concludere il


mio spettacolo, il prozio mi incoraggiò a continuare e così feci. Le
risate si levarono ancora, raddoppiarono di intensità, gli adulti erano
letteralmente piegati in quattro dal ridere; eppure, raccontavo cose
tragiche, e non cose da ridere!
Il prozio finalmente mi attirò a sé e mi chiese:
«Dimmi, dove trovi queste storie?»
«Ah sì! — disse mia madre — mi piacerebbe proprio saperlo!»
«Questa storia si trova nel libro che ho ricevuto a scuola in pre­
mio!» risposi.
«Incredibile! — disse Madre, sconvolta, ma comunque ridendo.
— Come si può mettere un libro di questo genere fra le mani di una
bambina, e per di più a scuola?»
«Non preoccuparti, Liliana — disse il prozio — gli insegnanti
certamente non hanno letto il libro, ma hanno pensato che, giacché si
trattava di un pastore, non poteva essere che santo e buono! Non gli è
venuto neppure in mente che un pastore potesse avere addirittura
delle figlie! Lascia perdere, Liliana, e permetti a tua figlia di raccon­
tarci ancora altre storie; in tutti i casi non potrai toglierle dalla testa
ciò che vi si è già radicato. Quanto a me, era un pezzo che non ridevo
così di gusto!»
Fu così che, ogni sera, davo una rappresentazione davanti ai miei
familiari, a cui si aggiungevano i vicini. Sceglievo i temi nei libri che
avevo letto, alcuni erano tratti dalle tragedie di Shakespeare, e non
capivo proprio perché gli adulti ridessero a crepapelle davanti a scene
tanto tragiche. Malgrado le loro risate, interpretavo la scena dell’ago­
nia del povero re Lear deluso, abbandonato... e gli adulti, giù a ride­
re... Mostravo loro come i personaggi del Riccardo III morissero gli
uni dopo gli altri in diversi modi, tutti orribili, mimandoli... e gli
adulti quasi morivano dal ridere.
Come si poteva ridere di cose tanto tristi, della morte di tutta
quella gente? Era una cosa spaventosa, non era affatto ridicola, pensa­
vo, continuando la rappresentazione con la massima serietà.
Molto spesso (oh! davvero) così spesso mi sono ricordata della
bambina che recitava davanti a quel pubblico con tanta serietà e tanta
convinzione; a quell’epoca si delineava il mio futuro. Mi ero abituata
ad esprimere qualcosa del mio mondo interiore, qualcosa di bello, di
divino, di vero, senza preoccuparmi di sapere se i miei spettatori
comprendessero o no le mie verità. Dicevo la verità per la verità e di
un solo uditore mi importava: Dio.
44 Elisabeth Haich

L’estate volse al termine, e tornammo a casa. Durante l’inverno


che seguì, decisi di abbandonare i miei abiti da bambina per quelli di
un clown. La sensazione di non essere quella che ero non mi lasciava
tregua, ed il fatto di non parlarne mai non diminuì affatto questa mia
impressione, ma la nascose ancor più profondamente nel mio incon­
scio, da dove essa agiva. Mendicai, supplicai mia madre dal cuore
tanto tenero, finché finì per farmi lei stessa un vero costume da clown
molto bello: mi comprò due berretti di diverso colore e, finalmente,
potei andarmene in giro vestita così; provavo molto piacere nell’eser­
citarmi agli anelli, al trapezio, ed imitavo a casa tutto ciò che avevo
visto al circo. Quando ciondolavo a testa in giù, vedevo tutto al con­
trario, ed avevo finalmente l’impressione di essere libera.
A quell’epoca non sapevo che gli psicologi chiamavano il clown
“la persona che cambia tipo”.
A parte l’imitazione delle esibizioni acrobatiche del circo, comin­
ciai ad assumere strane posizioni, del tutto inusuali; questo stupì i
miei genitori, e poi li fece ridere: in breve tempo tutta la parentela ed
il vicinato furono al corrente delle mie “strane” posture, e ovunque
andassi mi veniva chiesto di dare una dimostrazione. Lo facevo
d’istinto, senza pensarci, senza sapere perché; sentivo che mi faceva
bene, che certe posizioni mi permettevano di studiare meglio ed altre
di eliminare in breve tempo la fatica. I miei sorridevano di questa
“follia” e Madre si era abituata, quando entrava nella nostra camera, a
trovarmi in posizioni quasi impossibili; all’inizio aveva tentato di
insegnarmi come dovesse star seduta una bambina ben educata, ma
questo non aveva nulla a che fare con le mie posizioni: mettermi sulla
testa, slogarmi quasi gli arti in posture ridicole, far pendere le gambe
al di sopra delle spalle... Disperata, mi lasciò infine alle mie “stupi­
daggini”.
Quelle posizioni mi venivano naturalmente, le avevo nel sangue,
le eseguivo con piacere e, ancora una volta, non potevo che essere
sorpresa nel constatare che i miei si stupissero di cose così ovvie. Una
sera, durante le vacanze d’estate che trascorrevamo da zia Raphaela,
ci fu annunciata la visita di un signore che aveva trascorso molti anni
in Estremo Oriente e che, secondo zio Ferdinando, aveva cose appas­
sionanti da raccontarci; questo signore arrivò, gli vennero presentati i
bambini e, come al solito, gli venne fatta la lista di tutto ciò che
sapevano fare; zia Raphaela, scherzando, non mancò di citare la mia
strana abitudine di assumere posizioni bizzarre, torcendo gli arti, po­
sizioni che solo un uomo-serpente avrebbe potuto imitare!
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 45

Mi sdraiai a terra e, siccome quando si parlava di me mi sentivo


sempre imbarazzata, a disagio in quella parte da “fuori serie”, assunsi
una posizione che mi nascondesse completamente il capo. Sembrava
che mi avessero tagliato la testa. Gli spettatori risero molto, e feci per
loro ancora qualche postura “difficile” che mi piaceva molto. Il visi­
tatore mi osservò con attenzione, e senza l’ombra di un sorriso; poi,
molto sorpreso, finì col dire:
«Ma questa bambini esegue esercizi tipici dello Yoga! Dove li hai
imparati, bambina?» chiese, volgendosi verso di me.
Io non sapevo che fosse lo Yoga, e gli risposi che nessuno mi
aveva mai insegnato quegli esercizi, che li facevo da sola perché mi
piacevano e che dopo averli eseguiti mi sentivo bene. Quel signore
fece fatica a credermi, e mi fissò con aria inquisitiva, poi scrollò il
capo.
Le faccende dei grandi mi annoiavano già, e Madre ci fece un
cenno per cui ci affrettammo a scomparire nella camera dei bambini.
Dimenticai ben presto l’osservazione di quel visitatore.
Fu solo più tardi, molto più tardi, quando d’un tratto mi si risve­
gliò la memoria, ed avevo già compreso molte cose della mia vita che
mi erano sembrate fino a quel momento molto misteriose, fu allora
che mi ricordai dell’osservazione di quel signore venuto dall’Oriente,
e mi resi infine conto di dove avessi imparato quelle posture che,
prima da bambina e poi da adulta, avevo preso l’abitudine di praticare
e che quel signore aveva designato con il nome di “posture di Yoga”.
Divenni cosciente del fatto di praticare quegli esercizi per abitudine,
una abitudine antichissima, perché li avevo imparati ed eseguiti nel
Tempio, ogni sera, per anni e anni. Essi riflettevano il mio passato e,
contemporaneamente, il mio avvenire, giacché molto più tardi, in età
adulta, avrei insegnato quelle posizioni per aiutare la gente ad accele­
rare il proprio sviluppo mentale e fisico.
CAPITOLO IX

L’amore ed i suoi problemi


Gli anni passarono rapidamente; io crescevo, il mio corpo si tra­
sformava, e le storie e i problemi connessi all’amore m’incuriosivano
sempre più; anche la mia personalità andava affermandosi ed io son­
davo il futuro, avendo deciso di trovare un uomo di valore che avreb­
be saputo comprendermi del tutto. I libri passarono in secondo piano
fra i miei interessi, mentre i ragazzi, e più tardi i giovanotti, passaro­
no in primo piano! Anche loro si interessavano a me, e mia madre mi
aveva invano insegnato la modestia: fin dalla prima infanzia avevo
compreso di essere un polo di attrazione.
Però, nella mia ignoranza, pensavo che questo fascino che attirava
così tanta gente emanasse dalla mia persona... Ora, questo acceca­
mento — come d’altronde tutte le deficienze d’ordine spirituale — lo
avrei scontato più tardi, con una cecità fisica quasi completa, fino a
comprendere che il mio potere di attrazione non doveva essere messo
al servizio della mia vita privata, ma al servizio di tutti coloro che mi
avrebbero seguita sul cammino della salvezza.
A quell’epoca, però, la mia persona era al centro delle mie preoc­
cupazioni, e pensavo di poter trovare la massima gioia nel condivide­
re l’amore con un uomo; accadde ciò che accade ad ognuno, fui
amata, mi innamorai, ma tutte le mie gioie e le mie sofferenze furono
solo il preludio al mio destino.
Fra i tredici ed i diciannove anni, ebbi una lunga relazione con un
uomo; questo episodio della mia vita potrebbe intitolarsi “Scuola per
sviluppare una straordinaria forza di volontà”! Il mio destino sapeva
che quell’arma mi sarebbe stata utile nella vita.
Dunque, all’età di tredici anni, incontrai un giovanotto che, per le
sue brillanti capacità, era molto al di sopra della media. La sua natura
era un insieme di ricerca cosciente e rigorosa di tutto ciò che era
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 47

supremamente puro e bello e di un egoismo e di una follia del potere


quasi patologici. Mi amava — diceva — ma, di fatto, amava se stes­
so, e voleva far di me la sua devota schiava, il suo oggetto. Aveva ca­
pito subito che entrambi consideravamo le cose dal punto di vista
spirituale, e che l’arte aveva per noi la stessa importanza. Pensava di
aver trovato in me una compagna degna di lui: voleva far di me una
sposa molto colta, ma assolutamente obbediente, docile, scolpita a
suo piacimento, e pensava di poter annientare la mia indipendenza di
pensiero. Mi fece avere probabilmente i migliori libri di arte, di musi­
ca, di storia dell’arte universale, di letteratura moderna e classica ed
insistette perché li leggessi nella versione originale; ma dato che lo
studio delle lingue straniere non mi piaceva, egli le imparò insieme a
me. Mi trovò anche il miglior professore di piano, e fece tutto ciò che
era possibile per arricchire la mia cultura al di là di ogni misura.
Madre lo considerava come un angelo caduto dal cielo apposta per
perfezionare la mia educazione, ma erano proprio le lingue a causar­
mi i maggiori problemi, ed invano mi erano stati affiancati i migliori
insegnanti: non volevo imparare nulla a memoria. Però quel giovanot­
to mi portava giornali, riviste, opere teatrali in francese, in tedesco, in
inglese, e me le leggeva... sicché, a poco a poco, la nebbia che avvol­
geva le lingue straniere si dissipò.
Tutto questo era bello, buono e molto stimolante ma, nel contem­
po, faceva aumentare coscientemente il potere di quell’uomo su di
me; fin dal nostro primo incontro, mi aveva avvertita che avrei dovu­
to diventare sua moglie e che avrei dovuto considerarmi fin da subito
come sua. Non potevo leggere nulla senza chiedergliene il permesso,
né potevo conoscere qualcuno senza il suo consenso. Come tutte le
ragazze, mia sorella ed io frequentavamo una scuola di danza: la
danza mi entusiasmava, ed apprezzavo moltissimo le mie compagne.
Mi piaceva anche pattinare e tutte queste cose a lui non piacevano
affatto. Ma ero giovane, volevo danzare e pattinare e divertirmi con
altri giovani: diventò geloso oltre ogni limite tollerabile, e la situazio­
ne peggiorò ancora per quella sua smodata sete di potere.
All’inizio trovavo lusinghiero che un uomo della sua levatura,
ammirato da tutti, avesse scelto una ragazzina come me; sapeva esse­
re meravigliosamente spirituale, e spesso la sua compagnia era per
me estremamente piacevole. Anche il fatto che avesse il mio stesso
concetto di amicizia e dell’amore mi affascinava, ma quando mi ac­
corsi che il suo potere mi imprigionava ogni giorno di più, il suo
amore mi divenne fastidioso. Fu allora che iniziò una battaglia strana
48 Elisabeth Haich

e tenibile, tra le forze di due anime! Più sentiva che gli stavo sfug­
gendo, più tentava di riprendere le redini, e quando ebbi diciassette
anni, volle annunciare ufficialmente il nostro fidanzamento.
Suo padre venne quindi a trovare il mio, che non si mostrò troppo
entusiasta: mi confessò più tardi che la natura aggressiva del mio
fidanzato non gli era mai piaciuta, ma che, in nessun caso, avrebbe
voluto influenzarci.
Egli rispettava il diritto di scelta di tutti, dunque anche dei suoi
figli, e fu così che diede il consenso... un tiepido consenso! Quanto a
me, pensavo che la gelosia del mio fidanzato si sarebbe calmata dopo
il fidanzamento, ma invece crebbe contemporaneamente all’affermar­
si della mia femminilità. Le scenate spaventose si moltiplicarono, e
dopo avermi torturata per ore, cadeva nell’estremo opposto, chieden­
domi perdono in ginocchio, piangendo come un bambino, mendican­
do il mio amore e giurando di non farlo mai più.
Tutto questo era intollerabile: non avevo mai assistito a scene
simili nella mia famiglia; Padre era autoritario, ma il suo potere ema­
nava da lui in modo naturale, e non aveva mai cercato di imporre la
sua volontà a nessuno. Lasciava a tutti il diritto di essere quello che
erano e non pretese mai che lo seguissimo o che gli obbedissimo
ciecamente. A quel tempo aveva un’ottima posizione, e potevo esser­
ne soddisfatta: non c’era più nessun direttore sopra di lui! Ma non
tiranneggiò mai i suoi dipendenti e, nella vita privata come nella vita
professionale, fu sempre una colonna pronta a sostenere gli altri.
Per tutti era una fonte di buoni consigli: era giusto, generoso,
servizievole... Oh, pensai, se tutti fossero come lui! Non avevo mai
conosciuto la mancanza di riguardo o l’egoismo in seno alla nostra
famiglia, perché l’amore che in essa regnava era sano, autentico,
disinteressato.
Il sadismo ed il masochismo mi erano ignoti, e questo rendeva
ancor più incomprensibili ed insopportabili le scenate del mio fidan­
zato. Volevo essere libera, libera!
A lungo fui incapace di opporre resistenza alla sua autorità; inol­
tre, la mia naturale fedeltà, la mia facoltà di capire le debolezze altrui,
mi trattenevano al suo fianco; ma la mia volontà era andata consoli­
dandosi con gli anni, e d’un tratto mi chiesi perché tollerassi ancora
quella situazione.
Un giorno gli annunciai che intendevo riprendermi la mia libertà;
lui non volle saperne e, con la forza della disperazione, ci demmo
battaglia: il suo^potere su di me era come una morsa, e mi teneva
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 49

ancora prigioniera. Più dovevo battermi, e più la volontà animava la


mia resistenza che, a poco a poco, ebbe ragione delle sue forze: venne
allora il momento in cui, finalmente, trovai il coraggio di dirgli che
non sarei diventata sua moglie. Le scene che seguirono furono tumul­
tuose, ma ormai non mi facevano più effetto! Provavo pena per lui,
ma disprezzavo il suo atteggiamento contemporaneamente tirannico e
vile; non sapevo, allora, che quelle due caratteristiche erano comple­
mentari, essendo le due metà della stessa malattia. Sentivo che quel­
l’uomo era malato neH’amma e che dovevo assolutamente liberarme­
ne; e lo feci con le mie ultime forze.
Ne parlai ai miei, che non si mostrarono affatto sorpresi e, un bel
pomeriggio (avevo allora diciannove anni) mi recai con mio cugino
da sua madre, la sorella di mio padre, la bella zia Raphaela.
Il fidanzamento era rotto.
CAPITOLO X

Primo incontro con la morte


Fin dall’infanzia, avevo avuto dei periodi ricorrenti di poca salute:
diventavo trasparente e una fatica insormontabile mi opprimeva. Ge­
neralmente bastava che i miei mi mandassero da zia Raphaela, che
abitava con i suoi in montagna: l’aria buona, lo spirito di saggezza e
di devozione che animava quelle persone, mi aiutavano a ritrovare
rapidamente la salute. Con loro stavo bene, in quel loro ambiente
calmo e spirituale, ed ogni volta tornavo indietro ricaricata.
Fu dunque da zia Raphaela che andai dopo la rottura del fidanza­
mento.
Aveva perso il marito e viveva con sua figlia; la loro accoglienza
fu molto calorosa e, finalmente, potei godere della mia ritrovata liber­
tà. Mi sentivo come un aquilone che avesse rotto gli ormeggi, pren­
dendo finalmente il volo nel cielo infinito. Fu una primavera magnifi­
ca, e come sempre mia zia mi comprese alla perfezione: il suo com­
mento sulla mia decisione di rompere il fidanzamento, si rivelò molto
perspicace, dopodiché non se ne parlò mai più. Da lei avevo la massi­
ma libertà: mi permetteva di essere ciò che ero, e potevo andarmene
in giro per i monti, nei boschi e godere della natura come mi pareva.
E fu proprio quando mi sentivo così colma di gioia per quella mia
libertà, gustando un avvenire tutto pieno di promesse che, per la
prima volta, incontrai la morte.
Durante una gita passai nei pressi di un campo di grano; crollati i
miei progetti di matrimonio, cercavo di immaginare un futuro diver­
so, e pensavo: per cominciare voglio diventare una pianista come la
nonna materna, poi incontrerò un uomo simpatico, sano e normale, ci
sposeremo e metteremo su famiglia; i bambini cresceranno, forse mi
daranno dei nipotini... e poi?... Invecchierò... e poi?... E poi bisognerà
pur che muoia, un giorno!
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 51

La Morte ! Ecco la fine, il fine verso il quale tutti ci dirigiamo...


Ma perché? Perché? Perché imparare a suonare il piano e diventare
un’artista? Allora fa lo stesso, se queste mie dita, se queste ossa
ricoperte di carne e di pelle sanno correre sulla tastiera con o senza
abilità, visto che poi comunque finiranno in una tomba! Che impor­
tanza ha ciò che facciamo nella vita? Che differenza fa, essere stata
una celebrità o un’illustre sconosciuta? Essere stata onesta o no? Per­
ché lottare, lavorare, mettere al mondo dei bambini, soffrire, gioire,
essere felice o infelice, se poi la fine è la morte, la distruzione? Non
sarebbe allora molto più semplice morire subito?
Quel pensiero fu così intollerabile, così insopportabile che mi
sembrò che il mondo vacillasse intorno a me: mi appoggiai ad un
albero e guardai la valle, la città con le sue innumerevoli case piene di
gente che, da qui, sembravano formiche. Quella gente viveva, lottava,
correva dietro ai soldi e all’amore... avevano tutti i loro problemi,
avevano tutti la loro croce da portare? Prendevano tutto così sul se­
rio... Perché? Perché, visto che tutto era soltanto temporaneo... e alla
fine, c’era la morte in attesa, a por termine a tutti i problemi, a tutte le
sofferenze e le gioie? Perché l’uomo corre? Cosa può raggiungere?
La morteì Che un uomo sia felice o no, che sia un Creso o un mendi­
cante, la sua fine è la mortel
Il panico mi assalì: no! Non volevo giocare a quel gioco! Non
potevo studiare, amare, vivere con quel pensiero, tutto era privo di
senso: sarebbe stato meglio uccidermi per non dover morire alla fine
della mia vital
Una vocina sardonica si fece sentire:
«Hihihi! Ecco un’idiozia proprio degna di te! Vuoi ucciderti per
non dover morire? Credi di poter sfuggire alla morte? Tu sei qui, qui
sulla Terra, in un corpo. Non puoi fuggire da qui senza passare attra­
verso la morte. Se ti uccidi, avrai la fine che volevi evitare, ma imme-
diatamente! La morte, qui e subito! Non “chissà quando”, ma “ora”,
nel momento presente! Capisci? Tu sei qui, in un corpo, quindi non
puoi sfuggire senza passare attraverso la morte! Tu sei prigioniera!
Capisci? Prigioniera! Solo con la morte potrai liberarti del corpo, è
l’unica porta di uscita, e alla morte non puoi sfuggire... non puoi
sfuggire... hihihi!»
Cercai di vederci più chiaro, di fare un po’ d’ordine nella mente:
sì, dovevo proprio riconoscere di essere in trappola e che il suicidio
non avrebbe risolto nulla; anzi, avrebbe creato esattamente la situa-
zione da cui volevo fuggire. Che fare, allora? Ad ogni buon conto, il
52 Elisabeth Haich

pensiero di essere giovane, in buona salute e di avere una famiglia


longeva bastò a riconfortarmi; la morte era certamente ancora molto
lontana da me. Da qui a quel momento, pensavo, ne sarebbe passata
acqua sotto i ponti! Gli scienziati, che inventavano sempre cose nuo­
ve, avrebbero certamente scoperto l’immortalità prima che toccasse a
me morire. Mi aggrappai a quell’idea che mi diede il coraggio e la
forza di continuare a vivere, a lavorare, e a nutrire desideri.
Avevo proprio ragione! L’immortalità era davvero stata scoperta.
Però non sapevo ancora, allora, che quella “scoperta” dell’immortali­
tà sarebbe consistita nel riconoscere in sé e per sé questa verità: la
morte non esiste, l’essere umano (quindi anch’io) è sempre stato e
sempre sarà immortale! Questa immortalità è una scoperta che si fa in
sé e per sé, e nessuno può trasmetterci questa verità: ognuno deve
fare in sé l’esperienza dell’immortalità! Se una persona non crede ad
una verità, per quanto possa sembrare evidente agli altri, per lei sarà
inesistente e non le importerà affatto di quanti altri l’abbiano scoperta.
Ognuno deve riconoscere in sé che la morte non è nuli’altro che la
vita stessa, e che l’uomo non deve morire, che non può neppure mori­
re: è semplicemente impossibile!
In quel periodo della mia vita, tutto questo non lo sapevo: la morte
rimaneva per me un muro nero contro il quale continuavo a sbattere il
capo.
Ma ero giovane e mi tranquillizzai come potei. Rimossi il proble­
ma e, nella misura del possibile, mi rifiutai di pensare ancora alla
morte; quei pensieri non potevano far altro che indebolirmi e preferii
fare progetti per il mio futuro.
In generale risolvevo da me i miei problemi; Padre non si era mai
immischiato negli affari personali dei suoi figli, preso com’era dal
suo lavoro ed avendo solo raramente l’occasione di osservare quanto
avveniva in famiglia. Ci incontravamo solo intorno al tavolo da pran­
zo dove, naturalmente, non dicevo nulla delle scenate del mio fidan­
zato; mia madre mi amava come amava tutti i suoi figli, ma mi
comprese solo molto più tardi, quando dovemmo separarci per sem­
pre; desiderava ancora vedermi diventare una buona moglie, una buo­
na padrona di casa, una buona madre di famiglia: quello era anche il
mio scopo, ma avevamo idee molto diverse quanto alla via da seguire
per riuscirci. La mia via non poteva essere la sua, né quella di nessun
altro, poteva essere soltanto mia; e quindi non potevo accettare le sue
direttive.
Mia madre desiderava che mi preparassi a diventare una donnina
Iniziazione: memorie di un’Egizia 53

per bene, mentre io volevo sforzarmi, con ogni goccia del mio san­
gue, di realizzare completamente il mio essere nella musica e nell’ar­
te! Potevo quindi contare solo su me stessa, e mi ero abituata a
pensare, a riflettere e ad agire con tutta l’indipendenza che la cerchia
familiare mi consentiva. Cercavo di immaginare il mio futuro da sola,
senza chiedere consiglio a nessuno: volevo frequentare l’Accademia
di Musica fino a conseguire un diploma. Padre aveva sempre detto:
«Non lasciatevi ingannare dalla vita agiata che potete permettervi
oggi, perché i beni materiali possono venire distrutti, mentre ciò che
voi saprete resterà sempre vostro, e nessuno potrà mai sottrarvelo.
Imparate il più possibile: dovreste avere almeno un diploma; se vi
andrà per il verso giusto, potrete anche tenerlo in un cassetto, ma se
vi troverete in difficoltà, vi aiuterà a guadagnarvi il pane!»
Ah! Padre, caro Padre, saggio e colmo d’amore! Questo consiglio,
fra tutti i tesori che mi hai trasmesso, è stato il più importante.
Allora non potevamo immaginare che un giorno le cose potessero
mettersi male per noi, e, sul momento, consideravamo le tue parole
dal punto di vista puramente pedagogico; quante volte ci ho invece
pensato più tardi, quando la guerra aveva distrutto tutti i nostri averi,
ed io ero sola, con un marito gravemente ferito ed inabile al lavoro,
senza mezzi! L’unica cosa che ci salvò fu proprio ciò che io avevo in
me, ciò che sapevo ; perché tutti i nostri beni esteriori erano andati
perduti.
Quando, da ragazza, pensavo al mio futuro, lassù sui monti, non
sapevo ancora ciò che il destino mi avrebbe riservato, ma avevo
sentito che quel consiglio andava seguito.
Sicché, quando tomai a casa durante l’estate per cominciare un
nuovo capitolo della mia vita, concentrai tutta la mia energia per
conseguire il diploma di insegnante di pianoforte. E lasciai tutto il
resto fra le mani del destino.
CAPITOLO XI

Prime visioni del futuro


Durante i sei anni di fidanzamento avvenne qualcosa di così sor­
prendente, di tanto impressionante, da influenzare l’orientamento di
tutta la seconda metà della mia vita.
La mia attenzione venne attratta dall’universo che giace profonda­
mente nascosto in ognuno: l’universo sconosciuto e inconscio del­
irio” umano.
A quindici anni scoprii di essere a volte in grado di vedere il
futuro in sogno con assoluta precisione: il fenomeno si ripeteva, e
così avviene ancora oggi, sempre allo stesso modo; sogno e vedo ogni
sorta di immagini caotiche, senza alcun rapporto tra loro, poi, è come
se si scostasse una tenda, e allora riesco a vedere immagini chiare, a
colori, plastiche, in successione logica come nella realtà.
Quando mi accadde per la prima volta, vidi nel bagno dei miei
genitori un giovanotto che cercava di rianimare un neonato asfittico,
come se fosse soffocato. Un’assistente pronta a venirgli in aiuto gli
stava accanto, ma il bambino non respirava: il medico lo passava
alternativamente dall’acqua gelata all’acqua calda, dopodiché lo fece
dondolare a testa in giù finché emise un suono, con gran sollievo di
tutti. Padre, che era rimasto alla porta, si precipitò verso il letto di
Madre, cadde in ginocchio, appoggiò la testa sull’orlo del letto e
scoppiò a piangere singhiozzando come mai l’avevo visto fare. Madre
era pallidissima, ma il consueto sorriso dolce le illuminava il viso,
mentre accarezzava i capelli di Padre. A poco a poco lui si calmò, si
alzò e andò nella camera accanto, in cui zia Raphaela e sua figlia
aspettavano di poter vedere Madre. Stranamente, mi era possibile
osservare entrambe le camere contemporaneamente, il che nella realtà
non è possibile. Un altro fatto mi sorprese: il giovanotto che, nel
frattempo, aveva riconsegnato il piccolo fra le mani dell’assistente,
Iniziazione: memorie di un’Egizia 55

aveva un’andatura dinoccolata; notai anche i capelli biondi e ricci e lo


udii chiaramente dire:
«Sia la madre che la piccola sono ora fuori pericolo, ma hanno
bisogno di calma e di quiete: se qualcuno si intrufola qui dall’esterno,
allora non risponderò del loro stato, perché sono entrambi deboli ed
un’infezione è sempre possibile.»
«Certo, dottore» rispose mia zia; e la vidi congedarsi e andar via
con sua figlia. Le immagini si confusero ed io mi svegliai.
Il mattino seguente mi precipitai da mia madre per raccontarle il
sogno, ma lei rise e disse:
«Ti prego, non far più di questi sogni! Ho già abbastanza bambi­
ni! Come mai zia Raphaela era presente nel tuo sogno? Non abita
neppure con noi. E poi, chi è quel bel giovanotto con l’andatura
dinoccolata ed i capelli biondi? Non è un po’ sospetto, il fatto che ti
metti a sognare giovanotti così belli?»
«Non so chi sia, Madre, ma è così che l’ho visto in sogno.»
A tavola si parlò ancora di quel mio strano sogno. Poi, il giorno
seguente, tutto venne dimenticato.
Sei mesi più tardi Madre si sentì parecchio indisposta: dal mo­
mento che non le riusciva più di mangiare, il medico pensò che si
trattasse di un’ulcera al duodeno, e le fece fare radiografie ed ogni
sorta di esami che però non portarono alcuna delucidazione. Allora il
medico consigliò di consultare un ginecologo e questi concluse la
visita dicendo:
«Congratulazioni, signora! La fine di questa malattia sarà un bat­
tesimo!»... e rise di tutto cuore.
Madre tornò a casa disperata: aveva già trentanove anni! Poi si
calmò e, sei mesi più tardi, ovvero ad un anno esatto dal mio sogno,
fatto quando ancora nessuno poteva sospettare che Madre avrebbe
avuto un altro figlio, nacque la piccola. Il vecchio professore aveva
raccomandato, per l’assistenza al parto, un giovane medico già famo­
so. La bambina venne al mondo praticamente soffocata, e ci vollero
venti minuti buoni prima che emettesse il primo suono. Mio padre,
spossato da tante emozioni, cadde in ginocchio al capezzale di Madre
e prese a singhiozzare come un bambino. Zia Raphaela, che si trova­
va a casa nostra con sua figlia per due giorni, stava per andarsene
quando mia madre partorì: entrambe attesero nella camera accanto e,
quando Padre annunciò loro che era andato tutto bene, zia Raphaela
chiese di poter vedere Madre prima di partire. Fu allora che entrò il
giovane medico — aveva i capelli biondi e un’andatura davvero di­
56 Elisabeth Haich

noccolata! — e pronunciò esattamente le stesse parole che avevo


udito in sogno. Sì, tutto avvenne esattamente come l’avevo già vissu­
to ! Come se avessi già visto uno spezzone di film estratto dal resto
degli eventi.
Da allora mi accadde spesso di vedere il futuro: queste visioni mi
apparivano sempre in sogno, come se si alzasse un sipario, e poi,
molto più tardi, riuscii a raggiungere quella ricettività anche in stato
di veglia, grazie esclusivamente alla volontà.
La mia sorellina entrò in famiglia quasi come una nipotina: Greta
aveva già diciannove anni, io sedici, mio fratello nove. Divenne subi­
to il centro dell’attenzione, la preferita, e ci si occupò molto meno, in
famiglia, di noi sorelle maggiori, che spesso rimanemmo da sole;
quando uscivamo per i concerti, per andare a pattinare, o perché
invitate, per molto tempo ci accompagnò soltanto la governante: Ma­
dre dedicava tutto il suo tempo alla neonata, così come aveva fatto
per mio fratello, sicché non c’era da stupirsi che non avesse l’occasio­
ne di preoccuparsi dei miei problemi personali, sebbene avesse notato
i miei litigi col mio fidanzato di allora. Dovevo lottare da sola, senza
alcun aiuto esterno.
CAPITOLO XII

Il risveglio del passato


Era estate quando, dopo la rottura del fidanzamento, tomai a casa
dopo essere stata da zia Raphaela; avevo diciannove anni ed ero
entusiasta di poter godere della mia libertà. Finalmente potevo fre­
quentare gente giovane senza dover temere violente scenate di gelosia.
Appena tornata, andai al club del tennis e lì conobbi un giovanotto
sano e simpatico, di bell’aspetto: aveva un bel volto, un corpo molto
ben costruito e muscoloso, ed indossava un completo da tennis di un
bianco immacolato. Mi piacque subito ed anch’io gli piacqui subito!
Tre giorni più tardi, una compagna di gioco tirò maldestramente la
racchetta sulla testa del giovane raccoglipalle: il bambino cominciò a
piangere ed il simpatico giovanotto immediatamente posò la racchet­
ta, corse dal piccolo e se lo prese in braccio senza neppure per un
istante preoccuparsi delle lacrime che gli colavano sul completo. Lo
accarezzò, gli asciugò gli occhi, gli diede una monetina d’argento,
finché il bimbo finalmente sorrise e corse al banco a comprarsi le
caramelle.
Questa scena mi riscaldò il cuore. Oh! pensai, allora esistono
giovanotti che hanno un cuore? E cominciai ad amarlo...
Celebrammo il nostro fidanzamento d’invemo: ci amavamo pro­
fondamente, appassionatamente, e aspettavo con impazienza il mo­
mento di diventare sua moglie, anima e corpo, con tutta me stessa.
Padre desiderava vedermi prima finire gli studi; ne avevo ancora
per un anno all’Accademia Musicale, così dovemmo aspettare; ogni
giorno passavo dalle cinque alle sei ore al piano, imparavo le leggi
dell’armonia, suonavo musica da camera, facendo tutto il possibile
per preparare bene gli esami. Il mio fidanzato trascorreva da noi le
serate.
Una sera, dopo che se ne fu andato, mi misi a letto e mi addor­
58 Elisabeth Haich

mentai profondamente; come al solito, sfilarono in sogno tutte le


immagini oniriche, caotiche, senza logica, finché, d’un tratto, udii
uno strano suono che si ripeteva ritmicamente, come uno schiocco,
sempre più forte, fino a svegliarmi e a riprendere coscienza.
Ecco che apro gli occhi, e constato che quel suono proviene dalla
frusta del sorvegliante che, al mio fianco, che fa schioccare il suo
strumento per far marciare al passo gli schiavi che mi trainano. Io
sono sdraiata su qualcosa che ricorda una slitta su rotaie; so che
vengo condotta fuori dal palazzo, giacché ho sentito le porte chiudersi
alle mie spalle.
Vorrei alzarmi ma non ci riesco, gli arti rifiutano di muoversi: dal
collo alle dita dei piedi sono avvolta in strettissime bende. Giaccio
come un pezzo di marmo, con le mani incrociate sul petto e le gambe
allungate; dalla mia posizione, posso vedere soltanto davanti e verso
l’alto: guardo in direzione dei miei piedi e vedo la schiena degli
uomini che gronda sudore sotto un sole di piombo. Gli schiavi avan­
zano ritmicamente, trainandomi sempre più lontano. Sopra la loro
testa scorgo un grande edificio di pietra bianca su cui si delinea una
macchia nera, simile ad una porta: quest’edificio, dai muri di un
bianco abbagliante, si staglia contro l’azzurro scuro del cielo. Gli
schiavi continuano a trainarmi, il monumento sembra avvicinarsi, la
macchia nera si ingrandisce. Guardo verso il cielo di un blu quasi
nero, due grandi uccelli volano sopra di me... cicogne o gru?
L’edificio è ora vicinissimo, la macchia scura è grandissima... Sì...
è proprio un’apertura. Oh! ecco, ora riconosco dove sono: siamo nella
Valle dei Morti... in quella tomba\ Ecco, ci siamo, gli schiavi entrano
e scompaiono nelle tenebre... quel buco nero mi ingoia e, dopo la luce
abbagliante del sole, tutto intorno a me diventa scuro. Non c’è più
nulla... sono nel buio assoluto. Spaventata, cerco in me una risposta
alla domanda:
«Per quanto tempo, per quanto tempo devo rimanere qui, prigio­
niera?»
Molto distintamente odo una voce che conosco bene pronunciare
con calma, imperturbabile, il verdetto:
«Tremila anni...»
Terrorizzata, perdo conoscenza...
Qualcuno stava cercando di scuotermi con tutte le forze: alzai lo
sguardo ed incontrai gli occhi di mia sorella: mi scuoteva e mi fissa­
va, spaventata:
«Per l’amor del cielo — mi disse — cosa ti succede? Stai seduta
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 59

qui, con gli occhi sbarrati, gemi da far pietà, come se stessi per
morire! Non stai bene? Devo chiamare la mamma?»
Volevo risponderle, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono. Il
terrore che avevo appena provato mi paralizzava ancora. Feci cenno a
mia sorella di star tranquilla, ricaddi sul cuscino e cercai di riflettere,
ma non mi riuscì neppure di pensare: rimasi così per un bel po’,
ancora terrorizzata, aspettando che il mio cuore si calmasse ed io con
lui; cercavo di riprender il controllo della situazione, di sapere chi e
dove fossi. Mia sorella mi tenne compagnia, poi, constatando che ora
ero più tranquilla e che respiravo più regolarmente, mi chiese:
«Hai bisogno di qualcosa?»
E finalmente riuscii a rispondere:
«No, grazie.»
Il giorno seguente cercai di far ordine fra le mie idee: che cosa
avevo visto? Che era accaduto durante la notte? Sembrava una delle
mie visioni del futuro, ma non poteva essere stato un sogno premoni­
tore: nella visione del futuro, io sono sempre quella che sono allo
stato di veglia, mentre questa volta ero stata qualcuno di compieta-
mente diversoi Mi guardai a lungo nello specchio, cercando di capire
come un unico essere potesse essere contemporaneamente due perso­
ne; perché ora mi vedevo nello specchio, ma, avevo anche un’altra
immagine di- me, dentro, un ’immagine che avevo visto in un altro
specchio, un enorme specchio d ’argento quando ero quell’altra per­
sonal
Ero dunque colei che ero qui, ma, nel contempo, ero anche quel-
l’altro essere che era stato condotto nella tomba, laggiù, laggiù dove
mi sentivo a casa. Nel giro di pochi minuti, avevo vissuto l’esperien­
za di essere qualcuno che sapeva con molta precisione chi fosse, di
cosa facesse parte, dove si sentisse a casa, e che portava in sé tutta la
propria vita come ogni altro essere, anche se non ci aveva mai pensa­
to. D’un tratto mi era stato dato di rivivere episodi di una vita, di un
nucleo famigliare, e mi rendevo conto, ora, che quella famiglia era
proprio quella che avevo sempre cercato da bambina, quando la mia
coscienza aveva cominciato a svegliarsi: il posto in cui mi sentivo a
casa, e che il “grand’uomo” era mio padre e anche il mio sposo di
allora, il mio vero “padre”.
Gli anni e l’accettazione progressiva della mia situazione presente
mi avevano aiutata ad assuefarmi all’idea che mio padre e mia madre
fossero anch’essi i miei “veri” genitori, ma mi era rimasta sempre una
strana impressione, ed ora prendeva il sopravvento: era sorprendente
60 Elisabeth Haich

che certe cose che mi erano parse ovvie quando le avevo “rivissute”
mi sembrassero ora strane. In me si opponevano proprio questi due
atteggiamenti, sicché, ad esempio, sapevo quanto fosse perfettamente
normale essere contemporaneamente la figlia e la sposa di mio padre
- il Faraone - anzi, era un onore: ma, nella mia vita presente, era
un’idea ripugnante a causa dei principi morali del tutto diversi che mi
erano stati inculcati. A quel tempo, invece, non era immorale, era
normale: quando la moglie di un Faraone moriva, se questi non aveva
sorelle, sua figlia veniva elevata al rango di sposa. Non avrebbe mai
posto sopra alla propria figlia un’altra donna che non appartenesse
alla famiglia reale, dunque, chi altri, se non lei, avrebbe potuto sedere
al suo fianco, sposa e regina? E che c’era in questo di immorale?
Sarebbe stato immorale, invece, introdurre un’estranea in famiglia.
Mi ricordavo di molte cose, in particolare del Tempio in cui così
spesso mi ero recata, ma rimanevano oscuri molti altri punti: non
sapevo perché mi fossi trovata in quella bara, stretta dalle bende, né
perché mi avessero portata alla tomba. E di chi era quella voce fami­
liare? Di chi? Sembrava che una barriera si ergesse lungo il percorso
della memoria ogni volta che mi sforzavo di ricordare: c’era qualcosa
di simile ad una scossa elettrica che mi tratteneva, impedendomi di
farmi strada fino a raggiungere il mio passato!
Il giorno seguente, a colazione, dissi a Padre:
«A scuola ho imparato che le piramidi erano tombe dei re, ma non
è vero! Non tutte: a volte erano qualcosa di molto diverso. I morti
venivano sepolti fuori le mura, nella Città dei Morti, e le salme veni­
vano portate fuori dal palazzo reale su una sorta di bara-slitta, fino ad
un luogo in cui venivano murate. La tomba veniva poi richiusa con
una porta di pietra.»
Stupito, Padre mi guardò e disse:
«Come puoi pretendere di saperne più degli egittologi su queste
cose, quando loro sostengono che le piramidi sono le tombe dei re?
Non abbiamo mai sentito parlare della Città dei Morti!»
«Eppure, Padre, so che era così» risposi cosciente della veridicità
delle mie affermazioni.
«E come l’hai scoperto?» mi chiese. Tutti gli sguardi si puntarono
su di me.
«Mi è difficile dirlo con esattezza, non so spiegarlo» risposi, e
raccontai la mia visione di quella notte.
Padre mi ascoltò con molta attenzione e constatò che tremavo
ancora a quel ricordo, e che quindi avevo dovuto vivere proprio qual­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 61

cosa di eccezionale. Infine, disse:


«In Amleto, Shakespeare dice: “Ci sono più cose sulla terra e nel
cielo, Orazio, di quanto possa sognarne la vostra filosofia”. Oggi si
parla di ereditarietà della memoria, ma io non ci credo; mi piacerebbe
sapere come possa, tutta la storia di una famiglia, con tutti i suoi
innumerevoli antenati, nascondersi in una piccola cellula quasi invisi­
bile! Gli scienziati avanzano sempre nuove ipotesi e cambiano idea
ogni vent’anni: ti consiglio dunque di non preoccuparti di queste
faccende. Dimentica il tuo sogno... o visione che sia. Potrebbe in­
fluenzare il tuo sistema nervoso e turbare l’equilibrio mentale. Stai
con i piedi per terra, e non pensare più alle sepolture egizie: non sarà
che hai letto qualcosa su quest’argomento?»
«No, Padre, non ho ancora letto né udito dire nulla a questo pro­
posito, a parte quel po’ di storia che ho imparato a scuola e che non
mi ha interessata. Però, la scuola mi ha insegnato sull’Egitto cose
diversissime da quelle che ho vissuto nella visione, e non riesco a
capire questa mia esperienza. Ma ho la convinzione interiore che ciò
che ho visto era assolutamente giusto; so anche con certezza che la
persona che ero in sogno è esistita davvero, ma non so spiegare come
la persona che sono adesso possa essere me. E chi era l’altra? Non ca­
pisco. E possibile che l’essere umano viva più volte?»
«La frutta, per favore» domandò ad un tratto Padre. Fu portata la
frutta e la conversazione prese altre vie.
Andando a letto, quella sera, ero curiosa di sapere se avrei sognato
di nuovo quell’altro “io”, ma non accadde nulla: attesi a lungo, per
molti giorni, cercando persino di proiettarmi in quell’universo passa­
to, ma niente. Il sogno non si ripeteva.
A poco a poco dimenticai, non ci pensai più; la mia natura, molto
sana, mi faceva lavorare con ardore: mi esercitavo al piano, dipingevo
ritratti, studiavo e, ogni sera, aspettavo il mio fidanzato...
E l’anno passò.
CAPITOLO xin

Secondo incontro con la morte


Giunse infine il giorno del mio matrimonio; quando ci penso,
oggi, mi sembra un sogno: io con l’abito a strascico, l’ampio velo di
pizzo sul capo, che entro in salotto, poggiando la mano sul braccio
del mio fidanzato in abito di gala. Ci fotografano, cosa che detesto e
che mi innervosisce. Scendiamo le scale e saliamo sull’auto tutta
decorata di fiori; ci seguono Greta e mia cugina, vestite di rosa,
accompagnate dai due cugini con cui avevo un tempo stretto il patto
di “eterna amicizia”. Sono diventati due giovani ufficiali elegantissi­
mi! Poi, mio fratello, con il volto serio e triste — ha quattordici anni
— e la mia sorellina di quattro anni, una vera bambola che osserva il
mondo degli adulti con un filo di impertinenza. Tutto il corteo dei
parenti, con zia Raphaela, bella e regale, la madre del mio fidanzato,
mia madre raggiante, ancora bella e giovane al fianco di Padre che,
con il suo frac ed il cilindro, impressiona e seduce tutte le signore.
Ma quando si accorge che lo prendo un po’ in giro per il cappello, mi
sorride facendomi capire che anche lui trova ridicole tutte queste
formalità: se sapesse quanto soffro io, con i guanti lunghi fino alle
spalle! Se soltanto potessi strapparmeli e muovermi liberamente! Con
il mazzo di fiori in mano, il mio fidanzato ed io sembriamo le vittime
decorate e infiorate di una “usanza” tirannica, secondo la quale dob­
biamo recitare la nostra parte. Mi piacerebbe scappare via e sfuggire
così agli sguardi di questa coorte di zie, zii, conoscenti, ed altri spet­
tatori che ci osservano come se fossimo strani animali. So che ora
devo concentrarmi su ciò che per me è il sacramento supremo: la
realizzazione dell’amore. Ma con quale diversità di intenti! Vedo
anche che qualche zio si permette di sussurrare storielle stupide al
nostro riguardo, ma non posso fuggire, la lunga colonna di auto pro­
cede alla volta della chiesa. Entriamo, ed eccoci davanti all’altare:
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 63

cerco di essere sentimentale, romantica, commossa... ma non ci rie­


sco. Sono calma e composta come al solito, e ascolto pazientemente
le belle parole del sacerdote nostro amico. Lui mi guarda e vedo, nei
suoi occhi, che pensa esattamente a ciò che gli ho chiesto: di non
dilungarsi nel sermone del matrimonio se no avrei sbadigliato! E
rumorosamente! Madre era stata molto colpita dalla mia impertinen­
za, ma se non altro avevo ottenuto ciò che volevo: un sermone breve
e saggio. Dio sia lodato! Un lungo sermone matrimoniale non ha mai
reso felice nessuna coppia.
Usciamo e la truppa di parenti ed amici si precipita su di noi a
baciarci, a toccarci, e continuano... continuano... I vecchi zìi sono
felicissimi di baciare ed abbracciare la nuova sposa, cosa che mi
disgusta... Uff, è finita! Ma ci attende ancora il banchetto.
Poi tutti si ritirano, io mi cambio e posso finalmente mettermi in
cammino con “mio marito” per il viaggio di nozze...
Dopo aver tanto atteso di diventare la moglie di colui che amavo
tanto, venni colmata di ogni bene: era una gioia, la gioia suprema,
così come l’avevo immaginata. Avevo raggiunto lo scopo, ero diven­
tata sua moglie davanti a Dio ed agli uomini, non c’erano più cose
proibite fra noi. Lo amavo con passione, con tutta me stessa e ne ero
riamata con uguale intensità.
Era il compimento supremo dell’amore, nel corpo e neH’anima.
Poi, d’un tratto, tutto mi crollò addosso.
Andai a sbattere violentemente contro un muro, lo stesso muro col
quale mi ero scontrata già una volta: incontrai la morte per la seconda
volta nella mia vita, ma questa volta fu infinitamente più doloroso...
Fintantoché avevo atteso la gioia, avevo avuto un punto fisso, nel
futuro, verso il quale dirigermi: avevo avuto uno scopo. Ora che lo
avevo raggiunto e avevo soddisfatto le mie aspettative, d’un tratto
l’avvenire si era svuotato davanti a me.
Caddi in quel vuoto, giacché non sapevo se avrei potuto aspettar­
mi ancora qualcosa dalla vita: che altro poteva riservarmi l’avvenire?
Avevo realizzato tutto ciò che avevo desiderato. Ciò che poteva anco­
ra accadermi, ormai, sarebbe servito solo a far passare il tempo che
mi restava. Il tempo che mi restavai Fino a quando? La risposta era:
fino alla mortel
Dovevo pur riconoscere che, qualsiasi cosa potessi ancora fare o
aspettarmi da questa vita, qualsiasi cosa il destino potesse ancora
riservarmi, stavo avanzando, come ogni altro essere umano, in
un’unica direzione - giacché non ve n’è un’altra - verso la morte!
64 Elisabeth Haich

Quando? Nessuno lo sapeva, ma c’è un momento in cui tutto si capo­


volge e sprofonda.
Dovevo anche ammettere che il nostro amore non sarebbe durato
in eterno, poiché, inesorabilmente, uno di noi sarebbe morto per pri­
mo, e allora la felicità sarebbe finita. Quand’ero insieme a mio marito
e immergevo lo sguardo in quei suoi begli occhi ardenti d’amore, una
mano gelida mi prendeva alla gola e, in me, risuonava questo interro­
gativo:
«Quanto tempo potrai ancora godere di questi begli occhi? Che ti
riserva l’avvenire? Pur ammettendo che tu abbia davvero molto fortu­
na e che tu possa vivere molto, molto a lungo con lui, la fine giungerà
lo stesso, perché ce n’è una sola: o lui ti chiuderà gli occhi, o glieli
chiuderai tu. Sarete obbligati a separarvi, a dirvi addio. Il tempo
scorre con incredibile rapidità, e la fine presto o tardi arriva. D’altron­
de, questo non è importante: la più grande gioia, l’amore più profon­
do, tutto deve aver fine, e perderete ogni cosa, vi perderete, perderete
tutto ciò che sarà stato buono e bello...»
Nell’ascoltare quella voce, guardavo il mio amato: sapevo che
anche se non volevo ascoltare quella voce, dovevo ascoltarla, non po­
tevo farla tacere perché aveva ragione, diceva la verità\
Avevo spesso constatato che gli uomini agiscono come se tutto
fosse eterno: evitano di pensare al futuro, e la maggior parte di essi
non sembra rendersi conto che un giorno moriranno proprio come
coloro che amano. Non vogliono ammettere che il fatto di essere
insieme qui, su questa Terra, vada considerato come un dono di breve
durata, che deve aver fine. Un giorno, uno o l’altro dei due deve
morire, e tutto è finito: gli uomini non vogliono pensarci. D’altronde,
questo non cambia nulla, che ci pensino o no. Nessuno può negarlo. E
allora, qual è il senso della gioia se il destino si riprende il suo dono,
inesorabilmente? A cosa serve? A essere ancor più infelice? Si lotta
per raggiungere la felicità e, una volta che la si è raggiunta, si sa che
la si dovrà perdere. Più è grande la gioia, e più grande sarà la perdita:
infatti ero molto più felice quando non ero ancora così felice, perché
non avevo ancora la possibilità di perdere la felicità. Da cui si dedu­
ce evidentemente che soltanto colui che non è mai stato felice può
esserlo e rimanere tale! Che spaventosa contraddizione! E perché è
così? Perché tutte le cose durano solo un certo tempo, perché nulla è
permanente, perché tutto muore, tutto passa, tutto deve finire!
Oh tempo! Oh fragilità dell’attimo! Quanto a lungo dovrò ancora
soffrire le tue ingiurie? Quante volte sbatterò il capo contro il tuo
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 65

muro nero ed impenetrabile? Mi hai avvelenato ogni minuto di gioia


nella vita, perché ho sempre saputo che nel momento stesso in cui
ottenevo qualcosa, già l’avevo perduto, giacché un giorno sarebbe
finito.
Eppure, ora, ti ringrazio, mortalità ! Non mi hai mai consentito di
godere, neppure per un minuto, di una gioia effimera, passeggera: è
così che la mia costante sofferenza mi ha fatto trovare l’infinita, im­
mortale eternità, il Sé eterno e divino !
Ma, in quel tempo, non ne avevo ancora idea. Non sapevo che
quello stato appartenesse all’essere perduto che gridava aiuto dal pro­
fondo dell’anima, l’essere che annuncia la salvezza. Come è detto
nella Bibbia, il libro sacro, “Io sono la voce di colui che grida nel
deserto. Spiano la via del Signore; ti battezzo con l’acqua, ma dopo di
me verrà uno più forte di me, e non sarò neppure degno di slacciargli
le stringhe dei sandali; egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e con il
fuoco...”
In quell’epoca ero ancora nel deserto, e dentro di me gridavo
aiuto, versando invisibili lacrime interiori. Venni battezzata con l’ac­
qua - le lacrime - e non sapevo che si avvicinava il tempo in cui avrei
incontrato VEssere eterno. A quella fase ne segue un’altra, della quale
si dice: “Io sono la resurrezione e la vita; colui che crede in me avrà
la vita eterna, anche se dovesse morire”, ed il battesimo dello Spirito
Santo è con il fuoco...
Tuttavia non ero ancora arrivata a quel punto, ed ero come Gio­
vanni nel deserto: gridavo aiuto, da sola, sola con tutta la mia dispera­
zione... Non volevo parlarne con mio marito. Era così perfettamente
felice che non avrebbe potuto capirmi; se non pensava da sé a tutto
questo, se viveva ancora il sogno dei mortali, perché svegliarlo e ren­
derlo infelice? Non intravvedevo alcuna soluzione al mio problema, e
nessuno avrebbe potuto dirmi che avevo torto. Avrebbero piuttosto
ammesso che, effettivamente, tutte le cose erano effimere, e che
l’unica consolazione era “di non pensarci”. L’idea di limitarmi sem­
plicemente ad ignorare la realtà non mi soddisfaceva affatto... e le
storielle che la religione raccontava sull’aldilà e sull’altro mondo mi
soddisfacevano ancor meno, giacché le reputavo invenzioni proprie
ad “addormentare” la gente.
Beato chi ci crede, ma un essere pensante vuole delle prove: tutto
questo diventò una preoccupazione continua, un fardello spirituale di
cui non riuscivo a liberarmi. E, presto o tardi, un peso psichico co­
stante intacca il corpo...
CAPITOLO XIV

Tenebre
Assomigliavo molto a mio padre per corporatura e costituzione:
ero alta, con i capelli molto scuri, sebbene non neri come i suoi; la
mia carnagione non era rosea come quella di Madre, ma pallida come
quella di Padre: soltanto i miei occhi erano di un colore azzurro cupo,
mentre i suoi erano davvero neri.
Dopo il matrimonio, diventai ancora più pallida e più magra; non
riuscivo a liberarmi dall’idea della transitorietà e della precarietà di
ogni cosa, e non mi sentivo né libera né felice. Questa preoccupazio­
ne psichica costante non tardò ad avere ripercussioni fisiche molto
sgradevoli.
Una sera andai a dormire in buona salute e l’indomani aprii gli
occhi guardando per caso il soffitto: con mia grande sorpresa vi sco­
prii uno spesso segmento nero. Stupita, mi sedetti per vedere con
precisione che cosa poteva essere quella macchia nera che, nel mo­
mento stesso in cui mi ero mossa, mi era parsa saltare e poi ridiscen­
dere lentamente.
Con il cuore in preda all’angoscia mi resi conto che il segmento
non si trovava sul soffitto, ma nel mio occhio. Aprii e chiusi gli occhi
più volte, prima uno e poi l’altro, e constatai che il segmento nero era
solo nell’occhio destro.
Una volta avevo sentito parlare di un disturbo visivo chiamato
“mosche volanti”: davanti agli occhi si vedevano danzare dei puntoli­
ni neri simili ad un disordinato sciame di mosche e, per quel che ne
sapevo, era un disturbo di origine nervosa, e non era una faccenda
seria.
Cercai dunque di vedere queste “mosche volanti”: guardando in
alto e in basso, il segmento si muoveva seguendo le leggi gravitazio­
nali, come se si trattasse di uno spesso filo nero con un'estremità fissa
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 67

e l’altro capo libero di seguire i movimenti oculari. Non era dunque


un’illusione ottica di origine nervosa: era qualcosa di molto reale, di
fisico! Fu così che cominciò per me un lungo e dolente calvario,
come accade a chi soffre di malattie davanti alle quali la scienza
rimane perplessa.
Peregrinai da un professore all’altro, per sentirmi dire ogni volta
che l’occhio non poteva guarire giacché i sintomi non erano quelli di
una malattia organica. Uno mi disse:
«Non è una malattia, ed è per questo che non possiamo guarirla.
Si tratta di un segno di invecchiamento che, molto raramente, può
manifestarsi anche nelle persone giovani, così come accade che ad un
giovane possano venire i capelli bianchi in seguito a problemi psichi­
ci. Come porvi rimedio? La cosa può stabilizzarsi se i problemi ven­
gono risolti, ma quanto a guarire... Si può guarire solo dalle malattie:
la scienza contemporanea è impotente davanti al suo male. Negli
anziani non è pericoloso perché questo processo evolve molto lenta­
mente, ma nei giovani, non sappiamo. Dal punto di vista organico, i
suoi occhi sono perfettamente sani ma ultrasensibili; gli esami che ha
fatto provano che la sua vista è eccezionalmente acuta: uno su mille
vede bene come lei. La sua facoltà di percezione è estremamente
sviluppata e la sua sensibilità alla luce è così straordinaria che è
riuscita a leggere senza difficoltà i caratteri più piccoli con un’illumi­
nazione che, per l’uomo medio, non basta neppure per vedere quante
dita ha la mia mano quando gliela metto davanti agli occhi. A volte ci
sono certi marinai che, ad una distanza quasi incredibile, riescono a
leggere l’ora sul campanile di una chiesa a riva, ma sono esposti
costantemente all’aria marina, non sono nervosi e non hanno proble­
mi psichici; inoltre, hanno la resistenza necessaria a mantenere la
sensibilità dei loro occhi. Ma lei, cara signora, vive in una grande
città ed ha ben poca resistenza, ed è così magra che risulta quasi
trasparente. Mi dica, non soffre di qualche tensione psichica?»
«No, professore — risposi — sono perfettamente felice.»
E come avrei potuto spiegargli che il fardello che mi pesava era il
carattere transitorio delle cose? Che lottavo contro il tempo il quale,
inesorabilmente, portava tutte le creature viventi e la loro gioia alla
distruzione, alla morte?
E se anche glielo avessi detto, avrebbe forse potuto offrirmi una
soluzione? Gli rivolsi dunque un’altra domanda:
«Professore, anche l’altro occhio può ammalarsi?»
«E come posso saperlo? Speriamo che le iniezioni di sale siano
68 Elisabeth Haich

efficaci e che l’essudato si riassorba. Speriamo anche che l’altro oc­


chio resti sano. Non posso anticiparle nulla sugli eventi, né garantir
nulla. Deve nutrirsi correttamente e fare in modo di arricchire il suo
povero sangue per aumentare la resistenza degli occhi. Li protegga
con buoni occhiali scuri quando c’è il sole, si riposi bene e speriamo
che il suo occhio guarisca.»
Questo mi bastava. Con mio marito andai dai miei genitori: mi
sembrava di essere estranea a tutto quanto accadeva, come se riguar­
dasse qualcun altro; ascoltai questo qualcun altro rispondere agli in­
terrogativi dei miei genitori, osservai questo qualcun altro che consu­
mava la cena... Tutto era cambiato, tutto era diventato strano... Tutta
la famiglia era sconvolta, ma nessuno voleva darlo a vedere.
Cercavano tutti di stare allegri, e Madre volle tentare di consolarmi:
«Stai tranquilla, tutto tornerà a posto. A quel che sappiamo, nessu­
no in famiglia, né nella mia né in quella di tuo padre, ha mia sofferto
di problemi agli occhi. Il tuo occhio ritornerà sano. Non pensarci!
Oh, quante volte ho udito quelle stesse parole da parte di coloro
che mi amavano e volevano consolarmi, “non pensarci”!
E come non pensare a qualcosa che danzava costantemente davan­
ti ai miei occhi? Come dimenticare questo filo nero che copriva una
parte dell’immagine che ricevevo? Quando guardavo una persona, il
segmento era come una sbarra sul naso o sulla fronte, e poi scendeva
lentamente sulla bocca; più tardi, quando le macchie nere si moltipli­
carono nel mio occhio, vidi soltanto più attraverso una rete nera... e
allora, come non pensarci?
I primi giorni ero molto abbattuta, come se un masso pesantissimo
mi fosse crollato sulla testa e mi avesse distrutta. Non riuscivo a
capire: i miei occhi, davvero in pericolo? Un segno di vecchiaia? Im­
possibile: era impossibile! Era un incubo, dal quale dovevo assoluta-
mente svegliarmi. Poi, liberata da tanto peso, avrei potuto tirare il
fiato.
Ma non vi fu nessun risveglio, e rimasi seduta davanti allo spec­
chio a scrutare l’immagine che esso mi rimandava, un volto infantile
con due grandi occhi azzurri. E quegli occhi mostravano segni di vec­
chiaia? Ero ancora giovane, avevo appena incominciato a vivere! Già
vecchia? Lassù in montagna, quando avevo incontrato la morte per la
prima volta, avevo ammesso che tutto fosse effimero, ma era proprio
così veloce? Così inatteso? Allora l’idea di aver ancora molto, molto
tempo davanti a me mi aveva tranquillizzata: ma ora, quel tempo, era
già trascorso tutto? Era possibile che certe parti del corpo invecchias­
Iniziazione: memorie di un’Egizia 69

sero più rapidamente di altre? E che proprio organi importanti come


gli occhi si deteriorassero più in fretta? E che il corpo, invece, conti­
nuasse ancora a lungo, ma senza gli occhi? Cieca? Spaventoso! Spa­
ventoso!
No, non avrei mai potuto sopportarlo! Volevo sfuggire... fuggire
via... Ma dove? La mia disgrazia, quelle macchie nere, mi avrebbero
seguita ovunque fossi andata.
Sprofondai in una disperazione che soltanto chi ha vissuto espe­
rienze di quel genere può comprendere; mi si stringeva il cuore alla
vista dei ciechi... come li capivo... La mia disgrazia non mi lasciava
un attimo di tregua e le macchie nere mi palpitavano costantemente
davanti agli occhi, trasformandosi a poco a poco. Le osservavo in
continuazione: ogni mattino, al risveglio, avevo preso l’abitudine di
esaminarmi gli occhi: erano peggiorati? Potevo ancora leggere i ca­
ratteri piccoli con l’occhio destro? Altrimenti... quando, colma d’or­
rore, mi toccava constatare di essermi aggravata, il sangue mi saliva
alla testa, il cuore batteva all’impazzata, e ricominciavo la mia analisi
per determinare il grado del peggioramento.
Oh, Beethoven! Come capivo la tua disperazione per aver perduto
l’udito! Hai conosciuto questo stato, quel panico, quel sentimento di
impotenza: io non posso più sopportarlo, devo andarmene, devo sfug­
gire a questa atroce sofferenza. Sì! Ma dove? Non posso liberarmi
dalla mia disgrazia, non posso uscire da questa mia pelle: sono con­
dannata a sopportarlo.
La mia disperazione davanti al carattere effimero della vita non
era dunque ancora un fardello abbastanza pesante: bisognava, per di
più, che portassi davanti agli occhi quel “promemoria” eterno per
ricordarmi il declino, la morte. Quelle macchie mi facevano impazzire.
Non potevo più gioire di niente; mio marito faceva tutto ciò che
poteva perché dimenticassi il mio stato, ma qualsiasi cosa facesse,
qualunque regalo mi portasse, non potevo sentirmi felice. Ovunque
riconoscevo il declino e la morte giacché ovunque vedevo la morte:
se i monaci certosini consideravano le due lettere “MM” del palmo
della mano come un segno delle due parole “Memento Mori”, le
macchie nere del mio occhio destro ricordavano a me la cecità, la
morte.
Quando mio marito mi conduceva in un bel posto, pensavo:
«Per quanto ancora potrò vedere il sole, le montagne, i prati, il
cielo, tutta la natura?»
Quando andavo a teatro pensavo:
70 Elisabeth Haich

«Per quanto tempo ancora potrò vedere queste rappresentazioni, e


apprezzare i movimenti armoniosi delle ballerine?»
Una disperazione sempre crescente mi opprimeva, perché la cru­
dele realtà colpiva ora anche l’altro occhio, sebbene questa menoma­
zione fosse molto più lenta. Stavo diventando cieca: non potevo nean­
che più piangere. Non mi era mai stato dato di riuscire a piangere
davvero, era qualcosa che consideravo perfettamente inutile, un auto­
compatimento che trovavo indegno di me: ma ora, piangere mi era
addirittura proibito, perché sarebbe stato pericoloso per i miei occhi.
Portavo in me la mia disperazione senza darla a vedere, senza mai
parlarne, ma una cosa mi era chiara: se avessi parlato costantemente
del mio male a coloro che mi circondavano, di sicuro questo li avreb­
be demoralizzati e li avrebbe fatti soffrire. E siccome l’essere umano
tenta istintivamente di liberarsi di ciò che gli risulta sgradevole e che
lo fa soffrire, le persone si sarebbero allontanate inconsciamente da
me. Io non volevo seccare la gente con i miei lamenti, anzi! Ero
allegra, piena di buon umore, come un pagliaccio che, sotto la ma­
schera, nasconde una profonda malinconia. Il mio dolore rimaneva
muto.
Quanto alle mie ambizioni artistiche, si videro tutte contempora­
neamente annientate: oltre al piano, mi ero messa a studiare disegno e
pittura, e i miei maestri si aspettavano da me grandi cose. Dipingere
mi piaceva tanto! Ed ora era tutto finito.
Quando, malgrado tutto, ci provavo ancora, le macchie si piazza­
vano sempre davanti ai miei occhi, e questo mi disturbava, mi inner­
vosiva e dovevo controllarmi per non gettar via con rabbia il pennel­
lo. Non avevo più alcuna energia, e un pensiero mi ossessionava:
perché lavorare per ottenere un buon nome e la fama, se poi avrei
dovuto abbandonare tutto a causa della cecità? No! Preferivo abban­
donare la carriera artistica di pittrice e concentrarmi sul piano perché,
anche priva della vista, avrei potuto comunque suonarlo.
Cominciai quindi ad esercitarmi ad occhi chiusi... A girare per
casa ad occhi chiusi, per sapere se avrei potuto trovare ciò che stavo
cercando... mi vestivo, mi pettinavo ad occhi chiusi, affinché la ceci­
tà, quando fosse venuta, non mi prendesse di sorpresa. Inoltre, quan­
do chiudevo gli occhi, non c’erano più le macchie nere, ed era il solo
momento in cui non le vedessi danzare davanti agli occhi, l’unica
tregua che mi veniva concessa...
Le iniezioni di sale furono anch’esse una prova terribile: i riflessi
fanno sì che, per proteggersi, gli occhi si chiudano all’avvicinarsi di
Iniziazione: memorie di un’Egizia 71

un pericolo, le palpebre si abbassano automaticamente quando un


oggetto si muove proprio davanti agli occhi... Io invece dovetti impa­
rare a controllare i riflessi, perché dovevo tenere l’occhio perfetta­
mente aperto ed immobile e guardare il medico mentre mi faceva
l’iniezione nell’occhio, perché se gli occhi stanno aperti uno vede,
che lo voglia o no.
Dovetti affrontare venti volte quella prova, senza sapere che vin­
cere i propri istinti naturali era uno dei più avanzati esercizi nella via
dello Yoga, dal momento che uno deve controllare il proprio corpo. Il
destino mi aveva forzata a riuscirci, e fu così che acquisii uno stupe­
facente controllo dei nervi. Tuttavia, dopo la prima iniezione, quando
il medico mi aveva accompagnata alla porta, mi ero sentita molto
debole, e avevo dovuto chiamare a raccolta tutte le forze per non
cadere. Mi era stato molto difficile congedarmi sorridendo: avevo
l’impressione che i muscoli boccali fossero arrugginiti! E per finire in
bellezza, le iniezioni non causarono alcun miglioramento.
Rinunciai dunque ai medici, avendo perso ogni speranza; diceva­
no tutti la stessa cosa: non si trattava di una vera e propria malattia
organica, gli occhi erano in buono stato, soltanto la pupilla diventava
opaca, e la mia vista si abbassava di più ogni giorno.
Ma che importanza aveva il fatto che l’occhio fosse sano o mala­
to, una volta diventata cieca? Dovevo rassegnarmi ad accettare l’ine­
vitabile ed era precisamente ciò che non riuscivo a fare. Chi può
rassegnarsi, chi può trovar normale il perdere la vista? La fatalità ed
io lottavamo l’una contro l’altra, e l’esito della battaglia non lasciava
dubbi: ne sarei uscita perdente. E siccome non potevo cedere, ero
destinata ad essere distrutta...
Di fatto, ero stata vinta la notte stessa in cui il primo segmento
nero mi era apparso davanti agli occhi: solo che non l’avevo capito
subito. Questa donna giovane, allegra, impertinente, vanitosa e sen­
suale che aveva voluto diventare una grande artista celebre e adulata,
una signora bella ed adorata, questa donna era stata abbattuta, annien­
tata; la mia filosofia di vita, nata in montagna durante quel mio primo
incontro con la morte e poi rimossa, ora si imponeva con forza e non
potevo, né volevo più mettere a tacere quella voce che mi ricordava
costantemente la fragilità delle cose.
Rinunciando a far finta che non esistesse, scelsi piuttosto di ascol­
tarla con la massima attenzione e, a poco a poco, sempre con maggio­
re precisione, riconobbi la voce familiare e tanto amata: la sua voce...
CAPITOLO XV

Una svolta decisiva


Un pomeriggio, di ritorno dalla città, ammiravo le ville circondate
da giardini ben curati, il sole che brillava ardente, i fiori magnifici e
gli uccelli che cantavano gioiosi, quando mi ritornarono in mente le
parole di Don Carlos: “O mia Regina! la vita è così bella, malgrado
tutto.”
«Sì — aggiunsi — se i miei occhi non perdessero gran parte della
loro luce!»
Udii allora in me una voce che chiese distintamente:
«Sei già cieca? Non vedi forse più la gente, il cielo, gli alberi, i
fiori?»
«No — risposi guardandomi intorno — tutto è ancora abbastanza
chiaro.»
Mi ricordai allora quel che il professore mi aveva detto nel corso
dell’ultimo controllo agli occhi:
«Sì, l’occhio destro è diventato opaco, ma con il sinistro lei vede
ancora meglio di quanto veda con due occhi la maggior parte della
gente.»
«Allora, se vedi ancora abbastanza bene, perché ti lamenti come
se già fossi cieca? Perché ti disperi fin d’ora? Supponiamo che tu
divenga cieca nella seconda metà della tua vita: se ti disperi già
adesso, quando ancora vedi bene, ti sarai avvelenata entrambe le metà
della vita! E poi, sei davvero certa di diventare cieca? E possibile
anche che tu muoia prima che quel flagello ti colpisca! In tal caso
avrai trascorso settimane, mesi, anni a preoccuparti inutilmente men­
tre in tutto quel periodo, a parte le macchie nere, ci vedevi bene! Non
ha senso tormentarsi per cose che non sono ancora avvenute! Il futu­
ro? Ma hai idea di cosa sia il futuro? Eventi che non esistono ancorai
Perché, allora, rovinarsi il piacere di vivere con cose che non esisto­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 73

no? Il presente non è poi tanto male per te: goditi la vita e aumenterai
le probabilità di guarire. La tua depressione non fa che accelerare il
processo di deterioramento della vista. Goditi il presente, e pensa che
quando cesserà la tua cecità spirituale, i tuoi occhi fisici ritroveran­
no la vista.»
Come aveva ragione, quella voce benedetta! Nei momenti di mag­
gior sconforto mi rendevo conto che le macchie nere riflettevano la
mia oscurità interiore, la mia cecità spirituale; ma come fare, per
guarire? Era precisamente ciò che mi tormentava l’animo: non capivo
- ero cieca - il mistero della vita e della morte, ero immersa nell’oscu­
rità, giacché ovunque vedevo la morte e non potevo cogliere il senso
della vita. Il mio massimo desiderio era diventare “veggente”, ma come?
La voce rispose:
«Cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.»
Ancora non riuscivo a cogliere il senso di quelle parole, ma volli
obbedire, sicché mi misi a respirare con calma e profondamente, con­
centrandomi soltanto sul presente ! Com’era difficile! Le macchie
nere mi danzavano davanti agli occhi, ricordandomi la mia afflizione,
ma perseverai ancora e ancora, fintantoché accadde che mi sentii
nuovamente piena di gioia. Sì, dovevo essere allegra, perché mi face­
va bene agli occhi. Bisognava che aiutassi me stessa, e mi misi a
pensare: quale occupazione potrebbe darmi una gioia costante? Mio
marito, ingegnere, era molto occupato dal suo lavoro, la costruzione
di ponti, e ci vedevamo soltanto per i pasti, sicché rimanevo da sola
per tutto il giorno. Un pensiero folgorante mi attraversò la mente: un
bambino! Desideravo così ardentemente un bambino, e da così tanto
tempo! Che magnifica gioia! E così non sarei mai più stata sola!
Dischiusi l’anima a quell’essere sconosciuto che, in qualche po­
sto, aspettava di diventare il mio bambino. E lo sconosciuto udì il mio
richiamo...
Durante la gravidanza, l’essudato non si produsse più e, quando
giunse il momento di partorire, avevo completamente dimenticato di
aver sofferto di disturbi alla vista.
Come in sogno, mi rivedo in sala travaglio, in clinica, ancora sotto
l’effetto dell’anestesia, spossata: ma un suono fa trasalire il mio cuo­
re, e mi sveglia del tutto: un grido che però non sembra il grido di un
neonato, no, è piuttosto il ruggito di un leoncino! «Il bambino è vivo»
dico a me stessa, piena di riconoscenza, e apro gli occhi.
Su di me, un volto:
«È un bel maschietto, uno splendido maschietto in ottima salute!» e
74 Elisabeth Haich

mi tendono una cosina rosea: vedo una testa rotonda, un corpicino


grassottello.
«E' il mio bambino?» penso, guardandolo con curiosità.
Sento che soltanto il suo corpo è “il mio bambino”: lui è un essere
indipendente. Tutto ciò che so di lui è che è venuto al mondo quale
“nostro bambino”. Poi, il neonato viene adagiato nella culla con in­
dosso i suoi primi abiti umani; contempla questo mondo nuovo con
gli occhi spalancati.
I miei genitori sono qui per dare il benvenuto a me e al bambino,
dopo quelle lotta terribile che abbiamo combattuto insieme per la
vita. Sono arrivata al limite delle mie forze, il mio cuore batte debol­
mente, ho perduto molto sangue, ma il bambino vive!
Mi riprendo molto lentamente. Sono debole, sopporto con diffi­
coltà la luce, e nuovamente ricompare l’essudato, l’occhio ritorna
vitreo. L’immagine che ricevo attraverso quest’occhio è come rico­
perta da una spessa nebbia, ma ho davvero poco tempo per soffermar-
mici: c’è il bambino, e questo monopolizza tutta la mia attenzione.
Quando mi sorride e mi passa i braccìni grassocci attorno al collo,
dimentico il peso che mi tormenta l’anima.
Gli anni trascorsero a ritmo sfrenato, il bambino cresceva forte e
armonioso, e tutti ammiravano i suoi occhioni azzurri pieni d’amore.
Dava prova di una maturità insolita per la sua età, e a quattro anni mi
ricordava la mia propria infanzia: mi mostrò un libro di immagini e
mi chiese il significato di alcune lettere, gliele spiegai, lui osservò le
lettere con molta attenzione e poi esclamò:
«Mamma, questo vuol dire “toro”, vero?»
Lo presi in braccio e lo riempii di baci, e poi, lentamente, gli
indicai lettera per lettera: non aveva bisogno di imparare, sembrava
che dovesse soltanto ricordarsene.
Ogni estate ci ritrovavamo con tutta la famiglia nella nostra villa
sul lago: fu una serie di estati felici! Mio fratello e la mia sorella
minore invitavano un sacco di amici che rimanevano con noi per
intere settimane, e giocavamo a cricket, andavamo a fare il bagno,
andavamo in barca.
Di sera suonavamo musica da camera, facevamo giochi di società
oppure ballavamo in terrazza: era una vita sana e armoniosa.
I miei occhi non mi preoccupavano molto, in quei tempi; dopo la
nascita di mio figlio avevo trascorso alcuni mesi al mare, e quella
fonte di energia misteriosa mi aveva ridato tanta forza da tornare a
casa radiosa: i miei occhi sopportavano meglio la luce, e potei addirit­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 75

tura riprendere a disegnare e a dipingere. Mi applicai anche all’inci­


sione su legno e, come sempre, l’arte mi riempì di gioia.
Apparentemente andava tutto bene: tuttavia non ero felice, e non
sapevo perché. Ero invasa da un senso di insoddisfazione interiore al
punto che non potevo più far finta di ignorarlo.
Una notte, dopo aver vissuto con mio marito un’altra esperienza
meravigliosa di suprema realizzazione dell’amore e dell’unità terrena,
invece di addormentarmi felice, rimasi a lungo sveglia a ruminare, ad
analizzare, a dissezionare le cause del mio scontento interiore. Piansi,
singhiozzai nell’oscurità: perché ero così infelice? Avevo tutto il ne­
cessario per essere completamente felice. Da dove veniva tanta insod­
disfazione?
Questo interrogativo abbozzò la risposta: dal profondo del mio
subconscio, le ragioni cominciarono ad affiorare e a diventare co­
scienti.
Ero alla ricerca di un essere che fosse la mia altra metà, la mia
metà complementare. L’amore è la manifestazione di una forza che
spinge due metà complementari a fondersi, sicché viene chiamato
“amore” il desiderio inconscio di unirsi. Avevo vissuto quell’unione,
ne avevo sentito la pienezza nel cuore e nell’anima, eppure, non ero
felice: anzi, la mia agitazione e la mia insoddisfazione interiori non
facevano che aumentare.
Mi sedetti sul letto e, non sapendo che fare, chiesi ancora:
«Perché non posso essere felice?»
Volevo una risposta. Guardai ancora più profondamente dentro di
me, e compresi che la gioia dell’unione non era quale me l ’ero im­
maginata. Inconsciamente avevo cercato qualcosa, un compimento, e
fintantoché l ’amore fisico mi era stato sconosciuto, avevo pensato
che mi avrebbe offerto quella perfezione. Ora, avendone fatto l’espe­
rienza, dovevo riconoscere che non era ciò che avevo sperato! Avevo
raggiunto il meglio nell’unione fisica, ma ora dovevo proprio ammet­
tere che ciò che cercavo era qualcosa di diversoi
Ma che cosa?
Ero alla ricerca di qualcosa di costantel Cercavo un’unità reale e
durevolel Cercavo un’unità in seno alla quale essere identica all’esse­
re amato! Volevo diventare una con la sua anima, i suoi pensieri, con
tutto il suo esserei
Io volevo essere luil Ma non volevo ciò che mi dava l’unione fisi­
ca, disperato tentativo di diventare uno, giacché in esso poniamo tutta
la nostra energia, e nel momento stesso in cui si crede di riuscire a
76 Elisabeth Haich

raggiungere quella perfezione, avviene la separazione senza che


l’unità sia stata mai realizzata.
Mi tornò in mente una scena dell’infanzia: io ero a tavola con i
miei e cercavo di riunire gli occhi di grasso del brodo con l’aiuto del
cucchiaio! Sì! Ecco che cosa avrei voluto: fare delle nostre due ani­
me, dei nostri due esseri una sola cosa. Dei nostri due “io”, avrei
voluto fame uno. Avrei voluto far fondere i nostri due “sé” in un
unico Sé! Ora, questo non era possibile: in amore ognuno dei due
amanti desidera unirsi all’altro, ma vogliono farlo fisicamente, ed
ognuno dei due preme, si stringe all’altro. Tutti noi sappiamo come si
abbracciano due innamorati, cuore a cuore, come cercano di unirsi
nel loro cuore. Ma falliscono! Perché? Perché tra i due c’è ancora il
corpo.
La resistenza del corpo impedisce l ’unionel Com’era strano con­
statare che desideravo formare un solo corpo con il mio amato, e che
era precisamente il corpo ad impedire che ciò avvenisse. Allora, era
proprio il corpo che desiderava quell’unità? Il mio corpo, voleva
quell’unità? Il corpo, poteva desiderare qualcosa che la sua natura
stessa rendeva impossibile?
No! Il corpo non poteva aver in sé un desiderio che lui stesso ci
impediva di realizzare; chi e cosa desiderava allora perdutamente
l’unione perfetta? Non poteva essere altro che il mio “io incorporeo”.
E perché volevo quell’unità, quel qualcosa di impossibile? Perché
sapevo che soltanto quell’unione, quel “diventare completamente
identici” poteva soddisfarmi, e che soltanto quello stato mi avrebbe
fatto gustare la vera e assoluta gioia! Ecco che cosa cercavo da sem­
pre; e perché ero alla ricerca dell’impossibile? Perché sapevo, perché
avevo in me la certezza che ciò esisteva comunque, in un modo o
nell’altro; soltanto, non sapevo come. E cosa mi impediva di raggiun­
gerlo? Il corpo! Fra noi, rimaneva il corpo! Sarebbe stato possibile,
allora, ma soltanto in uno stato incorporeo? Avevo fretta di ritrovare
quell’unità; l’avevo vissuta una volta, chissà dove, ma l’avevo perdu­
ta. Era possibile che avessi vissuto una volta in uno stato immateriale
e che, nascendo in questo corpo, fossi uscita da quell’armonia spiri­
tuale ? Era possibile che avessi vissuto in perfetta comunione, in un
mondo in cui il corpo non esisteva?
Essendo giunta a quel punto della mia analisi seguendo la logica,
mi sentii venir meno: in uno stato incorporeo? In un mondo in cui i
corpi non esistevano? Dunque nell’“altro mondo”? Nell’“aldilà”? Era
dunque possibile che quell’“aldilà” esistesse realmente? Quest’aldilà
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 77

a cui non avevo mai voluto credere e che avevo sempre considerato
come un’invenzione delle religioni necessaria per forzare i popoli
primitivi a vivere secondo un codice morale ben definito, grazie alla
promessa di un “paradiso” e alla minaccia di un “inferno”? Era dun­
que possibile che soltanto questo mio corpo vivesse in questo mondo
materiale, mentre il mio “Io”, il quale conosceva quell’unità impossi­
bile da realizzare nel corpo e che desiderava ristabilirla , sarebbe dun­
que appartenuto ad un altro mondo, ad un mondo dell’“aldilà”? Era
dunque possibile che tutti gli esseri umani provenissero da un’altra
sfera, quella dell’unità realizzata, e da lì fossero “cadutF , usciti da
quel mondo per entrare nella materia, nel corpo, nel mondo materia­
le... portando poi quel nostro ardente desiderio di felicità perduta nel
nostro “Io”, nella nostra anima che non era di qui, e che tuffava le sue
radici in un “altro mondo”?
E commettevamo un errore che ripetevamo continuamente: voler
raggiungere e vivere quella felicità, quell’unione nel corpo e per mez­
zo del corpo attraverso la sessualità. In quel corpo che, giustappunto,
ce lo impediva. Ora, comprendevo ciò che significasse “la cacciata
dal paradiso”!
Quella gioia tanto auspicata era dunque solo possibile nell’aldilà,
in paradiso! E giacché non potevo attirare a me quella felicità, forzar­
la ad entrare nel mondo materiale, bisognava che imparassi a cono­
scere quell’aldilà in cui risiedeva la mia vera gioia! Ma come riuscir­
ci? Le parole senza senso non mi bastavano: volevo la veritàì Volevo
qualcosa di concreto.
Quella notte segnò una svolta decisiva nella mia vita; divenni
conscia del fatto che la sessualità era la più grande impostura che
fosse mai esistita: la natura ci promette qualcosa di magnifico, di
straordinario, ci promette la gioia, il supremo compimento, ma poi ci
priva della facoltà di realizzarlo; e nel momento in cui crediamo di
raggiungere il culmine, ci ritroviamo d’un tratto ancora più giù di
prima. Perdiamo molta energia e ci sentiamo poi come poveri mendi­
canti; un proverbio latino dice che uomini ed animali sono tristi dopo
l’unione fisica...
Volevo una gioia costante, eterna e non quella offerta dalla ses­
sualità; quella no! All’alba, che resta del piacere sessuale più grande?
Nulla, al massimo un po’ di stanchezza! E si deve quindi continuare
sempre così? Sempre invano, giacché è soltanto uno sforzo disperato
per raggiungere l’unità! L’essere umano non può mai realizzare il suo
desiderio, né fondersi in un’unità eterna... Prima dell’atto, se non
78 Elisabeth Haich

altro c’è la forza di attrazione, c’è il desiderio che unisce i due ricer­
catori... Ma una volta soddisfatto il desiderio, resta solo più il vuoto,
entrambi rimangono soli di per sé, disperatamente soli, eternamente
soli...
Non era questo che volevo.
Volevo qualcos’altro. E se la sessualità mi aveva ingannata fino a
quel momento, da allora in poi mi sarei rifiutata di prolungarne il
gioco: non mi sarei più lasciata prendere in giro! La sessualità poteva
soddisfare il corpo, ma mai l’anima, l’“Io”! Il piacere sessuale non
avrebbe mai potuto aiutarmi a trovare l’unità che avevo vissuta nel-
l’“Io”!
E allora? Volevo, dovevo trovare la felicità! Dovevo trovare una
soluzione a questi problemi così importanti: non potevo fermarmi,
dovevo andare avanti, ma in quale direzione?
Se dunque la gioia si trovava nell’aldilà, sarei andata a cercarla lì:
fu così che mi misi in cerca della felicità e della perfezione laddove
avevo il presentimento di trovarle, nell’aldilà...
CAPITOLO XVI

Lotta per ritrovare la luce


Volevo conquistare l’aldilà ma non sapevo bene come fare, come
chi vuole vincere la giungla senza sapere bene da che parte comincia­
re, armato solo di una piccola ascia per farsi largo tra la vegetazione:
costui non sa che sono in agguato terribili pericoli, serpenti velenosi,
animali selvatici, e può perdersi o scomparire in un precipizio; ma è
proprio questa sua ignoranza che gli dà il coraggio d’inoltrarsi nella
giungla.
Io non immaginavo neppure che, durante il mio viaggio di rico­
gnizione nell’aldilà, nel regno dell’inconscio, forze sconosciute si sa­
rebbero precipitate su di me come fiere sanguinarie, né che sarei stata
tratta in inganno da false piste, né che gli abissi della follia sarebbero
rimasti in attesa del primo passo falso. E avevo solo una piccola
ascia, il mio buonsenso!
Dunque, da dove cominciare? La religione menzionava l’aldilà,
ma i sacerdoti con cui ne avevo parlato volevano che credessi cieca­
mente a dogmi che nemmeno loro capivano, oppure mi raccontavano
delle belle storielle su un paradiso da romanzo a cui non credevano
ma che, secondo loro, sarebbe stato sufficiente per accontentare que­
sta “cara signora”.
Era dunque preferibile rivolgere lo sguardo verso i grandi pensa­
tori del pianeta per conoscerne il punto di vista sull’immenso proble­
ma del senso della vita e della morte; e siccome in quei tempi non
sapevo ancora nulla delle filosofie orientali, cominciai con le opere
dei pensatori europei.
Iniziai con filosofi greci e latini, tradotti in una lingua a me nota:
Socrate, Platone, Pitagora, Epitteto e Marco Aurelio mi entusiasmaro­
no, insegnandomi molto, e chiarendomi molti punti oscuri. Una frase
di Epitteto, in special modo, mi rimase impressa e mi accompagnò
80 Elisabeth Haich

per tutta la vita aiutandomi ad uscire dall’oscurità per muovere verso


la luce eterna:
«Le cose non sono mai cattive; può essere cattivo solo il modo in
cui pensi ad essel»
Da allora, mi sforzai di cambiare il mio modo di pensare, il mio
punto di vista: pensare alle cose in modo diverso\ Ma tutte quelle
grandi verità non rispondevano alla mia domanda sull’aldilà.
Mi dedicai allora ai filosofi più moderni: Kant, Schopenhauer,
Nietzsche, Cartesio, Pascal, Spinoza. Ma non venni a capo di nulla:
sentivo che tutti si erano spinti tanto lontano quanto l’intelletto aveva
loro consentito di andare, ma senza raggiungere lo scopo, la realizza­
zione. Infatti, le loro risposte erano inferiori a quelle degli Antichi.
Fra i moderni, Spinoza era certamente colui che si era spinto più
lontano nella ricerca, ma avevo l’impressione che questi filosofi mo­
derni si fossero perduti nelle circonvoluzioni del loro stesso cervello;
malgrado il loro sistema filosofico erano insoddisfatti, delusi, infelici:
e come dunque avrebbero potuto aiutarmi nella mia ricerca delle
grandi verità dell’aldilà? Non ne sapevano nulla, eppure avevano cer­
cato disperatamente, quanto me. Volevo la realtà, non parole.
Un giorno stavo alla finestra con mio figlio, e guardavamo cader
le foglie del castagno; come sempre riflettevo sul senso della vita:
«La morte — dicevo a me stessa — sempre la morte!»
Ma la voce in me rispose:
«La morte? Perché vedi solo questo aspetto della verità? Che ma­
nifestano l’albero e tutta la natura in primavera, se non la vita? Sem­
pre la vita! La morte e la vita si succedono in un ciclo eterno, la morte
non è nient’altro che l’altra faccia della vita...»
D’un tratto compresi che in autunno l’albero ritira la vita alle
foglie per poi trattenerla in sé: le foglie diventano allora gusci vuoti,
muoiono e cadono. Quanti gusci vuoti! La vita che aveva animato
quelle foglie era custodita nell’albero e, in primavera, avrebbe riani­
mato tutto, si sarebbe rivestita di nuova materia, le nuove foglie, e
avrebbe ripreso il suo ciclo eterno. L’albero inspirava ed espirava la
vita, soltanto le foglie cambiavano, soltanto l’esterno. La vita era
eterna, giacché era lo stato (TESSERE eterno. Ma vidi ancora più lon­
tano: la fonte di quello stato ¿'ESSERE eterno, che gli uomini chia­
mano Dio, infondeva la vita anche nell’essere umano: la Bibbia dice­
va che Dio aveva insufflato nelle narici di Adamo un soffio di vita... Poi,
Dio la ritirava ed un guscio vuoto cadeva: era la morte del corpo umano.
Ma non per questo la vita sarebbe cessata, essa si sarebbe rivestita
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 81

di un nuovo corpo, secondo un ritmo eterno, giacché tutto nell’uni­


verso vive e si muove ritmicamente, dai corpi celesti al respiro ed ai
battiti del cuore di ogni essere vivente.
Mi tornò in mente un ricordo: all’età di sei o sette anni avevo
sentito parlare della morte per la prima volta; mi ero messa davanti
allo specchio per esaminare l’invisibile: la mia stessa immagine ri­
flessa. Già allora non potevo concepire che un giorno sarei morta e
avrei cessato di esistere. Volevo vedere dove si nascondeva quel-
l’“Io” che pensava e che non intendeva morire. Mi ero avvicinata allo
specchio fino a toccarlo col naso, avevo sondato i miei occhi il più
possibile da vicino, avevo voluto vedere quell’“Io”! Nei miei occhi
c’era un buco nero ma non ero riuscita a vedermi. L’Io - me stessa -
era rimasto invisibile come avevo sempre pensato che fosse dacché
ero diventata cosciente su questa Terra. Persino in uno specchio non
potevo vedermi, non scoprivo altro che il mio volto, la mia maschera,
e i due buchi neri degli occhi attraverso i quali guardavo. Sentii allora
che era impossibile che io non esistessi!
«Bene — avevo detto a me stessa — ma con cosa guarderai il
mondo, quando questi due occhi si chiuderanno?»
E senza esitare, avevo risposto:
«Qui chiudo gli occhi, e in un altro corpo ne apro altri due.»
«E se trascorrerà un lungo periodo tra l’uno e l’altro, se non
troverai subito un altro corpo? Se dovrai aspettare una settimana,
mesi, anni o addirittura migliaia di anni?»
«Impossibile — aveva risposto la bambina che ero a quel tempo
— perché quando dormo, non so, al risveglio, quanto tempo sia tra­
scorso durante il mio sonno; il tempo nel sonno non esiste e, nella
morte, dev’essere così per tutto il periodo in cui uno resta senza
corpo. Che io resti al buio (nel “nulla”) una settimana o mille anni, fa
lo stesso. Mi sembrerà di aver appena chiuso gli occhi da questa parte
per poi riaprirli dall’altra. Non c’è il tempo nel nulla. Ma è impossibi­
le che io debba non esistere più.»
E fu così che, del tutto rassicurata, mi ero allontanata dallo spec­
chio per riprendere a giocare.
Quel ricordo infantile si era fatto strada nella mente quando, or­
mai adulta, avevo riconosciuto nel castagno la legge della reincarna­
zione. Mi sorprese constatare con quale spontaneità e con quale natu­
ralezza un bambino può accettare una verità come questa, con il suo
piccolo raziocinio primitivo, e senza aver mai sentito parlare dell’ar­
gomento o letto qualcosa in proposito. Oggi non direi più che il
82 Elisabeth Haich

tempo non esiste nel “buio”, ma piuttosto che il “concetto di tempo”


non esiste nell’“inconscio”...
Ora sapevo anche che mi portavo dentro la memoria confusa di
una certa persona che ero stata un tempo: le visioni dell’Egitto non
erano altro che il riaffiorare di quei ricordi.
La mia ricerca dell’aldilà e le mie idee sulla reincarnazione mi
condussero ad interessarmi di spiritismo: gli spiritisti ritengono di
poter entrare in contatto con lo spirito dei morti e credono nella
reincarnazione, tuttavia ero molto reticente al riguardo, giacché i miei
genitori ne avevano sempre parlato con disprezzo. Mia madre aveva
una carissima amica che aveva frequentato le sedute e raccontava
che, quando queste si svolgevano a casa sua, una tavola di quercia
pesante come il piombo fluttuava per aria. Mia madre rifiutò sempre
questo genere di cose, ritenendo che potessero nuocere al sistema
nervoso, ma nel riflettere sulla reincarnazione, ad un tratto mi ricordai
di aver assistito ad una seduta a casa dell’anziana signora, all’insapu­
ta di mia madre... e poi se quella era “una seduta”!...
La vecchia amica di mia madre amava molto i suoi nipoti, e
spesso invitava dei giovani a pranzo: anch’io ci andavo, di frequente.
Un giorno restammo dopo pranzo e la signora, di natura allegra e
vivacissima, fu ben felice di intrattenersi più a lungo con noi. Al­
l’epoca avevamo circa quindici anni, ed eravamo ovviamente molto
curiosi circa lo spiritismo, sicché pregammo la signora di parlarcene.
«Se volete — rispose — possiamo far ballare il tavolo.»
Questa prospettiva ci affascinò.
Il tavolo, che non era quello pesante di quercia di cui ci aveva
parlato nostra madre, ma un tavolino rotondo a tre piedi, venne porta­
to in mezzo al salotto e, insieme alla signora, ci disponemmo tutti
intorno con le mani sul piano e con le dita allargate, con i pollici ed i
mignoli a contatto. La camera era ben illuminata. Trovavamo la cosa
molto divertente, e divenne francamente comica quando udimmo la
deliziosa vecchietta chiedere ad alta voce:
«Spirito, ci sei?»
Ci guardammo, trattenendo a fatica le risate; non volevamo offen­
dere la nostra ospite, e quindi cercammo di assumere un’espressione
di circostanza. Stavamo in piedi, in attesa. D’un tratto la tavola prese
a tremare, come se un’energia volesse far scoppiare il legno; poi il
tremito si accentuò finché la tavola si alzò d’un lato, con una gamba
per aria, dopodiché ricadde e non si mosse più.
«Sì — disse la signora — la tavola dice “sì”. Quando batte un
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 83

colpo, allora vuol dire “sì”; quando ne batte due, allora vuol dire
“no”. Wolfgang, prendi un foglio di carta ed una matita e scrivi le
lettere: c’è uno spirito, qui!»
Wolfgang, con la matita in mano, rimase in attesa. La tavola ripre­
se a muoversi, diede un colpo, poi un altro, poi un terzo. Recitavamo
l’alfabeto e Wolfgang scriveva la lettera su cui si fermava la tavola.
Non so spiegare perché tutto questo ci sembrasse tanto comico.
Era buffo recitare l’alfabeto e, naturalmente, vedere con quanto serie­
tà la signora dirigesse il nostro lavoro; non credetti neppure per un
attimo che quel tavolo si muovesse da solo: era certamente opera di
Nicolas, l’altro nipotino della signora. Quei colpi ripetuti ci divertiro­
no moltissimo, ma non fu niente in confronto a quanto seguì, che ci
fece proprio scoppiare a ridere. Quanto alla signora, scosse il capo
con uno sguardo carico di rimprovero.
Ma non c’era nulla da fare, non potevamo smettere di ridere: la
tavola si inclinò più volte bruscamente, così tanto da toccare quasi
terra con l’orlo del piano, e credetti davvero che sarebbe scivolata a
terra... e invece no, si rialzò ogni volta con una forza irresistibile e poi
si mise a girare intorno alla camera. Per seguirla, ci toccò correre.
Infine si calmò e si fermò in un angolino del salotto. La signora
chiese:
«Non c’è più nessuno?»
La tavola non si mosse più.
«Era uno spirito burlone, dal momento che vi siete tanto divertiti.
Adesso tutti gli spiriti se ne sono andati — riprese. — Un istante,
ragazzi, vado a farvi fare del caffè» e scomparve in cucina.
Rimanemmo dunque soli per un attimo, e io ne approfittai per
chiedere a Nicolas:
«Sei tu che hai fatto muovere il tavolo, vero?»
Sorpreso, egli rispose:
«Io? Credevo che fossi tu o Emmerich, comunque io non ero di
certo. Le mie dita sfioravano appena il tavolo.»
Ci volgemmo tutti verso Emmerich, che protestò vigorosamente:
«Ah! no, io non l’ho fatto muovere, il tavolo.»
«State a sentire — dissi — adesso vedremo se la tavola può dav­
vero muoversi da sola.»
Ci precipitammo intorno al tavolo per cercare di farlo muovere
spingendolo con le mani: con nostro grande stupore, non si mosse! Il
tavolo rimase immobile, senza vita, come era giusto che fosse quel
pezzo di legno. Insistemmo e spingemmo ancora più forte, sicché il
84 Elisabeth Haich

tavolo cadde ma senza però poi rialzarsi. Durante l’esperimento il


tavolo si era inclinato di molto, quasi a toccar terra, e poi si era
rialzato, ma tutti i nostri sforzi furono vani. Decidemmo di spingere
insieme nella stessa direzione, per rialzarlo, ma quando fu in equili­
brio su una gamba, ricadde pesantemente sulle altre due. Impossibile
farlo stare su una gamba sola.
Questa volta ci guardammo in silenzio: non capivamo più nulla.
Non avevamo più voglia di ridere... Soltanto i due nipotini della
nostra ospite conservavano ancora la calma, e ci dissero che anche
loro non capivano ma che, quando la zia Margaret era presente, pote­
va persino far alzare l’enorme tavolo di quercia massiccia, cosa che,
di solito, richiedeva lo sforzo di quattro persone. Era dunque escluso
che zia Margaret potesse sollevarlo con le sue sole forze.
Lungo la via del ritorno avevo riflettuto ancora per un pezzo su
quel fenomeno: non potevo credere che ci fosse uno “spirito” che
facesse muovere il tavolo, ma dovevo riconoscere che in tutto questo
si era manifestata una forza sconosciuta.
Dopo quell’incidente, la vita aveva ripreso il suo corso, con i miei
studi di piano, il pattinaggio, i litigi col mio fidanzato di allora e la
tavola ballerina era stata relegata fra i ricordi. Ora, d’un tratto, mi
ritornava in mente: era evidente che l’affascinante vecchietta non
sapeva granché di spiritismo, ma dovevano certamente esistere dei
cerchi spiritici seri. I pregiudizi sono sempre da evitare, e studiando
da più vicino lo spiritismo forse avrei potuto trovarci qualcosa che mi
avrebbe permesso di avanzare nelle mie ricerche.
Riuscii ad entrare in contatto con il responsabile del gruppo più
celebre del paese, il quale mi diede dei libri da leggere a cui avrei
potuto credere o no! Le teorie non possono soddisfare colui che cerca
la verità, ed io volevo far pratica e qualcosa che mi convincesse. Un
libro attirò la mia attenzione su un medium che aveva acquisito le sue
facoltà sedendosi regolarmente ogni giorno alla stessa ora davanti ad
un foglio con in mano una matita appoggiata alla carta; restava così in
attesa per un’ora. Dopo sei mesi di tentativi, la matita cominciò a
muoversi, a scrivere delle parole, e fu così che quel medium scrisse
diverse opere che ebbero il loro momento di gloria. Ma quelle opere
non mi interessavano: erano solo una sfilza di sermoni pieni di insipi­
de melensaggini: in qualsiasi chiesa se ne sarebbero potuti sentire di
migliori.
Perché c’era bisogno, per fare questo, di uno spirito, se poi era
davvero uno spirito, la forza che animava la mano del mediuml
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 85

Presi dunque anch’io un foglio ed una matita, che tenni perpendi­


colarmente alla carta... e attesi.
Il primo giorno, nulla.
Il secondo, la matita cominciò a tremare e, quindi, a far tremare la
mano: poi un movimento a scatti si impose, facendomi disegnare
diversi ghirigori.
Il terzo giorno il tremito della matita cominciò subito e in breve
comparvero parole intellegibili: pareva la calligrafia esitante di un
vecchio; continuai l’esperimento regolarmente ogni giorno, e le frasi
si allungavano: mentre la matita scriveva, osservavo il braccio e la
mano, chiedendomi da dove venisse la forza che li animava. Se quella
matita era capace di scrivere da sola, allora qualsiasi matita poteva
fare altrettanto; non c’era dubbio che fosse la matita a far muovere il
mio braccio senza che io lo volessi, e senza che io avessi saputo in
anticipo quanto sarebbe stato scritto.
L’energia proveniva dunque da una fonte fuori dalla mia coscien­
za, ma evidentemente dentro di me. Poteva essere una forza che agiva
dal mio inconscio, ma per il momento non c’era alcuna prova che
questa forza emanasse da un estraneo, da un cosiddetto “spirito”.
Ma chi sa esattamente cosa sia il nostro “inconscio ”?
Mostrai quegli scritti al direttore del cerchio spiritico che, con una
sicurezza stupefacente, mi disse trattarsi di scrittura tipicamente me­
dianica, proveniente da uno spirito. Non dissi nulla, perché quelle
affermazioni mi invitavano alla massima prudenza. Che la forza che
aveva animato il mio braccio non provenisse dalla mia coscienza,
questo era certo, giacché non era stata la mia volontà a far muovere
la matita; tuttavia, essa poteva comunque essere originata in me,
scaturire dal mio inconscio. Il fatto che gli spiritisti credano in
un’energia prodotta dagli spiriti, non prova che sia così.
Continuai dunque il mio esperimento, sempre osservandomi... os­
servando me e la mia matita.
Una domenica pomeriggio, mio marito ed io eravamo insieme in
camera nostra: lui leggeva un libro, mentre io facevo un’incisione sul
legno pensando agli esperimenti che avevo fatto con la matita. Giunsi
così alla conclusione seguente: se è possibile che la mia mano, i miei
nervi, o qualsiasi strumento - ancora sconosciuto - in me possano
captare e manifestare i pensieri di un essere disincarnato totalmente
estraneo, allora deve anche essermi possibile captare e manifestare
allo stesso modo i pensieri di un essere separato da me ma incarna­
to. Questo sarebbe stato un passo avanti nella mia ricerca.
86 Elisabeth Haich

Ne parlai a mio marito e gli chiesi se avesse voglia di prestarsi a


degli esperimenti di trasmissione del pensiero. Accettò immediata­
mente, perché la cosa lo interessava moltissimo.
Non sapevo esattamente come procedere, ma mi sembrava che se
avessi voluto captare i pensieri di qualcuno, sarebbe stato assoluta-
mente necessario fare il vuoto in me, essere assolutamente passiva
affinché i miei propri pensieri non disturbassero il processo. Ci met­
temmo l’uno accanto all’altra, io gli presi il polso sinistro con la
mano destra, nel punto in cui si sentiva il battito: mi sembrava che un
contatto avrebbe potuto essere di aiuto. Rilassai tutti i miei muscoli,
non pensai più a nulla... e attesi.
Immaginavo che la trasmissione del pensiero si sarebbe svolta
così: mio marito avrebbe pensato qualcosa, e questo pensiero sarebbe
sorto nella mia mente in un modo o nell’altro, sicché aspettavo un
pensiero che non emanasse da me. (In quel tempo non avevo ancora
riflettuto sul fatto che non sappiamo neppure da dove vengano i pen­
sieri che noi chiamiamo nostri). Con mia grande sorpresa avvenne
qualcosa a cui non ero per niente preparata: mentre ero lì, in attesa di
un pensiero di mio marito, sentii intensamente, anzi, “vidi” una cor­
rente di energia del diametro di circa otto-dieci centimetri uscire dal
suo stomaco e circondarmi il corpo a livello del plesso solare, come
un lazo. Percepii questa corrente come fatta di una materia molto sot­
tile, simile alla nebbia, ma comunque materiale. Dopo avermi avvol­
ta, essa mi tirò in una precisa direzione, e questo mi obbligò a fare un
passo da quella parte: mi tirava sempre più forte e, se facevo un passo
nella direzione sbagliata, mi faceva immediatamente ritornare sulla
direzione giusta. Fu così che arrivai vicino alla finestra, e la volontà
materializzata di mio marito mi lasciò in quel punto. Ma qui mi
aspettava un’amara sorpresa: il mio braccio libero, che penzolava
lungo il corpo, si alzò d’un tratto: non pesava più nullaì Fino a quel
momento non avevo mai pensato al fatto che il mio braccio pendesse
perché la Terra lo attirava costantemente a sé, e pur avendo imparato
a scuola la legge della gravitazione non avevo mai coscientemente
pensato che fosse lei a far penzolare il mio braccio. Ma ora, davanti a
quella finestra, vivevo l’esperienza del braccio che perdeva peso e si
alzava quando la forza di attrazione terrestre cessava di agire. Alzan­
dosi, il mio braccio sollevò la tenda: non avevo mosso alcun muscolo,
né li avevo contratti, ma avevo l’impressione che la massa che ema­
nava del plesso solare di mio marito mi sostenesse il braccio. Quella
massa spinse in avanti la mia testa, fino a toccare involontariamente il
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 87

vetro col naso: in quel preciso istante la massa abbandonò il mio


corpo - braccio e testa - e potei muovermi liberamente.
Ci guardammo affascinati: questo nuovo esperimento mi aveva
mostrato che la volontà umana, simile ad una materia, scorreva via
dal plesso solare di un individuo, poteva raggiungere un’altra perso­
na, avvolgerla come un piovra, ed anche neutralizzare gli effetti della
gravitazione. Questa “materia” dava l’impressione di un miriade di
goccioline di nebbia, simili alla Via Lattea in cielo, strettamente lega­
te fra loro e in movimento nella medesima direzione.
Mio marito, stupefatto, non capiva come avessi potuto eseguire
come un automa quanto aveva pensato: andare alla finestra, sollevare
la tenda e guardare di sotto. Gli raccontai che una corrente di energia,
che avevo percepito come materia, era uscita dal suo plesso solare, e
precisai immediatamente che si trattava di una sensazione soggettiva:
in effetti un’energia ci dà l’impressione di materia.
Mi ritornò in mente che, alcuni anni prima, il nostro bambino
aveva avuto mal di pancia; allora gli avevo appoggiato il cuscino
elettrico sul pancino, e avevo accarezzato il suo volto. Con grande
sorpresa avevo scoperto che la sua pelle, abitualmente morbida come
un petalo di rosa, era improvvisamente diventata rugosa come una
raspa: era stato come accarezzare le guance di mio marito dopo due
giorni che non si faceva la barba. Questo si spiegava con il fatto che il
cuscino elettrico era diventato un po’ umido e che quindi una parte
della corrente aveva elettrizzato il corpo del bambino. Avevo imme­
diatamente staccato la corrente, e la pelle del bambino era tornata
normale. La mia mano aveva dunque percepito la corrente elettrica
come materia rugosa. Se si considera questo fatto, che chiunque può
verificare, allora si può paragonare questa manifestazione “materiale”
della volontà umana con una materia o una corrente elettrica, il che,
in fondo, è la stessa cosa, giacché la scienza contemporanea sa che la
materia non è nuli’altro che una forma di energia, una vibrazione che
ci dà soltanto l ’impressione della materia, perché per noi resta impe­
netrabile.
Ogni domenica sera la famiglia si riuniva dai miei genitori. Rac­
contai loro quella nostra esperienza, ed immediatamente tutti vollero
provare. Cominciai con mia madre: gli altri erano rimasti silenziosi,
immobili, cercando di non pensare a nulla, perché in quello stato di
ricezione eccezionale captavo tanto intensamente i pensieri di tutti i
presenti che potevo esserne disturbata.
L’esperienza con mia madre mi fece constatare qualcosa di nuo­
88 Elisabeth Haich

vo. La corrente che emetteva era più debole, più sottile e di diametro
inferiore a quella di mio marito; ripetei l’esperimento con degli zii,
delle zie e altri parenti riuniti intorno al desco familiare, e fu così che
imparai che ogni persona emette una diversa corrente. Uno zio, che
aveva scarso potere di concentrazione e di decisione, aveva una cor­
rente spessa e forte, ma le particelle di questa corrente non andavano
nella stessa direzione, i loro movimenti erano disordinati e, di conse­
guenza, lo era anche il loro effetto. Era molto difficile per me scoprire
cosa volesse. Una zia aveva una corrente molto sottile ma perforante,
acuta, che percepivo come del fil di ferro duro e rigido, che mi feriva:
in generale, era una donna molto aggressiva. Dunque, ognuno aveva
la propria emanazione di volontà.
Mi si schiudeva un mondo nuovo! Cominciai a capire certi feno­
meni che non avevo mai intuito, di c(ui non mi ero mai accorta, che
non avevo neppure notato; ora sapevp perché ci si sentiva tanto stan­
chi dopo un diverbio, quanto dopo aver disputato un incontro di pugi­
lato. Comprendevo perché potesse essere così spossante restare in
compagnia di certe persone e come, invece, potesse essere stimolante
e rinfrescante la compagnia di altre. Colsi in modo quasi palpabile
che cosa fossero la simpatia e l’antipatia: ci sono emanazioni che
danno, altre che assorbono, certe emettono forza, altre sono appicci­
cose come tentacoli di un polipo e succhiano l’energia di un indivi­
duo. Gli esperimenti fatti con persone di questo tipo mi lasciavano
debole, con le ginocchia tremolanti, del tutto spossata, sicché dovevo
poi riposarmi per ritrovare le forze prima di poter proseguire; infatti
avvenne che tutti vollero fare quell’esperimento, anche la domestica,
la cuoca e il resto del personale della casa dei miei genitori. Presi
anche coscienza di un fatto che non può essere mutato da alcun decre­
to umano: le persone colte e disciplinate avevano emanazioni molto
diverse da quelle delle persone ignoranti e primitive che vivevano
solo per soddisfare i loro istinti. Evidentemente, questo non dipende­
va dalla loro classe sociale o economica, tant’è che percepii in perso­
ne semplici, che vivevano nel bosco, in montagna o in luoghi non
raggiunti dalla civiltà, emanazioni molto più pure ed elevate di quelle
di certi eruditi assolutamente egoisti. Non si possono nascondere,
rinnegare né falsificare queste emanazioni, che rivelano immediata­
mente la natura di colui che abbiamo di fronte. Durante questi esperi­
menti, imparai ancora qualcos’altro di interessante: quando qualcuno
voleva qualcosa di riprovevole da me, la mia educazione si ergeva fra
la volontà dell’altro e la mia, come un muro isolante, ed era solo al
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 89

prezzo di grossi sforzi che riuscivo a far cadere quel bastione.


Ero molto affaticata da questi esperimenti, perché, anche se avevo
a che fare con persone positive, dovevo cominciare col realizzare il
vuoto in me per poter “recepire” la volontà altrui, cioè renderla co­
sciente in me e quindi far passare quelle vibrazioni estranee attraverso
i miei nervi, eliminando al massimo le mie. Era precisamente questa,
la parte più difficile: i nostri nervi sono sempre in armonia con le
nostre proprie vibrazioni, la loro resistenza è adeguata alla nostra
corrente vitale, e qualsiasi alterazione li mette a dura prova, creando
una dissonanza verso l’alto o verso il basso che comunque risulta
costrittiva. Quando se ne fa l’esperienza se ne percepiscono gli effetti
nocivi, siano essi causati dalla paura, da un moto di passione, oppure
da una gioia eccessiva; di conseguenza è facile capire perché sia
faticoso o negativo il dover armonizzare i nostri nervi con vibrazioni
completamente estranee, non soltanto per la loro frequenza ma anche
per la loro essenza. Quando la differenza è troppo grossa, possono
comparire gravi disturbi: ad esempio un sovreccitamento, un’infiam­
mazione, una malattia nervosa. Questo spiega perché certe persone
sensibili siano costantemente ammalate quando si trovano in un certo
ambiente; il medium è quindi facile preda, e corre il grave rischio di
perdere la propria identità, il proprio carattere, ed è ciò che avviene,
d’altronde, in molti casi. E ricettivo a tutte le vibrazioni, ma non
V

riesce a “digerirle” ad assimilarle, sicché diventa disordinato, debole


e inaffidabile! Dobbiamo assolutamente evitare di giocare con queste
cose: ci sono molti documenti che raccontano storie tristissime di
medium diventati dei veri automi, deboli, privi di forza di resistenza,
che vengono poi trattati da bugiardi o da ciarlatani. Non c’è da stupir­
si: sono proprio le loro facoltà medianiche ad indebolirli, e a fame dei
giocattoli fra le mani degli spettatori.
Sono stata testimone di questo declino personalmente: una donna
dotata di facoltà eccezionali, che riusciva a compiere dei giochi stra­
ordinari, col tempo perse sempre di più il suo carattere, e, non riu­
scendo più ad opporre resistenza ai desideri altrui, volle far loro pia­
cere continuamente producendo “qualcosa”. Quando la forza scono­
sciuta non si manifestava, prese l’abitudine di barare per non deludere
i suoi spettatori, e la storia si concluse con un enorme scandalo ove
gli ignoranti trionfarono sostenendo che tutti i fenomeni, fin dall’ini­
zio, erano stati truccati. No! Non tutti: era stata precisamente la me­
dianità vera di questa donna a farle perdere il suo carattere e la sua
capacità di resistenza, al punto di fare infine di lei un’ingannatrice.
90 Elisabeth Haich

Riuscii d’altronde a constatare quegli effetti su me stessa: non


volevo essere tratta in inganno da un’illusione, volevo conoscere la
verità, e dovetti ammettere che quegli esperimenti potevano rivelarsi
nocivi. Ero abbastanza cosciente e animata da abbastanza volontà per
vincere le vibrazioni estranee e ritornare me stessa dopo ogni esperi­
mento, ma mi costava molto caro, diventavo stanca e nervosa, e fu
per questo che abbandonai questi esperimenti e, in seguito, anche
tutto ciò che aveva a che fare con lo spiritismo.
So che molti spiritisti sostengono che questo tipo di manifestazio­
ne non è né faticosa né pericolosa; mi perdonino, dunque, se dico
apertamente, e dopo molti anni di esperienza, che i medium che non
sono stanchi dopo le sedute non hanno mai ricevuto una volontà
estranea alla loro, ma hanno agito sotto l’impulso del loro stesso
inconscio anche se erano convinti che la manifestazione provenisse
da un’altra persona. Ho raggiunto la certezza che un individuo può
“ricevere” la propria volontà da un complesso profondamente na­
scosto nel suo inconscio, sentirla e manifestarla come se si trattasse
di una volontà estranea. E così che nascono, in gran parte, le “auto­
illuminazioni”.
E impossibile discutere con gli ignoranti, giacché essi si aggrap­
pano alla loro fanatica credenza “negli spiriti” ingannandosi ed ingan­
nando una folla di creduloni stupidi ed indisciplinati; non hanno alcu­
na idea delle loro proprie forze inconsce.
Ma colui che vuole conoscere la verità e che, sistematicamente,
controlla e studia tutti i fenomeni, può scoprire dei fatti molto interes­
santi; bisogna essere molto prudenti con la parola “spirito”.
Riflettiamo un istante: se la volontà di un individuo riesce a solle­
vare il braccio di un altro, e dunque vince la forza di gravità, dov’è la
frontiera del possibile? La scoperta di quei fenomeni mi fece capire la
natura di ciò che in occidente si chiama “levitazione”, e che ancora è
insegnata in certi conventi tibetani per mezzo di esercizi speciali; ma,
senza aver mai sentito parlare di quegli esercizi, i miei esperimenti mi
avevano condotta agli stessi risultati. Questi fenomeni sono d’altron­
de noti anche in Europa, e testimoni oculari degni di fede hanno
descritto come Teresa d’Avila, Giovanni della Croce e Francesco
d’Assisi fluttuassero in aria, a volte anche per più di un’ora; so che è
possibile, la volontà di un individuo agisce sia su di sé, sia sugli altri,
e può vincere, per un certo tempo, anche la forza gravitazionale.
Dipende dall’entità e dall’intensità della volontà in questione.
Nel corso di certi esperimenti mi è accaduto di non riuscire a
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 91

“rendere cosciente” in me la volontà altrui, e quindi di non poterne


manifestare il pensiero; questa “massa” mi pesava terribilmente sul
petto, mi soffocava, ansimavo come se stessi per morire; dovevo
chiedere alla persona in questione di concentrarsi meglio, sicché, non
appena diventavo cosciente della sua volontà, riuscivo a metterla in
atto, potevo respirare liberamente, e il senso di oppressione scompari­
va. Tutto ciò che vissi durante quegli esperimenti mi convinse del
fatto che, in molti casi, l ’asma non è nuli’altro che la volontà invisi­
bile di un individuo che pesa enormemente sul malato. Ma questa
volontà invisibile non realizzata può anche esser la sua, provenire
dal proprio inconscio, e causare malattie senza che il malato possa
rendersi conto che è la sua stessa volontà a farlo ammalare.
La vita intera è un seguito di lotte invisibili come questa, da cui a
volte usciamo vincitori, a volte vinti.
Quegli esperimenti e quei fenomeni furono per me una scuola
straordinaria: mi permisero di guardare profondamente dentro l’in­
conscio umano, e di acquisire una vasta conoscenza su me stessa e
sull’umanità. Mi venne data la prova che era possibile ricevere i
pensieri altrui pur constatando, nel frattempo, quanto questo fosse
difficile. Compresi perché i Tibetani e gli Indiani si ritirassero tre
giorni in solitudine, lontani da ogni abitazione, a digiuno, pregando e
preparandosi quindi meticolosamente a stabilire un contatto con lo
spirito di un defunto, non come tutte quelle persone che si dicono
spiritisti, che si riuniscono in sedute dopo l’orario di ufficio e nel bel
mezzo della vita mondana, e credono con questo di poter stabilire
immediatamente un contatto con l’aldilà. Pensano di potersi proteg­
gere da ogni pericolo con una preghierina, pensano che una preghiera
possa far sfuggire alla morte una persona che sia precipitata nel vuo­
to? Ebbene, lo spiritismo praticato dagli ignoranti è pericoloso quanto
saltare nel vuoto. Bisogna essere ragionevoli! Non dimentichiamo
che la nostra ragione ci permette di controllare e di analizzare tutte le
nostre esperienze. Durante gli anni passati con i gruppi più diversi,
fui testimone di così tante catastrofi, possessioni, suicidi, depressioni
nervose, disturbi mentali gravissimi causati dal gioco pericoloso che
si chiama spiritismo: c’è gente di buona fede, gente sincera ma asso­
lutamente ignorante, che non ha alcuna formazione psicologica e che
tiene sedute! Gli ignoranti risvegliano forze che sono loro ignote e di
cui non riescono a percepire l’origine, sicché sono incapaci di con­
trollarle e cadono in balia di esse; soltanto le persone che sono abba­
stanza forti per resistere assolutamente ad ogni influenza, le persone
92 Elisabeth Haich

che hanno conoscenze profonde in materia di psicologia e che hanno


esperienza, persone che possiedono un’immensa forza di volontà co­
sciente e un’eccellente padronanza di sé, possono occuparsi di spiriti­
smo e procedere ad esperimenti di quel tipo.
CAPITOLO XVII

Auspici
A poco a poco mi arresi all’evidenza: lo spiritismo non aveva più
nulla da offrirmi. Gli esperimenti che avevo spigolato qua e là mi
avevano però aperto le porte dell’anima umana, e fu con grande co­
sternazione che osservai quanto l’uomo fosse solo nella grande oscu­
rità della sua ignoranza.
La mia medianità mi permetteva di penetrare nel campo straordi­
nario dell’inconscio: mi analizzavo senza alcuna pietà e rifiutavo di
lasciarmi accecare da teorie tanto fumose quanto incerte. Con la mia
piccola ascia in mano progredivo in quella giungla passo dopo passo:
lo spiritismo mi condusse infine allo studio della psicologia, e sicco­
me in quei tempi non avevo idea alcuna dell’immensa conoscenza
psicologia degli Orientali (Indiani e Cinesi) mi dedicai alla psicologia
occidentale.
Quando lottiamo seriamente per ottenere qualcosa e ci dedichia­
mo a questa lotta anima e corpo, il destino si compiace di favorirci;
sicché, dopo aver acquisito una solida formazione teorica, riuscii ad
entrare in buoni rapporti con il direttore dell’ospedale psichiatrico di
Stato, il quale mi aiutò a perfezionare le mie conoscenze consenten­
domi di esercitarmi sistematicamente nella pratica. Ottenni l’autoriz­
zazione di studiare i malati di quel manicomio in qualsiasi reparto si
trovassero, compreso quello dei pazzi furiosi di entrambi i sessi.
Una sera rincasai e rimasi a lungo da sola per riordinare le idee,
giacché avevo visto qualcosa di spaventoso in quel manicomio. Orri­
bile! L’inferno dantesco non era nulla al confronto di ciò che accade­
va là dentro: quanti ammalati, rinchiusi o no, su questa Terra, soffro­
no a quel modo? Quante persone sane soffrono a causa di questi
malati, perdendo la loro salute e ritrovandosi annientate? Quanti am­
malati ingannano gli ingenui ignoranti con un comportamento norma­
94 Elisabeth Haich

le, giacché non portano la loro malattia scritta in fronte? A volte,


occupano posizioni elevate, sposano qualcuno fiducioso ed innocente
per poi distruggere il loro prossimo, la loro famiglia, spesso anche
grandi imprese, se non paesi interi.
Vidi spesso l’inferno davanti ai miei stessi occhi, e considerai con
terrore quell’oceano di sofferenza, constatando l’impotenza dell’uma­
nità davanti a quell’incommensurabile miseria...
Bisognava fare qualcosa! La gente doveva conoscere i pericoli
che conducevano alle malattie mentali, e tutte le persone sane avreb­
bero dovuto unirsi per combattere insieme quell’amara disgrazia.
Il mio lavoro con i malati mi rivelò i segreti più profondi di
individui e famiglie diversissime fra loro: rimasi stupefatta nel rico­
noscere che c’erano, al mondo, più ammalati che sani. Non contavo
più le anomalie, le malattie mentali che la gente portava in sé, ma vidi
anche quanti, fra loro, avrebbero potuto essere salvati da un tratta­
mento adeguato, o anche solo cambiando ambiente; sarebbe bastato a
risanare la psiche e, di conseguenza, a rendere la gioia alla loro fami­
glia.
Rimasi dunque sola con i miei pensieri, a chiedermi quale avrebbe
potuto essere il risultato se ogni persona sana avesse accettato di
dedicarsi a questa causa. Con tutte le forze volevo dedicarmi a lenire
quella sofferenza, ma come, e da dove cominciare?
Dove trovare l’aiuto necessario?
Nel rivolgermi questo interrogativo, ebbi d’un tratto l’impressione
di una presenza accanto a me; gli esercizi di trasmissione del pensiero
e gli esperimenti spiritici mi avevano talmente acuito le percezioni
che, se mi avessero condotta ad occhi chiusi in una camera, avrei
potuto dire se ci fosse qualcuno e addirittura il carattere della persona
presente; riconobbi dunque subito in me quel pizzicore, simile ad una
corrente elettrica, che mi avvertiva di una presenza. Poi percepii una
radianza familiare, sebbene continuassi ad ignorare donde mi venisse
la conoscenza di quella nobile radianza, pura e possente... udii di
nuovo in me la voce che tanto amavo:
«Dove trovare aiuto? Ma in te! Non capisci dunque che il male
viene sempre dal fatto che uno si aspetta aiuto dall’esterno? E sicco­
me tutti si aspettano aiuto, ma non ne forniscono, nessuno può rice­
verne. Invece, se ognuno offrisse assistenza, tutti ne beneficerebbero,
e la Terra sarebbe presto libera da tutte le sue miserie.»
Risposi alla voce interiore:
«Non so chi tu sia, né che razza di energia tu sia, ma la tua è
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 95

l’unica voce che sento e mi dice sempre la verità. Tu conosci i miei


pensieri, vedi in me ciò che altri non possono vedere; non ho dunque
bisogno di dirti che voglio dedicare la vita a lenire le sofferenze
altrui. Anche se sono soltanto un granello di polvere, voglio che
questo granello moltiplichi la mia forza in aiuto ai sofferenti: senza
questo la vita non ha più senso, e non avrò più gioia fintantoché
porterò in me la sofferenza altrui. Voglio contribuire alla salvezza
della Terra!»
«Attenzione! — disse la voce interiore. — Piano, con le belle
parole! Contribuire a quest’opera significa dovere, abnegazione, sa­
crificio: devi eliminare tutte le tue imperfezioni! Ricorda sempre
d’essere costantemente attenta, ricorda che non ti puoi permettere la
minima infrazione alle leggi eterne. Sarai di nuovo sottoposta a tutte
le tentazioni a cui hai ceduto, e guai a te se non ne uscirai vittoriosa.
Nessun mortale può giocare con le forze divine: non dovrai mai più
utilizzare a fini egoistici le energie acquisite in quest’opera. Devi
liberarti di ogni sentire personale, e non vedere più le cose in un’otti­
ca personale; stai attenta! È meglio vivere la propria vita come chiun­
que altro, piuttosto che fallire quale artigiano nella grande opera. È un
avvertimento!»
«Non ho paura — risposi. — La mia persona non mi interessa più,
non ho più alcun desiderio. Dopo tutto ciò che ho vissuto e appreso,
non posso più provare alcuna gioia in questo stato. Non temo le
tentazioni: resisterò, perché non ho più illusioni. Voglio contribuire
alla grande opera!»
Ci fu un attimo di silenzio in cui mi sentii invadere da un infinito
raggio d’amore, poi la voce riprese:
«Riconosco bene quella tua fiducia in te stessa, figlia mia, ma
questa volta, stai attenta a non perdere il controllo di te stessa...»
Ero seduta sul divano, e mi sfregavo la fronte guardandomi attor­
no: la camera era vuota. Chi era? Chi è? Chi era quell’energia che mi
parlava con quella voce così familiare? Come mai conoscevo quella
voce, come mai essa sapeva della fiducia che avevo in me e che ero
stata talmente imprudente da dovere, questa volta, far bene attenzione
a non perdere il controllo di me?
Non ricevetti alcuna risposta.
CAPITOLO XVIII

Bagliori
Trascorsero i giorni, le settimane, i mesi... e io aspettavo un se­
gno, un’indicazione per sapere che cosa dovessi fare, quale sarebbe
stato il mio compito e il mio sacrificio, secondo quanto annunciato
dalla voce invisibile; ma la voce non si faceva più sentire...
Spesso cercavo di creare l’atmosfera adatta per sentire ancora quel
pizzicore sul corpo, come un’immersione in un’acqua gassata, cer­
cando di sbloccare i sensi ed aprirmi interamente a ricevere quella
voce... ma non ci riuscivo.
Ero perplessa. Stavo aspettando invano, e mi rifiutai di perdere
altro tempo, sicché decisi che la miglior cosa da fare sarebbe stata di
badare alle mie faccende terrene il meglio possibile, sperando di rice­
vere presto, dalla voce interiore, istruzioni circa il mio compito per
collaborare alla grande opera. Sentii anche che avrei dovuto purificar­
mi da ogni egoismo se volevo riconoscere la verità con precisione,
proprio come il vetro della finestra doveva essere pulito per lasciar
passare la luce del sole in tutto il suo splendore. Il primo passo fu
dunque di sapere che cosa ci fosse in me: conoscendomi perfettamen­
te, mi sarebbe stato allora possibile purificarmi.
Mi misi dunque a sondare, ad analizzare la fonte e la causa di tutti
i miei pensieri, parole e azioni. Qual era la forza inconscia che lavora­
va dentro di me? Da dove provenivano i miei pensieri? Chi era che,
in me, voleva che pronunciassi questa o quest’altra parola? Perché
volevo fare questo e non quest’altro? Se qualcosa mi faceva piacere,
esaminavo perché provassi gioia, se mi sentivo depressa o in collera,
volevo conoscerne la ragione; se qualcuno mi sembrava simpatico o
antipatico, mi analizzavo immediatamente per conoscere quali fosse­
ro le caratteristiche responsabili del mio giudizio... Mi osservavo co­
stantemente, per sapere perché facessi volentieri una certa cosa men­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 97

tre ero recalcitrante davanti ad un’altra.


Quand’ero loquace volevo mettere in luce le ragióni che mi spin­
gevano a parlare, e quando rimanevo in silenzio volevo sapere perché
non avessi voglia di parlare; analizzavo con la lente ogni parola che
mi usciva di bocca per sapere se fosse assolutamente vera e se potesse
ferire qualcuno, sorvegliando costantemente l’effetto che produceva­
no le mie parole e le mie azioni. Cercavo continuamente di mettermi
al posto di colui con cui parlavo: che cosa avrei provato se lui mi
avesse detto le parole che stavo dicendogli? Costantemente, senza so­
sta, mi tenevo sotto controllo.
Questo continuo osservarmi mi portò innumerevoli tesori: a poco
a poco imparai a conoscere l’universo magico del subconscio e della
coscienza, riconobbi le varie manifestazioni della forza unica negli
istinti più bassi fino al Sé spirituale più elevato, compresi che possia­
mo scegliere se identificarci con i nostri istinti oppure restame padro­
ni, ovvero restare noi stessiì Imparai che l’uomo libero è solo colui
che controlla e padroneggia i propri istinti e che non diventa schiavo
delle sue passioni, delle sue voglie, dei suoi desideri.
Oltre a questa auto-analisi, continuavo i miei studi di psicologia e
di filosofia, senza per questo trascurare l’incisione su legno né il
piano; l’attività artistica è un’ottima occasione per immergersi in se
stessi e riflettere su ogni sorta di problema.
Un giorno ricevemmo la visita di un critico d’arte che guardò i
mobili che avevo scolpito; sopra il nostro letto c’era un fauno che
suonava il flauto, e l’esteta mi chiese se avessi cominciato col fare un
modello di creta; gli risposi che non sapevo modellare la creta, e che
avevo scolpito la figurina direttamente nel legno.
«Ho semplicemente tolto il legno superfluo» gli dissi.
«Ha studiato anatomia?» chiese ancora.
«No, ho studiato musica; non mi era possibile seguire due accade­
mie nello stesso tempo.»
Guardò ancora un attimo le mie incisioni, poi disse:
«Peccato che non faccia scultura!»
«Senza l’occasione di perfezionarmi, resterei per sempre una di­
lettante, e questo non mi piacerebbe affatto; non posso più frequenta­
re l’Accademia di Belle Arti perché sono sposata, ho un bambino, e
non voglio trascurare la mia famiglia!»
«Aspetti un attimo — disse — cercherò di convincere il direttore
a permetterle di frequentare, a titolo eccezionale, solo i corsi di scul­
tura; d’altronde, del resto, lei non ne ha bisogno: credo di poterla far
98 Elisabeth Haich

accettare come allieva straordinaria.»


Fu così che diventai una studentessa dell’Accademia di Belle Arti,
e poi discepola del nostro più grande scultore dell’epoca; quando mi
presentai da lui, mi guardò attentamente, mi scrutò in volto e, sorpre­
so, mi disse:
«Interessante! E la prima volta che vedo occhi egizi in un essere
vivente! Lo sapeva di avere occhi egizi?»
«No — risposi — non so neppure la differenza tra gli occhi comu­
ni e gli occhi egizi.»
«L’apertura degli occhi egizi si estende in lunghezza di lato; è per
questo che le palpebre sono posizionate in modo diversissimo dalle
razze occidentali... Se guarda un quadro, può riconoscere immediata­
mente, grazie a questa caratteristica, se si tratta di un’opera egizia o
no; ma non avrei mai pensato di poter vedere quegli occhi in una
persona viva, giacché gli Egiziani di oggi non li hanno più così. Li si
vede soltanto più in pittura o in scultura, così è anche per il cranio
allungato, tipicamente egizio... Ma da chi ha preso quegli occhi?»
Sorrisi educatamente:
«Non lo so, Maestro; può essere un carattere atavico?»
Mi sorrise e mi affidò il mio primo lavoro...
Passò un anno, e poi in uno studio in cui lavoravo (lavoravo in
parecchi studi) venne il Maestro e disse:
«D’ora in poi, non mi deve più alcun onorario; se non ha un
laboratorio, può usare questo: può lavorarci liberamente come artista
indipendente: non ha più bisogno dei miei consigli, ma solo di pratica
per potersi esprimere sempre meglio attraverso la scultura.»
Lo ringraziai di quella sua gentile offerta. A casa avevo uno stu­
dio in cui avevo già esposto diverse volte, sicché continuai lì il mio
lavoro; ma quel professore rimase nostro amico, e di quando in quan­
do veniva a constatare i miei progressi.
Era un’attività che mi rendeva felice, davvero, perfettamente feli­
ce: ero in estasi. Mentre scolpivo l’universo esterno ed il tempo ces­
savano di esistere, non sentivo più alcun desiderio fisico, né la fame
né la sete, dimenticavo interamente la mia persona. Notai che
un’energia nutriva i miei nervi quando mi concentravo totalmente,
una forza dagli effetti benefici sia per il mio corpo che per la mia
mente. Spesso, mentre ero interamente dedita al mio lavoro, mi acca­
deva di riconoscere una verità senza alcun rapporto con ciò che stavo
facendo: fu così che ricevetti risposta a problemi che mi ponevo, a
interrogativi filosofici, psicologici o altro. In quei precisi momenti
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 99

restavo immobile, con lo scalpello in mano, ad osservare con gli


occhi spirituali la nuova verità rivelata. Avevo l’impressione che la
mia testa fosse salita oltre il soffitto, per emergere nella camera del
piano di sopra; guardai quel nuovo universo e vi scoprii tutti i tesori
che nascondeva. Quei lampi di ispirazione si ripeterono sempre più
sovente, non soltanto mentre scolpivo o suonavo il piano, ma soprat­
tutto quando mi concentravo specialmente su qualcosa.
Una sera feci una strana esperienza, non durante il lavoro questa
volta, ma quando stavo per addormentarmi.
Mio marito ed io avevamo l’abitudine di leggere un po’ prima di
addormentarci, nei nostri letti gemelli; ciò accadde anche quella sera,
dopodiché gli dissi:
«Sono stanca. Buonanotte!»
Spensi la lampada sul mio comodino, mi distesi comodamente e
chiusi gli occhi. Sì, avevo chiuso gli occhi, ma continuavo a vedere
tutto dentro la camera ! Ad occhi chiusi, vedevo tutto ciò che si trova­
va nella camera, compreso mio marito che girava le pagine del libro.
Aprii subito gli occhi per vedere se era proprio ciò che stava facendo,
o se tutto questo fosse soltanto una mia proiezione “interiore”... Ma
no, i suoi movimenti erano proprio quelli che avevo visto. Chiusi di
nuovo gli occhi e constatai che vedevo ancora tutto. Sorpresa, mi misi
a sedere, mi guardai intorno con gli occhi ancora chiusi e vidi tutto
ciò che poteva essere visto!
Una cosa, tuttavia, era strana: non vedevo le cose in modo plasti­
co, a tre dimensioni, ma trasparenti, come trasparenti sembravano
essere le mie palpebre, e piatte come un negativo fotografico, come
una radiografia ma molto più precisa. Ad esempio vedevo la macchi­
na da cucire attraverso il suo coperchio di legno, i quadri sulla parete
della camera adiacente attraverso la porta chiusa, gli abiti nell’arma­
dio e tutti i miei oggetti personali in disordine sulla mia scrivania.
Avevo l’impressione di vedere le cose una dietro all’altra.
Mio marito osservò per un attimo le mie manovre e mi disse:
«Perché giri la testa a destra e a sinistra tenendo gli occhi chiusi?»
Eccitatissima, gli spiegai che vedevo tutto anche con gli occhi
chiusi; ne fu molto sorpreso e mi mise alla prova chiedendomi quante
dita stesse alzando e facendo altri piccoli esperimenti simili. Dentro
al suo corpo, vedevo il suo scheletro ed anche i suoi organi, uno
dietro l’altro; era strano, e il mio innato senso dell’umorismo mi fece
scoppiare a ridere, perché vedere mio marito così trasparente era
davvero molto comico!
100 Elisabeth Haich

Finalmente ci addormentammo; come sempre dormii tranquilla,


ed il giorno dopo ripresi a vedere normalmente con gli occhi aperti!
Quello strano fenomeno non si ripetè più per molto tempo. La scultu­
ra mi assorbì di nuovo completamente.
Comunque, non trascuravo i miei studi di psicologia: le persone
che venivano a consultarmi per discutere dei loro problemi erano
sempre più numerose, e fu così che acquisii molte nozioni di pratica.
Gli anni passarono, con inverni dediti al lavoro, estati in riva al
lago, godendo delle bellezze della natura e della vita famigliare.
CAPITOLO XIX

Visioni
Vi fu un periodo in cui ricevetti una quantità davvero straordinaria
di visioni in stato di veglia, alcune delle quali così incredibili da
esercitare una fortissima influenza su di me e sul resto della mia vita.
Ecco le più importanti.
Alla fine di ogni estate mio marito ed io facevamo un viaggio in
vari paesi; un anno, ci fermammo nelle Dolomiti al ritorno dall’Italia
per fare qualche passeggiata. Fu lì, che ebbi una delle visioni più
impressionanti.
Una sera, rientrando in albergo dopo una camminata faticosa, mi
sdraiai. Durante il giorno il sole era stato talmente forte che mi sem­
brava che i suoi raggi, come lance, mi trapassassero la schiena ed il
cuore; le immani pareti rocciose rossastre li riflettevano moltiplican­
doli per mille, e l’atmosfera aveva qualcosa di demoniaco; tutto era
infuocato, sembrava quasi l’anticamera dell’infemo. Ero stata molto
contenta di prendere la via del ritorno e di vedere quel sole, un vero
lanciafiamme, scomparire all’orizzonte.
Andai a letto di buon’ora, pronta ad addormentarmi, ma fu allora
che ebbi la sensazione che il soffitto stesse cadendo su di me e che io
stessi cadendo in un vuoto senza fondo, nel nulla, come se stessi per
morire. Mio marito chiamò d’urgenza il medico, il quale constatò che
avevo avuto un attacco cardiaco. Mi fece un’iniezione. La notte tra­
scorse, ma il mio polso era ancora debole ed ero torturata da una
sensazione di annientamento. Stavo imparando che cosa fosse la pau­
ra di morire. Come sempre, e malgrado le circostanze, mi osservavo e
dovetti riconoscere che la paura della morte era una condizione fisica;
nella mia coscienza ero calma, non avevo alcun timore della morte, e
tuttavia provavo davanti ad essa una spaventosa angoscia: era insop­
portabile! Non ero più completamente in questo mondo, e non ancora
102 Elisabeth Haich

nell’altro; fluttuavo nel nulla. La sofferenza era così intensa che pen­
savo: meglio morire subito che continuare ancora questa tortura. Ab­
bandonavo la lotta, perché desideravo entrare coscientemente nella
morte al fine di liberarmi da quella paura di morire...
Ma proprio quando mi preparavo a scivolare consciamente in quel
nulla - di cui avevo tanta paura - lo spazio si aprì d’un tratto sull’infi­
nito che i miei occhi contemplarono sbalorditi: vidi un sentiero, un
sentiero lunghissimo in fondo al quale, al di là di tutto ciò che è
materiale, già neH’etemità, c’era una figura maschile di una luce ab­
bagliante che tendeva le braccia in un gesto d’amore ineffabile. Sem­
brava infinitamente lontano da me, il suo volto brillava ed irradiava
con tale intensità che non potevo discemere i tratti, ma sapevo che era
il Salvatore del mondo.
Lungo la strada avanzavano lentamente creature simili a uova, che
mi facevano pensare ad un gregge di pecore visto dall’alto. Ero lì in
piedi, all’inizio di quel sentiero, ed indicavo a quegli esseri quale
direzione prendere: essi si dirigevano quietamente verso la figura di
luce che li attendeva a braccia aperte. Coloro che Lo raggiungevano si
fondevano nella sua luce e scomparivano. Quella strada così lunga
era come un fiume incessante di creature ovali, che sapevo essere
anime umane. Instancabilmente mostravo il cammino a tutti coloro
che passavano, mettendo tutte quelle anime sulla buona strada...
Questo mi fece capire che non stavo per morire, giacché quel
lavoro era ancora da sbrigare, e che non sarei morta prima di averlo
compiuto. Sapevo che quella missione sarebbe stata di lunga durata, e
che sarebbe passato molto tempo prima che il mio orologio cosmico
suonasse l’ora della partenza verso la mia patria di luce, dove l’amore
eterno mi attendeva...
Una pace infinita mi avvolse, ed il mio cuore riprese a funzionare
normalmente, sebbene ancora debolmente. Guardai il volto preoccu­
pato di mio marito: dal momento che potevo di nuovo muovere la
lingua, gli dissi piano che andavo meglio. Quel caro ragazzo pianse
come un bambino, felice di sentirmi parlare e di rivedere la luce nei
miei occhi.
Dovetti rimanere a letto ancora un giorno, dopodiché potemmo
ritornare a casa. Poco tempo dopo tutto era di nuovo nella normalità.
D’estate, in riva al lago, ero sempre più ricettiva rispetto alle
visioni, sempre più sensibile ai messaggi telepatici emessi o ricevuti.
Un giorno di vacanza, dopo una giornata allegra, andammo a
dormire. La casa era immersa nella calma, e mi addormentai vicino a
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 103

mio marito. Cominciai a sognare ogni sorta di cose, senza alcun ordi­
ne e apparentemente senza rapporto tra loro, quando, nel mio sogno,
udii passi lenti e strascicati che mi risvegliarono di colpo... sì, eviden­
temente mi ero assopita seduta su un gradino, e dal momento che
nessuno era passato da quelle parti, non avevo potuto chiedere la
carità. Ma il rumore di passi mi aveva risvegliata, qualcuno si avvici­
nava, ero all’erta, con gli occhi spalancati.
Constato dunque che questi passi appartengono ad un vecchio
curvo che finisce col sedersi proprio in faccia a me; la scalinata
collega la città alta ai quartieri più bassi. Dal momento che molti
funzionari della città e dello Stato lavorano lassù, ogni giorno quel
passaggio viene attraversato da migliaia di persone, ed è un posto
molto piacevole per me; una tettoia mi protegge dalla pioggia e le
entrate sono buone. Ho “i miei clienti regolari” che mi fanno l’elemo­
sina ogni giorno, andando al lavoro. Chi è dunque quel vecchio im­
pertinente che viene a mendicare proprio in questo posto? Ne avrò un
danno, perché la gente non fa l’elemosina a due mendicanti. Prenderò
la metà del solito. Lo squadro, sto per dirgli di andarsene a mendicare
altrove, perché qui è il mio posto, e che deve andarsene subito quan­
do, nel guardarlo, provo un senso di incertezza... Lo fisso e mi sento a
disagio... vedo che anche lui è imbarazzato, che abbozza un movi­
mento, come a voler fuggire, ma ormai è troppo tardi: lo riconosco,
lui mi riconosce. Oh! Misericordia, non abbandonarmi! Lui è colui
che ho cercato per tutta la vita, che mi ha abbandonata e che non ho
mai potuto dimenticare... Ed ora eccolo di fronte a me, anch’egli
mendicante... Perché, perché dobbiamo ritrovarci in questa situazio­
ne?
Lo guardo, lui e quel suo volto vecchio e rugoso, con la pelle
flaccida, le labbra cadenti, i radi capelli e la barba incolta, gli abiti
composti da vecchi stracci spaiati e laceri. Che cosa è accaduto al
giovane cavaliere elegante che era stato un tempo? Anche lui mi
guarda con spavento, cosciente del suo errore, pieno di vergogna. Il
suo volto si torce in una smorfia e comincia a piangere silenziosa­
mente. Quando solleva le mani per asciugarsi gli occhi, vedo che
sono callose, ricoperte di ferite, con le unghie lunghe e sporche e dita
ripugnanti, irrigidite dalla gotta. Oh, quelle sue mani un tempo così
belle, così eleganti ed accurate, che avevo baciato con tanto fervore...
Guardo le mie mani... Che orrore!... Sono trascurate ed invecchia­
te quanto le sue, mi vedo le dita deformate dalla gotta, piene di ferite
anch’esse... da quanto tempo sono così orride, queste mie mani? Non
104 Elisabeth Haich

lo so! Non ho mai pensato di guardarmele. Fino a questo momento ho


vissuto come una sonnambula, ma ora mi sembra di svegliarmi, come
se stessi uscendo dalla nebbia densa ed impenetrabile che ha avvolto
la mia coscienza. La nebbia si disperde e tutto diventa chiaro: vedo
tutta la mia vita, il mio posto fra coloro che mi hanno trattata come
una selvaggia, senza amore, senza compassione. In quello stato di
semi-coscienza avevo tollerato ogni cosa: le percosse, la cattiveria, la
derisione della gente della fattoria che mi prendeva in giro per le mie
imperfezioni e per la mia goffaggine. In quelle condizioni, come avrei
potuto preoccuparmi delle mie mani e, in generale, del mio aspetto?
Quando ero giovane, a volte cercavo i rendermi graziosa per piacer­
gli e mi mettevo dei nastri colorati fra i capelli; ma dopo aver perso
lui e la bambina, tutto mi era diventato indifferente, e non mi era più
neanche venuta l’idea di guardarmi allo specchio. Non mi preoccupa­
vo più dell’aspetto delle mie mani, ma soltanto dell’elemosina che
qualcuno vi deponeva. Sì, ora che tutto si fa chiaro nella mia mente,
ricordo che certe persone si ritraggono bruscamente dopo avermi teso
una moneta d’argento per evitare che le loro dita tocchino le mie...
Ora comprendo tutto! Mi ripugna vedermi le mani così vecchie, vede­
re i miei laceri stracci, sporchi e puzzolenti... E come sarà il mio
viso? Oh, se un tempo lui non mi avesse abbandonata con tanta
crudeltà, oggi non saremmo a questo punto, e non avrei perso la
bambina... Perché? Perché le cose sono andate in questo modo, e
perché dobbiamo incontrarci di nuovo, proprio alla fine? La vita è
finita, a nulla possiamo porre riparo, a nulla! È finito tutto, è troppo
tardi... troppo tardi...
Mi sento invadere da una stanchezza infinita e mi immergo nella
più profonda disperazione: un dolore atroce mi lacera interamente,
sento il cuore che mi si spezza... poi tutto si oscura davanti ai miei
occhi, tutto scompare e io cado nel nulla...
Qualcuno geme, rantola, ansima... lo sento, e voglio sapere chi è...
a poco a poco toma la luce, ed incontro lo sguardo carico di angoscia
di mio marito. Mi rendo conto, allora, che sono io che lotto per
respirare: mi metto a sedere, e quando comprende che lo riconosco,
mi scuote, con un sospiro di sollievo, e ancora spaventato mi chiede:
«Cosa succede? Ti senti bene? Mi hai fatto paura! I tuoi gemiti mi
hanno svegliato, eri seduta e mi guardavi con gli occhi spalancati ma
senza vedermi. Che cos’hai? Che succede? Rispondi!»
Lo guardo, desiderando rispondergli, ma nessun suono mi esce
della bocca. Sono ancora paralizzata dall’orrore. A poco a poco mi
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 105

riprendo fino ad articolare con molta difficoltà:


«Non ora, adesso non posso. Domani.»
Mio marito non insiste, ed io ricado sul cuscino. Mi prende la
mano nella sua e quando vede che, a poco a poco, mi calmo, ancora
una volta mi rivolge uno sguardo interrogativo e poi spegne la luce.
Il giorno seguente, al mattino, ci sedemmo tranquillamente in
giardino, e riuscii allora a raccontargli che cosa era successo durante
la notte, quella mia strana visione.
Ero stata una mendicante che in quel momento si era ricordata di
tutta la sua vita, e quella mendicante ero io. Mi ricordavo tutto ciò
che io avevo vissuto quando ero stata quella donna: era la mia vita
che, improvvisamente, si era risvegliata, rivelandosi alla mia coscien­
za:
«Ero una bambina abbandonata a se stessa, e vivevo in una grande
proprietà. Non avevo un padre, o piuttosto non mi ricordo di aver mai
avuto né padre né madre. Nella casa padronale e nella fattoria c’era
molto personale, fra cui un cocchiere che si occupava dei cavalli, dei
servi addetti al taglio del bosco e alla cura dei cani da caccia, una
cuoca che regnava in una grande cucina e una folla di giovani serve
che lavoravano dappertutto. In quella fattoria io ero cresciuta facendo
ogni sorta di lavori; da adolescente ero riuscita ad entrare nella casa
dei padroni della quale, stando a quanto mi avevano detto le camerie­
re, sapevo trattarsi di una casa immensa, con moltissime camere, tutte
bellissime. Fino ad allora non avevo avuto il permesso di entrarci,
perché l’entrata era riservata a chi possedeva le scarpe, ed io non ne
avevo: ero una serva “esterna”. Le camere davano su un corridoio
lunghissimo che dovevo tener pulito, per cui portavo l’acqua del poz­
zo in una grossa bacinella, mi inginocchiavo e, con una spazzola,
fregavo le piastrelle colorate del corridoio. Ancora oggi rivedo quelle
piastrelle così vicine al mio volto, rivedo come mi inchinavo per
fregarle, una fila dopo l’altra, fregare, sempre fregare quel corridoio
infinito... e quando era pulito, bisognava pulire quello del piano supe­
riore! Passavano i giorni, i mesi, gli anni, ed io continuavo a lavare e
a fregare le stesse piastrelle. Ma ero contenta: c’erano poche cose
nella mia mente, tutto era avvolto nella nebbia. Amavo i colori, e le
piastrelle che dovevo pulire erano colorate! Come ricompensa, rice­
vevo il cibo ed il permesso di dormire in un bugigattolo sopra la
scuderia; nel cortile della fattoria, spesso restavo ad ammirare i caval­
li e le carrozze degli ospiti dei miei padroni i quali, invece, entravano
dalla porta principale. I cocchieri si prendevano cura del tutto, portan­
106 Elisabeth Haich

do le carrozze nel cortile, staccandone i cavalli, e facendoli cammina­


re in cerchio per un po’ prima di condurli nella scuderia. C’erano
sempre molti invitati in occasione della caccia, ed il corridoio era
sempre sporco: gli uomini entravano con gli stivali incrostati e, prima
che si alzassero, dovevo pulirlo tutto.
Un giorno nel cortile entrò un bellissimo giovanotto per riprender­
si il cavallo: andò nella scuderia, lo fece sellare, salì in groppa e
scomparve. Io, che mi ero trovata nel cortile insieme a lui, l’avevo
trovato affascinante, così bello... ma non mi aveva neppure guardata.
Lo ammiravo come se fosse stato Dio Padre in persona e quando, la
notte seguente, venne da me, fui così felice, così stregata dalla sua
presenza, che gli lasciai prendere di me esattamente tutto ciò che
voleva. Il suo volto era raggiante nella densa nebbia della mia mente
e, fra le sue braccia, passai dei minuti meravigliosi...
Veniva spesso per la caccia, sicché la mia vita si divise in giorni
felici e in giorni grigi, in attesa del suo ritorno.
Un anno dopo nacque una bambina e la cuoca, alla quale avevo
chiesto aiuto, mi assistette. Allora, non avevo alcun idea di ciò che
stesse succedendo, e soltanto quando mi mise la piccola fra le brac­
cia, dopo le torture del parto, sentii un calore nel cuore: per la prima
volta in vita mia ero felice. Qualcuno aveva bisogno di me, qualcuno
per cui io ero tutto\ La cuoca andò a raccontare la storia alla padrona,
la quale venne a trovarmi, mi guardò, contemplò la bambina e mi
autorizzò a tenerla con me. Promisi che avrei lavorato ancora di più,
purché mi lasciassero la mia bambina. Quando il padre della piccola
fu nuovamente ospite dei miei padroni e venne da me durante la
notte, fui felice di mostrargli la bambina: lo pregai di prendermi con
lui per poter lavorare nella sua casa, nella sua fattoria e servirlo, ma
dopo un moto di spavento disse che non era affatto certo di essere lui
il padre.
«Chissà — disse — qualsiasi servo di questa fattoria può esser­
lo!»
Mi difesi da quell’accusa con tutta la forza della disperazione,
spiegandogli che soltanto lui mi era stato vicino, e che nessun altro
mi aveva mai toccata. Lo supplicai invano di lasciarmi vivere accanto
a lui, nella sua ombra, senza disturbarlo, di lasciarmi lavorare per lui:
per un attimo parve ascoltarmi, ma quando mi inginocchiai per ba­
ciargli le ginocchia, mi respinse ed uscì bruscamente. Non lo rividi
mai più. Se fu ancora ospite dei miei padroni, non lo seppi mai;
comunque non tornò più nel cortile e lo attesi invano per lunghi anni.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 107

Era scomparso dalla mia vita. Mi era rimasta la bambina, e per me era
tutto: riempiva tutti i miei pensieri, era la mia stessa vita!
Fregavo le piastrelle del corridoio e pensavo alla mia bambina,
prendevo l’acqua al pozzo e pensavo alla mia bambina... lavoravo in
fretta per tornare presto da lei; era una ragazzina bella ed intelligente,
come suo padre, ma faceva sempre il contrario di ciò che le dicevo e
non sopportava alcuna contraddizione. Più diventavo la sua schiava, e
meno era gentile con me. Fin da piccola, mi mancava di rispetto e mi
disprezzava, e nulla di ciò che dicevo o facevo le andava mai a genio:
le piaceva andare in giro dappertutto e, a volte, si allontanava così
tanto che ritornava soltanto il giorno dopo. Questo mi faceva dispera­
re e dovevo andarla a cercare, ma non appena ritornava la mia vita
riprendeva senso.
Un giorno partì e non tornò più, mai più: la cercai ovunque,
l’aspettai, la cercai ancora: niente, era scomparsa. Non riuscii più a
lavorare, annientata dal dolore: il sole non esisteva più, il mondo era
svuotato. Non ce la facevo più, sicché lasciai la fattoria per continua­
re a cercarla, e mi spostai da un posto all’altro sempre chiedendo a
tutte le persone che incontravo se l’avessero vista. Gli anni passava­
no, ed io cercavo ancora, ma senza più speranza, unicamente sospinta
dall’agitazione interiore. La gente mi dava da mangiare e, quando i
miei abiti erano laceri, mi regalavano altri stracci. Vagabondavo, er­
ravo sempre più lontano...
Attraversando una città, un giorno incontrai la cuoca che, nel
frattempo, si era sposata e si era trasferita lì con il marito; mi portò a
casa, mi rimise in sesto, e mi raccontò che il padre della bambina...»
A questo punto, mio marito mi prese la mano, mi interruppe. Era
pallido, e con la voce tremolante mi disse:
«Aspetta un attimo! La continuo io, questa storia! So com’è anda­
ta a finire, mi ricordo ciò che accadde ! Mentre raccontavi, d’un tratto
si è fatta luce nella mia mente e mi sono riconosciuto: so di essere
stato l’uomo che ti abbandonò a quel tempo, so di aver agito in modo
frivolo ed irresponsabile allora, perché vivevo solo per divertirmi;
sprecavo i soldi, e un giorno persi tutto ciò che possedevo: la proprie­
tà della mia famiglia venne venduta all’asta e dovetti abbandonare le
mie terre ed il mio castello. Dapprima andai a casa di certi miei amici
dissipati che mi aiutarono a dilapidare ciò che avevo ereditato, e
qualche settimana dopo mi fecero capire che ormai ero di troppo.
Quell’esperienza si ripetè finché un amico vero mi consigliò di cer­
carmi un lavoro, cosa che feci perché volevo cominciare una vita
108 Elisabeth Haich

nuova: ma nessuno mi prese sul serio, anche perché non sapevo lavo­
rare e non sapevo nemmeno che cosa volessi fare. Cadevo sempre più
in basso, finché si fece strada in me un’idea: la mia disgrazia era la
punizione inflittami da Dio per averti abbandonata con la bambina.
Mi recai quindi dai miei amici di un tempo presso i quali lavoravi per
sapere ciò che era accaduto di voi, ma non ti trovai e nessuno seppe
darmi informazioni... Continuai per la mia strada, incontrando sempre
meno amici disposti a prestarmi un po’ di soldi, finché arrivarono a
rifiutarmi anche l’ospitalità. Cominciai quindi a chiedere aiuto a per­
fetti estranei, diventando un vagabondo. A volte qualcuno aveva pietà
di me e mi lasciava passare la notte nella scuderia o nel fienile. L’età,
la fame, la decrepitezza, mi condussero in quella città in cui, mendi­
canti, dovevamo incontrarci ancora una volta.»
Lo ascoltavo con grande interesse, perché sapevo che diceva il
vero; avevo riconosciuto subito mio marito in quel mendicante. Era
proprio quanto mi aveva raccontato la cuoca: aveva dilapidato tutti i
suoi beni ed era ritornato una volta dai nostri padroni, molti anni
dopo, ma non era più l’uomo elegante di un tempo; anzi, lo aveva
trovato molto trascurato nel vestire, e indossava abiti consunti. Dopo
aver lasciato la cuoca, mi ero recata in quella proprietà per chiedere il
suo indirizzo, ma nessuno sapeva dove potesse essere. Avevo quindi
continuato a vagabondare, ma l’età si era fatta sentire, ed avevo deci­
so di fermarmi in quella città, stabilendomi a mendicare lungo la
scalinata. Era E che avevo ritrovato colui che avevo tanto cercato,
proprio nel momento della morte, in quei pochi istanti in cui mi era
stato dato di riconoscere il totale fallimento della mia vita, in cui non
avevo alcun modo di riparare quanto avevo compiuto. Era troppo
tardi... troppo tardi... la bambina era scomparsa... la vita era finita...
ed io ero morta, seduta su un gradino. Là si fermavano i miei ricordi.
Ci guardammo senza dire una parola, senza capire come una simi­
le cosa fosse potuto accadere a due persone moderne ed intelligenti.
L’esperienza che avevamo appena vissuto non poteva spiegarsi con le
teorie più accreditate sull’ereditarietà e sulla psicologia: sapevamo
che tutto questo era davvero accaduto ! E non si trattava della nostra
immaginazione.
Eravamo molto scossi. Mio marito mi disse:
«Non mi ero mai preoccupato di sapere perché, fin dall’infanzia,
mi ero sempre tenuto rigorosamente lontano dall’alcool, dalle carte, o
da qualsiasi gioco d’azzardo, dalla danza e dai piaceri mondani. Ora,
tutto è chiaro: dopo aver buttato via una fortuna e vissuto in una tale
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 109

miseria, il principio morale di non giocare, non bere, e non essere


frivolo si era impresso sempre più profondamente nella mia coscien­
za. Ho imparato qual è il valore dei soldi, cosa di cui non avevo
alcuna idea; ho riconosciuto che un uomo ha valore soltanto quando
può assicurare una vita decente a se stesso e ai suoi. Tutte queste
cose erano nascoste nel mio inconscio, ed ora capisco perché ho
avuto la forza di oppormi ai miei compagni di università quando
volevano trascinarmi nelle loro distrazioni. Avevo sempre paura che
qualcosa di terribile potesse accadermi se mi fossi lasciato andare a
ballare o a divertirmi. Ora so che avevo paura della spaventosa mise­
ria nella quale la mia vita dissipata di allora mi aveva fatto cadere.
L’idea di non dover più bere né giocare veniva dal mio subconscio.»
«Sì — risposi — ed il fatto che tu non abbia mai lavorato allora
spiega il tuo zelo ed il tuo senso del dovere, davvero esagerati, di
oggi!»
«Evidentemente; nella seconda metà di quella vita avevo già volu­
to lavorare, ma siccome non avevo imparato nulla, non potevo sapere
che cosa significasse lavorare. Ecco perché nessuno mi aveva preso
sul serio quando mi ero messo a cercare lavoro. Più tardi, qualcuno
aveva avuto compassione di me e mi aveva affidato dei lavoretti quali
tagliare la legna, caricare un carro, raccogliere l’uva o battere tappeti;
e mentre le mie mani maldestre penavano, mi cresceva dentro il desi­
derio di imparare, di essere abile, di sapere; ecco perché in questa
incarnazione ho imparato tutto ciò che mi è stato concesso di impara­
re e non smetterò mai di apprendere fino alla fine della vita.»
Quando disse “fino alla fine della vita”, una mano di ghiaccio mi
strinse il cuore: dove saremmo, il bambino ed io, alla fine della sua
vita? La paura mi paralizzò... Una legge della natura dice che se col­
pisco un muro con la mano, a sua volta il muro mi colpisce senza
volerlo! Non è il muro a colpirmi, ma il mio stesso colpo che si
ripercuote. Se colpisco qualcosa, questo qualcosa, a sua volta, deve
sempre rendermi il colpo... No! Non voglio continuare fino in fondo
questo ragionamento: non vogliamo abbandonare quest’uomo, no...
no... no!...
Preferivo pensare alla relazione fra quella mia passata incarnazio­
ne e quella che ero nella mia vita attuale; perché, allora, avevo avuto
una mente tanto debole e, senza transizione, ora avevo tutti questi
talenti e queste mie facoltà? Non c’era nessuna spiegazione.
I giorni seguenti ci videro ancora scossi, ma ritornammo presto
sul lago con i vicini, a fare il bagno con i bambini. A poco a poco, i
110 Elisabeth Haich

ricordi di quella vita si cancellarono. Eravamo entrambi persone di


buon senso e non volevamo perdere tempo preoccupandoci di cose
passate; d’altronde mio marito dovette assentarsi pochi giorni dopo
perché le sue vacanze erano finite, ed io rimasi con le mie sorelle,
mio fratello e i bambini.
Tutta la zona circostante è di origine vulcanica, e probabilmente le
sue radiazioni esercitavano un influsso su di me per cui ero più ricet­
tiva alle visioni. Cerco sempre una spiegazione naturale agli eventi.
Non avevo mai creduto ai fantasmi né ai demoni e, quando qual­
cuno mi raccontava storie di apparizioni notturne qui o là in un vec­
chio castello, sorridevo come fanno tutti gli ignoranti, dicendo a me
stessa che quella gente aveva una ben fertile immaginazione. Questo
significava che non immaginavo davvero di poter vivere esperienze
di quel tipo, anche perché volere immaginare visioni di quel genere è
un esercizio che non riesce mai. E proprio quando si è occupati in
N

tutt’altro che la visione sorge, bruscamente.


Dopo la partenza di mio marito, quella stessa estate, una sera
entrai nella camera in cui mio figlio dormiva profondamente, mi cori­
cai e spensi la candela (non avevamo ancora l’elettricità) prima di
addormentarmi.
Non so quanto a lungo dormii, ma ad un certo momento mi risve­
gliai di colpo udendo un rumore, come se qualcuno camminasse nella
stanza. Presi un fiammifero, accesi la candela... e l’istante dopo mi
precipitai su una spaventosa apparizione che stava già portandosi via
mio figlio. Era una figura femminile, simile alla rappresentazione
tradizionale delle streghe. Sorpresa dalla luce, cercò di scappare dalla
finestra lasciandosi scivolare lungo una corda tesa che partiva dal
letto. Mi lanciai su di lei e presi il bambino che anch’essa non inten­
deva mollare. Fra di noi iniziò una lotta terribile: la strega era già
avanti lungo la corda (sembrava legata a questa corda che emanava
da lei come una corrente di energia che l’alimentasse) ma non potè
proseguire perché mi aggrappai al bambino, volendo riprenderglielo
ad ogni costo. Ma anche lei lo voleva! Il bambino fu tirato a destra e a
sinistra, poi la mia intuizione mi fece capire che avrebbe dovuto
scomparire senza di lui se, nel frattempo, non avesse potuto portarme­
lo via. In quell’aspra lotta, mi aggrappai disperatamente e con tutte le
forze al piccolo che la strega tentava di portarmi via con altrettanta
violenza. D’un tratto, senza preavviso, mollò la presa, scivolò lungo
la corda e scomparve nel buio.
Ed io? Io stavo in ginocchio sul letto; il bambino dormiva accanto
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 111

a me, quieto, immerso in un sonno profondo e calmo. Ma la candela


era accesa... Avevo sognato? Avevo forse dimenticato di spegnerla
prima di addormentarmi? Ma no, il fiammifero era ancora caldo e
provava che me ne ero appena servita, e che quella scena si era svolta
con estrema rapidità. Altrimenti, il fiammifero non avrebbe potuto
essere ancora caldo! Dunque, non avevo sognato.
Soffiai di nuovo sulla candela, mi sdraiai e tentai di calmare il
cuore che pulsava frenetico. Che cosa voleva dire? Una strega? Forse
esistevano davvero? Perché gli artisti le rappresentavano ovunque con
le stesse caratteristiche, e dove avevano trovato quell’immagine? Co­
m’era possibile che ci fossero delle “streghe” e perché la gente le
rappresentava nell’atto di volare sul manico di una scopa? Com’era
possibile che in tutto il mondo si rappresentassero le streghe con le
stesse caratteristiche se erano soltanto il frutto dell’immaginazione?
Perché non disegnarle, per esempio, con un piede caprino, come il
diavolo? E come potevano sapere con certezza che il diavolo avesse il
piede caprino e la strega invece no? Chi ha mai visto un diavolo o
una strega? Perché la raffigurano con un manico di scopa in mano?
La strega che avevo visto teneva in mano un filo, una corda o qualco­
sa di simile, e quando se n’era andata avrei potuto credere che fosse
salita su un manico di scopa. Era facile capire come semplici contadi­
ni, ignorando ogni cosa sulle correnti di energia, potessero interpreta­
re tutto questo come un manico di scopa. La strega era la serva
incarnata del “male”, questo lo sapevo. Insomma, era una realtà, un
fatto! Che tutta la scena fosse una proiezione, anche questo lo sapevo
benissimo: ma che cosa l’aveva causata? Da dove veniva, e perché
proprio quell’immagine!
Per me, tutto questo era stato reale ed il fatto interessante era che
tutti quelli che avevano visto quel tipo di proiezione, di fantasmago­
ria, o comunque la si volesse chiamare, l’avevano descritta allo stesso
modo. Com’era possibile che avessimo tutti quella stessa immagine
nel nostro inconscio, posto che derivasse dall’inconscio? Si sarebbe
potuto dire che avevo già visto disegni di streghe, e quindi spiegare
quella proiezione, ma non era il mio caso. Sebbene quella strega
presentasse lo stesso aspetto di tutte quelle che avevo visto, c’erano
state differenze ben chiare che mi avevano lasciata sorpresa.
E quella buffa corda, di dove veniva? Non avevo mai visto niente
di simile su nessun disegno, eppure si era trattato di una corda. Su
questo punto avevo un’opinione personale, generata dalle esperienze
di trasmissione del pensiero; secondo me, si trattava di una corrente
112 Elisabeth tìaich

di energia... o forse di una corrente di volontà? Ma da dove veniva?


Da chi emanava? E se una corrente di energia poteva essere vista
come qualcosa di materiale, la forma della strega non poteva essere
soltanto tessuta da forze radianti? E noi, noi umani, che cosa siamo?
Da dove proviene questa forma umana? Non siamo forse anche noi
forme rese visibile e composte da diverse correnti di energia? Che
cos’è la “realtà”? Soltanto ciò che possiamo toccare? Noi umani, non
siamo forse anche noi proiezioni che credono soltanto di essere delle
forme? L’amore, l’odio, la speranza, la disperazione, il bene ed il
male, non sono forse realtà? Sono forme inafferrabili, invisibili che
fanno soffrire l’uomo o lo rendono felice; non sono meno “reali”
delle “realtà” tangibili.
So bene che la forma fìsica - reale - del mio bambino dormiva
tranquillamente nel suo letto mentre lottavo con quella apparizione,
così come sono certa che quella lotta abbia avuto luogo fra energie e
non fra corpi; ma che cosa vuole dire che non è stata reale? Quelle
apparizioni (il bambino e la strega) non erano forse molto più reali
della forma materiale del bambino che dormiva nel suo letto? Che
cos’è una forma reale? Soltanto la risultante ed il guscio delle forze
che compongono il corpo fisico. La forza è dunque la causa, il corpo
materiale è soltanto l’effetto. Quale dei due è più importante, più
reale?
L’esperienza che avevo appena vissuta, e che era stata perfetta­
mente reale per me, mi rimase in mente per molto, molto tempo:
avevo la prova che non si era trattato di un sogno; anche se dormendo
e sognando si può vivere una realtà assoluta!
Passarono alcuni giorni e una sera, dopo che tutti si erano ritirati
per la notte, andai a dormire nella quiete della casa. Era stata una
giornata molto calda e l’aria in camera era pesante, sicché lasciai
aperta la finestra e la porta che dava sul vestibolo. Dal letto vedevo
gli scalini che portavano al piano superiore.
Come al solito passai in rassegna tutti gli eventi della giornata,
quanto di bene o di male avevo fatto, ciò che avevo detto o non detto,
fatto o non fatto, ciò che avrei dovuto dire o non dire; giacché toccava
a me occuparmi delle faccende di casa, composi mentalmente il menù
del giorno dopo, dopodiché i miei pensieri si attardarono su argomen­
ti privi di interesse.
D’un tratto, però, la mia attenzione fu attratta da due figure strane
che, lentamente, si avvicinavano per passare davanti alla mia porta.
Avevano una forma umana di grandezza normale, ma erano del tutto
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 113

nere, come ombre, non le vedevo a tre dimensioni, anzi, avevo l’im­
pressione che fossero visibili soltanto perché assorbivano tutta la
luce nel posto in cui si trovavano. In altri termini non le vedevo, ma
vedevo soltanto il buco che facevano nella luce. In termini scientifici,
causavano un’interferenza completa nei raggi luminosi e per questo le
si poteva “vedere” soltanto perché la luce mancava nel punto in cui si
trovavano. Altrimenti, di per se stesse, sarebbero state invisibili.
E molto difficile descrivere a parole un fenomeno di questo gene­
re e compresi immediatamente perché i contadini, quando parlavano
di fantasmi o di altre apparizioni spettrali, utilizzassero la parola “om­
bra”. Quelle figure erano veramente “ombre”, ma non proiettate da
qualcosa, bensì create da un’assenza assoluta di luce. Ecco una cosa
del tutto nuova, per me.
Più tardi, mi ritornò in mente che gli astronomi conoscevano un
buco nero di quella natura, in cielo; una totale assenza di luce che
chiamavano “testa di Cavallo” a causa della sua forma, ma che non
sapevano spiegare; si trattava di un’interferenza nei raggi luminosi.
Qualcosa nell’Universo ingoiava, distruggeva la luce e noi perce­
pivamo soltanto un’ombra immensa; le due figure erano simili, e
avanzavano a passi lenti, portando un bastone sulla spalla, dal quale
pendeva qualcosa di indescrivibile, simile ad un polipo ma senza una
forma organizzata né organica. Pendeva come una massa amorfa che
si allungava per poi ritrarsi, era qualcosa di orribile, di disgustoso,
una massa purulenta, marcia e verdastra che, sapevo istintivamente,
esalava malattie, disgrazie, catastrofi e morte. Sapevo che quel mo­
stro era un concentrato di “male”. Si muoveva e si tendeva sul basto­
ne con evidenti intenzioni cattive e mi resi conto che cercava occa­
sioni e vittime per manifestare il suo atroce potere. Spaventata, vidi le
ombre dirigersi verso la camera di mia sorella: bisognava evitare ad
ogni costo che quella forza satanica causasse qualche guaio, sicché
mi sedetti sul letto e urlai con tutte le forze:
«Greta! Greta!»
Alle mie urla, le due figure d’ombra scomparvero, mentre la mas­
sa mostruosa si restrinse, trasformandosi in una palla verde fosfore­
scente non più grossa di un pallone da calcio, salì la scala un po’
rotolando e un po’ saltellando e mi urlò, con una voce carica di
disprezzo, accompagnata da una risata infernale (che non udii con le
orecchie ma che percepii perfettamente):
«Tu credi di potermi prendere? Hihihihi!»
Scivolò via dalla finestra, e svanì nel buio.
114 Elisabeth Haich

Saltai giù dal letto, mi precipitai nel vestibolo per vedere che cosa
fosse, ma in tutta la casa regnava la massima calma!
In quello stesso momento mio fratello uscì da camera sua, guardò
giù e chiese:
«Chi è là?»
Accesi una candela e risposi:
«Sono io; perché sei uscito?»
«Mi sono svegliato di soprassalto da un incubo, con l’impressione
che ci fosse per casa un qualcosa di cattivo, un pericolo; volevo
proprio vedere che cosa stesse accadendo ed ecco che incontro te: è
accaduto qualcosa?»
Mentre parlava arrivarono anche le mie sorelle, con tutto il perso­
nale e tutti mi chiesero perché avessi urlato. Raccontai loro la storia,
dopodiché passammo in rassegna tutta la casa: la porta di entrata era
ben chiusa e tutto era a posto.
In seguito pregai mio fratello di controllare la finestra di sopra:
avrebbe potuto essere stata aperta da una corrente d’aria, la luna
avrebbe potuto riflettersi nel vetro e spiegare così la palla fosfore­
scente e verdastra che avevo visto. Ma, in quel momento, la luna
illuminava l’altra facciata della casa e, dal mio letto, era impossibile
vederla o vederne il riflesso.
Non avendo trovato nulla, non ci restò altro da fare che tornare a
letto, ma per molto tempo ancora mi echeggiò nella mente la risata
demoniaca:
«Credi di potermi prendere? Hihihihi!»
Pochi giorni dopo, mio figlio si lamentò di dolori addominali; ero
certa che si trattasse di un’appendicite e andai con lui nella capitale
perché un amico di mio padre, un celebre chirurgo a capo di un
grande ospedale, gli desse un’occhiata; diagnosticò un’irritazione del­
l’appendice ma decise di aspettare l’autunno per operare. Ritornam­
mo dunque nella nostra casa sul lago, dove il bambino trascorse anco­
ra altri giorni felici, giocando con i suoi piccoli amici.
Preferirei non dover raccontare il periodo che seguì per non rivi­
vere quei momenti, ma è necessario per la comprensione di ciò che
accadde dopo.
Il bambino fu dunque operato, tutto andò bene e tornò a casa dopo
otto giorni di ospedale. Nel frattempo la figlia di mia sorella si era
ammalata, ed aveva un tenace e strano mal di gola; le fecero degli
impacchi, e un giorno notai che aveva un’eruzione rossa sul collo,
che tutti attribuirono agli impacchi umidi. Venne curata con una poi­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 115

vere particolare, ed il giorno dopo la pelle aveva di nuovo il suo


aspetto normale. Quando mio figlio rientrò dall’ospedale, fu felice di
riveder la cuginetta con cui giocò tutto il giorno ma, in seguito, inve­
ce di ristabilirsi, il piccolo divenne sempre più pallido, stanco, finché
qualche giorno più tardi cominciò ad essere debole e depresso. Misu­
randogli al temperatura, fui terrorizzata nel constatare che aveva tren­
tanove di febbre; piangeva, e il suo stato peggiorava continuamente...
e il corpo si ricoprì di pustole rosse simili a quelle che aveva avuto la
sua cuginetta. Facemmo venire il miglior pediatra che visitò il bambi­
no e chiese se, di recente, qualcuno avesse avuto la scarlattina.
«No — risposi — nessuno.»
«Nessuno ha avuto un forte mal di gola?»
Ebbi l’impressione che la terra mi si aprisse sotto i piedi.
«Sì, la sua cuginetta, che ha anche lei una simile eruzione sul
collo.»
Il professore sorrise:
«Sì, allora era proprio una scarlattina. Il bambino, uscendo da
un’operazione ed avendo meno resistenza, ha contratto una brutta
infezione, deve essere vaccinato immediatamente. Intende curarlo
personalmente?»
«Sì»
«Lei ha già fatto la scarlattina?»
«No, ma non la prenderò perché sono immune ad ogni malattia
contagiosa.»
«Non posso prendermi la responsabilità se non vaccinandovi en­
trambi» rispose.
Sapevo, per esperienza, che il mio organismo non sopportava al­
cun siero; cercai quindi di convincere il medico a non vaccinarmi, ma
invano: somministrò ad entrambi un nuovissimo siero di cui non si
conoscevano ancora tutti gli effetti ed io mi sentivo come se mi
stessero portando al mattatoio, giacché dovevo tollerare di essere av­
velenata.
Il medico aveva detto:
«Sono assolutamente certo di questo siero, non avrà effetti colla­
terali.»
Quando, più tardi, mi trovai ad un passo dalla morte, avrei voluto
far chiamare quel dottore così pieno di buona volontà, e dimostrargli
che a volte bisogna saper ascoltare i pazienti e non trattarli come se
fossero numeri. Il siero agiva come un veleno lento...
Ma all’inizio, dovemmo assistere alla lunga lotta di mio figlio: per
116 Elisabeth Haich

sei settimane rimasi al suo capezzale. La febbre, che andava da qua­


ranta a quarantuno, nonché la reazione del suo organismo al siero,
furono terribili e più di una volta il cuore smise di battere. Un giovane
medico venne ad abitare da noi per essere pronto a fargli una iniezio­
ne per sostenere il cuore: eravamo tutti e tre chiusi in casa a lottare
per la vita del bambino.
«Credi di potermi fermare? Hihihihi!»... Quante volte ho udito
risuonare quella voce nelle mie orecchie quando, per giorni e notti
intere, tenevo in braccio il piccolo senza mai lasciarlo un minuto!
L’avevo strappato alla strega: era stato operato di appendicite. Ma la
lotta contro il mostro fosforescente non era facile, e non avevo ancora
vinto.
Il mio bambino peggiorava ancora, la febbre saliva, e il professore
dovette somministrargli una seconda dose di siero; per alcuni giorni
la febbre diminuì, ma il collo si gonfiò enormemente sul lato sinistro;
i medici dissero che l’infezione si era concentrata in una glandola, e
si chiesero se non dovessero operare quel rigonfiamento che ingrossa­
va a vista d’occhio. Il bambino doveva tenere la testa di traverso.
La battaglia divenne sempre più aspra, la febbre salì ancora, e il
bambino delirava. Erano trascorse cinque settimane, nelle quali ave­
vamo dormito una o due ore per notte: il bambino si agitava nel letto
e si calmava un poco solo tra le mie braccia. Negli ultimi cinque
giorni non avevo più lasciato il suo capezzale, e tenevo in braccio
quel suo povero corpicino... sentivo la sua respirazione farsi diffici­
le... e aspettavo... Attesi cinque lunghi giorni e cinque lunghe notti...
Non avrei mai pensato che un essere umano avrebbe potuto resta­
re così a lungo senza dormire: cinque notti, cinque giorni con il
bambino in braccio. In quelle ore interminabili pensavo alle madri
che così spesso si lamentano dell’ingratitudine dei loro bambini: «È
per questo che mi sono tanto preoccupata per lui... È per questo che
mi sono tanto sacrificata e che l’ho tanto vegliato quand’era mala­
to?... ecc., ecc., ecc.»... Ne conclusi che una madre non cura il suo
bambino per il bambino, ma per se stessa\ Quante donne si immagi­
nano di essere delle madri modello solo perché curano i loro bambini!
No! Non ero una buona madre perché curavo il mio bambino e facevo
di tutto per salvargli la vita: lo facevo per meì Tremavo alla sola idea
di perderlo, non era lui che amavo, ma me stessa, ed ecco perché vo­
levo salvarlo. Era importante per me, ero io che gli ero legata in modo
così stretto da non sopportare neppure l’idea che egli potesse scompa­
rire dalla mia vita. Seduta lì, con il bambino in braccio, presi coscien­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 117

za del fatto che facevo questo per me, che volevo tenere quel bambi­
no per me\ lo stringevo al petto per cercare di trasmettergli un po’
della mia energia vitale affinché non mi abbandonasse; sì, sapevo che
una forza invisibile irradiava dal plesso solare, una forza che, quan­
do l’uomo vuole davvero qualcosa, può diventare immensa e vincere
persino l’attrazione terrestre. Ora, ciò che desideravo era il contrario,
volevo che quella forza planetaria si accentuasse per trattenere il
bambino sulla Terra. Concentravo tutti i miei pensieri affinché mio
figlio ricevesse l’energia necessaria per vincere il male, eppure non
cedetti mai alla tentazione di pregare Dio di lasciarmi il bambino: “Le
cose non sono mai brutte, di per sé, tutto dipende dal modo in cui le
vedi.” Il pensiero di Epitteto era presente in me. Dal mio punto di vi­
sta personale, perdere il bambino sarebbe stata una catastrofe, ma
non dovevo chiedere cose soggettive e personali alla più grande po­
tenza, al Creatore, giacché Egli sapeva ciò che era giusto e perché.
Non dovevo dunque voler tenere mio figlio per ragioni personali. E il
bambino? Anche per lui, il meglio sarebbe stato che si compisse la
volontà divina, quale che fosse. Rimasi dunque con il mio bimbo in
braccio, mentre il mio piccolo ego umano materno tremava per la sua
vita, ed io continuamente pregavo:
«Sia fatta la Tua volontà!... Sia fatta la Tua volontà!...»
Ripetevo centinaia di volte quelle parole in quelle ore interminabi­
li; il mio corpo si irrigidiva, si ribellava, non sentivo più la schiena.
Una volta tentai impercettibilmente di cambiare posizione, ma subito
il bambino se ne accorse e urlò:
«Resta qui! Resta qui! Tienimi stretto! Se rimani e mi tieni stretto
a te, ti perdonerò tutto il male che mi hai fatto!»
Mi si gelò il sangue nelle vene... che cosa doveva perdonarmi,
quel bambino?
Fino a quel momento avevo creduto di aver fatto tutto ciò che una
madre doveva fare per suo figlio; era stato sempre il mio primo pen­
siero fin da quando era nato, mi ero sempre data da fare per renderlo
felice... Che cosa avevo mai potuto fare, da dover essere perdonata?
Cercai di chiederglielo:
«Stai tranquillo, piccolo mio, resto accanto a te, ti tengo stretto.
Cosa devi perdonarmi?»
Egli rispose:
«Non lo so, ma tienimi forte e ti perdonerò tutto...»
Guardai il medico che mi disse piano:
«Sta delirando, non faccia caso a quello che dice.»
118 Elisabeth Haich

«Sì, sì, delira....... ma conoscevo già bene l’anima umana, e sape­


vo che le parole pronunciate dal piccolo venivano da una grande
profondità. Ci pensai ancora a lungo... che cosa avevo fatto contro
quell’anima umana? Che errore avevo commesso?...
... Un giorno tutto diventò chiaro. Alla sera del quinto giorno
senza dormire, finalmente il bambino mi lasciò qualche attimo di
tranquillità; ero talmente rigida che il medico mi aiutò ad alzarmi e,
come un automa, feci alcune faccende indispensabili. La mia anima
era immersa nel buio e sembrava assalita da tutti i demoni dell’infer­
no; avevo paura di cedere. Dovevo trovare l’energia necessaria per
continuare, per sopportare tutto. In momenti come quello, l’uomo
butta alle ortiche l’orgoglio, e tende la mano per prendere tutto ciò
che può essergli di aiuto. La Bibbia! La Bibbia era sul comodino, e la
presi come si afferra un salvagente; nell’aprirla, mi cadde lo sguardo
su queste parole dell’Antico Testamento: “Non temete nulla, i vostri
nemici vi assalgono con le loro frecce invisibili fintantoché il Signore
lo permette. Ma quando il loro tempo è passato, allora sarete liberi dal
male.”
Quelle parole mi fecero un effetto indescrivibile: il cuore fu come
alleviato da un peso enorme, e dopo sei settimane di oscurità ango­
sciante, finalmente intravvidi la luce... la luce... La luce!
Suonò il telefono. Madre mi chiese:
«Come va il bambino?»
Io gridai:
«Madre, il bambino guarirà!»
«Non ha più febbre?»
«No, ha ancora quaranta; ma Dio mi ha mandato un messaggio...»
e le raccontai la storia.
«Dio ti ascolti!» disse Madre.
Con un movimento rapido riagganciai perché il bambino mi chia­
mava; arrivai da lui nel momento in cui quell’orrido ascesso, grosso
come una palla, si rompeva internamente. Dalla bocca, uscì una mas­
sa verdastra e purulenta, orribile, ed immediatamente pensai alla pal­
la verde... Era proprio dello stesso colore.
I medici avevano atteso, per bucare l’ascesso, che esso maturasse
all’esterno del collo, ma era rimasto duro e non avevano osato proce­
dere all’operazione. La natura aveva fatto ciò che era necessario per
liberare il bambino, e questi cadde in un sonno profondo. Lo vegliam­
mo ancora per tutta la notte, mentre il suo polso si faceva più forte, il
respiro più calmo, la fronte asciutta, senza più sudore. Dormì tran­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 119

quillo. Dopo quelle settimane così provanti, finalmente andammo a


letto anche noi, ma non mi riuscì di dormire: i miei nervi avevano
dimenticato che cosa fosse il sonno.
Il giorno seguente il bambino dormì fino alle undici. Padre aveva
spesso chiesto di lui, e finalmente avevo potuto dirgli:
«Sì, Padre, dorme un sonno calmo e tranquillo.»
Infine mio figlio aprì gli occhi e, immediatamente, chiese del
latte. Ne bevve quattro bicchieri di fila, come una spugna... poi chiese
i suoi giocattoli.
Il giorno dopo era Natale: mio marito, i miei genitori, mio fratello
e le mie sorelle vennero nel pomeriggio, spingendosi fino alla porta di
entrata per portarci un piccolo albero decorato ed ogni sorta di giochi;
misi il bambino in una poltrona, l’avvicinai un po’ alla porta da cui
poteva vedere i familiari: era irriconoscibile, magro e debole, ma era
vivo! Piangemmo di gioia. Il male aveva dovuto battere in ritirata... la
sua ora cosmica era suonata. Non potevo neppure parlare da quanto
ero colma di riconoscenza: in questo caso il mio desiderio e la volon­
tà di Dio erano stati identici: Egli mi aveva reso il bambino.
Mio figlio si riprese lentamente, e il giovane medico se ne andò;
poi, finalmente, il piccolo riuscì ad alzarsi. Dovette reimparare a cam­
minare, ma ritrovò presto le sue forze e, due mesi più tardi, fu auto­
rizzato a rientrare a scuola. Quanto a me, avevo ritrovato il sonno e
desideravo ora ricominciare a scolpire; però non mi sentivo bene, ero
in uno stato strano, come se fossi sempre un po’ ubriaca e vedevo
tutto come attraverso una cortina d’acqua. A poco a poco gli oggetti
si fecero sempre più sfocati e tutto mi sfuggiva sempre più.
Il siero che mi era stato somministrato era composto di ormoni di
cavalla e, come appresi in seguito, dal momento che i giornali ne
parlarono alquanto, quel nuovo preparato agiva sulle donne come un
lento veleno che si propagava nel sangue. La maggior parte delle
donne che erano state vaccinate si erano ammalate di nervi e poi,
siccome la natura cercava di espellere il sangue intossicato, avevano
sofferto di emorragie inarrestabili; molte ne erano morte, e seguirono
infiniti processi.
Di giorno in giorno peggioravo; le cose mi sembravano sempre
più nebulose e mi sentivo estranea a me stessa. Camminavo ancora
diritta, ma soffrivo di vertigini. La cortina d’acqua attraverso la quale
mi sembrava di vedere si ispessiva sempre di più. Un giorno ebbi una
crisi: il polso si fermò, rimase soltanto una fibrillazione. Non riuscivo
più a camminare, né a mangiare, né a dormire: giacevo nel letto con
120 Elisabeth Haich

una borsa del ghiaccio sul cuore, guardando l’universo come se nuo­
tassi nell’acqua.
Descrivere tutte le sofferenze che provai ci porterebbe troppo lon­
tano, ma basti dire, qui, che per mesi percorsi tutte le sfere dell’infer­
no.
L’estate mi aiutò a ricuperare un po’ di salute: il medico ci aveva
consigliato di andare in riva al lago, perché un cambiamento di clima
mi avrebbe fatto bene; rimasi quindi sdraiata sul terrazzo della villa di
famiglia, cercando di calmare e di controllare i miei nervi agitati. Mi
ripetevo migliaia di volte:
«Caaaalma... caaaalma... caaaalma...»
A poco a poco il mio stato migliorò e, addirittura, di quando in
quando, ripresi a dormire...
Un giorno mi accorsi che mio figlio, invece di giocare sulla spiag­
gia come al solito, girava attorno al mio divano ed era stranamente
calmo; mi spaventai molto: era forse di nuovo malato? Siccome non
mi piaceva vedere i bambini così stranamente quieti gli chiesi:
«Cosa succede? Perché non giochi con gli altri bambini?»
Mio figlio si appoggiò al divano, mi osservò, e poi chiese:
«Mamma, è possibile che io abbia già vissuto un’altra vita?»
La domanda mi lasciò perplessa sicché gli chiesi:
«Come ti è venuta questa idea?»
«In giardino ho visto un grosso scarabeo nero; ci ho giocato un
po’, con un ramoscello, e lui si è girato sul dorso, restando perfetta­
mente immobile come se fosse morto. Siccome ero curioso di vedere
che cosa sarebbe successo, ho continuato a tenerlo d’occhio, e siamo
andati avanti un sacco, forse mezz’ora. Poi lo scarabeo si è rigirato
sulle zampe, e se n’è andato. In quel preciso momento ho avuto la
certezza di aver già vissuto una volta; la gente aveva soltanto creduto
che fossi morto ma, come lo scarabeo, ho continuato ed ora sono qui,
vivo di nuovo. Questo vuol dire che non sono mai morto! E vedi,
mamma, ti faccio questa domanda perché, ogni mattina, quando mi
sveglio, prima ancora di aprire gli occhi, mi sembra di dovermi sbri­
gare ad alzarmi per andare a caccia e portare qualcosa da mangiare a
mia moglie ed ai miei figli. Soltanto quando apro gli occhi e ricono­
sco tutti gli angoli della camera, sono di nuovo cosciente di essere un
ragazzino e tuo figlio; ma mia moglie, i miei bambini e tutta la gente
di laggiù non sono come noi. Sono... sono... sono tutti neri, e tutti
nudi» disse il bambino con un sorriso imbarazzato.
Avevo ascoltato con interesse crescente, ma non avevo voluto che
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 121

notasse la mia sorpresa; non l’avevo quindi interrotto, se non alla


fine, per chiedergli:
«Dunque avevi parecchi bambini? E dove abitavate?»
Il bambino prese un pezzo di carta e una matita e, con un tratto
assolutamente sicuro, disegnò una capanna rotonda con uno strano
buco per lasciar uscire il fumo, un dettaglio che certo non aveva
potuto osservare nel nostro Paese. Davanti alla capanna stava una
donna nuda con i seni lunghi e pendenti. Accanto c’era uno specchio
d’acqua con delle onde e, giù in fondo, delle palme. Mi tese il dise­
gno dicendo:
«Vivevo in una capanna simile a questa, l’avevamo costruita noi
stessi. Ognuno aveva la sua imbarcazione intagliata in un solo pezzo
di tronco d’albero. C’era un fiume, ma non ci si poteva avventurare
come facciamo qui nel lago, perché nell’acqua abitava un mostro,
anche se non mi ricordo più di quale mostro si trattasse; so però che
divorava le gambe degli uomini. E per questo che non ci andavamo
s

mai. Ora capisci perché ho tanto pianto, l’anno scorso, quando volevi
mettermi a bagno: avevo paura che qualcosa mi divorasse le gambe
nell’acqua. E ancora adesso, sebbene io sappia che non c’è nulla di
pericoloso nel lago, non posso fare a meno di pensarci. Ti ricordi che
l’anno scorso, quando abbiamo ricevuto la barca, ho voluto remare
subito? E tu, tu mi avevi detto di no perché, dicevi, prima dovevo
imparare! Ma io sapevo di saper remare, ed ero così a mio agio nel
mio battellino di bambù che potevo muovermi sull’acqua come se la
mia barca ed io fossimo un’unica cosa. E, ti ricordi, ho tanto insistito
che, alla fine, spazientita mi hai detto: “E allora prova, così vedrai
che non sai remare!” E tutti sono rimasti sorpresi nel vedere che
remavo con un remo solo perché ero troppo piccolo per usarne due; e
che, anche con uno solo, ero in grado di portare la barca con sicurez­
za fra le altre e persino fra i bagnanti. Sì, potevo fare di tutto, con la
barca in cui abitavo allora! Avresti dovuto vedere! E gli alberi non
erano come qui, c’erano alberi come questi — disse, disegnandoli. —
E poi altri ancora, piante così diverse fra loro. Guarda, eccomi qui a
caccia di un grande uccello, ed ecco il mio cappello, vicino a me!»
Tutto ciò che disegnava descriveva un paesaggio tropicale, con le
sue palme e la sua tipica vegetazione; il disegno che lo rappresentava
era quello di un uomo di colore, tranne che per il cappello, che mi
sembrò sospetto: sembrava ai cappelli moderni di feltro. Ma non volli
distrarlo e con molta precauzione gli feci qualche domanda. Non
volevo risvegliare la sua immaginazione. Giacché in vita sua non
122 Elisabeth Haich

aveva mai visto donne nude se non sui quadri, dove per altro non
avevano lunghi seni pendenti, gli chiesi:
«Perché hai disegnato tua moglie con seni così lunghi, pendenti e
brutti?»
Il bambino mi guardò sorpreso di sentirmi rivolgere quella do­
manda. Poi, senza esitare e con assoluta naturalezza, replicò:
«Perché era così che aveva i seni: e non è una cosa brutta. Era
molto bella!» aggiunse fieramente.
La sua risposta mi convinse del fatto che non avesse potuto vedere
queste cose nel nostro ambiente; non era mai andato al cinema, non
aveva ancora letto libri sull’Africa. Come gli era venuto in mente che
una donna con i seni lunghi e pendenti fosse bella? Certamente il
nostro ideale di bellezza era molto diverso, e volli ancora fargli delle
domande.
«Qual è il tuo ultimo ricordo?»
«Ero a caccia quando sbucò una tigre. Lanciai la mia lancia che le
si infilò nel petto, ma essa non morì e si precipitò su di me. Dopo,
non ricordo più niente.»
«Bene; è una cosa molto interessante, ed è possibile che tu abbia
già vissuto e che tutto questo sia davvero accaduto. Ora però, sei qui:
non pensare dunque a ciò che fu, ma a ciò che è. Puoi raccontarmi
ogni cosa, ma non parlare di questi tuoi ricordi con gli altri.»
«Lo so, mamma — riprese — so che gli adulti credono che i
bambini siano stupidi e ci prendono sempre in giro. Ma, hai idea di
ciò che può essere accaduto a mia moglie e ai miei bambini?»
«No, non saprei dirti. Non dimenticare che tutto passa, e che solo
l’amore è eterno: e l’amore vi riunirà di certo in questa vita.»
«Allora, va bene» disse il bambino, tornando a giocare con i suoi
amici.
Presi i suoi disegni e li infilai nel diario che tenevo da quando era
nato... Non gli feci mai più nessuna domanda: volevo evitare di sti­
molare la sua immaginazione e che vivesse troppo nel mondo dei
ricordi. D’altronde, a quale scopo? Sapevo che non aveva mai avuto
occasione di vedere o leggere un solo libro sull’Africa, conoscevo
ogni suo passo, ogni sua occupazione. D’altra parte, non era stupefa­
cente che quel ragazzino, solitamente così coraggioso, addirittura te­
merario, si fosse dibattuto con la forza della disperazione quando
avevamo deciso di portarlo a fare il bagno, come se avessimo l’inten­
zione di ucciderlo? Avevo dovuto spiegargli che poteva andarci tran­
quillamente, che non gli sarebbe successo nulla ed alla fine aveva
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 123

accettato che lo portassi in acqua, dopo avergli promesso di fare


molta attenzione e di non lasciarlo mai.
Ma il giorno seguente avevamo dovuto ricominciare tutto dacca­
po: si era messo ad urlare come un forsennato, rifiutando di entrare da
solo in acqua; avevo dovuto prenderlo di nuovo in braccio... Poi, a poco
a poco, aveva vinto la paura ed era diventato un vero e proprio pe­
sciolino. Più tardi, avrebbe trascorso il suo tempo a remare e a fare vela.
Quando era ancora piccolo, verso i quattro o cinque anni, dipinge­
va insieme a sua cugina, la figlia di mia sorella, ogni sorta di quadri;
mentre la bambina dava ai volti un colorito roseo, mio figlio li faceva
tutti color marrone; gli avevo fatto notare che i volti non dovevano
essere così scuri, lui mi era stato ad ascoltare in silenzio, ma poi
aveva continuato a dipingerli color cioccolato.
Non parlammo dunque più dei suoi ricordi; di quando in quando
faceva un’osservazione e mi diceva che tutto era ancora molto vivo in
lui. Molti anni dopo un signore entrò in giardino e mi chiese di venir
fuori perché aveva visto mio figlio, allora tredicenne, arrampicarsi su
un pioppo lungo la strada. Cadere da lassù avrebbe potuto significare
la morte. Guardai quegli alberi di dieci-quindici metri ma non riuscii
a vederlo; allora lo chiamai, e lui mi chiese che cosa volessi.
«Scendi immediatamente di lì.»
«Perché?»
«Nessuna discussione, per il momento. Scendi.»
Senza fare commenti comparve davanti ai miei occhi: scendeva
prudentemente, con assoluta sicurezza, come una scimmietta. E poi
saltò sull’ultimo ramo e chiese, tenendo a freno la collera:
«E perché dovrei scendere?»
«Perché non ha senso salire lassù, ed è incredibile che siano degli
estranei a farmi sapere le stupidaggini che stai facendo. Perché ri­
schiare? Cosa facevi lassù?»
«Mi sono fatto un rifugio lassù, ci mangio le mie pannocchie e
sono molto più buone. E poi, da lassù, posso vedere tutta la zona.
Posso vedere tutto!»
«Guai a te se lo fai di nuovo! Perché devi rischiare la vita? Fallo
qui, il rifugio, quaggiù!»
Il ragazzo era seccato, e replicò:
«Ah! Non devo arrampicarmi perché tu credi che sia pericoloso.
Mi chiedo chi si preoccupasse per me quand’ero nella giungla e mi
arrampicavo su alberi molto più alti ancora per osservare gli animali!
Tu, dov’eri, allora? »
124 Elisabeth Haich

«Non so dove fossi allora, ma adesso sono qui e tu devi obbedir­


mi» risposi energicamente.
Non era affatto contento, ma siccome in altre circostanze gli la­
sciavo molta libertà trovò presto altro da fare e l’incidente cadde nel
dimenticatoio.
Non molto tempo dopo, rientrò tutto eccitato da scuola:
«Ridicolo! Il prete vuol farci credere che l’uomo vive una volta
sola. Ma io so che si vive più volte! Lo so! Ma con gli adulti è meglio
tacere.»
Le impressioni della vita presente finirono col soppiantare proba­
bilmente, nella sua coscienza, i ricordi anteriori, di cui non parlò più
per molto tempo. Verso i quindici anni, mi chiese una batteria da
jazz. Andammo in un grande negozio di strumenti musicali e scelse il
più grosso tamburo che avessero, con tutti gli accessori. Allora, si
produsse lo stesso fenomeno sorprendente di quando aveva remato
per la prima volta: arrivato a casa si mise al tamburo, prese le bac­
chette e cominciò immediatamente a suonare con una perfetta padro­
nanza, come se non avesse mai fatto null’altro in vita sua, i ritmi più
complicati, i sincopati più straordinari. Era in estasi, con gli occhi
che luccicavano, le lacrime che gli scendevano sulle guance... Piange­
va in silenzio, mentre suonava. Non mi rivelò mai da dove gli fosse
venuto quel dono, tranne una volta, quando disse:
«Sai, mamma, è così che ci facevamo pervenire dei segnali, tra­
smettendoci messaggi a grandissima distanza...» e suonava come un
indemoniato.
Tuttavia, rifiutava sempre di leggere qualcosa sulla vita dei neri:
«E perché? So meglio di chiunque altro com’era laggiù, e non mi
importa nulla di conoscere le opinioni dei bianchi. Inoltre, le descri­
zioni vere, autentiche, mi fanno sempre piangere, che lo voglia o
no...»
Molti anni dopo, andammo a vedere un documentario sui neri; era
già ufficiale dell’aviazione ma, come un bambino, pianse per tutto il
film, con le lacrime che gli scorrevano in silenzio sulle guance.
Dove aveva imparato a suonare la batteria? Mi resi conto della
difficoltà di quello strumento quando volli cimentarmi: come può un
bambino di città desiderare un tamburo di questo genere? E perché un
giovanotto allegro e moderno piange quando suona la batteria o assi­
ste ad un film sui neri?
Alcuni anni dopo ancora, Paul Brunton, scrittore, filosofo e gran­
de viaggiatore, ci fece visita. Tornava dall’india e gli raccontai i
Iniziazione: memorie di un’Egizia 125

ricordi anteriori di mio figlio. Mi chiese di vedere i disegni e, dopo


averli studiati, disse:
«Capanne come queste sono proprio caratteristiche di una tribù
nera dell’Africa centrale, sulle rive dello Zambesi; sono esatte, fin nei
minimi dettagli.»
«Sì, ma il cappello non è un copricapo da negro; sembra piuttosto
un cappello moderno, di feltro» replicai.
Brunton sorrise:
«No, lei si sbaglia e il bambino ha ragione: anche questo coprica­
po è tipico di quella tribù, e non è di feltro ma fatto di foglie di canna
intrecciate. L’arma da caccia è disegnata molto bene, e quanto al
mostro che morde le gambe, evidentemente si tratta del coccodrillo.
Ma, mi dica, come mai è diventata la madre di uri bambino che è stato
un nero?» mi chiese ancora.
«Temo che per questa domanda non ci siano risposte!» risposi
ridendo; poi passammo ad altri argomenti.
I primi ricordi di mio figlio si erano risvegliati quando, rimanendo
immobile in riva al lago, aveva osservato uno scarabeo nero; senza
saperlo si era servito di un metodo indiano per la concentrazione,
perché gli yogi indiani scelgono un punto nero su un muro oppure
una boccia di cristallo e poi fissano su di esso lo sguardo. Il bambino
aveva fatto la stessa cosa, e lo scarabeo nero aveva preso il posto del
punto, sicché era entrato in trance involontariamente. Fu così che il
ricordo della vita precedente gli si era rivelato.
L’estate trascorse ed anch’io migliorai; il mio stato di coscienze
era di nuovo chiaro, le cose non mi sembravano più sfocate, la sensa­
zione di bruciore nel sangue era sparita; ma in autunno, di ritorno z
casa, mi ritrovai con tutti i sintomi che avevano preceduto la morte
delle altre donne vaccinate con siero di cavalla. Mi misi quindi i
letto, soffrendo di crampi e dolori atroci; non avrei mai potuto imma­
ginare che qualcuno potesse sopportare una tale tortura senza morire
Persi ogni controllo sul mio corpo: i nervi erano paralizzati, e quande
volevo alzare una mano, questa rimaneva inerte. Era una cosa ango
sciante, spaventosa, e durante quelle lunghe notti senza sonno, senti
vo nelle orecchie, in mezzo al ronzio, quella voce irritante e cattiva:
«Come? Vuoi prendermi? Hihihihi...»
I medici conclusero che avrei dovuto essere operata.
Quella stessa sera, un compagno di scuola di mio marito che er;
anche un nostro carissimo amico telefonò; era di ritorno da un lung<
viaggio in India e venne a trovarmi l’indomani.
126 Elisabeth Hatch

«Sai che in India ho studiato Yoga sotto la guida di un grande


maestro: se fai ciò che ti dico, ti riprenderai. Assolutamente, non farti
operare!»
Promisi dunque di seguire i suoi consigli, ed egli mi mostrò alcuni
esercizi di respirazione molto semplici che, per quanto più morta che
viva, avrei potuto eseguire a letto, e che avrei dovuto ripetere il più
spesso possibile durante il giorno, dirigendo correttamente la mia co­
scienza.
Seguii le sue indicazioni alla lettera e, pochi giorni dopo, comin­
ciai a sentirmi davvero meglio, i dolori diminuirono e tutto il resto
fece registrare una netta tendenza al miglioramento.
Due settimane più tardi potei cominciare ad alzarmi per pochi
secondi: stavo ritornando me stessal C’erano ancora disturbi certa­
mente tenaci, ma il nostro amico mi consigliò altri esercizi di Yoga
ed il mio stato migliorò tanto che in primavera potei andare al mare
per trascorrervi alcuni mesi. Qual clima benedetto, i bagni di mare e
gli esercizi di Yoga mi resero la salute e mio marito mi raggiunse per
le ultime quattro settimane di vacanza, sicché trascorremmo insieme
il tempo più felice della mia vita personale. Soltanto chi è stato am­
malato senza avere alcuna speranza di guarire può sapere che cosa
significa essere di nuovo in buona salute!
O forza, potenza sconosciuta che chiamano Dio\ Ti ringrazio di
avermi reso la salute, di avermi consentito di sfuggire all’inferno, di
aver impedito che diventassi un peso per coloro che amo, di aver fatto
nuovamente di me un essere utile e capace di lavorare!
Il sole non era mai stato così radioso, il cielo così blu, ed il mare
non aveva mai scintillato in modo tanto meraviglioso come durante
quell’estate...
L’autunno ci ricondusse a casa, ed io mi rimisi al lavoro, proprio
come prima.
Una sera andammo con i bambini al cinema a veder un film di
Walt Disney. Topolino, Pluto e Paperino ci fecero molto divertire,
dopodiché venne proiettato un film nel quale i personaggi di Walt
Disney fondano una società per liberare le case dai fantasmi, e pub­
blicano un annuncio per farsi conoscere. In un vecchio castello vive
in perfetta armonia una gran quantità di fantasmi di ogni genere, che
si riuniscono ogni notte nella grande sala di cavalieri. Ebbene, una
sera, uno degli spettri, comodamente seduto in poltrona, si mette a
leggere un giornale e scopre l’annuncio in questione: lo legge ad alta
voce ai suoi amici che ne sono indignati:
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 127

«Cosa? Nemmeno i fantasmi possono più vivere in pace...»


Decidono allora di trovare un mezzo per dare una buona lezione a
quegli impertinenti, ed uno di essi telefona alla ditta colpevole chie­
dendo un incontro. Poi si distribuiscono le parti: uno si nasconderà
sotto un letto, l’altro dietro la porta, il terzo nello specchio, in modo
che se uno vuol guardarsi, scopra il fantasma invece della propria
faccia. Ognuno di loro conosce perfettamente quale sarà il suo ruolo
per spaventare Topolino ed i suoi amici e far passare loro per sempre
la voglia di mettere in atto tali piani. Esaminati tutti i particolari della
rappresaglia, ad un cenno del loro capo i fantasmi scompaiono, tra­
sformandosi in palle fosforescenti, fluttuanti, saltellanti e sparpa­
gliandosi in tutte le direzioni... con una risata infernale all’idea che
quelle creature terrestri possano volerli acchiapparci
Fui letteralmente paralizzata dalla sorpresa: la mia sorella minore
e mio fratello gridarono contemporaneamente:
«Guarda, guarda! La palla verde di Esther! Non è straordina­
rio?...»
Erano talmente eccitati e parlavano tanto forte che per un attimo
temetti che ci avrebbero sbattuti fuori dal cinema; e ancora non sape­
vano che tutta la scena del capo dei fantasmi che si trasforma in una
palla verdastra e fosforescente, ridendo in modo diabolico e scompa­
rendo e saltellando, era la perfetta replica di ciò che avevo visto
personalmente molto tempo prima!
Io ero sconvolta; dunque, altre persone avevano visto queste appa­
rizioni? Non potevo dubitare nemmeno per un istante che Walt
Disney avesse visto quella palla verde. Altrimenti, come avrebbe po­
tuto immaginare un’apparizione così assolutamente conforme alla
mia? Era escluso che una coincidenza di quel genere potesse essere
presa in considerazione... ma non era ancora finita!
Poche settimane dopo ebbi per le mani un libro intitolato “Aram,
Magia e Mistica”, che conteneva un’ampia raccolta di testi autentici.
Ne lessi varie parti, ed arrivai a questo passo:
«... Come poteva, quel qualcuno, entrare quando la porta era chiu­
sa col catenaccio? Sapendo assolutamente che la porta era davvero
chiusa pensai “nessuno può entrare anche se la maniglia si muove e la
porta scricchiola”. Eppure, chi era? Si sentiva un fruscio nella came­
ra, colpi tirati all’armadio, poi, questo qualcosa, oltrepassando il letto,
fece risuonare il vetro della lampada del comodino.» E ancora, Un po’
più avanti: «Non avevo visto nulla, ma non mi ero neanche preoccu­
pato di vedere qualcosa. Soltanto il mio vicino di stanza sostenne di
128 Elisabeth Haich

aver visto d’un tratto sul suolo di camera mia una luce grossa come la
luna piena che, come una palla luminosa, era apparsa sulla soglia
socchiusa per poi sparire dietro la parete.»
Non credevo ai miei occhi. Di nuovo quella palla che assomiglia­
va alla luna piena? Quella palla di luce, a quanto pareva, non era
affatto rara! Che strano! Eppure, a rifletterci, c’è un esempio analogo
in elettricità: il fulmine globulare che rotola nell’aria. Sono noti di­
versi casi in cui questo globo entra in camera attraverso una finestra,
rotola per tutta la stanza e poi scompare da un’altra via di uscita;
fintantoché esso mantiene la sua forma sferica non c’è alcun pericolo,
ma se esce da essa, distrugge tutto ciò che trova sul suo passaggio.
Questa forma di fulmine è infinitamente più pericolosa di un fulmine
normale. E quella sfera verdastra e fosforescente che poteva causare
tanti danni, non era forse anch’essa un fulmine globulare, sebbene su
un livello diverso?
Dalla notte dei tempi ci viene una profonda verità attribuita al
grande iniziato Ermete Trismegisto che conosceva tutti i misteri della
terra e del cielo:
«Così in alto come in basso, così in basso come in alto.»
Quel fenomeno parallelo non era poi così strano: la sfera verde e
il fulmine globulare.
CAPITOLO XX

L’aurora — Gli Ayur Veda


Mi recavo quotidianamente nel mio laboratorio, e mentre stavo
lavorando, un giorno, mi sentii improvvisamente invadere da un’in­
quietudine quasi insopportabile: d’un tratto avevo l’impressione di
non star facendo nulla. Il tempo passava ad una Velocità incredibile, i
giorni si susseguivano, sempre uguali, ed io non stavo facendo nulla.
Nulla? Come, nulla! Lavoravo tutto il giorno, studiavo e leggevo un
incredibile numero di libri e, quando ero stanca, mi sedevo al piano.
Perché dunque avevo l’impressione di non far nulla? Pensai agli anni
più recenti, e immediatamente ebbi la risposta:
«Non hai fatto nulla per lenire le sofferenze altrui... Essere mo­
glie, madre, scultrice... queste sono occupazioni d’ordine personale.»
Era vero. Ma che avrei potuto fare? Negli anni precedenti, avevo
atteso che le energie superiori mi dessero istruzioni, ma la voce non si
era mai fatta sentire. Allora, come sapere ciò che avrei dovuto “com­
piere”? Raccontando queste cose oggi, non posso fare a meno di sor­
ridere se penso a com’ero: quanto è ingenuo l’essere umano ignoran­
te! Com’è possibile cooperare alla “grande opera” prima di avere
raggiunto lo scopo? Prima di avere chiarito perfettamente le cose con
se stessi, ed aver vinto se stessi? Ma questa è la malattia infantile di
chiunque si risvegli: vuole salvare il mondo prima di salvare se stes­
so ! Eppure, le energie superiori fanno tutto il necessario per guarire
ogni neofita dalla sua ingenuità!
A quell’epoca non avevo ancora compreso, eppure volevo rendere
felice la gente; l’avevo giurato, ed allora avevo continuato a vivere
con quello scopo. Lungo la mia strada si erano presentate alcune
tentazioni, ma non mi avevano causato nessun tipo di difficoltà;
c’erano stati molti uomini che, con la scusa che “mi amavano”, ave­
vano cercato semplicemente di soddisfare i loro desideri, ma io avevo
130 Elisabeth Haich

visto chiaro dentro di loro: non si preoccupavano neppure di sapere


chi fossi in realtà. L’unica cosa importante per loro era l’amore fisico.
E questo, come avrebbe potuto attirarmi, giacché avevo già smasche­
rato la trappola della natura? Persino la mia vanità non si era sentita
lusingata da tali desideri, anzi: avevo trovato degradante il fatto che
gli uomini mirassero soltanto al mio corpo.
Un giorno avevo esposto principi filosofici molto elevati e il si­
gnore con cui stavo discorrendo, e che si definiva un amico vero, si
entusiasmò per la “mia intelligenza” ma, alla prima occasione tentò di
baciarmi... o forse voleva baciare la mia intelligenza?
C’era un altro che non finiva più di farmi i complimenti per il mio
talento musicale; quando suonavo il piano in pubblico, diceva di ama­
re la musica e mi baciava le mani con fervore, immergendo lo sguar­
do nei miei occhi... ma con una sensualità che la diceva lunga circa le
sue intenzioni! Conoscevo un certo numero di “adoratori della musi­
ca” di questo tipo e mi facevo beffe di loro, ma il tutto era così
noioso, così noioso...
La musica, la filosofia, la psicologia, tutto ciò che aveva a che
fare con l’arte e con la scienza mi attirava davvero: dovetti però
arrendermi all’evidenza, e cioè che la maggior parte dei filosofi, degli
psicologi, degli astronomi, degli scienziati e degli artisti, simili a tutti
gli altri, trovavano che la sessualità fosse molto più interessante!
Poveretti! Che sarebbe accaduto di loro, quando avessero perso la
loro virilità? Il vuoto, il loro proprio vuoto. Terribile! E questi signori
tentavano di convincermi che buttavo via la vita rifiutando di gustare
i piaceri della carne ad ogni occasione. Umiliante! Gli uomini vedono
solo il sesso, forse ? Non possono essere semplicemente umani, al di
sopra del sesso? Simili ai bambini che giocano insieme per il piacere
di giocare e non per stimolare la loro sessualità?
Sono in molti a fare musica o teatro, e ad interessarsi alla psicolo­
gia con l’unico scopo di conquistare ad ogni passo una nuova partner.
La Bibbia dice: «In verità vi dico, se non sarete come bambini, non
entrerete nel Regno dei Cieli.» L’angoscia e l’insoddisfazione di co­
loro che vivevano unicamente per la sessualità mi fecero capire quan­
to fosse meravigliosa e profonda quella verità, ma quella gente, vuota
e impoverita, prendeva la mia indifferenza per una “frustrazione degli
istinti” o per una commedia. Mi analizzavo sempre con molto rigore,
e non avevo mai avuto un pensiero che mi avesse attratta verso un
uomo. Amavo sempre mio marito con altrettanta profondità, ma non
più come una donna ama il suo sposo, bensì come un essere umano
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 131

ne ama un altro. Non c’erano più tentazioni, né lotte, né “vittorie” sui


miei sensi perché non avevo più “desideri” per un uomo: da quella
notte in cui avevo scoperto l’inganno dell’amore carnale, non ero più
stata una donna, ero diventata un essere umano, un Io, e quest’/o non
provava alcun desiderio sessualel
L ’“Io” non ha sesso! L ’“Io” non è la metà di qualcosa che sta
cercando la sua metà complementare, l ’“Io” è, in sé, un tutto !
E se un essere umano riconosce questa verità, il corpo lo segue.
Tutte queste cose mi tornarono in mente quando mi sentii invade­
re da quella stessa sensazione che mi aveva molto turbata tanto tempo
prima, allorché, esercitandomi nella trasmissione del pensiero, mi era
risultato impossibile ricevere o eseguire la volontà di qualcuno: c’era
qualcosa che mi opprimeva talmente che non riuscivo quasi neppure a
respirare.
Posai lo scalpello e mi concentrai: risentii dopo tanto tempo quel­
lo strano pizzicore, ma questa volta in tutto il corpo e, per finire, udii
nuovamente la voce che era rimasta zitta così a lungo:
«Perché trascuri le tue facoltà spirituali?»
«Come posso non trascurarle? C’è qualcosa che posso fare?»
chiesi.
«Sai benissimo che anche se uno ha un innato talento musicale,
artistico o altro, non per questo egli è un artista; anzi: deve sviluppare
il suo talento, e deve farlo attraverso il lavoro. Lavorare, lavorare
ancora! Il talento senza assiduità non è arte, così come non è arte
Vassiduità senza talento. Se combini il talento con la tenacia, allora
ottieni l’arte vera. Possiedi talenti ai quali permetti di poltrire: la fa­
coltà di manifestare lo spirito. Lavora, metti in pratica, esercitati... e
diventerai un’artista in quest’arte regale che oltrepassa tutte le altre:
Z’arte senz ’arte !»
Il cuore prese a battermi all’impazzata: avevo atteso per anni un
ordine interiore che mi dettasse ciò che avrei dovuto fare, e la risposta
non era venuta; non mi era rimasto altro, dunque, che darmi ai compi­
ti quotidiani e ai soliti lavori che la vita mi aveva imposto. Avevo
studiato psicologia e scultura, due discipline che si completavano in
modo meraviglioso, e quando facevo un ritratto od un busto, penetra­
vo nella psicologia del modello, impregnandomi di essa: tutte le crea­
ture erano affascinanti, e più profondamente le sondavo e meglio mi
riusciva il loro ritratto. Fare un ritratto o un’analisi psicologica erano
per me un solo lavoro, e questo significava anche dare consigli. Sic­
ché, tutti coloro che avevano posato per me, mi erano rimasti spiri­
132 Elisabeth Haich

tualmente molto vicini. Le opere monumentali, le composizioni di


ampio respiro erano state anch’esse fonte di grande gioia: la concen­
trazione aveva aperto la porta a nuove verità ma, in fondo all’anima,
nutrivo la tristezza di non aver più udito “la voce”. Ero come inaridi­
ta, mi sembrava di aver perso il contatto con un’energia proveniente
da una fonte superiore.
Ed ora, ecco che il contatto era stato ristabilito, e che mi veniva
detto di esercitarmi nell’arte senz’arte. Come fare? Esistevano forse
esercizi per questo? Se non altro, non ne avevo mai sentito parlare...
La voce si fece molto precisa:
«Cerca!»
«Cercare? E dove? Come?» chiesi.
Ma non ci fu più risposta.
Quella stessa sera eravamo invitati dallo stesso amico che mi
aveva salvata dal mio male insegnandomi gli esercizi di Yoga e come
dirigere la mia coscienza.
Eravamo un gruppo di amici molto affiatato, e mentre gli uomini
parlavano dei loro ricordi di scuola, io frugavo nella biblioteca del
nostro amico; trovai un libro che mi attrasse in modo particolare,
sicché chiesi se poteva imprestarmelo, cosa che naturalmente mi ac­
cordò.
Presi dunque il libro e, sedendomi accanto ai due uomini, pregai il
nostro amico di raccontarci come e dove avesse imparato gli esercizi
di Yoga che mi avevano guarita. Ci disse che un giorno era stato
invitato da un Maharaja alla caccia alla tigre e, in quell’occasione, il
suo cavallo aveva fatto uno scarto buttandolo a terra così violente­
mente che non aveva potuto nemmeno più rialzarsi. Con il dorso
dolorante, l’avevano riportato in camera ed il Maharaja era venuto a
trovarlo per chiedergli quale medico desiderasse, se il medico inglese
o il medico indiano.
Il nostro amico aveva scelto il medico inglese, il quale gli pre­
scrisse ogni sorta di calmanti antidolorifici e molto riposo. Passarono
giorni e settimane, senza che il suo stato migliorasse: non poteva
alzarsi e neppure muovere la nuca o la schiena. Dopo sei settimane,
cominciò a peggiorare.
Il Maharaja tornò a trovarlo e gli disse:
«Lei desiderava consultare il medico inglese, e io gliel’ho manda­
to: ma dopo sei settimane il suo stato peggiora. Se vuole accettare il
mio consiglio, chieda di essere visitato da un medico indiano, che co­
nosca la medicina Ayur-Vedica: sicuramente sarà in grado di aiutarla.»
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 133

Il nostro amico aveva seguito quel consiglio.


«Che cos’è un medico Ayur-Vedico?» gli chiesi.
«Con quel termine si indica un uomo iniziato aH’Ayur-Veda; i
Veda sono i libri sacri degli indiani, la più elevata filosofia che ci sia
sulla Terra. I Veda si compongono di varie parti, e gli Ayur-Veda
rappresentano la scienza della salute, e contengono tutti i segreti del
corpo umano, delle malattie, dei metodi di guarigione e del manteni­
mento della salute. Per esempio, questi iniziati conoscono, da cinque
o seimila anni, l’arte di sostituire gli organi ammalati con organi sani
prelevati dai cadaveri; hanno tentato con successo le più straordinarie
operazioni, ed erano in grado di sostituire un occhio cieco con un
occhio sano, o addirittura un’intera gamba sia sul corpo di un animale
che sul corpo di un essere umano. Sapevano anche che le malattie
erano causate da miriadi di creature minuscole chiamate oggi batteri
e, soprattutto, pensavano che questi batteri formassero le cellule del
corpo invisibile di uno spirito demoniaco. Ora, gli Occidentali, a
parte alcuni iniziati come Paracelso, non si sono mai preoccupati di
orientare le loro ricerche in quella direzione: il cattivo spirito prende
possesso di una persona (o di diverse persone), la invade con il pro­
prio corpo, e se questa persona vibra in armonia con il cattivo spirito,
allora si ammala. Tuttavia, ci sono sempre esseri le cui vibrazioni non
si accordano con quelle del demone, sicché non si ammalano: sono
immuni, come dice la scienza occidentale.
Nelle sacre scritture indiane si trova anche la descrizione di tutti
questi spiriti cattivi della malattia, rappresentati a colori e con tutti i
particolari; quelle facce orribili hanno tutte una parvenza e un colore
caratteristico, come, per esempio, il demone della peste, che è un
mostro nero. E infatti questa malattia si chiama anche “la morte
nera”. Lo spirito di un’altra malattia altrettanto mortale è un demone
giallo e causa la “febbre gialla”; lo spirito della lebbra ha un volto che
ricorda quello del leone, ed è noto che si riconosce un lebbroso pro­
prio dall’espressione leonina del volto; il volto del lebbroso rivela
dunque il viso dello spirito che lo possiede. La polmonite è causata da
un gigante demoniaco di colore rosso, che sembra fatto di fuoco e di
fiamme, e così via: ogni malattia è una possessione ad opera di un
demone diverso.»
«Ehi, aspetta un attimo — esclamai, interrompendo così il raccon­
to del nostro ospite. — Dicevi che il demone della polmonite è un
demone rosso? Questo sì che è interessante...»
Davanti ai miei occhi risorsero dei ricordi infantili: rivedevo il
134 Elisabeth Haich

mio fratellino mettersi a sedere bruscamente sul letto, spaventatissi-


mo, con gli occhi che gli uscivano dalle orbite, mentre urlava e guar­
dava un punto preciso della camera: «Mamma, mamma, l’uomo rosso
vuole portarmi via, aiutami, mamma!» mentre tentava di proteggersi
con le manine da un nemico invisibile... dopodiché aveva perso cono­
scenza.
Madre aveva detto che aveva visto qualcosa che non era reale, che
si trattava di un’allucinazione, ma già allora mi ero resa conto che per
il bambino “l’uomo rosso” era reale; e a quanto pareva, possedeva
una realtà oggettiva che gli Indiani conoscevano da migliaia di anni...
perché la realtà non si limita a ciò che possiamo cogliere con le mani
e vedere con gli occhi!
Raccontai dunque questo episodio al nostro amico, che non ne fu
affatto sorpreso:
«Gli ammalati vedono spesso i demoni, specialmente nel momen­
to in cui ne vengono posseduti; e a volte, più tardi, nel corso della
malattia, quando devono combatterli. Ma se ne parlano la gente dice
che stanno delirando, che è colpa della febbre, e non si cerca neppure
di conoscere l'origine di quelle immagini che sorgono nell’immagi­
nario del paziente, o perché coloro che soffrono di una stessa malat­
tia vedano sempre le stesse immagini senza averne mai potuto parlar
tra loro giacché non si sono mai incontrati.»
Il nostro amico continuò il suo racconto:
«Il medico Ayur-Vedico del Maharaja era un uomo ancora giova­
ne, gentile, raffinato, del quale divenni in seguito buon amico. E
infatti siamo ancora in relazioni epistolari. Dopo l’esame dei miei
riflessi nervosi, il medico era andato a prendere certe pillole che mi
aveva prescritto in dosi di tre al giorno; lasciandomi, mi aveva detto
sorridendo: “Fra tre giorni, cavalcherà di nuovo!”»
Il nostro amico aveva sospirato senza credergli, ma, il giorno
dopo, era riuscito a muovere la testa. Il medico era tornato, dandogli
altre pillole e facendogli eseguire alcuni esercizi di respirazione diri­
gendo correttamente la coscienza. Quello stesso pomeriggio il nostro
amico riuscì a stare seduto e a sentire un pizzicore nella colonna
vertebrale, come se in essa si riversassero nuove energie vitali.
Il secondo giorno si era alzato, aveva fatto pochi passi in camera,
aveva divorato il pranzo in modo famelico ed era sceso in giardino.
Il terzo giorno si era svegliato in piena forma ed era salito a
cavallo.
Diventato amico del medico, un giorno gli aveva chiesto:
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 135

«Che cosa mi ha dato, per rendermi la salute in modo tanto mira­


coloso?»
«La nostra scienza si trasmette di padre in figlio, e quando un
padre inizia il proprio figlio a quest’arte, quest’ultimo deve giurare
fedelmente di non divulgarne mai i segreti, in alcuna circostanza.
Questo giuramento non è mai stato rotto, sicché non posso rivelarle la
natura di queste pillole; tuttavia posso mostrale alcune sfaccettature
della nostra scienza. Le pillole che le ho prescritto sono una combina­
zione chimica composta essenzialmente d’oro; questo composto au­
reo non è una semplice materia morta, anzi: potremmo chiamarlo
“oro vivo”. La sua preparazione richiede che rimanga ermeticamente
chiuso in un crogiuolo per alcune settimane in un forno a temperatura
moderata e costante; questo sviluppa nell’“oro morto” proprietà tali
che in seguito è più giusto chiamarlo “oro vivo”. Come lei sa, quando
si tiene un uovo per tre volte sette giorni a temperatura costante di
quaranta gradi, ne nascerà un pulcino nel ventunesimo giorno, ma se
si espone un uovo per dieci minuti ad un calore di cento gradi, diven­
terà semplicemente un uovo sodo, e mai un pollo! Per questa prepara­
zione aurea è la stessa cosa: il fatto di rimanere diverse settimane a
temperatura regolare, fa nascere nell’oro un’energia che ha le stesse
vibrazioni dell’“energia vitale”, la quale è infinitamente superiore
all’energia atomica. Ci vogliono milioni di anni perché, dalla terra
grezza, si sviluppi l’oro secondo un processo estremamente lento;
continuandolo, possiamo ancora trasformare l’oro in una materia di­
versa che si carica di quest’energia suprema. È possibile magnetizza­
re un pezzo di ferro qualsiasi, ed allo stesso modo è possibile fare
dell’oro ordinario un oro magnetizzato o “vivo”. Il magnetismo aureo
è un’energia infinitamente superiore a quella del ferro: ha la stessa
vibrazione della nostra energia vitale, l’energia che è la vita stessa e
che agisce in modo quasi miracoloso su tutti gli esseri viventi. L’esse­
re umano è come un magnete carico di queste energie superiori, e
così come il magnete, col tempo, si scarica (potendo però sempre
essere rimagnetizzato con la corrente elettrica) allo stesso modo, l’es­
sere umano può essere ricaricato con questa energia. L’energia vitale
ha sede nel midollo spinale ed è precisamente quest’organo così deli­
cato che è stato leso nel corso della sua caduta da cavallo, sicché la
forza vitale in esso è diminuita drasticamente; il suo organismo non è
riuscito a rimettere in ordine le cose, giacché era stato ferito proprio il
suo centro di guarigione. Lo scopo delle pillole era di ricaricare i
centri nervosi, consentendo alla natura di riprendere il proprio ritmo e
136 Elisabeth Haich

ora è in buona salute. Ecco dunque tutto il mistero! Il Maharaja, vede,


è un uomo ormai anziano, ma desidera manifestare ancora la propria
virilità alla sua favorita ogni giorno: grazie a queste pillole auree, ha
potuto conservare l’ardore di un giovanotto, mentre, senza aiuto
esterno, la natura non potrebbe più accordare al suo corpo tanta ener­
gia; ma questa preparazione mette in moto i suoi centri nervosi, e
questo basta a ricaricare quotidianamente i suoi centri sessuali.»
Il nostro amico chiese ancora al medico:
«Perché mantiene questa conoscenza così segreta? Perché tanti
misteri? Perché l’umanità intera non può beneficiare di quest’arte?
Perché non istruisce i medici inglesi su queste conoscenze?»
Per un attimo il medico rimase pensoso, poi disse:
«L’uovo ha bisogno di essere fecondato dal gallo perché la vita
passi dallo stato passivo allo stato attivo. Per fabbricare questa prepa­
razione, ci vuole una fonte di energia che metta in movimento le
forze latenti delle molecole dell’oro e le faccia passare dallo stato
morto allo stato vivo. Questa fonte di energia è l ’essere umano stes­
so. Il potere di procreare non deve manifestarsi attraverso il corpo
soltanto, ma anche attraverso un altro livello, come energia; ad esem­
pio, l’ipnotizzatore manifesta la sua forza di procreazione su un livel­
lo spirituale: può penetrare l’anima altrui, risvegliando in essa forze
latenti per poi renderle attive, proprio come il suo sperma materiale
può penetrare un ovulo e scatenare in esso il processo della vita
attiva. Per mettere in movimento un certo processo di sviluppo nelle
materie varie, in questo caso l’oro, l’uomo ha bisogno della radiazio­
ne della propria energia vitale; se invece spende quest’energia attra­
verso il canale dei suoi organi sessuali, rende immediatamente passivi
e latenti gli altri centri nervosi che gli sono necessari per irradiare
l’energia vitale nella sua forma originaria di base. Tali centri nervosi
si aprono e si chiudono automaticamente: un uomo può quindi dirige­
re quest’energia sia verso gli organi sessuali, sia verso i suoi centri
più elevati, ma non può in alcun caso dirigerla simultaneamente in
entrambe le partii Ora capirà che, quando un padre inizia suo figlio a
questa scienza, quest’ultimo deve, oltre al giuramento di non rivelar
nulla, far voto di castità. Ecco perché un figlio riceve questa inizia­
zione solo dopo essersi sposato e dopo essere diventato padre più
volte, affinché la catena non debba essere interrotta. Mi presenti un
medico occidentale che, per ottenere questa scienza, sia pronto a vi­
vere castamente! L’esperienza, invece, ci ha dimostrato che i vostri
medici vogliono fare della loro scienza una fonte di guadagno sempre
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 137

maggiore, per soddisfare sempre meglio i loro istinti più bassi. Molti
hanno tentato di estorcerci i nostri segreti con tutti i mezzi, ma abbia­
mo capito che il loro scopo era guadagnare immense fortune con
queste conoscenze, o nutrire la loro vanità diventando celebri. Sicché
abbiamo taciuto. È triste dover constatare che il potere straniero in
questo Paese è andato fino a torturare alcuni medici Ayur-Vedici per
tentare di strappar loro i loro segreti; da quel momento, gli stranieri
non hanno più potuto trovare alcun iniziato dell’Ayur-Veda, giacché
nessuno di noi ammette di possedere tali conoscenze. Ci hanno obbli­
gato a portare una maschera e a diventare dei “misteriosi Orientali”;
abbiamo pagato a caro prezzo questa lezione, e tuttavia devo dirle
che, in tutti questi anni, ci sono stati medici stranieri, esseri umani
veri, che hanno voluto conoscere i nostri segreti allo scopo di aiutare
gli altri, e che non hanno esitato a fare il voto di Brahmacharya
(castità). Costoro hanno ricevuto l’iniziazione e lavorano sempre con
noi, ma, come noi, non fanno mostra del loro sapere. Quando l’uma­
nità sarà abbastanza progredita ed avrà raggiunto un livello che farà
dei suoi medici, in gran parte, uomini pronti a sacrificare i desideri
sessuali per poter guarire la gente, allora gli iniziati Ayur-Vedici
saranno presenti per svelar loro le verità ed i misteri. Per il momento,
gli Occidentali usano tutte le loro scoperte per nuocersi: qual è il
risultato della scoperta della dinamite, degli aerei? Nuove armi! E che
fareste, se scopriste il segreto dell’energia cosmica e dell’energia vi­
tale ancora più potente?... Altri mezzi per distruggere, altri soldi da
guadagnare. La guerra è un affare colossale. E perché sempre più
soldi? Per soddisfare ancor di più gli istinti, i piaceri sessuali, le
perversità. Vi chiedete perché non riveliamo il nostro sapere? I medi­
ci stranieri non lo vogliono! Appena ne conoscono le condizioni,
immediatamente il loro interesse viene a cadere; non possono imma­
ginare che, pagando un tributo tanto modesto, riveleremmo loro il
segreto di tutta la vita. È molto più semplice, senza tentare il minimo
sforzo, farsi beffe degli Orientali. La maggior parte degli stranieri
sembra pensare che la soddisfazione degli istinti sessuali rappresenti
la gioia suprema sulla Terra, e quindi come possono riuscire a cono­
scere la straordinaria potenza di un essere spirituale, se non cercano
neppure di acquisirla? Questa potenza non si può ottenere né con i
soldi né con la forza: il suo prezzo è la rinuncia. Ora, colui che l’ha
pagato scopre poi di non aver di fatto rinunciato a nulla, giacché in­
vece di una gioia passeggera e mortale, ha trovato la gioia imperitura
e immortale. Quale affare migliore di questo uno può concludere? Ma
138 Elisabeth Haich

non parliamone più: questi misteri non possono essere capiti con
l’intelletto; non si può capire lo spirito, se ne può fare soltanto
l’esperienza, lo si può vivere. Non si può che essere lo spirito\ La­
sciamo dunque gli altri camminare sulla via dell’intelletto: hanno
imparato già molte cose e progrediranno ancora, ma le “verità ultime”
rimarranno nascoste all’uomo guidato dalla ragione che non conosce­
rà mai la felicità di ESSERE a cui conduce la rinuncia. Hanno fatto
una caricatura dello yogi orientale: è dunque tanto sorprendente se gli
iniziati non rivelano i loro segreti, se si ritirano e sono introvabili per
gli Occidentali?
Le ho detto tutto questo perché posso vedere che nel suo caso non
si tratta di curiosità, ma del desiderio profondo di studiare la nostra
scienza. Lei cerca la verità, lei cerca Dio! Quelli come lei vanno
aiutati. Mi lasci dunque dare un consiglio: se vuole progredire più in
fretta, se vuole penetrare ancora più profondamente i misteri dell’es­
sere umano e della vita, pratichi lo Yoga!»
«Poi — continuò il nostro amico — egli mi spiegò che gli Orien­
tali avevano scoperto e perfezionato nel corso dei millenni diversi
metodi per permettere all’uomo di raggiungere lo scopo, ossia quella
felicità che ognuno porta in sé e a cui tende persino l’essere più
ignorante, la creatura più incosciente. Il compimento, la salvezza, la
felicità, o Nirvana come dicono gli Orientali: l’uomo può raggiunger­
lo qui, sulla Terra. La porta è aperta per chiunque ne abbia trovato la
chiave.
Lo Yoga è questa chiave!
Il medico indiano continuò le sue spiegazioni. In realtà, ogni azio­
ne eseguita dirigendo appropriatamente la coscienza, è già Yoga, per­
ché l’unico modo di cui disponiamo per raggiungere il grande scopo è
la concentrazione. Con metodi perfezionati nel corso delle ere, lo
Yoga insegna come concentrarsi e migliorare sistematicamente il no­
stro potere di concentrazione, offrendoci diverse vie: gli esercizi fisi­
ci, mentali e spirituali di concentrazione. Questi sviluppano le facoltà
più elevate dell’uomo, aprendogli occhi ed orecchi spirituali: egli
diviene il maestro di se stesso e il padrone delle forze creatrici e delle
forze del destino. La via verso la felicità gli è aperta o, in altri termi­
ni, la via verso la realizzazione di sé, verso Dioì La via yogica supre­
ma più difficile è quella del Raja-Yoga, dove “raja” significa “re”.
Possiamo quindi tradurre il termine “Raja-Yoga” con “Yoga regale”.
È la via più breve, la più ardua, la più stretta, quella insegnata dal
Cristo nella Bibbia; con pazienza e perseveranza si giunge alla meta.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 139

Il medico indiano mi insegnò gli esercizi di base dello Yoga,


quelli che ti ho insegnato anch’io, e in seguito m’indicò come entrare
in contatto con uno dei più grandi yogi. Andai da lui, un uomo di
ottant’anni passati che non sembrava averne più di quaranta: era un
Hatha-yogi. Questi yogi conoscono tutti i segreti del corpo, e possono
mantenerlo in buona salute per diverse centinaia di anni. Gli indiani
dicono che ancora oggi vivano tra i monti yogi che hanno settecento-
ottocento anni di età.»
Mio marito si mise a ridere:
«Oh! Vivere settecento anni? Non sarebbe poi male! Ma penso
che, purtroppo per te, quel sogno sia svanito presto!»
Il nostro amico replicò:
«Sei proprio un “vero Occidentale”! Il fatto che tu non abbia
sentito parlare di certe cose non vuol dire che queste non esistano. Gli
Orientali conoscono molto meglio di noi i misteri dell’essere umano,
ma hanno dovuto imparare a tacere. I primi conquistatori venuti dal-
l’Occidente hanno fatto di tutto perché gli Orientali mantenessero il
silenzio, e ancora oggi, sanno benissimo nascondere i loro segreti.
Ho imparato così tante cose in India che sono diventato molto pru­
dente: non mi faccio più beffe di nessuno.»
«Va bene, va bene — disse mio marito — credo anche che sia
possibile vivere più a lungo giacché, in Occidente, la vita media si
allunga costantemente malgrado l’alcool, la nicotina e il nostro modo
di vivere assolutamente irragionevole. Cinquanta o sessantanni fa,
l’età media della popolazione era ancora di trentacinque anni e, in
breve tempo, siamo passati a sessanta. Dove si trova il limite? La
scienza medica avanza a passi di gigante, e chissà a quali risultati ci
porterà!»
«Vedi, la tua convinzione profonda non ha nulla di cinico; ma in
Occidente non osiamo esprimere ciò che sentiamo perché non è di­
stinto parlare di cose sconosciute senza farsene beffe. Rispetto la
conoscenza dei nostri scienziati, ma fanno finta di sapere tutti i segre­
ti della vita mentre ignorano tutto della morte. Gli Orientali hanno
decifrato il codice della vita e della morte e hanno una sola arma per
opporsi allo scherno dell’Occidente: il silenzio. Non c’è da stupirsi, e
ti faccio un esempio: un Indiano mi mostrò un accendino, con la
figura del Buddha nella posizione del loto; si trattava di una chinca­
glieria da bazar, ma mi disse: “Un Orientale non si permetterebbe mai
di fare del Cristo un volgare accendino, noi rispettiamo i simboli
religiosi delle altre credenze. Abbiamo visto che, dietro tutte le rap­
140 Elisabeth Haich

presentazioni divine, c’è un solo Dio!” E appoggiò con delicatezza


l’accendino-Buddha sull’altare di famiglia.
Quale Occidentale provai una profonda vergogna, e mi chiedo
quanto tempo ci vorrà perché l’Occidente smetta di insultare l’Orien­
te con una siffatta mancanza di gusto, di tatto e di rispetto. Pensa
anche soltanto ai film che ci fanno vedere Sull’Oriente: anche gli
Orientali li vedono, e ti assicuro che si sono formati un’opinione al
riguardo... ma tacciono.»
«Ci sono libri che parlano di Yoga?» chiesi.
«Il libro più bello e più sacro degli Indiani è la Bhagavad Gita. Vi
troverai le più belle descrizioni della via spirituale che conduce alla
realizzazione di sé attraverso il Raja-Yoga, e te lo consiglio vivamen­
te.»
Avevo ascoltato abbastanza: quella sera stessa volli cominciare a
leggere il libro che avevo preso in prestito e mi misi comodamente a
letto, aprii il pacchetto che conteneva il libro e iniziai a sfogliarlo.
Con mio grande stupore, mi accorsi che non si trattava del libro
che avevo scelto\ Cercai il titolo. Che strano... Ricordavo di aver letto
quel titolo quando avevo frugato nella biblioteca del nostro amico,
ma ricordavo anche di aver preso l’altro libro, quello che desideravo
leggere. Avevo forse fatto un errore, e preso quello accanto? A quan­
to pareva, era andata così. Ma giacché ormai avevo questo libro fra le
mani, decisi di guardarlo più da vicino. Subito risvegliò il mio inte­
resse. Visto dall’estemo, sembrava un libro moderno, come se fosse
stato appena rilegato, ma all’interno scoprii che conteneva un mano­
scritto antichissimo; la carta era diventata quasi bruna, rosicchiata
dalle tarme, e l’inchiostro nero, scurissimo, la scrittura stessa, diceva­
no quanto fosse antico. Cominciai dunque a leggerlo, e nel volgere di
poche pagine il mio stupore si trasformò in una tale eccitazione che
quasi non riuscivo a continuare.
Il manoscritto parlava di un Ordine più antico della Terra stessa:
un Ordine segreto, puramente spirituale, privo di alcun segno esterio­
re visibile “di appartenenza”. Un Ordine che accoglie continuamente i
neofiti i quali, senza saper nulla circa l’esistenza dell’Ordine stesso, si
presentano da soli. Questo “contatto” avviene quando un essere uma­
no ha raggiunto un certo livello di sviluppo, quello in cui rinuncia a
tutto ciò che è personale, e dedica tutta la vita a lenire le sofferenze
altrui. Quando un uomo prende questa decisione, un membro dell’Or­
dine segreto si mette in contatto spirituale con lui; in altri termini,
l’individuo che ha deciso di sacrificare la propria persona ed ha quin­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 141

di toccato l’amore universale, raggiunge un tale livello di sviluppo da


poter rispondere naturalmente alle vibrazioni emesse dai membri di
questa fratellanza spirituale. Così egli sente in sé la voce della guida
spirituale che l’avverte di tutte le difficoltà, di tutti i pericoli e delle
conseguenze di questa sua decisione; se persevera in questa sua scel­
ta, allora viene accettato in seno all’Ordine che ha lo scopo di aiutare
l’umanità ad uscire dal caos. Subito, e senza che egli lo sappia, viene
messo alla prova: è un periodo che comincia immediatamente, nel
quale il neofita viene lasciato completamente a se stesso per sette
anni. L’Ordine non stabilisce alcun contatto con lui, qualsiasi cosa
egli faccia per cercare tale contatto; invece si susseguono le prove,
sette delle quali hanno a che fare con le virtù umane: deve liberarsi di
ogni sensualità, vanità, collera, cupidigia, desiderio, suscettibilità e
saper resistere ad ogni influenza esterna.
Se, malgrado la solitudine in cui viene lasciato, passa tutti questi
esami rimanendo fedele alla propria decisione, allora lo si considera
atto all’Opera e viene accettato in via definitiva; ne viene informato
quel giorno stesso, mediante una “coincidenza”, un segno del “caso”,
e, da quel momento in poi, riceve una formazione molto serrata; nel
contempo gli vengono affidati dei compiti, esercizi inizialmente facili
che diventano sempre più complessi a seconda della sua capacità nel
risolverli, e che hanno una natura diversa di volta in volta. Alcuni
neofiti lavorano nell’ombra, mentre altri devono esercitare pubblica­
mente: può accadere che abbiano incarichi in qualità di mendicante
una volta e di ricco un’altra, oppure possono diventare assistenti di un
celebre inventore, oppure oratori, scrittori. Alcuni occupano posti in­
fluenti nel mondo, altri sono modesti operai in una grande fabbrica.
Due membri dell’Ordine possono addirittura dare l ’impressione di la­
vorare l’uno contro l’altro, pur restando permanentemente in contatto
fra loro e senza mai rivelare che stanno camminando nella stessa
direzione; sono a volte personaggi celebri, adorati dalla folla, mentre,
in altri casi, vivono in una tale miseria da dover sopportare le più
severe privazioni ed umiliazioni. Devono poter svolgere il loro com­
pito recitando perfettamente tutte queste parti in modo del tutto im­
personale, come semplici servitori della grande causa e, in più, sono
interamente responsabili di tutti i loro attiì Le missioni vengono loro
affidate, ma sta poi a loro decidere come eseguirle, senza perdere di
vista le conseguenze che possono derivarne; più avanzano, e più le
responsabilità sono pesanti.
Chi rifiuta la responsabilità delle proprie azioni e del proprio
142 Elisabeth Haich

lavoro, cercando di affibbiarla ad un altro membro dell’Ordine, chi


non vuol riconoscere il proprio lavoro come un esercizio liberamente
accettato, lasciando intendere che agisce per conto dell’Ordine o qua­
le strumento spirituale di un membro dell’Ordine, diventa un traditore
e perde istantaneamente qualsiasi contatto con la Fratellanza. Tutta­
via, egli non ne è al corrente e può ancora a lungo credersi membro di
esso. Queste persone vengono allora utilizzate perché altri possano
essere messi alla prova, per sapere se costoro si lasciano ingannare da
falsi profeti o se sono invece capaci di discriminazione, di pensare in
modo indipendente, se sono abbastanza avanzati per pesare ogni pa­
rola che odono prima di accettarla. Coloro che seguono i falsi profeti,
sono come dei ciechi guidati da un altro cieco, sicché gli uni e gli altri
cadono nella fossa! L’Ordine può raccogliere soltanto esseri indipen­
denti che sanno resistere ad ogni influenza, che non devono fare il
bene o evitare di fare il male per semplice spirito di obbedienza o di
profitto, aspettandosi una ricompensa e pensando che potranno “an­
dare in cielo”, oppure per spirito di viltà, nel timore di una punizione
e dell’“inferno”. I membri dell’Ordine, invece, debbono essere in
grado, in qualsiasi momento della vita e della morte, di seguire la
loro convinzione profonda e di agire di conseguenza, giacché i mes­
saggi dell’Ordine che essi odono nel loro cuore rappresentano la
loro più profonda convinzioneì
Leggevo quelle parole con crescente emozione: “Rinunciare ai
piaceri terreni”? Oh! Quella notte in cui avevo pianto con tanta dispe-
razione!... E mai possibile rinunciare più di così?
“Voler lenire le sofferenze altrui”? Dio solo conosce la gravità del
giuramento che avevo fatto allora in camera mia, ripensando alle
atroci sofferenze dei malati mentali e all’incessante dolore di tutti gli
abitanti del pianeta! Ora mi ricordavo di tutti gli avvertimenti, di
quell’insopportabile solitudine, di quell’orribile senso di abbandono
totale per così tanti anni! Quanti anni erano dunque passati da allora?
Sette... esattamente sette anni! E oggi, questa coincidenza, con quel
libro... Un caso? No! Era un messaggio... un messaggio!
Ero profondamente scossa e, come sempre, cominciai ad analizza­
re i fatti con l’intelletto, giacché non avevo mai rinunciato a operare
dei controlli per mezzo della ragione. Ma la ragione, che avrebbe
potuto dire, ora? Sapevo che era così. Che avrebbe potuto fare l’intel­
letto se non riconoscere e confermare i fatti? La più scettica delle
ragioni poteva solo tacere davanti a tante coincidenze. No, non pote­
vo dubitarne: ero stata accettata!
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 143

Un indicibile senso di gioia e gratitudine mi invase interamente,


sentivo la grazia di Dio e la sua benedizione su di me. Un’umiltà
profonda. Una solennità...
Da allora, sono sempre rimasta in questo stato.
CAPITOLO XXI

E la luce fu
Da quel preciso momento, le persone, uomini e donne, giovani e
vecchi, che venivano a consultarmi aumentò costantemente: desidera­
vano un consiglio per trovare la via della felicità. Sempre più “ricer­
catori” mi chiedevano aiuto, eppure avevo l’impressione di essere
ancora nel buio più assoluto; allora, come aiutarli? Come lenire tutte
le ferite che queste creature portavano sulla loro anima, quando io
stessa non avevo ancora chiarito il problema della vita e della morte?
L’importante era uscire dalle mie proprie tenebre: “cercavo” come
mi era stato consigliato dalla voce interiore, e cercavo di avanzare
leggendo buoni libri; ne trovai uno che descriveva gli esercizi segreti
del Raja-Yoga, cioè il cammino verso di sé. Li misi subito in pratica,
giacché sapevo che la lettura è necessaria soltanto per sapere ciò che
bisogna fare. Se si vuole raggiungere la meta (il Sé) bisogna realizza­
re ciò che si è imparato!
Ero dunque in cerca della realtà, non quella delle belle parole o
delle teorie, ma lo Yoga spirituale che richiedeva la più stretta ascesi.
Ne parlai a mio marito, che era il mio migliore amico, e che
sapeva che la risposta alle tre grandi domande, cioè da dove, dove e
perché, era per me di importanza vitale. Mi diede il suo pieno accordo.
Mio padre aveva comprato, per tutta la famiglia, una proprietà in
montagna, sicché avevamo una casetta proprio nel bosco. Mi ci tra­
sferii da sola per un lungo periodo, giacché mio figlio, ormai, era
studente in un collegio e tornava a casa soltanto nel periodo delle
vacanze; mio marito viaggiava molto, e ci incontravamo soltanto per
il fine settimana.
Dal grande spiazzo davanti alla casa si godeva di una vista magni­
fica su tutta la valle, lo sguardo si perdeva all’infinito nelle vaste
pianure di quella regione e, ai piedi del monte, scorreva lentamente il
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 145

fiume maestoso. Sull’altra riva, le strade formavano un immenso reti­


colo, come vene di un corpo gigantesco, e le auto sembravano minu­
scole cellule del flusso sanguigno. Sembrava tutto così piccolo, i
villaggi, le case, gli esseri umani affaccendati come tante formiche...
Le altre finestre della casa davano sul bosco nel quale si poteva
camminare per giorni interi immersi in un silenzio impressionante. A
volte i fagiani arrivavano fino alla casa e, in autunno, i cervi bramiva­
no vicinissimi; di notte li si sentiva passare. Porte e finestre erano
munite di sbarre per proteggersi dai cinghiali e da altri animali peri­
colosi.
Qui vivevo da sola: ogni mattino trovavo sullo spiazzo davanti a
casa il latte appena munto, e poi scendevo in cantina per preparare la
legna per la giornata, scaldavo la casa e mi dedicavo ai miei esercizi.
Quella casa sperduta nel bosco era il luogo ideale per praticare lo
Yoga. Tutta quella zona era nota per il senso di solennità che sprigio­
nava, e la tranquillità dei boschi e la purezza virginale della natura
agivano in modo benefico su tutti, anche senza praticare lo Yoga.
L’uomo diventava più ricettivo alle vibrazioni elevate, e le facoltà
spirituali si sviluppavano, sicché potevo, senza sforzo, eseguire anche
i più difficili esercizi di concentrazione e meditazione.
Avevo portato con me un libro che si rivelò un vero e proprio
tesoro: quando avevo finito gli esercizi di concentrazione che richie­
devano molte ore, mi immergevo nello studio di simboli straordinari
che rappresentavano le verità più profonde (figure segrete dei
Rosacroce dei secoli XVI e XVII); i misteri di quel libro si rivelavano
a poco a poco al mio sguardo spirituale. A parte questo, studiavo la
filosofia orientale, specialmente i Veda e le Upanishad.
Non dimenticherò mai il tempo che trascorsi in quella foresta,
sono ricordi che non potranno svanire perché, nei momenti di estasi
che vissi in quel luogo, mi venne mostrato, per la prima volta, da
dove venivo, dove stavo andando e perché ero venuta al mondo.
I lunghi esercizi di concentrazione e di meditazione mi aiutarono
a penetrare sempre più profondamente nella mia stessa anima, smuo­
vendo dentro di me delle energie che poi continuavano ad agire anche
quando mi occupavo delle faccende quotidiane e durante il sonno.
Durante una passeggiata nel bosco, accadde che mi s’imponessero
alla mente immagini di luoghi conosciuti: ma da dove provenivano?
Perché mai, in questa vita, avevo visitato quei luoghi. Quando ero
sveglia, o durante i sogni, vedevo persone che mi erano familiari,
alcune anche molto vicine, eppure non le avevo mai incontrate in
146 Elisabeth Haich

questa vita: i loro abiti, i loro nomi, la lingua nella quale conversava­
mo in sogno, mi erano estranei ed erano lontanissimi da tutto ciò che
allora conoscevo.
Quando mi sedevo a meditare, dirigevo tutta la mia attenzione
verso l’interno; allora si accendeva in me una luce turchese, che
andava crescendo, e sembrava provenire dagli occhi invisibili di un
essere potente e puramente spirituale. Quello sguardo mi permeava di
una forza, di un amore e di una bontà indicibili. Con assoluta fiducia,
mi immergevo in quella fonte di energia benefattrice e in essa mi
sentivo sicura, senza alcuna apprensione, penetrando sempre più pro­
fondamente nel mondo ignoto dell’inconscio.
Un giorno, d’un tratto, la luce cacciò le tenebre che avevano na­
scosto il passato e la realtà. Tutto diventò chiaro.
Quando, come al solito, mi ero seduta a meditare, la luce fosfore­
scente era apparsa al mio sguardo interiore ma, quella volta, sentii più
chiaramente ancora che la fonte di tale luce erano gli occhi di un
essere potente e familiare; quella sensazione aumentò talmente che
seppi che quei due occhi posavano il loro sguardo su di me: li sentivo,
sentivo la loro luce, la loro potenza, l’amore di quello sguardo. Un
istante dopo, apparentemente per effetto di quello sguardo, il resto
della nebbia che ancora avvolgeva la mia coscienza scomparve: da­
vanti a me stava una figura maestosa dagli occhi di un azzurro molto
scuro, infinitamente profondi, la sua forma, il suo volto, i suoi occhi:
LUI\
CAPITOLO XXII

Nota dell’autrice
Lungi da me l’idea di voler dare un ritratto storico dell’Egitto: una
persona che vive in un certo luogo, non considera i costumi, la lingua
e la religione del proprio Paese dal punto di vista etnografico, li trova
semplicemente naturali; è un essere umano con le sue gioie ed i suoi
dolori, come qualsiasi altro essere umano di qualsiasi altra epoca,
perché l’essere umano resta sempre uguale.
Ciò che racconto qui riguarda soltanto il fattore umano, non l’et­
nografia o la storia. I concetti vengono dunque espressi intenzional­
mente in modo moderno, e gli insegnamenti del gran sacerdote
Ptahhotep sono tradotti in termini contemporanei affinché la gente di
oggi possa comprenderli. Allo stesso modo, ho dato ai simboli reli­
giosi la denominazione attuale che tutti conosciamo: se diciamo Dio,
l’uomo moderno capisce meglio di cosa stiamo parlando che se do­
vessimo usare, per lo stesso concetto, l’espressione Ptah', perché, se
dicessimo Ptah, tutti penserebbero: «Ah! Ptah, il dio egizio!»
No: Ptah non è mai stato un dio egizio, perché gli Egizi hanno lo
stesso nostro Dio , ma, nella loro lingua, lo chiamano Ptah. Allo stes­
so modo, per esempio, Satana è chiamato Seth. Sappiamo esattamen­
te che cosa significano le parole Dio e Satana, mentre le parole Ptah
e Seth ci sono estranee, quindi sono prive di senso per noi.
L’espressione Logos ovvero principio creatore, ci dice molto di
più che non falco Horus. Da sempre l’elettricità è l’elettricità, l’atomo
è l’atomo, ma un tempo li chiamavano diversamente. Nessuno dun­
que si scandalizzi e parli di anacronismo, quando il gran sacerdote
egizio, per esempio, utilizza l’espressione “reazione a catena”! Ri­
nuncio intenzionalmente ad imitare le antiche espressioni.
Il principio
creatore
attraversa lo
spazio proprio
come il falco
Horus, e crea i
mondi. Incarna
la legge di Dio;
ecco perché
porta sul capo le
tavole dei dieci
comandamenti
divini.

Il falco divino Horus —


Museo del Cairo
Il Faraone è l’immagine di Dio al quale il principio creatore, il falco Horus,
rivela la verità divina. L’iniziato ascolta la sua voce e obbedisce.
Il Faraone Chephren — Museo del Cairo
CAPITOLO XXIII

Il passato diventa presente


Egli era lì e mi guardava con calma. Quello sguardo, quella tran­
quillità celestiale che emanava dai suoi occhi, mi diede la forza di
sopportare lo sconvolgimento, l’infinita gioia di rivederLo. Il suo vol­
to era immobile, ma gli occhi sorridevano e sapevo che anche Lui era
felice di vedermi finalmente sveglia, di constatare che io Lo vedevo
di nuovo. Perché Lui mi aveva sempre vista, i suoi occhi erano andati
al di là della nebbia che oscurava la mia coscienza, aveva visto le mie
lotte, le mie sofferenze, i miei tormenti e non mi aveva mai abbando­
nata. Anzi: mi aveva aiutata a svegliarmi, a diventare cosciente.
Il ricordo si impose con forza: le immagini sfocate che portavo in
me, ma che non ero mai riuscita a rendere coscienti, si fecero chiare e
precise, trascinandosi dietro altri ricordi che sorgevano dal profondo
del mio inconscio e che, simili ad un mosaico, finirono col formare
l’immagine completa di una vita precedente nel Paese del grande
fiume, il Nilo, il Paese delle Piramidi...
In me, tutto si fece vivo: le impressioni della vita presente impalli­
dirono lasciando il posto a colei che ero stata un tempo e che ora si
andava svegliando.
La piccola e semplice camera della casa nel bosco in cui ero
seduta, la magnifica vista sulla valle e sul fiume, tutto scomparve
lentamente: non vedevo neppure più Lui. La stanza si allargò per di­
ventare un’immensa camera.
Mi trovo nel mio appartamento privato e vedo che una donna ben
in carne e deliziosa mi sorride con gioia.
Ah! Sì. Oggi è il mio compleanno, ho sedici anni, mi infilo l’abito
da cerimonia perché assisterò fra poco ad un grande ricevimento: mio
padre mi presenterà ai dignitari del Paese quale sua sposa, succeden­
do alla regina prematuramente scomparsa.
Iniziazione: memorie di un’Egizia 151

Un’enorme piastra d’argento battuta e levigata con arte consuma­


ta, riflette la mia immagine, e guardo la mia cara, vecchia Menu che
mi sta vestendo.
Mia madre è morta quand’ero ancora piccola: i ricordi della sua
figura sottile e fragile sono sfocati, e soltanto restano vivi nella mia
memoria i suoi grandi occhi tristi dopo che, per l’ultima volta, mi
hanno contemplata a lungo, prima di chiudersi per sempre. Quello
sguardo ha crealo fra noi un legame interiore che sento ancora vivo in
me, specialmente oggi, giacché dovrò prendere il suo posto in questo
Paese. i»
Eccomi pronta, e l’immagine che lo specchio mi rimanda mi pia­
ce: una figura sottile, delicata e slanciata, vestita con un abito raffina­
to, ricamato in seta e oro. La cintura d’oro sottolinea la vita sottile,
l’ampia gorgiera mette in risalto le spalle, la pettinatura sottolinea
l’espressione sicura e riflessiva del volto. Sono vanitosa e mi piaccio,
e Menu, che mi crede la creatura più perfetta del mondo, piange di
gioia.
I due dignitari più anziani del Paese vengono a prendermi per
accompagnarmi lungo il corridoio che conduce alla sala dei ricevi­
menti. A passi lenti e solenni mi scortano fra le personalità di alto
rango, alla volta della “grande casa”, il Faraone mio padre, che diven­
terà il mio sposo. Egli siede su un trono d’oro, simile a un Dio. Non è
a caso che il suo nome significa “grande casa”: Phar-ao. La sua
persona è il guscio, la “casa” di Dio. Dio abita in lui, si irradia e si
manifesta attraverso di lui. La forza del suo sguardo è così penetrante
che coloro che non sono del tutto onesti devono abbassare gli occhi.
Eccolo, mi guarda, guarda ben oltre me! Sostengo il suo sguardo, mi
aggrappo ad esso perché so che l’enorme forza che emana da lui è la
forza dell’amore. Vede tutto, vede anche che sono vanitosa e tutte le
altre mie imperfezioni, ma comprende ogni cosa, è l’amore in perso-
na. E mio padre!
Un leone maestoso, dignitoso ed immobile, siede accanto al trono,
simbolo della sovrumana potenza del Faraone.
Mi fermo ai piedi degli scalini che conducono al trono: il Faraone
si alza, ed estrae da un prestigioso cofanetto per i gioielli retto dal
cancelliere il più bel capolavoro di arte orafa: una gorgiera d’oro che
appoggia sulle mie spalle. Poi prende un diadema che termina a for­
ma di testa di serpente, e lo depone con fermezza sul velo di seta
bianca che mi copre la testa. Il simbolo dei membri della razza dei
Signori, dei figli di Dio... il simbolo degli Iniziati...
152 Elisabeth Haich

Il Faraone mi prende la mano destra e mi conduce verso il trono.


Ci volgiamo verso l’assemblea e mi presenta quale colei che succede
alla regina, quale sua sposa. Ci sediamo, io alla sua sinistra, un po’
più in avanti. Poi, sfilano tutte le personalità: prima gli Anziani, poi
gli alti dignitari con le loro mogli che, a braccia tese, si prosternano
davanti al Faraone e davanti a me. Restiamo immobili, soltanto i
nostri occhi entrano in contatto con gli occhi di coloro che ci passano
davanti; sto pensando che in questo momento manifesto lo spirito di
mia madre, e sono del tutto cosciente dei miei doveri e delle mie
responsabilità. I dignitari sfilano e, nei loro occhi, vedo la loro anima:
in alcuni, riconosco l’amore ed il rispetto; in altri l’invidia, la curiosi­
tà o un servilismo vile. 11 cancelliere Roo-Kha si prosterna davanti a
me. Come spesso ha fatto in altre occasioni, incontrandomi nel palaz­
zo, mi lancia uno sguardo contemporaneamente cinico, impertinente
ed intimo; per lui i miei occhi diventano di ghiaccio.
Il corteo continua a sfilare, e vedo amici, giovani e vecchi, ex
compagni di giochi, che irradiano vero e proprio amore: i nostri occhi
si incontrano e quell’istante di unione ci arricchisce. Lentamente, tutti
sfilano davanti a noi, silenziosi, ma tutti spiritualmente uniti...
Le lunghe cerimonie finalmente si concludono; il Faraone si alza
e mi tende la mano, scendiamo i gradini del trono e abbandoniamo il
salone fra due file di dignitari e di uomini di Stato. Mio padre mi
conduce al suo appartamento, si siede, mi indica una sedia e mi
sorride. Vedo che gli piaccio. Lascia scorrere il suo sguardo su di me
ed apprezza ciò che vede, poi dice:
«Ora ci incontreremo più spesso, perché dovrai svolgere le fun­
zioni ufficiali di tua madre per le quali sei stata a lungo preparata.
Conosci i tuoi doveri. In ricordo di questo giorno, vorrei che tu espri­
messi un desiderio. Che cosa vuoi? Questa è la domanda che aspetta­
vi, allora dimmi ciò che desideri.»
Sì, avevo atteso che me lo chiedesse e, come molte giovani donne,
avrei potuto chiedere dei gioielli, giacché quello che portavo in quel
momento era strettamente riservato alle grandi cerimonie; oppure un
bel viaggio, o un giovane leone addestrato o qualcosa di simile. Ma
non era questo ciò che volevo!
«Padre — dissi — guarda l’ornamento che porto in fronte!»
Il Faraone guarda il diadema, poi me e dice:
«Sì, è il serpente d’oro, simbolo della razza dei Signori, dei figli
di Dio.»
«Sì, Padre, ma è anche il segno dell’iniziazione. Ora lo porto
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 153

senza averne diritto, giacché non sono stata iniziata. Il mio massimo
desiderio, ciò che ti chiedo, è l’iniziazione!»
Padre si fece molto serio:
«Figlia mia, chiedimi qualcos’altro. Sei ancora molto giovane e
non ancora abbastanza matura per ricevere l’iniziazione. I giovani
germogli non devono essere esposti al sole violento, perché altrimenti
si bruciano senza aver potuto fiorire. Aspetta di aver acquisito le
esperienze necessarie nella vita terrena, nella vita fisica. Prepararti
ora all’iniziazione renderebbe infinitamente più difficili le prove che
dovresti attraversare più tardi. Perché causare inutili tormenti? Chie­
dimi quacos’altro, figlia mia.»
Ma io insisto:
«Padre, a parte questo non c’è nulla che io desideri. Le cose che
interessano gli altri giovani, mi annoiano; dietro ogni piacere terreno,
vedo i desideri della carne. I bei gioielli mi piacciono molto, ma, per
me, l’oro è una materia che diventa preziosa soltanto quando lo spiri­
to si manifesta attraverso il lavoro dell’orefice. Quando viaggio, mi
piacciono i paesi nuovi, tutte le cose degne di essere viste, ma non
posso dimenticare neppure un istante che tutto questo è soltanto la
creazione, mai il creatore. Desidero fare l’esperienza delle verità su­
preme nella loro realtà. Voglio conoscere Dio creatore. Padre, sai che
questo processo attraverso il quale tutti passiamo e che chiamiamo
“vita” è solo sogno, apparenza; tutto ci sfugge fra le dita, non si può
gioire definitivamente di nulla, tutto è passeggero, effimero, tra il
passato e il futuro. Ma io voglio vivere il presente che non diventerà
mai passato e che non fu mai futuro. E voglio anche trovare quel
“luogo”, quello stato che non è mai “laggiù” prima che io possa arri­
varci, ma che si chiama “qui” non appena vi giungo, e che non è mai
“qui” fintantoché io non ci sono, ma che si trasforma di nuovo in
“laggiù” quando lo lascio. Voglio vivere il presente assoluto nel tem­
po e nello spazio. Padre, voglio la realtà suprema, voglio l’iniziazio­
ne.»
Padre mi ascolta attentamente, ma diventa sempre più triste, e poi
dice:
«Il tuo risveglio spirituale si è manifestato prima del dovuto. Tutto
ciò che posso fare è autorizzarti ad andare da mio fratello Ptahhotep,
il gran sacerdote del Tempio, Capo della nostra razza. Gliene parlerò,
ti affido a lui ed egli ti guiderà. Che Dio rischiari la tua via con la sua
luce eterna!» ¿
Mi pone una mano sul capo e mi dà la sua benedizione. Vorrei
154 Elisabeth Haich

potermi gettare fra le sue braccia per ringraziarlo di quell’autorizza­


zione, ma la pesante gorgiera d’oro mi trattiene, non consentendomi
alcun movimento brusco. Padre legge tutti i miei pensieri, e ha visto
anche che quella spontaneità voleva manifestare la mia gioia; sorri­
dendo, mi dice:
«Da un lato, sei solo una bambina troppo cresciuta; dall’altro sei
matura ed adulta. Hai ancora molto da fare per acquisire una perfetta
padronanza di te, se vuoi essere iniziata.»
Gli rispondo ridendo:
«Ho una buona padronanza, Padre, quando voglio!»
«Ti credo volentieri, ma lo vuoi sempre?» mi chiede sorridendo.
«Padre, dar sempre prova di questa padronanza è una seccatura»
dico.
«E qui sta il pericolo: trovi che è una seccatura e lo pensi davvero.
Rifletti un attimo: se anche per un solo secondo non imponi la tua
volontà al tuo leone favorito, e se in quel momento di debolezza
questi ti attacca, sei finita. La nostra natura interiore è un animale
simile al leone: entrambi devono essere costantemente e solidamente
tenuti al guinzaglio perché le loro energie possano servirci. Dunque,
sii prudente!»
Prendiamo congedo l’uno dall’altra, ed egli mi accompagna alla
porta. I due Anziani mi aspettano in anticamera. Oh! quanto mi danno
fastidio, tutte queste cerimonie! Perché mai devo camminare lenta­
mente e con passo posato fra questi due vecchi signori fino al mio
appartamento, come se avessi la loro età? Mi piacerebbe correre il più
in fretta possibile e andare da Menu che, eccitatissima, mi sta aspet­
tando con impazienza. Ma devo camminare con dignità, maestosa­
mente, affinché la gorgiera d’oro sulle mie spalle non cada. Eccoci
finalmente alla mia porta, prendo congedo dai due Anziani e lo faccio
con dignità e con maestà! Entro, e resto in mezzo alla stanza affinché
Menu possa ammirarmi così vestita: la mia bellezza la sconvolge, la
maestà dei miei movimenti la fa scoppiare a piangere perché, come
dice lei, assomiglio tanto a mia madre.
Le dico:
«Come sei ignorante, Menu! Non posso assomigliare a nessuno e
non mi piace che tu dica queste stupidaggini. Il mio naso o la mia
bocca possono assomigliare al naso o alla bocca di mia madre, ma
“io”? Forse che tu riesci a vedere il mio “io”? Vedi soltanto il mio
corpo, la casa del mio io, ma tu non mi vedi davvero. Allora, come
posso assomigliare a qualcuno?»
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 155

«Su, su — dice Menu — se non ti vedo, come puoi essere così


bella? Rispondimi! Se non posso vederi/, chi si trova davanti ai miei
occhi in questo momento e che io trovo così bella non sei tu, ma la
casa del tuo io. Allora tu non sei bella per niente. Smetti di compor­
tarti con tanto orgoglio!»
E ridiamo insieme. Con il suo semplice buonsenso, Menu può
darmi a volte risposte tanto sagge che mi vergogno di me stessa. Sì,
aveva scoperto il mio punto debole, la mia vanità: con infinita tene­
rezza mi toglie la gorgiera d’oro, poi il diadema che ripone nel cofa­
no, mentre Roo-Kha, il guardiano del Tesoro e due portatori attendo­
no di poter riporre questi ornamenti nella camera blindata fino alle
prossime festività. Roo-Kha entra nella mia anticamera e si prosterna
davanti a me; quest’uomo mi innervosisce perché vedo che non si
prosterna per rispetto, ma perché deve. Il suo sguardo è nuovamente
familiare ed impertinente, ma cerco di comportarmi nel modo più
nobile e regale possibile. Finalmente, eccomi sola con Menu.
Da quando mia madre è morta, Menu è diventata la mia nutrice; è
stata ed è rimasta sempre la mia cameriera, con la quale ho un rappor­
to di fiducia molto più stretto che non con le dame di Corte, le quali si
sono incaricate della mia educazione. Menu mi ama con tanta tene­
rezza che so di poter fare di lei ciò che voglio; tutto ciò che dico o
faccio la riempie di gioia, e non ho mai espresso un desiderio che lei
non si sia affrettata a soddisfare se le era possibile. E sempre stata
vicino a me, ed ora che sto per essere chiamata a svolgere funzioni
ufficiali al fianco di mio padre, teme che io possa allontanarla. Ma le
voglio bene ed ho una fiducia illimitata in questa creatura che mi ama
in modo così sincero e assolutamente disinteressato.
Quand’ero bambina avevo visto mio padre molto raramente: era
ed è il “grande Signore” della nazione, venuto sulla Terra per guidare
gli uomini sul loro cammino terrestre. Tutta la sua vita è dedicata ad
insegnare ai figli degli uomini come governare un Paese, affinché
tutti gli abitanti possano svilupparsi in modo armonioso. Durante la
mia infanzia questo compito lo occupava al punto che aveva molto
poco tempo per me, tuttavia, ogni giorno, mi faceva una breve visita
in giardino dove giocavo con i figli delle dame di Corte. Allora mi
prendeva in braccio, oppure si accoccolava accanto a me, mi guarda­
va con amore infinito, mi benediceva e se ne andava. Mi parlava
come se fossi stata adulta.
Invece, per i figli degli uomini, l’età è così importante, sono tal­
mente legati al loro corpo da identificarsi con esso, e scordarsi di
156 Elisabeth Haich

essere spiriti liberi da ogni vincolo temporale e spaziale. I figli degli


uomini credono davvero che si possa essere “piccoli” o “grandi”, ma i
figli di Dio conservano la coscienza spirituale anche quando si incar­
nano, e non dimenticano mai che soltanto il corpo può essere “bambi­
no” o “adulto”, mentre lo spirito è e resta sempre lo stesso. Non è né
grande né piccolo, né giovane né vecchio, perché non appartiene al
tempo e allo spazio. Ecco perché la differenza di età e la scarsità dei
nostri incontri non potevano nuocere alle relazioni fra me e mio padre.
In seguito, a volte, mi conduceva a passeggio: quand’ero stanca
mi prendeva in braccio e continuava a parlarmi dei misteri della natu­
ra che mi affascinavano tanto; un giorno gli avevo detto:
«Padre, voglio sapere tutto, come te!»
E lui mi aveva risposto:
«Quando sarai iniziata, tutti i misteri del cielo e della terra ti
saranno rivelati.»
Non avevo mai dimenticato le sue parole ed attendevo con impa­
zienza il tempo della mia iniziazione.
Pur vivendo sempre in mezzo agli estranei non mi sentivo mai
sola; sapevo che mio padre mi comprendeva alla perfezione, ed anche
se ci incontravamo di rado, restavamo uniti spiritualmente. Io facevo
parte di lui, ed allo stesso modo mi sentivo unita a mia madre. Sebbe­
ne lei non vivesse più in un corpo, ero comunque legata a lei indisso­
lubilmente: l’unità spirituale dipende così poco dalla vicinanza dei
corpi!
Ma ora, qui, c’è la mia cara Menu: è quasi sempre accanto a me,
non mi lascia sola neppure un minuto, eppure io non sono con lei. Lei
mi adora, ma non può capirmi. Non può pensare o vivere in modo
indipendente; lei vive solo attraverso di me, è totalmente in mio pote­
re, anche se non ne approfitto. Perché, come una volta mi ha insegna­
to mio padre, so che non si deve mai abusare del potere che deriva
dalla superiorità spirituali
Per il momento, Menu è contenta come se fosse stata lei ad essere
scelta come sposa da mio padre e ad essere presentata alla Corte,
come se fosse stata lei ad aver ricevuto e indossato gli ornamenti che
conferiscono gli onori della successione reale. Ah! mia cara, vecchia
Menu! È dunque naturale che mi faccia tante domande a proposito
del desiderio che ho espresso.
«L’iniziazione, naturalmente» le rispondo.
Terrorizzata, Menu esclama:
«Cosa? L’iniziazione? Non vorrai mica abbandonare la Corte, an­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 157

dare al Tempio e mischiarti ai neofiti? Potevi chiedere gioielli prezio­


si... o che l’artista Imhotep t’immortalasse in una scultura... o qualsia­
si altra cosa, ma non l’iniziazione!»
«Perché ti spaventi così? L’unica cosa che voglio è l’iniziazione,
nient’altro. Cerca di capire: gioielli, ne ho. Come potrei essere soddi­
sfatta di qualcosa che non è in me, qualcosa che io non sono, ma che
mi limiterei ad appoggiare sul mio corpo e del quale, comunque, mi
accorgerei appena?
Possiedo fin d’ora i gioielli di cui sarà adorno il mio corpo quando
lo lascerò, quando verrà messo nella tomba, affinché tutti sappiano
che appartengo alla razza dei figli di Dio, e questo non mi rende più
felice di prima. Immortalare la mia forma esterna? E perché dovrei
desiderare una cosa simile? Poco importa ciò che diranno i figli degli
uomini fra qualche millennio sulle statue che rappresentano il mio
corpo; ciò che mi interessa può essere soltanto ciò che è identico a
me, non ciò che è fuori di me; un’esperienza che, malgrado il mio
corpo terreno, possa rendermi cosciente delle verità supreme. Voglio
l’iniziazione!»
Menu è disperata, come se avessi invocato la morte:
«Oh! so bene che non si può discutere con te! Se ti sei messa
qualcosa in testa, allora devi andare fino in fondo. Ma sento che
l’iniziazione ti metterà in grave pericolo. Non chiederla, non chieder­
la! E il Faraone, che ne dice?»
«Mi ha autorizzata ad andare da suo fratello Ptahhotep; e ora,
smetti di piangere, non rovinarmi tutta la giornata!»
CAPITOLO XXIV

Luì
Quella sera stessa, pesantemente velata, esco da palazzo. Menu mi
accompagna, e procediamo lungo il peristilio che conduce dal palazzo
al Tempio, verso il gran sacerdote, fratello di mio padre, figlio di Dio:
Ptahhotep...
Ptahhotep è il capo di tutti gli altri sacerdoti; siccome conosce e sa
padroneggiare tutti i misteri delle leggi della natura, è anche il capo
dei medici e degli architetti. E venuto sulla Terra con la missione di
V

guidare i figli degli uomini lungo il loro cammino spirituale ed ini­


ziarli alle scienze. Non essendosi mai identificato con il suo corpo,
egli si trova al di sopra di mio Padre, giacché quest’ultimo, avendo
contratto matrimonio, si è ancorato maggiormente nella materia.
Camminiamo in silenzio: Menu sa che quando sono immersa nei
miei pensieri deve tacere... Un neofita ci attende e ci fa entrare nel
Tempio. Menu resta in anticamera. Un ultimo lungo colonnato, ed
eccoci nella piccola sala in cui Ptahhotep mi riceve; il neofita si ritira.
Lui è qui, il rappresentante di Dio.
È la prima volta che Lo vedo così da vicino, e i suoi occhi mi
affascinano: oh, quegli occhi! Azzurro scuro, tanto scuro che sembra­
no quasi neri, tanto scuro da sembrare senza fondo, di un’infinita
profondità, come la volta celeste. Quando si guardano gli occhi dei
figli degli uomini se ne vede benissimo il fondo, si distingue la loro
anima, tutto il loro carattere: si vedono occhi individuali. Gli occhi di
Ptahhotep, invece, sono del tutto diversi: sono senza fondo, è il vuoto
del cielo stellato, non c’è nulla di personale, di individuale, hanno la
profondità dell’etemità. In essi è incluso tutto l’universo, tutta la crea­
zione. Mi riconosco in essi, e mi ci trovo bene, giacché so che essi mi
conoscono e mi contengono. Lo so. Sono in Lui, ed Egli è in me. Mi
ama come se stesso perché, precisamente, io sono Lui', Lui ed io for-
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 159

miamo un’unità perfetta. Egli è Yamore personificato e io sento que­


st’amore penetrarmi, accendermi.
Sconvolta nel più profondo dell’anima, davanti a lui cado in gi­
nocchio.
Ptahhotep mi tende la mano, mi rialza e dice:
«Piccola mia, non piegare mai il ginocchio davanti ad una forma
visibile. Non umiliare in te il divino che ogni essere vivente porta in
sé. È lo stesso Dio che si manifesta attraverso di te, attraverso di me e
attraverso tutto ciò che è stato creato. Dio è l’unico davanti a cui ti
puoi prosternare. Alzati ora, e dimmi perché sei venuta.»
«Padre della mia anima — dico — desidero l’iniziazione.»
Ptahhotep chiede:
«Sai cos’è l’iniziazione? Sai cosa significa per te? Perché la
vuoi?»
«Non so con esattezza in cosa consista, ma voglio essere onni­
sciente. Mi sento in prigione, nel mio corpo; mi sembra di procedere
a tentoni nel buio, vittima di forze invisibili e sconosciute che quindi
non posso controllare. Voglio vederci chiaro, voglio sapere tutto
come te e Padre, come gli altri Iniziati.»
Ptahhotep risponde:
«L’iniziazione significa diventare coscienti. Attualmente, il tuo
grado di coscienza corrisponde alla resistenza dei tuoi nervi e del tuo
corpo; quando si sale ad un grado di coscienza superiore, automatica-
mente vengono dirette nel corpo energie più elevate, più forti e più
penetranti, sicché la resistenza dei nervi e del corpo deve anch’essa
aumentare. Di conseguenza, l’iniziazione significa raggiungere il gra­
do di coscienza supremo, divino e creatore, aumentando contempora­
neamente la resistenza nervosa al massimo affinché, senza alcun dan­
no, si possa sopportare nel corpo quello stato divino. L’onniscienza e
l’onnipotenza ne derivano automaticamente.»
«Capisco, Padre della mia anima, e questo risponde esattamente
alla mia aspirazione profonda.»
Ptahhotep mi guarda a lungo senza dire una parola e sento il suo
sguardo penetrarmi, studiarmi a fondo. Infine, dice:
«Riceverai l’iniziazione, ma non ora. Non sei ancora abbastanza
matura in tutti i campi. Non hai ancora imparato a controllare nel tuo
corpo l’energia creatrice divina. Se diventi cosciente di questa forza a
livello spirituale prima di poterla controllare nella sua manifestazione
fisica, sarai in grave pericolo.»
«Quale pericolo, Padre?»
160 Elisabeth Haich

«Qualora raggiungessi il livello supremo di coscienza senza saper


controllare questa forza, se ti accadesse di dirigere tale energia nei
tuoi centri nervosi inferiori, potresti bruciare il tuo stesso sistema
nervoso; in tal caso, il tuo livello di coscienza diventerebbe immedia­
tamente inferiore a com’è nella tua vita attuale.
Non hai ancora alcuna esperienza di questa forza; il risveglio della
coscienza deve avvenire sul primo gradino della scala della manife­
stazione, perché, allora, dirigerai nel tuo corpo soltanto l’energia che
corrisponderà al tuo grado di sviluppo. La capacità di resistenza dei
nervi è in armonia con le energie che tu fai passare attraverso di essi.»
«Padre della mia anima, cosa significa “dirigere la forza creatrice
nel corpo” e vivere questa forza nel corpo? Come posso imparare a
conoscere quell’energia nella sua manifestazione fisica e poi control­
larla? Se dare avvio all’iniziazione dipende da questo, allora devo
fare subito questa esperienza per potermi preparare per un grado su­
periore.»
Il volto di Ptahhotep, nobile e divino, fino a quel punto era rima­
sto impassibile, come fatto di marmo; i suoi occhi soltanto brillavano.
Ma a quelle parole i tratti calmi del suo volto si animarono e sorrise,
mentre i suoi occhi irradiavano luce e comprensione.
«Adesso? Subito? — mi chiede. — Non è così facile, piccola mia.
Poter diventare cosciente della forza divina creatrice a livello inferio­
re della scala della manifestazione, significa fare l’esperienza del­
l’amore fisico. Quindi devi attendere che il tuo cuore si svegli in
presenza della vibrazione positiva maschile di un giovanotto che ti
piaccia, che a sua volta si accenda e riveli in te l’energia negativa
femminile. L’esperienza di questa forza devi farla nell’amore, e devi
averla fatta per poter in seguito padroneggiare tale energia. Altrimen­
ti, resterà per te una fonte costante di tentazioni, con il pericolo di
vedere il tuo livello di coscienza sprofondare davvero.»
«Padre della mia anima, non cadrò mai nella trappola dell’amore
fisico! L’amore non è una tentazione per me, e non mi fa paura
perché per me, giustappunto, non rappresenta affatto un pericolo!
Permetti che io sia iniziata!»
Ptahhotep diventa molto serio:
«Piccola mia, tu credi che l’amore non sia un pericolo per te, solo
perché non ne conosci il potere. Essere coraggiosi davanti ad un
pericolo che non conosciamo, non significa essere coraggiosi, e nep­
pure forti: è solo ignoranza, debolezza! La tua poca esperienza non
può avvertirti della tentazione dell’amore, credi di essere armata con­
Iniziazione: memorie di un 'Egizia 161

tro questa forza, ma lo credi soltanto. Non dimenticare che l’amore è


anch’esso manifestazione della forza divina creatrice, dunque è po­
tente quanto Dio stesso! Non puoi distruggere quest'energia, puoi
solo trasformarla^. Ma fintantoché non la conosci, non puoi sapere
come trasformarla.
Toma a casa, dunque, e attendi che il tuo destino ti offra que­
st’esperienza; quando avrai conosciuto e vissuto l’amore nella sua
realtà, quando avrai compreso che cos’è veramente questa forza, allo­
ra toma da me, e ti darò l’iniziazione.»
A quelle parole, mi getto ai Suoi piedi e, disperata, dico:
«No, no. Non allontanarmi da te, non rifiutarmi l’iniziazione. Re­
sisterò a tutte le tentazioni dell’amore, non soccomberò. Te ne suppli­
co, dammi l’iniziazione!»
Ptahhotep di nuovo sorride, accarezzandomi i capelli; sento la
forza straordinaria che emana dalla sua mano, come una corrente
forte che mi invade il capo.
«In verità — dice — questo comportamento non mi è familiare!
Credi forse, piccola mia, che se ho deciso di non darti l’iniziazione
cambierò idea solo perché ti getti ai miei piedi cercando di convincer­
mi? L’iniziazione richiede una perfetta padronanza di sé, ragazzina, e
tu ne sei ancora molto lontana. La fiducia che nutrì in te stessa non è
proporzionale alle tue esperienze: comincia con l’accumulare tutte le
esperienze che ti sono necessarie, poi toma da me!»
Vedo che non ha più nulla da aggiungere, sicché mi alzo e prendo
congedo:
«Me ne vado, Padre della mia anima. Ma non mi abbandonerai,
nevvero? Potrò tornare ancora?»
Ptahhotep risponde con una voce da cui trapela un amore infinito:
«So che, fin dall’infanzia, sei stata e sei ancora molto sola. Così
doveva essere, perché si sviluppasse il tuo senso di indipendenza. Ma
non sei mai sola, e questa è una cosa che senti profondamente: sei
unita a noi dall’eterno legame delle leggi supreme dell’affinità. Io
sono sempre con te, anche quando non lo sai. Sapevo prima di te che
saresti venuta oggi con questa tua richiesta, e so anche ciò che acca­
drà. Ma ci sono leggi alle quali anche noi dobbiamo obbedire. Tu sei
una di noi!»
Mi inchino davanti a lui per ricevere la sua benedizione, e me ne
vado.
Nell’anticamera, Menu mi aspetta e, vedendomi arrivare, mi chiede:
«Allora? Che ti ha detto il figlio di Dio? Su, racconta, non capisco
162 Elisabeth Haich

perché ti sei trattenuta tanto! Mi hai sentita? Racconta! Riceverai


l’iniziazione?»
«Il figlio di Dio non vuole darmela. Dice che ho troppo poca
esperienza della vita terrena.»
«Dio sia lodato! — dice Menu, raggiante di gioia. — E proprio
quello che ti avevo detto, l’iniziazione non fa per te. Lo sapevo!»
«Sì, sì, Menu, sai sempre tutto, tu. Adesso lasciami in pace, biso­
gna che faccia un po’ d’ordine fra i miei pensieri.»
In silenzio, rientriamo a palazzo.
Per tutta quella notte ed il giorno seguente non penso ad altro che
al rappresentante di Dio, Ptahhotep. Per la mia stessa origine, so di
appartenere alla razza dei figli di Dio, ma è stato un “evento” sentir
dire da lui che Egli è il custode della mia anima. Egli è anche il rap­
presentante di Dio sulla Terra, e posso parlare con Lui dei miei pen­
sieri più segreti con la stessa apertura che si può riservare a Dio. I
suoi occhi mi hanno penetrata in modo così completo, il suo sguardo
ha illuminato anche gli angolini più reconditi della mia anima, ed io
ne sono così felice! Quant’è consolante, sapere di essere parte di un
essere che mi comprende senza una parola, che non può essere in
collera con me, giacché considera tutto dall’alto, come Dio stesso!
Non ho bisogno di spiegargli ciò che voglio dire, né perché faccio o
desidero qualcosa, come invece la mia educazione mi ha abituata a
fare: Ptahhotep comprende le ragioni più segrete dei miei pensieri,
delle mie azioni, persino le ragioni di cui io stessa non sono ancora
conscia. Le parole sono superflue, mi basta essere lì, accanto a lui.
Egli mi vede ! Il suo spirito mi si apre, sento questo contatto costante
con lui; l’avevo sentito anche prima di averlo incontrato, ero guidata
da una forza straordinaria. Ora so che questa forza emana da lui, so
che mi vede anche se non gli sto vicina, e sento ancora i suoi occhi
posarsi su di me, qualsiasi cosa io faccia o pensi: nulla gli sfugge. Sì,
vede anche che non sono contenta che mi sia stata rifiutata l’inizia­
zione! No! Davvero non capisco perché dovrei cominciare col fare
l’esperienza deH’amore fisico; non mi innamorerò mai. Gli uomini mi
interessano solo perché mi adulano, ammirando la mia bellezza: da
loro non mi aspetto altro, e fanno tutti così; questo soddisfa la mia
vanità, giacché si manifesta soltanto quando sono in società. Non
appena rimango da sola, un unico desiderio mi anima interamente:
l’iniziazione! Non posso e non voglio aspettare di aver fatto quel­
l’esperienza, giacché non mi innamorerò mai.
Quella stessa sera vado di nuovo a trovare Ptahhotep, accompa-
Iniziazione: memorie di un’Egizia 163

¿piata da Menu disperata. Lei rimane nell’anticamera e il neofita mi


accompagna, questa volta, nel giardino. Qui Ptahhotep siede sotto le
palme, mi inchino ed egli risponde al mio saluto, mi guarda, mi scruta
(ho l’impressione che guardi dentro di me) e attende. Sono qui, e non
dico nulla: perché parlare, giacché sa comunque ciò che voglio? Leg­
ge i miei pensieri e mi lascia aspettare. Infine si alza, mi appoggia le
mani sulle spalle e dice:
«Perché sei venuta?»
«Padre della mia anima, perché me lo chiedi se già lo sai? Sono
infelice perché mi hai rifiutato l’iniziazione; non ho nessun altro desi­
derio, nessun altro pensiero. L’iniziazione soltanto. Ti prego, dammi
l’iniziazione.»
Ptahhotep mi accarezza teneramente i capelli e dice, con aria gra­
ve, quasi triste:
«Già ieri ti ho risposto. Calmati, abbi un po’ di pazienza. Pensa a
ciò che ti ho spiegato sulle forze creatrici e vivi come i giovani della
tua età. Dedicati ai fiori, ai tuoi animali, gioca, distraiti con altri
giovani, sii allegra e non pensare costantemente all’iniziazione.»
Eccitatissima gli rispondo:
«Padre della mia anima, non posso pensare ad altro. Qualunque
cosa faccia, tutto mi riconduce all’iniziazione. Quando guardo i miei
fiori, quando osservo le mie tartarughe ed il modo in cui vanno e
vengono e vivono con tanta saggezza come se fossero dotate di ragio­
ne, ovunque incontro misteri: e vorrei sapere, sapere tutto, compren­
dere tutto. Desidero essere iniziata!»
«Se le tartarughe fossero dotate di ragione — dice Ptahhotep sor­
ridendo — esse non condurrebbero una vita tanto saggia. E neanche
tu, non diventerai saggia solo perché hai l’intelligenza, anzi, ne hai
persino troppa. Cerca dunque, con questa intelligenza, di capire che è
prematuro per te ricevere l’iniziazione. Toma da me quando avrai
fatto le tue esperienze terrene, e allora ti darò l’iniziazione.»
Decisamente, le cose non sono facili con Ptahhotep quanto sono
con la mia cara Menu; Ptahhotep è duro e le mie forze rimbalzano su
di lui come frecce su una parete di roccia. Davanti a lui mi inchino ed
esco ma, una volta fuori, rispondo in modo quasi cattivo alle doman­
de di Menu, seccata perché Ptahhotep non mi trova abbastanza matu­
ra per l’iniziazione, e constatando con rabbia la mia impotenza contro
il tempo che si erge davanti a me come un muro impenetrabile, invin­
cibile quanto Ptahhotep.
La notte non mi porta alcun riposo e durante il giorno deambulo
164 Elisabeth Haich

per la camera, infelice, come i leoni ammaestrati nel loro recinto; il


fatto di essere in un corpo ha oscurato la mia coscienza, e mi pare di
vivere costantemente nell’ombra. Voglio vederci chiaro, anche se
sono imprigionata in un corpo, vogli sapere, voglio l’iniziazione! E
perché mai dovrei aspettare? Se l’amore mi lascia indifferente ora, mi
lascerà indifferente anche quando sarò iniziata, quando sarò onni­
sciente; so già che l’amore fisico è una necessità della natura per
perpetuare la stirpe. Perché il fatto di non aver vissuto quell’esperien­
za dovrebbe costituire un pericolo per me? Sono dotata d’intelligenza
e di una coscienza che saprà proteggermi da quel pericolo. Non cadrò
nella trappola della natura, nella trappola dell’amore: saprò resistere a
questa tentazione...
Così, per tutto il giorno, rimugino questi pensieri e, la sera, non
resistendo più, mi rimetto il velo e, accompagnata da Menu, corro al
Tempio. Voglio dirgli che non temo questa tentazione, che sarò abba­
stanza forte, che può darmi l’iniziazione senza preoccuparsi.
Che stupida ero, e quant’ero cieca! Come se egli non avesse sapu­
to com’era il futuro! Come se non avesse saputo che tutto doveva
andare così! Ma anche Lui era sottoposto alla legge divina e doveva
pazientemente assistere alla mia caduta, guardarmi correre incontro al
mio fallimento; bisognava che toccassi il fondo prima di poter risalire
con le mie sole forze.
Mi riceve nuovamente nella sua saletta; entro, mi inchino e gli
dico, con sicurezza:
«Padre della mia anima, volevo obbedire, ma non ci riesco. Aspi­
ro tanto al sapere che sono di nuovo qui. Non vedo perché dovrei
aspettare, giacché sono certa di aver la forza di resistere alle tentazio­
ni dell’amore fisico. Sono molto forte, e so controllarmi benissimo.
Ti prego di darmi l’iniziazione!»
Ptahhotep chiude gli occhi e resta a lungo immobile. Impaziente,
aspetto una risposta, ma senza muovermi, per paura di disturbarLo.
Finalmente Ptahhotep apre gli occhi, si alza, viene verso di me,
prende le mie mani fra le sue e dice:
«Per tre volte hai chiesto l’iniziazione. Malgrado il mio rifiuto.
Tre volte. C’è una legge che dice che quando qualcuno della nostra
stirpe chiede per tre volte l’iniziazione, non è possibile rifiutargliela.
È il segno che questa iniziazione è necessaria, anche se per lui rappre­
senta un grande pericolo. Ne parlerò con tuo padre e decideremo
insieme un programma di preparazione che ti lasci abbastanza tempo
perché tu svolga le tue funzioni. In genere, i neofiti abitano nel Tem­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 165

pio durante questo periodo, ma dovremo fare un’eccezione, giacché


quale sposa del Faraone, non puoi trascurare i tuoi compiti ufficiali.
Vai in pace, ora.».
Vorrei saltargli al collo per ringraziarlo di avermi accettata, ma
intendo provargli che so controllarmi; rimango immobile, mentre solo
i miei occhi brillano di gioia. Ptahhotep mi guarda e dice sorridendo:
«Ciò che hai fatto in pensiero è da considerare come già fatto, non
dimenticarlo mai!»
«Oh Padre, se tu consideri che io l’abbia già fatto, allora tanto
vale farlo davvero!» e gli salto al collo, baciando il suo nobile volto a
destra e a sinistra. «Grazie! Grazie! E meraviglioso! Sarò iniziata!»
«Hai davvero un perfetto controllo di te!» dice Ptahhotep.
«Solo ora, Padre — dico, ridendo — solo ora. Dopotutto non sei
soltanto il gran sacerdote, ma anche mio zio. E per questo che posso
baciarti, no? Ma quando sarò iniziata vedrai come mi comporterò
degnamente e seriamente!»
«Sì, sì, lo so» dice Ptahhotep abbracciandomi teneramente. Mi
accarezza ancora una volta i capelli e mi accompagna alla porta. Mi
congedo da lui.
Danzando e saltellando ritorno a palazzo in compagnia di Menu.
Sono infinitamente felice, ma lei, dacché ha saputo la notizia, piange
e geme come se fossi sul mio letto di morte. Così facendo mi guasta
tutta la gioia, e quando ricomincia a parlarmi dei suoi oscuri presenti-
menti, la rimbecco:
«Ne ho abbastanza. Ascolta Menu: sai che dopo il mio sedicesimo
compleanno, quando sono diventata la sposa del Faraone, avrebbero
voluto allontanarti da me, e sai che, secondo le regole della Corte,
tocca alle dame della nobiltà starmi attorno. Dopo lunghe e difficili
discussioni col Faraone, ho ottenuto che restassi con me e che le
dame della Corte mi accompagnassero soltanto nelle cerimonie pub­
bliche, ma se ti comporti in questo modo ti manderò via davvero e le
farò venire da me. E vero che sono in gran parte noiosissime, ma,
perlomeno, non si impicciano dei miei affari privati.»
Menu, mia cara, vecchia Menu! Le mie parole le fanno così paura
che immediatamente smette di piangere. Si siede per terra, vicino al
mio letto, e mi guarda ammutolita ma così colma d’amore, di ansia,
di tristezza e di sollecitudine insieme, che non posso fare a meno di
ridere. La bacio e le dico:
«Calmati, Menu, non ti manderò mai via, ti voglio bene. Sei stata
e sei l’unica che mi ama davvero sinceramente. Rimarrai sempre con
166 Elisabeth Haich

me. Stai tranquilla, l’iniziazione non mi farà alcun male: anzi,


Ptahhotep si prenderà cura di me e sarà sempre accanto a me!»
Congedandosi per la notte, Menu aggiunge:
«Spero che l’iniziazione non ti nuoccia, ma ho sempre paura
quando si vedono quei grandi lampi e quando si sente il tuono uscire
dalla piramidi. Spero che non avrai nulla a che fare con tutto questo.»
«Ma no, ma no, Menu. Va’ a dormire.»
Eppure, penso ancora all‘osservazione di Menu. Lampi e tuoni
che escono dalle piramidi? È vero! Fin dall’infanzia so che, talvolta,
lampi e tuoni provengono dalla piramide, dopodiché piove su tutta la
regione. Ma si tratta di un fenomeno naturale quanto la vita, e non gli
ho mai dato il minimo peso. D’altronde, ora che sto per ricevere
l’iniziazione al Tempio, certamente conoscerò anche questo mistero.
Poi, in quell’attesa solenne, mi addormentai.
CAPITOLO XXV

I figli di Dio
Il giorno seguente, il Faraone mi manda a chiamare; devo recarmi
da lui dopo le sue udienze.
Nell’ora indicata, l’intendente viene a prendermi per condurmi da
mio Padre.
«Entra, figlia mia, voglio parlare con te di ciò che Ptahhotep ed io
abbiamo deciso sulla tua iniziazione.»
«E venuto da te?»
V

«No» dice Padre guardandomi con aria divertita.


«Sei andato a trovarlo?»
«Neanche» mi risponde sorridendo.
«Padre, è un sacco di tempo che volevo chiedertelo: come fai a
parlare con Ptahhotep se lui non viene mai da te e tu non vai mai da
lui? Spesso ho notato che mi dicevi certe cose su di lui che lasciavano
supporre lunghi incontri eppure né tu eri uscito dal palazzo né lui era
venuto a trovarti. Com’è possibile?»
Fin dalla mia infanzia Padre si era abituato alle mie domande e,
con la solita pazienza, mi risponde:
«Hai uno specchio, non è vero? Hai già visto la tua faccia in
quello specchio?»
«Sì, Padre, ogni giorno mi vedo, quando Menu mi pettina.»
«E che cosa vedi?» mi chiede Padre.
«Vedo che il mio cranio è molto più allungato del cranio dei figli
degli uomini, ma anche tu, Ptahhotep e la maggior parte di coloro che
fanno parte della nostra stirpe, i figli di Dio, come veniamo chiamati.
Tutti hanno questo tratto caratteristico che si nota anche sotto gli
ornamenti o sotto il copricapo. Da dove deriva? Perché la nostra testa
è diversa da quella dei figli degli uomini?»
«Ascolta, figlia mia, affinché tu possa capire molte cose qui sulla
168 Elisabeth Haich

Terra: ma prima di tutto devi sapere un po’ come si sviluppò questo


pianeta.
Come tutti i corpi celesti nell’universo, come tutto ciò che vive su
questi corpi celesti, anche la Terra è sottoposta alle leggi dei costanti
cambiamenti; dall’eterna fonte originale emanano forze divine crea­
trici che, in ondate sempre crescenti, penetrano fino al livello materia­
le, il che significa che la materia è formata da tali forze. Questo pro­
cesso raggiunge il parossismo nell’ultra-materia e, automaticamente,
s’inverte: il processo di spiritualizzazione ricomincia, e la materia
ritorna ad essere energia. Ma tutto questo richiede un’eternità, giac­
ché tali cambiamenti hanno luogo ad intervalli regolari, ma così len­
tamente che una vita umana non è certo abbastanza lunga per osser­
varli. Tuttavia, quando un cambiamento di questo genere - che si è
preparato per migliaia di anni, forse, senza che nessuno lo notasse - è
pronto ad intervenire, allora avviene con una certa rapidità. Stiamo
precisamente vivendo in un’epoca di transizione, durante la quale i
cambiamenti si fanno percettibili. Tra questi mutamenti, sulla Terra,
ci sono molti popoli dal cranio rotondo che sono guidati e governati
da sovrani che, spiritualmente, sono molto superiori ai loro sudditi, e
il cui corpo è diverso. Sono più sottili di corporatura ed hanno il
cranio allungato.
Una volta, sulla Terra, c’era una razza del tutto diversa da quella
degli umani di oggi. Essa manifestava completamente la legge spiri­
tuale e non quella della materia, come invece avviene per le attuali
razze umane. La sua coscienza si era elevata a livello divino e mani­
festava Dio sulla Terra, senza mai cadere al livello del corpo, del­
l’egoismo. Nella sua divina purezza, quella razza meritò davvero il
nome di “figli di Dio”.
Tutta la vita era fondata sulla spiritualità, sull’amore, sull’assenza
di interesse personale; gli appetiti fisici, i desideri e le passioni non
oscuravano mai lo spirito. I membri di quella razza superiore cono­
scevano tutti i misteri della natura nonché tutte le loro energie perso­
nali che mantenevano sotto il controllo dello spirito; avevano così la
facoltà di sottomettere la natura e guidarne le forze. Il loro sapere era
illimitato e non dovevano faticare duramente per guadagnarsi il pane
quotidiano giacché, invece di farlo con il sudore della fronte, faceva­
no lavorare le forze della natura.
Essi conoscevano tutte le leggi naturali, i segreti della materia,
nonché quelli che essi stessi portavano in sé, e la potenza spirituale.
Sapevano come l ’energia si trasformi in materia, e come la materia
Iniziazione: memorie di un 'Egizia 169

divenga energia. Avevano costruito impianti e strumenti con cui im­


magazzinare, mettere in moto e utilizzare secondo le loro necessità
non soltanto le forze della natura, ma persino le loro proprie energie
spirituali. Vivevano in pace, felici e regnavano su gran parte del
pianeta.
Ma a quell’epoca c’erano già altri esseri, simili ai figli di Dio, ma
dotati di un corpo molto più materiale, e di un livello di sviluppo
alquanto inferiore. Spiritualmente ottusi, erano dotati di una coscien­
za che si era identificata con il corpo e vivevano nelle foreste vergini,
combattendosi, combattendo là natura e gli animali. Erano uomini
primitivi. La razza dei figli degli uomini che vedi nel nostro Paese,
rappresenta un incrocio fra queste due razze. Come ti dicevo, è la
legge del movimento e del cambiamento che regna nell’universo, ed
ora la Terra si trova in un periodo di materializzazione; ciò significa
che l’energia divina creatrice si àncora sempre più profondamente
nella materia e che, a poco a poco, il potere cadrà fra le mani di razze
sempre più materiali. A poco a poco la razza superiore si estingue,
abbandona la materia ritirandosi su un piano spirituale; lascia sola
l’umanità per un certo tempo - ma esprimendosi in tempo terrestre si
può parlare di migliaia e migliaia di anni - affinché essa possa avan­
zare e svilupparsi indipendentemente, senza essere apparentemente
guidata, e con le sue proprie forze. Così, i rappresentanti della razza
animale e materiale, primitiva, devono moltiplicarsi secondo la legge
divina, diventare sempre più potenti, fino al momento in cui regne­
ranno sulla Terra. Ma prima di lasciare il pianeta, la razza superiore
doveva seminare le sue forze spirituali nella razza inferiore, onde
consentirle, dopo un processo molto, molto lungo (e secondo le leggi
dell’ereditarietà) di elevarsi nuovamente al di sopra della materia. Fu
così che molti figli della razza divina si sacrificarono, generando la
loro progenie con le figlie degli uomini. Questo primo incrocio e
quelli che seguirono, diedero luogo agli individui più diversi e, a
poco a poco, nacquero nuove razze. L’energia divina dei figli di Dio e
la grande forza fisica delle figlie degli uomini formarono una discen­
denza alquanto diversificata: da un lato ci furono dei giganti fisici,
daH’altro, giganti spirituali. Ci furono anche dei titani fisici che eredi­
tarono dalla loro madre un cervello primitivo, sottosviluppato, mentre
la forza creativa del padre si era manifestata sul piano materiale,
sicché ebbero corpi straordinariamente potenti; usarono la loro forza
fisica mostruosa per sottomettere i più deboli e la loro natura animale
li fece diventare dei tiranni temuti da tutti.
170 Elisabeth Haich

Ma ci furono anche giganti spirituali, che manifestarono la forza


creatrice ereditata tramite i centri più elevati del cervello e non trami­
te il corpo; costoro ebbero la missione di guidare, ancora per un certo
tempo, la razza primitiva così vicina alla materia, nonché quelle razze
ibridi che erano state il risultato degli incroci di cui ti ho parlato.
Queste guide spirituali insegnarono loro la saggezza, le scienze e le
arti, basi di una cultura superiore, e diedero loro l’esempio dell’amore
divino universale, dell’assenza di interesse personale e della grandez­
za spirituale. Ecco perché oggi, in alcuni Paesi, regnano despoti e
tiranni, mentre in altri dominano ancora l’amore e la saggezza. Ma
tutto questo scomparirà a poco a poco e soltanto più la storia, le
leggende o le tradizioni ricorderanno all’umanità i grandi Iniziati e
faranno conoscere le scienze segrete. Tuttavia, grazie alla legge del­
l’ereditarietà, può accadere che, anche nelle ore più oscure della Ter­
ra, rinasca un figlio di Dio in un corpo umano, per mostrare all’uma-
nità come uscire dall’oscurità e dall’infelicità.»
«Padre, il nostro, è il Paese dei figli di Dio?»
«No, figlia mia. Il continente che un tempo fu la patria dei figli di
Dio è stato completamente distrutto. I discendenti della razza divina
diminuirono a poco a poco, i suoi membri abbandonarono il loro
guscio materiale e non si reincarnarono più. Alla fine, ne restarono
ben pochi, disseminati in vari punti della Terra, per passare le conse­
gne agli uomini che, invece, diventavano ogni giorno più potenti. Gli
incroci fra le due razze diedero luogo alla nascita di individui che
avevano ereditato la conoscenza magica del padre e l’egoismo anima­
le fisico della madre. Essi si infiltrarono nel Tempio dove, grazie al
loro sapere, ricevettero l’iniziazione; ma, ahimè, essi la abbassarono a
livello di magia nera, utilizzando a fini personali le loro energie e le
forze della natura che avevano imparato a dominare grazie agli stru­
menti ed agli impianti del Tempio. I figli di Dio che ancora restavano
in questa parte del mondo, sapevano ciò che sarebbe sicuramente
successo: queste energie distruggono senza pietà coloro che le usano
in modo satanico ed egoista invece di usarle in modo divino e disinte­
ressato; sapevano che i maghi neri si sarebbero autodistrutti, e che la
loro cieca cupidigia avrebbe causato una distruzione generale. Per
questo gli ultimi figli di Dio costruirono immense barche, chiuse ed
isolate da ogni lato, resistenti alle energie che penetrano e disintegra­
no la materia; in segreto, trasportarono su di esse alcuni dei loro
strumenti, vi fecero salire i loro familiari ed i loro animali domestici,
chiusero tutte le aperture e abbandonarono quella parte della Terra
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 171

che sarebbe andata inesorabilmente distrutta; alcuni si diressero a


nord, altri ad est, altri a sud ed altri arrivarono qui, ad ovest.
Ben presto i maghi neri persero il controllo degli strumenti.
Avrebbero dovuto incanalare le forze cosmiche più elevate dentro a
quegli strumenti, ed immagazzinarvele, giacché la sola fonte di que­
st’energia sulla Terra è l ’essere umano stesso', ma più quegli uomini
erano animati dalla cupidigia, e più andava alterandosi la qualità del­
l’energia e della corrente con cui ricaricavano tali strumenti; sicché,
un giorno, dopo che i figli di Dio si erano allontanati abbastanza,
accadde il peggio: un mago nero incanalò involontariamente nel pro­
prio corpo l’energia che disintegra la materia, ovvero, quella che la
trasforma in un’altra forma di energia. Una volta messo in moto
questo processo, tale materia trasformata in energia agisce come una
forza distruttrice, e si propaga ovunque finché non ha smaterializzato
ogni cosa: fu così che tutto il continente venne distrutto. Poi, da
questo stesso processo risultarono energie nuove, le quali frenarono
ed infine arrestarono le forze di disintegrazione.
Tutta quella parte smaterializzata si trasformò in un’energia di
radiazione che raggiunse, inizialmente, i confini dell’atmosfera terre­
stre, per poi ritornare, ritrasformata nella forma originale di ogni ma­
teria; dopo ancora molte altre modifiche, questa gigantesca massa
ricadde sulla Terra sotto forma di trombe d’acqua, di fango e sabbia
che sembrarono non finire mai.
Quest’immensa breccia aperta nel corpo della Terra lasciò via
libera agli oceani; la terraferma dell’altro emisfero si aprì sotto l’ef­
fetto della catastrofe, e iniziò la deriva dei continenti per mantenere
l’equilibrio planetario ed occupare la posizione che hanno attualmen­
te. Una parte del continente perduto si trova da noi, sotto forma di
immenso deserto, con il pericolo incombente di vedere i venti portarsi
via quelle montagne di sabbia e ricoprire le terre fertili e abitate.
Nelle loro barche i figli di Dio avevano strumenti speciali, che
consentivano ai vascelli di restare costantemente orizzontali; riusciro­
no dunque a vincere ogni difficoltà e a sbarcare senza pericolo. Nelle
varie parti della Terra in cui giunsero, diedero origine a nuove civiltà.
Il loro sapere, la loro saggezza ed il loro amore li resero subito
bene accetti agli indigeni, e si trasformarono in sovrani adorati come
dei o semi-dei. La loro prima preoccupazione fu di erigere le costru­
zioni necessarie a contenere i loro strumenti segreti, per proteggerli
dal mondo esterno ed isolare le energie potenti e penetranti immagaz­
zinate in essi. Tali edifici sono noti con il nome di piramidi nelle
172 Elisabeth Haich

varie parti del mondo in cui i figli di Dio sbarcarono, portando seco
ciò che avevano potuto salvare.»
Avevo ascoltato con la massima attenzione il racconto di quegli
eventi sconvolgenti; molte cose, fino ad allora incomprese, si erano
chiarite, ma c’era una domanda che mi aveva richiesto ore di rifles­
sione, e che ancora non aveva trovato risposta:
«I figli di Dio, come sono riusciti a trasportare, sollevare e posi­
zionare al giusto posto questi enormi blocchi di pietra?»
«Ricordati, figlia mia, quanto ti ho detto: i figli di Dio non lavora­
vano con le loro forze fisiche, ma facevano lavorare le forze della
natura.
Ancora oggi, possediamo alcuni degli strumenti con i quali pos­
siamo neutralizzare o aumentare la forza di gravità, a seconda del
nostro scopo. In questo modo possiamo neutralizzare il peso di un
oggetto pesante o, invece, aumentarlo ancora di più. Persino un bam­
bino, con le sue piccole dita, potrebbe spostare e sollevare un masso
di pietra una volta che fosse liberato dal peso. In questo modo è stato
possibile sovraccaricare quelle barche senza pericolo, giacché i bloc­
chi di pietra erano stati lungamente irradiati prima e non avevano più
peso. Tutte le costruzioni straordinarie disseminate per il mondo, e
che la forza umana non avrebbe mai potuto edificare, sono state edifi­
cate in questo modo dai figli di Dio.
Ovunque sbarcarono, i figli di Dio diedero origine ad una cultura
elevata; ovunque regnino oggi, guidano gli uomini con un amore
disinteressato ed accettano il sacrificio di rimanere ancora un po’
sulla Terra per insegnare e propagare le loro forze spirituali. Un tem­
po il Faraone ed il gran sacerdote erano un’unica persona, contempo­
raneamente guida spirituale e temporale del popolo; poi, con la cultu­
ra e le ricchezze, il Paese divenne più grande, ed i figli di Dio decise­
ro di suddividersi i compiti: uno di essi prese in mano il governo
temporale del Paese, mentre l’altro, il primogenito e capo della stirpe,
ne divenne la guida spirituale. E da allora è sempre stato così: il Fara­
one governa il Paese ed il gran sacerdote svolge le sue funzioni nel
Tempio; egli è il guardiano della conoscenza in tutti i campi, e sicco­
me la conoscenza sgorga da un’unica fonte, egli dà l’iniziazione nelle
scienze, nelle arti e, nel Tempio, la grande iniziazione nell’“Arie
senz ’A rte dello Spirito”.
Ora sai perché gli uomini del popolo hanno un cranio diverso da
quello dei figli di Dio che oggi compongono ancora la famiglia reale;
noi, che abbiamo questo cranio allungato, utilizziamo poco la nostra
Iniziazione: memorie di un’Egizia 173

intelligenza perché possiamo fare l'esperienza della verità, viverla


direttamente con la vista interiore. La nostra fronte non è così ricur­
va, perché i centri cerebrali, sede della facoltà di pensare, hanno solo
quel minimo sviluppo necessario per percepire le impressioni esterne
e viverle in modo cosciente; invece, nella parte posteriore del cranio,
abbiamo centri sviluppati perfettamente, e sono gli strumenti fisici
delle manifestazioni spirituali. Tali centri ci consentono di elevare la
nostra coscienza e livello divino, conferendoci tutte le qualità e le
facoltà che ci distinguono dai figli degli uomini. Gli uomini, nella
loro coscienza, vivono nel tempo e nello spazio; noi, pur avendo un
corpo terrestre, godiamo di una perfetta libertà spirituale, liberi dal
tempo e dallo spazio. Con la forza della coscienza divina e grazie a
questi centri, possiamo muoverci liberamente nel tempo e nello spa­
zio, ovvero, a piacere, possiamo andare nel passato o nel futuro. In
tale stato, possiamo vivere il passato o il futuro come se fossero il
presente.
Allo stesso modo possiamo spazzar via gli ostacoli spaziali e pro­
iettare la nostra coscienza dove vogliamo; in tale stato, non ci sono
più “qui” o “là”, c’è solo più il presente assoluto, giacché il passato o
il futuro (il “qui” ed il “là”) sono soltanto aspetti diversi, diverse
proiezioni di un’unica realtà, VESSERE eterno ed onnipresente, Dio\
Nelle tue vene scorre il sangue delle due razze; hai ereditato le
caratteristiche della nostra, ma anche quelle della razza ibrida a cui
apparteneva tua madre. Purtroppo per te i tuoi centri superiori si sono
svegliati con molto anticipo, molto prima che tu abbia potuto vivere
le tue esperienze terrene e vincere la tua natura semiterrestre; ti senti
infelice, prigioniera del tempo e dello spazio, tra il qui e il là; lo spiri­
to si risveglia in te, aspirando alla sua divina libertà. Tre volte hai
domandato l’iniziazione, sicché la riceverai: imparerai ad usare co­
scientemente tutti gli organi superiori non ancora pienamente attivi in
te, ed avrai anche la facoltà di stabilire un contatto con tutti coloro della
tua razza, in qualsiasi momento, scambiando con loro i tuoi pensieri.
È in questo modo che posso sempre trovare mio fratello Ptahhotep
e tutti gli altri figli di Dio ancora sulla Terra, intrattenermi con loro,
scambiare le nostre idee in un’unità di coscienza perfetta, molto me­
glio di quanto potremmo fare su un piano terrestre con la laringe, la
lingua e le orecchie; ci cerchiamo, nella coscienza, in qualsiasi mo­
mento, ed immediatamente percepiamo se l’altro è occupato, se si sta
concentrando su qualcosa (ed in tal caso non lo disturbiamo a meno
che non si tratti di un messaggio molto importante, altrimenti, ci
174 Elisabeth Haich

ritiriamo). Ti è facile capire perché soltanto esseri perfettamente di­


sinteressati possiedano tali facoltà: se i figli degli uomini, animati
dalla cupidigia e dall’egoismo, ne fossero provvisti, ne risulterebbe
una tale confusione che tutti gli organi sottili ne sarebbero distrutti.
Di solito, ogni sera, dopo aver svolto le nostre mansioni quotidia­
ne, ci riuniamo nella coscienza, e quest’unità ci permette di vedere i
nostri rispettivi pensieri. In questo modo possiamo contattare istanta­
neamente anche coloro che, nel mondo tridimensionale, potremmo
incontrare solo avendo molto tempo a nostra disposizione!
Dopo aver discusso dei nostri compiti in questo mondo, trasferia­
mo la nostra coscienza sul Hvello dimensionale dell’onnicoscienza,
per attingere alla fonte divina originale una nuova energia vitale;
nella unità originale divina noi siamo uno, in stato di identità con tut­
te le creature viventi, uno con il Tutto, con VESSERE eterno, e quindi
con l’essenza stessa di ogni manifestazione: anche con te. Soltanto
coloro che vivono ancora nel mondo tridimensionale non ne sono
coscienti, ma un giorno ognuno si risveglierà dal lungo sonno pieno
di forze vitali rinnovate, sia o no cosciente del fatto che tale forza
emana dalla fonte divina originaria.
Così, riceverai l’iniziazione; è una strada lunga e impegnativa, che
dovrai percorrere qui, sulla Terra, dopo che Ptahhotep ed io avremo
lasciato il mondo tridimensionale, quando saremo diventati spiriti che
circolano nella sfera della Terra. I miei compiti sono diversi da quelli
di Ptahhotep, quindi sarà lui la guida della tua anima e del tuo spirito.
Ma l’unità eterna ci lega l’un l’altro. Sarebbe stato meglio per te
avere maggior pazienza, ma sei come sei, ed è questo che determina il
tuo destino. Non possiamo interferire. La forza che emana dall’unità
ti accompagnerà sempre e ti aiuterà nei momenti difficili.
Giacché devi sostituire la moglie del Faraone, sei dispensata dal
vivere nel Tempio durante il periodo d’iniziazione, come invece fan­
no gli altri neofiti; ma ti ci recherai ogni mattino per ricevere l’inse­
gnamento ed i tuoi compiti, farai i tuoi esercizi insieme agli altri
neofiti e, la sera, tornerai a palazzo. Durante le cerimonie, fai in modo
di starmi accanto nel momento opportuno. Annuncia dunque il tuo
arrivo da Ptahhotep per domani mattina.»
Mi resta ancora una domanda in sospeso, e Padre mi lancia uno
sguardo interrogativo.
«Padre, mi hai detto che, per propagare le loro forze spirituali, i
figli di Dio avevano preso in moglie le figlie degli uomini; e le figlie
di Dio, non presero forse per marito dei figli degli uomini? Perché
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 175

soltanto i figli di Dio hanno avuto dei bambini con le figlie degli
uomini, e non è accaduto che le figlie di Dio avessero dei bambini
con i figli degli uomini?»
Padre affonda i suoi occhi nei miei:
«Scolpisciti bene questa mia risposta nella memoria e non scor­
darla mai. Se capisci bene questa verità, allora forse possiamo ancora
cambiare la direzione del tuo destino.
Se, da un bicchiere di vino rosso, togli una goccia per metterla in
un bicchiere di vino bianco, il vino rosso nel primo bicchiere rimane
immutato; invece il vino bianco non è più tale, diventa un miscuglio.
Ed ora, se prendi un po’ di questo vino bianco, ciò che versi è un
insieme di vino rosso e bianco. Capisci, figlia mia?»
«Sì, Padre, capisco. Significa che il sangue di un figlio di Dio di
razza pura, resta puro anche quando procrea con una figlia degli
uomini; ma il sangue di una figlia di Dio di pura razza si mischiereb-
be se sposasse un figlio degli uomini. E, da quel momento, sarebbe
anch’essa un ibrido, proprio come i suoi futuri bambini.»
«Mantieni questa verità viva e cosciente in te in ogni istante della
tua vita» mi dice Padre.
Si alza, io mi inchino, lui mi benedice. Esco con l’unità dello
spirito nel cuore.
CAPITOLO XXVI

Anni di preparazione
Menu mi accompagna al Tempio.
Quante volte, nel corso dei molti anni a venire, seguirò quel co­
lonnato che va dal palazzo al Tempio, oh, quante volte! fino a diven­
tare io stessa la strada, fino a che i miei piedi faranno il percorso da
soli, procedendo senza l’aiuto dei miei occhi!
Per la prima volta entro nel Tempio in qualità di neofita; proprio
perché vorrei fare in fretta, mi sforzo di camminare piano, solenne­
mente. Sono felice che abbia inizio la mia iniziazione, e voglio gu­
starmene ogni istante. Immersa nel mio universo interiore, ove ancora
risuona l’eco delle parole pronunciate ieri da mio padre, vado, con­
sciamente, incontro ai miei doveri di futura iniziata...
All’entrata è ad attendermi lo stesso neofita della volta preceden­
te; Menu si congeda baciandomi e stingendomi al petto come se non
dovessimo mai più rivederci, poi, finalmente, si calma e si inchina
davanti a me come crede di dover fare. La bacio e sento che, attraver­
so il tocco delle sua labbra, mia madre stessa mi sta baciando.
Il neofita mi accompagna nella piccola stanza di ricevimento di
Ptahhotep: quante volte ancora mi troverò così, davanti a Lui, quante
volte ancora poserà lo sguardo su di me, sondandomi con calma,
sicurezza e forza!
Egli esordisce dicendo:
«Mia cara bambina, come ti ho già spiegato, iniziazione significa
diventare cosciente a livello divino supremo. Questo richiede un lun­
go allenamento del corpo e dell’anima, perché bisogna preparare i
nervi a sopportare quelle vibrazioni così elevate senza esserne dan­
neggiati, senza dover morire.
Diventare coscienti ad un certo livello, significa dirigere nei nervi
la vibrazione corrispondente a tale livello, poi, attraverso i nervi,
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 177

dirigerla nel corpo. Fin dalla nascita, quindi dacché è abitato dal Sé, il
corpo sviluppa una forza di resistenza in armonia con il grado medio
di coscienza dello spirito che lo anima. Il grado di coscienza di una
creatura varia a seconda della sua anima, ma rimane entro i limiti di
un’ottava di vibrazione. Queste fluttuazioni non debbono comunque
andare oltre l’elasticità dei nervi, perché altrimenti si possono avere
malattie più o meno serie, addirittura la morte. La vibrazione del­
l’energia vitale creatrice è mortale per colui che non ha raggiunto il
livello di coscienza necessario per sostenerla: essa brucia allora i suoi
centri nervosi ed i nervi, ed è per questo che l’energia vitale, la quale ha
sede nel midollo spinale, viene trasformata in vari centri nervosi in una
vibrazione ridotta. Questa corrente soltanto viene incanalata nel corpo.
È così che la vibrazione vitale che anima gli animali è inferiore a
quella dell’uomo primitivo, e l’uomo primitivo, animalesco ed egoista, è
animato da una vibrazione vitale inferiore a quella di un essere spiritual-
mente avanzato. Se trasferissimo l’energia vitale di un uomo superio­
re in un animale o in un uomo inferiore, questi morirebbe all’istante.
La grande iniziazione significa vivere coscientemente e condurre
simultaneamente nei nervi e nel corpo la vibrazione creatrice dell’ES-
SERE eterno ad ogni livello di sviluppo e alla sua frequenza originale
senza trasformazione. Questo richiede una forza di resistenza in gra­
do di sopportarla, e che può essere acquisita con un lungo allenamen­
to del corpo e dell’anima; significa che bisogna preparare i nervi
lentamente, prudentemente, imparare a risvegliarli e a controllarli.
Questi esercizi del corpo e dell’anima ti verranno insegnati dapprima
da Mentuptah, direttore della scuola dei neofiti, e verrai aiutata a
svolgere i tuoi esercizi di concentrazione da Ima, il neofita che ti ha
accompagnata qui. Quando avrai superato tutti gli esami con Mentuptah
e Ima, allora continuerò personalmente l’insegnamento e ti darò l’ini­
ziazione. Ora Ima ti condurrà a scuola e ti mostrerà tutto ciò che è
necessario; se, in questo periodo, desideri parlarmi, puoi chiedere di
vedermi una qualsiasi sera. Che Dio guidi i tuoi passi!»
Ptahhotep mi benedice, io mi inchino e seguo Ima fino alla scuola
dei neofiti.
Ima mi conduce verso una delle piccole celle costruite nelle mura
del Tempio, mi tende una tunica bianca e dei sandali semplicissimi e
mi informa che quella cella è mia.
Quando ne esco, dopo avere tolto i miei abiti principeschi ed
indossato quelli del Tempio, anch’io sono una neofita, come Ima; egli
mi conduce lungo un peristilio verso il giardino del Tempio, un giar­
178 Elisabeth Haich

dino magnifico, con un’aiuola verde, quadrata, bordata di palme, che


è davvero un ottimo posto per esercitarsi. Scorgo, oltre il giardino, i
neofiti che stanno lavorando nell’orto e nel frutteto; sono vestiti come
me, ma più vecchi.
Ima mi presenta a Mentuptah, direttore della scuola: è una creatu­
ra dalla sguardo dolce e pieno di amore, che mi spiega quale sarà il
mio lavoro quotidiano. I neofiti sono riuniti in gruppetti, sotto la
guida generale di Mentuptah; tuttavia, a capo di ogni gruppetto, c’è
un neofita più avanzato, candidato al sacerdozio. Ima dirige il gruppo
al quale vengo assegnata; è un giovanotto alto, snello e robusto, la cui
pura radianza mi ha già colpita quando, per la prima volta, mi ha
condotta da Ptahhotep.
Si è già sottoposto alla maggior parte delle prove preparatorie, ed
il tempo della sua iniziazione si avvicina; Ima è candidato al sacerdo­
zio, ed il suo aspetto esteriore non dà più l’impressione che sia un
uomo, ma piuttosto un essere androgino che si libra al di sopra del
sesso. Non ha sesso, come un arcangelo; irradia il fuoco della spada,
il suo volto bellissimo porta tutti i segni della massima intelligenza e
di una facoltà di concentrazione superiore: due rotondità ben formate
sovrastano l’arcata sopraccigliare, segno di saggezza. La bocca è ben
disegnata, energica, ma le connessure sottili e morbide rivelano
l’amore ch’egli prova nei confronti di ogni essere vivente. Lo amo fin
dal primo istante, ho una fiducia illimitata in lui, come in un fratello
molto caro. Sono felice che sia lui a prepararmi per gli esami.
Ima mi presenta agli altri neofiti; tutti hanno scelto il sacerdozio,
ma soltanto coloro che passeranno tutte le prove e riceveranno l’ini­
ziazione diventeranno sacerdoti o sacerdotesse. Molti non saranno
mai abbastanza maturi per questo e allora, se lo vorranno, potranno
restare per il resto della vita al servizio del Tempio, occupandosi dei
lavori agricoli e degli animali. I neofiti che passano gli esami prepara­
tori, si vedono affidare lavori e compiti che corrispondono al loro
grado di avanzamento.
Il gruppo di Ima si compone di neofiti spiritualmente molto sviluppa­
ti; sono quasi tutti della razza dei figli di Dio per parte di padre, proprio
come me; lo si riconosce da lontano, nel vedere il loro cranio allunga­
to. Mi unisco ad essi, e in quell’atmosfera pura mi trovo benissimo.
Ogni mattina, al levar del sole, ci riuniamo in giardino; comincia­
mo con gli esercizi fisici che sono strettamente legati alla concentra­
zione e mettiamo in pratica varie posture coordinate con esercizi di
respirazione con i quali dobbiamo trasferire la nostra coscienza nelle
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 179

varie parti del corpo. Il lungo allenamento ci permetterà, in tal modo,


di rendere perfettamente cosciente il corpo intero e muovere, control­
lare e padroneggiare anche le più piccole sue parti nonché tutti gli
organi interni. Tutto questo servirà a fare del nostro corpo uno stru­
mento impeccabile.
Una volta conclusi gli esercizi fisici, ci rechiamo insieme nella
grande sala in cui riceviamo un insegnamento per l’anima. Questi
altri esercizi ci vengono impartiti da Mentuptah il quale ci detta delle
immagini oniriche che poi dobbiamo vivere con altrettanta intensità
come se fossero reali. Queste immagini fanno sorgere inevitabilmente
in noi ogni sorta di emozione che dobbiamo imparare a controllare.
Mentuptah, con questi esercizi, ci fa penetrare in tutte le sfere dei
mondi inferiori e superiori, dei sette inferi e dei sette paradisi, e ci
insegna come mantenere la nostra presenza di spirito in ogni circo­
stanza onde potere, anche nelle situazioni più difficili, decidere im­
mediatamente ciò che bisogna fare.
Quando controlliamo perfettamente questo genere di esercizio,
passiamo ai seguenti: i più diversi stati d’animo debbono essere vis­
suti tanto intensamente come se davvero ci fosse una ragione per tan­
ta intensità, ma questa volta su semplice comando, senza il supporto
delle immagini oniriche. Cominciamo questi esercizi con uno stato
negativo inferiore e poi lo eleviamo, passo dopo passo, fino ad uno
stato positivo superiore. Dobbiamo, ad esempio, vivere la più profon­
da depressione, e poi elevarci lentamente, progressivamente, allo stato di
indifferenza per poi continuare sempre più in alto, fino a raggiungere
la massima gioia e, in ultimo, la sensazione di una suprema felicità.
Dopo un lungo allenamento, se tutto va bene, dobbiamo imparare
a modificare sempre più rapidamente queste emozioni, fino a poterle
vivere in noi stessi con il virtuosismo di un musicista che padroneg­
gia il suo strumento traendone a piacere tutti i suoni disponibili, dal
più alto al più basso. Il prossimo passo consisterà nel vivere stati
d’animo opposti, senza transizione; ad esempio, dalla più profonda
tristezza alla massima allegria, dalla paura al coraggio eroico, e tutto
questo alla velocità del lampo.
Tutti questi esercizi devono essere fatti soltanto sotto la guida del
nostro maestro, perché sono molto pesanti per i nervi; ci vuole molto
tempo per riuscire a vivere le visioni oniriche come se fossero reali, e
ce ne vuole molto di più per riuscire a recitare tutta la gamma delle
nostre emozioni. Soltanto quando riusciamo a mantenere i nervi per­
fettamente saldi dopo gli esercizi, e quando questa calma serena si
180 Elisabeth Haich

prolunga per tutta la giornata, siamo autorizzati a passare al gradino


seguente, ossia l’esperienza di stati d’animo opposti senza transizio­
ne. Lo scopo di questi esercizi estremamente difficili è di impedirci di
rimanere in balia degli eventi esterni o del nostro umore, e di metterci
in grado di decidere dei nostri stati d’animo, mantenendo di conse­
guenza il nostro equilibrio psichico in ogni circostanza. L’uomo crede
che per essere felice o allegro ci sia sempre bisogno di un motivo,
mentre l’idea nascosta dietro a questi esercizi con le visioni oniriche è
di darci l’illusione di una causa per metterci in un certo stato d’ani­
mo; quindi, con le visioni oniriche, padroneggiamo le cause stesse.
Non avendo infatti cause reali, dobbiamo immaginarcele da soli.
Il passo seguente è vivere uno stato d ’animo senza ragione, senza
il supporto delle visioni oniriche che creano precisamente uno qualsi­
asi di questi stati.
Dopo un lungo allenamento, una volta che padroneggiamo perfet­
tamente questi esercizi, ci accorgiamo di aver soltanto immaginato di
avere una causa per essere tristi o allegri, depressi o esuberanti, ecc.;
questi esercizi ci convincono che gli eventi più diversi non hanno su
di noi alcuna incidenza. Scopriamo che ogni stato di coscienza pro­
viene da noi stessi e sempre dall’interno. Davanti allo stesso evento uno
può ridere, un altro può piangere, un terzo rimanere indifferente, giacché
ognuno proietta verso l’esterno il proprio atteggiamento interiore, ed è
questo atteggiamento interiore che ci anima, non l’evento esterno.
Lo scopo ultimo di questi esercizi è far sì che l’allievo possa
mantenere in tutte le situazioni uno stato d’animo di calma impertur­
babile, senza più uscirne. Questi esercizi ci insegnano anche che tutto
ciò che accade sulla Terra è passeggero, simile ad un’immagine
onirica proiettata nel tempo e nello spazio. Non bisogna prenderlo
quindi sul serio, se non nella misura in cui ci è utile per progredire.
Ma quanto è lunga, la strada per arrivare a tanto! Dobbiamo tenerci
costantemente sotto osservazione nel modo più severo, non ci si può
lasciare andare neppure un attimo, bisogna rimanere coscienti, svegli,
analizzare ogni sensazione, ogni pensiero, per sapere da quale strato del
Sé proviene. E questo, non si impara certo dall’oggi al domani!
Accanto a questa preparazione psichica, ci alleniamo nella con­
centrazione spirituale; Ima è il mio insegnante e, dopo gli esercizi in
comune, mi conduce in un angolino tranquillo del giardino e mi spie­
ga ciò che davvero è la concentrazione: non posso permettermi di
lasciar correre i pensieri a piacimento ma devo, invece, darmi l’ordine
di pensare a qualcosa che mi viene indicato. Devo far convergere i
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 181

pensieri verso un unico punto, imprimendo quindi loro una direzione


centripeta e non centrifuga. Ima mi indica una frase sulla quale mi
devo concentrare, poi mi lascia sola, non senza avermi chiesto di
fargli sapere quando il mio esercizio avrà avuto successo. La firase è:
“Io manifesto sempre il divino”.
Mi siedo, e comincio a concentrarmi su questa frase; ripeto in me
“Io manifesto sempre il divino” una volta, due, dieci, cento volte...
non penso a nuli’altro che a “Io manifesto sempre il divino... Io
manifesto sempre il divino... Io manifesto sempre il divino...”
Dopo un’ora raggiungo Ima e gli dico:
«Non posso concentrarmi su questa frase, è impossibile!»
«Impossibile? — mi chiede. — Perché impossibile?»
«Come mi hai detto, concentrarsi significa dirigere tutte le forze,
tutti i pensieri verso un unico punto, raggruppare e tenere insieme con
fermezza tutte le forze dell’intelletto, della coscienza. Ora, se mi
concentro su una frase, non riesco a dirigere le forze deU’intelletto su
un punto. Una frase si compone di più parole, le quali si susseguono
nel tempo e nello spazio, sicché non posso pensare a tutte quelle pa­
role contemporaneamente, ma soltanto una dopo l ’altra, nel tempo e
nello spazio! E quando ho finito di pensare alla frase, devo ricomin­
ciare dall’inizio e pensarci di nuovo fino alla fine. La concentrazione
non è possibile. Oppure penso “a zig-zag” dalla fine all’inizio:
Manifesto sempre il divino

Manifesto sempre il divino

Manifesto sempre il divino


oppure, se mi rappresento questa frase sotto forma di cerchio,
penso “in cerchio”:

O
4—1
C/3

S'
182 Elisabeth Haich

Ma questo, non è concentrazione!»


Ima mi ascolta attento e, pieno di gioia, mi dice:
«Hai capito benissimo l’esercizio! Hai scoperto che non è possibi­
le concentrarsi sulle parole. Avere immaginato questa frase in forma
circolare, è un tentativo corretto per avvicinarsi alla concentrazione;
ma anche se incolli una parola all’altra, esse formano un cerchio e
non ti riesce di riunirle in un punto centrale. Hai riconosciuto che le
parole esercitano una forza di resistenza contro il tuo potere di con­
centrazione, ed è proprio questa forza che usiamo quando costruiamo
un ponte: formiamo un arco con le pietre (proprio come tu hai costru­
ito un cerchio con le parole) ma il ponte non crolla perché le pietre
esercitano una pressione l’una contro l’altra e la materia non cede a
tale pressione. E dunque grazie alla forza di resistenza che le pietre
s

tengono insieme il ponte; ma se la tua concentrazione si sforza di


raggiungere il centro, viene impedita nel suo compito alla resistenza
delle parole. La stessa cosa avviene se ti concentri su una parola,
perché a sua volta è composta da più lettere e non puoi mai riunirle in
un unico punto.»
«Allora, che devo fare?»
«Nel prossimo esercizio, cerca di concentrarti su un’unica lettera:
“O”.» E Ima mi lascia di nuovo da sola.
Ci provo; mi siedo sull’erba e mi concentro sull’O... dico dentro
di me O, O, O, O, O e non penso a null’altro che a O, O, O,
OOOOOO... e, d’un tratto, resto sorpresa: corro da Ima e gli dico,
ridendo:
«Ho già finito!»
«Allora — mi chiede — cos’hai ottenuto?»
«L’O è diventata di colpo un tunnel, un lungo tunnel a forma di O
in cui mi sono avventurata sempre più lontano; di nuovo, non è vera
concentrazione !»
«Benissimo — dice Ima — sei già arrivata alla quarta dimensione.
Ora riprendi la frase “Io manifesto sempre il divino” e cerca ancora
una volta di concentrartici sopra. Come risolverai il problema ora?»
«Cosa devo fare?»
«Cosa farai?» insiste Ima.
Ci rifletto un attimo, e poi dico:
«Le parole sono l’abito, la manifestazione materiale del senso. Se
voglio raggiungere il centro, devo rinunciare alle parole che mi osta­
colano, e concentrarmi esclusivamente sul senso della frase, senza
parole, senza forme. Non è così?»
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 183

Ima sorride:
«Vedremo dove ti porta, tutto questo. Riprovaci, e poi toma a
trovarmi!»
Mi concentro sul senso della frase “Io manifesto sempre il divi­
no”, soltanto sul senso...
Tomo da Ima che, proprio in questo momento, sta concludendo
una conversazione con un neofita; quando mi vede, mi lancia uno
guardo malizioso, come se già sapesse ciò che è accaduto in me:
«Allora?» mi chiede.
«Ima! Che strano! Quando ho cercato di concentrarmi sul senso
della frase, non sono riuscita a pensarci. Tutto il processo interiore è
passato dalla testa nel petto, e non potevo più pensare al senso, ma lo
sentivo, lo vivevo. Nel momento in cui mi concentro sul senso , di
questa frase senza parole, io ne divento il sensol Bisogna quindi cam­
biare: “Io manifesto sempre il divino” in una frase molto più corretta:
“Io sono il divino che si manifesta continuamente”.»
Ascoltandomi, Ima mi sorride:
«Benissimo, ti sei concentrata ottimamente; hai scoperto che la
concentrazione non può essere uno stato durevole, ma una transizione
fra il mondo proiettato e lo stato di ESSERE. Quando concentri il
pensiero su qualcosa, non puoi limitarti a questa attività di pensiero,
perché la concentrazione ti riporta a te, e allora diventi quel qualcosa
stesso su cui ti concentri. Con la concentrazione, pensare diventa uno
stato d ’ESSEREl L’attività di pensare cessa, ed il pensatore diventa
identico alla cosa pensata.
Pensare a qualcosa significa proiettare un pensiero verso l’esterno
per mezzo dell’intelletto, come in uno specchio, e quindi uscire da sé.
Con la concentrazione richiamiamo la proiezione, e il soggetto pensa­
to ritorna ad essere identico al pensatore, a lui stesso. I due fattori
sono perfettamente riuniti: ciò che è stato creato ritorna al creatore!
Continua ad esercitarti; questo processo ti si chiarirà sempre più.
Visto che ti piace tanto sederti sotto questa palma, allora concentrati
su di essa»... e Ima scompare.
Mi siedo e guardo la palma: nessun altro pensiero mi distrae da
quest’albero. Le ore scorrono, viene la sera e devo rientrare a casa.
Menu mi aspetta fuori, ed insieme ci dirigiamo alla volta del palazzo.
Il giorno seguente, dopo gli esercizi di gruppo, mi ritrovo sotto la
palma e mi concentro su di essa.
Quando avevo cominciato l’esercizio, ero stata assalita da molti
pensieri estranei all’oggetto della mia concentrazione, come ciò che
184 Elisabeth Haich

mi aveva detto Menu la sera prima, o un uccello che cantava fra i


rami, una zanzara che mi ronzava all’orecchio, l’impertinenza del
guardiano del tesoro Roo-Kha che continuava a farmi andare in colle­
ra. Ma mi ero ripresa, e avevo infine cacciato dalla mente tutti i
pensieri che non dovevano esserci, per concentrarmi esclusivamente
sulla palma.
Ora va meglio. I pensieri non possono più raggiungermi e neppure
disturbarmi sul serio. Prima ero ancora nel mondo dei pensieri, fra i
pensieri che mi avevano sballottata qua e là; ma non mi sono lasciata
trascinare: resto con fermezza qui dove sono, accanto alla palma e
impercettibilmente mi immergo sempre più dentro di me, laddove i
pensieri non possono né seguirmi né disturbarmi. Qui o là, compaio­
no ancora nel mio intelletto come viaggiatori stanchi, ma io li guardo
passare, niente di più. Mi occupo unicamente della palma... penso alla
palma... la palma riempie tutto il mio essere...
Passa il tempo, passano forse giorni, settimane: non ne ho la mini­
ma idea. Non noto nulla del mondo esterno, giacché sono interamente
concentrata sulla palma. Poi, ho la strana sensazione di non vedere
più l’albero dall’esterno, ma dall’interno... Naturalmente, vedo con
gli occhi fisici la forma esterna dell’albero, ma comincio a vedere, a
vivere, ad essere sempre di più l’essenza intima della palma, il prin­
cipio creatore che la anima.
Poi prendo coscienza del fatto che la palma non è più all’estemo
di me; no, non è mai stata all’estemo: era un concetto errato da parte
mia, la palma in me ed io nella palma - io sono la palma !
Non so quanto a lungo sono rimasta assorta in me stessa; non so
che significhi il tempo: in questo stato l’idea di “laggiù” è sconosciu­
ta, ma ora una forza mi riconduce alla mia coscienza individuale, e
noto che Ima è davanti a me. Il mio sguardo incontra la dolcezza del
suo volto; si siede accanto a me e attende pazientemente che io mi
riprenda, guardandomi con aria interrogativa.
Cerco invano di parlare... la parola mi sembra del tutto superflua.
Finalmente tutto riprende a funzionare in me come al solito: la
volontà mi ubbidisce, i nervi della laringe mettono al lavoro le mie
corde vocali, e posso emettere dei suoni.
«Oh, Ima! — dico piano, con tono molto serio, e sorpresa nel­
l’udire la mia stessa voce — sono diventata la palmaì Anzi: ho sco­
perto di essere sempre stata la palma, ma di non esserne mai stata co­
sciente fino ad ora!»
Ima annuisce con il suo viso angelico e raggiante di gioia, e mi dice:
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 185

«Fai enormi, meravigliosi progressi. Ne sono così felice! Nessuno


ha fatto tanti progressi in così breve tempo, e se passi tutte le altre
prove con questa rapidità, sarai ben presto pronta per l’iniziazione!»
Ci contempliamo a vicenda, pieni di gioia, in silenzio. Guardando
Ima percepisco ancora meglio la purezza del suo essere, la potenza
che ne emana; ovunque si trovi, l’aria ne è purificata.
Poi mi tende la mano, ci alziamo: debbo rientrare a casa.
Sono già a letto, quando Menu si siede per terra accanto a me e mi
chiede:
«Che stai facendo al Tempio?»
«Facciamo degli esercizi.»
«Quali?»
Con aria molto seria, le rispondo:
«L’ultimo che ho fatto, consisteva nel pensare ad una palma fino a
scoprire di essere io stessa la palma!»
Spaventata, Menu insiste:
«Cos’hai scoperto? Cosa sei?»
«La palma.»
«Tu? Una palma?» si adombra Menu.
«Sì, Menu, la palma. Adesso lasciami in pace, voglio dormire.»
Allora Menu scoppia a ridere, rotolandosi per terra dalle risate,
con le lacrime agli occhi:
«Hihihi, tu, una palma? E dov’è il tronco? Dove sono le foglie?
Hihihi, allora non sei più una ragazza? Hihihi!»
Offesa, mi metto a sedere sul letto e dico, con la massima dignità:
«Sappi che non sono una ragazza, ma la rappresentante della regi­
na, la sposa del Faraone, capisci? E se ti prendi gioco dei miei eserci­
zi non ti racconterò mai più nulla!»
Menu passa subito dal riso al pianto, mi bacia le mani e, fra le
lacrime, mi dice:
«Non ti avevo detto che l’iniziazione era una cosa pericolosa?
Finiranno con lo stregarti e, alla fine, faranno davvero di te una pal­
ma. Parli già in modo strano. Fai attenzione, ti supplico, fai attenzio­
ne! Sarebbe meglio che il Faraone lo sapesse!» poi, con aria preoccu­
pata, esce asciugandosi le lacrime.
Resto da sola con una sensazione sgradevole; mi rendo conto che
non avrei mai dovuto parlare a Menu delle mie esperienze più sacre,
più profonde.
Il giorno seguente Ptahhotep mi manda a chiamare: devo andare
da lui in serata. Lo trovo nella saletta di ricevimento, con lo sguardo
186 Elisabeth Haich

infinito quanto la volta celeste.


«Vieni avanti, piccola mia» dice gentilmente.
Piena di fiducia, mi avvicino: mi prende le mani fra le sue e
chiede sorridendo:
«Sai quale sarà il tuo prossimo esercizio?»
«Sì, Padre, lo so.»
«Allora?»
«Star zitta» dico, sorridendo ma anche cosciente del mio errore.
Lo guardo in faccia, perché so che non mi giudica. Annuisce col
capo, ci comprendiamo, non ho più bisogno di scusarmi. Mi conosce
meglio di quanto mi conosca io stessa, e sa benissimo che non è per
cattiveria o per nuocere che ho parlato a Menu di queste cose sacre, a
Menu che non ha la maturità necessaria (ne è ben lungi) per compren­
dere queste esperienze spirituali. Immergo lo sguardo negli occhi di
Ptahhotep: egli mi vede con tutte le mie imperfezioni, ma constata
anche quanto sia ferma la mia decisione di imparare a tacere in futuro.
Mi accarezza i capelli, mi inchino ed esco.
Ah! Quante volte ancora dovrò presentarmi davanti a lui, per con­
fessare che la mia lingua è stata più rapida della ragione, che di nuovo
non ho saputo padroneggiare la forza che spinge gli uomini a manife­
starsi, ad esprimersi, a comunicare!
Tuttavia, col tempo, imparo a rimanere “vigile” davanti a questa
forza; il bisogno di comunicare, come i miei leoni favoriti, deve esse­
re tenuto sotto severo e costante controllo. Questa autosorveglianza
mi conferisce una seconda natura: prima di parlare, ascolto dentro di
me per sapere se mi è consentito o no esprimermi e, a poco a poco,
imparo ad aprir bocca soltanto se ho davvero qualcosa da dire. Rico­
nosco in me due esseri: un “io” personale a cui piacerebbe molto
chiacchierare senza controllo per semplice bisogno di comunicare e
di attirare l ’attenzione sulla mia persona, e, sullo sfondo della mia
coscienza, il “Sé” superiore che trattiene questo “io” e gli dice quan­
do può dire o fare quale&m, e quando, invece, deve tacere e rimane­
re passivo. Ma bisogna prestare attenzione agli ordini del Sé superio­
re, e obbedirgli: limitarsi a prestare orecchio non basta, giacché tutti
sanno farlo!
Durante questo periodo, Ima continua a farmi fare esercizi di con­
centrazione.
Ci troviamo nel mio angolo favorito del giardino del Tempio, ed
Ima mi spiega:
«Già sai per esperienza che cos’è la concentrazione, ma se ti
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 187

osservi nel frattempo, constati che, nella concentrazione, passi attra­


verso tre fasi diverse: intellettuale, sensoriale e infine spirituale.
Ogni concentrazione comincia con la fase intellettuale, durante la
quale dirigi il pensiero sull’oggetto della concentrazione e ci rifletti
su, rifletti sulla sua natura. Lavori dunque con la tua intelligenza,
giacché vuoi mettere in ordine i pensieri in modo chiaro, e cerchi una
definizione soddisfacente per qualificare con precisione l’oggetto del­
la concentrazione. Una volta trovata questa definizione il lavoro del­
l’intelligenza si conclude perché sai che cos’è l’oggetto in questione.
Non devi dunque più pensarci, perché quando si sa che cos’è una
cosa, non ci si pensa più. Pensare è il ponte fra l ’ignoranza e la cono­
scenza. Una volta che sappiamo tutto, come Dio, non ci serve più la
facoltà di pensare; Dio è onnisciente, Egli è la conoscenza stessa, il
suo sapere è perfetto quanto il cerchio. A che dovrebbe mai pensare,
giacché sa tutto? Soltanto colui che deve ancora completare le sue co­
noscenze utilizza la facoltà di pensiero. Il processo di pensiero è esat­
tamente ciò che permette di allargare il proprio sapere.
Quando la tua conoscenza dell’oggetto della concentrazione è
completa, passi dal “pensare” al “sentire”, seconda fase della concen­
trazione: dall’intemo verso l’esterno, grazie al sistema nervoso, la tua
coscienza proietta tutte le caratteristiche dell’oggetto della concentra­
zione sugli organi di senso; le sperimenti, le vivi, dunque, a livello di
sensazione... Ogni goccia del tuo sangue sente e percepisce che cos’è
l’oggetto di questa concentrazione!
Quando hai completamente vissuto in te questo oggetto sia a livel­
lo intellettuale, sia a livello sensitivo, passi alla terza fase, la concen­
trazione spirituale. Questo significa che la tua coscienza si identifica
con l’oggetto della concentrazione: sei diventata quest’oggetto\ Defi­
niamo questa identificazione uno stato d’ESSERE, nel quale non devi
più pensare all’oggetto, né devi sentirlo, giacché sei diventata que­
st’oggetto. Tutti i tuoi pensieri, tutte le tue sensazioni, tutte le tue
azioni, sono manifestazioni di quest’oggetto.
Hai fatto quest’esperienza con la palma, ma siccome non avevi
ancora molta pratica, non hai osservato in te le tre fasi, non le hai
vissute coscientemente. Facciamo un altro esempio. Comincia col
riflette su che cosa sia l’acqua: cominci col pensare che l’acqua è un
liquido, composto da due gas, del quale puoi misurare la temperatura,
sapendo che gela sotto allo 0°; puoi osservarne tutti i colori, eccetera,
fino a che la tua intelligenza avrà colto ogni aspetto dell’acqua, e que­
sta è la concentrazione intellettuale.
188 Elisabeth Haich

Poi, entri in acqua: senti che cos’è l’acqua. Per sensazione diretta,
ti rendi conto che l’acqua è liquida, che bagna tutto il tuo corpo, ne
senti la temperatura, sicché non hai più bisogno di misurarla: senti se
è fredda o calda. Puoi giocherellare nell’acqua, fra piccole o grandi
onde... e sperimenti tutte le caratteristiche dell’acqua a livello delle
sensazioni. Questa è la concentrazione sensoriale.
D’un tratto, smetti di sentirti separata dall’acqua. Ora ti fondi in
essa, non hai più un corpo umano, sei diventata acqua; quindi non hai
più bisogno di pensare alle caratteristiche dell’acqua, né di sentire
che cos’è l’acqua, giacché, ora, tu sei l’acqua. La perfetta concentra­
zione consiste nel divenire identico all’oggetto della concentrazione!
Le altre fasi della concentrazione presentano uno stato di separazione
mentre lo stato d ’ESSERE rappresenta la perfetta unità risultante dal­
la comprensione totale e dalla conoscenza assoluta proveniente dal­
l’interno. Naturalmente, non è che il tuo corpo diventi acqua ma, in
coscienza, vivi quest’elemento, ne fai l’esperienza completa.
Osserva la gente intorno a te: alcuni parlano sempre di amore e di
bontà, hanno un sorriso dolce ma pieno di sufficienza; non perdono
occasione per far notare quanto sono “buoni e pieni d’amore”... Ma
tutto questo, è solo esteriorità! Indossano la maschera dell’amore, ma
quando si passa all’azione il loro egoismo si manifesta, giacché essi
sono egoismo.
Un altro, invece, non parla mai di bontà, non pensa neppure di
essere buono, eppure tutto ciò che dice, pensa e fa, deriva dalla bontà
giacché egli è la bontàl Non si deve né pensare né sentire ciò che si è,
proprio perché lo si è\ non se ne parla, ma tutto ciò che si pensa, si
dice e si fa, è una manifestazione di ciò che siamo: la manifestazione
del nostro Sé\
Allora, eccoti l’esercizio più difficile: concentrati su te stessa ! Co­
mincia col riflettere su ciò che sei, poi senti ciò che sei e, infine, sii
ciò che seiì
Per diventare cosciente qui, sulla Terra, sei caduta fino al Uvello
del tuo intelletto e delle tue sensazioni: quindi non fai che pensare a
ciò che sei, sentire ciò che sei, ma non sei mai ciò che seiì
Osserva la gente intorno a te e vedrai che non sono ciò che sono
in realtà, ma che si identificano sempre con pensieri, sensazioni e
parti che interpretano quaggiù. Sono usciti da loro stessi, sono dei
facsimili. Negli occhi di un bambino piccolo, potrai ancora riconosce­
re la scintilla, la luce del Sé, ma quando la sua ragione si sveglia, il
bambino comincia ad identificarsi con la sua persona esteriore e si
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 189

allontana sempre di più dal suo essere reale divino. La persona è


quindi una maschera, attraverso la quale guarda il Sé vero, il grande
invisibile.
La persona non deve essere nuli’altro che lo strumento per mani­
festare il Sé, ma gli uomini si sono talmente attaccati alla loro ma­
schera che ora non riescono più a disfarsene. Il Sé è il sovrano, il re,
mentre la persona ne è il servitore: ma i figli degli uomini si allonta­
nano sempre di più dal loro Sé e, scendendo i gradini del trono, si
identificano con la loro maschera, con la loro persona; invertono i
ruoli e fanno del servitore un re, mentre condannano il Sé all’esilio,
relegandolo nell’inconscio. Il responsabile di questa scissione è l’in­
telletto, ed è sempre lui che, grazie ad adeguati esercizi di concentra­
zione e agli sforzi per diventare cosciente, ci aiuta ad uscire da questo
stato di separazione per ritrovare il nostro vero Sé.
Fino ad ora, la tua concentrazione si è servita di oggetti diversi:
d’ora innanzi l’unico tuo compito è di concentrarti su te stessa e rea­
lizzare, con il tuo stesso Sé, le tre fasi di concentrazione per giungere
allo stato d ’ESSERE. Devi raggiungere lo stato che non può essere
descritto se non in prima persona: “Io sono colui che sono”. Attenzio­
ne, non basta pensare a ciò che sei, né sentire ciò che sei, ma devi es­
sere ciò che sei nel tuo essere reale ! Ecco il tuo esercizio di concen­
trazione da qui fino all’iniziazione!»
Comincia così questa lunga tappa della mia vita che devo dedicare
a due compiti: essere il mio vero Sé e imparare a tacere.
CAPITOLO XXVII

L’albero della conoscenza


del bene e del male
Finalmente riesco a controllarmi: ho imparato abbastanza bene a
star zitta.
Una sera vado di nuovo a trovare Ptahhotep, ed Egli mi chiede:
«Cos’hai imparato in quella tua lotta per mantenere il silenzio?
Hai imparato soltanto l’arte di tacere?»
«No, Padre della mia anima, non è stato possibile. La mia lotta si
è estesa anche al silenzio, oltre che alla parola. A mano a mano che
padroneggiavo la disciplina del silenzio, controllavo parallelamente la
parola: perché tacere significa non parlare, e parlare non tacere.
Quindi, non riuscivo a separare queste due cose e ho scoperto che,
come le due facce di una medaglia, i gemelli silenzio e parola forma­
no i due lati di un’unità.»
«Giustissimo — dice Ptahhotep alzandosi e conducendomi davan­
ti ad una delle grandi pietre bianche che formano le pareti della stan­
za, e mostrandomene la superficie levigata. — Che vedi su questa
superficie bianca?»
«Nulla.»
«Che potrei disegnarvi?»
«Tutto.»
«Dunque — dice Ptahhotep — questo Nulla contiene in sé il Tut­
to. In questo stato, l’uno e l’altro formano una perfetta unità e, in
quest’unità non è possibile riconoscere qualcosa se questo qualcosa
non si separa dall’unità, distinguendosi da essa. Guarda: su questa
superficie ora disegno una foglia di trifoglio di colore verde. Questa
foglia si trovava già sulla pietra, ma non avevi potuto riconoscerla
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 191

perché la forma positiva della foglia e la natura negativa dello sfon­


do erano l ’una nell’altra. Erano perfettamente identiche. La forma
della foglia non era ancora separata dal Tutto contenuto in questo
Nulla. Col fatto di comparire in verde sul muro, questa foglia si è
separata dal Tutto ed è diventata riconoscibile.
Ora, rifletti su una faccenda importante: giacché la foglia è com­
parsa in verde su questa superficie bianca, questo significa che la sua
forma nel colore complementare (quindi, in questo caso, in rosso) è
rimasta nel Tutto come immagine invisibile negativa. Qualsiasi cosa
tu veda, essa è riconoscibile soltanto perché si è separata dalla sua
metà complementare, la quale è rimasta nell’invisibile, nel non-mani-
festo.
Non puoi acquisire la conoscenza se non attraverso il paragone
dei due lati separati l’uno dall’altro, quello positivo e quello negativo;
fintantoché questi due lati sono fusi l’uno nell’altro non puoi percepi­
re nulla, non puoi riconoscere nulla.
Osserva il mondo esterno! Può essere riconosciuto soltanto perché
si è separato dall’unità ove il Nulla ed il Tutto sono ancora l’uno
nell’altro, cioè nell’unità assoluta che chiamiamo Dio. Soltanto per­
ché il positivo appare come separato dal negativo possiamo parago­
narli, possiamo riconoscere la creazione. Non vi è percezione possibi­
le, a meno che l ’unità si scinda in due metà, l’una manifesta e l ’altra
(riflesso e metà complementare della precedente) non manifesta, in
modo che entrambe divengano riconoscibili attraverso il paragone.
Ora seguimi.»
Ptahhotep mi conduce in un’altra stanza. Qui, su un grande tavolo
davanti ad una parete bianca, appoggia una statuetta dietro alla quale
sistema, a destra e a sinistra, due piccole lampade, in modo che le
ombre della statuetta siano due, una a destra ed una a sinistra.
Ptahhotep prende ora un foglio di carta trasparente di colore rosso che
tiene davanti alla lampada di destra. Con mia grande sorpresa, l’om­
bra della statuetta diventa rossa a destra, ma verde a sinistra.
«Com’è possibile, Padre della mia anima?»
«Riflettici un attimo, e troverai la risposta da sola» risponde
Ptahhotep.
Taccio per un momento, mi concentro fino a sperimentare e a
sentire in me la soluzione; dopo di che spiego:
«La statuetta trattiene il colore rosso della luce che è diventata
rossa, e lascia apparire sulla parete soltanto il colore complementare.
Questo spiega l’ombra verde dall’altra parte. Invece, la statuetta trat­
192 Elisabeth Haich

tiene tutta la luce della seconda lampada e l’ombra, da quel lato della
parete, sembra essere diventata rossa.»
«Giustissimo — dice Ptahhotep. — Come vedi, questi due colori
non possono esistere l’uno senza l’altro, così come non possono esi­
stere l’uno senza l’altro il silenzio e la parola. Qualsiasi cosa tu renda
visibile nel mondo esterno, il suo opposto complementare rimane nel
mondo non manifesto. c
Quando parli, ciò che resta nel non-manifesto è il silenzio, ovvero
il lato negativo complementare della parola; e quando taci, ciò che
resta nel non-manifesto è la parola, l’atto complementare positivo del
silenzio. Quando si forma una montagna, deve formarsi anche la sua
immagine negativa, cioè la valle. Come immaginare una montagna
senza valle o una valle senza montagna? Nulla può essere manifesto e
riconoscibile senza che il suo contrario (la sua metà complementare
e opposta) sia simultaneamente presente nel non-manifesto. Quando
qualcosa di positivo si manifesta, il negativo resta non-manifesto e,
inversamente, quando qualcosa di negativo si manifesta, il positivo
resta nel non-manifesto. Non appena l’uno compare, la sua parte
complementare deve obbligatoriamente essere presente, anche se sol­
tanto allo stato di non-manifestazione: sono legati l ’uno all’altra per
tutta l ’eternità.
La separazione è dunque solo apparente, perché le due metà com­
plementari, sebbene siano separate ed uscite dall’unità assoluta del
Tutto, non possono allontanarsi l ’una dall’altra né abbandonarsi.
L 'unità divina ed indivisibile si manifesta quindi sempre e dovunque,
giacché questa separazione apparente agisce di continuo sotto forma
di forza d ’attrazione, onnipresente, tra il positivo ed il negativo. Sia il
positivo che il negativo aspirano a ritrovare il loro stato originario,
Vunità divina. Se qualcosa compare nel mondo manifesto, questo
qualcosa non può mai allontanarsi definitivamente dall’unità: presto o
tardi, riunendosi con la sua metà complementare, egli la ritroverà. La
forza che anima tutto ciò che esiste, che spinge ogni forma creata a
ritornare nell’unità, è ciò che chiamiamo Dio.
La creazione, ossia il mondo visibile, è simile ad un albero: a
destra porta frutti positivi e buoni, a sinistra frutti negativi e cattivi.
Ma i due lati fanno parte dello stesso tronco e derivano tutti dalla
stessa unità.
Il bene ed il male sono il risultato di questa separazione dall’uni­
tà che non è né buona né cattiva, ma divina. Soltanto questa separa­
zione ha reso possibile la conoscenza, di conseguenza il mondo visi­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 193

bile dev ’essere composto dal bene e dal male, altrimenti non sarebbe
riconoscibile, sarebbe inesistente.
L’intera creazione rappresenta l’albero della conoscenza del bene
e del male. Il creatore, Dio , non è una metà separata dell’Unità, giac­
ché Dio è l’unità. Egli è al di sopra di tutto ciò che è creato, e che è
nato dall’unità; Egli è sito in Se stesso, in un’unità perfetta. Egli è il
Nulla da cui il Tutto sorge e si manifesta, ma in Lui, il Nulla ed il Tut­
to compongono l’unità divina assoluta!
La creazione è sempre e soltanto una metà del Tutto, quella che si
è separata dall’unità e che, tramite il paragone, è diventata riconosci­
bile, mentre la sua altra metà complementare è rimasta non-manife-
sta. Ecco perché non puoi mai trovare Dio, il creatore, nel mondo cre­
ato, giacché Dio non ha alcuna metà complementare con cui Lo si
potrebbe paragonare. E del tutto impossibile compararlo a qualcosa,
di conseguenza non esiste alcuna possibilità di riconoscerlo: non ri­
mane che ESSERE DIO\
Ora ascolta, figlia mia: c’è solo un ESSERE eterno, un solo Dio.
Questo solo ed unico ESSERE, questo solo ed unico Dio , vive in tutto
ciò che vive. Dio è l’unità indivisibile. Egli è onnipresente, Egli riem­
pie l’intero universo; e tutto questo universo vive perché Dio lo ani­
ma del suo ESSERE proprio ed eterno\ Dio è dunque come un albero
della vita che dona la sua essenza al mondo creato e visibile, questa
parte che si è separata dalla sua metà complementare, animandolo: è
l’albero della conoscenza del bene e del male. L’albero della cono­
scenza, il mondo creato, vive soltanto perché l’albero della vita (Dio)
infonde la propria vita nelle vene dell’albero e vive in essol
Il mondo materiale è simile ad un albero morto: l’albero della
conoscenza del bene e del male, con il Dio che vi abita, è l’albero
della vita che vive in tutto ciò che è creato. Dio è uno. Questo Dio
unico è il Sé, l’essere più profondo di ogni creatura. Dio è onnipresente,
e siccome due cose non possono stare contemporaneamente nello
stesso luogo, e giacché nulla può cancellare Dio in un punto qualsiasi
dell’universo, può essere soltanto questo Dio unico a manifestarsi
come Sé in tutto e in ogni luogo. Dio è l’unità indivisibile. Tutte le
creature viventi, tutte le piante, gli animali, persino l’uomo sono frutti
sull’albero della conoscenza del bene e del male, e possono vivere
grazie al fluido vitale dell’albero della vita che corre nelle loro vene,
perché l ’albero della vita vive in loro. Anche in me, piccola mia! An­
che il tuo corpo è un frutto sull’albero della morte, sull’albero della
conoscenza del bene e del male, e non ha vita propria; l’albero della
194 Elisabeth Haich

vita vive anche in te, perché il tuo Sé è un rametto del grande albero
della vita di Dio, e tu vivi solo perché Dio, il tuo Sé, vive in te e man­
tiene la vita nel tuo corpo, nella tua persona.
Sei un essere riconoscibile perché sei nata in un corpo. La tua
coscienza si è separata dal Nulla-Tutto, da Dio, dal tuo vero Sé. Dallo
stato originale divino e paradisiaco in cui tutte le possibilità di mani­
festazione (dunque tutte le piante, tutti gli animali e l’uomo stesso)
sono contenute, dall’unirà assoluta sei caduta nel mondo della diver­
sità, della differenziazione. Tu sei diventata una manifestazione, una
forma creata, e quindi tutto ciò che sei qui, sul piano terreno, è soltan­
to la metà manifesta dell’unità composta di bene e di male. Siccome
la tua coscienza si è spostata nel tuo corpo, tu ti sei svegliata in esso,
ovvero la tua coscienza si è identificata con il tuo corpo.
“Mangiare” qualcosa significa “diventare identico”, e dal momen­
to che sarai composta da ciò che mangi, diventerai ciò che mangi. Dal
momento che la tua coscienza si è identificata al corpo, tu hai “man­
giato”, per dirla simbolicamente, i frutti dell’albero della conoscenza
del bene e del male, diventando, in tal modo, un suddito del regno
della morte.
Ora ascolta attentamente: il tuo corpo è la conseguenza, il risultato
della separazione; è soltanto la parte visibile del tuo vero Sé. L’altra
metà è rimasta nel non-manifesto, nella parte inconscia del tuo essere.
Se riunisci le due metà complementari, puoi ritrovare l'unità divina!
E assolutamente impossibile vivere fisicamente questa unità, rendere
s

visibile anche la tua metà invisibile, materializzarla, e riunirle en­


trambe: perché una coscienza non può animare due corpi, e se tu vo­
lessi vivere nel tuo corpo l’essenza della tua metà complementare, al­
lora moriresti.
E proprio perché si è separato dalla sua metà complementare, che
il corpo è diventato visibile e riconoscibile. Quindi, il riunirsi delle
due metà implicherebbe obbligatoriamente la distruzione del corpo.
Tuttavia, puoi vivere in questo corpo l’unità divina con la tua metà
complementare in uno stato di coscienza ! Puoi espandere la coscien­
za fino a rendere cosciente tutto il tuo inconscio, fino a vivere con­
sciamente in te la tua metà non manifesta ed invisibile, fino a realiz­
zare, in tal modo, l’unità divina nella tua coscienza. Mentre il tuo
corpo esiste nel mondo creato e visibile, tu puoi nuovamente unirti al
tuo vero Sé, dal quale ti sei separata, e provare la felicità suprema di
vivere Dio, di essere Dio.
Tutto ciò che è stato creato aspira a ricomporsi; ogni essere viven­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 195

te cerca la sua metà complementare per unirsi di nuovo con essa, e le


forme positive maschili cercano le forme negative femminili e vice­
versa. Questo ardente desiderio delle forze positive e negative forma
la struttura di base stessa della materia, ossia: la materia non esiste­
rebbe senza quest’aspirazione a riunirsi, ad essere Dio, che crea la
forza d’attrazione fra le energie positive e negative; tutto il mondo è
costruito su questo desiderio, fonte di tutte le energie nel mondo
manifesto, di cui si serve la natura proiettandolo nel corpo sotto for­
ma di energia sessuale.
Fintantoché una creatura cerca la sua metà all’esterno, nel mondo
visibile creato, non troverà mai l’unità, perché la sua metà comple­
mentare non è separata da lei, al di fuori, nel mondo manifesto, ma è
proprio in lei, nella sua parte non manifesta, nell’inconscio. Nessuna
creatura potrebbe esistere se non avesse la sua altra metà nel mondo
non manifesto: prendi il tuo esempio, figlia mia; il contrario di tutto
ciò che sei nella tua parte cosciente, il contrario di ciò che manifesti,
si trova nella tua parte inconscia che, comunque, ti appartiene, che è
comunque te. Non puoi trovare la tua metà complementare al di fuori,
in un uomo di carne ed ossa, per esempio, ma soltanto nella parte
inconscia del tuo Sé. Quando, nella coscienza, riunisci le due metà
del tuo Sé, allora ritrovi lo stato del Nulla-Tutto, e sei di nuovo identi­
ca a Dio!
Una volta realizzata questa riunione nella tua coscienza, l’eterna e
ardente aspirazione che anima il tuo essere manifesto viene ad estin­
guersi, giacché ha trovato la sua metà complementare e si è fusa con
essa in perfetta unità. Il desiderio sessuale del corpo cessa una volta
per tutte: sei completa in te stessa. Qui, durante quest’esistenza terre­
na, fai allora l’esperienza dello stato divino, lo vivi: immortalità,
felicità, tutto è compiuto! E dal momento che ogni creatura è animata
da un solo ed unico ESSERE, non appena ti sveglierai nel tuo vero Sé
diventerai identica al Sé vero di ogni creatura vivente. Raggiungerai
l’unità con Dio e, nel contempo, l’Unità con l’intero universo; eleve­
rai la tua coscienza al di sopra del corpo, al di sopra della tua perso­
nalità, e vivrai lo stato di coscienza cosmica che include ogni cosa. Ti
sentirai l’“io” di ogni creatura, di tutto l’universo, di Dio. Ciò signifi­
ca che mangerai di nuovo i frutti dell’albero della vital
Allora, avrai lasciato il mondo degli effetti per il mondo delle
cause, l’universo delle cose effimere per quello dell’etemità, ciò che è
stato creato per il creatore, il regno della morte per il regno della vita:
e allora la tua resurrezione nell’ESSERE eterno sarà compiuta. Ecco
196 Elisabeth Haich

cos’è l’iniziazione!»
Ptahhotep tace. Nell’insondabile profondità del suo sguardo cele­
ste, riconosco quest’unità divina. L’infinita felicità, la calma e la pace
che emanano dai suoi occhi inondano la mia anima, e vedo nel suo
sguardo il compimento della verità.
Mi benedice, ed esco.
CAPITOLO XXVIII

Le dodici paia di qualità gemelle


Il giorno seguente, eccomi di nuovo davanti a Ptahhotep;
«E venuto il tempo, per te — mi dice — di studiare le dodici paia
di qualità gemelle. Questo sarà il tuo prossimo esercizio ed anche le
prove dell’iniziazione verteranno su questo argomento, quindi stai
molto attenta e assimila bene ciò che sto per dirti.
Così come “tacere” e “parlare” sono le due metà complementari della
medesima forza, esistono dodici paia di virtù che devi imparare a con­
trollare. Ormai, trascorrerai soltanto più il mattino al Tempio, e poi
tornerai a palazzo e coglierai ogni occasione per vivere in società: infatti,
è molto più semplice controllare queste cose al Tempio che nell’ambien­
te mondano. Qui, sei in contatto soltanto con altri neofiti che, come te,
stanno cercando l’unità divina, oppure con sacerdoti e sacerdotesse che
già vivono in quest’unità; invece, nell’ambiente mondano, sarai esposta
ad ogni sorta di tentazione, vi incontrerai uomini schiavi dei loro corpi
che cercheranno di influenzarti. Il rischio di soccombere è molto mag­
giore, e se riesci a controllare tutte queste qualità nel mondo esterno,
riuscirai a passare anche gli esami dell’iniziazione. Queste dodici paia
sono: tacere — parlare
ricettività — resistenza alle influenze
obbedire — regnare
umiltà — fiducia in se stessi
rapidità del lampo — ponderazione
accettare tutto — saper discemere
prudenza — coraggio
non possedere nulla — disporre di tutto
non essere attaccato a nulla — fedeltà, lealtà
farsi notare — passare inosservato
disprezzo della morte — rispetto della vita
indifferenza — amore
198 Elisabeth Haich

La Terra si trova in un’epoca in cui uomini egoisti e dominati dal


corpo vanno a poco a poco impadronendosi del potere. Come già sai,
laddove si manifestano forze negative debbono essere presenti anche
forze positive, ma soltanto nel mondo non manifesto. Durante questo
oscuro periodo terrestre, i figli di Dio che manifestano le leggi divine
secondo le quali tutto va fatto senza trame beneficio personale, a
poco a poco abbandoneranno il piano terreno per ritirarsi a livello
spirituale, nel non-manifesto. Ma continueranno ad agire nell’incon­
scio degli uomini, perché rappresenteranno precisamente l ’inconscio
dell’umanità e si manifesteranno nell’anima via via più matura degli
uomini, facendo nascere in essa il desiderio di liberarsi.
Sulla Terra, la megalomania e la sete di potere di alcuni coniugate
con il malcontento crescente dei popoli ridotti in schiavitù, daranno
luogo a lotte sempre più aspre per migliaia di anni; e migliaia di anni
di lotte e di guerre, durante i quali regneranno avarizia, vanità, invi­
dia, desiderio di vendetta, odio e molte altre caratteristiche animale­
sche, potrebbero cancellare dalla superficie della terra tutto ciò che è
bello, buono ed autentico, se la provvidenza divina non avesse dispo­
sto le cose in modo che un gruppo di esseri umani legati fra loro
spiritualmente lavori sotto la guida dei figli di Dio che agiranno dal
livello spirituale, allo scopo di salvare dall’oblio il nostro sapere
segreto e diffonderlo. La Terra, come ogni pianeta, è guidata da
un’energia spirituale elevata, che si manifesta attraverso i figlio di
Dio in modo adatto agli uomini; tale forza, inoltre, si manifesta me­
diante un gruppo di persone iniziate che, lungo la via dello sviluppo,
hanno raggiunto i figli di Dio. Tutti lavorano alla grande causa: strap­
pare la Terra all’oscurità, alla dominazione delle forze materiali ed
infernali - all’isolamento - e liberarla. Ogni Iniziato partecipa a que­
st’opera, ed essa sarà anche la tua missione.
Onde diventare un membro utile a questa causa, si devono con­
trollare perfettamente tutte queste opposte virtù, ed è per questo che
dovrai passare degli esami in questo campo.
Controllarle significa saper usare queste qualità nel momento e nel
luogo opportuno. La stessa qualità, è divina quando viene utilizzata
nel momento e nel luogo opportuno, ma è satanica quando viene usa­
ta nel momento e nel luogo sbagliato: perché Dio crea soltanto il
Buono, il Bello e il Vero. Non ci sono né qualità cattive né forze
cattive: ci sono solo qualità e forze mal usate\
Hai già capito cosa significhi “tacere” e “parlare” con discerni­
mento; tacere è una qualità divina, una benedizione quando lo si fa
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 199

nel momento e nel luogo in cui è bene tacere, ma se uno tace dove e
quando dovrebbe parlare (ad esempio quando, con una parola, si po­
trebbe salvare qualcuno da un grave pericolo), questo “silenzio” di­
venta satanico.
Quando si parla nel momento e nel luogo inopportuni, la facoltà
divina di parlare diventa un “ciarlare” satanico.
Una metà del secondo paio di qualità, la ricettività, è divina quan­
do ci si apre a tutto ciò che è superiore, al Bello, al Buono e al Vero,
ossia a Dio, lasciandolo agire in sé, ricevendoLo in sé, ma diventa di­
sastrosa e satanica quando si trasforma in un carattere debole, incapa­
ce di resistere alle influenze esterne.
L’altro aspetto di questa qualità, la resistenza alle influenze, è la
facoltà di opporsi incrollabilmente alle influenze di bassa lega: se
questa resistenza, però, si oppone alle energie superiori, la facoltà
divina della “resistenza alle influenze” diventa “isolamento satanico”.
Ogni membro che lavora alla grande opera vota un’obbedienza
assoluta alla volontà divina; questa può manifestarsi direttamente at­
traverso te stessa, ma anche attraverso altri, ed impari a riconoscerla
dopo aver esaminato a fondo tutto ciò che viene richiesto da te, quan­
do, cioè, sei certa che questo corrisponde alla tua più profonda con­
vinzione. Dio ci parla per mezzo della nostra convinzione profonda, e
gli dobbiamo obbedienza assoluta: obbedire a qualcuno contro la no­
stra convinzione, per viltà, per timore, magari per essere “gentile” o
per trame vantaggi materiali, e quindi per motivi di bassa lega e
personali, equivale ad essere “servili” il che è satanico.
Regnare significa dare la propria forza di volontà agli esseri igno­
ranti e deboli. L’amore universale deve condurre al benessere genera­
le, mobilitando tutte le forze attive del popolo ma senza mai violare il
suo diritto all’auto-determinazione. Colui che, senza amore, impone
la propria volontà agli altri e viola il loro diritto all’auto-determina­
zione, trasforma la qualità divina del “regnare” in una “tirannia” sata­
nica.
Dobbiamo comportarci con umiltà davanti al Sé supremo che ci
anima, davanti al divino in noi. Devi essere cosciente del fatto che
tutte le qualità belle, buone ed autentiche Gli appartengono, che la
persona è uno strumento di manifestazione, un apparato di proiezione
del divino, ma che è soltanto un guscio vuoto. Devi riconoscere in te
la divinità che si manifesta ovunque nell’universo, VESSERE eterno,
e sottometterti umilmente a questa divinità. Invece, non devi mai
sottometterti alle potenze terrene o infernali, né piegare il capo da­
200 Elisabeth Haich

vanti alle forme materiali. Questo significherebbe trasformare l’unità


divina in “auto-umiliazione” vile e satanica, attraverso la quale ferire­
sti la divinità dell’ESSERE eterno che ti anima.
Se vuoi servire bene il grande piano di redenzione della Terra,
non devi mai dimenticarti che non vivi e non lavori con le tue proprie
forze, ma che ogni energia viene da Dio e tutte le forze che manifesti
ti vengono dal tuo Sé superiore, da Dio. Ricordati sempre che la tua
persona è solo una sembianza e che il tuo vero essere, l’unica realtà
eterna in te, è Dio\ La. fiducia in sé è la fiducia in Dio che abita nel
tuo cuore, ma non nella tua sembianza, nella tua persona: la fiducia in
sé divina è indispensabile ad ogni attività creatrice ed è una relazione
interiore con Dio. Ma quando una persona pensa che tutte le sue qua­
lità e le sue forze appartengono a lei sola e non a Dio, la divina fidu­
cia in se stessi diventa “presunzione” satanica.
Chiunque collabori a questa grande opera, deve poter prendere le
decisioni con una rapidità folgorante', devi imparare a scegliere senza
esitare la migliore possibilità che ti viene offerta. Possono presentarsi
situazioni in cui un istante di ritardo può significare la perdita irrepa­
rabile di un’occasione unica, e se puoi agire molto rapidamente in
uno stato di perfetta concentrazione e con una presenza di spirito che
si libra al di sopra di ogni concetto temporale, la rapidità folgorante di
ogni tua decisione è divina; ma quando si agisce affrettatamente,
senza riflettere, senza presenza di spirito, e si perde la concentrazio­
ne, allora questa “rapidità folgorante” divina, diventa “precipitazio­
ne” satanica.
Ecco perché devi imparare la ponderazione divina. Prima di agire
devi poter controllare la tua natura e, con molta pazienza, lasciare che
la decisione maturi dentro di te. Per riconoscere la volontà di Dio,
spesso è necessario del tempo per giungere all’esatta decisione, ma
quando questa riflessione dura troppo e non porta alcuna soluzione, la
“ponderazione” divina diventa un’“irrisolutezza” satanica.
Un operaio utile al piano divino deve apprendere ad accettare tut­
to ciò che il destino gli offre; non sono le circostanze, esteriori che
aeterminafìo il tuo valore, ma il grado con il quale manifesti Dzo^Le
degradazioni e le umiliazioni di questo mondo non possono ridurre né
distruggere i tuoi valon interiori, ma né le lodi, né la. gloria possono a
loro Vòlta m ecco perché rión devi lasciarti coinvolgere dal
modo in cui vieni trattata dagli ignoranti. Resta ciò che sei, che ti
umilino o ehe ti glorifichino.' Impara ad essere contenta in ogni, circo-
stanza, ad accettare imperturbabilmente le critiche come gli elogi, e
Iniziazione: memorie di un’Egizia 201

se il tuo lavoro sul pianaiLivino richiede che tu viva in povertà o che,


invece^ to occupi lina posizione importante e disponga di una grande
fortuna, devi accettare entrambe le cose e considerarle come mezzi
per servire là grande càusa. Né runa ne l’altra debbono poter cam-
biare il tuo atteggiamento intenore: allora, accettare tutto e divino.
Tuttavia, devi poter decidere (ma senza che questo ti coinvolga)
quando devi difenderti quale rappresentante della regola divina con­
tro gli insulti e le umiliazioni e, allo stesso modo, quando devi sot­
trarti con modestia alle lodi. L’“accettare tutto” non deve mai dege­
nerare in una “indifferenza apatica” o in una vile “mancanza di carat­
tere”.
Scegli sempre ciò che c’è di meglio, non accontentarti mai di ciò
che inferiore: devi saper discernere “il bello dal brutto”, “il buono dal
cattivo”, il “vero dal falso”, il divino dal satanico : se non si può dar
prova di un potere di perfetto discernimento, si è inutili nei confronti
del piano divino.
Ma sei vuoi essere utile, devi poter “combattere” con tutte le tue
forze. Con la spada della verità, devi lottare contro l’ombra dell’erro­
re per contribuire alla vittoria del divino sulla Terra. Ma l’essere
“pronti alla lotta” nobile e coraggiosa, non deve degenerare in un
“umore litigioso” costante e stupido.
Non dimenticare che, anche se spesso devi lottare coraggiosamen­
te, devi farlo con le armi spirituali, onde portare la pace sulla Terra.
Devi lottare per riunire ciò che è stato separato, lacerato, e per ristabi­
lire la pace fra i combattenti; il tuo amore per la pace non deve mai
diventare un atteggiamento negativo di “rifiuto della lotta” per viltà o
per comodità.
Se vuoi essere utile alla redenzione della Terra, devi imparare la
prudenza, ma anche, nel frattempo, imparare a decidere quando e
dove questa divina qualità può essere applicata. La “prudenza” può
salvarti, e può salvare molta altra gente da grandi pericoli, dal male e
dà inutili sacrifici; ma la mancanza di fiducia in se stessi e la paura di
arrischiarsi a fare qualcosa fanno di questa “prudenza” divina una
“debolezza” satanica.
Il tuo coraggio dev’essere incrollabile; non devi temere nessun
pericolo. Con il tuo coraggio, devi far fronte a tutte le difficoltà e
rispondere ad ogni attacco diretto contro il divino quando la causa lo
richiede. Ma questo “coraggio” divino non deve degenerare in un
“rischio” audace, da rompicollo.
Chi collabora con il grande piano divino deve imparare ciò che
202 Elisabeth Haich

significa non possedere nulla. Che la tua missione ti richieda la mas­


sima povertà o la più grande ricchezza, sii sempre cosciente del fatto
che nulla è mai tuo, tutto appartiene a Dio, ma che di quel tutto
riceverai il necessario per svolgere la tua missione. Simile ad un ca­
nale che rimane indifferente davanti alla quantità d’acqua che gli
passa all’intemo, giacché l’acqua non gli appartiene, devi considerare
ciò che il destino ti dà come proveniente da Dio e buono per essere
trasmesso. Non farti alcuna preoccupazione quanto ai tuoi mezzi ma­
teriali: riceverai esattamente ciò di cui hai bisogno. E anche se sei
estremamente ricca, devi ricordarti nella coscienza che non possiedi
nulla. Ma questo atteggiamento positivo divino non deve mai degene­
rare in un atteggiamento del tipo “non occuparti delle cose materiali e
disprezzale”. Non puoi mai chiedere al tuo prossimo che ti mantenga
senza che tu lavori.
Anche la materia è manifestazione divina; devi dunque attribuire
alla materia un valore divino, devi poter regnare su di essa e disporne.
Devi padroneggiare l’arte di procurarti le cose materiali di cui hai
bisogno per svolgere il tuo compito terrestre; sii pienamente cosciente
del fatto che fintantoché resti sulla Terra devi venire a patti con la
materia, non senza la materia o contro la materia. E necessario che tu
possa acquisirla e conservarla, che tu la controlli e che l’utilizzi cor­
rettamente, altrimenti sarai alla mercé delle potenze terrene, sotto il
loro controllo, e non potrai svolgere liberamente la tua missione, in
modo indipendente. Ma fai attenzione che questa qualità divina che ti
permette di controllare la materia non si trasformi mai in una sete di
potere egoista e satanico.
Quale operaia di questa grande causa, non devi sviluppare attac­
camento per nessuno. Sappi riconoscere in ognuno ciò che vi è di
divino, di terreno, di demoniaco: non amare la persona ma, in essa,
ama il divino, tollera il terrestre ed evita il demoniaco. Se la tua mis­
sione lo richiede, devi poter abbandonare l’essere più caro senza alcu­
na esitazione, perché devi sempre ricordarti che ciò che è degno di
amore in lui è Dio e non la persona. La persona è solo uno strumento
di manifestazione di Dio. Puoi trovare ed amare le stesse manifesta­
zioni in altre persone; ama Dio in ogni essere, e non proverai attacca­
mento per nessuno. Ma che questo non si trasformi in “insensibilità”,
“indifferenza” verso il tuo prossimo.
Tuttavia, devi restare fedele per la vita e per la morte a tutti coloro
in cui hai riconosciuto la manifestazione divina. Ami i tuoi maestri e
coloro che partecipano alla causa divina perché in essi hai riconosciu­
Iniziazione: memorie di un’Egizia 203

to Dio\ sei fedele a Dio attraverso di loro, giacché ami la loro persona
solo quale strumento divino. Così, il rispetto e la lealtà che dimostri
verso i tuoi maestri e verso i tuoi collaboratori non si trasformeranno
mai in adorazione né in un “culto della personalità”.
Se vuoi essere utile alla grande causa, devi possedere l’arte di
padroneggiare la tua personalità e di servirtene in pubblico come di
uno strumento obbediente. Davanti ad un gruppo di persone, devi
essere capace di far valere i tuoi talenti e le tue facoltà, grazie alle
tue forze spirituali, conducendoli al loro stesso apogeo in modo che,
attraverso l’intero tuo corpo, tu manifesti il tuo spirito elevato; sia per
il tuo modo di comportarti, sia con i movimenti delle tue mani, con
l’espressione degli occhi, con le tue parole persuasive, devi poter
riunire il gruppo sotto la tua influenza ed elevarlo insieme a te su un
gradino spirituale superiore. Devi dunque poter comparire in pubblico
senza vergogna né complessi, per mostrare il tuo spirito per mezzo
della tua personalità; ma questa qualità non deve risvegliare in te il
diavolo della vanità, né trasformarsi in sufficienza utilizzando i doni
ricevuti da Dio per diventare fanfarona. Se il pubblico ti fa festa e ti
applaude, sia sempre presente nella tua coscienza il fatto che questa
gente non è stata conquistata dalla tua persona, che non è altro che un
guscio vuoto, bensì da Dio che si è manifestato attraverso il tuo invo­
lucro terreno.
Se, esercitandoti nell’arte di “mostrarti”, non soccombi alla vani­
tà, allora non ti disturberà certo di dover passare inosservata com­
piendo altre funzioni; in tal caso, non devi far mostra delle tue quali­
tà, ma restare anonima e scomparire tra la folla. Che questo modesto
“restar nell’ombra” non diventi però una sotto stima di sé né un’auto­
distruzione: la tua dignità umana deve restare sempre presente in cuor
tuo.
Onde partecipare validamente al piano divino, devi poter dar pro­
va del tuo disprezzo per la morte', devi avere la fermissima convinzio­
ne che la morte non esiste. Quando il tuo corpo è consunto, il tuo Sé
se ne libera; il Sé è un ramo dell’albero della vita, la Vita stessa, e la
vita è immortale. Se, nella tua coscienza, ti sei identificata con la vita,
saprai far fronte alla morte (qualora la tua missione ti metta in perico­
lo mortale) senza paura e con il più assoluto sdegno davanti ad essa.
Ma che questo “disprezzo per la morte” non si trasformi mai in una
sottostima della vita, un “disprezzo della vita”.
Devi rispettare la vita al di sopra di ogni cosa. La vita è Dio. In
tutto ciò che vive, VESSERE eterno si manifesta. Non devi mai espor-
204 Elisabeth Haich

ti al pericolo senza ragione: apprezza la Vita nel tuo corpo, vivi con
gioia, ma che questa gioia di vivere non divenga uno scopo di per sé,
e non degeneri in “sensualità”.
Poi viene la prova più difficile, quella dèli’amore e dell ’amor cru­
dele, Y indifférénzà. Quest’ultimo paio di qualità gemelle rappresenta
giàTulla Terra un’unità inseparabile; ogni volta che ne manifesti una
metà, automàticamente si manifesta anche l’altra. Devi rinunciare ap­
pieno al tuo punto di vista personale, alle tue preferenze!;' àTtuoi
sentimenti personali: poter amare come ama Dio, amare tutto, senza
disiìnzi^è^~disclrìminazioneì Anìiafe nell’unità déìTESSÈRÈ eterno.
Simile" a! sòie che illuminà "che ama - con perfetta indifferenza piò
che è bello come~ciò che è brutto, ciò che buono come ciò che è
cattivo, ciò che è vero come ciò che è falso, devi amare senza distin­
zióne: iì bèllo e il brutto, il buono e il cattivo, il vérò e il falso.
L’amore divino supremo è Vamoreperfettamente imparzialel Che
uno sia bello oppure brutto, buono oppure cattivo, autentico oppure
falso, dev’esserti del tutto indifferente: devi amarli tutti con lo stesso
amore. Devi imparare che la bellezza non esiste senza la bruttezza; '
che la bontà non esiste senzail male e che non può esistere il vero"
senza il falso. Ècco perché devi amare tutto: devi riconoscere che il
belloe il bmtto, il buono ed il cattivo, il vero ed il falso sono solo
immagini complementari d&WIneffabile che, per poterlo nominare,
chiamiamo “Dio”.
Se irradi quest’amore perfettamente imparziale e completo verso
ogni creatura vivente, allora questo amore non ha più nulla in comune
con le inclinazioni personali, consideri ogni cosa dal punto di vista
del Tutto. Se l’interesse generale differisce da certi interessi persona­
li, difendi senza esitare l’interesse generale, senza considerare l’inte­
resse individuale. Ma che questa mancanza di considerazione derivi
sempre dall’amore universale e divino e non da un’antipatia persona­
le.
Ma devi anche manifestare il tuo amore impersonale, crudelmente
imparziale per il tuo prossimo quando, ad esempio, la sua anima può
essere salvata solo a prezzo del suo benessere terreno, anche se si
tratta di una persona che ti è molto vicina. Quando è necessario, se
una persona a te molto cara è in grave pericolo, devi rimanere spetta­
tore indifferente: se non reagisce con i metodi ordinari, non hai il
diritto di intervenire usando la tua forza spirituale, l’ipnosi o mezzi
magici, quando la salvezza della sua anima dipende da quest’espe­
rienza. È meglio, per un uomo, essere rovinato materialmente o fisi-
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 205

camente, persino morire, piuttosto che perdere l’anima. In ogni circo­


stanza devi tentare il possibile per salvagli l’ànima: simile a Dio che
non si immischia mai negli affari degli uomini ma lascia loro il libero
arbitrio, tu devi lasciare il tuo prossimo agire a modo suo, e non
forzarlo mai a fare qualcosa. Per essergli di aiuto, devi prendere in
considerazione la salvezza dèlia sua anima, non il suo benessere ma­
teriale e fisico. Ma quest’amore divino non deve indurirsi e diventare
“insensibilità”, né devi mai rifiutarti di aiutare in base ad un’antipatia
personale colui che puoi salvare con i mezzi di questo mondo.
Queste sono le prove più difficili, perché devi sbarazzarti di tutti i
tuoi sentimenti personali ed agire come se non esistessero. Ora, è
soltanto quando si controllano perfettamente le prime undici paia di
qualità gemelle, che si può riconoscere la voce di Dio con tale chia­
rezza e tale certezza che, persino nei casi più difficili, saprai ciò che
devi o non devi fare per amore divino.
A quel punto non potrai più sbagliarti, perché sarai l ’amore stes­
so ! E T amore può agire per amore soltanto. Non ti resta altro che
irradiare il tuo Sé, essere il tuo Sé e tutto Vuniverso potrà attingere al
tuo calore, alla tua luce e alle tue forze. Sarai allora diventata divina,
la tua coscienza sarà diventata identica a Dioì Sarai uscita dal regno
dell’albero della conoscenza del bene e del male, dunque dell’albero
della morte, dove tutto sembra essere separazione, e sarai ritornata al
regno dell’albero della vita, al regno dell’unità divina. Mangerai di
nuovo i frutti dell’albero della vita e darai questi frutti a coloro che ti
seguiranno, affinché tutti possano ritornare nell’unità della vita che
non muore mai e che è immortale, neìVESSERE eterno, in Dio.»
Tu, rappresentante di Dio! Non dimenticherò mai le tue parole!
Sono impresse nell’anima mia in modo così profondo che mi sono
identificata con il loro significato. Mi sono entrate nel sangue, nel
midollo: quest’insegnamento ha fatto di me un essere diverso.
Ma ora devo applicarmi per realizzare tutto questo.
CAPITOLO XXIX

I leoni
Il giorno seguente è festa grande: come al solito, Menu mi veste,
calzo sandali dorati, e entro nella mia stanza da ricevimento ove mi
attendono le dame di Corte, il cancelliere Roo-Kha, e due portatori di
gioielli. Roo-Kha avanza con aria cerimoniosa alla volta dei due por­
tatori ed apre il cofano: la prima dama di Corte, che è statarla mia
principale governante, ne estrae una splendida gorgiera d’oro, si avvi­
cina a me con passo solenne e me la posa sulle spalle. Con altrettanta
solennità fissa sulla mia cuffia il diadema a testa di serpente, poi mi
infila i braccialetti, e infine gli anelli alle caviglie. Io resto in piedi,
immobile come una statua, dignitosamente. Mi comporto in modo
irreprensibile, eppure mi piacerebbe molto di più tirar violentemente
la barba di Roo-Kha che mi guarda con aria impertinente. Non è un
uomo cattivo, ed ha, anche lui, un po’ di sangue dei figli di Dio nelle
vene; è molto intelligente ed astuto e può leggere anch’egli, nel cuo­
re, i pensieri altrui, ma è un dono di cui non si serve molto. Quando si
inchina davanti a me, non lo fa con il rispetto di un cancelliere per la
regina, ma come un uomo si inchinerebbe davanti alla mia bellezza
femminile: mi guarda ancora con bramosia. Che impudente! Eppure,
sa che posso leggere chiaramente i suoi pensieri e sapere quali sono i
suoi sentimenti... Ma mi vengono in mente le parole di Ptahhotep:
«Ogni essere è animato dal desiderio di trovare l’unità divina. Il
maschile cerca il femminile, il femminile il maschile, è l’attrazione
fra le due forme di manifestazione delle forze creatrici...» e allora
capisco Roo-Kha; questa forza è attiva anche in lui, e non è colpa sua
se mi trova di suo gusto. Questa è la causa della sua impertinenza.
Senza quella forza non mi guarderebbe nemmeno... In fondo in fon­
do, non sono poi tanto seccata che ammiri la mia bellezza...
Terminata la cerimonia della vestizione, le dame di Corte e Roo-
Iniziazione: memorie di un’Egizia 207

Kha mi accompagnano dal Faraone. Ah, com’è bello, mio padre,


nella sua tunica da festa! Un dio incarnato! Raggiungiamo i carri, che
ci attendono davanti al palazzo. C’è un edificio da inaugurare e da
consegnare a chi di dovere.
Padre ed io saliamo nel carro d’oro trainato dai leoni, e Padre
prende le redini dalle mani del servo.
Quand’ero piccola, Padre mi portava già con lui sul suo carro;
dovevo tenermi in piedi al suo fianco, mentre mi spiegava come
compensare i sussulti del carro, con movimenti elastici del corpo.
Dovevo tenere i muscoli assolutamente rilassati per poter seguire fa­
cilmente i movimenti del veicolo: quando le scosse si facevano trop­
po violente rimanevo in punta di piedi, e i piedi, le ginocchia ed il
resto del corpo restavano rilassati per fare automaticamente tutti i
movimenti di compensazione.
Mi piacevano molto, quelle passeggiate sul carro. All’inizio ci
divertivamo entrambi della mia mancanza di destrezza, e Padre face­
va andare i leoni prima al passo e poi al trotto; quando cominciavano
a correre, ero talmente sballottata che avevo paura, e invece di tenere
il corpo rilassato mi tendevo, mi aggrappavo alle mani, alla tunica e
alla cintura di Padre che rideva di tutto cuore. Con infinita pazienza
mi spiegava e ripeteva mille e mille volte come fare, finché riuscii ad
eseguire i movimenti corretti e, senza più aggrapparmi né a lui né al
carro, seppi stare eretta e tranquilla sulla punta dei piedi.
Era meraviglioso poter finalmente avere il suo stesso portamento,
sicura e apparentemente immobile nel carro che filava a tutta veloci­
tà! Spesso avevamo fatto delle lunghe corse... che sensazione straor­
dinaria, essere trasportata dai leoni al galoppo! Questi, d’altronde,
erano ben felici dell’occasione di correre finalmente a briglia sciolta
e, come noi, erano colmi di gioia. Queste corse avevano reso il mio
corpo muscoloso e elastico, come se avessi fatto la lotta ogni giorno:
anche il più piccolo muscolo doveva dare il suo contributo, risponde­
re e reagire correttamente ai movimenti del carro... Era una danza
continua che, tuttavia, restava invisibile: era la terra a danzarci sotto i
piedi, non noi.
Quando ebbi quindici anni, Padre mi insegnò a guidare i leoni:
che incredibile sensazione, tenere in mio potere quegli enormi e ma­
gnifici animali! Erano talmente sensibili che reagivano alla minima
espressione della volontà, addirittura senza che dovessi tradurla con
un movimento delle redini. Ma Padre non mi lasciò mai uscire da sola
con i leoni, neppure con il mio leone favorito che mi amava talmente
208 Elisabeth Haich

da essere geloso di me! Infatti, i leoni sono molto indipendenti e


soltanto un Iniziato può controllarli alla perfezione. Spero che, quan­
do sarò Iniziata, potrò guidarli da sola!
Per ora stiamo andando ad una cerimonia ufficiale; Padre conduce
i leoni con calma, ed io gli sto accanto quale sua sposa. Sono fiera di
lui: è ancora giovane, forte e di una bellezza che non lascia indiffe­
renti: soprattutto in questo momento, mentre tiene sotto controllo gli
animali, il suo corpo ed il suo volto emanano una forza di volontà ed
una facoltà di concentrazione straordinarie. Eretta sulla punta dei
piedi, assorbe con il corpo tutti i sussulti del carro e sembra perfetta­
mente immobile come se fosse il dio sole.
Eccoci giunti a destinazione, e comincia la noiosa cerimonia: non
mi piacciono affatto queste feste ufficiali, è sempre la stessa storia.
Una folla immensa, la sfilata dei soldati, i nobili e, per un tempo che
sembra non finire mai, mi tocca stare seduta immobile, guardare tutto
fino alla fine. Poi mi tocca ancora intrattenermi gentilmente con i
dignitari e scovare così tanti pensieri ipocriti e stupidi dietro x
ad
espressioni di sottomissione e di adulazione. Bisogna ancora essere
contenti se, fra tutti quei falsi cortigiani che cercano soltanto di soddi­
sfare la loro sete di potere e la loro vanità, si trova ancora qualche
collaboratore leale di mio Padre e di Ptahhotep... Ecco, ad esempio,
un ufficiale la cui radianza è tanto bella che pare un vapore dorato.
Sottovoce, chiedo a Padre:
«Chi è?»
Egli mormora:
«Si chiama Thiss-Tha. E diventato ufficiale da poco ma, come
puoi notare dalla sua radianza, ha tali qualità che desidero fame un
comandante.»
Queste cerimonie non cambiano mai; l’unica differenza è il luogo
in cui ci si siede: la terrazza del palazzo, la grande tribuna, il sagrato
del Tempio. Una volta c’è da inaugurare un edificio, un’altra bisogna
festeggiare il successo di una spedizione commerciale che toma da
paesi vicini... Inoltre prendiamo parte alla festa del raccolto e ad ogni
tipo di celebrazione nel Tempio... Cosa che non mi piace affatto,
soprattutto a causa dell’ignoranza della massa che non ha alcuna idea
circa il significato di queste cerimonie e che, invece di adorare Dio
nelle varie forme della Sua manifestazione, rappresentate da immagi­
ni simboliche, adora i simboli stessi.
Finalmente la festa è finita e possiamo tornare a casa, ed essere di
nuovo noi stessi. Ah, no, non mi piacerebbe affatto essere un Faraone!
Iniziazione: memorie di un’Egizia 209

Gli affari del Paese non mi interessano affatto. Secondo la legge io


sono l’erede al trono, ma Padre non me ne parla e non mi prepara al
ruolo di Faraone. So che Padre e Ptahhotep possono librarsi al di
sopra del tempo, possono vedere e vivere il passato e il futuro come
se fossero il presente. Questa facoltà comincia a risvegliarsi anche
dentro di me, e già percepisco qualche scorcio del futuro... Ma quan­
do voglio vedere il mio futuro, una densa nebbia oscura la mia visio­
ne. Padre conosce il mio avvenire, e giacché non mi tratta da co-
reggente, suppongo che non diventerò mai Faraone; è un presenti­
mento che nutro già da molto tempo ma, stranamente, non vedo nes­
sun’altra immagine nel mio futuro in cui potrei essere sacerdotessa
del Tempio. Vedo solo nebbia...
Sono molto felice di tornare al Tempio dopo questo tipo di festivi­
tà: qui mi sento a mio agio, in quest’atmosfera pura e spirituale.
CAPITOLO XXX

Esercizi di telepatia
Un giorno, Ptahhotep mi convoca per la sera stessa. Quando mi
presento al suo cospetto mi dice:
«Fin qui hai superato bene le prove preparatorie, e puoi cercare di
metterti coscientemente in contatto spirituale con qualcuno. Questi
esercizi riescono meglio dopo il tramonto, perché i raggi solari hanno
un’azione stimolante sui centri nervosi e sulle glandole che servono
per la manifestazione corporea dello spirito, e collegano la coscienza
alla materia. I raggi del sole ostacolano le manifestazioni spirituali.
Una volta tramontato, il sole smette di agire, e la coscienza può
liberarsi dall’influenza di certi centri nervosi ed elevarsi verso lo
spirito. Gli esseri viventi vanno a dormire, e “dormire” significa che
la coscienza si ritira dal corpo per entrare nel campo dello spirito. Gli
uomini, per la maggior parte, non hanno ancora potuto raggiungerne
coscientemente neppure i livelli inferiori, sicché perdono conoscenza
e si addormentano; con la pratica, si può sviluppare la resistenza dei
nervi in modo da rimanere coscienti fino al piano inferiore; così, i
centri nervosi e cerebrali, che sono a riposo durante la giornata, si
animano e possono assorbire e trasmettere le vibrazioni dello spirito,
del Sé.
E così che puoi stabilire un contatto a distanza, un contatto telepa­
tico; preferibilmente, quando si inizia, è bene cominciare dopo il
tramonto, per non subire l’influenza solare; in seguito, sarà possibile
stabilire un contatto telepatico in qualsiasi momento.
Come per gli esercizi di concentrazione, l’attenzione dev’essere
interamente focalizzata su un solo pensiero; concentrati compieta-
mente sulla persona con cui vuoi entrare in contatto, magari aiutando­
ti con la forza dell’immaginazione: ad occhi chiusi immaginala da­
vanti a te, vedila dentro di te, con il suo profilo, il suo volto, i suoi
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 211

occhi, immagina di essere lei e che lei è te, finché hai veramente la
sensazione che le sue mani siano le tue, che il tuo corpo sia il suo,
fino ad identificarti perfettamente con essa. Quando hai raggiunto
questo stato, pensa in modo chiaro e concentrato al messaggio che
vuoi trasmettere; pensaci essendo cosciente del fatto che tu sei il de­
stinatario che pensa dentro di te quel pensiero.
Questo esercizio si divide in tre fasi: nella prima, ti eserciti in
presenza della persona con cui vuoi stabilire un contatto, ed è lei a
regolarsi su di te.
Nella seconda fase, farai il medesimo esercizio ma a distanza, in
un momento convenuto, sicché ognuno di voi sa che si sta concen­
trando sull’altro.
Infine, stabilirai un contatto a distanza senza che l ’altro ne sia av­
vertito. Queste tre fasi formano la parte positiva dell’esercizio telepa­
tico: quando sei tu che vuoi trasmettere qualcosa. La metà negativa
dello stesso esercizio consiste nel poter ricevere e comprendere una
comunicazione telepatica. Questa metà, a sua volta, si divide in tre
fasi, nella prima delle quali ti metti in stato ricettivo e fai “il vuoto” in
presenza della persona dalla quale vuoi ricevere un messaggio; poi,
da sola e in un momento convenuto, sai quando e chi si concentrerà
su di te; infine, dovrai poter ricevere tutti i messaggi telepatici senza
sapere né quando né chi si concentra su di te.
Col tempo, svilupperai così bene questa facoltà da reagire istanta­
neamente ad ogni messaggio telepatico emesso da chicchessia in
qualsiasi momento. Quale che sia la tua occupazione, ti accorgerai
quando qualcuno si concentra su di te, e sentirai in te la sua voce. Ad
un grado ancora più elevato della trasmissione telepatica, non solo
sentirai la voce, ma vedrai l’immagine della persona con cui sarai al­
lora in contatto; la sua figura, il suo volto, e specialmente i suoi occhi
sorgeranno dentro di te, simile a un fantasma, ad una visione onirica...
Quando sarai giunta a questo livello, le catene della materia (il tuo
corpo) non ti sembreranno più così pesanti, perché l’isolamento si
sarà sensibilmente ridotto: potrai godere della libertà dello spirito già
nel corpo.
Dunque, è di notte che puoi stabilire più facilmente un contatto
telepatico. La coscienza è meno occupata dai pensieri, l’uomo è meno
isolato e passivo e la tua radianza telepatica ha più probabilità di
raggiungerne i centri nervosi. Ma questi centri, nella maggior parte
delle persone, sono così addormentati, così poco sviluppati, che prima
che reagiscano ci vuole un’azione molto intensa. Durante il sonno
212 Elisabeth Haich

puoi riuscire a far passare il tuo messaggio: essi ti sognano e ricevono


la comunicazione sotto forma di sogno.
Questo esercizio ti svelerà tutte le leggi della telepatia, e noterai
subito quando qualcuno è occupato; imparerai anche ad isolarti quan­
do ti concentri già su qualcosa: soltanto i principianti si disturbano a
vicenda!
Ogni sera farai questi esercizi sotto la mia guida. Ed ora, veniamo
alla pratica: siediti qui, davanti a me, chiudi gli occhi e cerca di
trasmettermi un pensiero.»
Mi siedo di fronte a Ptahhotep e mi concentro su di Lui. Immagi­
no di essere Ptahhotep, acquisisco la sensazione che le mie mani, i
miei piedi ed il mio corpo sono le sue mani, i suoi piedi, il suo corpo.
Poi mi concentro su questo pensiero:
«Io, Ptahhotep, ora mi alzerò e accarezzerò i capelli di questa
piccola creatura - io» perché una forza straordinaria emana dalle mani
di Ptahhotep, e sono sempre molto felice quando me le posa sul capo.
Un attimo dopo, Ptahhotep si alza, mi appoggia una mano sul
capo e mi accarezza i capelli! Sono riuscita a concentrarmi bene,
anche se Ptahhotep può comunque leggere i miei pensieri senza l’aiu­
to di un contatto telepatico.
«Bene — mi dice sorridendo — non ho letto il tuo pensiero sol­
tanto perché posso farlo comunque, ma perché ti sei concentrata
bene: anche il tuo leone avrebbe sentito la tua volontà.»
«Il mio leone, Padre della mia anima? Non ho difficoltà a creder­
ti... ma un essere umano?»
«Pazienza, piccola mia! Col tempo, ci riuscirai. E adesso, cerchia­
mo di fare il contrario: ti trasmetterò un pensiero. Fai il vuoto dentro
di te, e sii ricettiva.»
Ptahhotep si siede e faccio come dice. Subito dopo, sento in me la
sua voce come se provenisse dal mio cuore:
«Quando avrai acquisito una certa maestria nel campo delle dodici
virtù gemelle, sarà tempo che ti sveli gli ultimi segreti prima dell’ini­
ziazione.»
Apro gli occhi e, piena di gioia, gli chiedo:
«Sono dunque pronta per l’iniziazione?»
Ptahhotep sorride: «Giacché hai udito il messaggio, sei pronta.
Devi però ancora perfezionare l’auto-controllo.»
Mi alzo, gli salto al collo e gli stampo dei baci sonori sulle guan­
ce. Ptahhotep mi bacia e, ridendo, mi dice:
«Allora, è così che sai controllarti? Non hai saputo resistere all’ef­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 213

fetto dell’unità spirituale. Hai vissuto l’unione del nostro spirito, le


fonti energetiche hanno irrorato il tuo corpo ed ora il tuo corpo vuole
prendere parte alla gioia dell’unità. Ma non dimenticare: ciò che è
divino a livello dello spirito perché corrisponde alle leggi dello spiri­
to, diventa satanico a livello della materia, perché corrisponde alle
leggi della materia. L’unità nello spirito è possibile, l’unità nel corpo
non lo è. Due corpi non possono stare nello stesso luogo. La nostalgia
dell’unità paradisiaca che anima gli uomini, li spinge ad unirsi me­
diante il corpo e li fa scivolare verso la sessualità: la natura si serve di
questo desiderio e lo utilizza per garantire la procreazione.
La grande delusione è che la sessualità non può creare l’unità; ciò
che è impossibile, rimane tale, e tutti gli esseri viventi, oltre a sentirsi
stanchi e svuotati di energia, dopo i rapporti sessuali sono tristi: per­
ché l’anima resta insoddisfatta, l’ardente desiderio di ritrovare l’unità
paradisiaca resta tenace e la natura sfrutta questa sete insoddisfatta
per garantire la continuazione della specie. Quanto a te, è bene che tu
non permetta a questo desiderio per l’unità di invadere il tuo corpo in
modo incontrollato. Io sono ben armato per resistere alla tua bellezza
fascinosa, ma ci sono uomini più giovani e meno esperti che non
potrebbero resisterti se tu li abbracciassi come hai fatto con me! Ma
in questo campo, il mio consiglio è vano — aggiunge Ptahhotep —
perché non hai esperienza. Ed è proprio a questa tua mancanza di
esperienza che si deve questa tua veemente dichiarazione d’amore!»
«Padre della mia anima — dico — non sei in collera con me,
vero?»
Ptahhotep sorride:
«No, piccola mia, non sono in collera con te. Fintantoché sono io
quello che baci, tutto va bene. Ma sii molto, molto prudente con gli
altri uomini: più ti elevi spiritualmente e più la tua emanazione diven­
ta irresistibile. Non hai bisogno di essere così vicina ad una persona
per far agire la tua forza di attrazione, sii dunque molto prudente per
non causare la perdita degli uomini.»
«Padre, pensi che io non sia abbastanza spirituale? Puoi constatare
quanto faccio bene i miei esercizi, e Mentuptah è molto contento di
me. Riesco a controllare il mio corpo ed i miei centri nervosi già ad
un buon livello, ed ho passato tutti gli esami preparatori!»
«Sì — risponde Ptahhotep — spiritualmente sei sveglia e padrona
del tuo corpo; ma, nel contempo, ti manca la prudenza nel campo
fisico. Non chiudi questa porta, non perché non ne sei capace, ma
perché non sempre lo vuoi. Non proteggi abbastanza bene il tuo corpo
214 Elisabeth Haich

dall’alta frequenza delle vibrazioni spirituali, e questo è un pericolo


costante per i tuoi centri nervosi. Quando la tua energia spirituale
entra nel corpo, tu conduci quest’alta frequenza, senza trasformarla,
nei tuoi centri nervosi inferiori, e questo rischia di bruciare e distrug­
gere i tuoi centri nervosi superiori più sottili. Sarebbe un peccato per
questi strumenti così fini! Hai abbastanza auto-controllo se lo vuoi.
Ma spesso, per puro entusiasmo, lasci andare le redini! A volte, non
vuoi dar prova di auto-controllo... Sii vigile, piccola mia, sii sempre
molto vigile!»
O Ptahhotep, caro e grande maestro! Già vedevi ciò che, inesora­
bilmente, sarebbe accaduto. Tuttavia, ancora cercavi di salvarmi! Ma
il miglior consiglio non può trasformare l’ignoranza in esperienza: il
mio equilibrio interiore non era stabile, il mio auto-controllo lasciava
a desiderare e soltanto le esperienze dolorose mi avrebbero insegnato
a ristabilire l’equilibrio.
CAPITOLO XXXI

Il futuro
Mi si schiude dinnanzi un lungo periodo di vita: esamino ogni mio
pensiero, ogni mia parola, ogni mia azione; rifletto ed osservo per
saper se davvero esprimo il divino nel luogo e nel momento opportu­
no, e mai il satanico. Questo stato di vigilanza e di osservazione
costante di sé mi fa scoprire fino a che punto sono ancora indiscipli­
nata, spontanea, sensuale; per dirla in breve, quanto ancora sono “per­
sonale”. Quanto tempo ci vorrà ancora per riuscire infine a non farmi
più trascinare dalle mie passioni, per non identificarmi più con le mie
impressioni esteriori, e restare sempre padrona di tutte le mie energie
fisiche, psichiche e spirituali?
In questo periodo di preparazione all’iniziazione vado al Tempio
soltanto al mattino; dopo gli esercizi fisici e psichici ritorno a palazzo
e, il pomeriggio, partecipo alla vita pubblica ed ufficiale. Le escursio­
ni in battello o sul carro si alternano con i viaggi, le visite agli im­
pianti, ai terreni, ai vari edifici, e tutto questo mi annoia terribilmente.
Non che non mi piaccia stare in società, al contrario! Mi piace molto
stare con gli altri, ma soltanto con coloro che sono vicini a me e che
hanno qualcosa da dire. Ora, gli umani sono così diversi da noi, nati
dai figli di Dio! Anche noi abbiamo sangue umano, naturalmente non
siamo più una razza pura, ma viviamo ancora consciamente nello
spirito, e non siamo così materiali come i figli degli uomini. Si direb­
be che abbiano completamente dimenticato che, nel loro Sé, essi sono
spiriti liberi, e che il corpo è soltanto uno strumento di manifestazio­
ne: si identificano con esso al punto da vivere nell’illusione di essere
il corpo soltanto. Quando esso desidera cibo, gli uomini credono di
essere loro a voler mangiare, di essere loro ad aver fame, e invece di
assumere il cibo sotto il controllo dello spirito, agiscono come se
fossero loro a mangiare e non come se fossero spettatori dell’attività
216 Elisabeth Haich

del loro corpo. Mangiano con la voracità degli animali: spesso li ho


osservati durante i pasti e, a più riprese, ho dovuto volgere altrove lo
sguardo per non essere più testimone di quel comportamento quasi
bestiale. Anch’io lascio che il mio corpo mangi di buon appetito, dò
forze pure al mio stomaco, ai miei organi di digestione, ed assaporo i
piatti affinché il mio corpo possa assorbire tutte le energie preziose
degli alimenti, ma come potrei mai identificarmi con tutto questo? Il
mio Sé non può aver fame, perché il Sé non è materia, ma regna su di
essa. La mia coscienza, naturalmente, riceve il messaggio del corpo il
quale l’informa di aver bisogno di cibo, e lo percepisco con una
sensazione di fame: ma l’“Io” dentro di me non beve e non mangia.
Come potrei dimenticare, anche per un solo istante, che queste fun­
zioni sono necessarie soltanto per la salute del mio corpo? L’unica
cosa di cui il mio Io deve occuparsi, è di controllare e osservare ciò
che il corpo assimila, e che i denti e la lingua facciano bene il loro
lavoro.
Non capirò mai l’uomo che, dopo aver mangiato come una bestia,
dice “questo mi è piaciuto!”... Questo è piaciuto a “Lw/”? Non sa dun­
que, che quella cosa è piaciuta al suo palato?
Ah, poveri uomini, schiavi dei loro desideri fisici... non ci capia­
mo.
Ma Padre e Ptahhotep sostengono che il nostro dovere è rimanere
fra loro per svegliare in essi necessità più elevate; tuttavia, Padre sa
che tra i dignitari di Corte molti pensano soltanto ad ottenere una
posizione ed una retribuzione superiore, ad acquisire rapidamente la
fortuna per estinguere la loro sete di potere. Allo stesso modo vanno a
caccia di animali selvatici ed usano la ragione per uccidere animali
innocenti; e, come se non bastasse, ne vanno fieri! Dovrebbero invece
vergognarsene: sono peggio delle bestie. Gli animali uccidono solo
per mangiare, mentre gli uomini uccidono per passione, perché ucci­
dere (la guerra e la caccia) procura loro piacere. Ma Padre dice che
l’umanità è ancora sottosviluppata e che non bisogna giudicarla se­
condo il nostro metro. Ancora un’altra cosa: danno un incredibile
importanza al loro albero genealogico! Se uno ha un antenato della
stirpe dei figli di Dio più degli altri uomini, non perde occasione per
citarlo e disprezzare chi ne ha di meno; ecco perché attribuiscono
tanta importanza alla famiglia di origine di una giovane e di un giova­
notto che vogliono sposarsi. Ridicolo! Come se non sapessero che la
vita sulla Terra è soltanto un viaggio fra la nascita e la morte di un
corpo, e che il Sé è il medesimo in ogni creatura vivente; soltanto il
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 217

corpo ha un’“origine” in tal senso. Ma soltanto il grado di coscienza


determina il livello dell’uomo, e accade che un uomo, pur contando
parecchi figli di Dio fra i suoi antenati, sia spesso inferiore ad un altro
che ne ha di meno.
Quando mi trovo con questa gente, mi sembra di stare in mezzo a
dei morti che si definiscono vivi solo perché possono muoversi, par­
lare, mangiare e bere, animati dalle forze della natura. Ma dov’è
dunque lo spirito cosciente che, nel corpo come nell’universo, con­
trolla e dirige tutto? Non sanno neppure di avere la facoltà di
incanalare queste forze creatrici, e sono tanto ciechi da percepire
unicamente la forma esteriore; ignorano che posso vedere i loro pen­
sieri, i loro sentimenti, tutta la loro anima, dunque il loro essere inte­
riore. Mentono apertamente perché, non potendo leggere i miei pen­
sieri, non mi credono capace di conoscere i loro, né di sapere che i
loro discorsi sono molti diversi dal loro pensiero; non hanno coscien­
za del fatto che la menzogna rappresenti un isolamento e che, nella
loro radianza, essa crea un’ombra scura, come un fumo brutto a ve­
dersi e puzzolente. I miei leoni rintracciano immediatamente il cattivo
odore dei bugiardi, e quando questi si avvicinano, i leoni arricciano il
naso, si alzano, lanciano loro uno sguardo di disprezzo e si allontana­
no maestosi. Ma io non posso fare altrettanto, e devo educatamente
fingere di non vedere e di non percepire la loro ipocrisia!
Preferisco di gran lunga restare da sola con Padre: ha fatto costrui­
re per noi una deliziosa casetta in riva al mare, in un giardino om­
breggiato, ed ogni volta che la sua carica glielo consente, ci andiamo
in battello, lungo il Nilo, accompagnati da un minimo di servitù. Qui,
possiamo godere appieno della quiete, del mare infinito, del piacere
sereno di stare insieme.
Con un’adorazione simile a quella che hanno i bambini, Padre ed
io amiamo il mare, la grande madre della Terra; nella nostra casetta
siamo felici, e il mare fa parte quotidianamente della nostra vita. Qui,
in questa unità, sentiamo la libertà perfetta, l’immortalità, l’eternità...
Non perdiamo occasione di stare vicino al mare, passeggiamo
sulla spiaggia, cerchiamo le conchiglie e, spesso, andiamo al largo
con una piccola barca a remi. E splendido poter contemplare questo
mare azzurro quando fa bello, quando è calmo, immobile come un
vero specchio, ma è anche bello durante il temporale, quando le onde
agitano la nostra barca che danza, una volta verso l’alto e una volta
verso il basso, proprio come un’altalena. Ci spogliamo, saltiamo in
acqua e nuotiamo nei flutti così gradevolmente freschi.
218 Elisabeth Haich

Dopo il bagno, dopo aver remato, rimaniamo ancora a lungo sulla


spiaggia, e posso rivolgergli delle domande.
«Padre, come mai gli uomini sono così poco ricettivi alle verità
spirituali? Che accadrà della Terra, quando, come mi ha spiegato
Ptahhotep, il potere passerà fra le mani dei figli degli uomini? La sete
di potere e l’avidità di quegli indemoniati avranno conseguenze spa­
ventose, e già ho il presentimento dell’avvenire: gli esercizi che prati­
co al Tempio sviluppano la mia visione interiore, e di giorno in gior­
no la mia preveggenza migliora. Ma ancora non vedo chiaramente
quanto Ptahhotep e te.»
Padre guarda a lungo davanti a sé, verso il mare, e poi dice:
«Sì, la Terra vivrà un periodo oscuro che durerà diverse migliaia
di anni. Come sai, i figli di Dio di razza pura hanno lasciato questo
livello terreno ormai da molto tempo, e a poco a poco scompaiono
anche quelli, fra i loro figli di razza mista, che hanno ancora la possi­
bilità di portare in sé la perfetta manifestazione divina.
Per propagare le qualità superiori mediante l’ereditarietà, anche
dopo che i figli di Dio di razza pura avevano lasciato la Terra, i loro
figli (quelli che avevano ereditato le facoltà paterne e ricevuto l’ini­
ziazione) presero in moglie le figlie degli uomini; questo si è ripetuto
per generazioni e generazioni, sinché gli incroci hanno compenetrato
tutti i livelli in entrambe le razze.
Ma fintantoché le ondate dell’energia creatrice si muovono verso
una sempre maggiore materializzazione, l’elemento terreno svolge un
ruolo preponderante nell’ereditarietà; questo spiega perché ci siano
sempre meno discendenti dei figli di Dio sulla Terra, con il cranio
allungato e le capacità di manifestare le capacità superiori; tuttavia,
conformemente alle leggi dell’ereditarietà, questo incrocio costante
dà ad un figlio di Dio di razza pura la possibilità di reincarnarsi
quando vuole, anche nei momenti più bui del pianeta. Si avvicina il
tempo in cui soltanto uomini dal cranio rotondo occuperanno i posti-
chiave in tutto il mondo, anche qui, in Egitto; non avranno la visione
spirituale né la saggezza dell’attuale dinastia e, invece di governare il
loro popolo con amore disinteressato, regneranno in base all’intelletto
e saranno posseduti da una sete di potere cieca e grossolana, da un
egoismo senza limiti.
Dall’incrocio costante fra i figli di Dio e le figlie degli uomini, è
nata una razza ibrida che passa ai propri discendenti i caratteri parti­
colari di entrambe le razze; molti individui hanno sangue umano, ma
hanno mantenuto la forma allungata del cranio ed hanno ereditato
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 219

tutte le facoltà spirituali e magiche dei loro antenati patemi. Ma le


leggi dell’ereditarietà vogliono che, anche in seno alla stessa fami­
glia, ci sia una sempre maggiore varietà di individui, fra i quali,
tuttavia, saranno sempre di meno quelli che avranno ereditato le ca­
ratteristiche divine.
Già oggi, in una famiglia che è composta da diversi fratelli, se ne
vede uno che è ancora assolutamente spirituale e divino, il secondo è
già fisico, umano, ed il terzo, eventualmente, può essere un incrocio
fra i due; e ci sono sempre più individui dalle caratteristiche inferiori
a scapito delle più nobili, sicché non c’è da stupirsi nel constatare
l’odio feroce che costoro, già identificati con il loro corpo, nutrono
nei confronti dei loro fratelli dotati di facoltà spirituali divine; un odio
che spesso conduce a tragiche conclusioni.
Comunque, questi incroci permetteranno al sapere degli iniziati di
infondersi sempre più profondamente nella massa. Ci saranno sempre
più varietà e differenze, fino al momento in cui ogni essere umano
avrà in sé la possibilità di raggiungere il supremo grado di sviluppo,
l’iniziazione. Il profondo fossato, apparentemente invalicabile, che
esiste fra i membri iniziati ed onniscienti della famiglia regnante e la
massa umana ignorante e sottosviluppata, si colmerà del tutto grazie
agli incroci che si ripeteranno per millenni. Tutti, governatori e go­
vernati, saranno esseri umani uguali. Nella loro forma pura ed origi­
naria, i figlio di Dio e gli uomini primitivi scompariranno a poco a
poco, sostituiti da individui di vari livelli di sviluppo: gli uni manife­
steranno il sangue dei loro antenati divini e gli altri le caratteristiche
inferiori primitive.
Così, quando ognuno metterà in mostra le caratteristiche delle due
razze, queste si confonderanno e non potranno più distinguersi dai
tratti esteriori, ma solo dal carattere e dalle facoltà. Il cranio degli
individui avanzati avrà esattamente la stessa forma di quello degli
altri, ma i primi emergeranno dalla massa: saranno grandi scienziati,
artisti, filosofi o mistici. I crani allungati, così come i crani
scimmieschi, scompariranno del tutto. Nella razza ibrida, il cervello
ed i centri nervosi che servono a manifestare le facoltà superiori e
magiche rimarranno latenti per molti millenni, di conseguenza la testa
assumerà una forma rotonda. Invece, coloro che svilupperanno inten­
samente i centri cerebrali che servono all’intelletto, daranno alle ge­
nerazioni future della razza ibrida una fronte alta e tondeggiante.
Questi incroci si moltiplicheranno sempre di più, e le ondate di
energia spirituale emananti dalla razza superiore raggiungeranno un
220 Elisabeth Haich

numero crescente di umani, fino ad arrivare al più primitivo di essi, e


questo consentirà loro di acquisire a poco a poco la conoscenza.
Parallelamente, il potere passerà fra le mani di individui di livello
sempre più basso che, nella loro ignoranza, si affretteranno ovvia­
mente a distruggere le grandi culture divine fondate dai figli di Dio
sviluppatesi nei vari punti del globo. Soltanto più poche rovine degli
edifici meravigliosi e dei monumenti odierni testimonieranno del sa­
pere, della saggezza, della bontà e della bellezza che avevano regnato
un tempo sulla Terra. Con il passar del tempo, gli uomini sentiranno
parlare dell’onniscienza e dell’onnipotenza dei grandi “maghi bian­
chi” e degli “iniziati” soltanto attraverso le favole e le leggende e,
sempre ignoranti, pieni di sufficienza e di arroganza, le considere­
ranno prive di fondamento.
Questo costante processo di ibridazione crea una sorta di scala di
sviluppo lungo la quale anche l’uomo primitivo può elevarsi, perché
gli uomini primitivi non sono altro che spiriti puri caduti al livello
inferiore della materia, nel quale hanno perso la loro coscienza divi­
na e non sono più coscienti della loro origine elevata.
Per dar loro la possibilità di ritornare coscienti al livello spirituale
supremo, i figli di Dio acconsentirono al pesante sacrificio di prende­
re in moglie le figlie degli uomini; ma con quei matrimoni a loro
volta si sono ancorati nella materia, e debbono cooperare alla perfetta
spiritualizzazione della Terra, passando attraverso tutti gli stadi di
questo sviluppo in qualità di assistenti: alcuni reincarnandosi in corpi
umani, altri allo stato puramente spirituale.
Il livello della classe dirigente continuerà ad abbassarsi, il potere
passerà da un popolo all’altro, la Terra sarà sconvolta da guerre senza
fine che porteranno ignoranza, povertà e miseria.
Gli ultimi iniziati si rifiuteranno di consegnare a quegli uomini gli
strumenti e le installazioni che permettono loro di controllare le forze
della natura e grazie ai quali dispongono di enormi energie che agi­
scono segretamente; distruggeranno tutti i loro impianti prima di ab­
bandonare il piano terreno per migliaia di anni. Uno degli ultimi
iniziati, già nato da un popolo diverso dal nostro, che però crescerà
qui e riceverà l’iniziazione, salverà uno di questi strumenti e lo porte­
rà fuori dall’Egitto: per un certo periodo, i sacerdoti di quel popolo
riusciranno a mantenere il segreto, ma quando quell’iniziato abbando­
nerà la Terra dovrà distruggere il suo strumento, affinché gli uomini,
per passione e sete di potere, non si distruggano da soli e, secondo
una reazione a catena, non distruggano continenti interi. Il disastro
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 221

che un tempo fece scomparire la patria dei figli di Dio, non deve
accadere mai più: una volta che tutti questi apparecchi altamente
sviluppati saranno stati annientati, quando la conoscenza sarà stata
perduta, allora gli uomini dovranno lavorare la terra con la loro forza
fisica, e con le loro mani dovranno rompere le pietre come gli uomini
primitivi; dovranno anche sopportare la tirannia dei loro simili, per
quanto nati dalla loro stessa razza. Tuttavia, giacché ciò che si mani­
festa sulla Terra è animato da forze originate dall’unità inseparabile
che aspira all’equilibrio, quella tirannia dei dirigenti egoisti risveglie-
rà la coscienza della massa, mentre sofferenza e dolore attireranno
l’attenzione su verità più spirituali.
Apparentemente le guide spirituali della Terra devono lasciare che
l’umanità cerchi e trovi da sola le verità divine in sé e nella natura, in
modo indipendente e liberamente consentito: altrimenti essa non po­
trà elevarsi fino all’ultimo gradino. Anche una madre lascia che il suo
bambino faccia da solo i primi passi perché diventi indipendente, ma
resta vigile, ad una certa distanza, pronta a rimetterlo in piedi se
dovesse cadere. Le guide spirituali della Terra sono pronte ad interve­
nire, se sarà necessario, per aiutare gli uomini a superare delle diffi­
coltà eccessive: lavorano, dirigono e guidano l’umanità dal piano
spirituale, ed ogni volta che, invece della conoscenza, trionfano sulla
Terra la superstizione e l’errore, ogni volta che l’oscurità è tanto
profonda da minacciare di andare oltre tutti i limiti possibili, c’è
sempre un figlio di Dio che si sacrifica e scende sulla Terra, incarnan­
dosi in un corpo umano per portare all’umanità il conforto e la luce
divina.
Con l’incrocio fra la razza divina e la razza umana, le caratteristi­
che divine ereditarie si diffonderanno. Così, un figlio di Dio potrà
sempre ricevere, grazie ad una donna pura, un corpo munito di tutti
gli organi che gli saranno necessari per manifestarsi appieno. Per
molti millenni, ogni epoca dell’evoluzione della Terra vedrà incarnar­
si dei figli di Dio per insegnare agli umani le leggi dello spirito,
dell’amore disinteressato, nonché per compiere molte altre funzioni.
Anche quando il potere sarà passato fra le mani degli uomini, ci
saranno ancora alcuni paesi governati saggiamente e con giustizia dai
figli di Dio che daranno i natali ad una nuova cultura avanzata sulla
Terra o, perlomeno, in alcuni luoghi del pianeta. Altri saranno scien­
ziati, artisti, mistici e porteranno all’umanità Yarte suprema, la musi­
ca, la letteratura. Regaleranno al mondo idee nuove, consentiranno
scoperte che orienteranno lo sviluppo umano verso un’altra direzione;
222 Elisabeth Haich

la maggior parte di essi condurrà un’esistenza solitaria e spesso saran­


no poverissimi ed isolati perché ben pochi uomini li capiranno. La
loro luce spirituale si diffonderà sempre più lontano, ed il nome di
questi giganti dello spirito resterà noto a lungo; si studieranno le loro
opere nelle scuole superiori dei figli degli uomini.
Ci saranno anche figli di Dio che lavoreranno nell’ombra, e si riti­
reranno fra le montagne o in luoghi quasi inaccessibili da cui, senza
essere disturbati nella loro solitudine, emetteranno nell’atmosfera ter­
restre energie incredibilmente elevate; coloro che, tra gli uomini, sa­
ranno abbastanza sviluppati per ricevere le loro onde di energia, sta­
biliranno automaticamente dei legami spirituali con loro e con loro
lavoreranno. Spesso non ne saranno neppure coscienti e agiranno
semplicemente per “convinzione interiore”, senza sapere che que-
st’ultima riflette precisamente la forza divina diretta e trasmessa dai
figli di Dio. Avverrà dunque che alcuni uomini molto avanzati riceve­
ranno, trasmetteranno e proclameranno l’insegnamento offerto di
quando in quando dai figli di Dio; le masse non comprenderanno
immediatamente queste verità superiori, ma giacché avranno il pre­
sentimento dell’amore e della forza di queste verità, vi crederanno
comunque. Così, dall’insegnamento dei figli di Dio, nasceranno le
religioni.
I figli di Dio hanno sempre portato e porteranno sempre, nelle
varie parti del pianeta, le stesse verità, ma gli uomini le interprete-
ranno in modo diverso a seconda delle caratteristiche della loro raz­
za e del loro grado evolutivo prima di trasmetterle ai loro discendenti.
Così, le stesse verità daranno luogo a religioni ben distinte le une
dalle altre. Un figlio di Dio potrà incarnarsi in epoche e luoghi diver­
si per annunciare agli uomini le verità supreme, e di quelle stesse ve­
rità nate da uno stesso spirito gli uomini faranno religioni diverse in
luoghi diversi della Terra; queste differenze, nate dall’ignoranza uma­
na, condurrano i popoli alla guerra, ad uccidersi fra loro, a spedirsi
reciprocamente “all’inferno” in nome di Dio.
II grado di evoluzione varierà molto da un popolo all’altro, e
questo determinerà il modo in cui i figli di Dio reincarnati verranno
trattati; in certi paesi, in cui la gente sarà ricettiva alle verità divine, i
figli di Dio saranno riconosciuti, ascoltati, onorati.
Ma le onde di energia continueranno a propagarsi nella materia, a
penetrare in essa, e certi figli di Dio si incarneranno anche durante i
periodi più oscuri della Terra, sulla quale regneranno il materialismo,
l’odio, l’invidia, il timore ed il terrore. Durante queste epoche, prive
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 223

di qualsiasi impronta divina, i figli di Dio verranno malmenati: ci


saranno ignoranti, posseduti dalla passione del potere, che li sotto­
metteranno alla tortura e li uccideranno, ma essi accetteranno il sacri­
ficio, perché è in questo modo che si libera la massima forza magica.
Lo spirito si risveglierà a poco a poco nelPuomo, e caccerà le tenebre
dalla sua anima; così il volto della Terra si modificherà completamen­
te.
Quando le ondate di energia creatrice avranno raggiunto i confini
della materia, esse percorreranno la via inversa e l’ascensione comin­
cerà a delinearsi. Gli uomini avranno sempre maggiori occasioni di
lavorare insieme ai figli di Dio per la salvezza della Terra, e manife­
steranno una spiritualità crescente; in seguito, gli individui che erano
stati un tempo membri della razza divina ma non avevano passato gli
esami dell’iniziazione, oppure erano deceduti durante l’iniziazione
stessa o erano caduti dopo l’iniziazione, si reincarneranno in gran nu­
mero. Saranno nuovamente coscienti del sapere che avevano posse­
duto e, mentre in certi luoghi del pianeta gli uomini continueranno ad
ammazzarsi tra loro, un gruppo sempre maggiore di individui capaci
di elevarsi al livello delle forze emesse dai figli di Dio preparerà la
nuova vita spirituale. Anche gli esseri nati dalle razze inferiori sali­
ranno a poco a poco la scala dell’evoluzione: all’inizio comprende­
ranno con la ragione di essere capaci di fare qualcosa di meglio e che,
senza massacri e tirannie, potrebbero vivere più felici. Più l’uomo si
evolve e più il materialismo perde influenza: la passione delle conqui­
ste e del potere si spegnerà e gli uomini, invece di usare le loro forze
per distruggersi, le useranno per controllare le forze della natura;
scopriranno, a poco a poco, che è possibile guadagnarsi il pane senza
eseguire lavori fisici spossanti o nutrire la terra del proprio sudore,
ma che, attivando i centri nervosi superiori, si può disporre a piaci­
mento delle forze della natura. La Terra sarà presto di nuovo domina­
ta da energie superiori, e coloro che, fino a quel momento, si erano
accontentati di “comprendere” le verità divine con la ragione, potran­
no provarle, viverle in sé, e realizzarle. Sarà nuovamente l’epoca del­
le grandi civiltà.
Fintantoché l’uomo si identifica con la materia - con la Terra - la
sua coscienza è legata, identica alla Terra: egli è Terra. Sicché quan­
do il suo corpo consunto muore, muore anche lui, ovvero la sua
coscienza s’interrompe e cade allo stato latente; è ciò che gli uomini
chiamano morte.
Nell’uomo il cui spirito si è risvegliato e che, durante la vita
224 Elisabeth Haich

terrena, si è elevato consciamente al di sopra della materia, il proces­


so si inverte: nascere in un corpo significa per lui la morte, mentre la
morte del corpo significa il risveglio, la resurrezione, la vita!
Un giorno gli uomini non si identificheranno più col loro corpo, il
che, simbolicamente espresso, significa che non mangeranno più i
frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male; invece di ma­
nifestare soltanto la metà destra dell’albero della conoscenza e la­
sciare la metà sinistra allo stato di non-manifestazione, essiN vivranno
in sé e come figli della Terra in uno stato paradisiaco. E a questo
grado di evoluzione che l’umanità deve pervenire.
Ma sarà una lunga lotta. Comunque, le forze spirituali penetreran­
no a poco a poco anche nei cuori più induriti, e fra migliaia di anni
questo pianeta ritornerà ad essere la terra promessa. Poi, infine, in un
lontano futuro la salvezza della Terra sarà definitiva!»
Padre tace, guardando sempre il mare come se vi leggesse l’avve­
nire.
«Padre, dimmi: Ptahhotep e tu stesso, prenderete parte anche voi a
questa grande opera? Vi reincarnerete durante i prossimi millenni per
compiere una missione? Ed io, Padre? Che sarà di me? Spesso vedo
molto chiaramente il futuro altrui, ma non appena cerco di conoscere
il mio destino, tutto mi si annebbia davanti agli occhi e cade un velo
che non riesco a sollevare.»
Questa domanda genera una strana espressione sul volto di Padre.
Mi appoggia un braccio sulle spalle e mi avvicina a sé:
«Tornerò ancora diverse volte sulla Terra perché con il mio matri­
monio con tua madre sono sceso nella materia più di quanto il nostro
spirito voglia. Ptahhotep, invece, che non si è mai separato dalla sua
spiritualità, che non si è mai identificato con il suo corpo e che, alla
fine di questa incarnazione, avrà compiuto la sua attuale missione,
non tornerà prima di diecimila anni. Con molti altri figli di Dio pre­
siederà allo sviluppo della Terra dal piano spirituale, e da lì agirà
sull’atmosfera terrestre. Numerosi individui molto sviluppati saranno
in contatto con lui e collaboreranno alla salvezza del pianeta; dovran­
no portare a termine da soli, ed in modo assolutamente indipendente,
i compiti che Ptahhotep affiderà loro. Non appena una missione sarà
stata portata a buon fine, ne riceveranno un’altra sempre più difficile
e, col passar del tempo, acquisiranno la maturità sufficiente per otte­
nere l’iniziazione. Essa non avverrà più, come oggi, nelle piramidi,
ma nel mondo esterno, ove i compiti da svolgere diventeranno le loro
prove iniziatiche. Si evolveranno dunque, diventando collaboratori
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 225

dei figli di Dio e loro pari. I figli di Dio che sono “caduti”, che sono
sprofondati nella materia, che hanno bruciano i loro centri nervosi e
cerebrali avendo condotto in essi, senza trasformarle, vibrazioni alta­
mente spirituali e penetranti e che per questo sono morti, anch’essi
lavoreranno con Ptahhotep. Soltanto le esperienze che raccoglieranno
nel corso di molte incarnazioni consentiranno loro di ritrovare il loro
livello originale di divinità; infatti, dovranno risvegliare in un corpo
di livello inferiore, i loro centri nervosi e cerebrali superiori nella
sofferenza e nel dolore e dovranno essere molto perseveranti, pazien­
ti, fare molti sforzi per manifestare nuovamente facoltà spirituali e
magiche. Non si sentiranno mai davvero a casa fra gli uomini, perché
avranno un modo di pensare del tutto diverso; non comprenderanno
né potranno davvero adattarsi alla vita terrena: .l’universo umano re­
sterà loro estraneo, saranno incompresi, solitari, e considerati strani.
Come già ti ho detto, in gran parte avranno la missione di insegnare le
scienze, l’arte e la letteratura, e portare idee nuove: saranno onorati
da coloro che li comprenderanno mentre gli altri, invidiosi e gelosi, li
odieranno perché saranno obbligati a riconoscere la loro superiorità.
Queste sofferenze, questi dolori, serviranno a risvegliare dal loro so­
gno materiale i figli e le figlie di Dio che vi erano sprofondati; ritro­
veranno il contatto perduto con i loro fratelli e potranno così acquisire
di nuovo la loro coscienza cosmica', allora, saranno pronti a cooperare
consciamente con il piano divino e a proclamare sulla Terra le verità
divine.»
Ho ancora una domanda:
«Hai detto che i figli di Dio a poco a poco scompariranno comple­
tamente dalla Terra, e che gli uomini prenderanno il potere, sebbene
il loro livello spirituale sia molto basso e sebbene, quindi, non siano
ancora coscienti d’altro che dei loro corpi. E come potranno, costoro,
controllare i leoni? Questi magnifici animali sono così sensibili che
già adesso non possono tollerare la presenza dei figli degli uomini
egoisti: al loro livello animale, sono una manifestazione della massi­
ma energia, l’energia solare, sono in armonia con le vibrazioni solari,
l’onestà, il coraggio e l’amore. Hanno dei nervi così affinati che non
sopportano nessuna radiazione inferiore ed immediatamente sentono
se qualcuno si avvicina con amore, con paura o persino col desiderio
di dominarli. Ecco perché detestano i figli degli uomini così egoisti e
avidi di potere. I leoni, come potranno dunque essere al servizio degli
uomini? Questa è una cosa che non riesco ad immaginare, Padre.»
«La tua immaginazione ha ragione se non ti mostra come i leoni
226 Elisabeth Haich

potrebbero seguire gli Uomini, perché costoro non sapranno farseli


amici. Gli uomini egoisti ed ignoranti useranno belle parole per in­
gannare gli altri e mentiranno spesso a se stessi, ma non potranno mai
ingannare i leoni: gli animali non si preoccupano dell’apparenza, ve­
dono soltanto la verità, perché essi stessi sono veri. I leoni smetteran­
no di essere animali domestici, torneranno allo stato selvatico e si
ritireranno in luoghi deserti, lontano dagli uomini.»
«Ma allora, Padre, chi tirerà i carri degli uomini? I buoi e gli asini
sono così lenti!»
Padre sorride:
«In certi paesi esiste un bellissimo animale, parente della zebra e
dell’asino, che è già al servizio dell’umanità. Si avvicinano i tempi in
cui, anche qui, esso sostituirà il leone. Ricordati che il nostro governo
significa pace e che manteniamo l’ordine e la prosperità in tutto il
regno con saggezza ed amore: ecco perché gli uomini, attualmente,
non hanno alcuna ragione di battersi fra loro. Ma, alla fine del mio
regno, un dirigente di un’altra famiglia verrà e fonderà una nuova
dinastia. Nelle sue vene corre già molto sangue umano, e non si
accontenterà di governare con saggezza, vorrà conquistare certi paesi
vicini. Poi verrà il tempo in cui il potere del nostro Paese non deriverà
più dalla conoscenza e dall’amore disinteressato, ma dalla forza fisica
brutale e grossolana: il bello, il buono e l’autentico saranno relegati
nelle retrovie ed allora l’animale che somiglia alla zebra avrà una
funzione importante nella vita degli uomini. E un animale obbediente
e, sebbene non sia forte quanto il leone, ha un vantaggio su quest’ulti­
mo: può andare in guerra con gli uomini, cosa che nessun altro ani­
male farebbe senza spaventarsi e diventare pericoloso.
Per migliaia di anni i figli degli uomini faranno grandi progressi,
ed un giorno scopriranno come far avanzare i carri senza l’aiuto degli
animali; i figli di Dio conoscevano tutti i misteri della creazione,
sapevano come liberare i loro veicoli dalla forza di attrazione terrestre
e guidarli con il potere del pensiero. Hanno lasciato molti disegni e
rappresentazioni di questi veicoli capaci di volare, giacché liberi dal
peso, ed alcuni figli di Dio hanno conservato e salvato questi schizzi
su foglie di palma impregnate che sono stati trasportati in un’altra
parte del mondo al momento della distruzione della loro patria. Alcu­
ni iniziati sono ancora oggi a guardia di quegli schizzi, e continueran­
no per seimila anni. Da qui ad allora, gli uomini avranno sviluppato
sistemi molto diversi per far avanzare i loro veicoli sulla terra e
nell’aria, ma non con il pensiero, ed è per questo che i loro metodi
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 227

non saranno mai tanto sicuri quanto quelli dei figli di Dio. Tuttavia,
più tardi, gli uomini scopriranno tutti i segreti dei figli di Dio nonché
i misteri supremi della vita, ed allora il ciclo di sviluppo sarà comple­
to.»
«Padre, parlami del mio avvenire.»
Di nuovo Padre mi lancia uno sguardo strano, triste, mi avvicina
ancora di più a sé e, con una voce nella quale la tristezza è appena
velata, mi dice:
«Piccola mia, ho parlato anche del tuo avvenire, ma non l’hai
riconosciuto. Questo, come d’altronde il fatto che tu non possa vedere
il tuo futuro se non avvolto in una spessa nebbia, prova proprio che il
Sé del mondo - Dio - ha ottime ragioni per non rivelartelo. E come
potrei andare contro la sua volontà? Accontentati di sapere che è
preferibile non conoscerlo. Se tu lo conoscessi non potresti svolgere
correttamente le tue funzioni e i tuoi compiti presenti.
Ma ti posso dire una cosa: vivremo insieme tutti gli eventi di cui ti
ho parlato, anche senza essere fisicamente riuniti. Di quando in quan­
do dovremo reincarnarci, ma non nella stessa epoca, né nello stesso
luogo. Verrà tempo, anche per te, di vivere e lavorare sulla Terra
mentre io sarò attivo nel mondo spirituale ed influenzerò l’atmosfera
terrestre insieme a Ptahhotep e molti altri figli di Dio. Tuttavia, nei
tuoi sogni, ci incontreremo spesso... Ma tutto questo non ha molta
importanza perché, qualsiasi cosa ti accada, sei unita con il Sé supe­
riore e legata eternamente a noi...»
Gli getto le braccia al collo e, felice, gli dico:
«Sì, Padre, faccio parte di voi e non mi abbandonerete mai!»
«Non ti abbandoneremo mai» ripete Padre con tono grave e solen­
ne.
Scende la sera, ed io mi siedo in terrazza con Padre, ad ammirare
quello straordinario tramonto. Mentre l’astro si immerge sempre di
più ad ovest, Padre indica il grande estuario del fiume e dice:
«Tra molto, molto tempo, là dove vedi abbattersi le onde del
mare, ci sarà la terraferma, ricoperta da città animate. Il Nilo porta
molta terra con sé, la depone sulla spiaggia, e questa si espande
sempre di più. Migliaia di anni fa, qui dove siamo seduti c’era soltan­
to acqua e, fra migliaia di anni, là dove vedi quella barca ci sarà la
terra ferma. Non soltanto le catastrofi cambiano la faccia della Terra,
ma anche il lento lavorio dell’acqua.»
Mentre parla, il sole si abbassa ancora all’orizzonte. Tutti i colori
dell’arcobaleno illuminano il cielo, trasformandolo senza sosta. Poi il
228 Elisabeth Haich

sole scompare del tutto, ed improvvisamente cala un buio profondo:


le stelle scintillano come enormi diamanti.
Restiamo ancora a lungo sulla terrazza e racconto a Padre che ho
imparato a stabilire contatti telepatici; chiede di mettermi alla prova,
per sapere se riesco davvero a controllare i miei centri cerebrali supe­
riori, sicché cerca di comunicarmi un pensiero identificandosi con me
spiritualmente. Quando ripeto ad alta voce il suo muto messaggio,
siamo entrambi felici. Poi cerco di stabilire un contatto con
Ptahhotep, cosa che non posso fare prima del tramonto: mi concentro
su di Lui, ed ecco che la sua figura, il suo nobile volto e specialmente
i suoi occhi sorgono dentro di me: allora sento il suo messaggio che,
come un eco, mi risuona dentro; odo la sua voce familiare e amata
con la stessa chiarezza come se fosse la mia stessa voce interiore.
La sua immagine impallidisce e capisco che si sta isolando; si
concentra su qualcos’altro.
Ora, ho voglia di entrare in contatto con Ima. Mi concentro su di
lui, e già la sua immagine affiora alla mia coscienza: lo vedo, vedo il
suo volto angelico che sorride e che, senza dire una parola, mi comu­
nica che mi capisce, che si congratula per i miei progressi. Caro Ima!
Il suo amore fraterno ed il suo aiuto mi accompagnano sempre.
Il mattino seguente, di buon’ora, siamo di nuovo V
sul terrazzo per-
ché l’aurora è forse ancora più bella del tramonto. E notte, il cielo è di
un blu cupo, quasi nero; poi, d’un tratto, senza transizione, appare
l’orlo superiore del globo solare e, con lui, uno straordinario color
porpora che accende la volta celeste. Un incredibile gioco di colori si
svolge sopra alle nostre teste, il cielo ci mostra le sfumature dei più
diversi colori, dal rosso fuoco fino al blu profondo. La forza elemen­
tare di questo spettacolo fa vibrare la mia anima ed una sensazione di
indicibile gioia mi riempie il corpo di una nuova energia vitale.
Quante volte ho ammirato l’alba, dalla terrazza della casetta! La
gioia e l’entusiasmo di quell’evento mi si imprimono dentro, profon­
damente: una gioia ancora maggiore perché, qui, Padre è tutto per
me: non è il Faraone, è mio padre, il mio migliore amico, il mio
compagno di giochi.
CAPITOLO x x x n

Bo-Ghar e il bastone della vita


Dopo diversi giorni di burrasca, finalmente il vento si calma un
po’; il mare è ancora agitato, ma Padre ed io decidiamo di prendere la
nostra barca a remi e lasciarci cullare dalle onde.
D’un tratto scorgo qualcosa che si agita nell’acqua, che appare e
scompare.
«Padre, guarda, cos’è?»
Padre segue con lo sguardo la mia mano:
«Remiamo fin là» grida, cosa che facciamo subito.
Riconosciamo i resti di un veliero: poche assi rotte, ancora unite
fra loro, un albero da cui pendono lembi di vela. Poi mi sembra di
scorgevi qualcuno aggrappato.
«Guarda, un bambino!» grida nuovamente Padre.
E remiamo con tutte le nostre forze per un attimo che ci sembra
eterno. Finalmente, eccoci giunti al relitto: un ragazzino magro, di
una dozzina d’anni, è aggrappato ad una tavola di legno, più morto
che vivo, con le gambe che ciondolano nell’acqua. Il mare fa dondo­
lare il suo corpo, ha lo sguardo vuoto di ogni espressione. Soltanto le
mani si aggrappano disperatamente, mantenendo la testa fuori dal­
l’acqua.
Cerchiamo di avvicinarci, ma le onde ci rendono particolarmente
difficile la manovra; finalmente, Padre riesce ad afferrare una delle
tavole di legno del relitto, avvicinandoci ad essa: in tal modo riesco
ad aprire le dita del bambino, apparentemente svenuto, e finalmente
riusciamo ad issarlo a bordo. Rientriamo immediatamente.
I servi che avevano seguito la scena ci corrono incontro con diver­
se barche. Padre porta in casa il bambino, poi i servitori lo tengono
per i piedi, a testa in giù, mentre Padre gli comprime l’addome e le
costole con forza, ritmicamente, per far uscire l’acqua che ha bevuto.
230 Elisabeth Haich

Poi lo sdraia sul suo letto e fa uscire i servi.


Allora, accade qualcosa di strano: c’è una cassetta che ho sempre
visto nei suoi appartamenti e che Padre porta sempre con sé ovunque
vada, dalla quale ora estrae una bacchetta che assomiglia ad una croce
con l’estremità superiore a forma di cerchio. Afferra quel bastone
dalla parte dell’anello, lo tiene fermamente in mano e con esso descri­
ve delle linee in ogni direzione sopra il corpo del bambino. Mi accor­
go che Padre si sta concentrando fortemente ed esclusivamente sul
ragazzo: gli tiene il bastone per un attimo sopra il cranio, poi lo fa
scendere sul cuore passando sul volto, e si ferma. Poi, dal cuore
descrive delle linee sopra il torace fino agli organi sessuali. In segui­
to, ripetendo gli stessi movimenti, passa sulle braccia fino alle mani e
infine sulle gambe fino ai piedi.
Appena Padre posa il bastone sul cranio del bambino questi co­
mincia a respirare e, quando Padre traccia le linee, la respirazione si
fa più regolare, il corpo sussulta e a poco a poco il bambino riprende
conoscenza. Alla fine del trattamento, il piccolo apre gli occhi, si
mette a sedere immediatamente e, essendosi ripreso del tutto, si getta
ai suoi piedi, li bacia, vi appoggia la fronte piangendo e singhiozzan­
do amaramente. Padre lo rialza, lo prende in braccio e lo consola
teneramente.
Il piccolo parla una lingua che capisco solo spiritualmente: gli
esercizi telepatici mi hanno permesso di sviluppare abbastanza i miei
organi sensoriali da poter cogliere il senso del suo racconto, senza ca­
pirne le parole. Il bambino parla di suo padre, mercante in un paese
lontano, che aveva voluto recarsi in Egitto per vendere le sue mercan­
zie. Aveva condotto con sé la moglie ed il figlio per far loro visitare
quella terra ma, dopo diverse settimane in mare, era scoppiata la
burrasca. Avevano ingaggiato una lotta impari contro gli elementi
scatenati, ed il veliero era andato distrutto. La madre ed alcuni mari­
nai erano morti subito nella tempesta, mentre il padre e pochi altri
avevano resistito ancora un po’ prima di essere inghiottiti dai flutti.
Lui si era aggrappato a quello che aveva trovato, e non ricordava
altro.
Il piccolo termina in lacrime il suo racconto, ma a poco a poco si
calma. Vedo nella sua emanazione spirituale quale vuoto hanno la­
sciato quella paura terribile e quella disperazione.
«Padre — dico — questo bambino non ha più nessuno sulla Terra.
Permettimi di tenerlo con me, e che lo faccia educare: Menu gli
insegnerà la lingua ed il comportamento, dopodiché potrà seguire
Iniziazione: memorie di un 'Egizia 231

l’insegnamento del Tempio. Vedi che la sua anima è pura, che \a sua
intelligenza è molto viva: lo condurrò al Tempio affinché possa svi­
luppare le sue facoltà. Allora, vedremo come si evolve e di cosa è
capace. Forse diventerà sacerdote. Permetti che resti con me.»
«Benissimo — dice Padre — puoi tenerlo con te. Il vostro destino
vi ha legati l’uno all’altra da molto tempo, e continuerà a farlo: per
questo sei stata tu a vederlo e a trovarlo per prima. Secondo le leggi
segrete del destino,/« parte di te.»
Mentre parliamo, il bambino ci osserva e, come se ci avesse com­
presi, si getta ai miei piedi manifestando la sua gratitudine e la sua
fiducia.
Lo prendo per mano, lo conduco da un servo che ha l’incarico di
vestirlo e ristorarlo. Mangia con tale appetito che non si nota neppure
la sua stanchezza. E stanco davvero, però, e si addormenta subito sul
letto che gli è stato preparato in un angolo della mia camera.
Padre ed io rimaniamo ancora sulla terrazza. Il mare finalmente si
calma e assistiamo meravigliati al gioco dei colori del tramonto.
«Padre, quel bastone, di quale energia è carico? Da dove viene e
come? Il suo effetto sul bambino è stato quasi magico; era mezzo
morto e, dopo il tuo trattamento, si è ritrovato colmo di nuova vita.»
Padre tace per alcuni secondi prima di rispondere:
«Il piccolo è stato davvero riempito di nuove forze vitali. Il miste­
ro di quel bastone fa parte dei segreti dell’iniziazione, e dobbiamo
tenerlo nascosto perché non soltanto il bastone è dispensatore di vita,
ma può uccidere. Se il suo segreto cadesse nelle mani di qualche
ignorante animato dalla cupidigia, lo utilizzerebbe subito per uno
scopo vile. Presto riceverai l’iniziazione, e già conosci l’arte di tace­
re; ecco perché hai assistito al trattamento che ho fatto al bambino
con il bastone. Ptahhotep te ne spiegherà il mistero in ogni particolare
e, dopo l’iniziazione, ti insegnerà ad usarlo. Domani rientriamo a
palazzo e andrai da lui: hai compiuto grandi progressi nell’autocon­
trollo e la tua iniziazione è vicina; ancora gli ultimi insegnamenti, poi
la riceverai.»
Sono profondamente scossa, e taccio. La mia iniziazione, fra
poco! Tutti i lunghi anni di preparazione si concluderanno, infine, e
sarò ammessa nel santuario segreto del Tempio. Iniziata! In silenzio
ammiriamo la gloria del tramonto.
I giorni felici e liberi passano troppo in fretta, ed eccoci di ritorno
a palazzo. Porto con me il piccolo, quel povero uccellino senza nido,
nei miei appartamenti, e racconto a Menu ciò che è avvenuto. Il suo
232 Elisabeth Haich

cuore generoso e colmo di amore si spalanca per questo bambino che


già considera come se fosse suo. Puntando l’indice verso se stesso, il
piccolo dice:
«Bo-Ghar» e ride di gioia quanto lo si chiama così. È una persona
molto fine. Ha un corpo snello, pieno di vita, elastico e forte, e com­
prende tutto velocemente, imparando le parole e le espressioni della
nostra lingua al primo colpo.
Quella sera devo andare da Ptahhotep. Insieme a Menu ripercorro
quella strada ormai familiare, e penso che Ima ora non ha più bisogno
di starmi ad aspettare alla porta del Tempio per guidarmi. Ormai
conosco, anzi persino i miei piedi la conoscono, la strada che mi
conduce da Ptahhotep. Ma, accanto alla porta, spunta dall’ombra la
splendida figura di Ima, la cui pura radianza penetra tutta l’atmosfera
intorno a lui. Uno sguardo furtivo al suo corpo così bello, e controllo
se sento una attrazione fisica per lui: ma no! Non potrei mai amarlo
fisicamente! Tra noi, esiste un amore così profondo che mi sento in
perfetta unità con lui, come se lui fosse me ed io fossi lui. Come si
potrebbe amare e desiderare se stessi? Ima è nato dalla razza dei figli
di Dio, ha un cranio di forma allungata, è puro, nobile come un
angelo, è la spiritualità in persona. Anche lui, non potrebbe mai amar­
mi fisicamente!
Piena di gioia, esclamo:
«Come sapevi che stavo arrivando? Ti ha mandato Ptahhotep?»
Ima sorride:
«Non sei dunque ancora abituata al fatto che una persona spiri­
tualmente risvegliata non abbia bisogno di ricevere un messaggio
esterno per sapere ciò che fa e dove si trova un’altra persona che le è
legata spiritualmente? Mi sono concentrato su di te per sapere se
dovevo preparare i tuoi prossimi esercizi, e ti ho trovata mentre stavi
venendo qui. Ptahhotep ti attende, quindi entra. Domani lavoreremo
insieme.»
Ima se ne va, ed io entro nella stanza di Ptahhotep.
I lunghi periodi di osservazione, di analisi e di auto-controllo
grazie ai quali ho imparato a dominare tutti gli aspetti delle dodici
virtù gemelle, mi hanno insegnato anche a non dirigere la mia gioia
nel corpo. Invece di saltare al collo di Ptahhotep e baciarlo, irradio
tutto il mio amore e la mia gioia per mezzo dei centri che sostengono
la mia coscienza, soprattutto gli occhi.
Mi inchino profondamente davanti a Lui.
Comprende e constata la padronanza assolutamente cosciente che
Iniziazione: memorie di un’Egizia 233

attualmente ho sulle mie dichiarazioni di amore, quindi sulle forze


che agiscono in me. Anch’io comprendo, e vedo che Lui comprende e
vede... E siamo uniti spiritualmente. Oh! quest’unità è una gioia mille
volte superiore ad un abbraccio fisico! Sono perfettamente felice in
questa unità e attendo che Egli mi comunichi quanto intènde dirmi. Il
suo sguardo colmo di gioia e di amore si posa su di me per un attimo,
penetra interamente dentro di me e poi dice:
«E venuto il momento per te di conoscere il mistero del bastone e
di tutti gli altri strumenti. Tuo padre sapeva che eri pronta per questo,
e quindi ha colto l’occasione di mostrarti uno dei modi in cui lo si
può usare, quello in cui dispensa la vita. D’ora in poi, vieni ogni sera,
affinché possa farti le ultime rivelazioni.»
L’indomani mattina, di buon’ora, vado al Tempio, e siamo tutti
felici di ritrovarci insieme: amo tutti i neofiti come il maestro di
scuola, una creatura nobile e colma di amore che non si permette mai
un movimento inutile, come d’altronde non lo consente a noi. Il suo
metodo per acquisire il controllo del corpo è eccellente: con questi
esercizi ho già imparato a trasmettere la forza creatrice corrisponden­
te al mio grado di sviluppo - la forza della mia coscienza - negli arti e
in diversi organi. Questi esercizi hanno reso il mio corpo talmente
cosciente, talmente animato che riesco a percepirne le minime parti
così distintamente come percepisco l’interno della bocca, unica por­
zione che conoscevo un tempo. Ho imparato non solo a percepire i
miei organi, ma a dirigerli coscientemente; ad esempio, controllo l’at­
tività cardiaca: basta che mi concentri su quella parte del corpo ove
risiede l’energia che mi obbliga a respirare. Perché quando abbiamo
espirato completamente l’aria e smettiamo ad inspirarne, c’è qualcosa
che ci obbliga a farlo in modo così tassativo che dobbiamo inspirare.
Trovare ciò che ci obbliga ad inspirare è più difficile da trovare ciò
che non ci obbliga a farlo. Non è il naso, perché esso non respira, è
soltanto l’orifizio che ci consente di inspirare. Non sono neppure i
polmoni: si percepisce facilmente quanto essi siano solo strumenti del
respiro. Si scopre, infine, che c’è una forza che risiede nella regione
del cuore e che, da qui, regge tutta la respirazione; così, quando mi
concentro su questo punto, posso accelerare o rallentare la mia attivi­
tà cardiaca, con l’aiuto della mia forza immaginativa. Posso dunque
controllare l’attività del cuore. A poco a poco sono riuscita a sotto­
mettere tutti i miei organi alla volontà, ed è magnifico poter padro­
neggiare il corpo a questo modo. Mentuptah è molto soddisfatto, e
quando mi vede fra i neofiti, mi sorride.
234 Elisabeth Haich

Dopo gli esercizi in gruppo, chiedo ad Ima:


«Ima, mi hai promesso un nuovo esercizio di concentrazione.»
«Ascolta bene — dice Ima — fin qui, hai eseguito i tuoi esercizi
di concentrazione respirando lentamente e regolarmente, ovvero eri tu
ad ispirare e tu che espiravi. D’ora in poi, procederai diversamente.
Perché fintantoché sei tu che inspiri ed espiri, resti identificata al tuo
corpo. La verità è dunque che non sei tu che respiri, ma il tuo corpo.
Il tuo corpo vive perché il Sé superiore lo anima con il suo soffio.
Noi tutti, viviamo soltanto perché il nostro essere fisico inspira il
soffio divino. Sai che Dio è il Sé in te, ed è così che il tuo corpo inspi­
ra il tuo Sé - te - e questo gli dà vita. Fintantoché crederai di essere tu
a respirare, rimarrai, in coscienza, identificata al tuo corpo e non al
tuo Sé. Se, in coscienza, riesci a sentire che è il tuo corpo che inspira
te e ti rende la libertà ad ogni espirazione, allora vivrai una grande
trasformazione: dalla tua persona (dal corpo animato) diventerai te
stessa.
Esercitati dunque a questo modo: non sei tu ad inspirare ed espira­
re, ma ti lasci inspirare ed espirare dal tuo corpo. Ad ogni respiro,
devi sentire che, con l’inspirazione, tu riempi il tuo corpo di forza vi­
tale e che il tuo corpo ti inspira, e che, ad ogni espirazione, tu ti ritiri
dal corpo e resti, in Te, separata dal corpo fino alla prossima inspira­
zione. Se ci riesci, questo ti darà un’idea di ciò che accade alla morte
del corpo, giacché, in quel momento, te ne ritirerai, in quanto esso ti
espirerà per l’ultima volta. Esercitati, e fammi sapere cosa succede.»
Ima sta per andarsene, ma io lo trattengo per raccontagli come,
con Padre, abbiamo trovato e salvato il piccolo Bo-Ghar.
«Ima — dico — desidero portare il bambino al Tempio affinché
riceva l’insegnamento. Puoi occuparti di lui, per determinare quali
siano le sue facoltà?»
«Volentieri. Ne parlerò col direttore della scuola dei neofiti che lo
accetterà sicuramente. Potrà abitare al Tempio e seguire le lezioni con
gli altri bambini.»
«No, Ima, desidero che abiti con me. In lui c’è un amore e una
purezza infiniti, ed ogni giorno lo accompagnerò al Tempio, mentre
rientrerà con me di sera. Domani verrò qui con lui.»
Il giorno seguente, Bo-Ghar mi accompagna al Tempio. Non sa
dove lo sto portando perché ancora non capisce ciò che gli diciamo,
ma mi segue con assoluta fiducia, e il suo volto è radioso. E felice di
poter venire con me e con Menu: l’ho amato fin dal primo momento
in cui l’ho visto fra le onde, e Bo-Ghar tiene molto a me: non è
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 235

pienamente felice se non quando può sedersi ai miei piedi.


Giunti al Tempio, lo accompagno alla scuola dei neofiti, dove
bambini molto dotati ricevono un insegnamento. Bo-Ghar non vuole
lasciare la mia mano e capisco che teme che io lo abbandoni. Lo
bacio e gli spiego che non deve temere e che, alla sera, tornerò a
prenderlo per rientrare a palazzo: non comprende le mie parole e mi
guarda con gli occhi spalancati dalla paura, ma siccome vede che non
mi congedo da lui, si tranquillizza un po’ e rimane lì.
Quando alla sera, vado a prenderlo, noto che Bo-Ghar è diventato
amico degli altri bambini: infatti, sta raccontando loro qualcosa con
molti gesti delle mani e dei piedi. Tutti lo ascoltano con molto inte­
resse, come se lo capissero, e quando Bo-Ghar mi vede arrivare mi si
butta al collo, con gli occhi risplendenti di gioia. Sono felice di con­
statare che si sente già a suo agio.
Ormai saremo in tre a prendere la via del Tempio ogni mattina: io,
Menu e Bo-Ghar. Passano i mesi, le settimane e Bo-Ghar impara la
nostra lingua con facilità sconcertante: ormai può esprimersi corretta-
mente.
Al mattino partecipa agli esercizi fisici sotto la direzione di
Mentuptah: il suo corpo è incredibilmente animato, la conduttività dei
suoi nervi è notevole, ed esegue gli esercizi molto coscienziosamente,
con grande concentrazione, rivelando un innato autocontrollo fisico.
Ima lo ama molto, e gli dedica tutto il tempo possibile; il bambino
solitario, che ha perduto tutti i suoi parenti stretti, ama Ima con tutto
il cuore, come un fratello maggiore, ed ogni parola gentile lo rende
felice e riconoscente. I maestri della scuola del Tempio hanno scoper­
to che Bo-Ghar non aveva doni particolari per le scienze, ma per
modellare e per il disegno. Così, Imhotep, il grande artista, ha accet­
tato Bo-Ghar nella sua bottega come apprendista: è il più giovane, ed
il maestro vede per lui un grande avvenire.
Ogni sera Bo-Ghar mi aspetta alla porta del Tempio, e sulla via
del ritorno mi racconta ciò che ha imparato, ciò che ha vissuto con gli
altri bambini. Se Menu non avesse tanto amato Bo-Ghar, avrebbe
potuto offendersi perché, in altri tempi, a lei era stato negato il per­
messo di parlarmi durante la strada per non disturbare il corso dei
miei pensieri: invece, adesso, il bambino non smette di discorrere. Ma
Menu trova del tutto naturale che io permetta al bambino ciò che a lei
era stato proibito.
CAPITOLO XXXUI

Dall’insegnamento di Ptahhotep
Le sette ottave di vibrazioni
L’Arca dell9Alleanza

Eccomi davanti a Ptahhotep, ad ascoltare con rispetto le sue paro­


le:
«Oggi ti spiegherò i principi a cui si deve l’effetto meraviglioso
del bastone della vita, i quali non sono altro che semplici leggi di
natura: Dio è ovunque presente, e l’emanazione della sua onnipresen­
za si manifesta nel mondo visibile materiale sotto forma di leggi della
natura. Di conseguenza, al di fuori di queste, non può accadere nulla;
ma esse differiscono da un livello di sviluppo all’altro, e le leggi in
vigore nel mondo spirituale non sono le stesse del mondo mentale
che, a loro volta, differiscono da quelle del mondo materiale. Tutta­
via, nel mondo materiale, troviamo ancora leggi che variano a secon­
da delle proporzioni di una stessa materia: ad esempio, una legge
naturale vuole che il livello dell’acqua in stato di quiete sia sempre
orizzontale, ma essa è valida soltanto entro un certo ordine di gran­
dezza: perché una goccia d’acqua nel calice di un fiore è rotonda, e
un essere infinitamente piccolo che vivesse in quel mondo in miniatu­
ra constaterebbe che la forma dell’acqua è sferica. Perché? Perché il
rapporto tra la tensione superficiale dell’acqua e la forza che la co­
stringe a rimanere orizzontale è del tutto diverso in una goccia d’ac­
qua, quindi in una piccola quantità, di quello che abbiamo per una
grande superficie d’acqua. Eppure, si tratta delle stesse leggi.
Gli uomini conoscono poco le forze che agiscono nella natura,
conoscono soltanto quelle che la vita quotidiana ha insegnato loro a
discemere. Si sono abituati ad esse e le chiamano leggi della natura,
credendo di conoscere queste forze nella loro essenza soltanto perché
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 237

hanno dato loro un nome. Accettano queste leggi ed i loro effetti


come una cosa scontata, e quando sono testimoni di un fenomeno
sconosciuto gridano al miracolo o alla magia. Non sanno che queste
energie sono anche forze della natura simili a quelle cui si sono
abituati e credono di conoscere! I figli degli uomini non sanno perché
una pianta esca dal seme, perché un essere vivente nasca da una
cellula fecondata: non sanno che cosa vuol dire questa “fecondazio­
ne” né perché la cellula si divida dopo la fecondazione, né perché
questa divisione si ripeta per moltiplicare le cellule, processo che non
si ferma alla nascita ma che continua fintantoché, dalla prima cellula,
non si sia formato un individuo pienamente sviluppato, fintantoché la
crescita, questa reazione a catena, si freni da sé permettendo al decli­
no di cominciare a delinearsi. Tutto ciò fa parte della vita quotidiana,
sicché gli uomini non se ne stupiscono nemmeno più. Che una pianta
esca dal seme, che un bambino nasca o che un uomo muoia, che il
vento proveniente dai quattro punti cardinali abbia effetti diversi, e,
come questi, anche tanti altri fatti della vita quotidiana, sono fenome­
ni “miracolosi” quanto l’effetto ed il segreto del bastone della vita,
nonché quanto gli altri miracoli o “sortilegi” degli iniziati.
Ma prima che tu possa davvero capire le energie con cui lavorano
gli iniziati, che sono le stesse forze che animano il bastone, devi
ancora imparare un certo numero di cose.
Quando abbiamo parlato dell’albero della conoscenza del bene e
del male, hai imparato che tutto ciò che ha assunto forma materiale è
visibile e percettibile solo perché è uscito dall’unità perfetta, dal per­
fetto equilibrio. Dopo questa separazione tutto aspira a ritrovare l’uni­
tà, l’equilibrio perduto: un equilibrio che significa riposo perfetto,
immobilità. Invece, “essere diventato qualcosa” - quindi creazione
visibile e tangibile - significa: uscire da questo equilibrio e poi aspira­
re a ritrovarlo, il che equivale ad una costante agitazione, ad un moto
perpetuo. Se questo moto perpetuo cessasse un solo istante, l’intera
creazione si trasformerebbe in un colpo solo in energia spirituale,
ovvero sarebbe materialmente distrutta. Tutte le energie, tutte le forze
dell’universo, sono movimenti che, partendo da un punto - il loro
punto centrale - si irradiano, si estendono e si propagano in onde
circolari traducendosi in un impulso, in vibrazioni. Queste manifesta­
zioni cessano soltanto se le forze uscite dall’equilibrio tornano allo
stato originale, nell’unità divina. Lo stato originale è dunque quello in
cui cessa ogni manifestazione materiale. Nella sua essenza più pro­
fonda, la materia è anch’essa movimento, e quando il movimento
238 Elisabeth Haich

cessa, la materia cessa di esistere. Fintantoché esisterà il mondo mate­


riale tridimensionale, esso sarà retto dalla legge immutabile dell’agi­
tazione e del movimento.
Il fatto che la forza creatrice si manifesti a tutti i livelli delle innu­
merevoli possibilità, significa che esiste una quantità incalcolabile di
vibrazioni, lunghezze d’onda, forme d’onda, frequenze diverse che
corrispondono a detti livelli. Ma fintantoché siamo in un corpo che ha
mezzi limitati, possiamo percepirne soltanto una parte con i nostri
organi sensoriali. Il fatto che una forma di vibrazione ci appaia come
“energia” immateriale o come “materia”, dipende dall’idea, dall’im­
pressione che abbiamo di una cosa, la quale altro non è che “movi­
mento”, “vibrazione”, “frequenza”. Più le vibrazioni sono brevi, e
meno le percepiamo come materia; alle vibrazioni trasmesse alla no­
stra coscienza dagli organi sensoriali, attribuiamo nomi che corri­
spondono alle nostre sensazioni: materia, suono, elettricità, calore,
gusto, odore, luce; alle energie e alle radiazioni superiori ed immate­
riali, che riceviamo soltanto attraverso i centri cerebrali e nervosi,
attribuiamo i nomi di onde-pensiero, onde di idee. Poi, sempre più in
alto, si arriva ai raggi e alle frequenze che penetrano più profonda­
mente, fino alle frequenze supreme che penetrano ogni cosa con la
forza creatrice divina: la vita stessa !
Non possiamo comprendere queste frequenze se non come stato di
coscienza.
E così che l’universo è animato da una varietà infinita, inimmagi­
nabile di vibrazioni, dall’onda più corta all’onda più lunga. Tutte le
forme della creazione, dai corpi celesti fino agli esseri monocellulari,
sono risultati di diverse forme di radiazione; che lo si sappia o no,
viviamo tra le radiazioni. Mi spingerò persino oltre: sono queste ra­
diazioni e queste energie che ci hanno formati e costruiti e che sono
costantemente attive nel nostro corpo, nella nostra anima e in tutto il
nostro essere. L’intero universo è composto da queste varie vibrazioni
creatrici, la cui fonte viene chiamata Dio.
Dio si trova al di sopra di tutto quanto è manifesto, Egli riposa in
Se stesso in un equilibrio assoluto senza tempo né spazio. Ma i Suoi
raggi penetrano le forme materiali per animarle e dar loro vita. Dio è
onnipresente e riempie tutto l’universo, sicché tutto ciò che è nel­
l’universo è penetrato da Dio. Nulla può esistere che non sia in Dio o
penetrato da Dio, giacché Egli è onnipresente, e nulla può spostarLo,
sloggiarLo dalla Sua propria presenza. Così ogni punto offre a Dio la
possibilità di manifestarsi, e tutto ciò che esiste nel nostro mondo
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 239

percettibile porta in sé questo punto come suo centro. È da quel punto


che prese avvio la prima manifestazione, la Sua creazione, la caduta
al di fuori deH’equilibrio.
E questo aspetto di Dio che crea il mondo materiale e gli dà vita
penetrandolo, quella stessa vita che è in noi, in ogni essere vivente e
che chiamiamo il Sé superiore. Tutte le altre espressioni quali Dio,
Creatore, Sé universale o Sé superiore o ancora principio creatore,
designano un’unica divinità sotto i suoi vari aspetti.
Le energie prossime al centro sono ancora altamente spirituali, le
loro frequenze sono elevate. Più esse se ne allontanano in ondate
circolari, più diventano materiali, fino al momento
in cui queste energie, a poco a poco, si trasforma­
no in materia; è così che la forza emessa frena la
propria corsa, perché una volta giunta all’estremo
limite della manifestazione, al punto più lontano
dal centro, diventa una corteccia, una crosta dura e
materiale. Ecco perché l’immagine - il “nome” - di
Dio che si manifesta nel mondo visibile è un cerchio, il cerchio inter­
no delle forze superiori, circondato da un guscio denso e materiale.
Espresso in lettere, questo simbolo è OM.
Tutte le creature, dai soli fino agli esseri monocellulari, sono for­
mati secondo questo principio. Osserva una sezione della nostra Ter­
ra: nel centro le forze potenti sono ancora allo stadio evolutivo del
cerchio di fuoco; poi vengono le regioni gassose, gli strati di materie
fuse, poi liquide, il tutto circondato da una solida crosta materiale. Ma
voglio che tu osservi anche il fatto che, dal centro, agisce una forza
opposta, la forza centripeta, che lavora attirando a sé tutte le manife­
stazioni materiali. E se la materia dura non opponesse una resistenza
di eguale forza, tutte le forme manifeste scomparirebbero nel loro
stesso centro, e così accadrebbe per la nostra Terra e tutti i suoi esseri
viventi. E la resistenza della materia che impedisce che ciò avvenga,
V

ed è questa l’unica ragione che consente una creazione e la vita sulla


crosta materiale terrestre. Ricordati di questa resistenza della materia
perché ne riparleremo ancora.
Eccoti ancora un esempio per illustrare la struttura interna delle
forme materiali: la sezione della spina dorsale di tutti i vertebrati
mostra lo stesso ordine interiore: la sostanza estremamente sottile del
midollo spinale è il supporto della forza vitale e creatrice ed è circon­
data e protetta da un guscio duro, le ossa. E troverai la stessa sezione
trasversale in qualsiasi osso del cranio, delle vertebre o delle gambe.
240 Elisabeth Haich

Taglia ora una pianta, e troverai la stessa immagine: certamente


hai già visto un albero abbattuto, ove la struttura interna del tronco è
sempre la stessa: intorno al punto centrale, ci sono cerchi di energia
vitale nutriti dalla sostanza sottile del cuore dell’albero; l’anello che
ogni anno va ad aggiungersi ai precedenti riflette la radiazione ciclica
della vita nell’albero che si ripete ad ogni primavera, ed anche in
questo caso, la corteccia avvolge e protegge il tronco.
La crescita comincia sempre dal centro, dall’interno verso
l’esterno, giacché la fonte più profonda di tutte le energie e di tutte le
manifestazioni è Dio.
Quest’aspetto di Dio che si riveste di materia, che delle forme
create fa esseri viventi e che chiamiamo il Sé superiore {Logos) è
quanto ci attira verso il nostro centro, giacché anche noi siamo sepa­
rati dall’unità divina, dallo stato paradisiaco. È il fidanzato celeste
che ogni anima umana desidera ardentemente ritrovare. Non bisogna
mai confondere questo Sé divino ed autentico con l’“io” individuale
che, invece, è sprovvisto di esistenza reale, essendo soltanto una sem­
bianza.
Dietro ad ogni forma di manifestazione (un sole, un pianeta, un
essere umano, un animale, una pianta o un elemento materiale) tro­
viamo la stessa fonte di vita, lo stesso Dio, lo stesso Sé divino. Per
quanto questo stesso Dio sia presente ovunque ed in ogni creatura, le
forme della manifestazione sono estremamente diversificate, giacché
Dio si rivela a tutti i livelli in cui una manifestazione è possibile, e le
forme create che compaiono su tutti questi livelli possono manifesta­
re, di Dio, soltanto ciò che sono capaci di provare coscientemente, vi­
vere e sopportare, proporzionalmente al loro grado di sviluppo, ri­
spetto alla forza creatrice divina. Perché provare, vivere cosciente­
mente una forza significa essere questa stessa forza e, nel frattempo,
irradiarla in tutte le direzioni, quindi anche nel proprio corpo. Di
conseguenza il corpo deve possedere la forza di resistenza corrispon­
dente, altrimenti le radiazioni del Sé lo bruciano e lo distruggono.
Ecco perché il corpo delle varie manifestazioni non è composto
allo stesso modo, anzi: la loro materia offre gradi di resistenza che
corrispondono al livello di coscienza su cui ogni forma si è manife­
stata. Sappi che è la composizione chimica della materia a determi­
nare le vibrazioni che un corpo può sopportare. Quando un corpo è
sottoposto ad una radiazione superiore alla sua forza di resistenza, ne
soffre l’intero sistema nervoso: questo può produrre una profonda
depressione, magari una malattia mentale, e se il numero delle vibra­
Iniziazione: memorie di un 'Egizia 241

zioni di tale forza supera la gamma di un’ottava, allora diventa morta­


le. Ecco perché, quando vogliamo espandere la coscienza di un uomo
affinché possa assorbire e sopportare la forza divina ad un grado
elevato, dobbiamo in primo luogo prepararne il corpo, sottoponendo­
lo fra l’altro ad un processo chimico, affinché la differenza di vibra­
zioni non vada mai oltre un’ottava. Altrimenti morirebbe.
Nel mondo materiale esistono quattro livelli di manifestazione
che, a seconda delle apparenze e del grado di coscienza, chiamiamo
minerali, vegetali, animali, uomini. Se paragonata all’uomo, la mate­
ria ci sembra “non cosciente”, eppure i cristalli provano che anche in
essa vi è una certa coscienza. Ogni livello di manifestazione è caratte­
rizzato dal grado di coscienza che gli è proprio, sempre superiore di
un’ottava a quello del livello precedente. Soltanto l’uomo ha la possi­
bilità di manifestare più livelli, fino alla divina coscienza di Sé. Se ci
atteniamo agli intervalli - le ottave - con cui classifichiamo i gradi
evolutivi, constatiamo che la categoria “uomo” occupa quattro gradi­
ni lungo la grande scala evolutiva che conduce dalla terra al cielo e
che, inoltre, ad ogni gradino corrisponde un’ottava della gamma vi­
bratoria. Gli uomini conoscono d’altronde questi quattro livelli e li
chiamano: uomo, caratterizzato dalla mente; genio , caratterizzato dal­
l’intuizione; profeta, caratterizzato dalla saggezza e dall’amore uni­
versale; e, al supremo livello, Vuomo-dio, caratterizzato da onniscien­
za e onnipotenza.
Nel mondo materiale esistono dunque quattro manifestazioni che,
insieme, esprimono sette ottave di vibrazioni.
Ogni creatura emette le vibrazioni di cui è composta, ossia quelle
che sopporta coscientemente. I minerali che si trovano al livello infe­
riore della coscienza si manifestano solo con la contrazione, il raf­
freddamento, l’indurimento.
La pianta già si manifesta su due livelli: un livello materiale e
quello della forza vegetale che la fa vivere; una pianta manifesta
inconsciamente le vibrazioni materiali, e porta il suo corpo come un
vestito. Ma il suo livello di coscienza è quello della forza vegetativa
che dà vita alla materia, e presenta tre aspetti caratteristici che la
rendono riconoscibile ovunque compaia: la ricerca del cibo, l’assun­
zione del cibo e l’assimilazione o digestione.
L’animale manifesta tre forze: materiale, vegetativa, animale. Ha
un corpo, cerca il cibo, lo mangia e lo digerisce. Ed è cosciente a
livello animale: ha un’anima, degli istinti, dei bisogni, delle sensazio­
ni, delle simpatie, delle antipatie, dei desideri. L’animale è cosciente
242 Elisabeth Haich

sul terzo gradino di sviluppo, un solo gradino sotto all’uomo.


L’uomo medio è dunque un’ottava più in alto: è cosciente sul
piano mentale, possiede un intelletto e la facoltà di pensare. Ma mani­
festa anche gli altri tre livelli: quello materiale (ha un corpo), quello
vegetativo (cerca il cibo, lo mangia e lo digerisce), quello animale (ha
un’anima e una vita sentimentale, ha istinti, simpatie, antipatie, desi­
deri). Ma la sua principale caratteristica è la mente: l’uomo pensa
coscientemente.
In seguito l’uomo fa un grande passo avanti per raggiungere il
prossimo gradino: eleva la sua coscienza al di sopra del mondo degli
effetti per raggiungere quello delle cause. Si alimenta alla fonte divi­
na del piano causale e manifesta quella forza che, nella sua coscienza,
si traduce con l’intuizione. Grazie all’intelletto e alla mente può
esprimere le sue esperienze spirituali e trasmetterle al suo prossimo.
La sua intuizione può riflettersi anche in altre arti: senza dimensione
nella musica, quale compositore; con due dimensioni, tramite le linee
ed i colori, quale pittore; ed a tre dimensioni, con le forme plastiche,
quale scultore o ballerino. L’uomo creatore è il “genio”: manifesta
cinque ottave di vibrazione delle forze materiali, vegetative, animali,
mentali e causali.
Il grado di coscienza dell’ottava seguente è quello degli uomini
chiamati “profeti”; il profeta manifesta tutte forze dei livelli menzio­
nati fin qui, ed è anche cosciente su un gradino superiore, quello della
saggezza divina e dell’amore universale. Non bisogna mai confonde­
re questo amore universale, che corrisponde al sesto livello e che è
una forza puramente spirituale, con 1’“amore” del terzo livello anima­
le, che è invece espressione degli istinti animali. Quest’ultimo tipo di
amore è una vibrazione trasformata per operare ad un livello inferio­
re, il terzo, e la cui fonte è l’istinto di conservazione della specie.
Questo “amore” è caratterizzato dal desiderio di possedere, e cerca il
corpo soltanto; forza l’uomo ad avvicinarsi all’essere amato, ad ab­
bracciarlo, a stringerselo al petto, ovvero a possederlo. Colui che si
sottomette a questo genere di amore vive ancora in coscienza lo stato
di divisione, di separazione, e va cercando la sua metà complementa­
re fisica per trovare soddisfazione. Questo amore vuole sempre pren­
dere, avere, possedere. L’amore del sesto grado di manifestazione,
l’amore dei profeti, non deriva dalla separazione, ma dallo stato origi­
nale dell’unirà divina; ecco perché è universale, dà sempre, non pren­
de mai, non ha bisogno di alcun complemento, di alcuna manifesta­
zione fisica ed irradia ed illumina dal livello della coscienza dell’imi-
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 243

tà divina assoluta. Gli uomini a questo livello di coscienza non desi­


derano possedere nulla, si sentono uno con il Tutto infinito.
La suprema manifestazione di Dio, la settima, è quella dell’uomo
diventato perfettamente cosciente: 1’“uomo-dio”. Tutte le altre forme
di manifestazione sono soltanto vibrazioni trasformate, una parte di
Dio soltanto. L ’uomo-dio è quello che, mediante una perfetta co­
scienza, manifesta appieno Dio - il suo Sé divino - in tutta la sua
perfezione; e quello che prova, vive in sé ed irradia le forze creatrici
divine nelle loro vibrazioni e frequenze originali, non trasformate.
L’uomo soltanto ha la possibilità di padroneggiare ed irradiare
tutte le sette ottave di vibrazioni, giacché il suo sistema nervoso com­
prende i centri che corrispondono a queste sette ottave della forza
creatrice trasformata e non trasformata; tuttavia egli può irradiare le
vibrazioni soltanto ai livelli sui quali è diventato cosciente', fintanto­
ché non è cosciente su un certo livello, i centri nervosi corrispondenti
restano allo stato latente. L’uomo medio irradia dunque le vibrazioni
che si estendono fino al quarto gradino, il genio fino al quinto, il pro­
feta fino al sesto, e l’uomo-dio soltanto è in grado di irradiare con­
sciamente le energie di tutte le sette ottave e, se lo desidera, irradiare
la forza creatrice divina allo stato originale, oppure trasformarla e
modificarla per trasmetterla a frequenze inferiori.
Il bastone che hai visto fra le mani di tuo padre si compone di un
materiale simile all’ottone, che ha la particolarità di poter trasmettere
la radiazione corrispondente ad ogni livello. È progettato in modo da
trasmettere le vibrazioni nel loro stato originale, quindi immutate,
oppure diminuirle o amplificarle a seconda del desiderio di chi se ne
serve.
Questo bastone può essere una benedizione o una maledizione,
dipende da chi lo usa: un iniziato è in grado di irradiare tutte le forze
della creazione con questo bastone, andando dalla più elevata, quella
divina, alla più bassa, ultra-materiale, giacché possiede in sé tutte
queste forze e può trasmetterle coscientemente per mezzo del bastone
della vita. L’uomo, con i suoi organi sensoriali, può recepire solo una
piccola parte dell’immensa gamma di queste vibrazioni: tutto ciò che
vibra al di sopra o al di sotto della sua gamma di percezione non può
essere percepito, né vissuto, se non come stato d’animo. Infatti, per
esempio, prova e vive in sé frequenze divine supreme sotto forma di
amore universale; invece le frequenze più basse, quelle délVultra-ma­
teria, che sono ancora inferiori a quelle che gli occhi ed i nervi
sensoriali percepiscono come materia, e che quindi restano impercet­
244 Elisabeth Haich

tibili agli organi di senso, vengono vissute dall’uomo nella sua anima
sotto forma di odio. L’iniziato userà sempre correttamente il bastone
della vita e irradierà sempre la forza necessaria per fare del bene, e
quindi sarà una benedizione. Quanto alle vibrazioni ultra-materiali,
se necessario ne farà uso per creare un muro di protezione invisibile
ed impenetrabile. Con l’aiuto del bastone, l’iniziato può padroneggia­
re, amplificare o neutralizzare tutte le forze della natura.
Tutti gli esseri viventi possiedono queste forze, ma soltanto ad un
livello che corrisponde al loro sviluppo; se ne servono, ma non ne
sono coscienti. Hai mai incontrato un uomo che si chieda, ad esem­
pio, come mai può alzare le braccia o i piedi? Oppure, come mai,
anche per un breve istante, può allontanarsi dalla Terra saltando?
Alza un braccio, ed osserva: non stai forse contraendo i muscoli, i
quali sollevano il braccio? La contrazione dei muscoli ti permette di
eseguire tutti i movimenti del corpo ma, figlia mia, che cos’è che
contrae i muscoli? Rifletti!»
«La mia volontà, Padre.»
«Sì, la tua volontà. Ma ora ti chiedo: che cos’è la volontà? Che mi
rispondi?»
«Padre, mi sono spesso osservata, quando volevo qualcosa; ma ho
potuto constatare soltanto che, quando voglio qualcosa, emetto una
forza e le imprimo una direzione. Per riprendere l’esempio che hai
fatto tu, se voglio alzare il braccio abbandonato e rilassato (pende
verso il basso perché la Terra lo attira a sé) questa energia scorre in
esso per mezzo della mia volontà, forza i muscoli a contrarsi e ad
alzarlo.»
«Giustissimo — dice Ptahhotep. — Con il fatto stesso che la tua
forza di volontà è affluita nei muscoli hai vinto nel tuo braccio la for­
za d ’attrazione terrestre, questa forza immensa della natura. La stessa
cosa avviene quando salti, anche se solo per un attimo, giacché solo
per un breve istante la tua forza di volontà ha superato la forza del­
l’attrazione terrestre. Il tempo consuma la tua forza di volontà trasfor­
mata in energia fisica. Il tempol
E lo spazio? Hai usato la tua forza per alzare il braccio, il corpo,
in altezza, per allontanarlo dalla Terra, dunque muoverlo nello spa­
zio. Constati allora che la tua forza viene consumata da due fattori
importanti: il tempo e lo spazio. Se potessi amplificarla ed immagaz­
zinarla nel corpo, allora potresti vincere la forza di attrazione terrestre
più a lungo, e restare ad una maggiore distanza da terra. Potresti
fluttuare per aria! Ma non ci riesci, perché non sei ancora cosciente
Iniziazione: memorie di un’Egizia 245

sul piano divino, a differenza dell’iniziato che può direttamente attin­


gere a quest’eterna fonte di energia senza trasformarla e, se lo deside­
ra, galleggiare nell’aria fintantoché oppone la propria forza di volontà
alla forza dell’attrazione terrestre.
L’iniziato conosce tutte le vibrazioni e possiede organi cosciente­
mente sviluppati per utilizzare queste energie; tu conosci, per esem­
pio, la forza del pensiero grazie alla quale possiamo comunicare tele­
paticamente: anch’essa è controllata da un organo superiore del cer­
vello. I figli degli uomini non sanno neppure di possedere organi
simili. L’iniziato è in grado di irradiare la forza più elevata fra tutte,
l’energia divina creatrice; è l’energia e la radiazione della Vita stessa,
dell’ESSERE eterno, quella che anima e regge tutto l’universo. Fare
uso coscientemente di tale forza è proprio dell’uomo-dio soltanto,
l’unica creatura la cui coscienza è identica a Dio, ed irradia questa
energia dalla sua stessa coscienza divina, dalla sua onnicoscienza
cosmica. Nessun altro essere vivente potrebbe sopportare conscia­
mente tale forza.
Ogni forza ha la sua materializzazione sulla Terra, ed è per questo
che troviamo che tutte le energie e le vibrazioni corrispondono ad una
materia la cui forza di resistenza è in grado non solo di sopportarle e
di trasmetterle, ma addirittura di immagazzinarle per poi irradiarle per
un certo tempo. Il nome che diamo a questa materia poco importa; il
corpo delle creature viventi e delle forme di manifestazione corri­
spondenti ai vari livelli di coscienza è composto e costruito di questa
materia. Ora, questo non vale soltanto per la materia che corrisponde
al livello di coscienza proprio delle creature, ma anche per la materia
che conduce le vibrazioni al di sotto di tale livello. Ad esempio, le
piante possiedono la forza di resistenza necessaria per sopportare le
vibrazioni della forza vitale vegetativa e quelle della materia, giacché
sono dotate di un corpo materiale. I nervi ed il corpo degli animali
portano in sé la forza animale che corrisponde al livello animale e,
nel contempo, anche le vibrazioni delle due ottave inferiori, quelle del
livello vegetativo e quelle del piano materiale.
I nervi dell’uomo medio, ad esempio, hanno resistenza sufficiente
per sopportare le vibrazioni del livello mentale, nonché le frequenze
trasformate corrispondenti alle ottave dei piani inferiori: animale, ve­
getativo e materiale. Con le energie mentali, l’uomo pensa ed è co­
sciente a livello mentale. Con le energie animali, egli percepisce e fa
l’esperienza in sé di tutte le emozioni; le correnti di energia vegetati­
va ne animano il corpo e, infine, questo corpo è composto da forze
246 Elisabeth Haich

materiali. La stessa cosa avviene se risaliamo la scala fino all’uomo-


dio che impiega coscientemente tutti i suoi centri nervosi e cerebrali e
può condurre in essi o nel corpo, senza trasformarle, le vibrazioni
supreme della vita che risiedono nel midollo spinale. La materia del
suo corpo ha la forza di resistenza necessaria per sopportare le vibra­
zioni della forza divina suprema e, ovviamente, quelle trasformate
degli altri sei gradini di manifestazione.
Dunque, soltanto in apparenza la materia dei corpi umani nei
vari stadi di sviluppo sembra la stessa; in realtà sono composti da
diversi elementi chimici, la cui resistenza corrisponde sempre al gra­
do di evoluzione dello spirito che li abita.
Se il corpo dell’uomo-dio può sopportare le massime frequenze
così come quelle, trasformate, dell’ottava inferiore, questo significa
che deve per forza esistere una materia la cui forza di resistenza sia in
grado di sopportare e di trasmettere la forza creatrice divina, nonché
tutte le altre frequenze trasformate delle ottave inferiori, e questo
senza venire smaterializzata. Nella loro patria, i figli di Dio inventa­
rono una materia, una sorta di ottone, con cui costruirono apparecchi
per immagazzinare le frequenze creatrici supreme nella loro manife­
stazione originaria o trasformata, e per irradiarle, amplificate o ridot­
te. Questi strumenti sono progettati per poter mantenere intatta la
forza creatrice nella sua forma pura, di conseguenza restano attivi a
lungo, simili ad una fonte di forza divina, simili alla vita stessa. E dal
momento che il più perfezionato di questi apparecchi rappresenta un
legame perfetto fra le frequenze divine e quelle materiali, fra Dio e la
Terra, chiamiamo questo portatore di energia straordinariamente po­
tente, carico della frequenza del Sé divino, VArca dell’Alleanza.
Ora comprendi perché teniamo nascosti questi apparecchi: l’uo-
mo-dio che ha sviluppato appieno le sue facoltà superiori, può utiliz­
zarli senza problemi, giacché l’Arca dell’Alleanza contiene ed irradia
la stessa sua forza, la forza che egli è; ma un uomo di grado inferiore,
morirebbe subito, come colpito dal fulmine, soltanto toccandola. Le
frequenze divine brucerebbero istantaneamente i suoi nervi, subirebbe
uno choc, una crisi. La stessa cosa accade quando questa energia si
libera dal suo isolamento all’interno del midollo spinale ed aggredi­
sce i nervi: l’uomo, l’animale e persino la pianta muoiono all’istante.
Gli uomini chiamano questa morte un “colpo”, sentono che una forza
ignota ha colpito una persona come il fulmine: si tratta della corrente
vitale che, di solito, è ben isolata nel midollo spinale o nel canale
centrale delle piante, affluendo nel corpo solo dopo essere stata tra­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 247

sformata a dovere, ma che in caso di malattia rompe gli argini e causa


il “colpo”.
Ecco perché i non-iniziati non possono avvicinarsi a questi appa­
recchi. Anzi: giacché questi ultimi irradiano energie che penetrano
ogni cosa, ci tocca tenerli nascosti dietro a spesse pareti di roccia che
offrono un isolamento migliore, perché l’energia vitale uccide quando
penetra una materia che non oppone una resistenza adeguata: la mate­
ria ne è smaterializzata, disintegrata...
L’Arca dell’Alleanza, come altri strumenti ancora, si compone di
una materia che, senza smaterializzarsi, può essere caricata con
l’energia creatrice divina. L’Arca dell’Alleanza irradia la forza crea­
trice non trasformata e, a seconda della dose, dispensa la vita o la
morte. Quest’energia possiede lo stesso carattere vibratorio della for­
za di volontà dell’uomo che può vincere ogni cosa, compresa la forza
di attrazione terrestre, foss’anche per un breve istante. L’Arca del-
l’Alleanza irradia quest’energia amplificandola mille volte, sicché,
come la Terra agisce sulla materia con la forza d’attrazione, attraendo
a sé ogni cosa, anche noi possiamo controbilanciare la forza di attra­
zione in ogni materia, senza alcuna eccezione, vincendo ed eliminan­
done il peso per un periodo di tempo più o meno lungo. Ma quando è
necessario, possiamo anche agire con questa forza d’attrazione e, a
piacere, aumentare il peso mediante i raggi di ultra-materia! Così,
anche i pietroni si alleggeriscono per il tempo necessario a costruire
gli edifici maggiori con incredibile facilità; oppure, se ne aumenta il
peso in modo tale che si conficchino in terra: ad esempio, quando
vogliamo realizzare un pozzo non scaviamo la terra, ma scegliamo
una roccia di dimensioni adeguate, ne amplifichiamo il peso e lascia­
mo che sprofondi nel suolo fino alla profondità desiderata.
Grazie all’Arca dell’Alleanza, quest’enorme fonte di energia, pos­
siamo trasformare in materia energie immateriali, quali, ad esempio, i
raggi luminosi oppure, inversamente, disintegrare la materia riconver­
tendola in energie che rimarranno attive quasi per sempre.
Osserva questa lampada. Da miliardi di anni, il sole emette i suoi
raggi, alcuni dei quali, nella nostra atmosfera, diventano raggi lumi­
nosi grazie alla trasformazione delle energie. In questa lampada la
materia si disintegra, si smaterializza, crea energie che, nell’aria, si
convertono in raggi luminosi.
Proprio in questa lampada, il processo potrebbe prolungarsi all’in­
finito e dare luce per sempre, ma nella storia della Terra è scritto che
dobbiamo abbandonare il pianeta per migliaia di anni e annientare
248 Elisabeth Haich

tutto il nostro equipaggiamento. Se così non dovesse essere, l’igno­


ranza dei figli degli uomini causerebbe nuovamente una inimmagina­
bile distruzione.
Le generazioni future comprenderanno poco o nulla di ciò che
rimarrà della nostra cultura; ad esempio, si chiederanno come abbia­
mo potuto rendere la superficie delle pietre più dure così perfettamen­
te liscia, al punto che, fra esse, non passa neppure un capello; si
chiederanno come i nostri “schiavi” abbiano potuto raggiungere tanta
precisione con le sole mani. I figli degli uomini, riducendo i loro
simili in schiavitù, penseranno che anche noi facessimo altrettanto, e
per migliaia di anni non passerà loro neppure per il capo che
smaterializziamo semplicemente la parte superflua della pietra riu­
scendo, senza il minimo sforzo fisico, ad ottenere esattamente ciò che
vogliamo dalle pietre e dalle rocce più dure.
Regoliamo i nostri apparecchi secondo la profondità e la larghez­
za desiderate, e tutto ciò che eccede queste misure viene disintegrato;
è una cosa semplicissima, quando si conosce la vera natura delle varie
energie di cui anche la materia fa parte, ma questa scienza è una
benedizione solo se resta fra le mani di un iniziato che sa anche che
amore significa vita, e odio significa morte. Soltanto gli iniziati di
grado superiore possono essere architetti: infatti, se è ovvio che per
fare costruire qualsiasi cosa dagli schiavi non c’è bisogno di essere
iniziato, resta il fatto che noi non lavoriamo con gli schiavi ma con le
forze della natura.
Grazie a questi apparecchi, possiamo creare tutte le forme di ma­
nifestazione dell’energia creatrice; la manifestazione dipende soltanto
dalla durata e dalla distanza a cui facciamo lavorare quest’energia. I
figli degli uomini trovano normale venire al Tempio ammalati per
farsi guarire da noi: la malattia significa che le vibrazioni del corpo
non sono più armoniose, e noi restauriamo la vibrazione della parte
“ammalata” del corpo e l’individuo ritrova la salute. Ogni organo ha
la sua vibrazione particolare, il che significa che ogni organo è ciò
che è perché vibra ad una certa frequenza, e che questa vibrazione
agisce costantemente in esso e lo mantiene in funzione. Non appena
questa vibrazione si modifica, l’organo si ammala.
Possiamo anche controllare il tempo sulla Terra, fare un cielo
azzurro oppure, se necessario, creare nubi e pioggia. I figli degli
uomini vedono lampi, odono il tuono uscire dalla grande piramide e
sono contenti, perché sanno che questo porterà loro la benedizione
della pioggia; vivono nella certezza che il Tempio badi a tutto: alla
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 249

loro salute, alla pioggia, alle loro comodità e al loro benessere spiri­
tuale.»
«Padre della mia anima, come si fa a caricare l’Arca dell’Alleanza
di energia creatrice?»
Ptahhotep mi scruta con uno sguardo acuto e dice:
«Vedo che già sai come la si può caricare. Come ti ho detto, sulla
Terra esiste un’unica fonte capace di irradiare questa forza, l’uomo­
dio. È un dovere del gran sacerdote caricare l’Arca deH’AIleanza di
forza creatrice divina, risultato a cui giunge incanalando direttamente
la propria energia nell’Arca dell’Alleanza oppure, con il bastone della
vita, convertendo in forza divina creatrice una corrente energetica as­
solutamente positiva , che irradia dalla sua mano a frequenza inferio­
re, per poi condurla nell’Arca dell’Alleanza. Perché, nella sua vita
quotidiana, anche l’uomo-dio irradia la forza creatrice soltanto tra­
sformata. Soltanto quando tutte le sue forze spirituali sono concentra­
te, quando, nella sua coscienza, è identico a Dio, egli emette l’energia
divina nella sua vibrazione prima: deve essere in uno stato di coscien­
za cosmica assoluta, se vuole irradiare tale forza creatrice. Se i figli
degli uomini non iniziati lo vedessero in quello stato ne avrebbero
paura, perché l’uomo-dio irradia una luce sovrannaturale insopporta­
bile per gli occhi umani. Se un non-iniziato toccasse un iniziato che
fosse in questo stato di ESSERE divino, morirebbe istantaneamente
come se toccasse l’Arca dell’Alleanza.
Così, quando un iniziato emette i suoi raggi di vita a scopo
curativo, deve concentrarsi affinché la sua radianza possa essere sop­
portata senza danni; grazie al bastone, è possibile amplificare l’ener­
gia e poi condurla nei centri nervosi appropriati fino al livello del­
l’energia creatrice; il bastone è progettato non solo per trasmettere
queste radiazioni, ma anche per trasformarle a piacere onde poterle
irradiare amplificate o ridotte. L’iniziato non deve quindi mettersi in
uno stato di ESSERE divino per condurre la radiazione suprema nel-
l’Arca dell’Alleanza, ma in uno stato di concentrazione inferiore da
cui convoglia, nell’Arca dell’Alleanza, grazie al bastone, la forza
corrispondente al proprio stato, amplificandola in seguito fino al li­
vello dell’energia creatrice. Caricata in questo modo, l’Arca può, per
un lungo periodo, irradiare tale energia, la più elevata e la più potente
che esista, come fonte di ogni altra energia sulla Terra.
Grazie al bastone, l’iniziato può creare e trasmettere le frequenze
più diverse, giacché questo strumento è un’Arca dell’Alleanza in mi­
niatura, tranne per il fatto che non può immagazzinare l’energia crea­
250 Elisabeth Haich

trice. Con esso, anche un figlio degli uomini potrebbe trasformare le


sue energie inferiori di varie ottave in forze creatrici, se potesse irra­
diarle in modo puro, positivo, dunque perfettamente disinteressato.
Infatti, il bastone irradia sempre esattamente lo stesso tipo di forza
che l’uomo gli trasmette: se un uomo primitivo ed egoista avesse fra
le mani uno strumento di questo genere, irradierebbe le vibrazioni
negative del proprio egoismo, magari amplificate, causando malattie,
epidemie, terremoti e catastrofi ancora più gravi, come un tempo
fecero i maghi neri nella patria della razza divina.
Ora capisci perché gli iniziati mantengono tanto segrete le loro
conoscenze, proteggendole dai non-iniziati?»
«Comprendo, Padre della mia anima. Vedo anche chiaramente,
ora, come Padre riuscì a ridar vita al ragazzo quasi morto; in uno stato
di intensa concentrazione Padre ha trasmesso al bambino le proprie
forze amplificandole ancora, con un effetto quasi miracoloso: il bam­
bino è stato irrorato da una tale energia vitale che il suo spossamento
se n’è andato come per incanto. Ma, Padre della mia anima, che
accadrà quando i figli degli uomini prenderanno il potere? Distrugge­
rete anche questa bacchetta magica? Come ha detto Padre, gli iniziati
dovranno far scomparire tutti i loro strumenti! Peccato che gli umani
non possano approfittare dei benefici di queste energie!»
«Piccola mia — dice Ptahhotep — ognuno vive nelle condizioni
adatte alla sua evoluzione\ Se svelassimo il mistero del bastone ai
figli degli uomini, lo utilizzerebbero immediatamente a fini distruttivi
per gli altri e per loro stessi. I figli degli uomini non sono maturi per
ricevere questa conoscenza, ne sono ben lungi: il bastone che oggi
usiamo sarà salvato dall’ultimo iniziato che ne conoscerà il segreto;
lo porterà fuori dall’Egitto. Non avrà la possibilità di costruire pira­
midi, ma progetterà una protezione il più possibile isolante. Caricherà
quest’Arca di energia molto meno potente, e la farà portare, durante
lunghe peregrinazioni, con manici di legno; quando vedrà venire l’ora
della morte, l’iniziato distruggerà il bastone della vita e, ancora per
un certo tempo, l’Arca emetterà l’energia di cui era stata caricata. I
non-iniziati la porteranno ancora con sé in molti paesi, fino al mo­
mento in cui comprenderanno che essa ha perduto tutto il suo potere,
e allora ne distruggeranno le ultime vestigia.
Solo la tradizione racconterà ancora all’umanità della “bacchetta
magica” e dell’“Arca dell’Alleanza”. Ma gli uomini prenderanno tut­
to questo per una favola, pur ricordandosi comunque che, un£ tempo,
esistevano un’Arca dell’Alleanza abitata dalla forza del Dio vivente e
II faraone presenta l’offerta del fuoco e dell’acqua al “re degli dei”,
Amon, che tiene il bastone della vita.
Il Faraone davanti a Amon — Museo del Cairo
252 Elisabeth Haich

una “bacchetta magica” (o, come la chiamiamo noi, un bastone della


vita) con cui certi iniziati, certi “maghi” facevano miracoli. Queste
tradizioni ancestrali permetteranno agli uomini di riconoscere o di
avere il presentimento di ciò che questo “bastone” rappresenta, la
potenza che domina tutte le forze della natura.
Molto più tardi, quando vorranno simbolizzarla, terranno in mano
un bastone, uno scettro, quale insegna di tale potenza: ma questo
scettro, sarà solo più un simbolo vuoto: la forza e la potenza vere del
bastone non saranno più note. Poi, migliaia di anni dopo, un discen­
dente della razza dei figli di Dio si reincarnerà, scoprirà queste verità
per quelli del suo tempo, e ricostruirà un’autentica “bacchetta magi­
ca”. Fino a quel momento ci saranno degli strani individui che verran­
no chiamati “maghi” e che sosterranno di eseguire dei giochi grazie
alla loro “bacchetta magica”, imitando dunque ciò che, un tempo, era
stato vero. Terranno quindi una bacchetta in mano e, descrivendo
certi movimenti, faranno credere di trame forze magiche: faranno uso
anche di “formule magiche” che imiteranno le nostre. Ma l’umanità
non conoscerà la straordinaria potenza della parola se non quando, tra
molti secoli, i membri decaduti della razza divina che oggi vivono qui
si reincarneranno ricordandosi nel loro inconscio le verità che, da qui
ad allora, saranno diventate solo vecchi racconti negli annali della
storia.
Potranno provare la veridicità dei loro ricordi: verrà il tempo in
cui i figli degli uomini scopriranno ed avranno accesso al sapere
supremo. Per la massa ignorante la conoscenza resta un mistero in­
comprensibile, e diventa una maledizione se le verità cadono nelle
mani dei non-iniziati; ma è precisamente la via degli umani, quella di
auto-infliggersi sofferenze e dolori.
A poco a poco comprenderanno che non si può giocare impune­
mente con le forze divine, ma che vanno usate con serietà, dignità e
rispetto; perché, per la benedizione dell’umanità, Dio dà tutto, anche
Sé stesso. Ma, a causa della loro ignoranza, gli uomini trasformano
ogni cosa in maledizione]»
«Padre della mia anima, hai detto che le piramidi sono state co­
struite di spesse rocce per isolare gli apparecchi in grado di emettere
frequenze che penetrano ogni cosa; allora, come ne escono le radia­
zioni?»
«Nelle spesse pareti delle piramidi sono stati scavati canali, galle­
rie, attraverso i quali le forze dell’Arca dell’Alleanza e degli apparec­
chi complementari che emettono altre energie, vengono convogliate
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 253

verso l’esterno. Attraverso questi canali controlliamo anche il tempo:


le energie positive e negative che scorrono nei canali costruiti in
direzioni diverse, danno luogo a formazioni di nuvole che generano la
pioggia richiesta; i lampi rappresentano il riequilibrarsi di queste ten­
sioni, e sono accompagnati da grandi rumori: ecco perché si sente il
tuono uscire dalla piramide. Altre piramidi sono state costruite per
rispondere a bisogni di strumentazioni diverse.»
«E che ne sarà delle piramidi, quando i figli degli uomini regne­
ranno su questo Paese e l’Arca dell’Alleanza, come tutti gli altri
strumenti, sarà stata distrutta? Resteranno vuote? Che ne sarà del gran
sacerdote, degli altri sacerdoti e degli iniziati?»
«Le piramidi, eccezion fatta per la più grande che attualmente è
sede dell’Arca dell’Alleanza e nella quale viene data l’iniziazione,
non resteranno vuote: quando tutti gli strumenti che emettono l’ener­
gia divina creatrice saranno stati portati via, gli ultimi Faraoni iniziati
si faranno seppellire in una di esse poi, siccome l’energia non sarà più
consumata, il loro corpo impregnato di questa forza divina creatrice
emetterà la forza suprema proprio come aveva fatto l’Arca dell’Alle­
anza, ed agirà nel Paese come una fonte segreta e potente in grado di
proteggerlo dalle cattive influenze. La radianza di questi corpi sacri e
così ben conservati aiuterà il Paese a mantenere il potere per ancora
migliaia di anni. Ma, a poco a poco, le tombe saranno in gran parte
depredate e distrutte dagli ignoranti.»
«E che ne sarà della grande piramide?»
Ptahhotep guarda lontano, come se potesse vedere qualcosa che
ancora si cela, poi, volgendo su di me il suo sguardo celeste, mi dice:
«Quando sarà venuto il tempo di distruggere tutti gli strumenti
segreti, per i sacerdoti e gli iniziati che serviranno ancora nel Tempio
sarà giunta l’ora di prendere il bastone del pellegrino, ed il gran
sacerdote, con il suo assistente, chiuderanno le porte di pietra della
grande piramide dall’interno, in modo che nessun figlio degli uomini
possa mai trovarne l’entrata. Poi, compiuti gli ultimi riti, disintegre­
ranno i loro stessi corpi così come si smaterializzano le offerte sul­
l’altare del Tempio, cosa che hai visto fare sovente. Un lampo, un po’
di fumo bianco che sparisce rapidamente... e non resta neanche trac­
cia di cenere.
E così che la grande piramide resterà chiusa agli uomini per molte
migliaia di anni; tuttavia le iniziazioni non cesseranno: le anime ma­
ture continueranno ad esservi iniziate, ma non più fisicamente come
oggi, bensì su un livello più elevato e spirituale. Costoro vivranno la
254 Elisabeth Haich

loro iniziazione sotto forma di sogno, di visione.»


Ptahhotep tace, e ci guardiamo ancora a lungo. Capisco tutto ciò
che non vuol dire... ma mi resta ancora una domanda:
«Padre della mia anima, perché le piramidi sono tutte costruite
secondo la stessa forma? Perché questa forma, e non per esempio, un
cubo, come tutti gli altri edifici?»
Ptahhotep sorride:
«Non hanno la forma di un cubo? Ma le piramidi sono costruite
sulla forma di un cubo\ Te lo spiegherò la prossima volta; per oggi, è
più che abbastanza.»
Capisco che l’insegnamento di Ptahhotep, per oggi, è finito; però
indugio ancora un po’, perché vorrei che mi rivelasse come viene
usato il bastone della vita e come viene usata l’Arca dell’Alleanza.
Mi guarda sorridendo e dice:
«Anche per te verrà il momento di sapere come si costruiscono
l’Arca dell’Alleanza ed il bastone della vita, ma dopo l’iniziazione.
L’uso, però, è riservato a coloro che, con i loro sforzi personali, han­
no raggiunto il settimo grado dopo l’iniziazione. Questi segreti non
devono cadere in mani pericolose. Sii paziente. Il tempo esiste solo
nel pensiero. Eppure ce ne vuole molto, affinché tutto maturi.»
Mi benedice ed esco.
CAPITOLO XXXIV

La forma delle piramidi


Eccomi ancora al cospetto di Ptahhotep, nel suo laboratorio.
«Ti ho già spiegato — dice — che ogni inanifestazione del mondo
visibile è animata dalla forza originale, secondo la quale ogni cosa
aspira a tornare all’unità, il che si traduce con la forza di attrazione
fra le^due metà complementari positiva e negativa. Sei qui, con me,
perché la forza dell’attrazione terrestre mantiene qui il tuo corpo:
senza di essa, come tutto ciò che non ha solide radici, saresti già
caduta nello spazio da molto tempo, ed anche l’enorme corpo della
Terra si sarebbe smembrato. La forza tiene insieme la Terra ed ogni
materia che si trova nella sua atmosfera, non appartiene alla Terra
stessa, ma agisce sul pianeta a partire dal suo centro. Se la materia
non opponesse resistenza alcuna e cedesse a tale forza, l’immensa
massa terrestre, con tutto ciò che vive sulla superficie, scomparirebbe
nel suo centro. Ma dove? Riflettici un po’!
Avvicinati, piccola mia, ti farò vedere. Se appoggio diversi ogget­
ti su questo tavolo, se attacco ad ognuno di essi un filo, e unisco
questi fili facendoli passare attraverso questo buco che vedi in mezzo
al tavolo, e poi, da sotto il tavolo, tiro i fili, allora tutti gli oggetti
verranno attratti verso il centro e scompariranno, purché siano più
piccoli del buco. E dove scompaiono? Vanno verso il punto dal quale
agisce la forza, non è vero? Ma da dove proviene la forza del centro
della Terra, questa forza che attira tutto a sé? Sai rispondermi, piccola
mia?»
Rifletto un attimo, poi rispondo:
«La Terra è riconoscibile. Se tutto ciò che è visibile è tale solo
perché si è separato dal “Nulla-Tutto”, se questa separazione è solo
apparente giacché la metà complementare è rimasta nel non-manife-
sto, allora anche la Terra deve avere la sua controparte. La forza che
256 Elisabeth Haich

attira la Terra e tutti gli esseri viventi verso il centro dev’essere que­
sto desiderio di riunione fra la Terra e la sua metà complementare
rimasta nel nulla, quale riflesso negativo. La forza d’attrazione terre­
stre, attira dunque tutta la Terra nel Nulla che si trova al di là del
tempo e dello spazio per pervenire a questa unione. E se la Terra
cedesse, allora scomparirebbe nel centro, nel Nulla. Questo signifi­
cherebbe il ritorno all’unità paradisiaca, a Dio, alla felicità! E allora,
perché non può accadere, Padre?»
«Piccola mia, l’ostacolo sta nella resistenza della material Nessu­
na creazione è possibile senza resistenza! E la forza di resistenza del­
la materia che impedisce alla Terra e a tutto il creato di scomparire, di
essere distrutto; qualsiasi cosa appaia nel mondo visibile, cade da un
punto dell’universo che, da quel momento, diventa il suo stesso cen­
tro. La caduta fa di questa cosa la materia, la quale non può più
ritornare all’unità divina, giacché la sua stessa resistenza glielo impe­
disce. Un ritorno all’unità divina, paradisiaca, a Dio, è possibile sol­
tanto mediante la spiritualizzazione della materia, quando la materia
si trasforma in spirito. Senza un aiuto spirituale, essa non potrebbe
mai diventare spirito da sola, ed ecco perché un aspetto di Dio scende
nella materia, assume le sembianze e le proprietà di questa materia, la
anima in qualità di Sé per permetterne la spiritualizzazione, la salvez­
za.
L’effetto esercitato costantemente da questo Sé (rivestito di mate­
ria nel corso dei tempi) dal centro di ogni cosa creata sulla struttura
più intima della materia, ha condotto allo sviluppo di tutte le forme
esistenti, ad ogni livello della scala evolutiva. E così che ogni creatu­
ra è stata creata, dal protozoo alla manifestazione più elevata.
Sulla Terra, la creatura più elevata è l’essere umano. La sua mis­
sione è perfezionare la spiritualizzazione della materia, un lavoro al
quale qualsiasi essere vivente partecipa secondo il proprio sviluppo.
Ogni essere umano che, dallo stato di identificazione con il proprio
corpo, si trasforma risvegliandosi allo spirito e, in coscienza, si iden­
tifica finalmente con il Sé divino, ha compiuto la propria missionel
Ha spiritualizzato un pezzettino di Terra, ha fatto progredire la Terra
di un passo verso la redenzione. Solo allora, può collaborare alla
salvezza degli altri.
Ora sai perché puoi stare in piedi, qui davanti a me: perché il Sé
della Terra, che è contemporaneamente anche il nostro, ama la Terra
e tutti i suoi esseri viventi, li attira a sé, nell’Unità divina, simile allo
sposo che vuole unirsi alla sposa. Questa volontà, quest’aspirazione
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 257

alla fusione, caratteristica di ogni espressione d’amore, si traduce


ovunque, quindi anche nel nostro corpo, in peso!
Questa forza che chiamiamo peso, agisce ovunque in natura e,
quando costruiamo qualcosa, dobbiamo contare su di lei, lavorare con
lei, e mai contro. Quando la si prende in considerazione, questa forza
ci aiuta a preservare i nostri edifici per un lungo periodo, ma se
volessimo costruire senza rispettare le sue leggi, tutto crollerebbe
rapidamente. Ti basti capire che le risultanti delle forze della forma
piramidale, sono quelle che resistono meglio alle ingiurie del tempo e
all’aggressione delle forze naturali.
Le piramidi, soprattutto quella grande, sono costruite secondo va­
rie leggi matematiche ed astronomiche, per poter anche servire da
orologio e da calendario. Un’altra volta ti insegnerò queste leggi.
Inoltre, il fatto che le superfici laterali si elevino dalla base ad un
angolo di 51° consente alle piramidi di riflettere i raggi del sole e
proiettarli lontano, verso il mare ed il deserto; sicché fungono anche
da fari. Tutte le leggi su cui sono state costruite, così come la storia di
coloro che le hanno edificate, sono tracciate sulle tavolette di cerami­
ca che le ricoprono, e quando i figli degli uomini ne decifreranno la
scrittura conosceranno tutte queste verità, le leggi matematiche ed
astronomiche, i misteri delle piramidi e tutta la nostra scienza; ma
durante le ore buie della Terra questi scritti scompariranno, ed i figli
degli uomini dovranno scoprire tutte queste verità da sé.
Ma tu, tu devi imparare la legge del mondo a tre dimensioni, il
quale si fonda sulla legge dello spirito e non potrebbe esistere senza
di essa.
Siccome la fonte di ogni saggezza, di ogni manifestazione è YES­
SERE eterno (Dio) e giacché Dio resta nel non-manifesto, al di là del
tempo e dello spazio, mentre soltanto le sue manifestazioni appaiono
nel mondo tridimensionale, dobbiamo cominciare da Dio se vogliamo
capire correttamente queste leggi.
Ma parlando di Dio, incontriamo sempre la stessa difficoltà: Dio è
al di sopra del mondo visibile, ed ogni creatura può comprendere Dio
soltanto nella misura dei propri mezzi, della sua facoltà di manifestarLo
e di realizzarLo; ovvero, fino al grado in cui tale creatura può essere
Dio\ Dio vive in tutto e tutto vive in Dio, eppure solo colui che è
diventato Dio, o che non ha mai lasciato Dio, può comprenderLo
nella sua essenza perfetta. Dio può essere compreso da Dio soltanto !
Il fatto che anche l’uomo più primitivo abbia un suo concetto di
Dio prova che la divina coscienza di Sé è in lui, sebbene ad un minimo
258 Elisabeth Haich

livello ed in modo oscuro. Ma diventare coscienti in Dio, comprende­


re Dio interamente ed essere Dio significa diventare pienamente uno
con il proprio Sé divino, il Dio in Sé. Facile a dirsi, ma difficilissimo
a realizzarsi! Perché, siccome l’uomo è uscito dal suo stato di divina
coscienza di Sé, non può immaginare Dio se non attraverso un suo
concetto del tutto personale. Come può sapere cosa sia la divinità
vera e viva, nella sua perfezione, quando la sua facoltà di immagina­
zione corrisponde soltanto ad un livello personale, separato ed isolato
dall’unità? Ciò che è finito, temporale, mortale, come può cogliere
ciò che è infinito, eterno, immortale? E come può, questa falsa sem­
bianza, comprendere YESSERE eterno, autentico, Dio, viverLo, rea-
lizzarLo in sé e identificarsi con Lui?
Eppure, l’uomo deve raggiungerLo. L’eterno desiderio, la nostal­
gia inappagata gli sono d’aiuto, spingendolo nella direzione del suo
Sé divino. Il suo intelletto, che è il più grande ma anche il più perico­
loso dei beni di Dio, costruisce un ponte sull’abisso apparentemente
invalicabile tra ciò che è personale e mortale e ciò che è impersonale
e immortale: è l’intelletto che ha fatto sì che l’uomo soccombesse alla
tentazione di separare la propria coscienza dall’unità, ma è pur sem­
pre l’intelletto che gli offre la possibilità di tornare a quell’unità con
una completa coscienza di sé. L’intelletto gli permette di comprende­
re la verità, e quando la comprende comincia la ricerca, cerca e pro­
va, finché un giorno, finalmente, trova la strada unica che conduce
alla realizzazione del proprio Sé.
Realizzare significa essere qualcosa; fintantoché si pensa a qual­
cosa, fintantoché se ne parla, non si è quella cosa. Puoi pensare ad un
gatto o a un leone, ma con questo non significa che tu li realizzi: non
significa che tu sia diventata un gatto o un leone. Allo stesso modo,
puoi riflettere su te stessa senza essere te stessa, senza essere il tuo Sé
divino e creatore! Pensare a qualcosa significa essere separati da que­
sto qualcosa; anche se emetti un unico pensiero, tu, il pensatore, sei
collegato all’oggetto del tuo pensiero, cioè il pensato, soltanto dal­
l’azione di pensare, e non sei identico ad esso. Non sei ancora ciò che
è nel tuo intelletto. Infatti l’intelletto è tuo, è un meraviglioso stru­
mento, uno specchio nel quale puoi proiettare e riconoscere ogni
cosa; ma il tuo intelletto non è te! E esterno rispetto al tuo Sé. Di con­
seguenza, ciò che puoi fare mediante il tuo intelletto non è te, non è
una realizzazione.
Quando un uomo cerca Dio fuori da sé, spesso “penserà” a Dio,
“pregherà” Dio, “amerà” Dio con tutto se stesso; ma tutto questo non
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 259

lo renderà identico a Dio. Perché cercando all’esterno l’uomo non


troverà mai Dio!
II creatore nell’uomo è il suo stesso Sé, la cui ultima manifestazio­
ne, quella più lontana dal centro, è “l’io” piccino, la coscienza perso­
nale piccina. L’“io” personale, è l’immagine di Dio riflessa dalla
materia, nel corpo. Così, quando l’uomo vuole ristabilire la propria
identità con Dio, deve seguire la stessa strada con la coscienza: par­
tendo dal proprio “io" personale, deve far penetrare la propria co­
scienza sempre più dentro di sé, volgersi verso il suo Sé autentico,
verso il suo Creatore, fino a riconoscersi coscientemente in Lui. Ciò
significa che, in quello stato, non è la creatura, la persona, che si
riconosce (giacché essa non ha esistenza reale se non in qualità di
semplice apparenza e non può aver coscienza né conoscenza di sé)
ma è proprio il Creatore che si auto-riconosce nella creatura, nella
persona. Questo è il solo mezzo di far cessare la separazione, quando
la coscienza ritrova l’unità, quando il “pensare a sé” si arresta per
diventare “essere se stesso”, conoscenza di sé. In questo stato, il
conoscitore, il conosciuto e la conoscenza formano un solo ed unico
soggetto: il Sé, il Creatore, si riconosce in sé stesso!
E solo in questo modo che l’uomo può fare l’esperienza di Dio,
V

vivere Dio. E la resurrezioneì In questo stato, riconosce che il suo Sé


lo ha creato e lo crea costantemente e dunque il suo Sé è il suo stesso
creatore, quello stesso ed unico Sé che è il Creatore di tutto l’univer­
so. Nel suo divino riconoscere il sé, nella sua coscienza di sé, fa
contemporaneamente anche l’esperienza della coscienza del Tutto
creatrice e cosmica; e, riconoscendosi, raggiunge la conoscenza del
Tutto: Vonniscienza*.
Questo stato divino in cui il Creatore si auto-riconosce, può an­
che essere espresso in numeri:
Dio che riposa in Sé è uno in tre e tre in uno.
Uno e tre rappresentano un’unità non ancora separata.
In campo geometrico, la forma del triangolo equilatero simbolizza
l’immagine di Dio in cui il conoscitore, il conosciuto e la conoscenza
sono uno: uno in tre e tre in uno.
260 Elisabeth Haich

Ogni forma è la manifestazione della forza che l’ha causata, quin­


di ogni forma è l’immagine della forza creativa che l’ha costruita; é
che l’abita. Il Divino, nel suo stato originario che riposa in se stesso
si manifesta sempre sotto forma di triangolo, il quale porta in sé
lJaiTOohià perfetta, il perfetto equilibrio, giacché la distanza che sepa­
ra i tre vertici è sempre uguale. Invece, quando l’aspetto di Dio che
riposa in sé stesso esce dallo stato che è al di là del tempo, dello
spazio e delle dimensioni per entrare in quello tridimensionale e tra­
sformarsi in un aspetto creatore di Dio, si manifesta sempre nel nu­
mero quattro. Fintantoché i numeri uno e tre formano un’unità nella
divinità, restano tre in uno e uno in tre. Ma quando emergono dallo
stato di unità divina, si separano e, da “uno in tre” diventano “uno e
tre”, il che fa quattro. E triangolo equilatero contiene, nascosti in sé,
quattro triangoli equilateri.
Questa legge nasconde il segreto del numero-chiave del mondo a
tre dimensioni, il numero sette.
Tierca di im iD ap ^'cìM Ià'jiM m energia di manifestazione sia
uscita da uno stato senza dimensioni per entrare in quello tridimensio­
nale; chiudi gli occhi ed io proietterò questa verità nella tua coscien­
za.»
Obbedisco a Ptahhotep, e rivolgo l’attenzione all’intemo. D’un
tratto vedo un punto e odo la voce di Ptahhotep:
«Affinché una forza possa lasciare uno stato senza dimensioni e
manifestarsiwiia^bìseeao^di ^« punta dLpoKtenm:^. Il punto è senza
dimensione, non è ancora uscito dall’unità, ma è necessario alla mani­
festazione. Essendo composto da un unico fattóre, il punto porta in sé
il numero dell’unità, il numero uno.
Quando la forza, la cui prima manifestazione è stata il punto,
emerge dallo stato senza dimensioni ed agisce per un certo tempo, il
punto si muoverà diventando una/mea: —-----— .»
Vedo in me come il punto si trasforma a poco a poco in una linea
e Ptahhotep prosegue:
«La prima dimensione, la lunghezza, nasce così. In sé, la linea è
infinita e, quale prima manifestazione, è anch’essa rappresentata dal
numero uno. Ma nel mondo delle manifestazioni in cui tutto ha un
inizio e una fine, la linea comprende tre fattori: un punto di partenza,
un punto d’arrivo e la distanza fra i due. La linea porta dunque in sé il
numero tre, numero-chiave del mondo ad una dimensione.
Avrai certo notato che non esistono possibilità di manifestare o
ritrovare il numero due in una unità; perché, subito dopo la prima ma­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 261

nifestazione del punto che porta in sé un solo fattore, si trovano tre


elementi senza passare dal numero due. Quando dal punto emerge la
linea, per quanto breve, ti dà il numero tre. La linea all’infinito è e re­
sta il numero uno, ma quando ha un inizio ed una fine, porta automa­
ticamente in sé il numero tre.
E necessaria una scissione delVmiltà per dar luogo al numero due.
Il numero puolna^ere soltanto dalla contrapposizione di due uni­
tà; ma siccome nulla esistè al di fuori di essa, l’unità deve proiettare
al di fuori di sé un riflesso il cui risultato è una scissione, una separa1
ziorié che significa la sua morte. Ècco perché si parla di sdoppiamen­
to dell’anima, della personalità. In tutte le lingue, il numero due espri­
me questo stato!
Ed óra,“Vediamo come la seconda dimensione nasce dalla prima:
la linea è composta da una serie di punti, e supponendo che l’energia
creatrice agisca in ciascuno di essi con la stessa forza e per la stessa
durata, tutti quei punti usciranno da loro stessi per entrare nella se­
conda dimensione. Una linea nasce da ognuno di questi punti e l’in­
sieme di queste linee forma una superficie: un quadrato.
E nata quindi la seconda dimensione, la larghezza.
Il quadrato è quattro in uno e uno in quattro, quindi si compone di
cinque elementi: le quattro linee manifeste (linea di partenza, linea
terminale, linee laterali destra e sinistra) ed il quinto fattore, ossia la
superficie non manifesta, compresa fra queste linee. Il numero-chiave
del mondo a due dimensioni è il cinque.

Ma le forze creatrici continuano ad agire. Una superficie è compo­


sta anch’essa da punti, e se la stessa forza agisce da ognuno di questi
punti per uno stesso periodo, essi emergono nella terza dimensione,
ed il cubo nasce dalla superficie.
E ora nata la terza dimensione, l’altezza.
Il cubo è sei in uno e uno in sei’, si compone quindi di sette eie-
262 Elisabeth Haich

menti: le sei superfici manifeste ed 0 settimo elemento, non manife­


sto : il volume. Ì1 numero-chiave del mondo a tre dimensioni è il sette.
Colile puoi notare, il cubo è la forma di base della materia; i vari
cristalli seguono questa légge e trovi in essi la forma stessa del cubo,
(ad esempio nel sale) oppure gli elementi di base del cubo sotto vari
aspetti e varianti. Studiando le caratteristiche del cubo, comprenderai
le leggi delle varianti.
-Partendo da un vertice del cubo, cerca di trovare un piano in cui
tutte le dimensioni del cubo siano manifeste. Se ti limiti a tagliarlo in
due, otterrai soltanto una superficie, ossia due dimensioni; per ottene­
re un piano che comprenda le tre dimensioni dobbiamo tagliare il
cubo obliquamente, partendo da uno dei vertici e dirigendoci verso
due vertici opposti; così facendo, sezioniamo un angolo di cubo.

Se continuiamo a questo modo, tagliamo i quattro angoli del cubo


e, di esso, resterà una forma del tutto diversa: il tetraedro, composto
di quattro triangoli equilateri.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 263

Come vedi, il cubo nasconde una forma che dipende da leggi del
tutto diverse da quelle che reggono il cubo, giacché essa non si com­
pone di quadrati ma di triangoli. Se apriamo il tetraedro e appiattiamo
i triangoli, otteniamo un unico triangolo equilatero, che è la rappre­
sentazione simbolica di Dio.
Simile al triangolo equilatero che forma il suo guscio, il tetraedro
è Fincamazione deU’arindnia^énleirequilibrio. Siccome ognuno dei
vertici è ad uguale distanza dagli altri; non c’è in esso alcuna tensio­
ne, ma uno stato di ripòsò equilibrato. Invece i vertici del cubo, come
il vertice del quadrato, sono a distanze diverse gli uni dagli altri, il
che significa che esiste nel quadrato come nel cubo uno stato di
tensione che rimarrà sempre presente. La materia del mondo tridi­
mensionale viene edificata sulla forma del cubo, ma nasconde in sé
quella del tetraedro costruito sull’equilibrio divino. La materia non
può esistere senza il contenuto divino.
Il mondo tridimensionale intero è edificato secondo questa stessa
legge, sia che la forma di cui si parla si componga di materia “inani­
mata”, sia che si tratti di un essere vivente. Perché, che si tratti di un
minerale, di una pianta, di un animale o di un essere umano, tutti
hanno un corpo sottoposto alle leggi del mondo tridimensionale; ma
in questo corpo si trova, nascosto ed invisibile, il Sé superiore divino,
la vita, YESSERE eterno. Soltanto un uomo è capace di manifestare il
suo Sé superiore, e quindi Dio, tramite i suoi pensieri, le sue parole e
le sue azioni, qualora non identifichi la sua coscienza con il corpo ma
con il contenuto spirituale di esso, ovvero con il Sé. Fintantoché l’uo­
mo si identifica con il corpo materiale, è come un cubo opaco che ri­
vela soltanto le caratteristiche della materia, mantenendo il divino
Creatore allo stato latente, nel non-manifesto, senza mai lasciare in­
tendere d’essere abitato dal tetraedro, dal Sé divino, tanto diverso da
lui!
Ma colui che utilizza il proprio corpo, i pensieri, le parole e le
azioni unicamente per manifestare il divino-creatore, colui che dun­
que lascia nel non-manifesto le caratteristiche della propria esistenza
corporea - la sua persona - costui è un cubo sezionato, i cui angoli
sono rivolti verso l’esterno, il cui contenuto è visibile e, in tal modo,
mostra i propri triangoli interiori che sono i triangoli equilateri del
tetraedro divino.
La forma quadrata materiale rappresenta per lui soltanto la base
solida nel mondo tridimensionale, sulla quale egli poggia il suo peso.
264 Elisabeth Haich

Ora, la forma del cubo sezionato e rivoltato, è quella della pirami­


de. Lqjpimmide, è dunque la forma simbolica dell ’uomo-dio che rive­
la m propria natura divina e disinteressata, realizzando pienamente
Dio sulla Terra. La salvezza della Terra, la spiritualizzazione della mate­
ria si compie nella persona dell'uomo-dio. Il Sé divino, il creatore è se­
duto maestosamente sul proprio trono e regna sulla materia, sul corpo.
Invece la rappresentazione simbolica dell’uomo materiale che si
serve del proprio intelletto per soddisfare unicamente il proprio essere
fisico è formata dalla croce che compone le superfici del cubo: è su
questa croce, ossia sulla T, che il Sé divino nascosto è crocifisso.

In queste creature il divino è privo di autorità, non può manife­


starsi, e deve sottomettersi alle leggi del mondo materiale; è crocifis­
so sulle due grandi braccia del mondo a tre dimensioni, sullo spazio e
sul tempo, e muore su questa croce della materia.
Ma la sua morte non è definitiva! Perché persino in una coscienza
sprofondata al livello più basso, il Sé divino-creatore resusciterà e sal­
verà colui che soffre. Nella sua ignoranza l’uomo materiale crocifigge
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 265

il proprio Sé superiore, Dio in lui, e si prepara così ogni sorta di


tortura e di tormento, diventando il criminale crocifisso accanto al
divino crocifisso. Le sofferenze lo risvegliano, la sua coscienza supe­
riore si sveglia e, nella resurrezione del suo Sé divino, vive la propria
salvezza perché si riconosce in Luiì
I membri della razza divina che dovettero fuggire in tutte le dire­
zioni portarono con loro questi simboli, e ne spiegarono le verità
nascoste alFumanità. Ovunque, sulla Terra, si trovano queste stesse
immagini nella pietra, nel metallo, o in terracotta. Crederanno che
rappresentino una persona crocifissa, e ben pochi saranno in grado di
riconoscere il simbolo del principio creatore divino crocifisso sulle
due braccia del tempo e dello spazio.
Le piramidi saranno qui ancora per millenni, a proclamare ai figli
degli uomini le verità supreme che rappresentano; coloro che avranno
orecchi per intendere ed occhi per vedere, potranno trovarle e ricono­
scerle, senza tuttavia coglierne appieno tutte le leggi matematiche ed
astronomiche. Alcuni uomini più avanzati, comunque, ci riusciranno;
ma per l’essere primitivo, fintantoché non avrà risolto il proprio enig­
ma, la piramide resterà un eterno mistero, come la Sfinge.
Ma torniamo al cubo. Un attimo fa hai sezionato il cubo partendo
dal vertice per ottenere un piano che comprenda tutte le tre dimensio­
ni. In tal modo, hai potuto tagliare quattro angoli del cubo, ma, se
parti dagli altri vertici, potresti fare ancora quattro altri tagli, e vedre­
sti che il cubo non nasconde soltanto un tetraedro, ma due tetraedri
inclusi l’uno nell’altro, esattamente eguali tra loro. Questi due tetrae­
dri rappresentano la legge più intima del mondo visibile: la relazione
inseparabile fra le due metà complementari, la metà positiva e la metà
negativa che, l’una nell’altra, formano un perfetto equilibrio e che,
quali spiriti creatori, siedono alla destra e alla sinistra della divinità.
Nella creazione esse regnano come due leggi opposte: la legge dello
spirito e la legge della materia.
266 Elisabeth Haich

Lo spirito è la vita, la materia è la resistenza.


La legge dello spirito è l ’irraggiamento, il dono, l’atto disinteres­
sato.
La legge della materia è la contrazione, il raffreddamento, l ’indu­
rimento.
Soltanto l’essere umano ha la facoltà di incarnare coscientemente
queste due leggi; egli è il ponte fra il mondo spirituale ed il mondo
materiale, e può vivere contemporaneamente sotto le leggi di entram­
bi. I suoi pensieri, le sue parole, le sue azioni possono irradiare
l’amore disinteressato, l’amore universale; in questo caso dà. Tutta­
via, il suo corpo fa parte del mondo materiale, e vive secondo queste
leggi. Qualsiasi legge che agisca al suo posto e al momento opportu­
no è divina, il contrario è satanico.
Nessuna creazione sarebbe possibile senza la resistenza della ma­
teria. Nella divinità non manifesta, tutte le forze creatrici riposano
ancora nell’unità, in perfetta armonia e perfetto equilibrio, e rappre­
sentano soltanto le possibilità potenziali dell’energia. La creazione
comincia quando una forza si separa dall’unità, opponendosi al crea­
tore in qualità di resistenza. Il primogenito di Dio è lo spirito di
resistenza che il Padre proietta fuori da Sé perché agisca nella storia
quale polo negativo e opposto a Lui, perché sopporti le frequenze
della creazione e vi opponga resistenza, affinché la creazione sia resa
possibile. Grazie alle sue proprietà di contrazione, indurimento e raf­
freddamento, questo spirito di resistenza, polo opposto dell’aspetto di
Dio che si manifesta, è la causa originale della materia. Questo spirito
agisce come legge della materia.
Prendi in mano una pietra: la forza che ne fa una pietra e la
conserva tale, è la legge di resistenza che raffredda, contrae e induri­
sce ogni cosa. Fintantoché questa legge si manifesta nella materia e
come materia, allora è al suo posto, e quindi è divina. Ma la materia
morta diventa materia animata quando lo spirito divino, il Sé, si rive­
ste di materia diventando carne. Il Sé, la vita, penetra la materia mor­
ta e, dalla legge della materia, nasce uno spirito vivente: il riflesso del
Sé divino. Questo riflesso, che è diventato spirito vivente solo perché
Dio, quale Sé di ogni creatura ha insufflato la propria vita nella mate­
ria, è Satana. Satana, è dunque la legge della materia diventata viva
mediante lo spirito divino. Come legge della materia, Satana rimane
morto in essa finché lo spirito divino non lo anima con la sua propria
vita.
Quando la sua coscienza si identifica con la legge della materia,
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 267

quando il suo pensiero, le sue parole e i suoi atti non servono la legge
divina ma quella della materia, l ’uomo fa vivere Satana: l’uomo di­
venta satanico. Senza l’uomo, Satana non potrebbe esistere giacché
senza il Sé dell’uomo Satana è soltanto una forza priva di coscienza,
una legge necessaria della natura. Satana può diventare vivo soltanto
nella coscienza di colui che manifesta nello spirito la legge della
materia, della carne, identificando la propria coscienza con la sua
persona, con la sua natura inferiore, con i desideri del proprio corpo,
con i propri istinti di procreazione e di conservazione, manifestando
la forza contraente ed indurente della materia quale caratteristica spi­
rituale (ad esempio con l’avarizia, l’invidia, la vanità, la durezza di
cuore e di anima, l’egoismo). Nessuna creatura ha mai incontrato
Satana in persona perché, senza l’uomo, Satana non può esistere.
Senza l’uomo, Satana rimane legge della materia. È nell’uomo soltan­
to che si può incontrare Satana vivente; è nello sguardo di un uomo
che si può riconoscere Satana, neW espressione dei suoi occhi.
Quando, alla morte di una tale creatura, il Sé si ritira dal corpo,
Satana, ritornato ad essere legge della materia, rimane nel cadavere.
Era diventato Satana grazie alla forza vitalizzante del sé nella co­
scienza , ma la coscienza di colui che si era identificato con la legge
della materia e che quindi era diventato egli stesso satanico, muore
con Satana e resta inconscia dopo la morte. Satana la prende quale
schiava, l’attira a sé nella materia morta, nel buio, nell’incoscienza.
Invece, la coscienza dell’uomo che si è identificato con la legge
dello spirito divino e l’ha servita, rimane sveglia e all’erta dopo la
morte del corpo e, libera dalle catene dell’isolamento della materia, si
fonde nella luce eterna, in Dio.
I due tetraedri che si compenetrano mostrano i due poli della
creazione in uno stato di perfetto equilibrio. Tutto il creato, nell’uni-
verso dell’agitazione e del movimento, si basa su questo equilibrio
divino. E la legge più profonda di ogni forma, quindi anche quella
s

della cristallizzazione della materia. Come hai potuto constatare la


forma originale della materia (il cubo) è costruita intorno al tetraedro
divino; i triangoli che formano il tetraedro sono identici alle facce che
collegano i vertici del cubo. Anche l’uomo ha in sé una “faccia”, una
superficie di contatto con il proprio Sé divino, ed è proprio per questo
che può trovare la propria natura divina soltanto in se stesso, e mai
all’esterno.
In conformità alla legge divina, l’uomo che si volge verso l’ester­
no si vedrà imprigionato dietro sbarre sempre più spesse, finché, dopo
268 Elisabeth Haich

molte sofferenze e tormenti, troverà finalmente il Divino. Ed ora


vediamo le varianti dei cristalli che si formano sul cubo.
Prendi sei forme geometriche che abbiano l’aspetto di un tetto, il
cui piano di base corrisponda alla faccia del cubo. Poni queste sei
forme su ognuno dei quadrati del cubo, in modo che i loro lati diversi
siano adiacenti.

Ottieni così una forma geometrica chiamata dodecaedro, compo­


sta da dodici pentagoni uguali. Questo dodecaedro porta in sé altre
leggi del lungo cammino della coscienza.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 269

Vediamo ora come si presenta l’ultima forma possibile di cristallo


di questa serie: è un icosaedro composto da venti triangoli equilateri.
Partendo dal tetraedro possono svilupparsi quattro forme regolari di
cristalli formati da facce uguali: il tetraedro, il cubo, il dodecaedro e
l’icosaedro.

Soltanto sui triangoli, i quadrati e i pentagoni possono svilupparsi


forme regolari di cristalli. Dal triangolo: il tetraedro, l’ottaedro, l’ico­
saedro; dal quadrato, solo il cubo; dal pentagono, il dodecaedro.
Conosci tutte queste forme geometriche tranne l’ottaedro; un otta­
edro si costruisce tracciando tre linee di eguale lunghezza, ognuna
delle quali in una delle tre dimensioni, quindi in lunghezza, larghezza
e altezza, e con un angolo di 45° in modo che il punto di mezzo di
ogni linea sia identico. Se colleghi le estremità delle tre linee, ottieni
gli otto triangoli che formano l’ottaedro, che è quindi composto da
due piramidi sovrapposte, una delle quali rovesciata, ed aventi la base
in comune.
270 Elisabeth Haich

Ora, fai molta attenzione: se facciamo delle sezioni ad eguale


distanza passando attraverso ogni piano delle tre dimensioni, ottenia­
mo innumerevoli ottaedri. Eppure questi ottaedri non riempiono lo
spazio : ovunque, fra gli ottaedri, esattamente come airintemo del
cubo, rimangono dei tetraedri che sono al di fuori dalle superfici
tridimensionali. Puoi dividere lo spazio in tutti gli ottaedri che vuoi,
infinitamente grandi o infinitamente piccoli, ma troverai sempre i
tetraedri fuori dal piano delle tre dimensioni.

Lo spazio tridimensionale poggia dunque in ognuno dei suoi punti


sul tetraedro divino che rappresenta l’armonia e l’equilibrio assoluti.
E così che tutta la creazione manifesta si fonda, in ciascuno dei suoi
punti, sulla divinità che si trova al di là di ogni manifestazione e che
riposa in se stessa, non manifesta. Dio è onnipresente !
Ma ritorniamo alle forme geometriche compenetrate le une nelle
altre o sovrapposte: tetraedro, cubo, dodecaedro e icosaedro. Voglio
focalizzare la tua attenzione su altre leggi, su altre relazioni.
Se prendiamo la metà del numero delle facce di ogni forma geo­
metrica considerata (tetraedro, cubo, dodecaedro e icosaedro) ottenia­
mo i numeri 2, 3, 6 e 10. Se li moltiplichiamo fra loro arriviamo a 360
che è il numero di gradi del cerchio.
E se addizioniamo questi numeri, otteniamo 21, numero di tutte le
possibili giunzioni tra i sette fattori del numero-chiave del mondo a
tre dimensioni, il settei»
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 271

Ptahhotep tace. Resto lì, muta e stordita al suo cospetto.


«Puoi andare, piccola mia, per oggi è abbastanza. La prossima
volta parleremo delle quattro facce della piramide che contengono
altre verità ancora, molto utili se vorrai raggiungere una perfetta co­
noscenza del Sé.»
Mi inchino ed esco.
Ezechiele
Citazioni
I

4. Io guardavo, ed ecco un vento tempestoso avanzarsi da set­


tentrione, una grande nube che splendeva tutto intorno, un fuoco da
cui guizzavano bagliori, e nel centro, come lo splendore del bronzo
levigato, in mezzo al fuoco.
5. Nel mezzo apparve la figura di quattro animali, l’aspetto dei
quali aveva umana sembianza.
6. Ognuno di essi aveva quattro facce, e quattro ali.
10. Quanto ai volti delle loro facce, tutti avevano una faccia
d’uomo, tutti e quattro una faccia da leone a destra, tutti e quattro un
faccia da bue a sinistra, e tutti e quattro una faccia d’aquila.
12 Ognuno procedeva dritto davanti a sé; andavano dove lo spi­
rito li dirigeva e, muovendosi, non si voltavano indietro.
14. e gli animali andavano e tornavano come in un baleno.
15. Ora, guardando questi animali, vidi che sul terreno c’era ac­
canto ad ognuno di essi una ruota, davanti alle loro quattro facce.
16. Per l’aspetto e per la struttura, queste ruote sembravano di
crisolito, e tutte e quattro avevano la medesima forma; il loro aspetto
e la loro struttura erano tali che ogni ruota sembrava trovarsi in mez­
zo ad un’altra ruota.
17. Così, muovendosi, potevano andare nelle quattro direzioni,
senza mai voltarsi indietro nei loro movimenti.
18. Avevano una circonferenza e un’altezza terrificanti ed erano
costellate di occhi tutt’intomo.
20. Dovunque lo spirito li spingesse, essi andavano; e con essi si
alzavano le ruote, giacché lo spirito degli animali era nelle ruote.
22. Sopra alle teste degli animali, c’era come un cielo di cristallo
risplendente, che si estendeva al di sopra delle loro teste, verso l’alto.
26. Sopra al cielo che era sopra alle loro teste, c’era qualcosa di
simile ad una pietra di zaffiro, a forma di trono. E su quella forma di
trono appariva una sembianza umana che si ergeva sopra di esso.
27. Vidi ancora come del bronzo levigato, come un fuoco, dentro
al quale era l’uomo.
28. Simile all’arcobaleno, che appare nelle nubi in un giorno di
pioggia, era l’aspetto della luce splendente che lo circondava: era
un’immagine della gloria dell’Eterno. A quella vista, caddi bocconi.
CAPITOLO XXXV

I quattro volti di Dio

Rieccomi al cospetto di Ptahhotep.


«Oggi imparerai quali siano i quattro volti di Dio. Riconoscerli in
te ti aiuterà molto, moltissimo. I quattro volti di Dio appaiono in tutto
ciò che è stato creato; tutto il creato, ed anche tu, è edificato sui SUOI
quattro volti.
La vita nel mondo visibile, dagli enormi soli dei vari sistemi fino
agli esseri monocellulari, è soltanto una rotazione intorno e dentro i
quattro volti di Dio.
Sai già perché rappresentiamo con il triangolo equilatero la divini­
tà nel suo stato originale di ripòso in se stessa; Dio, nei suoi tre aspet­
ti, è uno in tre e tre in uno. Ma questo stato, come il triangolo equila­
tero porta in Sé in potenza il numerò quattro. Quando i tre aspetti del
numero originale uno si separano, quando passano dal non-manifesto
alla manifestazione, Y“uno in ire” diventa “uno e tre”. Così nasce il
numero quattro.

Guarda il triangolo equilatero: vedi in esso una unità soltanto che


consta di tre lati, di tre aspetti; eppure, essa contiene il numero quat­
tro nascosto e non manifesto, giacché ha la possibilità di suddividersi
in quattro triangoli.
274 Elisabeth Haich

Quando il triangolo passa dal non-manifesto nel mondo tridimen­


sionale, cioè nella manifestazione, diventa un tetraedro.
Come già hai visto, il tetraedro resta ancora nascosto (non manife­
sto) dentro al cubo, forma originale della prima manifestazione mate­
riale.
I quattro triangoli che formano le pareti del tetraedro sono le su­
peraci di contatto del divino con la materia, giacché sono identici alle
superfici interne degli angoli del cubo tagliati.
Se volgiamo verso l’esterno i triangoli del tetraedro servendoci
degli angoli del cubo (e manifestando così i triangoli del tetraedro)
otteniamo la forma della piramide i cui quattro lati sono contempora­
neamente i quattro triangoli del tetraedro volti verso l’esterno e ma­
nifesti e gli angoli tronchi del cubo volti verso l’esterno.

I quattro lati della piramide simbolizzano i quattro volti di Dio,


ognuno dei quali, a sua volta, è foriero dei tre aspetti della fonte
originale, della divinità che riposa in se stessa, al di sopra di ogni ma­
nifestazione. La piramide mostra una realtà viva, la legge in cui Dio
si manifesta sempre e dovunque nel mondo materiale, e di conse­
guenza vive in tutto ciò che è stato creato.
Da tutti i punti dell’universo, Dio si manifesta in quadruplice
modo: irradia in modo diverso verso le quattro direzioni del cielo.
Queste correnti di energia che provengono da un’unica origine, e
che tuttavia sono così diverse, procedono tutte dall’unità paradisiaca.
Possiamo immaginarcele come quattro grandi fiumi che sgorgano dal
centro del paradiso, là dove si trovano l’albero della vita e l’albero
della conoscenza del bene e del male, e scorrono verso il mondo
esterno, in quattro direzioni.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia

Troverai questa quadruplice manifestazione in tutto ciò che è stato


creato: queste quattro caratteristiche sono particolarmente evidenti
nelle correnti d’aria, cioè nei venti: persino l’uomo più primitivo sa
che i venti soffiano da diverse direzioni, e che hanno effetti del tutto
opposti.
Il vento del nord è secco, freddo, ed ha la proprietà di calmare ed
intirizzire. In certe contrade, persino l’acqua diventa dura come pietra.
Il vento del sud porta il caldo, è corroborante, stimolante.
Il vento dell’est è fresco, rinfrescante, rinvigorente.
D vento dell’ovest porta con sé il caldo umido, che ricade sotto
forma di pioggia in molti paesi. Stanca, addormenta.
Tutto questo lo sai, ogni bambino è in grado di notare le differen­
ze dei quattro venti principali, ma ti sei mai chiesta come sia possibile
che, anche venendo dallo stesso luogo della Terra, dallo stesso punto,
i venti possano avere effetti esattamente opposti a seconda della dire­
zione in cui soffiano? Ad esempio: se qui dove siamo, ove l’aria è
così gradevolmente tiepida, dovesse levarsi un vento verso sud, per i
paesi che si trovano più a sud del nostro si tratterebbe naturalmente di
un vento dal nord, che porterebbe loro fresco, un po’ di freddo e che
avrebbe un effetto calmante sulle creature. Se invece un vento si
levasse da qui (nello stesso posto del vento di prima) ma soffiasse
verso nord, esso proverrebbe da sud per i paesi più a nord del nostro,
e porterebbe loro il caldo, un calore che stimolerebbe gli organi ses­
suali e aumenterebbe la forza di riproduzione negli esseri viventi.
Com’è possibile che, pur partendo dallo stesso punto, un vento sia
freddo e calmante da un lato, caldo e stimolante dall’altro, che possa
portare la pioggia da una parte e l’aridità dall’altra? Questo dipende
unicamente dalla direzione in cui soffia il vento.
E precisamente la legge dello spazio nota come i quattro volti di
Dio.
Il primo volto - il lato nord - è di juoco\ dispensa la vita, ed è per
questo che il ventò meridionale porta il caldo ed eccita gli esseri
viventi a procreare.
Il secondo, il volto dell’ovest, è d'aria-, è fresco, favorisce il mo­
vimento, ed è per questo che il vento orientale è rinvigorente, rinfre­
scante.
D terzo volto di Dio, il lato est, è umido, bagnato, tiepido. Tutto è
pesante, inerte, ed è per questo che il vento da ovest porta il caldo,
l’umidità, le precipitazioni ed addormenta gli esseri viventi. La loro
coscienza si rinchiude nel corpo.
276 Elisabeth Haich

Infine, il quarto, il volto del sud, è freddo: ha un effetto contraen­


te, materializzante, cristallizzante, ed è per questo che il vento del
nord porta il freddo e calma i nervi.
La prima manifestazione, la più importante dei quattro volti di
Dio, è quella del fuoco perché gli effetti degli altri volti dipendono da
essa. Il genere di fuoco determina se farà caldo, freddo, tiepido, fre­
sco, ed è così che il volto di fuoco di Dio è il padre degli altri volti.
Dalla sua radianza nascono gli altri stati specifici: il caldo ed il secco
producono lo stato gassoso dell’aria; il fresco e l’umido lo stato liqui­
do dell’acqua; il freddo, lo stato duro della terra.
Questa legge agisce su tutto il pianeta, in ogni albero, in ogni
pianta; ad esempio, in ogni casa la facciata esposta a sud (da cui
vengono le correnti del volto del nord di Dio) è calda, ed è qui che le
piante prosperano di più; la facciata nord è fredda, la facciata est è
secca e la facciata ovest è umida. Quando, dalla piramide, provochia­
mo la caduta della pioggia, questa raggiunge tutti gli edifici da ovest.
Questo quadruplo spirito non si limita ai venti più importanti, ma
è presente in tutto ciò che è stato creato. Osserva il tronco di un
albero: il lato nord, che riceve la radianza del volto sud e freddo di
Dio, è sempre ricoperto di muschio. Ti sei mai chiesta perché l’essere
umano ha solo un volto che guarda in avanti? Nella direzione del
nostro volto, noi siamo di fuoco e diamo, mentre di schiena, invece,
siamo freddi e prendiamo. I nostri arti si muovono in avanti, e possia­
mo irradiare la nostra forza di volontà soltanto nella direzione del
volto. E perché tutti gli animali si addormentano verso nord? Perché i
nidi e i formicai sono orientati in questo modo? L’animale non ragio­
na, non sa perché, ma istintivamente sente che da nord gli arrivano le
radiazioni calmanti e dal sud le radiazioni rivitalizzanti dispensatrici
di vita, eccitanti; sente che è meglio per la circolazione della corrente
vitale orientare il proprio habitat e dormire nella direzione nord-sud.
Ecco perché l’uomo che cerca il contatto con Dio mediante la
preghiera si volge verso nord o verso est, ma mai verso sud o ovest!
A nord e ad est trova energie che lo conducono alla spiritualizzazio­
ne, mentre a sud e ad ovest trova la stimolazione che mantiene la sua
coscienza vicina agli istinti sessuali.
Sappi che gli effetti della quadruplice radianza di Dio si manife­
stano in modo perfettamente identico nell’intero universo, ogni punto
del quale (quindi anche ogni punto della Terra) riceve ed emette
sempre la stessa radianza, in una stessa direzione. I quattro volti di
Dio non possono mai voltarsi né cambiare direzione; essi restano
Iniziazione: memorie di un 'Egizia 277

immutabili nella loro direzione prima.


Ovunque i membri della razza divina siano arrivati hanno inse­
gnato questa verità profonda ai figli degli uomini, e l’hanno fatto in
modo diverso a seconda delle peculiarità del popolo presso il quale si
trovavano. Qui, dove la razza umana è soprattutto incline alle forme
geometriche e coglie la verità tramite l’intelligenza, esprimiamo la
verità dei quattro volti di Dio sotto forma di piramide; ma ci sono
altri popoli, inclini soprattutto a percepire le verità divine come espe­
rienze spirituali, e quelli di noi che si sono trovati fra loro hanno
creato immense statue di pietra per rappresentare la divinità sotto for­
ma di un uomo seduto su base triangolare, la cui testa presenta un
volto in ognuna delle quattro direzioni.
Queste due rappresentazioni spiegano una stéssa legge: quando il
divino-creatore esce dal non-manifesto al di là del tempo e dello
"spazio per entrare nel mondo tridimensionale e diventa materia, si
manifesta nel numero quattro, pur conservando i suoi tre aspetti. La
forma della piramide lo indica chiaramente, giacché sulla base del
quadrato ognuno dei suoi quattro lati forma un triangolo, i tre aspetti
di Dio. La piramide manifesta dunque quattro volte tre: il numero do­
dici. E questo ci conduce ad un’altra verità.

Come si vede nella rappresentazione simbolica a forma di pirami­


de, ognuno dei quattro volti di Dio porta in sé i tre aspetti divini.
Questo dà una manifestazione moltiplicata per dodici, presente ed
agente in tutto ed in ogni punto dell’universo, nell’essere monocellu­
lare che vive sui pianeti come nei pianeti stessi, nei sistemi solari e
negli altri sistemi dell’universo intero, come piccoli cerchi in cerchi
più grandi, a loro volta contenuti in cerchi ancora maggiori e così via,
I quattro volti di Brahma — Angkor-Thom Bayon, India
Iniziazione: memorie di un 'Egizia 279

fino all’infinito. Se dunque conosci uno di questi cerchi, comprendi


non soltanto la struttura di tutto l’universo, ma anche quella di ogni
essere vivente. Perché tutto l’universo visibile è basato su questa
manifestazione divina moltiplicata per'dodici. '
Prima di procedere oltre, bisógna che tu sia cosciente del fatto che
tutto ciò che noi esseri umani percepiamo dal nostro punto di vista
personale (e quindi dall’esterno, servendoci dei nostri organi senso­
riali) è esattamente opposto, rovesciato rispetto a ciò che è allo stato
divino. Qualsiasi cosa tu guardi dall’esterno, dall’alto o dal basso, da
davanti o da dietro, da destra o da sinistra, questa cosa si capovolge,
si inverte e diventa un perfetto contrario se invece di vederla tu diven­
ti quella cosa. Quando guardi una cosa, hai una relazione dualistica
concessa: l’osservatore e la cosa guardata formano due poli. Ma quan­
do tu sei qualcosa^ allora sei in uno stato monistico, sei nell’unità di­
vina. Prendiamo l’esempio della lettera “E”: in che direzione va que­
sta lettera?»
«Da sinistra a destra, Padre.»
«Bene. Ora, disegna questa lettera sul tuo petto per essere tu stes­
sa questa lettera “E”. Sei dunque in uno stato di unità, in uno stato
d’ESSERE con questa lettera. Ed ora, in quale direzione va?»
«Da destra a sinistra, Padre» dico.
«Dunque, esattamente nella direzione opposta. Vieni, ti mostro
ancora qualcosa.»

Ptahhotep mi conduce sotto due grosse tavole circolari che, sospe­


se al soffitto, fungono da lampade. Su ognuna di esse sono state
tracciate dodici immagini identiche, ma in direzione ed in sequenza
opposte. Su una, le immagini hanno il capo volto all’interno, sull’al­
280 Elisabeth Haich

tra le stesse immagini volgono il capo verso l’esterno, verso la circon­


ferenza. E la sequenza da destra a sinistra sull’una, è esattamente
riportata al contrario sull’altra.
Ptahhotep mi conduce verso il primo cerchio e mi chiede:
«Quando vedi le immagini di questo cerchio correttamente, cioè
con la testa verso l’alto?»
«Sempre, e da qualsiasi lato, Padre.»
Ptahhotep mi conduce verso il secondo cerchio e mi chiede:
«Come vedi queste immagini?»
«Hanno tutte la testa verso il basso, diversamente dal primo cer­
chio, e sono messe nella sequenza inversa.»
«E adesso, cerca di trovare un luogo da cui tu possa vedere queste
immagini nella posizione e nella sequenza corretta.»
Esamino le figure e, giacché voglio vederle “come si deve”, cioè
con la testa verso l’alto, involontariamente faccio un passo avanti
ponendomi sotto al cerchio, esattamente al suo centro... e d’un tratto,
ecco che tutte le figure si rovesciano! Ora, hanno tutte la testa verso
l’alto e si susseguono correttamente. Giro su me stessa, pur restando
al centro... tutte le figure sono giuste. Ma, non appena mi allontano
dal centro anche di un solo passo, eccole di nuovo tutte rovesciate!
Tomo al centro e faccio, in me, assolutamente cosciente e commossa,
l’esperienza dello stato d ’ESSERE... comprendo cosa significa... ne
sono profondamente scossa.
Ptahhotep sorride nel vedermi in quello stato:
«Ora capisci perché ciò che è personale è sempre il contrario di
ciò che è divinol Capisci perché la scrittura umana va da sinistra a
destra mentre la scrittura divina va da destra a sinistrai»
«Sì, Padre della mia anima, capisco» dico, balbettando nell’eccita­
zione.
Ptahhotep prende la mia mano nella sua - la forza straordinaria
che ne emana mi calma immediatamente - e mi conduce davanti ad
una grande lavagna sulla quale vedo varie forme geometriche:
«E dall’universo, dalla direzione delle varie costellazioni che ci
circondano come una ruota, che la Terra riceve la radiazione e la
forza moltiplicata per dodici dei quattro volti di Dio. Questa ruota,
formata da costellazioni, è chiamata zodiaco, ed è alle radiazioni
dello zodiaco che la Terra deve la propria esistenza. Queste vibrazio­
ni si incontrano in un punto preciso deH’universo, causando un’inter­
ferenza nelle onde di energia ed una condensazione, una materializza­
zione. E, a poco a poco, ne è nata la Terra. D sole ha avuto un molo
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 281

importantissimo in questo processo, sicché la Terra è cresciuta nel


campo della sua energia, diventandone un satellite. Riceve l’energia
vitale del sole ma è costantemente sottoposta alle radiazioni zodiacali
e a quelle degli altri pianeti del nostro sistema colare. Come tutti i
corpi celesti, la Terra rappresenta la materializzazione di tutte queste
diverse radiazioni; ecco perché, ad ogni gradino della creazione, vi
si trova una forza di materializzazione che manifesta in modo parti­
colare l ’energia della grande ruota cosmica corrispondente. Sulla
nostra Terra esistono quindi radiazioni materializzate di ogni costella­
zione dello zodiaco e di ogni pianeta: in tutte le formazioni rocciose,
nei metalli, delle piante, negli animali e negli esseri umani. Il nome di
ogni segno zodiacale indica la forza terrestre che ne rappresenta la
materializzazione. Se per esempio vedi un leone, sai che è, fra gli
animali, la materializzazione della radiazione del segno zodiacale che
chiamiamo “Leone”. Ma esistono anche metalli, piante e uomini che
sono composti della stessa energia, ovviamente a livello di metallo, di
vegetale e di uomo.
Giacché il nome di ogni segno zodiacale è contemporaneamente il
nome della forma creata dalla radiazione materializzata di ogni segno,
tale nome naturalmente è il più adatto ad esprimere perfettamente e
in una sola parola il carattere della radiazione di quel segno.
I quattro volti di Dio nella volta celeste e, nello stato d’ESSERE
divino - e quindi i quattro punti cardinali - sono:
LEONE
fuoco
/N

AQUILA TORO
SCORPIONE DIO terra
acqua

\K
ACQUARIO
aria
282 Elisabeth Haich

Ogni volto di Dio, ogni punto cardinale della volta celeste, contie­
ne in sé i tre aspetti della divinità non manifesta, ed è così che sono
nate le quattro volte tre manifestazioni, cioè i dodici segni zodiacali:

LEONE Bilancia Gemelli


I
Triangolo
di fuoco

ACQUARIO

Cancro Vergine
IV
Triangolo di terra
TORO

Capricorno

I tre aspetti di fuoco del primo volto di Dio (il primo gruppo) si
manifestano nelle tre costellazioni chiamate Ariete, Leone e Sagitta­
rio.
II Leone è la prima manifestazione di Dio, e di conseguenza è il
capostipite di tutto lo zodiaco. Ecco perché le tre manifestazioni del
primo volto di Dio hanno un carattere paterno, dispensatore di vita.
L’Ariete irradia il fuoco della gioventù, la forza di procreazione
del giovane padre che penetra il cuore della natura, risveglia una
nuova vita e la mette in moto. L’Ariete è la forza della primavera che
agisce in modo focoso e senza riflettere, proprio come l’ariete.
Il Leone è il fuoco dell’uomo rispettabile e nobile d’animo, giunto
a perfetta maturità, il fuoco del padre che irradia la propria forza
creatrice, il suo amore e il suo calore su tutti i suoi figli, permettendo
loro di svilupparsi sotto la sua egida. Il Leone è la forza deli’estate.
Iniziazione: memorie di un’Egizia 283

LEONE
Vergine Cancro

Bilancia Gemelli

AQUILA TORO
SCORPIONE

Sagittario Ariete
Capricorno Pesci
ACQUARIO

I quattro volti di Dio nello stato d’ESSERE divino

Il Centauro o Sagittario è colui che ha dominato la propria natura


animalesca, che ha vinto i suoi desideri fìsici e dirige la propria
coscienza verso uno scopo elevato. La sua radiazione è il fuoco dello
spirito, del padre maturo e saggio che, grazie alla sua spiritualità,
grazie ai suoi pensieri positivi ed ai suoi buoni consigli, aiuta i propri
figli ormai adulti. Il Centauro o Sagittario è il fuoco spirituale del
pensiero, la forza dell’età, Vinverno.
I tre aspetti del secondo gruppo, il volto di terra e materiale di
Dio, sono: il Toro, la Vergine e il Capricorno. Le tre manifestazioni
di questo volto rivelano un carattere materno.
Fra gli animali, il toro, in primavera, pascola in una verde prateria
e tutta la natura si orna come una fidanzata per il giorno del matrimo­
nio, pronta a ricevere tutta la forza creatrice del giovane sposo. La
radiazione del segno zodiacale del Toro consente alla Terra di riceve­
re l’energia del fuoco della vita, e di far sì che essa vi metta radici,
dando al seme divino la possibilità di incarnarsi in un corpo materia­
le. La radiazione del Toro permette al Sé divino, al principio creatore
284 Elisabeth Haich

(Logos) di diventare carne. Il Toro risveglia l’aspetto femminile della


materia, la fidanzata, e il suo potere di concepire, la sua disponibilità
ad essere fecondata. Il Toro rappresenta l’aspetto della madre futura
che attende l’atto di fecondazione.
La Vergine è la regina immacolata del cielo, la madre divina della
natura, mai toccata da un maschio, eppure incinta di miriadi di esseri
che nascono dal suo corpo divino. L’energia della costellazione della
Vergine è la fertilità della natura. Ecco perché viene rappresentata
sotto la forma di una donna che ha in mano una spiga a cinque semi.
Nel mondo mistico, la Vergine è l’anima umana lavata da ogni impu­
rità, che ha ricevuto il seme divino dello spirito di Dio, e attende il
bambino divino, nel quale si fonderanno in perfetta unità i due princi­
pi divino e materiale. La Vergine rappresenta l’aspetto materno della
gravidanza, dell’attesa del bambino, della maternità imminente.
Il terzo aspetto del volto di terra di Dio è il Capricorno. Il capro
vive nelle regioni più materiali e più dure della terra, fra le rocce. La
forza centripeta della legge della materia fa sì che questa raggiunga la
sua durezza massima e si cristallizzi: nel cristallo la materia trionfa
sulla sua opacità originale, diventando completamente trasparente; la
materia lascia trasparire le forme geometriche prime della forza crea­
trice. Un bambino rappresenta anch’egli la forma condensata e cri­
stallizzata dell’energia divina creatrice della vita, ed è proprio me­
diante la legge della materia, mediante la forza di concentrazione
centripeta e comprimente, che si compie nell’anima dell’uomo la rea­
lizzazione del Sé divino, è proprio così che nasce il bambino divino:
la coscienza di sé. Finché l’uomo continua ad identificarsi con i pro­
pri istinti fisici, è come una stalla abitata dagli animali: ed è in questa
stalla, tra i vari animali, che deve nascere il bambino divino, la co­
scienza divina di sé. Questo può accadere grazie all’energia di con­
centrazione del Capricorno: la concentrazione è l’unica strada che
riconduce l’uomo all’unità, al paradiso perduto, ed è per questo che la
nascita del bambino divino viene celebrata quando il sole si trova
nella costellazione del Capricorno. La radiazione di questo centro di
energia aiuta il divino a manifestarsi e a realizzarsi appieno nella e at­
traverso la materia, nel corpo. Il Capricorno è l’aspetto materno del
parto.
I tre aspetti del terzo gruppo, il volto d'aria di Dio, sono: i Ge­
melli, la Bilancia e l’Acquario. Lo stato gassoso che risulta da queste
tre radiazioni produce il movimento, ed è per questo che queste tre
costellazioni favoriscono la manifestazione di forze che richiedono il
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 285

movimento, una mobilità libera e completa. Esse sono di natura spiri­


tuale.
I Gemelli portano in sé le due metà dell’albero della conoscenza
del bene e del male. La loro radianza agisce in due direzioni, inducen­
do a guardare a destra e a sinistra per ammassare la conoscenza.
Simile ai rami di un albero, quest’energia agisce in varie direzioni; gli
uomini vanno cercando il sapere lungo le più diverse strade, vogliono
moltiplicare le loro esperienze, vedere tutto, sentire tutto, imparare
tutto: la forza irradiata dai Gemelli si traduce nel bisogno di imparare.
La radiazione della Bilancia obbliga all’equilibrio. Le esperienze
fatte vengono pesate e valutate, dopodiché ciò che ha valore viene
trattenuto e il resto rifiutato. L’effetto della Bilancia dà armonia, svi­
luppa la facoltà di discernimento e riconduce all’equilibrio le forze
divergenti dei Gemelli. La costellazione della Bilancia irradia la legge
dell’equilibrio e della giustizia nel mondo tridimensionale ed è quella
manifestazione della conoscenza che crea la legge.
UAcquario irradia la conoscenza ammassata nei Gemelli, valutata
nella Bilancia e, qualora sia stata giudicata valida, tradotta in legge.
L’energia irradiata da questa costellazione non tollera alcun ostacolo
e non conosce limiti: l’Acquario dà e trasferisce i suoi tesori agli altri,
versa instancabilmente l’acqua di vita le cui onde penetrano i mondi
più lontani. Queste onde sono le frequenze elevate e rivitalizzanti
dello spirito. L’Acquario è la manifestazione dello spirito libero da
ogni frontiera.
I tre aspetti del quarto gruppo, il volto d ’acqua di Dio, sono: il
Cancro, l’Aquila (Scorpione) e i Pesci. Le tre manifestazioni di que­
sto volto di Dio hanno un carattere psichico che si esprime nei e attra­
verso i sentimenti.
II segno del Cancro rappresenta 1’“acquetta” dei nidi dei granchi,
dove essi si rifugiano: dopo aver acchiappato la preda all’esterno, il
granchio si ritira nel nido per digerirla. La coscienza che si era volta
all’esterno per trovare il cibo spirituale si ritira in se stessa, digerisce
e trasforma la preda (le impressioni accumulate) in esperienze chiari­
ficate e organizzate. La forza irradiata dal Cancro si manifesta me­
diante la coscienza introspettiva del ricercatore che si autoanalizza.
La costellazione Scorpione-Aquila è la svolta importante nella
quale il verme strisciante si trasforma in aquila e vola in alto, libero,
quale essere risvegliato nella coscienza del Sé divino. Il verme, o
Scorpione, deve sacrificarsi per poter diventare Aquila, ed è per que­
sto che la costellazione ha un duplice nome: nello stato non ancora
286 Elisabeth Haich

riscattato è detta Scorpione, simile all’animale destinato ad uccidersi


con il suo stesso pungiglione, e nel suo stato di redenzione viene
chiamata Aquila, simbolo dell’anima libera che, come il falco divino
Horus, vola in alto, librandosi al di sopra della materia. La radiazione
di questa costellazione si rivela quale forza motrice, quale fuoco di
vita che si manifesta, qui, sotto forma di acqua - attraverso i fluidi
corporei. Quest’energia dà allo spirito la possibilità di rivestirsi di
materia per rinascere in un nuovo corpo, è il serpente originario della
tentazione, che attira lo spirito nella materia e ne causa la caduta fuori
dall’unità paradisiaca. Ma quando questa forza viene trasformata e,
invece di agire nella materia, agisce puramente nello spirito, allora i
desideri sessuali diventano la forza ascensionale che riconduce la
coscienza decaduta verso l’unità paradisiaca. Senza questa forza, nes­
suna coscienza uscita dall’unità potrà ritornare a Dioì L’acqua di
questa costellazione è come una palude in cui agiscono forze nascoste
allo stato di fermentazione, e sopra la quale danzano, senza bruciare
davvero, i fuochi fatui.
I Pesci vivono nell’oceano infinito. Sebbene talvolta salgano alla
superficie, subito si rituffano per scomparire nelle incommensurabili
profondità oceaniche. La natura autentica dell’uomo è simile all’oce­
ano: la coscienza è in superficie, ma la parte maggiore e più profonda
rimane nell’inconscio, ove si trovano le cause e le radici dei pensieri,
delle parole e delle azioni dell’uomo. Per contro, l’uomo liberato che
ha una perfetta conoscenza di Sé, e la cui coscienza ha riconosciuto e
realizzato il proprio Sé divino, non ha più né subconscio né supercon­
scio, quindi non ha inconscio.
Pienamente cosciente, egli nuota nelle profondità oceaniche illi­
mitate dell’Onnicoscienza divina. Ciò che era inconscio per l’uomo
ancora da redimere, è diventato per lui la casa, l’elemento di cui è
interamente cosciente. Le due manifestazioni del sesso, maschile e
femminile, godono con gioia di un’armonia perfetta nell’oceano,
come due pesci nell’acqua. La forza che agisce dalla costellazione dei
Pesci è la redenzione, il dissolversi di ciò che è personale in ciò che è
impersonale, nelle profondità del Sé illimitato, nell’unità divina e in­
divisibile, ESSERE tutto e uno.
La grande opera di redenzione viene compiuta da questa radiazio­
ne, la spiritualizzazione della materia è compiuta.
Come puoi vedere, i tre aspetti di ogni triangolo sono legati fra loro:
partendo dal piano materiale, progrediscono verso la spiritualizzazione.
Ma non esiste soltanto questa relazione fra i tre aspetti di ognuno
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 287

dei volti di Dio; i quattro triangoli sono in così stretto rapporto tra
loro che il loro centro è identico. Formano così il cerchio zodiacale di
dodici manifestazioni, in cui i vari aspetti dei quattro triangoli costitu­
iscono una serie perfettamente coerente di tappe nello sviluppo, il
progresso. C’è una terza relazione ancora, fra le varie costellazioni.
Quella tra due costellazioni opposte che sono reciprocamente com­
plementari. Vediamo dapprima la relazione tra le tappe di sviluppo.
La serie comincia naturalmente dalla costellazione d&WAriete,
giacché l’inizio di ogni espressione di vita, e anche l’inizio della
primavera, si trovano nell’Ariete. Ricordati che esistono due inizi di
primavera, l’uno assoluto, l’altro relativo. Ogni manifestazione -
quindi anche la Terra e tutte le sue creature- porta in sé l ’inizio
assoluto della primavera: questo è del tutto indipendente dal mondo
esterno. L’inizio relativo della primavera dipende dalla posizione
delle stelle in un dato momento. Ma i vari movimenti della Terra ne
fanno un punto instabile, giacché cambia continuamente di posizione.
Ma ritorneremo su questo argomento.
La sequenza delle costellazioni zodiacali è: Ariete, Toro, Gemelli,
Cancro, Leone, Vergine, Bilancia, Scorpione-Aquila, Centauro-Sagit­
tario, Capricorno, Acquario, Pesci.
Tutto ciò che si condensa sul piano della materia ed assume una
parvenza materiale, durante la propria vita percorre l’intera ruota zo­
diacale. La vita dell’uomo forma un grande periodo che si suddivide
in periodi più brevi (infanzia, gioventù, maturità, vecchiaia) i quali, a
loro volta, si scompongono in periodi ancora più brevi: anni, stagioni,
mesi, settimane e giorni.
Ogni periodo, sia esso di un giorno, di un anno o di tutta una vita,
percorre l’intero cerchio zodiacale. La nascita corrisponde all’Ariete,
dopo di che l’uomo passa attraverso tutte le costellazioni; raggiun­
gendo la maturità nel Leone e morendo nel segno dei Pesci. Lo stesso
avviene per il giorno: usciamo dal sonno per comparire in questo
mondo, poi il giorno si sviluppa raggiungendo la propria maturità a
mezzogiorno, che è anche il suo culmine; e poi declina, e dopo varie
trasformazioni giunge la sera, quando mettiamo a riposo il corpo.
Veniamo colti dal sonno, ritiriamo la coscienza nel Sé e ci addormen­
tiamo, proprio come facciamo alla fine della vita quando lasciamo
definitivamente il corpo. Ogni periodo ha un inizio, uno sviluppo, un
culmine, un declino e poi la dissoluzione.
Le caratteristiche principali dei vari segni zodiacali sono le seguenti:
L’Ariete fa sì che qualcosa appaia in questo mondo, che qualcosa
288 Elisabeth Haich

nasca. Questo è vero anche se l’ora della nascita non si situa in questo
segno! Giacché ogni nascita porta in sé, indipendentemente dal mon­
do esterno, e dunque dalle costellazioni, l’energia dell’inizio che
chiamiamo Ariete, sia all’esterno (nella volta celeste) che all’interno
di ogni essere, e che è la costellazione assoluta dell’Ariete in ogni
espressione della manifestazione. Così è per tutte le costellazioni, per
tutte le manifestazioni e tutti gli aspetti dei quattro volti di Dio. C’è
una manifestazione interiore assoluta ed una esteriore, relativa.
L’essere vivente, in seguito, deve mettere radici in un nuovo am­
biente, e lo fa grazie all’aiuto del Toro. L’essere nuovo assume il cibo
e lo assimila, sicché si stabilisce una relazione materiale in questo
mondo e viene garantito l’approvvigionamento del corpo.
La forza dei Gemelli spinge questo essere ad accumulare esperien­
ze, i suoi passi lo conducono in ogni direzione come i rami di un
albero, sicché acquisisce un sapere molto esteso.
Nel Cancro, eccolo rientrare in sé, digerendo le proprie esperienze
spirituali, mentre il suo nucleo interiore incomincia a prendere forma.
L’energia di fuoco e dispensatrice di vita del Leone ne fa un esse­
re maturo e degno; sboccia, sviluppando i suoi poteri e le sue facoltà
e svolge il suo compito terreno dando nascita ad una nuova genera­
zione, diventando padre di famiglia.
La Vergine porta il frutto e l’uomo immagazzina quanto ha rac­
colto dalla propria opera. Nella profondità dell’anima sua si sviluppo
il bambino divino: Vamore universale.
La Bilancia pesa i suoi atti smistandoli: quelli positivi a credito, e
quelli negativi a debito; la sua attenzione si volge sia verso le cose
materiali che verso quelle spirituali, giacché in lui si armonizzano in
un perfetto equilibrio. Realizza così la legge interiore divina, superio­
re a tutto ciò che è relativo.
Con lo Scorpione, l’uomo giunge ad una svolta della propria esi­
stenza: deve spiritualizzare la forza divina creatrice che si era espres­
sa fino a quel momento nei suoi desideri, e metterla al servizio della
comunità. Ciò significa che deve trionfare su se stesso. Vive, prova in
sé la morte mistica della propria persona, poi la resurrezione e l’im­
mortalità nello spirito. Da questo momento, smette di servire il mate­
rialismo: lassù, molto più in alto della Terra, in una perfetta libertà
spirituale, vola come uri Aquila, come il falco Horus.
Con la forza del Sagittario diventa un grande maestro, come il
centauro stesso, un essere che si eleva al di sopra del livello animale
ed utilizza il corpo solo più per raggiungere il più rapidamente possi­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 289

bile il grande scopo che già vede con precisione. I pensieri, come
lampi, illuminano le spesse nubi dell’oscurità e dell’ignoranza, e fa sì
che la nuova generazione possa beneficiare delle sue esperienze.
Nel Capricorno, il bambino divino (l’amore universale) nasce nel
suo cuore. Egli diventa identico al Sé divino e cosciente in sé. L’uo­
mo che rende visibile il bambino divino nato nel suo cuore, diventa
puro quanto il cristallo; Vamore universale si esprime attraverso le
sue parole ed i suoi atti.
Neli'Acquario, l’uomo distribuisce tutti i suoi tesori; è diventato il
bambino divino raggiante che si libra al di sopra della sessualità.
Raggiante egli stesso, è fonte della massima energia spirituale
divina. Il processo di trasformazione, di smaterializzazione, comincia.
Nei Pesci, l’uomo fa l’esperienza della riunificazione con la pro­
pria metà complementare nascosta. Ciò significa, allora, disintegra­
zione della materia, ritorno a casa, nella patria celeste, nell’unità uni­
versale, in Dio. La sua coscienza scivola nella coscienza cosmica, ab­
bandona il corpo e termina così la sua vita terrena.
Ecco la via dell’uomo, anche se ancora non ha raggiunto i livelli
superiori di coscienza. I gradi di sviluppo possono essere diversi, ma
la sfera di sviluppo rimane la medesima.
Quanto alle costellazioni opposte, esse si completano in questo
modo: l’enorme forza propulsiva dell 'Ariete viene moderata dalla Bi­
lancia, grazie alla legge che controlla l’energia selvaggia e cieca
dell’Ariete e la guida verso la buona direzione.
L’energia della fidanzata che attende di essere fecondata, costella­
zione del Toro, completa e soddisfa gli istinti dello Scorpione.
La forza materna del Cancro che si ritira nella sua casa, completa
la radiazione cristallizzante, quella che genera la nascita, propria del
Capricorno. Il bambino neonato fa parte della famiglia.
La radiazione patema del Leone trova il suo complemento nella
forza del bambino de\YAcquario. Il padre sostiene, protegge ed educa
il bambino.
Nella costellazione dei Gemelli, il giovane avido di imparare rice­
ve l’insegnamento di cui è bramoso dal Centauro, il Sagittario.
Quanto alla Vergine celeste che porta il divino bambino nel suo
sacro seno, riceve il proprio nutrimento dal mondo mistico dei Pesci.
Ora conosci le radiazioni dei quattro volti di Dio nei diversi effetti
delle costellazioni, ma per capire bene la vita dell’universo e quella
delle migliaia di esseri viventi, ivi compresa la tua, devi sapere che il
cerchio delle manifestazioni con le dodici famiglie di energia rag­
290 Elisabeth Haich

giunge tutti i punti dell’universo e non dipende dalle costellazioni.


Dal momento che i quattro volti di Dio non possono mai volgersi
indietro, ogni costellazione emette varie radiazioni di energia nelle
varie direzioni celesti. La radiazione è dunque determinata dalla dire­
zione immutabile dei quattro volti.
Prendiamo come esempio la costellazione del Leone. Verso la
Terra, emette la radiazione caratteristica del Leone; ma, verso i corpi
celesti che si trovano nella direzione opposta, emette le radiazioni del-
l’Acquario. Verso ovest, quella dell'Aquila, verso est, quella del Toro',
verso nord-nord-ovest, quella della Vergine', verso ovest-nord-ovest,
quella della Bilancia, ecc.; in ogni direzione, una radiazione diversa!
Ora capisci che queste radiazioni non dipendono dal luogo e quin­
di non dipendono dal gruppo di stelle, ma esclusivamente dalla dire­
zione da cui provengono. Esattamente come il vento: le sue influenze
sono determinate una volta per tutte dalla direzione in cui soffia e non
dal luogo da cui proviene.
Nota ancora un fatto importantissimo: giacché ogni cosa materiale
si manifesta a partire dal proprio centro e, siccome i quattro volti di
Dio irradiano da ogni punto di una materia assolutamente uguale ed
immutabile, allora ogni cosa, sia un sole o un pianeta, una pianta, un
animale, un protozoo o un essere umano, si trova sempre al centro di due
ruote: al centro della grande ruota cosmica e, giacché tale centro è iden­
tico al centro della cosa o dell’individuo di cui si parla, al centro del
proprio essere non manifesto, ossia della propria ruota interiore.
Ognuno riceve le radiazioni della grande ruota cosmica dall’ester­
no e quelle della propria ruota dall’intemo.
Siamo identici alla posizione della Terra che è caduta dall’ESSE­
RE divino. La Terra non ha una posizione centrale nell’Universo, è
semplicemente un satellite del sole che ruota intorno ad esso ed intor­
no al proprio asse. Ecco perché vediamo tutto al contrario nell’uni­
verso, il contrario della realtà obiettiva, dello stato d’ESSERE divino.
Dalla Terra, sembra che sia la volta celeste, con tutti i suoi sistemi
solari, le stelle e i pianeti, a girarci intorno, mentre accade esattamen­
te il contrario. È la Terra a seguire il proprio corso determinato intor­
no al sole, e tutto il sistema solare segue un’orbita maggiore attorno
ad un sole cosmico il quale, con tutto il proprio sistema, ruota intorno
a sistemi sempre più grandi, fino all’infinito.
L’esistenza dei corpi celesti e dei sistemi cosmici è semplicemen­
te il moto dello sviluppo delle ruote dei quattro volti di Dio, nello
zodiaco. Ricorda ciò che sto per dirti: ogni forma creata, ovunque si
Iniziazione: memorie di un’Egizia 291

trovi nell’universo, porta in sé la grande ruota cosmica e la propria


piccola ruota, si tratti di un essere monocellulare, di una pianta, di
un animale, di un uomo o di un corpo celeste. Questo dovrebbe esser­
ti chiaro se hai capito che ogni punto dell’universo irradia la stessa
manifestazione moltiplicata per dodici dei quattro volti di Dio, senza
che mai essi possano cambiare di posizione. *
L’energia che riceviamo dalla grande ruota cosmica ci giunge
dall’esterno, ed è per questo che vediamo il cerchio al contrario,
riflesso esatto dello stato d’ESSERE divino.

La posizione della Terra rispetto ai quattro volti di Dio


che non possono mai voltarsi.
292 Elisabeth Haich

Vista dalla Terra, la volta celeste è in moto perpetuo, ed allo


stesso modo cambia anche la composizione delle radiazioni che ci
giungono dall’universo, dalle stelle innumerevoli che si muovo an-
ch’esse, di per sé, nella grande ruota cosmica.
Ogni forma creata, e quindi anche l’essere umano, possiede una
struttura energetica individuale, composta dalle stesse forze creatrici
che emanano dalle stelle nell’universo: nel momento della nascita, la
struttura delle energie nella piccola ruota zodiacale individuale è
identica a quella delle forze nella grande ruota zodiacale cosmica;
sappi dunque che una creatura vivente può nascere soltanto nel mo­
mento in cui le strutture energetiche nella ruota cosmica e nella
piccola ruota individuale concordano perfettamente.
Fino alla fine della sua vita, l’uomo è sottoposto a nuove impres­
sioni, a nuove influenze; con le esperienze che raccoglie lungo la
propria strada, la sua costellazione interiore cambia sensibilmente:
alcune forze si sviluppano, altre vengono rimosse, e questo dipende
dalle sue reazioni davanti alle proprie azioni e alle proprie esperienze.
La costellazione interiore dell'uomo al momento della morte è im­
pressa nella sua anima, la quale non può reincarnarsi prima che la
volta celeste, nel suo moto, ripresenti la medesima costellazione: que­
sto spiega perché certuni si reincarnino dopo un tempo relativamente
breve, mentre altri debbano attendere talvolta migliaia di anni, fintan­
toché la volta celeste presenterà la stessa costellazione della loro ani­
ma.
Tutte le creature che nascono ad ogni istante dell’etemità nel
mondo tridimensionale, hanno concluso la loro vita precedente sotto
la medesima costellazione che li vede venire al mondo nell’attuale
incarnazione. La costellazione della morte in un’incarnazione e la
costellazione della nascita nella seguente sono assolutamente identi­
che; invece, la costellazione della nascita e quella della morte in una
stessa vita non sono mai identiche, giacché le esperienze hanno cam-
biato e trasformato lq_ creatura in questione. Ma ogni creatura - com­
_ , --y,V ~ Ìr ~fi ’- ‘■ y- , •' ----- ' . ...

preso l’uomo - porta in sé e pef tutta la vita l’impronta della costella­


zione dell’istante della nascita: essa contiene la sua ruota individuale,
in cui i successivi cambiamenti di carattere sono già presenti, sebbene
nascosti. Così, se vuoi conoscere la costellazione interiore delle ener­
gie che hanno creato un essere vivente e che agiscono sulla sua ani­
ma, sul suo corpo e in tutto il suo essere e quindi sul suo destino, devi
calcolare la posizione della costellazione del momento della nascita.
Ma a causa del movimento perpetuo della volta celeste si produce
«Piccoli cerchi in cerchi sempre più grandi, fino all'infinito:
Particolare di un’illustrazione tibetana
294 Elisabeth Haich

in breve uno sfasamento fra la ruota cosmica e la ruota individuale.


Identici al momento della nascita, i centri di energia che irradiano
dalla ruota cosmica (le costellazioni, le stelle fisse ed i pianeti) e
quelli che agiscono nella ruota individuale si allontanano gli uni dagli
altri. In un secondo tempo, questi possono riavvicinarsi: ecco perché,
a volte, esistono nella vita periodi favorevoli, stimolanti ed armoniosi,
oppure periodi di tensione, di difficoltà. Il risultato è che gli individui
stessi rivelano talvolta caratteristiche positive ed armoniose, tal’altra
caratteristiche discordanti e negative; e siccome il destino di un indi­
viduo è il riflesso del suo carattere, nonché la conseguenza dei suoi
atti, la sua vita ben presto “girerà” bene o male.
Tutte le forme di vita sono sottoposte a queste forze, ma una sola
creatura ha la possibilità e la facoltà di dominare le energie e le
forze che agiscono nell’universo, in sé e nel suo destino, guidandole
a modo suo: l ’essere umano. Ma questo, soltanto se ne è cosciente, se
le ha riconosciute in sé e ha trionfato su di lorol
Ora, fintantoché non ha riconosciuto queste forze in sé, l’uomo è
alla loro mercé, come tutte le altre forme di vita incoscienti che sono
in contatto diretto con le energie creatrici e che vengono ciecamente
condotte da esse. Soltanto chi ha raggiunto la conoscenza di sé può
elevare la propria coscienza al di sopra di queste forze e, invece di
subirne l’azione, controllarle e trasformarle dentro di sé per trasmet­
terle sotto una forma del tutto diversa. Quando un uomo è in grado di
trasformare in sé queste energie, può modificare anche quelle che
agiscono sul suo destino, diventando così il signore della propria vita
e del proprio karma.
Ora capisci davvero perché è così importante, così assolutamente
necessario che tu riconosca in te, che tu impari a controllare la radia­
zione moltiplicata per dodici dei quattro volti di Dio. Quando tu
realizzerai davvero che soltanto il tuo corpo, ciò che vi è in te di
materiale, si compone di queste forze, ma che il tuo Sé divino è al di
sopra di tali energie ed ha la facoltà di controllarle, ritroverai il pote­
re di dominare queste enormi forze creatrici, potere che hai perso
quando ti sei incarnata nella materia. Potrai liberare il tuo Sé crocifis­
so sulle due grandi braccia del mondo tridimensionale, il tempo e lo
spazio, relegato nell’inconscio e sottoposto alle leggi della morte.
Potrai risvegliarlo dalla morte apparente e ristabilirlo sul trono. Que­
sto mistero della vita è simbolizzato dalla croce su cui viene crocefis­
sa la forma divina del secondo aspetto di Dio, il principio creatore
che si riveste di materia e che, nel corso della storia, acconsente al
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 295

supremo sacrificio di prendere su di sé le caratteristiche del mondo


materiale per animarlo e compiervi la grande opera: manifestare ap­
pieno lo spirito attraverso la materia, e quindi spiritualizzarla.»
CAPITOLO XXXVI

Le epoche del mondo


Eccomi ancora al Suo cospetto. Egli comincia:
«La Terra ed i suoi abitanti non sono ancora coscienti delle ener­
gie che ricevono dal cosmo e che li sostengono, di conseguenza non
possono né controllarle né trasformarle secondo le loro intenzioni. La
Terra riceve le radiazioni dal cosmo, è immersa costantemente in
quelle onde di energia, e tutto quanto avviene su questo pianeta è una
reazione in diretta risonanza con quelle vibrazioni.
Il sole aumenta e rinforza considerevolmente le vibrazioni della
costellazione in cui egli si trova e con la quale, in quel periodo,
irradia la propria energia sulla Terra. E a questo fenomeno che è le­
\

gata l’origine delle quattro stagioni.


I movimenti della Terra ci danno l’impressione che non soltanto
la volta celeste giri intorno a noi, ma che esegua anche altri sposta­
menti. Uno dei movimenti più importanti della Terra è quello del suo
asse che disegna un cono: una delle estremità dell’asse resta pratica-
mente nello stesso punto, mentre l’altra descrive un cerchio. Questo
movimento causa lo spostamento continuo del punto vernale nella
ruota cosmica (all’indietro, se visto dalla Terra).
II periodo necessario all’asse terrestre per compiere un movimen­
to conico (a cominciare dal punto vernale del cerchio zodiacale e,
dopo aver fatto tutto il giro, ritornando allo stesso punto) corrisponde
a 25920 anni terrestri, ed è chiamato “anno cosmico”. Dividendo tale
numero per dodici, otteniamo un mese cosmico di 2160 anni terrestri,
che rappresenta il periodo necessario al punto vernale per percorrere
tutto un segno zodiacale.
Le vibrazioni cosmiche hanno effetti tali sulla Terra da influenza­
re la storia mondiale: le idee-guida della religione, delle scienze e
delle arti sono influenzate dalle radiazioni della costellazione in cui si
Iniziazione: memorie di un’Egizia 297

trova il punto vernale durante un mese cosmico. Gli spiriti incarnati


sulla Terra - l’umanità - devono sempre adattarsi ad una nuova epoca,
realizzando le idee proprie di questo periodo.
Una nazione è un gruppo di spiriti, l’incamazione di certe concen­
trazioni di energia. Ogni epoca porta sulla Terra un gruppo di spiriti
diversi, un’altra razza che, quando ha compiuto il proprio compito,
ovvero realizzare le idee nuove e far fiorire una nuova cultura nello
spazio di un mese cosmico, scompare dalla Terra per continuare il
proprio sviluppo su un altro pianeta.
Ma, in ogni razza, si trovano sempre individui che non riescono a
superare gli esami nel tempo assegnato: costoro rimangono indietro e,
con grande fatica, debbono continuare la loro evoluzione sulla Terra.
Ecco perché una nazione declina bruscamente dopo essere giunta al
culmine della propria civiltà: agli antenati altamente colti e civilizzati
fanno seguito discendenti degenerati e deboli di carattere, sicché un
popolo, un tempo stimato e rispettato, a poco a poco si vede disprez­
zato, privo di ogni potere. I suoi discendenti sono lo scarto di una
nazione che, raggiunto il supremo grado di sviluppo terrestre, si è
spiritualizzata ed ha lasciato la Terra.
Il mondo materiale si è formato grazie alle interferenze manifesta­
tesi fra le radiazioni divine creatrici che attraversano lo spazio. Tali
interferenze hanno causato condensazioni, materializzazioni. Se i cor­
pi celesti ricevessero le vibrazioni pure ed originali dell’energia crea­
trice divina, tutta la materia si disintegrerebbe immediatamente. Le
stelle fisse - i soli - sono grandi trasformatori che convertono i raggi
creatori per tutti i corpi celesti, trasmettendoli ad una tensione ed in
frequenze che la Terra può sopportare. Le radiazioni trasformate ci
giungono dalle stelle fisse, che formano le costellazioni zodiacali,
così, quando vogliamo rappresentare la radiazione di energia divina
suprema, scegliamo la forma simbolica della costellazione la cui in­
fluenza sulla Terra è maggiore, quella “che determina l’epoca”, cioè
la costellazione in cui si trova in quel preciso istante il punto vernale.
Attualmente il punto vernale si trova all’inizio della costellazione
del Toro. Dio (Ptah) si rivela dunque a noi attraverso la radiazione di
questa costellazione, ed è per questo che la divinità che si manifesta
nell’atmosfera terrestre è rappresentata sotto forma di toro, il toro
divino Apis. La costellazione complementare è quella dello Scorpio­
ne-Aquila, rappresentata sia dal tentatore, il serpente che striscia sulla
terra, sia dall’uccello divino Horus. Tu sai che finché quest’energia
rimane legata alla terra e si esprime al livello inferiore, quello al
298 Elisabeth Haich

quale lo spirito è avvinghiato alla materia, essa è il serpente che


seduce l’uomo per attirarlo verso altre incarnazioni; invece, quando
questa forza è spiritualizzata, aiuta l’uomo a conoscere nel suo stesso
corpo il grado spirituale supremo. Il serpente che si rizza è il segno
dell’iniziazione, è il signore dell’albero della conoscenza e del sapere.
L’iniziato è un'aquila che vola molto in alto, che ha spiritualizzato il
serpente - i suoi desideri e i suoi bisogni istintivi - e lo manifesta
mediante il proprio intelletto come forza spirituale. L’iniziato è anche
10 strumento complementare della divinità che si manifesta attraverso
11 segno zodiacale del Toro. Ciò spiega perché i tori siano “animali
sacri” su tutta la Terra in questo periodo.
Ora capisci perché gli iniziati cambiano la rappresentazione di
Dio a seconda della costellazione in cui viene a cadere il punto verna­
le; ma al di là di tutti questi simboli, di tutte queste forme, c’è sempre
la causa prima non manifesta: la divinità che riposa in sé stessa.
La costellazione del Toro fa parte della tripla manifestazione nella
quale il volto di Dio agisce in modo materiale, legato alla terra, fa­
vorendo la concentrazione e l’indurimento. Ciò significa che per gli
attuali abitanti della Terra le forme più accessibili e più facili da
utilizzare sono soprattutto quelle che costituiscono la materia ed agi­
scono in essa. Il nostro compito consiste nel trionfare sulla materia
attraverso la materia, ovvero attraverso le energie che formano la
sua stessa natura. Ne utilizziamo le frequenze, queste forze nascoste
straordinariamente potenti che costituiscono lo spirito della materia,
per vincere la materia stessa: carichiamo la materia dell’Arca dell’Al­
leanza con tutta l’ottava di queste energie e così controlliamo le leggi
della materia, quindi le forze costruttive e distruttive, materializzanti
e smaterializzanti, compreso il peso che possiamo eliminare o aumen­
tare.
Verrà il giorno in cui tutte le nostre verità sbocceranno; poi, a
seguito di cambiamenti e movimenti ininterrotti, la Terra lascerà a
poco a poco le regioni del cosmo in cui lavorano le energie specifiche
della nostra epoca; a poco a poco alcune di queste forze diminuiranno
e poi cesseranno, sostituite da altre. L’effetto coniugato delle energie
che agiranno sulla Terra cambierà, il che vorrà dire anche che gli
individui che nasceranno saranno diversi. L’umanità si trasformerà a
poco a poco, non comprenderà più né le nostre verità né i simboli e le
parole con cui esprimiamo i misteri delle leggi del creato perderanno
ogni significato per essere solo più gusci vuoti, e questo per migliaia
di anni. L’umanità avrà altro da imparare, altre prove da sostenere.
L’iniziato manifesta il Sé superiore attraverso la sua stessa persona
e, nel suo spirito, è libero quanto il falco divino Horus.
Il falco Horus con il Faraone — Museo del Cairo
300 Elisabeth Haich

Già sai cosa accadrà quando l’ultimo gran sacerdote avrà iniziato
l’ultimo candidato degno di ricevere il nostro sapere: gli consegnerà
l’Arca dell’Alleanza ed un bastone della vita, poi si chiuderà con un
suo assistente nella grande piramide, ne bloccherà l’entrata dall’inter­
no con una roccia che corrisponderà esattamente all’apertura; smate­
rializzeranno tutti i nostri apparecchi ed i nostri strumenti, e si smate­
rializzeranno loro stessi allo scopo di proteggere i nostri segreti da
mani indegne. Allora l’ultimo iniziato, nato da una nazione il cui
compito sarà di creare e realizzare la nuova epoca, salverà l’Arca
dell’Alleanza e il suo bastone della vita, portandoli fuori dal Paese.
Proclamerà al suo popolo le idee della nuova epoca il cui punto
vernale si troverà nella costellazione dell 'Ariete che, con il suo segno
complementare, la Bilancia, eserciteranno in quei giorni la loro mas­
sima influenza.
Vieni, piccola mia, ti poserò una mano sul capo e avrai visioni del
futuro.»
Ptahhotep mi conduce verso un letto sul quale i neofiti si esercita­
no, sotto la sua guida, a muovere liberamente la loro coscienza nel
tempo, ossia a dedicarsi coscientemente a ricerche sul passato o sul
futuro, per vivere entrambi come se fossero istanti presenti.
Ptahhotep mi dice di distendermi e non appena mi appoggia una
mano sulla fronte, sento il ronzio ed il pizzicore familiare nella testa.
Subito appaiono immagini che, nel linguaggio simbolico dei sogni,
mi mostrano il senso degli eventi di un futuro lontano.
Vedo la sala dei ricevimenti di un Faraone, una sala sconosciuta,
proprio come il Faraone, che non è un iniziato come mio padre ma la
cui radianza tradisce un livello inferiore; vedo due magnifiche figure
di nobile aspetto davanti a lui: due fratelli, uomini belli e fieri. Rico­
nosco dalla radianza che uno è un iniziato, mentre l’altro è un abile
parlatore, molto intelligente. L’iniziato tace mentre suo fratello tenta,
con le parole, di convincere il Faraone a lasciar andare il loro popolo
ridotto in schiavitù al servizio del sovrano. I due fratelli desiderano
condurre il popolo fuori dal Paese ma il Faraone dal cuore duro
rifiuta, vuole miracoli; allora l’abile parlatore lancia ai piedi del Fara­
one il bastone che tiene in mano, e questo si trasforma in serpente e
comincia a strisciare. Il Faraone fa chiamare i suoi maghi per dare
una risposta ai due uomini, ed anche questi lanciano i loro bastoni che
si trasformano in serpenti, ma il rettile del giovane ingoia tutti quelli
dei maghi.
Interpreto la visione: il bastone rappresenta l’intelletto che è un
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 301

aiuto considerevole, ma quando questo serve soltanto interessi mate­


riali, diventa un serpente che striscia sulla terra, che incita l’uomo
all’egoismo e si trasforma in astuzia. I due uomini nobili combattono
per il loro popolo, sono assolutamente disinteressati e, fra le loro
mani, l’astuzia diventa saggezza, e riduce a zero tutti gli argomenti
egoisti dei maghi servili.
La visione cambia. La sorte si accanisce ancora di più sugli Egi­
ziani, sempre più empi ed egoisti. Eppure il Faraone continua a rifiu­
tare la libertà al popolo schiavo; ecco che allora si abbatte la peggiore
delle piaghe: una notte, tutti i primogeniti - in casa del Faraone come
nelle case del popolo e fra gli animali - verranno uccisi dagli angeli di
Dio. Soltanto coloro che avranno mangiato la carne d ell’agnello e,
col suo sangue, scritto il loro nome sulla porta, saranno risparmiati
dagli angeli.
Che significa questo simbolo? Nella prossima epoca le costella­
zioni à&WAriete e del suo complemento, la Bilancia, saranno domi­
nanti, ma durante il periodo in cui queste energie non regnano ancora
appieno, l’Ariete è soltanto un piccolo capro, ossia un agnello. Un
popolo si riunisce attorno ad un iniziato; nel sangue di questo popolo
circolano energie che corrispondono alle radiazioni dell’Ariete. Sono
i precursori della nuova epoca, è il “popolo eletto” che proclamerà le
antiche verità sotto nuova forma.
Coloro che hanno compiuto la loro funzione durante l’epoca pre­
cedente debbono andarsene; gli angeli di Dio vengono a prenderli.
Poi, ancora un’altra visione: l’iniziato così potente conduce il suo
popolo fuori dall’Egitto. E siccome VAriete è un segno di fuoco, da­
vanti all’iniziato fluttua una specie di nuvola di fuoco per indicargli la
via, allontanando il popolo dall’oscurità spirituale che contrassegna
l’Egitto alla fine di questa epoca. Ma il Faraone rimpiange di aver
lasciato andare quella gente, nuovamente il suo cuore si indurisce ed
egli si precipita all’inseguimento con il suo esercito. Per difendere il
suo popolo, l’iniziato fa uso del bastone della vita: dirige frequenze di
ultra-materia contro il Faraone ed i suoi, aumentando considerevol­
mente la forza di attrazione terrestre. Improvvisamente il Faraone,
l’esercito, i carri e gli animali che li accompagnano diventano tanto
pesanti da affondare irrimediabilmente nel suolo, e siccome tutto que­
sto avviene in riva al mare, ecco che le onde li inghiottono.
Sono perplessa: non è l’effetto del bastone della vita che mi sor­
prende, ma gli animali; fra le truppe del Faraone ho visto animali
strani che tiravano i carri ed altri che erano cavalcati dai soldati. È un
302 Elisabeth Haich

animale simile alla zebra, più grande e di vari colori: bruni, bianchi,
grigi e persino neri. Non ho mai visto animali simili! Saranno forse i
quadrupedi di cui mi aveva parlato una volta Padre? Sono magnifici!
Ma le immagini cambiano: l’iniziato è “nel deserto” con il suo
popolo. È il periodo sempre difficile fra due epoche, giacché non
esiste una linea definita che le separi e scorrono l’una nell’altra, me­
scolandosi per un certo tempo. Ne risulta un periodo di transizione
durante il quale due costellazioni, quella dell’epoca vecchia e quella
dell’epoca nuova, agiscono l’una contro l’altra, anche se in modo
ridotto. Le idee acquisite non soddisfano più la nuova generazione, ed
i vecchi non riescono più ad adattarsi ad assimilare le nuove idee. La
maggior parte del popolo si ostina a conservare dei modi di vedere
ormai sclerotici, ossia le idee della costellazione del Toro che tuttavia
non agisce più con la foga del toro adulto; è indebolito, è solo più un
piccolo toro, un vitello. Nel linguaggio simbolico dei sogni, lo spirito
è sempre rappresentato dall’oro e, nella mia visione, vedo che il po­
polo dell’iniziato danza intorno al vitello d ’oro e l ’adora.
Nel frattempo l’iniziato si trova “sulla montagna” e parla “faccia a
faccia con Dio”. Si trova nello stato di coscienza supremo, identico a
Dio. E il recipiente della volontà divina, e deve proclamare al suo
popolo le nuove idee sotto forma di due simboli religiosi: l’agnello
del sacrificio, simbolo della costellazione deWAriete, e le due tavole
della legge con i dieci comandamenti, simbolo della costellazione
complementare, la Bilancia.
L’agnello del sacrificio è il Sé divino che, nella materia, si fa cro­
cifiggere sulle due grandi braccia del mondo tridimensionale, ij tempo
e lo spazio, offrendo la propria vita per spiritualizzare la Terra e sal­
varla.
Le due tavole della legge che, nel nostro Tempio, sono poste sulla
testa del falco sacro Horus, simbolo del Sé divino, del principio crea­
tore che attraversa lo spazio, rappresentano la struttura interna del Sé
che si rivela nell’anima sotto forma di leggi morali.
Tali verità divine resteranno per più di duemila anni le idee-guida,
i simboli religiosi di quel popolo.
Quando l’iniziato porta le tavole della legge e constata che il suo
popolo adora il vitello d’oro, spezza le due tavole con rabbia e chiede
a Dio di punire il popolo disobbediente. Allora cadono dal cielo pic­
coli serpenti velenosi - simboli della tentazione, del serpente del desi­
derio e degli istinti fisici della costellazione dello Scorpione - che
mordono tutti coloro che hanno adorato il vitello d’oro. La sofferenza
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 303

è grande, e l’iniziato ha pietà del suo popolo: in mezzo al campo alza


due grandi travi a forma di T, e vi pone un serpente di rame con la te-
sta rivolta verso l ’alto. E la rappresentazione simbolica dell’albero
della conoscenza e del sapere, l’albero del serpente. Il serpente -
diretto non più verso il basso ma verso l’alto - non è più il tentatore
che tende trappole agli uomini nel loro corpo, ma diventa il simbolo
della saggezza suprema che riconduce l’uomo verso l’unità, verso
Dio. Tutti gli ammalati che posano lo sguardo su questo serpente di
rame ritrovano immediatamente la salute.
Ed io capisco: gli uomini che non possono e non vogliono adattar­
si alle idee di una nuova epoca diventano psichicamente malati. Non
trovano più posto fra i loro simili, e subiscono gravi conflitti spirituali
che possono guarire soltanto se l’uomo viene ricondotto al suo pro­
prio centro, là dove si erge l’albero del serpente. Non appena guarda
l’albero - senza mangiarne i frutti - egli riconosce le verità divine
senza sfruttarle a proprio beneficio, e guarisce: la saggezza e l’onni­
scienza disinteressata guariscono tutte le malattie dell’anima.
Il futuro continua a rivelarsi: il grande iniziato conduce il suo
popolo alla soglia della nuova epoca: fino alla terra promessa. Poi
scala una montagna da cui non ritornerà: il suo corpo non sarà mai
ritrovato. Io so che si è smaterializzato come gli ultimi gran sacerdoti
hanno fatto nella piramide con tutti i loro strumenti.
Il popolo eletto, il cui compito è realizzare le idee della nuova
epoca, continua le sue peregrinazioni conservando gelosamente la
saggezza e l’insegnamento segreto del suo maestro. Ma l’Arca del-
l’Alleanza, a poco a poco, perde la sua forza magica, e non ci sono
più iniziati per ricaricarla con il bastone della vita...
Trascorre un mese cosmico, e l’asse della Terra si è spostato di un
dodicesimo lungo la sua traiettoria conica. Il punto vernale scivola
lentamente verso la costellazione dei Pesci e comincia una nuova
epoca di agitazione: gli uomini non riconoscono più la verità nelle
vecchie idee consunte e convenzionali, e sono simili ad un gregge
senza pastore. In questo periodo di transizione, un Avatar - un figlio
di Dio - nascerà per diventare il maestro di questa nuova epoca, con
10 scopo di compiere la missione suprema, il più grande mistero della
creazione: far soggiornare Dio incarnato sulla Terra.
Questo figlio di Dio è il riflesso terreno dell’agnello del sacrificio;
perché, così come il Sé cosmico divino si sacrifica prendendo su di sé
11 fardello della materia del mondo tridimensionale e sopportando
l’eterna crocifissione sulle due braccia del tempo e dello spazio , que­
304 Elisabeth Haich

sto figlio di Dio che, nel suo corpo umano, manifesta appieno il Sé
divino, deve sopportare la vendetta dello spirito della materia ed ac­
cettare la morte inflittagli dagli ignoranti.
Colui che, nella sua coscienza, si identifica al corpo, vive nelle
tenebre ed è simile ad una stalla abitata da diversi animali, i desideri
ed i bisogni istintivi fìsici. Ma una notte, in questa stalla ed in questa
oscurità, nasce il bambino divino: la coscienza di Sé. Due tipi di esse­
ri riconoscono il bambino divino e si prosternano davanti a lui: i
semplici, illetterati ed ignoranti che non conoscono ancora il dubbio
seminato dall’intelletto, e che vivono in armonia con la natura, come
ad esempio i pastori; e coloro che sanno, gli iniziati che hanno già
percorso tutto il lungo cammino, tutta la scala dell’intelletto, trionfan­
do sulle astuzie di quest’ultimo e considerando le cose dall’interno,
come i Saggi venuti dall 'Oriente]
I simboli religiosi della nuova epoca sono i Pesci e la Vergine, ov­
vero le due costellazioni complementari. Il figlio di Dio sceglie chi
deve aiutarlo fra i pescatori, e paga la tassa che deve alla Terra con
una moneta che prende nella bocca di un “pesce”. Da queste due
costellazioni complementari egli trae l’insegnamento che trasmette
all’umanità, ma coloro che l’ascoltano hanno livelli di sviluppo molto
diversi: a coloro che sono già coscienti nello spirito, e che quindi
hanno raggiunto il quinto livello, il piano spirituale (le cinquemila
persone) egli dà tutto il suo insegnamento, i due pesci ed i cinque
pani, cioè i cinque semi di cereali che si trovano sulla spiga della
Vergine, nella sua rappresentazione simbolica.
Ma queste “cinquemila persone” che tuttavia sono già sveglie
nello spirito, non possono assimilare completamente le sue idee più
elevate: per questo non basterebbe tutta un’epoca! Del cibo che ha
distribuito restano ancora dodici ceste piene, e questo vuol dire che
l’umanità deve imparare a conoscere i misteri del Sé nella manifesta­
zione di ognuno dei segni zodiacali. E per comprendere tali verità e
realizzarle completamente, l’umanità ha bisogno di dodici periodi,
dunque di un anno cosmico, più di venticinquemila anni terrestri.
A coloro che non possono elevare la propria coscienza oltre il quarto
livello (i quattromila) il figlio di Dio non trasmette tutte le verità dei due
segni zodiacali, distribuendo loro “soltanto un po’” di pesce e cinque
pani. Non possono neanche assimilare quel “po’” del suo insegnamento,
e restano ancora sette ceste piene: gli uomini volti verso la materia devo­
no dapprima apprendere i misteri dei sette livelli, e soltanto dopo saran­
no abbastanza maturi per ricevere le verità cosmiche del Sé.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 305

La costellazione dei Pesci fa parte del triangolo d’acqua. Quindi,


durante quest’epoca l’umanità sarà messa alla prova attraverso Vac­
qua: vincere l ’acqua con l ’acqua. Davanti ai miei occhi sbalorditi
vedo una macchina con la quale gli uomini mettono al loro servizio
l’energia dell’acqua trasformata in vapore, e vedo battelli grandi
come città che attraversano l’oceano a grande velocità, anch’essi
azionati dal vapore; l’umanità ha superato l’esame: ha vinto l ’acqua
con l ’acqua.
L’acqua domina anche nella scienza medica, diventando un agen­
te terapeutico: vedo ovunque impianti balneari, luoghi di cura, vari
trattamenti per mezzo dell’acqua, bagni di mare, di fango, bagni caldi
e freddi, impacchi ed altri metodi curativi mediante l’acqua. Gli uo­
mini hanno riconosciuto i benefici effetti della rugiada e camminano
a piedi nudi nell’erba bagnata.
Verso la fine di quest’epoca, quando il punto vernale già si avvici­
na al segno seguente, VAcquario, gli uomini fanno scoperte tecniche
fondate sull’energia delle onde. È un segno precursore dell’era che si
presenta come l’epoca delle conquiste tecniche. La radiazione della
costellazione dell ’Acquario che non conosce alcuna frontiera e spazza
tutti gli ostacoli sulla sua strada, si rivela nelle idee, nei concetti
sociali delFumanità. Verso la fine dell’era dei Pesci, queste nuove
energie causano importanti rivelazioni là dove la gente reagisce più
intensamente a queste vibrazioni: vedo migliaia di persone apparte­
nenti alla classe dirigente in prigione, mentre uno spirito che possiede
le caratteristiche dell’epoca che viene, decapita innumerevoli persone
della classe superiore o le elimina in altro modo.
Una visione del tempo in cui le energie delVAcquario sono più
forti, mi mostra che il grande maestro di quest’epoca farà cadere le
frontiere fra le tre religioni principali. Con la sua stessa persona,
proverà che il nucleo di tutte le religioni è composto da un’unica
verità, il Dio solo ed unico. Il limite fra la religione e la scienza si
cancellerà, giacché gli uomini scopriranno che tutto, compresa la ma­
teria, è un movimento ondulatorio, e che fra le manifestazioni dello
spirito e quelle della materia esistono soltanto differenze di frequen­
za, perché tutto, nella sua essenza, è la manifestazione della fonte
originaria ed unica di tutte le energie: Din Tijttn ^ Qn^n come si vede
dalla rappresentazione simbolica della costellazione dt\Y Acquario:
un essere sopraterreno che versa l’acqua dalla brocca.
Le correnti spirituali sulla Terra attestano questo fenomeno; la
scienza scopre la “teoria ondulatoria” e vedo molte invenzioni basate
306 Elisabeth Haich

su questa teoria. Vedo immagini di persone, paesaggi ed oggetti rea­


lizzati grazie alle onde luminose, vedo apparecchi che emettono onde
che penetrano nella materia rivelandone la densità. Ci sono onde che
mostrano gli/elementi di cui si compongono i pianeti e le stelle, onde
elettriche, onde sonore, onde luce e onde degli odori. La scienza
medica ha smesso di curare con l’acqua, sostituita dalle onde. Vengo­
no usate onde di ogni tipo per guarire, dagli infrarossi agli ultravioletti,
onde corte, onde e frequenze sempre più corte, sempre più penetranti...
La costellazione dell ’Acquario fa parte del volto d’aria di Dio.
L’umanità vince Varia con l ’aria, ovvero con energie che proven­
gono dalla materia trasformata allo stato gassoso. Osservo che gli
uomini sono passati dalla macchina a vapore ad una macchina aziona­
ta da un gas, e i miei occhi sbalorditi vedono immense cavallette
costruite dall’uomo che volano molto in alto, nella pancia delle quali
prendono posto molte persone! Queste macchine sono azionate dal
gas. L ’aria controlla l ’aria...
Attraverso il segno complementare dell’Acquario, il Leone, gli
uomini riconoscono la massima manifestazione di Dio sulla Terra: il
sole - il grande RA - è di nuovo considerato come fonte prima di ogni
manifestazione di energia terrestre. Gli uomini sono ritornati ad ado­
rare il sole, ma non nel senso religioso del termine. L’influenza del
Leone si rivela ancora ad un altro livello: l’effetto dell ’Acquario abo­
lisce tutte le frontiere. Ma questa assenza di limiti, senza un punto
centrale condensatore, significa malattie mentali, morte spirituale, e
creerebbe nelle masse incoscienti una destabilizzazione mentale ge­
neralizzata, l’anarchia ed un caos distruttore se non vi fosse l’azione
del segno complementare, il Leone, per cui lo spirito di dominazione
si concentra in determinate persone che diventano dittatori e guidano
le masse.
Sempre durante quest’epoca l’umanità sviluppa le comunicazioni
con gli altri pianeti: le barriere e l’isolamento della Terra nel cosmo
scompaiono così come vengono abolite le frontiere fra i Paesi. Tutta
l’umanità è governata da un punto centrale: “una stalla, un pastore”.
Le ruote continuano a girare instancabilmente, e la Terra si trova
ormai alle soglie di una nuova epoca, nel campo d’influenza della
costellazione del Capricorno e della costellazione complementare, il
Cancro.
L’attenzione degli uomini si volge nuovamente alla Terra: si ren­
dono conto che, sebbene il loro sapere sia grande, sanno ben poco
sulla loro madre, la terra madre; per quest’epoca il loro compito sarà
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 307

dunque di vincere la terra con la terra, giacché la costellazione del


Capricorno fa parte del volto terrestre di Dio.
Costruiscono una macchina sullo stesso principio della nostra
Arca dell’Alleanza e con essa controllano il peso della materia, ossia
riescono ad eliminare gli effetti dell’attrazione terrestre con energie
opposte o ad aumentarli attraverso una radiazione ultra-materiale. Le
vie di comunicazione vengono scavate direttamente nella massa terre­
stre, nella profondità delle montagne, in linea retta, invece di seguire
un lungo percorso intorno alla Terra; questa macchina emette
un’energia che disintegra tutto ciò che trova davanti a sé, e le consen­
te di avanzare senza problemi. Dietro di sé emette energie che solidi­
ficano, induriscono la materia, riportando la terra alla sua condizione
prima. Gli uomini hanno vinto la materia con la materia, grazie alle
energie dell’ultra-materia. Ciò significa che possono penetrare nelle
viscere del pianeta e mettere al servizio dell’umanità le forze e le
enormi energie che ribollono all’intemo, compresi i vulcani.
Il segno complementare del Capricorno, il Cancro, ha una grande
influenza sulla vita spirituale degli uomini. Il grande maestro di que­
st’epoca svela all’umanità il mistero delle fonti di energia inestingui­
bili nascoste nell’anima umana, che conferiscono a colui che ne ha
trovato la chiave facoltà che gli ignoranti chiamano “soprannaturali”.
Vedo, su tutta la Terra, scuole pubbliche in cui i bambini imparano
già a controllare le loro facoltà superiori, come qui da noi accade
soltanto con i candidati al sacerdozio; la conoscenza si allarga in
cerchi sempre maggiori.
D’un tratto, le immagini svaniscono, e tomo in me. Sono sdraiata
sul letto, stordita da ciò che ho appena vissuto, queste visioni del
futuro. Ptahhotep è davanti a me, e non appena riprendo compieta-
mente i sensi, mi aiuta ad alzarmi.
«Come puoi vedere, piccola mia, gli abitanti della Terra ricevono
l’iniziazione a piccoli gruppi che diventano sempre più grandi, agen­
do gli uni sugli altri. Un uomo può riceve personalmente l’iniziazione
nell’ambito di una sola vita. Una nazione anch’essa può ricevere
l’iniziazione, a condizione che si elevi fino al gradino superiore dello
■sviluppo e compia il proprio lavoro sulla Terra. Poi, la Terra intera
raggiunge l’iniziazione, percorrendo il cerchio dei quattro volti di Dio
e facendo l’esperienza, passo dopo passo, di tutti gli stadi dell’inizia­
zione attraverso uno sviluppo sistematico, per giungere infine alla
propria spiritualizzazione, a liberarsi della materia. Ma questo richie­
derà molte epoche, che non sono esprimibili in misura terrestre. La
308 Elisabeth Haich

Terra dovrà percorrere ancora innumerevoli volte il cerchio dello zo­


diaco, un cammino infinitamente lungo di cui ti ho fatto vedere solo
un minuscolo tratto. La storia dell’umanità sulla Terra non è nata dal
caso: è importante che tu sappia che ogni passo dello sviluppo si fa
secondo la provvidenza divina, secondo un piano divino. Ma un
uomo può percorrere questo lungo cammino in una sola vita se con­
centra senza riserve tutta la propria volontà verso questo scopo.»
Ptahhotep mi benedice e congedandomi, mi dice:
«Toma domani, avrò qualcosa di molto importante da dirti.»
CAPITOLO xxxvn

Ultime preparazioni

Il giorno seguente, il tempo sembra non passare mai fino al mo­


mento in cui, finalmente, posso andare da Ptahhotep. Ho raggiunto un
tale auto-controllo che, anche se qualcosa mi tocca profondamente,
tengo sempre con fermezza le redini delle mie emozioni.
Perfettamente cosciente, osservo gli effetti che hanno sui miei
centri nervosi gli eventi esterni, e mi limito a rifiutare ai miei nervi il
permesso di agitarsi se questa è la mia volontà. Nel momento in cui la
reazione naturale si abbozza, la mia coscienza si erge fra questo feno­
meno ed i miei centri nervosi, e richiedo al sistema nervoso una
calma assoluta. Ma ora che Ptahhotep mi ha detto di avere qualcosa
di importante da comunicarmi, il cuore mi batte più in fretta ogni
volta che ci penso.
Finalmente viene la sera. Corro al Tempio poi, molto calma, entro
nella stanza da ricevimento. Ptahhotep mi riceve come al solito: il
nobile volto irradia un’indicibile serenità e non mi è possibile deci­
frarvi alcunché di speciale.
«Piccola mia, ora sei capace di controllare le facoltà della mente e
le forze naturali del corpo che hai reso coscienti. Ormai dipenderà
soltanto da te, dalla tua volontà, se dar libero corso ad un’energia
oppure no. Nella mente, nell’anima e nel corpo non sei più schiava
della natura, eppure devo sottolineare il fatto che la possibilità di
ritornare ad esserne schiava non è esclusa. Se lo vuoi coscientemen­
te , niente e nessuno potrà impedirti di conservare questa libertà spiri­
tuale o, al contrario, di ricadere sotto l’egida delle energie che emana­
no dal tuo stesso Sé. La volontà divina - quindi la legge - vuole che
ogni spirito goda di un completo libero arbitrio, e nessuno ha il diritto
di violare questa libertà. È dunque necessario che tu faccia attenzione,
e che eserciti un controllo costante su te stessa.
310 Elisabeth Haich

Sei matura per ricevere l’iniziazione. Ricordati che l’onniscienza


e l’onnipotenza che ti viene conferita dall’iniziazione comprendono
un’enorme parte di responsabilità: è dunque tempo, per te, di decidere
definitivamente se sei pronta a ricevere l’iniziazione e ad accettare
l’enorme responsabilità che ne deriva.
Resta a casa tua tre giorni, in assoluto silenzio. Se sei fermamente
decisa, al quarto giorno verrai, il giorno della luna nuova. Ti accom­
pagnerà tuo padre, affinché tu possa prepararti a ricevere le ultime
istruzioni.»
Vorrei dirgli che sono già ben decisa, e so che conosce la mia
determinazione, ma le regole debbono essere rispettate: mi inchino
profondamente davanti a Ptahhotep ed esco.
I tre giorni seguenti mi servono per congedarmi da tutto ciò che
mi lega ancora personalmente; so che, quando tornerò iniziata dal
Tempio, sarò un essere trasformato.
Vado ancora una volta in giardino dove, da piccola, passeggiavo
tra i fiori con mia madre: cerco tutti quei luoghi prediletti in cui ho
giocato e dove, più tardi, ho sognato la vita; ovunque, mi fermo un
attimo per congedarmi da un fiore, da un albero e nello stesso tempo
dalla bambina, dalla persona che un tempo era stata così felice in
questo luogo. In seguito vado dai pesci rossi che nuotano nella grande
vasca, i pesci che ho nutrito fin da quando ho imparato a camminare,
con la mia dolce madre, snella e vestita di bianco, che mi teneva per
mano perché non cadessi in acqua.
Ancora oggi sento la sua presenza eterica, sottile e bianca intorno
a me: rimaniamo profondamente legate l’una all’altra e so che, secon­
do le leggi della reincarnazione, mi aiuterà a oltrepassare la soglia fra
questo mondo e l’aldilà, così come mi ha aiutato a varcare la porta fra
l’aldilà e questo mondo.
Poi vado a trovare i leoni per congedarmi da essi: finché non sono
iniziata, non posso entrare nella loro cinta se non in presenza del
guardiano, ed oggi è l’ultima volta che mi deve accompagnare, giac­
ché l’iniziazione mi darà il potere su tutti gli animali e non avrò allora
più bisogno della sua protezione.
Qui, vivono soltanto i leoni della famiglia reale: c’è il magnifico
leone di mio padre che, durante le udienze, siede accanto a lui in
segno del suo potere sovrumano; poi i leoni che tirano il nostro carro
e, infine, i miei giovani leoni: Shu-Ghaar e Shima. Sono i figli del
leone di mio padre, da cui hanno preso l’intelligenza ed un’estrema
sensibilità. Sono due magnifici esemplari, e mi amano come se fossi
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 311

una leonessa. Specialmente Shu-Ghaar è talmente innamorato da di­


ventare geloso ed irritato se accarezzo anche Shima; devo stare atten­
ta che la sua passione non si trasformi in una crisi violenta di gelosia,
perché potrebbe essere pericolosissima! Appena entro Shu-Ghaar ac­
corre, e mi mette l’enorme testone sotto un braccio per mendicare una
carezza sulle orecchie, sul collo e sulla criniera. Come al solito, vuole
leccarmi il volto. Per non ferire la sua suscettibilità, devo dar prova di
grande diplomazia nel sottrarmi a questo segno d’amore: gli tendo
della carne calda e sanguinante e, mentre mangia, ne approfitto per
accarezzare Shima e dare anche a lui la sua porzione di carne.
La sera del terzo ed ultimo giorno, prima del tramonto, il carro dei
leoni conduce padre e me verso il Tempio. Come ordinato da
Ptahhotep, non devo parlare: ma anche senza questo suo ordine non
parleremmo perché ci comprendiamo senza bisogno di parole.
La verità è come un essere invisibile che si rivela soltanto perché
si riveste di abiti: se questi sono molti e ampi, allora abbiamo di essa
un’immagine incompleta e sfocata; meno è vestita, più gli abiti sono
aderenti, e più l’immagine della verità si precisa ai nostri occhi. Co­
munque, anche se l’abito ne rivela le forme, la verità resta coperta,
velata , e vediamo soltanto il suo abito, mai l ’essere invisibile.
Così è dunque la verità! Meno impieghiamo parole per esprimere
una verità, ossia meno la copriamo per renderla visibile, e più facil­
mente la riconosciamo. È proprio perché esprimiamo una verità con
le parole, rivestendola, che impediamo a noi stessi, contemporanea­
mente, di comprenderla, di vederla nella sua nudità e nella sua essen­
za reale. Per colui che non può leggere nello spirito altrui, le parole
sono l’unico mezzo di farsi comprendere e di comprendere gli altri,
ma questo non permette di vedere ciò che l’altro pensa né ciò che egli
vuol dire, bensì soltanto di comprendere delle paiole a questo propo­
sito. Padre ed io ci comprendiamo reciprocamente attraverso l’intui­
zione; allora, perché velare con le parole i nostri pensieri, la nostra
anima? Siamo semplicemente presenti, uno per l’altra, e godiamo
dell’unità dell’esistenza]
I leoni avanzano a grande velocità... rimaniamo in silenzio... sap­
piamo entrambi ciò che significano questi ultimi giorni.
Al mattino del grande giorno, di buon’ora mi congedo da Menu e
da Bo-Ghar. Menu è disperata, si direbbe che vada al mio funerale.
Ha presentimenti terribili e nefasti e non riesco a consolarla. Il picco­
lo Bo-Ghar, che non ha la minima idea di ciò che stia accadendo,
piange anche lui perché vede che sto andandomene e che Menu sta
312 Elisabeth Haich

piangendo. Quando mi chino a dargli un bacio, si getta ai miei piedi,


mi abbraccia le gambe e con tono serio e solenne mi dice dal profon­
do del cuore:
«Regina, o mia carissima Regina, non dimenticare mai il giura­
mento che ti faccio: se un pericolo dovesse minacciarti, ovunque tu
sia, in qualunque momento, io ti salverò! Anche se, per questo, do­
vessi andare dall’altra parte del pianeta! Non dimenticarti: Dio mi è
testimone. Ti salverò!»
Caro, piccolo Bo-Ghar! Vuole salvarmi! Ma da cosa vuole salvar­
mi? Se Ptahhotep mi giudica matura e degna di ricevere l’iniziazione,
quale pericolo potrebbe ancora minacciarmi? E perché aggiunge che
andrebbe dall’altra parte del pianeta per salvarmi? Abita qui con me,
come potrebbe andarsene tanto lontano? Ma non posso attardarmi più
a lungo ad esaminare il senso delle sue parole, perché è ora: li bacio
entrambi e raggiungo Padre nel suo appartamento.
Mi accoglie con un’aria seria e triste e dai suoi occhi vedo che è
profondamente assorto. Vede forse anche lui qualche evento funesto
nel mio futuro? Mi bacia, mi pone la mano destra sul capo e mi
benedice, dopodiché usciamo.
Ptahhotep ci attende nella sua stanzetta da ricevimento. Prima di
entrare, scorgo Ima in corridoio: il suo volto angelico è raggiante, gli
occhi ammiccano in un sorriso di incoraggiamento, dopodiché spari­
sce. So che nelle ore difficili delle prove il suo amore mi sostiene.
Padre mi conduce da Ptahhotep, mette la mia mano nella sua, ed
ancora una volta mi guarda teneramente, prima di lasciare la stanza.
«Piccola mia — comincia Ptahhotep — con oggi, si conclude un
grande ciclo della legge in cui si manifesta il tuo destino nel mondo
del tempo e dello spazio. Questo ciclo - il tuo percorso terrestre - è
stato determinato nel momento stesso in cui, per la prima volta, ti sei
separata dall’unità divina: è simile al boomerang che è stato lanciato
e che ha già, in sé, le forze che determinano il circuito e la distanza
che percorrerà, nonché il tempo che gli ci vorrà per ritornare al suo
punto di partenza.
Il tuo attuale carattere ed il tuo destino sono composti delle stesse
forze, entrambi sono il risultato delle cause e degli effetti, delle azioni
e delle reazioni, dei fatti e delle esperienze delle tue innumerevoli vite
attraverso le quali il Sé si è manifestato, che infine si sono cristalliz­
zati nella tua attuale personalità. Tale il carattere, tale il destino,
quindi tale è l’avvenire. Il Sé irradia le sue energie creatrici nell’in-
carnazione attraverso il filtro del carattere e queste energie creano, in
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 313

fondo all'anima, visioni oniriche che si proiettano verso l’esterno, nel


mondo materiale, manifestandosi sotto forma di “persona” e di “desti­
no”. In un essere giovane, il Sé irradia le stesse forze creatrici; tutta­
via, il fatto che esse facciano nascere visioni oniriche così diverse -
persone e destini così diversi - è la conseguenza delle varie influenze
a cui sono sottoposti gli uomini dal momento della caduta fuori dal­
l’unità paradisiaca.
Se queste proiezioni future del Sé ancora non materializzate (ma
che, nel profondo dell’anima, nell’inconscio, attendono di realizzarsi
sul piano materiale) diverranno davvero “realtà”, oppure se resteran­
no allo stato di “visioni oniriche”, questo dipende dal livello di co­
scienza con cui l ’uomo si identifica. Il “sogno” è una “realtà” nel
mondo delle energie, immateriale e creatore di immagini: anche ciò
che accade qui sulla Terra e che chiamiamo “realtà ” non è altro che
un sogno, una proiezione del Sé, con la differenza che questa agisce
sul livello materiale e si proietta nell’atmosfera della Terra. Il desti­
no è dunque una proiezione futura incarnata, un sogno materializzato.
Fintantoché l’uomo si lascia guidare dalla volontà del Sé (ossia
dalla volontà divina) sul piano materiale, nella cosiddetta “realtà”
avviene esattamente ciò che egli desidera coscientemente. Di conse­
guenza, è padrone del suo destino. Perché il Sé dell’uomo ha la facol­
tà, il potere, di disfare i sogni che, nell’inconscio, attendono di essere
realizzati, e di trasformarli in energia spirituale. Ma nel momento in
cui l’uomo non si identifica più con il Sé, bensì con le forze che ema­
nano dalla sua natura inferiore, dal corpo, e le riconosce come sue,
non accade più ciò che egli stesso desidera, bensì ciò che vuole il suo
corpo, sebbene egli sia persuaso che si tratti della sua volontà. Perde
il controllo della ruota del destino e si trova in balia delle energie
cieche del fato. In tal caso, “le sue visioni oniriche”, le sue proiezioni
non mancheranno di trasformarsi in eventi reali sul piano terrestre.
Durante l’iniziazione e prima di uscire dalla tua coscienza fisica
per risvegliarti alla coscienza cosmica divina del Tutto, le energie
che, secondo il tuo carattere, hai creato da tempo infinito mediante le
tue azioni ed i loro effetti, o reazioni, e che ora attendono nell’incon­
scio il momento di realizzarsi, simili a semi di eventi, appariranno
nella tua coscienza sotto forma di sogno. Non puoi distruggerle, giac­
ché la loro fonte è nelle forze creatrici, ma puoi evitare che tali
energie scendano a livello materiale e si incarnino se, con la coscien­
za, penetri fino al cuore della tua anima (laddove queste forze allo
stato latente aspettano il momento in cui le risveglierai alla vita) e se
314 Elisabeth Haich

vivrai per te questi sogni come se fossero realtà.


“Vivere, fare l’esperienza, provare” significa ritirare nella co­
scienza le forze che erano state proiettate all’esterno, e viverle come
stati di coscienza. Così, all'interno, si rilassa la tensione di queste
forze, le energie si indeboliscono, non agiscono più e vengono di­
strutte. Durante l’iniziazione vivrai dunque tutto il tuo destino sotto
forma di veri stati di coscienza, di visioni oniriche fuori dal tempo e
dallo spazio. Sarai allora liberata dalla tua “persona” e di conseguen­
za dal tuo destino personale. In seguito, vedrai il tuo corpo come
strumento impersonale di Dio, perché ogni iniziato ha il compito di
restare sulla Terra per liberare il resto delle “proiezioni” (delle perso­
ne) dalle catene della materia, da quella prigione che è il corpo, di
salvarle dagli artigli del destino cieco per aiutarle a raggiungere lo
stato di unità spirituale e divina, giacché tutto ciò che da questo stato
si è separato cadendo sul piano materiale, deve poter ritrovare la via
per il Giardino dell’Eden e rientrare nell’unità divina.
Ma se un iniziato prende la direzione opposta, ovvero se comincia
a crearsi realtà personali servendosi delle sue energie spirituali su­
periori, lavorando con le forze creatrici supreme ma penetrando ogni
cosa dalla sua coscienza personale, se dirige queste forze nel proprio
corpo, allora costui cade più in basso di qualsiasi uomo ordinario
che facesse la stessa cosa. L’uomo ordinario dirige nella materia sol­
tanto le forze che emanano dal suo essere materiale; vive, sperimenta
le forze fisiche nel suo corpo e questo non significa per lui caduta,
giacché manifesta queste energie sul livello stesso da cui provengono:
le forze materiali restano sul piano materiale.
Invece l’iniziato non lavora più con forze fisiche, e se dirige le
proprie energie spirituali elevate nel corpo, per lui significa una nuo­
va caduta. Più sono elevate le energie, più la caduta è vertiginosa.
Se vuoi ricevere l’iniziazione, devi ricordarti che ciò che può fare
impunemente un uomo ordinario a te non è permesso: in qualità di
iniziata smetti di irradiare forze umane e cominci ad irradiare e a
mettere in moto energie divine. Se dirigi queste energie nel tuo corpo,
bruci i tuoi centri nervosi e, come una cometa, sprofondi negli abissi.
Gli esercizi di preparazione ti hanno allenata a comprendere que­
ste verità, sicché puoi oggi rispondermi in piena coscienza: hai il
coraggio di accettare queste leggi, il pericolo e l’enorme responsabili­
tà, vuoi ricevere l’iniziazione o preferisci rinunciarvi per condurre in
porto la tua vita umana secondo le leggi del tuo ESSERE umano?»
Per un attimo resto muta, poi con tono serio e deciso, rispondo:
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 315

«Padre della mia anima, durante gli anni della preparazione ho


avuto il tempo di decidere tra la vita al Tempio e la vita mondana, e
in questi ultimi tre giorni mi sono concentrata ancora su questo punto.
Desidero ardentemente ritrovare lo stato originale divino. Ho preso la
mia decisione: Ti prego di darmi l’iniziazione.»
«E così sia, allora, e che Dio sia con te. Adesso, seguimi.»
Ptahhotep mi conduce in un’altra ala del Tempio, quella in cui
abitano i neofiti, e mi consegna al giovane sacerdote responsabile del
collegio che conosco di vista e che ci sta aspettando. Ptahhotep mi
dice:
«Ora preparerai il tuo corpo e la tua anima all’iniziazione e, nel
giorno della luna piena, verrai da me al tramonto.»
Ci inchiniamo ed Egli se ne va.
Il sacerdote mi conduce ad una piccola cella in cui trascorrerò da
sola i prossimi giorni, dedicandomi esclusivamente ad esercizi desti­
nati ad elevare di molto il livello di purezza dei miei pensieri, della
mia anima, del mio sangue ed anche del mio corpo. Quale allieva
della scuola dei neofiti, avevo dovuto sottopormi ad una dieta rigoro­
sissima per trasformare chimicamente tutte le cellule del corpo e svi­
luppare la forza di resistenza necessaria per sostenere vibrazioni sem­
pre più elevate. Ogni cambiamento chimico della materia ne modifica
anche la resistenza rispetto alle forze che l’attraversano. Ora, è tempo
che questo processo si concluda: mangio soltanto erbe e radici parti­
colari, masticandole con grande attenzione, giacché devo ingoiarne
soltanto il succo. Queste erbe, queste radici sono scelte per agire sugli
organi escretori; altre, invece, rinforzano il cuore ed i nervi affinché
tutto questo processo non indebolisca l’organismo.
Dopo pochi giorni già mi sento incredibilmente leggera, immate­
riale, e le mie facoltà di concentrazione spirituale si sono rinforzate al
punto che, per la prima volta in vita mia, penso davvero chiaramente
e comprendo le verità spirituali con perfetta acutezza. Un semplice
digiuno senza il sostegno delle erbe energetiche aiuta a raggiungere
un elevato livello di concentrazione, ma i nervi possono soffrirne
crudelmente perché, se il digiuno li rende ipersensibili, li indebolisce
molto. Dunque, queste erbe eliminano tutti gli svantaggi del digiuno.
Passano i giorni e giunge la luna piena. Assorta nelle mie rifles­
sioni mi reco da Ptahhotep, entrando nella sua camera nel preciso
istante in cui il sole scompare all’orizzonte.
«Seguimi» dice Ptahhotep precedendomi.
Mi conduce nel Tempio fino alla tavola del sacrificio; ci giriamo
316 Elisabeth Haich

intomo e ci fermiamo davanti al muro. Gli immensi blocchi di pietra


sono giustapposti con una precisione notevole di cui conosco la cau­
sa. Ptahhotep si mette davanti al blocco centrale; questo gira su se
stesso, aprendo un varco nel muro e rivelando una larga scala di
pietra. Cominciamo a scendere. Poi, un lungo corridoio. Il mio senso
di orientamento e la sensazione dei polmoni mi dicono che stiamo
scendendo sotto terra; è comunque stupefacente il fatto che non ci sia
traccia di muffa, né quell’odore tipico, anzi: c’è un’aria fresca, stimo­
lante e persino profumo di ozono. Questo lungo passaggio sotterraneo
ci conduce verso una nuova scala, e cominciamo a salire. Si susse­
guono passaggi a volte larghi e a volte stretti, attraversiamo stanze
piene di apparecchi sconosciuti e per me incomprensibili. Infine, ec­
coci giunti in una grande camera.
Tutti questi corridoi, questi passaggi, queste stanze sono illumina­
ti come in pieno giorno senza però che riesca a vedere la fonte di
luce. L’impressione, è che essa emani dalle pietre stesse. L’equipag­
giamento di questa sala è così misterioso che cattura tutta la mia
attenzione: la stanza è raggiante di luce, e in essa c’è qualcosa di
strano, di grande, a forma di prisma, che non mi sembra composto di
materia solida ma di una luce come concentrata, come solidificata. La
massa luminosa e inusuale illumina ampiamente questa stanza.
Un giorno, da un vasaio, avevo potuto guardare attraverso la fine­
strella di controllo del forno, ed avevo scorto diversi recipienti alline­
ati, scaldati al calor bianco, perfettamente trasparenti. Si potevano
vedere tutti, uno attraverso l’altro, e irradiavano luce. Qui, guardando
quest’immenso prisma luminoso che irradia una luce sorprendente,
ho la stessa impressione di allora. Sì, luce, ma non calorel
In questa stanza vedo altri oggetti sconosciuti composti di una
materia molto strana e dalle forme così sorprendenti che mi è impos­
sibile immaginare a cosa possano servire. Ma non è il momento di
contemplare gli impianti; la mia iniziazione e le esperienze che sto
per vivere accaparrano tutta la mia attenzione.
Ptahhotep mi conduce nell’angolino più nascosto della stanza, ac­
canto a un lungo blocco di pietra scavato che ricorda una bara e che
ancora non avevo notato. Mi dice:
«Fino ad ora hai sempre sentito parlare dell’iniziazione, di che co-
s ’è, ma mai di come si svolge.
Durante l’iniziazione, il corpo del candidato è sottoposto ad una
frequenza più elevata di quella che corrisponde al suo livello, affin­
ché la sua coscienza possa anch’essa risvegliarsi a quel grado elevato\
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 317

Solo colui che ha seguito una preparazione molto stretta può esse­
re iniziato a questo alto livello senza che ne consegua un danno, e
solo colui che può controllare il corpo con una volontà ferrea grazie
al suo intelletto e al suo ragionamento, può tollerare che i suoi nervi
sopportino vibrazioni superiori.
Sai già che un animale non può cambiare né il suo modo né le sue
condizioni di vita e che, di conseguenza, è incapace di sopportare
frequenze superiori alle sue. Ad esempio, se si conducesse nel corpo
di una scimmia la corrente corrispondente al corpo di un uomo, l’ani­
male soffrirebbe di crampi nervosi fino a morire per la scossa.
Invece, l’uomo può sopportare senza morire le vibrazioni dell’ot­
tava superiore ed adattarsi ad essa; così, un uomo ordinario con un
corpo abbastanza preparato, potrebbe sopportare senza danni le vibra­
zioni di un genio: ne avrebbe persino una gioia divina. Perché ogni
frequenza superiore, purché rimanga sopportabile, risveglia una sen­
sazione di grande gioia; poi però, si trasforma in una vera tortura,
giacché i nervi non possono reggere più a lungo questa tensione ec­
cessiva per loro.
Le vibrazioni inferiori alle proprie causano invece depressione,
paura e disperazione. Se, dopo aver fatto l’esperienza di quella gioia
divina, l’uomo conseguisse, con le sue proprie forze, con i suoi sforzi
ripetuti e il suo desiderio di ritrovare tale gioia, l’iniziazione al quinto
grado, i nervi e le cellule del suo corpo si agguerrirebbero, trasfor­
mandosi a poco a poco: si eleverebbe di un’ottava per diventare dav­
vero un genio, e vivrebbe alimentato da un costante flusso di intuizione.
Qualsiasi essere intuitivo conosce la sensazione di gioia legata ad
uno stato di coscienza intensificata; chi beve vino o fa uso di stimo­
lanti, ricerca quella stessa gioia, dovuta ad una maggiore tensione
nervosa. Ma il contraccolpo lo fa cadere sempre più in basso di
prima.
La grande iniziazione consiste nel condurre nel corpo tutte le cor­
renti di energia che corrispondono ai sette gradi di coscienza , a co­
minciare dal basso, e poi progredendo via via fino all’energia divina
creatrice suprema. Il candidato viene iniziato in tutte le energie: di­
venta cosciente su tutti i livelli. Il candidato, sopravvivendo alla pro­
va, dimostra di essere riuscito ad elevare la propria coscienza, e quin­
di anche la forza di resistenza del corpo fino al sesto grado. Se così
non fosse, sarebbe morto.
Durante l’iniziazione e grazie alle correnti di energia, il candidato
raggiunge il settimo livello divino, cosa che non potrebbe mai fare
318 Elisabeth Haich

con i propri mezzi. Infatti un essere umano, con i suoi soli sforzi, non
può raggiungere l’iniziazione al grado divino creatore. È qui, il gran­
de cambiamento: dal suo atteggiamento ancora negativo e “ricevente”
passa ad un atteggiamento positivo e “trasmittente”, “che dà”, ma per
questo ha bisogno di aiuto; a volte, certi candidati si preparano perfet­
tamente con i loro mezzi, e sono maturi per ricevere questa iniziazio­
ne al settimo grado; in tal caso, basta una semplice imposizione delle
mani per iniziarli alla coscienza di Sé cosmica divina, dalla quale non
usciranno mai più giacché hanno concluso il ciclo della coscienza
assoluta con tutte le esperienze necessarie, e resta loro solo l’ultimo
passo: riunire le due metà complementari già perfettamente coscienti.
Solo per questo hanno ancora bisogno di un aiuto esterno, dopodiché
vivranno perpetuamente in uno stato di coscienza divina.
Nel nostro Tempio, un candidato che non è ancora pienamente
sviluppato fino al settimo grado divino ha comunque la possibilità di
ricevere l’iniziazione se è già cosciente al sesto livello e se ha allena­
to sufficientemente il corpo. Questo aiuto esterno (l’iniziazione) apre
al candidato la via verso il Sé reale e permette alla sua coscienza di
innestarsi nella corrente delle forze divine per la durata dell’iniziazio­
ne. In seguito un iniziato di questo tipo non potrà mantenere conti­
nuamente lo stato divino di coscienza di Sé e ritornerà al suo stato
precedente ma, memore della gioia provata durante l’iniziazione, e
dal momento che la via verso Dio gli è stata aperta, avrà la possibilità
di raggiungere il settimo grado con le sue forze più in fretta e più
facilmente che se avesse percorso la lunga strada dell’esperienza ter­
rena e del progressivo risveglio della coscienza. L’iniziazione nel
Tempio è un aiuto che consente di condurre molte più persone a
quella gioia che è l’unione con il Sé divino.
Tuttavia, c’è il reale pericolo che la persona così iniziata non
sappia resistere alle tentazioni terrene prima di essersi elevata con i
propri mezzi al livello dell’uomo-dio, mentre senza iniziazione non
corre nessun pericolo.
Chi conclude il suo ciclo di vite dopo aver seguito la lunga via dei
mortali fino al grande scopo, fino al ritorno al Giardino dell’Eden,
avrà sperimentato tutto, e non ci sarà nulla che non le sia noto; rag­
giungerà il livello divino dopo aver accumulato le esperienze necessarie
ad ogni gradino, e cancellato a poco a poco la propria persona. Ma per
arrivare a quel punto, le sarà necessario tutto un periodo di creazione.
Tuttavia, la volontà divina vuole che la grande iniziazione nel
Tempio continui ad essere data, malgrado questo pericolo, ancora per
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 319

un certo tempo. Sono stai molti, e ancora saranno molti, coloro che
troveranno così la loro redenzione ed il cammino verso Dio. Ed i
pochi che cadono dopo l’iniziazione si reincarneranno più tardi, quan­
do l’umanità sarà abbandonata a se stessa; si ricorderanno allora delle
grandi verità vissute durante l’iniziazione e le proclameranno ai loro
prossimi attraverso i loro discorsi, per iscritto o attraverso le loro
azioni. Il mistero dell’iniziazione del Tempio sarà protetto ancora per
un po’, ma quando gli uomini guidati da idee materialistiche prende­
ranno sempre di più il potere sulla Terra, sigilleremo la piramide
dell’iniziazione dall’interno con blocchi di pietra e smaterializzeremo
la camera iniziatica. Il mistero dell’energia divina creatrice non deve
in alcun caso cadere fra le mani dei non-iniziati. Coloro che penetre­
ranno nella piramide fra migliaia di anni non troveranno nulla nelle
camere chiuse dall’interno, assolutamente nulla, neppure scheletri
umani.
Ancora oggi molti, sulla Terra, presentano le condizioni per rice­
vere la grande iniziazione: ecco perché è nostro dovere, dopo averli
avvertiti, darla a tutti i candidati che per tre volte la chiedono.
Nell’iniziazione, il candidato diventa coscienza ad ogni livello
della creazione. Tutte le parti inconsce della sua anima diventano
coscienti, non ha più né subconscio né superconscio. Durante l’inizia­
zione, la coscienza dell’iniziato diventa coscienza assoluta del Tutto.
Si compie il ciclo cominciato nel momento in cui, separandosi dal­
l’unità, egli era diventato cosciente nella materia, nel corpo: il candi­
dato si unisce coscientemente alla sua metà complementare che, fino
ad allora, era la parte inconscia della sua anima, un riflesso negativo,
un essere estraneo che, col suo potere d’attrazione si manifestava nel
corpo come forza motrice, facendo nascere l’agitazione ed una co­
stante nostalgia. La coscienza toma nell’unità, non c’è più nessuna
metà complementare giacché anche questa è stata resa cosciente.
Questa ri-unione è detta “matrimonio mistico”.
“Matrimonio” significa riunione del positivo e del negativo. Tut­
tavia, sulla Terra, è solo un vano tentativo di trovare nel corpo l’unità
con un altro essere. Il matrimonio spirituale mistico si svolge nella
coscienza e porta ad una realizzazione, ad un perfetto ed infinito
compimento. In effetti, la riunione con la propria metà complementa­
re significa: riunione con Dio. Ed il ciclo è compiuto!
Il corpo umano è concepito in modo da avere un centro nervoso
per ogni ottava di vibrazioni; da un lato questi centri nervosi sono
distributori che diffondono nel sistema nervoso le vibrazioni ricevute
320 Elisabeth Haich

dai centri superiori; dall’altro, sono trasformatori che passano le vi­


brazioni convertite al centro immediatamente inferiore.
Nell’uomo ordinario i trasformatori dei centri nervosi lavorano
automaticamente, inconsciamente, ed è per questo che non può con­
trollarsi. Infatti è sottomesso alle leggi della natura e non sa ciò che
accade nel suo corpo e neppure nella sua anima, nel suo inconscio.
Durante l’iniziazione, alimentato da un’elevata corrente di ener­
gia, il candidato deve fare l’esperienza cosciente dei sette centri ner­
vosi principali e delle energie corrispondenti; per cominciare, deve
far scendere la sua coscienza fino alla sfera inferiore della creazione
per vivervi le energie che la governano: deve controllarle, e questa è
la prima prova. Superatala, sale di un gradino per riconoscere, prova­
re e controllare anche la seconda ottava di vibrazioni. Questa è la se­
conda prova. Passa poi alla terza, alla quarta, alla quinta, alla sesta ed
infine alla settima ottava di vibrazioni e, quando ha superato tutte
queste prove ed è stato in grado di controllare ogni sfera, allora di­
venta un iniziato.
La coscienza è la luce, l’incoscienza è il buio. Quando fa chiaro,
sulla Terra, noi diciamo che è giorno, così ogni stato di coscienza è
un “giorno” divino perché Dio si riconosce da sé a tutti i gradini in
ogni coscienza, dal livello più basso della materia fino alla coscienza
di Sé dell’uomo-dio.
L’attività, l’agitazione, il movimento regnano in tutti questi “gior­
ni”, a tutti i livelli di coscienza; solo al settimo “giorno” di Dio non
c’è più né movimento, né attività, né lavoro. Al settimo giorno la cre­
azione si conclude perché regna finalmente un’unità perfetta, un per­
fetto equilibrio: Dio riposa in se stessoì
Dopo aver superato l’iniziazione e durante la meditazione, quando
un iniziato riesce a ridiventare cosciente nell’ESSERE eterno e a
vivere questo stato, ossia, quando, con i suoi stessi mezzi, si eleva dal
suo sesto grado al livello divino, quando può raggiungerlo sempre più
spesso per consolidare definitivamente la sua posizione su questo
gradino supremo e rimanervi, solo allora diventa un uomo-dio. Sol­
tanto colui che, nella sua coscienza, è la calma e la pace in persona
(in modo che tutto ciò che pensa, prova e fa proceda da questo stato
divino), solo colui che manifesta la volontà divina in ogni circostanza
e le consente di compiersi, solo colui che emette soltanto più le forze
positive “che danno” amore divino, è veramente un figlio di Dio: un
uomo-dio\ Ptah-Hotep\
L’uomo-dio manifesta e controlla coscientemente tutti i sette li­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 321

velli della creazione, ma la sua coscienza si identifica unicamente con


il settimo, il livello divino, mai al di sotto; li conosce, li controlla, se
ne serve, ma non mangia i frutti dell’albero della conoscenza del bene
e del male! Rimane cosciente in Dio, nello stato paradisiaco. Armo­
nizza in sé tutti i sette piani in un’unità divina: è materia giacché ha
un corpo, è pianta giacché è animato, nutre e cura il suo corpo come
un buon strumento; è animale giacché ha istinti e sentimenti; è umano
giacché possiede un intelletto e la facoltà di pensare logicamente; è
genio, giacché è dotato di intuizione ed agisce partendo dal piano
delle cause; è profeta, giacché è al di sopra del tempo e dello spazio e
vede dunque il futuro ed il passato, ama l’intero universo di un amore
del tutto disinteressato e comprende tutto, aiuta ogni creatura a libe­
rarsi delle catene del mondo; è Y uomo-dio, giacché è onnisciente, on­
nipotente, è ciò che è, VESSERE eterno, la vita stessa, Diol
Gli iniziati non appartengono dunque tutti allo stesso grado, giac­
ché, per la maggior parte, non raggiungono il settimo livello se non
più tardi, con un durissimo lavoro. Ecco perché, anche fra i sacerdoti,
ci sono diversi gradi. Solo colui che è giunto con i suoi mezzi al
settimo gradino, quello delTuomo-dio, colui che non si limita ad aspetta­
re ed accettare l’energia creatrice suprema (come invece accade al
candidato che la riceve durante l’iniziazione) ma che invece Virradia
e la offre, solo costui può svolgere le funzioni di gran sacerdote.
Effettivamente sei dei sette livelli di coscienza ricevono le loro
vibrazioni creatrici, l’energia di vita, dal settimo grado, da Dio. An­
che l’iniziato che non è riuscito a raggiungere coscientemente il gra­
dino divino se non durante l’iniziazione, attende e riceve ancora l’ener­
gia vitale da questo settimo piano, il piano di Dio. Soltanto Dio e gli
uomini-dei, diventati identici a Dio, hanno una radianza che “dà”
esclusivamente.
Invece la materia, riflesso negativo di Dio, “prende” esclusiva-
mente.
Le creature situate sugli altri livelli, in parte prendono dall’alto ed
in parte danno verso il basso.
La pianta ha un effetto rivitalizzante sulla materia, ma riceve un
quintuplo dono dagli scalini superiori; l’animale irradia due volte
verso il basso e riceve quattro volte dall’alto. L’essere umano tra­
smette tre volte verso il basso, e riceve tre volte dalle sfere superiori,
giacché la sua coscienza si situa a metà strada. Il genio che è coscien­
te al quinto livello, il livello causale, dà forze creatrici ai quattro
livelli inferiori e riceve forze dai due gradini più elevati. Il profeta,
322 Elisabeth Haich

l’iniziato, trasmettono le loro benefiche vibrazioni alle creature che si


trovano sui primi cinque scalini e ricevono l’energia dalla sfera divi­
na; ma non sono ancora uno con Dio. Solo colui che ha acquisito una
perfetta coscienza cosmica grazie ai propri sforzi, agisce in ogni dire­
zione e su tutto l’universo in modo esclusivamente positivo, dispensa­
tore di vita, come un’offerta: vive in Dio in una coscienza di Sé
monistica.
Hai già imparato che dare - irradiare - è la legge di Dio, e che
prendere - contrarre - è quella della materia.
Ogni frequenza ha un potente e penetrante effetto verso il basso,
ma nessun effetto verso l’alto. Facciamo l’esempio di due persone
che hanno conseguito livelli di sviluppo diversi: la persona del livello
inferiore, anche se è un “cattivo”, come dice la gente, non può nuoce­
re alla persona di livello superiore se non sul piano materiale, attra­
verso certe azioni, ma mai con le sue radiazioni, giacché esse non
hanno alcun potere verso l’alto. Per contro, esse possono nuocere
verso il basso, sui gradini inferiori, in particolare attraverso il suo
“malocchio”. Quanto all’iniziato, può dare e trasmettere la propria
forza magica superiore a qualsiasi essere vivente, senza alcuna ecce­
zione.
Durante l’iniziazione la forza divina creatrice penetrerà nella tua
colonna vertebrale, in ognuno dei tuoi sette centri nervosi principali,
uno dopo l’altro. Farai dunque l’esperienza di questa energia ad ogni
gradino, trasformata nella forza corrispondente a quel livello; la pro­
verai, la vivrai come uno stato di coscienza. Imprimiti bene ciò che
ora ti dirò: non appena diventi cosciente in un’ottava di vibrazioni,
sei in armonia con questa frequenza; ciò significa che, p er te, questa
sfera rappresenta la “realtà perfetta ’’. Quando superi la prova su un
certo livello, allora ti risvegli nel livello seguente, e realizzi che avevi
semplicemente sognato sul livello precedente. Invece, se non riesci a
superare la prova (ossia ti identifichi con gli eventi senza poterli
controllare) queste visioni oniriche resteranno reali p er te, e dovrai
viverle davvero da capo a fondo, nel mondo del tempo e dello spazio.
Ciò significa che il tuo corpo muore nella bara e devi continuare a
sognare le tue visioni oniriche p er innumerevoli incarnazioni, se­
guendo l ’interminabile cammino dei mortali per elevarti a poco a
poco dal basso livello al quale sarai caduta e lottare per giungere
alla sfera suprema.
La differenza fra il sogno e la realtà è solo questa: ciò che accetti
come realtà su uno dei livelli di coscienza diventa immediatamente
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 323

un sogno appena ti risvegli su un livello superiore, riconoscendo che


non si trattava di realtà ma di una proiezione del Sé , e quindi di un so­
gno. Ogni sogno resta realtà fintantoché tu lo credi reale', la sola ed
unica realtà, la sola realtà obiettiva è il Sé: Dioì
Superando tutte le prove, passi, in sogno e fuori dal tempo, attra­
verso tutte quelle vite che avresti dovuto vivere sulla Terra, e ti risve­
gli sempre sul livello seguente. Finché, finalmente, ti svegli sul setti­
mo gradino: nella coscienza cosmica del Sé. In questo stato divino di­
venti una con l’ultima ed unica realtà, con te stessa, con Dio, e que­
sto non è più un risveglio, è la resurrezione!
Sei allora libera dalla tua “persona” che è anch’essa soltanto una
proiezione, sei libera dal tuo destino personale, sei liberata.
Potrai allora svolgere le funzioni di sacerdotessa e, se con i tuoi
sforzi ed il tuo intenso lavoro saprai ritrovare e mantenere lo stato di
coscienza della settima sfera, diventerai “uomo-dio”, degna di essere
grande sacerdotessa nel Tempio.»
«Padre della mia anima, hai detto che, anche se si è ricevuta
l’iniziazione, è possibile cadere da un livello di coscienza superiore.
Poi hai detto che se un iniziato si identifica con il proprio corpo
dirigendo in esso le sue energie elevate, cade ancora più in basso di
un uomo che viva nella realtà materiale. Infine hai aggiunto che,
durante l’iniziazione, il candidato vede tutto il suo destino futuro
quale è stato determinato nel momento della sua prima caduta, e fino
all’istante del suo ritorno nell’unità divina. Come può dunque accade­
re che un iniziato, il quale durante la sua iniziazione ha vissuto tutti
gli eventi, tutte le prove, le tentazioni e le esperienze che potrebbero
causare una nuova caduta, ha superato tutte le prove iniziatiche, co­
ni’è possibile che tale iniziato possa ricadere nel mondo esterno tridi­
mensionale? Se ha sognato tutto il proprio destino fino alla fine,
perché non ha sognato anche la sua caduta quale destino futuro?»
Ptahhotep mi risponde:
«Nel momento in cui si lancia un boomerang, il suo volo e la
durata del volo sono predeterminati: porta inscritto in sé tutto il suo
percorso, come un futuro destino immutabile; può tuttavia accadere
che gli sia dato un aiuto esterno ad un certo momento della sua orbita,
il che gli consentirà di tornare al punto di partenza (che è peraltro la
sua meta) attraverso una strada e in un lasso di tempo più brevi. Il
boomerang è dunque tornato a casa, ma con il fatto di mantenere la
propria forma ed il proprio peso originale porta sempre in sé la possi­
bilità di essere lanciato un’altra volta, di fare un altro giro che egli
324 Elisabeth Haich

stesso determina attraverso la propria forma ed il proprio peso.


L’iniziato che ha ottenuto l’iniziazione grazie ad un aiuto esterno, è
simile a questo boomerang: ha sognato tutto il suo avvenire fino al
ritorno nell’unità divina, ma ha vissuto questi stati soltanto nella sua
coscienza. La sua persona e circostanze personali che derivano dal
suo carattere e dal suo destino restano sempre nel mondo materiale.
L’iniziazione non ha concluso la sua vita presente, e questo vale
anche per te: dopo l’iniziazione continuerai ad essere la figlia del
Faraone, rappresentante della regina; e quando un iniziato non ha
fatto tutte le esperienze terrene necessarie prima dell’iniziazione, se
non ha imparato a riconoscere e a controllare coscientemente in sé
tutte le forze creatrici e quindi entra ancora parzialmente inesperto
nell’unità divina, non è ancora totalmente libero dalla componente
personale delle sue forze. La sua personalità non è ancora compieta-
mente annullata. Dunque, in attesa di poter raggiungere con i suoi
sforzi lo stato di coscienza della settima sfera, e in attesa di poter
restare per sempre in quello stato, l’iniziato durante questo periodo
intermedio porta in sé la possibilità ed il pericolo di cadere dal suo
elevato grado di coscienza e di cominciare una nuova strada del de­
stino.
Ma dal momento che è diventato cosciente nell’energia divina
creatrice, anche se soltanto grazie ad un aiuto esterno, è proprio quel­
la stessa forza potente che lo proietterà lontanissimo, al di fuori, e
dovrà così percorrere un ciclo infinitamente più lungo della sua prima
caduta, quando non era ancora cosciente di tale forza. È esattamente
quanto è accaduto ai maghi neri che distrussero la patria dei figli di
Dio: furono precipitati nella più bassa sfera di creazione, ed ora sono
sulla Terra sotto forma di montagne, rocce, pietre, e debbono percor­
rere il lunghissimo cammino della coscienza dalla materia inerte fino
all’uomo, diventando prima pianta e poi animale. Alcuni di loro cad­
dero soltanto al livello delle piante, altri al livello di animali, altri
ancora soltanto sul gradino umano, ma a livelli diversi. Il tempo di
una creazione nel mondo materiale è determinato, ma, individualmen­
te, gli esseri hanno sempre la possibilità di percorre il ciclo in un
tempo più breve e raggiungere così lo scopo con migliaia, talvolta
milioni di anni di anticipo. E una possibilità che viene offerta all’uo­
mo soltanto, perché grazie al suo intelletto cosciente, può, fuori dal
tempo, fare l ’esperienza di uno stato di coscienza. Né le piante e né
gli animali possono farlo, ed ora capisci perché gli animali devono
anch’essi soffrire! Come ogni cosa sulla Terra, sono limitate manife­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 325

stazioni di coscienza di spiriti un tempo superiori, ora decaduti.


Durante l’iniziazione, tutte le forze negative che si erano manife­
state al momento della caduta vengono compensate da forze positive:
i “debiti” sono quindi annullati! Dopo aver superato con successo le
prove iniziatiche, la tua condizione sarà uno stato privo di destino.
Fintantoché manifesterai la volontà divina non avrai personalità, dun­
que non avrai un destino proprio, sarai libera dalla legge di azione-
reazione; ma se, nella ma coscienza, dovessi identificarti con la tua
persona e con tuo corpo, ti creeresti una nuova ruota del destino e
comincerebbero allora per te interminabili reincarnazioni.
Ora conosci tutte le conseguenze dell’incarnazione, e ancora una
volta ti chiedo: hai il coraggio di riceverla?»
Perfettamente sicura di me, rispondo:
«Sì.»
Entra un uomo alto e di nobile aspetto che conosco: è un sacerdo­
te del massimo grado, anch’egli gran sacerdote, rappresentante di
Ptahhotep. Viene verso di noi. Ptahhotep mi fa cenno di entrare nella
bara e di sdraiarmici. Obbedisco. Quando giaccio nel sarcofago,
Ptahhotep mi lancia un ultimo sguardo raggiante, colmo di un amore
indicibile. I due sacerdoti sollevano il pesante coperchio di pietra e lo
depongono sulla bara: eccomi rinchiusa in una totale oscurità.
CAPITOLO XXXVIH

L’iniziazione

Come sempre, sto ad osservare ciò che accade.


E non accade nulla.
Sono sdraiata in una bara di pietra e guardo il buio. Il buio? Non è
proprio così perché nel buio e nel mio campo visivo percepisco una
luce fosforescente verdastra. Tutto intorno si accendono e poi scom­
paiono punti vaganti, punti luminosi che sto osservando, chiedendomi
da dove vengano e dove vadano.
D’un tratto, osservo che questi punti luminosi non sembrano più
così vicini tra loro; il luogo in cui prima brillava la luce verdastra
fosforescente ora è buio, i punti luminosi non si avvicinano ad esso,
anzi, lo evitano descrivendo cerchi sempre più grandi, creando così
un’oscurità totale, un’assenza di luce, un buco nero attraverso il quale
sondo il Nulla...
Tuttavia, da questo buco oscuro simile alla morte, due punti si
avvicinano lentamente e mi fissano come fossero occhi. Non vedo
questi occhi, non hanno né luce né colore, eppure so che due occhi mi
stanno fissando, due occhi che non appartengono a nessun corpo. Da
essi sgorgano correnti di energia che, d’un tratto, prendono ad agire
invisibilmente nel buio. Queste energie oscure attaccano, assorbono e
distruggono i punti luminosi; si abbozza un contorno ancora sfocato,
che delimita il buco vuoto, oscuro, dal quale emana questa forza
invisibile. Davanti al mio sguardo colmo di orrore prende forma il
volto di un mostro, un volto riconoscibile solo perché dove esso si
trova non c’è nulla, è un’immagine negativa.
So, sono cosciente del fatto che questo mostro disincarnato è il
male stesso. Lo conosco. Talvolta ho visto le sue orride smorfie sul
viso degli uomini, come espressioni. La causa stessa di queste espres­
sioni, l’essenza, è ora qui, senza sembianze umane, senza corpo!
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 327

O era forse presente, senza farsi notare? Questo volto senza corpo
è simile alla testa di un capro; la sagoma lascia apparire chiaramente
la forma delle coma, del muso lungo e stretto, con una piccola barba.
Oppure queste forme sono soltanto radiazioni di forze invisibili?
Gli occhi così ravvicinati sono terrificanti, sono come un turbine senza
fondo che attira irresistibilmente ogni cosa verso un totale annulla­
mento.
Ora, il mostro irradia tutte le sue forze distruttive concentrandole
su di me e in me, con quel suo sguardo sinistro. Gli occhi penetranti
mi entrano dentro, mi avvolgono, mi stringono con spaventosa potenza.
Il cuore ed miei stessi movimenti sono paralizzati da un panico
indicibile: l’orrore ha toccato il culmine, gli occhi si avvicinano e
divengono sempre più penetranti. Sento questo essere satanico - è
forse Satana stesso? - possedermi sempre di più; si allunga sopra di
me, mi inghiotte e d’un tratto mi accorgo che io non sono più io, ma
sono diventata lui. Sento i suoi tratti sul mio volto, il suo corpo disin­
carnato nel mio corpo, le sue forze infernali scorrere nelle mie vene: a
questa spaventosa sensazione, tutto il mio essere si irrigidisce, diven­
ta freddo e si contorce in orribili convulsioni.
Dentro di me sento... non parole, ma attraverso l’energia che crea
le parole, ne colgo il senso :
«Ora sei la mia preda! Sei in mio potere! Hai tentato invano di
estrarmi dalla tua coscienza: tu mi appartieni! Tu e io siamo uno,
nulla può più separarci. Io sono l’“io” in te e tu sei l’“io” in me.
Subisci la mia legge del raffreddamento, della contrazione e della
rigidità. Senti forse il corpo irrigidirsi, le gambe che si rialzano sul
ventre indurendosi, i piedi strettamente premuti contro il corpo, le tue
braccia incrociarsi sul petto, le mani formare il pugno, come incollate
al corpo? La tua testa è reclinata sul petto, fra i pugni. Ti raccogli
sempre di più. Hai ripreso la forma che avevi nell’utero materno,
saldata in un blocco unico, sempre più piccola, più rigida, più fredda,
fino a diventare una pietra, una piccola roccia dura e morta! Ma la tua
coscienza ti permette di sapere che sei morta, prigioniera, murata in
quella roccia per un tempo infinito... per un’eternità senza tempo...
Guardati intorno, guarda queste immense montagne! Vedi queste
rocce, queste pietre? Guarda in esse, guarda il loro essere interiore, e
vedrai che sono tutti esseri coscienti, prigionieri come te, esposti al
sole implacabile, alle tempeste e al gelo! Ogni creatura, animale o
uomo, cammina su di loro come camminerà su di te. Le nevi si
fondono, ingrossando i torrenti e portando a valle le pietre fra i flutti
328 Elisabeth Haich

selvaggi, queste si urtano fra loro, si spezzano nelle rapide per un


tempo infinito... un’eternità senza tempo...»
Con un senso di orrore, faccio l’esperienza di tutto ciò che mi dice
N

il male. L’inferno! E questo, l’inferno! Essere chiusa viva, cosciente


in questa tomba di pietra senza potermi muovere, senza aver la possi­
bilità di dare il minimo cenno di vita. Essere una pietra pesante e
morta... Esserei
Ma no! Non è questo, ciò che io sono! Io sono solo rinchiusa, mu­
rata in questa pietra ma non sono la pietra, il mio Io non è materia! Io
sono il Sé infinito, uno spirito al di là del tempo e dello spazio!
E con la forza interiore dello spirito, proprio come avevo imparato
a fare durante gli esercizi di telepatia, grido al mostro, senza aiuto del
corpo, della bocca e delle parole:
«No! Io non sono te e tu non sei me. Nella nostra essenza siamo
per sempre separati giacché tu sei la morte e “io” sono la vital Non
potremo mai identificarci l’uno con l’altra. Nella tua rigidità tu sei il
negativo, il riflesso, la caricatura della fonte eterna di ogni vita, della
divinità che riposa in sé stessa.
Non sei né mostro né spaventapasseri, non sei neppure il male
giacché non hai esistenza propria. E il Sé divino che ti ha creato e ti
crea ogni volta che assume una forma materiale, il corpo. Sei l’essen­
za della materia, la legge che la governa: dunque hai un certo potere
sul mio corpo giacché, su ordine del mio Sé, hai dovuto edificarlo
quando sono nata nella materia e sono diventata una persona. Ma non
hai alcun potere su di me, sul mio Sé creatore, giacché sei soltanto la
legge della materia resa viva dal mio spirito. Né, tantomeno, io sono
te, giacché io sono colui che sono, e anche tu sei colui che sono. La
tua essenza è la contrazione che, a livello spirituale nella coscienza, si
traduce con la paura.
Ma ora devi sparire giacché IO NON TI TEMO.»
L’effetto delle mie mute parole è spaventoso: sono circondata da
un’oscurità totale e, in un rumore di tuono, lo montagne crollano, le
rocce e le pietre rotolano via, la terra si apre e un caos indescrivibile
si scatena intorno a me. Ma io resto fermamente stabile sulle mie
gambe, malgrado questo cataclisma...
Quando tutto finalmente si calma e, a poco a poco, ritorno in me,
mi ricordo di aver avuto un sogno spaventoso; che bello, risvegliarsi
da questo incubo...
La mia prima sensazione è quella di avere fame, di avere una sete
straordinaria! Ma non voglio perder tempo a bere e a mangiare, giac­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 329

ché il mio scopo è Dio! Dunque voglio avanzare il più rapidamente


possibile.
Mi guardo intorno; sono da qualche parte in una grande sala ri­
schiarata da una tenue luce rossa; ci sono persone gentilissime che mi
tendono piatti meravigliosi, colmi di vivande saporite e brocche d’oro
piene di bevande rinfrescanti; cercano di convincermi a mangiare e a
bere con loro ed io sorrido: i piaceri della tavola non sono mai stati
una tentazione per me. Come potrebbero, la fame e la sete, trattener­
mi sul cammino che mi conduce a Dio?
Ringrazio dunque queste persone del loro invito gentile e prose­
guo la mia strada. Stranamente, non ho più né fame né sete, ma non
riesco ancora a capire dove sono né ciò che accade qui. Mi rendo
conto che tutto, accanto a me, si muove in modo caotico; poi sento
uno strano odore, un odore di corpi surriscaldati: non è davvero sgra­
devole, eppure mi ripugna.
I miei occhi si abituano alla luce tenue, e mi trovo in una cantina
in cui vedo un gran numero di uomini e donne i quali, caoticamente,
sono sdraiati su dei divani; alcuni danzano, altri invece, strettamente
abbracciati, eseguono movimenti davvero strani. Molto sorpresa e
perplessa sto ad osservare: sono ubriachi o sono malati mentali? Ave­
vo già visto gli animali seguire i loro istinti durante la stagione degli
amori, sapevo come la natura preparasse una nuova generazione, ma
anche durante l’atto di procreazione, quando i loro corpi tremano di
passione, gli animali non perdono mai la loro dignità e non si com­
portano come le persone che avevo davanti agli occhi. Le sacerdotes­
se che servono nel Tempio dell’amore svolgono i loro compiti con
grande nobiltà e devozione, sapendo che in tal modo portano un’offerta
sull’altare dell’amore divino. Come possono gli uomini abbassarsi al
punto di fare dell’atto d ’amore nobile e divino uno scopo in sé? Sono
persone rispettabili e di un certo rango - ad immagine di Dio! - e tuttavia
si comportano come se fossero prive di ragione. Mi sembra di ricono­
scerne alcune, certi dignitari, certi statisti e certe dame della nostra Corte,
ma non mi vedono, hanno occhi ed orecchie solo per se stessi. Il mondo
esterno non esiste per loro: sono prigionieri della loro immaginazione.
E parlano, parlano e sembrano aver completamente dimenticato che
la parola è la manifestazione spirituale dell’uomo. Utilizzano le parole
per dirsi cose del tutto insensate ed illogiche. Un uomo ed una donna
strettamente allacciati passano danzando accanto a me, e l’uomo chiede:
«Sei mia?»
«Sì, sono tua» risponde la donna.
330 Elisabeth Haich

Poco dopo eccoli di nuovo accanto a me, mentre l’uomo, con gli
occhi socchiusi, chiede:
«Sei mia?»
«Sì, sono tua» risponde ancora la donna.
Che succede? Se uno chiede qualcosa una volta e riceve una ri­
sposta, forse non basta? Bisogna ripetere cento volte la stessa cosa? E
poi, che domanda insensata! Un essere umano appartiene solo a se
stesso. È un essere libero, dotato del diritto inalienabile di disporre di
sé; come può pensare, quest’uomo, di possedere una donna? Già è
difficile possedere un leone! Se neppure questi animali regali riesco­
no a disfarsi della loro indipendenza, come potrebbe quest’uomo im­
maginare che la donna “gli appartenga” e perché ripete cento volte la
stessa domanda? E forse un malato mentale? E la donna, che a sua
volta risponde continuamente alla stessa domanda? E tutti questi uo­
mini, queste donne, che si comportano così ridicolmente ed insensata­
mente? In quel preciso momento, un uomo alto, con le spalle larghe si
avvicina a me; sembra che possa leggermi nel pensiero perché rispon­
de alle mie domande inespresse.
«Bellezza, non sai che questo è l’amore?»
V

L’amore? Oh, lo conosco, l’amore! E qualcosa di bello, di grande,


di nobile, è un sacramento, quando due esseri si amano completamen­
te, senza alcuna riserva. Non è questa passione del possesso. Non
vedo alcuna traccia di amore, nel cuore di questa gente! Vedo soltan­
to che hanno perso la ragione, che la passione, la febbre, degrada ed
attacca i loro centri nervosi così sottili, destinati alla manifestazione
spirituale, e li tiene in suo potere. Bisogna assolutamente salvarli,
risvegliarli dal loro stato di semi-incoscienza! Mi avvicino ad una
donna giovanissima, la prendo per un braccio e le grido all’orecchio:
«Svegliati! Non permettere che la passione ti oscuri la coscienza!
Tu sei spirito, non un corpo! Non lasciarti trascinare dal tuo corpo,
non lasciarti abbassare più di un animale! Svegliati, mi senti? Sve­
gliati e salvati, finché sei in tempo!»
La giovane mi guarda come una sonnambula, come se mi vedesse
attraverso un velo:
«Lasciami, voglio essere felice!» e continua la sua danza.
O cieca, cieca! Come puoi sperare di giungere alla felicità in un
abbraccio fisico privo di qualsiasi amore spirituale ? E nella coscien­
za, che si vive la gioia. La gioia è nel Sé. Come la si può trovare in un
gioco fisico?
«Metti a riposo la ragione — mi dice l’uomo. — Non puoi giudi­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 331

care giacché non hai mai provato. Vieni, danza con me e vedrai da
te.»
Mi abbraccia e mi conduce in un turbine; si comporta con me in
modo insensato come tutti gli altri...
Danzo, e intanto mi osservo con curiosità... Questo contatto così
stretto, mi stordirà, mi inebrierà come avviene a questa povera gente?
Ma posso constatare soltanto che per me è molto sgradevole sentire
quest’uomo così vicino: ha un alito bruciante, e trovo ripugnante
percepirlo sul volto e sul collo. Espira un’aria viziata! Perché dovrei
inspirare aria viziata? Inoltre, quest’uomo emana un odore che non
mi piace, l’odore del sudore è ancora più forte quando si tratta di un
uomo piuttosto che di una donna. Ho voglia di aria fresca, ho voglia
di andarmene da questo luogo deprimente.
Allora cerco di liberarmi dal suo abbraccio, e d’un tratto l’uomo si
trasforma, diventa uno spirito infiammato, rosso ed immenso, senza
più corpo, una fiamma che vuole sottomettermi a sé. Mi avvolge,
cerca di entrarmi in bocca, nel corpo, ma la forza che emano, l’ener­
gia della mia coscienza serena e sobria la frena. Non può raggiunger­
mi: la fiamma diventa ancora più grande, più potente, riempie l’intera
sala e consuma tutti questi posseduti dalla passione. Non vedo più
nessuno, soltanto più un mare di fiamme che inghiotte e divora ogni
cosa...
Ma io sono sana e salva: io sono colui che sonol
Allora, tra le fiamme, si alza una voce:
«Hai vinto, hai superato l’esame. Mai stai bene attenta! Non hai
vinto perché sei più forte, non puoi essere più forte di me, giacché io
sono il fuoco del tuo stesso io, ma perché non potevi infiammarti, in
quanto la tua purezza e la tua inesperienza si ergono ancora fra te e
me.
Il tuo corpo, i sensi, dormono ancora, ed è questo che ti ha protet­
ta; ci rivedremo... ci rivedremo !...»
Poi ogni cosa scompare: la cantina, il fuoco, il fumo, tutto. Ri­
mango da sola... “ci rivedremo ”? Ripeto quelle parole.
«Non ti temo! Perché se anche il mio corpo si fosse acceso, questo
non avrebbe potuto toccare il mio “Io”. “Io” sono al di sopra di tutto
ciò che è fisico.»
Ma, cos’è? Cosa ho sentito? Una risata sarcastica?
Mi guardo intorno: da dove proviene, questa voce? Mi trovo su
una prateria verde come lo smeraldo, e vedo venirmi incontro una
bella figura, un uomo grande e bello, circondato, velato da una spessa
332 Elisabeth Haich

nebbia. Vorrei poter scrutare oltre la nebbia che maschera questo


essere ai miei occhi, vorrei dissiparla, ma non ci riesco. Allora chie­
do:
«Chi sei? »
La figura si avvicina e con una voce che mi si imprime profonda­
mente dentro, mi mormora all’orecchio:
«Oh, mia dolce beneamata! Ti cerco da molto, da così tanto, da
un’eternità, da quando siamo usciti dal Giardino dell’Eden e ci siamo
separati. Eccoti finalmente! Vieni tra le mie braccia, appoggia il tuo
capo adorato sul mio petto, vieni, ritorniamo all’unità divina e fondia­
moci nella grande gioia celeste. Com’è meraviglioso che tu non abbia
seguito i tuoi istinti fisici e che tu ti sia serbata pura per me! Tu mi
appartieni, io ti appartengo. Ci completiamo perfettamente! Senti an­
che tu la forza irresistibile che ci attrae l’uno verso l’altra, che ci lega
sempre di più? Vieni, unisciti a me, dolce creatura, tu sei la mia unica
fidanzata celeste! Ti amo!»
Ascolto la sua voce, sono sensibile al suo approccio virile, sento
la forza immensa che irradia e che agisce su di me... Eppure, mi è
estraneo! Non lo conosco! Come potrebbe essere la mia metà comple­
mentare? No! Una metà complementare non si trova mai all’esterno:
Ptahhotep mi ha spiegato che la metà complementare si trova dietro
la forma manifesta, come un riflesso complementare nel non-manife-
sto. No! Un essere umano non può essere la mia metà complementa­
re. E perché è così ben velato?
«Non so chi tu sia — gli dico — ma chiunque tu sia, sei in errore!
Tu non sei la mia metà complementare. Cercala altrove, se pensi di
trovarla nel mondo esterno. Soltanto nel Sé ognuno di noi può trovare
la propria. Nel mondo esterno si trovano soltanto immagini proietta­
te, somiglianti alla metà. Ma né tu né io possiamo completarci con
un’immagine, una proiezione; soltanto l’unità divina del Sé può por-
N

tare alla gioia perfetta! E in me che voglio trovare la mia metà com­
plementare.»
«Trovare in te la tua metà complementare significa precisamente
esserti già identificata in coscienza con il Sé divino. E come puoi vi­
vere la conseguenza, prima della causa? Il Sé divino è lo stato di unità
paradisiaca che puoi trovare soltanto quando ti sei unita alla tua metà
complementare; come vuoi riuscirci senza di me, la tua metà? Dimen­
tichi che, se tu incarni una parte del tutto, io incarno l’altra metà:
siamo i riflessi incarnati l’uno dell’altra, e ci apparteniamo anche
nella persona. Io ti contengo nel mio inconscio così come tu mi
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 333

contieni nel tuo, e ci cerchiamo con la forza irresistibile dell’attrazio­


ne paradisiaca che ci unisce. Il nostro destino ci riunisce da sempre, e
lo farà ancora ed ancora, fintantoché diventeremo perfettamente co­
scienti l’uno dell’altra in noi stessi e nella nostra persona, anima e
corpo. Soltanto in questa unità divina potremo essere la coscienza to­
tale del tutto, del Sé supremo. Com’è possibile che tu ritrovi questa
unità paradisiaca senza di me? Non vorrai rifiutarti di riconoscere
che, sulla Terra, ci apparteniamo reciprocamente? Come potrai racco­
gliere, senza di me, le esperienze che ti sono necessarie?»
Ma io sono irremovibile:
«Puoi essere convincente quanto vuoi, ma io non mi piego. A me,
basta sapere che fai parte dell’inconscio del mio “Io”; non voglio
conoscerti altrove se non in me, e non nel mondo esteriore. Continua
la tua strada, e lascia che io continui la mia!»
A queste parole la figura si allontana, e sembra dissolversi come
nebbia al sole. Da lontano mi giunge ancora la sua voce, questa voce
che non mi lascia certo indifferente:
«Continuerò a cercarti sul piano terrestre, a cercarti... a cercar­
ti...»
E tutto ritorna calmo.
Ma voglio sapere ancora qualcosa e, con tutte le forze, grido:
«Perché questa nebbia spessa mi impedisce di vederti in faccia?»
Da molto lontano, come l’eco del battito del mio cuore, la voce
dice ancora:
«Questa spessa nebbia vela i tuoi occhi, non vela me. E la tua ine­
sperienza, che ti protegge da me. Ti ha aiutata a resistermi, ma ci
rivedremo... rivedremo...»
Avrei ancora altre domande da fare e corro nella direzione da cui
proviene la voce, ma non vedo più nulla. Ritornerò dunque al prato
verde, purché ritrovi la strada; infatti tutto è avvolto nella nebbia, e
mi sforzo invano di distinguere qualcosa giacché sento che non sono
più sola. Odo voci umane intorno a me, so che esiste una relazione tra
questa gente e me. Eventi nei quali ho un ruolo importante si susse­
guono, sento voci che mi parlano fra le quali riconosco anche quella
della figura velata che mi ha tanto impressionata. So che questo esse­
re, sotto varie sembianze, mi appartiene ancora e sempre. Ma come, e
dove? Che dicono, queste voci? Ed io, che rispondo? Non capisco,
sembra che la nebbia non veli soltanto la mia vista, ma anche l’udito;
qui e là percepisco qualcosa che poi subito scompare.
Una volta vedo una grossa torre, so che in essa c’è qualcuno prigio­
334 Elisabeth Haich

niero - ha la voce della figura velata - e mi sbrigo a fargli avere del


cibo. Sono la figlia del carceriere e devo fare attenzione che mio
padre non mi veda. Una forza mi attira verso il prigioniero, devo
aiutarlo...
Tutto scompare nella nebbia e, nel cercare di orientarmi, ad un
tratto mi trovo davanti un lastricato di pietra da pulire, da lavare fino
a farlo diventare lucido. Di nuovo, la nebbia. Sento solo più una voce,
simile alla mia, che ripete:
«Avete visto una bambina? Avete trovato una bambina?»
E ho l’impressione che un vecchio, un vecchissimo corpo consun­
to che in un certo senso è in rapporto con il mio, sia molto, molto
stanco. Questa strana sensazione sparisce anch’essa e, d’un tratto, con
mia grande gioia, la nebbia si dissolve.
Eccomi di nuovo su quel bel prato. Ora devo andare avanti, l’aria
è fresca, il sole brilla, ma non fa troppo caldo; che strano! Fin qui non
mi è mai accaduto di sentire una brezza così gradevole a metà giorna­
ta. Un’altra sorpresa: guardando verso terra, mi pare che i miei piedi
siano più distanti di prima: dunque sono molto più alta\ Questo sì che
è strano! Alla mia età, non si cresce più. Com’è dunque possibile che
sia diventata così alta? E che cos’è questo vestito? Mi fa proprio
ridere! Dove sono i miei sandali? E le mie mani? Come sono cambia­
te! E tutto così sorprendente, così strano... come se io non fossi più io,
come se sognassi! Eppure la mia coscienza è chiara, sono sveglia,
non sto sognando! Mi guardo intorno; non lontano c’è una foresta, e
appena mi avvicino ad essa scorgo una casetta fra gli alberi. Ma che
buffa casa! Quella regione mi è familiare, eppure so che, in questa
vita, non ho mai visto alberi simili né una simile costruzione. No!
Questi alberi non assomigliano proprio per niente alle nostre palme!
La casa è situata su una collina e salgo lungo il sentiero boschivo:
so che è casa mia; d’altronde com’è possibile, giacché so benissimo
di non aver mai visto una costruzione di questo genere, che non mi è
neppure familiare? Non è fatta di pietra, ed il tetto è fortemente
inclinato. Entro, ne conosco ogni stanza, e mi reco direttamente in
“camera mia”. Entrando nella stanzetta bianca, mi fermo alla finestra
per ammirare il magnifico panorama che si offre al mio sguardo.
Osservo che la casetta ed il prato si trovano in montagna e che, da
qui, posso vedere molto lontano, in pianura; ai piedi della montagna
scorre lentamente un fiume maestoso, percorso da grandi battelli (che
strano, non hanno né vela né remi) che procedono a tutta velocità,
molto più velocemente dei nostri. Non so cosa stia vedendo: un gran­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 335

de tubo verticale da cui esce un fumo nero e spesso...


Il sole è tramontato e scende il crepuscolo... In lontananza, là dove
- ho questa strana sensazione - ho già guardato altre volte, vedo molti
villaggi che conosco bene, nei quali si accendono sempre più luci,
come lampi. Il tuono scoppia dopo ogni lampo come nella grande
piramide. Osservo questa successione di luci e rumori, di lampi e
tuoni, quando, d’un tratto, una specie di campanello risuona. Mi volto
verso l’apparecchio da cui esce quel suono, ne sollevo una parte di
forma strana, e metto una delle due estremità contro l’orecchio. Com­
pio questi gesti come se mi fossero naturali, ma so di non aver mai
visto in vita mia un apparecchio simile. All’orecchio, sento la voce, la
voce della figura velata.
«Ti bacio le mani, mia cara. Come stai?»
Rispondo:
«Bene, grazie; ma voglio tornare a casa. Potresti venire a prender­
mi domani? Il nemico è già così vicino che ogni sera mi accorgo di
quanto l’avanzata sia veloce. E spaventoso e voglio essere insieme a
voi!»
«Bene — risponde la voce maschile — verrò domani. Ma non
sarebbe meglio, per te, restare nel bosco? Qui nella capitale ci bom­
bardano giorno e notte e le cose stanno peggiorando.»
«No, voglio tornare a casa, stare con voi. Quassù ho lasciato tutto
in ordine ormai, e in queste ore di pericolo voglio stare con voi. Vieni
a prendermi.»
«Benissimo, vedo che sei coraggiosa. Verrò a prenderti domani
pomeriggio. Prepara i bagagli. Arrivederci, tesoro, ti bacio tenera­
mente. Buonanotte!»
«Ti bacio anch’io, buonanotte» dico riagganciando l’apparecchio.
Chi era? Com’è che, invece di stabilire un contatto interiore, co­
munichiamo per mezzo di qualcosa di sconosciuto, e come mai odo
quella voce con l ’orecchio fisico! Un pensiero mi attraversa il cervel­
lo: ciò che sto vivendo ora, è forse una semplice visione? Forse, tutto
questo è solo un sogno, una prova... Se ho coraggio ?
Purtroppo, non è un sogno, dal quale avrei voluto davvero sve­
gliarmi come mi è accaduto prima, quando mi ero ritrovata nel prato.
Sì! Ma ora sono ben sveglia, e non posso evitare di far fronte agli
eventi. L’atmosfera è talmente carica di indicibile paura, esalata da
tutti, che è difficile respirare. Il nemico avanza da ogni parte e, se
continua così, fra qualche giorno la capitale sarà assediata. Quelli
che, assumendo rischi ed enormi pericoli, hanno lasciato le regioni
336 Elisabeth Haich

occupate, raccontano storie di incredibile crudeltà. Ma siamo tutti


nelle mani di Dio, e calmo il mio cuore martoriato, i miei nervi tesi,
dicendomi che tutto ciò che accade è buono, giacché nulla può acca­
dere senza la volontà divina. E ciò che Dio vuole, è necessariamente
buono.
Preparo i bagagli.
Il giorno seguente, di pomeriggio, sono alla finestra: il nostro cane
corre a tutta velocità, e capisco che mio marito sta arrivando. Un
quarto d’ora dopo eccoli entrambi, il cane che salta come una palla di
gomma intorno a mio marito. Gli corro incontro e ci abbracciamo
teneramente; sono ormai vent’anni che viviamo insieme, e il nostro
amore è ancora vivo come nei primi giorni di matrimonio.
La sua radianza forte, la sua voce, la sua mano calda hanno su di
me un effetto calmante: incarna il coraggio, la sicurezza, la solidità.
«Spero che tu non abbia paura» dice, sorridendo.
«No — dico passandogli un braccio intorno al collo muscoloso —
Dio sarà con noi!»
Mi stringo a lui, e appoggio la testa sul suo petto robusto.
Mentre mettiamo in macchina i bagagli, per un attimo mi fermo:
che cos’è questa macchina? Una volta, avevo l’abitudine di guidare
carri ben diversi... sorrido a questo pensiero, perché questa macchina
mi è molto familiare: è quella di mio marito. Eppure, com’è possibile
che si muova da sé e che non sia trainata da nessun leone?...
Mi passo una mano sulla fronte: sto impazzendo? Leoni? Aggio­
gati ad un’auto? Qui, in questa parte del mondo? Sì, sì, allo zoo ce
n’erano una volta alcuni splendidi esemplari: li hanno uccisi per i
bombardamenti, perché se una bomba avesse danneggiato la cinta,
avrebbe potuto essere pericoloso. Decisamente, non capisco da dove
mi vengano continuamente queste idee sui leoni o su altre cose im­
possibili, come la grande piramide d’Egitto che ho visto solo in foto­
grafia. Probabilmente devono essere state le emozioni eccessive.
Torniamo a casa; salgo le scale di corsa e, prima di toccare la
porta questa sembra aprirsi da sola: ecco, davanti a me, raggiante di
gioia, il piccolo Bo-Ghar, oh, com’ è arrivato fin qui? D’altronde non
è più tanto piccolo! È ancora giovanissimo, eppure adulto. Ha un
sorriso fine, come sempre. Si inchina e mi bacia la mano:
«Che bello vedervi di nuovo a casa, mia Regina» dice piano.
Perplessa, lo guardo e dico:
«Bo-Ghar, sei proprio tu? Come sei giunto fin qui?»
Questa questione lo sorprende moltissimo:
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 337

«Sa bene che vivo qui da tre anni, ormai. Come mai me lo chie­
de?»
Non riesco a capire... Non è proprio come lo conoscevo io. E
cresciuto, eppure so che è ancora un bambino, che dovrebbe essere un
bambino! Ma perché? Lo conosco da quando è arrivato dalla sua
patria lontana, è un giovanotto adulto. Perché ho la sensazione che
dovrebbe essere un ragazzino di dodici anni? Perché ho di nuovo la
strana sensazione di sognare?
Ma ecco mio marito. L’appartamento è pieno di fiori... Com’è
adorabile ad accogliermi così in casa dopo tutti questi anni di vita
insieme, come se fossimo ancora in luna di miele!
Dopo pranzo ci sediamo vicino ad una strana scatola di legno che
diffonde, con voce maschile, le ultime notizie sulla guerra e dà istru­
zioni che dobbiamo seguire. Che strano! Ecco di nuovo la materializ­
zazione di un processo spirituale, come l’apparecchio telepatico della
piccola casa nel bosco. Ptahhotep, il mio caro e venerato maestro,
emette anche lui energie spirituali nell’atmosfera del Paese e, durante
il sonno, la gente assorbe le sue energie benefiche e tutto il suo
amore. Ma le sue vibrazioni agiscono nella profondità degli esseri,
non come questa scatola che emette vibrazioni di bassa frequenza che
udiamo solo con le orecchie esterne.
Poi, andiamo a dormire.
Le notti si susseguono, e spesso veniamo svegliati da rumori spa­
ventosi: le sirene urlano in tutta la città! Saltiamo giù dal letto, affer­
riamo rapidamente le scarpe, delle coperte calde, giacche da camera,
pellicce, e poi via, giù, mio marito ed io scendiamo in cantina: io con
un foulard sulla testa, con la valigetta dei gioielli, i soldi e un vecchio
album di disegni mistici e simbolici. Lungo la scala incontriamo la
mia sorella minore con un neonato in braccio, il figlio di tre anni e la
piccola di due che le trotterellano accanto. Ad ogni piano si aprono le
porte lasciando uscire tutti i membri della famiglia e tutto il persona­
le, in cerca di rifugio in cantina. A pian terreno un uomo alto e
anziano compare sulla soglia: è di nobile aspetto, con i capelli e la
barba bianchi come la neve... E i suoi occhi? Com’è che mi sono così
familiari? In me, un lampo: è il volto del generale di mio padre che ha
fatto carriera: Thiss-Thaì Quegli occhi... Ma che fa, qui? E com’è
vecchio! Ed ora, perché gli dico:
«Padre caro, hai preso abiti abbastanza caldi?»
Sorride per rassicurarmi:
«Sì, sì, non preoccuparti.»
338 Elisabeth Haich

E prendiamo posto in cantina.


Il nemico si avvicina, serrando la morsa intorno alla città.
Un pomeriggio si apre la porta ed entra... Ima. Lo fisso senza ca­
pire. Che fa qui, e vestito a quel modo? Lo bacio e chiedo:
«Ma come ti sei vestito? Cosa sono, questi abiti?»
Mi guarda sorpreso quanto me:
«Ma che razza di domanda mi fai, Madre? Quali abiti? Sembra
che sia la prima volta che mi vedi così! È la divisa da pilota, lo sai
benissimo, no?»
La mia confusione è al culmine. Mi sembra di dovermi svegliare
da un sogno. Sì, naturalmente, indossa la divisa da pilota; è mio
figlio, il mio unico ed amato figlio. Eppure, so che è Ima. Lo conosco
bene! Ima! È davvero mio figlio? Lo vedo nel suo abito sacerdotale...
E stato lui ad insegnarmi la concentrazione. Ah! Già allora, aveva
questa radianza forte come l’acciaio... Lo conosco... ma lui non mi
riconosce, ed agisce come se non avesse nulla in comune con il
Tempio.
«Madre — dice — la mia squadriglia si trasferisce perché i nostri
aerei non possono più rimanere su questo aeroporto. I bombardamenti
sono troppi, e rischiano di essere tutti distrutti. Ce ne andiamo, andia­
mo in un posto in campagna. Non so quando ti rivedrò.»
Il mio cuore si irrigidisce nell’angoscia. Eppure sono già abituata
all’idea di saperlo continuamente in pericolo: quando mi avevano
detto che si era arruolato come pilota, avevo avuto la sensazione di
essere colpita a morte. Avevo cominciato a vagare per l’appartamento
con dentro la sensazione di vivere un incubo terribile... E com’era
possibile, come poteva essere reale, che le madri mandassero al mas­
sacro i loro figli, giovani, sani e forti? Doveva essere un incubo,
come potevano gli uomini cadere ad un livello così basso, uccidersi
con le armi più crudeli e mandare in guerra precisamente i più giova­
ni, i più solidi, i più forti, quelli che avrebbero dovuto diventare i
padri della generazione seguente? Sono i primi che si fanno ammaz­
zare perché vengono dichiarati immediatamente “arruolabili”. Quelli
più deboli, quelli ammalati, restano a casa con le donne e fanno
nascere bambini deboli e malati; è il modo più veloce per far degene­
rare la razza umana. E l’umanità è caduta così in basso da non ricono­
scere neppure questa orribile verità. Accecata dall’odio e dalla paura,
la generazione giovane e sana si riduce a zero!
Sogno!Incubo!
A poco a poco, recupero il senso della realtà: ho affidato mio
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 339

figlio alle mani di Dio, e nulla può accadere senza la Sua volontà.
Qualsiasi cosa accada, non può essere che bene, giacché è la Sua
volontà. Compensazione! Tutto ciò che accade è solo uno sforzo per
ritrovare l’equilibrio perduto, il paradiso perduto! Queste parole del
mio caro maestro Ptahhotep, come tutto l’insegnamento che Lui mi
aveva impartito nella grande piramide, sono profondamente impressi
dentro di me, e questo mi dà il coraggio necessario per continuare a
vivere, a svolgere i miei compiti quotidiani, malgrado il peso di sape­
re mio figlio, con milioni di altri, trasformato in bersaglio vivente.
Ma ora sapevo che saremmo stati separati dal momento in cui
avesse lasciato la città. L’assedio totale della capitale era imminente:
sarebbe uscito vivo da questo massacro? E noi? Ci saremmo ancora
rivisti, in questa vita? Era un grande punto interrogativo...
Tuttavia questo non deve farmi soffrire, non devo sviluppare at­
taccamento per nessuno. Di questo giovanotto che ho portato in seno
perché potesse reincarnarsi, e che ora è mio figlio, non amo il corpo,
non amo la forma manifesta, ma lo amo in Dio! Il suo Sé divino ha
costruito questo corpo anche per potersi manifestare; lo stesso avvie­
ne per il corpo di ognuno, di ogni pianta, animale, ed anche per la
materia inerte. Amo dunque anche la sua persona, lo amo in questo
corpo bellissimo, manifestazione del divino impersonale. L ’intero
universo è la manifestazione del Dio unico . Perché, allora, dovrei tre­
mare al pensiero di perdere eventualmente questa manifestazione di­
vina, e non vederla più? Perché la sua carne è la mia carne, e il suo
sangue è il mio sangue? Ma il mio Io ed il suo Io sono lo stesso Io - lo
stesso Sé - che non è né carne né sangue; dunque non devo identifi­
carmi con la carne ed il sangue. Devo ritirarmi nel mio Sé, diventare
pienamente cosciente, giacché sono identica al Sé di mio figlio - e al
Sé dell ’intero universo - non posso perdere nulla e nessuno! Per me,
non deve far differenza se coloro che muoiono mi sono legati dalla
carne e dal sangue o se mi sono totalmente estranei, perché lo stesso
Sé divino cambia uno dei suoi numerosi corpi ogni volta che muore
una creatura, sia il corpo del mio unico figlio o quello di un estraneo.
Devo vincere la mia carne ed il mio sangue che mi fanno soffrire ora
crudelmente, devo vincerli del tutto... Oh, Dio! Dammi la forza di
superare questa prova! Sebbene non abbia ancora raggiunto il piano
della coscienza cosmica, dammi la forza di agire come agirei se fossi
in quello stato di coscienza divina!
Le ginocchia mi tremano mentre mi avvicino a mio figlio. Lo
bacio e gli dico:
340 Elisabeth Haich

«Figlio amatissimo, bambino mio, mio unico figlio così caro, arri­
vederci! Ti raccomando a Dio. Egli non ti abbandonerà. Sappi che
tutto passa, tranne il vero amore. Anche ora ci amiamo perché siamo
uno in Dio, ed è questa unità spirituale - questo amore autentico - che
ci ha riuniti qui sulla Terra: non potremo perderci l’un l’altra! Ci
ritroveremo, ci rivedremo, se non in questa vita nella prossima, o
sotto un’altra forma. Ovunque andiamo, l’amore ci condurrà l’uno
all’altra. Addio, figlio mio adorato. Nelle ore difficili, aggrappati a
questa potenza invisibile che sta dietro di noi, che non ci abbandona
mai e che chiamiamo Dio!»
Nessuno piange. Restiamo abbracciati a lungo, gli bacio la fronte,
quella fronte bella e spaziosa. Mi stringe a sé e se ne va. Dalla
finestra gli faccio un cenno, lui mi sorride e scompare.
Questa sera celebreremo il Natale. Il tuono dei cannoni non smette
più, ma prepariamo ogni cosa affinché questa serata sia la più bella
possibile. Per me ha ben poca importanza perché nell’eternità non c’è
nessun Natale, nessun giorno di festa, nessun giorno lavorativo: ogni
giorno è una festa, perché nell’eternità ogni giorno è in Dio. Mio
marito ama molto queste serate natalizie, è felice di potermi preparare
delle sorprese ed adora riceverne, e sta già adomando l’abete insieme
a Bo-Ghar.
Da alcune settimane Bo-Ghar si è trasferito da noi perché, la sera,
i bombardamenti non gli consentono di tornare a casa. Dorme nella
camera di mio figlio.
Qualche anno fa, Bo-Ghar è venuto dalla sua patria lontana con la
missione di portare agli uomini in questa parte del mondo l’insegna­
mento plurimillenario dei suoi antenati: come dominare il corpo con
lo spirito. La guerra m’impedisce di procurarmi la pietra e il bronzo
necessari per le sculture, sicché ho lasciato a Bo-Ghar il mio laborato­
rio perché possa farvi lezione. Fin dal suo arrivo, si è sempre compor­
tato come se fosse nostro figlio ed ora, eccolo che orna l’abete in
perfetta armonia con mio marito.
Insieme alla cuoca, malgrado la difficoltà di approvvigionamento,
tento di preparare qualcosa di “speciale” per domani. Oggi, siamo
invitati da mio padre con tutta la famiglia. Qualcuno suona alla porta.
Entra il mio cugino più giovane, pallidissimo:
«Esther, il nemico ha preso d’assedio l’intera città, e le truppe che
aspettavamo dall’altro lato stanno venendoci direttamente addosso.
Ero in città con mio padre e ho telefonato a mamma che ci ha detto
che la nostra casa era già occupata dalle truppe nemiche, e che si
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 341

stavano dirigendo verso il centro con i carri armati. Incredibile che


non abbiano ancora strappato via i fili del telefono! I carri armati e le
truppe saranno qui da un momento all’altro. Preparatevi. Adesso devo
filare. Addio!»
Mi precipito da mio marito per informarlo di ciò che accade, poi
vado dalle sorelle, da mio fratello, da mio padre e dal portinaio per­
ché tutti si preparino.
La nostra villa è situata su una collina, e il panorama è molto
ampio; potremo dunque vedere da che parte arriveranno i nemici. Per
il momento tutto è tranquillo; mio marito dice che passeranno ancora
ore prima che vengano a disturbarci e propone di festeggiare comun­
que Natale subito. Scenderemo poi da mio padre e, con tutta la fami­
glia, attenderemo il seguito degli eventi.
Mio marito accende le candele; penso a mio figlio che, forse in
questo stesso istante, starà prendendo parte ad un attacco aereo. Ci
stringiamo le mani, distribuiamo i regali e poi, senza toccar cibo, ci
sbrighiamo a scendere da mio padre.
«Venite, figli miei — dice — mangiamo in fretta, perché non sap­
piamo quando dovremo scendere in cantina.»
Prendiamo tutti posto intomo al tavolo; la sedia di Madre è vuota
da quando è morta, e al posto del suo piatto c’è una candela accesa...
Mangiamo in silenzio, con calma, con dignità. Siamo consci del fatto
che per noi è venuto il momento di far fronte ad un evento importante
del nostro destino. Durante il pasto una bomba cade vicinissima alle
nostre finestre, e ci guardiamo con aria interrogativa.
«Mangiamo — dice padre. — Forse riusciremo a finire il pranzo.»
Mangiamo il più in fretta possibile. Le detonazioni si avvicinano,
sempre più frequenti.
Qualcuno suona alla porta. Sono gli ufficiali del nostro stesso
esercito:
«Vogliamo mettere dei cannoni nel vostro giardino; i soldati al­
loggeranno in casa vostra. Dateci le chiavi di tutti gli appartamenti!»
Mio marito si alza e conduce gli ufficiali in casa. Una spaventosa
detonazione scuote tutta la villa, come un vero e proprio terremoto.
Pochi minuti dopo, ecco mio marito di ritorno:
«Padre, è meglio scendere in cantina. Il garage è stato centrato da
una mina, il riscaldamento centrale è danneggiato. Dobbiamo spe­
gnerlo e lasciar scorrere l’acqua. Scendete tutti, la casa non è più
sicura. Le truppe nemiche sono vicinissime, e gli ufficiali sostengono
che sono già dall’altra parte dell’arteria principale. Certamente non
342 Elisabeth Haich

durerà molto, ma bisogna contare di dover rimanere parecchi giorni


in rifugio.»
Con calma, con serietà, Padre dice:
«Scendano le donne ed i bambini. Io finisco di mangiare. Portate
il caffè!»
Tutti sanno che è inutile contraddire Padre. La mia sorella minore
si alza con il piccolo in braccio mentre io prendo per mano suo figlio
e la mia altra sorella, sua figlia; scendiamo nel rifugio. Mio fratello,
mio marito e Bo-Ghar rimangono con Padre e prendono il caffè.
Le esplosioni sono sempre più forti, sentiamo la casa vacillare
persino nelle fondamenta. Poco dopo si apre la pesante porta di ferro
ed entrano gli uomini: mio marito mi dice piano, in modo che nessu­
no senta:
«Stanno mettendo i cannoni in giardino. Vogliono difendere la
casa strenuamente perché è una postazione-chiave. Se viene occupata
dal nemico, allora non si potrà più frenarne l’avanzata fino al fiume.
Dobbiamo prepararci ad una lotta senza pietà. Spero solo che non
duri a lungo. Siamo circondati, e qualsiasi resistenza superflua signi­
ficherebbe la distruzione totale della città. Adesso vado dal portinaio
perché mi aiuti a portar giù tutti i materassi; bisogna che riusciamo a
dormire.» Ed esce.
Persino la notte più lunga ha fine, e giunge il mattino: la porta di
ferro si apre e si chiude in continuazione, gli uomini entrano ed
escono, i soldati vengono a scaldarsi perché fuori la temperatura è
scesa a -15° e infuria una tempesta di neve. Nella cantina fa freddo,
abbiamo addosso una quantità incredibile di abiti e pellicce, quasi da
soffocare. Non c’è più riscaldamento; i soldati sono giovanissimi,
pallidi, tremano di freddo e di paura... Sono poco più che bambini,
strapazzati da caporali più vecchi che li mandano a combattere. Pove­
ri ragazzi! Hanno sedici-diciott’anni, li hanno portati via alla loro
famiglia e spediti al massacro! Cerchiamo di dormire, ma il bambino
piccolo piange talmente forte che nessuno ci riesce.
Al mattino, d’un tratto, entra Padre: è pallidissimo.
«Ragazzi, hanno preso in pieno il tubo dell’acqua. State attenti,
risparmiate l’acqua perché non ne abbiamo più.» E poi esce.
Sentiamo gli uomini discutere sulle possibilità di approvvigiona­
mento: tutta l’acqua che si trova ancora nei tubi viene raccolta nelle
vasche da bagno. Nella cantina, per far fronte all’eventuale pericolo
di incendio, abbiamo una grossa tinozza di legno piena d’acqua. Do­
vremo bere quell’acqua puzzolente che è lì da un pezzo? La mia
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 343

sorella minore mi guarda, so che sta pensando al suo piccolo. Dacché


suo marito è scomparso, non ha più latte. Dà al bambino cibo cotto,
ma ha bisogno di acqua per questo. E il biberon dev’essere lavato
perfettamente. Le dico:
«Nevica, faremo fondere la neve per avere acqua.»
Mio marito mi sente, e mi chiama sulla soglia della cantina.
«Sai quanta neve bisogna fondere per ottenere un po’ d’acqua? I
soldati ce la prendono tutta, e se non vogliamo morire di sete dobbia­
mo andarne a cercare altrove. Possiamo stare a lungo senza mangiare,
ma non senza bere, perché allora il cuore cede. L’acqua è essenziale.
Siamo ventisei adulti, qui, e non possiamo neppure cuocere i fagioli
per semplice mancanza d’acqua. Cercherò di chiederne al vicino.» E
se ne va.
Poco dopo, ricompare dicendomi:
«Nella nostra strada sono tutti senz’acqua. Dobbiamo spingerci
più in là, fino alla prossima via. Porteremo i secchielli.»
«Non andare — gli dico — i cannoni, i fucili e gli aerei non
smettono di sparare. Potrebbero colpirti. Resta qui e aspetta un po’ !»
Mio marito sorride:
«Non essere puerile... pensi che durante la prima guerra mondiale
abbiano sparato con proiettili di gomma? Eppure, sono tornato! Dio
non mi abbandonerà. E succeda ciò che deve succedere!»
Lo bacio ed egli scompare.
Tomo a sedermi in cantina. Aspetto, tranquilla, fredda. Aspetto.
Se la volontà divina vuole che mio marito tomi, allora nessuna pallot­
tola potrà raggiungerlo. Altrimenti, voleva dire che doveva succedere.
«Le cose non sono mai cattive di per sé, tutto dipende dal nostro
modo di considerarle» mi dice una voce interiore.
E penso alle migliaia, ai milioni di donne che, come me, pregano
per i loro mariti: quegli uomini sono uomini come il mio. Che la mia
persona ami la sua persona così profondamente, è la manifestazione
del Sé che è il medesimo in ogni persona, e quando due si amano
significa che, nella loro coscienza, vivono l ’unità del Sé. Sentono di
appartenersi perché sono uno nel Sé.
E calmo il mio cuore tremante..., sì, perché trema:
«Calmati, batti lentamente e regolarmente. Sì, lentissimamente.
Respira profondamente, ancora più profondamente, con calma. Resta
calmo! Prima o poi, tutti dobbiamo lasciare il corpo. Tra cent’anni
non sarà più importante sapere chi è andato via un po’ prima o un po’
dopo. Il tempo e lo spazio sono invenzioni d ell’intelletto; lo spirito, il
344 Elisabeth Haich

Sé, si libra al di sopra dell’intelletto, sopra a tutti i pensieri, al di


sopra del concetto del tempo e dello spazio. Respirare. Respirare
lentamente, profondamente, regolarmente. Non pensare a nulla. Esse­
re, soltanto... Non pensare... Essere, soltanto...»
Non so per quanto tempo resto lì, seduta. Poi, d’un tratto, si apre
la porta ed ecco mio marito con dieci litri d’acqua. Ventisei persone
hanno acqua per un giorno. Acqua... Non mi alzo, non gli getto le
braccia al collo. No, i grandi momenti sono sempre così semplici! Né
pianti, né singhiozzi, né parole. Con mio fratello egli comincia a
dividere equamente l’acqua, e mi guarda; i nostri occhi si dicono tutto
ciò che devono dirsi, ed io penso:
«Una proroga! Ancora per quanto?»
Siamo tutti in cantina, al buio. I cannoni rumoreggiano simili al
tuono, le bombe esplodono... la terra trema sotto i nostri piedi, dob­
biamo tenerci per non finire per terra ad ogni deflagrazione. I canno­
ni, le bombe, gli aerei, i bombardamenti, le sparatorie... Da quanto
tempo siamo in questa cantina? Ho perduto il senso del tempo. Qui è
sempre buio. Abbiamo soltanto una luce fioca, perché i fili elettrici
sono stati tagliati da un pezzo e dobbiamo risparmiare l’olio. Quando
smettono le sparatorie per una mezz’ora, qui e là, allora andiamo a
mangiare nell’altra cantina: per fortuna avevamo tutti delle provviste.
Spesso siamo interrotti e dobbiamo correre al riparo, perché la casa è
presa di mira anche da quel lato. Ogni volta che viene colpita, sentia­
mo cadere i mattoni, le tegole, le travi, dei lembi di muro. Non sap­
piamo se la prossima esplosione ci seppellirà vivi tutti quanti.
Un giorno, una parete della cantina esplode con una detonazione
da forarci i timpani. Fortunatamente il nostro rifugio è ancora in
piedi. Quando cessano le sparatorie, vado a vedere con mio marito
cosa è successo: la cantina offre un’immagine di devastazione, con un
muro sbrecciato da cui entra la luce accecante del sole; ne sono abba­
gliata. Ovunque, alla rinfusa, mattoni, pezzi di legno e vetri rotti, il
tutto ricoperto di polvere; appollaiata sul trave c’è una gallina su una
zampa sola, immobile, indifferente, come se non fosse successo nulla.
Fa parte del pollaio di mio padre, ed è l’unica sopravvissuta. Povero
animale! Deve avere una pessima opinione degli umani!
Pochi giorni dopo la cuoca ci prepara un’ottima minestra e, men­
tre la mangiamo, ci accorgiamo che la gallina era stata gravemente fe­
rita: aveva perduto una zampa! Ecco perché stava su una zampa sola.
Aveva sopportato quietamente la sua menomazione, nessun lamento
le era uscito dal becco.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 345

E noi, sempre in cantina. Non ci sarà mai il cessate il fuoco? Ho


preso in braccio il mio nipotino; ho il corpo freddo perché ho paura di
morire; infatti, anche se nell’anima un uomo può guardare la morte in
faccia senza paura, il corpo si ribella. Non sappiamo se moriremo
colpiti da una bomba, sepolti vivi o semplicemente di sete.
Il piccolo chiede:
«Zia Esther, raccontami una storia.»
Ed io racconto, racconto, racconto per tenerlo quieto. Ha una mac-
chinina meccanica, e continuamente gliela devo ricaricare; il suo mo­
vimento è accompagnato da una melodia... Quale?... Mi è così fami­
liare... Ah! sì, la riconosco, è la canzoncina dei porcellini in un film di
Walt Disney: “Chi ha paura del lupo cattivo...”
Per fortuna fa così buio, in cantina, e nessuno può vedere il mio
smarrimento, le lacrime che mi sgorgano dagli occhi. Oh, Dio! mio
Dio, sei onnipresente, il tuo messaggio dice a tutti di non aver paural
«Zia Esther, continua! E poi cosa succede? Racconta ancora!»
implora il piccolo Piero.
Me lo stringo al petto:
«Allora, la madre delle caprette ritorna, e poi...»
Dopo lunghe, lunghissime ore, finalmente, il cessate il fuoco!
Come ogni giorno, mio marito esce in cerca d’acqua e, al suo ritorno,
mi chiama: lo vedo profondamente scosso. Gli trema la voce:
«Esther, sono salito in casa nostra; i bei mobili che hai scolpito, le
tue sculture meravigliose, i dipinti, le statue... è tutto distrutto! Una
camera è senza pavimento, le altre non hanno più pareti... La nostra
casa non c’è più...» e quell’uomo maturo, ancora giovane dentro,
piange e singhiozza sulla mia spalla, come un bambino.
Lo bacio:
«Non piangere! L’importante è che siamo vivi, che siamo usciti sani
e salvi da tutte queste distruzioni. Sculture? Statue? Posso fame delle
altre, non preoccuparti delle cose materiali: la vita prima di tutto!»
Ma si calma con difficoltà:
«La nostra casa mi piaceva tanto, tutte le tue statue, e adesso è
tutto perduto... distrutto...»
«Non importa. Prima o poi finirà, quest’inferno!»
Per un attimo appoggio il capo sulla sua spalla accogliente, ci
abbracciamo e ritorniamo nel nostro buio rifugio. Non è il momento
di essere sentimentali.
Arriva Bo-Ghar e sussurra:
«Cos’è successo? Abbiamo sentito un grande boato dalla parte del
346 Elisabeth Haich

vostro appartamento.»
Gli riferisco ciò che mio marito mi ha appena detto e Bo-Ghar,
solitamente quieto, allegro e sorridente, d’un tratto si agita:
«Devo salire! Devo salvare le nostre diapositive, il mio film sullo
Yoga! Il mio compito, il mio stesso lavoro si riducono a zero se non
riesco a salvarli. Vado!»
«Bo-Ghar, non puoi, stanno sparando sulla casa da tutti i lati. Non
ti permetto di salire!»
Mio fratello, che ha udito la nostra conversazione, dice:
«Lo accompagnerò io, gli darò una mano» ed entrambi, pian pia­
no, escono dal rifugio...
Siamo in attesa, tesi, minuto per minuto... un quarto d’ora...
un’ora... aspettiamo ancora.
Finalmente si apre la porta: Bo-Ghar e mio fratello, entrambi feli­
ci ma spaventosamente sporchi, entrano con la scatola delle diapositi­
ve e le bobine del film in mano. Mio fratello racconta:
«I muri sono crollati, ma l’armadio è rimasto al suo posto nel suo
angolo, su un pezzettino di pavimento di legno! Non riuscivamo ad
arrivarci perché il resto del pavimento è sprofondato, sono rimaste
solo le putrelle metalliche. Inoltre, abbiamo dovuto fare molta atten­
zione ai tiratori scelti, per non farci notare. Così, Bo-Ghar ed io
abbiamo dovuto strisciare su queste putrelle; Bo-Ghar ha preso tutte
le scatole nell’armadio e io ho preso il resto. Abbiamo portato giù
tutto!»
Siamo molto felici di rivederli entrambi al sicuro, nel rifugio. Bo-
Ghar nasconde i suoi tesori in un angolo affinché nessuno possa
scoprirli; l’istante seguente una spaventosa esplosione ci fa sussultare
e scuote tutta la casa: un altro attacco aereo. Sentiamo passare sopra
di noi gli aerei in un boato spaventoso, le bombe, le mine, l’artiglieria
e la fucileria, è una pioggia di fuoco che si abbatte sulla casa. Le
detonazioni, le deflagrazioni diventano sempre più forti, più vicine,
più frequenti, seguite dal fracasso di mattoni, tegole, pietre che crolla­
no un po’ di più ogni volta. Ci aspettiamo che la prossima bomba
cada sul pavimento di sopra, in corrispondenza del soffitto della can­
tina, l’ultima nostra risorsa: e allora, sarà la morte. Restiamo lì, sedu­
ti, muti, estremamente tesi, angosciati al pensiero della morte. Per
quanto tempo ancora potranno reggere i muri? Un colpo mostruoso,
ed il pavimento della cantina si mette a danzare sotto i nostri piedi, la
cameriera di Padre comincia ad urlare sotto l’effetto di una crisi di
nervi, seguita immediatamente da tutte le donne di servizio. Mi alzo
Iniziazione: memorie di un’Egizia 347

di scatto e, a mia volta, urlo più forte che posso:


«Silenzio, state calmi! Dio è onnipresente! Dio è onnipresente!»
Le detonazioni, le esplosioni mi coprono la voce, ma continuo ad
urlare, a gridare:
«Dio è onnipresente! Tutti devono pensare a Dio, a nient’altro, a
Dio soltanto! Che Dio sia con noi! D io! Dio! Dio!»
E, a poco a poco, tutti recitano con me:
«Dio è onnipresente! Dio... Dio... Dio...»
Non sappiamo quanto tempo è durata... A poco a poco ritorna la
calma, le esplosioni si diradano, poi più nulla. Fuori sentiamo i solda­
ti trascinare qualcosa di pesante. Esco: lungo la scala ci sono dei
corpi immobili, c’è sangue; riconosco qualcuno dei giovani soldati
che, solo un’ora fa, erano venuti a scaldarsi nel rifugio e ci avevano
raccontato della loro casa, della loro famiglia, dei loro genitori... che
aspetteranno invano il loro ritomo. E mio figlio? Dove può essere,
quel povero ragazzo? In quale girone dell’inferno?
Poi, molto rapidamente, mangiamo. Dobbiamo approfittare di
questa breve tregua. Dobbiamo aumentare la capacità di resistenza
fisica fintatoché abbiamo ancora da mangiare. Due uomini partono in
cerca d’acqua.
Da quanto tempo stiamo in cantina? Siamo sotto il fuoco inces­
sante da settimane, e mio marito dice:
«Durante la prima guerra mondiale ero a Doberdo e abbiamo subito
un fuoco incessante, però ci davano il cambio ogni quarantott’ore, giac­
ché allora si pensava che i nervi non potessero sopportare di più. Non
avrei mai potuto immaginare di dover reggere un tale fuoco di sbarra­
mento con donne e bambini per intere settimane, senza tregua.»
Siamo tutti seduti qui, avvolti nelle pellicce e negli spessi cappotti
invernali. Da quando siamo scesi in cantina, non abbiamo potuto
toglierci nulla. Il piccolo Piero è in braccio a me, che tengo la valigia
con i gioielli, i soldi e una scatola di biscotti in una mano, affinché il
piccolo abbia qualcosa da mangiare nel caso dovessimo fuggire. Sia­
mo tutti pronti a partire.
La casa vicina è stata distrutta con i lanciafiamme; mio marito ha
ordinato di tenerci assolutamente pronti perché non sappiamo in qua­
le momento il nemico metterà a ferro e fuoco casa nostra cacciandoci
fuori. Ma fuggire dove? Non ne abbiamo la minima idea. Soltanto
andare via, lontano da qui. Il vicino e suo figlio sono caduti sotto i
colpi dei tiratori scelti quando tentavano di lasciare la loro casa in
fiamme, e soltanto la moglie ha potuto salvarsi strisciando fino alla
348 Elisabeth Haich

quarta villa dove l’hanno raccolta.


Pronti, aspettiamo. La mia sorella minore, con il neonato in brac­
cio... Mio padre con i capelli bianchi, vestito con il suo cappotto di
pelliccia nera; la famiglia della mia sorella maggiore, mio fratello, il
personale, tutti tesi al limite della resistenza, con in mano i nostri beni
più preziosi.
Poi, per un attimo, il silenzio: ci piacerebbe così tanto dormire un
po’. I nervi mi bruciano, nella testa c’è il caos. Chiudo gli occhi e
cerco di ritirare la mia coscienza dal mondo esterno per dormire, ma
il piccolo comincia a piangere, le sue urla mi penetrano fino al midol­
lo. Mia sorella cerca di calmarlo, ma lui piange, piange senza sosta...
Anch’io lo prendo in braccio, ma invano, piange disperato. Lo rendo
a sua madre.
Bo-Ghar si fa largo fino a mia sorella, prende il piccolo e gli canta
piano un canto del suo paese, una nenia con la quale si incantano i
serpenti. Il piccolo si calma subito, e finalmente riusciamo a dormire.
Solo Bo-Ghar, con il bimbo fra le braccia, continua a canticchiare
piano la sua canzone.
Passano i giorni - o forse sono settimane? - non ce lo chiediamo
neanche più. Mio marito va a prendere neve in giardino, dietro ad un
muro che lo protegge, per farla fondere e riuscire a radersi, cosa che
fa nella cantina accanto. Non vuole abbandonare le sue abitudini,
mentre gli altri uomini hanno già barba e baffi. Soltanto mio marito e
Bo-Ghar si radono ogni giorno in questo periodo infernale.
Poi mio marito ritorna accanto a noi. Gli attacchi ricominciano
con furore e ci tormentano per ore. Mia sorella porta il biberon del
bambino e gli dà da mangiare; ogni giorno sale quattro volte nel suo
appartamento e, mentre tutto intomo piovono le pallottole, prepara da
mangiare per suo figlio. Dopo averlo nutrito viene da me e, come
ogni giorno, mi chiede:
«Credi che sia quasi finita?»
«No, sento che non ci siamo ancora.»
Eppure, un attimo dopo, una mina esplode proprio sopra di noi, e
ancora una volta sentiamo cadere mattoni e tegole. Il soffitto del
rifugio ha resistito, ma fino a quando? Restiamo calmi e, in me,
chiedo a Dio:
«Devo prepararmi a morire? Nel mio oroscopo si dice che morirò
nel crollo di una casa; è questa la volta buona, o devo continuare a
lottare per vivere?»
D’un tratto, in quel buio, un’immagine mi compare davanti agli
Iniziazione: memorie di un’Egizia 349

occhi: una minuscola collina con in cima una candela simile a quella
di un albero di Natale, con la fiamma che luccica. La collinetta cre­
sce, coprendosi davanti ai miei occhi di una bella erbetta verde sme­
raldo. La candela diventa una torcia con una fiamma alta e chiara! La
mia visione scompare. Allora so che non morirò, ma che dovrò diven­
tare quella torcia. Dovrò portare la luce al mio prossimo, luce, luce,
luce, luce...
Durante la notte, il piccolo piange finché Bo-Ghar non lo prende
in braccio. Cerchiamo di dormire, ma una mina esplode vicinissima, e
sento l’aria gelida infiltrarsi nel rifugio. Gli uomini corrono a consta­
tare i danni: uno dei muri della cantina è crollato. C’è un buco e tutti
pensiamo al prossimo attacco... Aspettiamo. Sussurro a mia sorella:
«La fine è vicina. Domani mattina, la nostra casa cadrà.»
«Sì — risponde mia sorella — anch’io sento così. Oppure morire­
mo tutti.»
Mio marito mormora:
«Con oggi, sono esattamente cinque settimane che viviamo nel
rifugio...»
Stranamente il cannone nemico tace; non cade più nessuna bom­
ba. Le mitragliatrici, invece, non smettono un attimo di crepitare. Mio
marito, seduto accanto a me, mi dice:
«Questo vuol dire che la fanteria è già vicinissima: non sparano
più con i cannoni perché potrebbero colpire i loro. Il nemico può
entrare qui da un momento all’altro.»
Nel pomeriggio esco per vedere che ne è di Padre; non appena
faccio un passo fuori dal rifugio, scorgo soldati stranieri vestiti di
bianco correre nella nostra direzione, provenienti dalla casa vicina, e
urlo:
«Padre, Padre, venite tutti, il nemico è arrivato!»
Ci precipitiamo tutti all’interno, ma i soldati nemici armati sono
già qui. Silenzio di morte. Per un attimo ci osserviamo. Mi sembra
che si sia fermato il tempo...
I soldati indossano tutti ampi mantelli bianchi, e fuori tutto è
bianco; sembrano bambini che giochino davanti all’asilo...
Un soldato dice qualcosa di incomprensibile indicando le donne, e
supponiamo di dover andare verso destra. Poi, ancora qualche strana
parola che riguarda gli uomini, i quali devono immediatamente anda­
re via, seguire i soldati. Non abbiamo neppure il tempo di salutarci.
Gli uomini sono già lontani e noi donne restiamo con i soldati. Pronti
a sparare, frugano ogni angolo della cantina per snidare qualche sol­
350 Elisabeth Haich

dato eventualmente nascosto; un giovanotto si avvicina alla culla in


cui dorme tranquillo il neonato, lo guarda, e gli occhi gli si riempiono
di lacrime. Con infinita tenerezza pronuncia una parola di cui com­
prendiamo il senso:
«Bambino piccolo...»
Ci guarda, fa un cenno nella direzione del suo paese e ci fa capire
che, a casa sua, anche lui ha un bambino piccolo... Tranquillizzata,
penso che questi soldati sono brava gente, che anche loro hanno un
cuore.
Entra un ufficiale, si siede e ci dice in una lingua europea:
«Non vi faremo alcun male, facciamo parte delle truppe d’assalto
e siamo figli di una classe ormai estinta. Ma state attente: noi dobbia­
mo continuare l’avanzata e arriveranno soldati molto diversi da noi.
State molto attente!»
Nel tardo pomeriggio la sparatoria ricomincia. Ma questa volta,
non sono più i soldati stranieri a spararci addosso, bensì il nostro
stesso esercito che tenta di riconquistare la postazione. Rimaniamo
nel buio della cantina e udiamo il rumore infernale della battaglia che
miete vittime. Una terribile esplosione fa volare in pezzi la finestra
della cantina e sbatte verso l’esterno il pesante battente di ferro della
persiana. Simili a grandine, le pallottole crepitano all’interno. Ci rifu­
giamo lungo un muro, non possiamo più muoverci, siamo in pericolo
mortale, ogni movimento è un rischio. Eppure, bisogna cercare di ri­
chiudere quel battente.
Mi guardo intorno. Tutte le donne e i bambini si sono messi al
coperto lungo il muro perché, appena qualcosa si muove nella canti­
na, una pioggia di pallottole si abbatte su di noi. La situazione non è
più sopportabile. La persiana dev’essere richiusa!
Mi sento invadere da uno strano freddo: ogni mio nervo è gelido,
non ho più alcuna percezione di me stessa.
«Paura? — mi dico. — No! Chi può mai aver paura, in me, giac­
ché ho l’impressione di non esistere!»
Eppure, ancora mi osservo con curiosità: che si sente, che si prova
davanti ad una situazione di questo genere? Come reagisce la natura
umana quando l’uomo deve fare per forza l’eroe, anche se non vuo­
le?...
In un angolo vedo un bastone da passeggio con il manico ricurvo.
Mi sdraio sul ventre e, con prudenza, striscio verso questo bastone e
lo prendo per la punta, poi mi dirigo verso la finestra. Intanto, uno
strano pensiero mi passa per la testa:
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 351

«I candidati nella piramide dovevano passare una prova che con­


sisteva nel disprezzare la morte. Forse è quello che sto facendo ades­
so, in questo rifugio? Forse tutto questo è solo un sogno durante la
mia iniziazione nella piramide?»
Mentre striscio prudentemente verso la finestra, la mia ragione
risponde:
«Sì, era facile per i candidati della piramide. Sapevano che si
trattava soltanto di una prova iniziatica! Ma queste pallottole qui, non
sono mica sogni, uccidono sul serio. Quanti poveri ragazzi sono già
stati uccisi, qui!»
Bene, proprio p er questo, quella persiana va richiusa.
Resto accovacciata, col bastone in mano. Poi, in un balzo, sono in
piedi, tendendo il braccio e la canna all’esterno della finestra. Tutta la
parte superiore del mio corpo è esposta, giacché devo sporgermi per
raggiungere il bordo della persiana con la canna. Mi sembra che il
mio corpo si allunghi, si allunghi fino a raggiungere il battente e lo
tiri lentamente, ma con fermezza. Le mie sorelle accorrono in aiuto
per risistemare la persiana e fissarla solidamente.
V \

E finita! E stato facile. Nessuna tensione, nessun panico, nessuna


commedia. Come mai i soldati che avevano sparato sulla nostra fine­
stra tanto generosamente non hanno sparato su di me? Qualcosa ha
impedito loro di farlo; o forse non volevano sparare su una donna?
«Zia Esther, racconta ancora...» dice il piccolo Piero, ed io rac­
conto storie che non finiscono mai...
Dopo una notte di indescrivibili orrori, dobbiamo lasciare le rovi­
ne della nostra casa. Mi è rimasta impressa una tale serie di immagini
di quella notte, che mi risulta ancora difficile credere che sia accaduto
davvero. La conquista di una nazione assomiglia all’incontro fra le
energie maschile e femminile, ad un matrimonio violento. Un Paese
ne conquista un altro, penetra nel suo corpo, scorre il sangue. Gli
abitanti, simili alle cellule del corpo violentato, muoiono; eppure da
quell’incontro nasce una nuova vita, un mondo nuovo, una nuova
creazione. L’incontro è crudele, violento, come la creazione di qualsi­
asi nuova vita. Ma la natura guarda sempre e solo davanti a sé, verso
il futuro, e per raggiungere il suo scopo non esita a sacrificare innu­
merevoli cellule. Dall’incontro intimo di due Paesi, quello conquista­
to e quello dei conquistatori, sgorga la vita nuova, sia sul piano spiri­
tuale che su quello materiale.
Dall’unione delle due razze nasce una nuova cultura, le cellule del
corpo si mischiano e la discendenza presenterà ed esprimerà le carat­
352 Elisabeth Haich

teristiche di entrambe le razze. La natura produce tipi intermedi, ibri­


di, individui di transizione per sfumare le differenze e conciliare gli
aspetti contrari troppo brutali fra le razze ed i Paesi.
Durante quella terribile notte nel rifugio, ho dovuto riconoscere
questa verità. Ho dovuto assistere al matrimonio sanguinario e crude­
le di due nazioni, fonte di orribili tragedie individuali. Ima mi ha sal­
vata dalla sorte riservata quella notte a quasi tutte le donne: quando
un soldato si gettò su di me nell’angolino della cantina in cui mi ero
rannicchiata, cercando di forzarmi a seguirlo, riuscii ad articolare
maldestramente poche parole nella sua lingua:
«Io madre. Figlio in guerra. Tu, avere anche madre a casa. Lascia­
mi...»
Negli occhi del povero soldato ubriaco il cui corpo era stato dro­
gato da compresse che eliminano ogni sensazione di paura, si accese
un barlume di comprensione. Vidi che aveva dovuto pensare a sua
madre. Incollerito, mi respinse con rabbia in un angolo ed uscì.
Il mattino seguente, seguendo una voce interiore, scappammo. Sì,
avevamo sentito che ci guidava una potenza superiore, e questo ci
salvò dalla sorte terribile che attendeva tutte quelle che avevano scel­
to di restare fra le rovine della nostra casa. Vie insondabili... In segui­
to, tutto si svolse come in un sogno caotico.
Dopo cinque settimane di buio, ci trovavamo d’un tratto alla luce
abbagliante del sole; i nostri occhi facevano fatica a sopportarla.
Un ultimo sguardo alla nostra bella a grande villa, un mucchio di
macerie, di rovine, di travi aggrovigliate, spezzate, bruciate, poi attra­
versiamo la strada fra i cadaveri e le rovine, dirigendoci verso una
scalinata. Mia sorella, con il neonato in braccio, cade nella neve alta;
io corro in suo aiuto, ma cado anch’io tenendo per mano l’altro bam­
bino. Sotto la neve sono nascosti fili di ferro che rappresentano per
noi ostacoli terribili, difficili da superare con i bambini. Un soldato
nemico di una certa età prende in braccio il bambino e ci aiuta a
passare. Io sono l’ultima; non possiamo comunicare con questo solda­
to, ma ci guardiamo negli occhi ed io stringo con cordialità quella sua
mano onesta, un gesto ch’egli mi rende con eguale calore. Continuia­
mo il nostro percorso a zigzag cercando di proteggerci dalle mine che
esplodono e dalle sparatorie che continuano a minacciarci. I bambini
piangono. Mi tiro dietro con fermezza il piccolo Piero che non può
più camminare in questo freddo terribile, in questa neve davvero
troppo alta per lui. Non riesco più a portarlo in braccio. Di quando in
quando ci fermiamo sotto un balcone per riprendere fiato e scaldare le
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 353

mani dei bambini con il fiato. Poi ripartiamo, spingendoci più lonta­
no, senza una meta, guidate da una forza interiore...
Ci sembra di sognare quando, finalmente, ci accolgono in una
casa: un caporale dell’esercito nemico ci protegge dalle brutalità dei
suoi stessi compagni e, un giorno, mi dice:
«Attenzione, piccola madre. Un buon soldato, dieci cattivi soldati!
Non sono tutti gentili come me nel nostro esercito, io che vi proteggo.
Attenzione, quando dovrò andarmene!»
Sì, sappiamo che i soldati nemici non sono tutti così umani! L’ab­
biamo scoperto in quella notte di orrore che non dimenticheremo mai.
Gli uomini sono scomparsi... Abbiamo ritrovato quasi subito Pa­
dre, Dio sia lodato. Il vecchio signore se ne andava tranquillamente a
spasso in mezzo al massacro, senza preoccuparsi, delle palle di canno­
ne. E mentre tutti venivano spogliati di qualsiasi cosa avessero addos­
so, pelliccia, cappotto, guanti, soldi, orologio, stilografica, ecc., Padre
era andato a trovare una vecchia amica senza incontrare ostacoli,
senza che un solo soldato l’avesse disturbato. La sua radianza possen­
te aveva agito anche sui soldati nemici, proteggendolo da loro.
Pochi giorni dopo qualcuno bussa alla casa che ci ospita, nella
quale abitano quattordici soldati, alcuni rifugiati e noi, donne e bam­
bini: è Bo-Ghar, con gli abiti a brandelli, con i piedi sanguinanti. E un
miracolo che sia ancora vivo, dopo tutto quello che ha dovuto passa­
re. Alcuni vicini gli hanno indicato la direzione che avevamo presa, e
lui ci ha ritrovati...
Poi tocca a mio fratello ricomparire, anche lui in uno stato misere­
vole, giacché ha dovuto camminare per centinaia di chilometri. Ha
trovato due scarpe... Entrambe per il piede sinistro, ma le indossa con
la sua solita dignità. E vivo, e questo è l’importante...
Nessuna notizia di mio marito. Un giorno ho avuto una visione che
non mi ha più abbandonata: lo vedo giacere nella neve, lungo la
strada... Cosa gli è successo?
Dopo lunghe, lunghissime settimane di vana attesa, finalmente lo
ritrovo, gravemente ferito, nella fattoria di un contadino caritatevole.
La mia visione non mi aveva ingannata...
Passano settimane, mesi. Abbiamo fame, e non si sa mai se il
giorno dopo si mangerà. Eppure, un giorno, la guerra finisce.
Cerchiamo di rendere abitabili le rovine della nostra casa; Bo-
Ghar ed io lavoriamo giorno e notte per cercare di procurarci il cibo
malgrado la penuria generale. Mio marito resta a letto per mesi prima
di poter finalmente camminare con due stampelle. Che fortuna, essere
354 Elisabeth Haich

scultrice! Faccio il muratore; prendo le porte dai muri distrutti e le


metto là dove ci servono. Fabbrichiamo le cornici per le finestre e su
queste, in mancanza di vetri, mettiamo della carta spessa. Con le
mani, scaviamo fra le rovine per ricuperare qualche utensile da cuci­
na, delle pentole, delle posate contorte. Bo-Ghar ed io portiamo a
casa diverse centinaia di chili di carbone in una carretta che ci hanno
imprestato; corriamo come due bravi cavallini ma, lungo la salita, la
carretta è così pesante che riusciamo a malapena a far sì che non
scenda di nuovo, e la spingiamo su con l’energia della disperazione
fino a ritrovare finalmente una carreggiata in piano su cui riprendere
il trotto! Ripuliamo tutti i resti dei mobili che troviamo e con essi ne
fabbrichiamo altri: lavorando di chiodo e martello, si fa del nostro
meglio fino al giorno in cui possiamo finalmente riaprire la scuola di
Yoga. Bo-Ghar insegna gli esercizi fisici che aveva imparato con
Mentuptah ed io dò lezioni teoriche secondo l’insegnamento di
Ptahhotep, in Egitto.
Passano i mesi. La preoccupazione di procacciarsi il cibo diventa
meno impellente; i nostri allievi e la nostra parentela di campagna ci
portano chi un pugno di farina, chi qualche patata, un po’ di uova, a
volte persino un pezzetto di burro.
Ma di mio figlio nessuna notizia.
Diciotto mesi più tardi, finalmente, qualcuno suona alla porta.
Apro: è Ima!
Avevo sempre immaginato che, in una tale situazione, una madre
e suo figlio si sarebbero precipitati l’uno nelle braccia dell’altra con
un grido di gioia e singhiozzando... Ma no! Lo guardo sorpresa. Ci
V

abbracciamo con calma, con aria grave. Ora respiro meglio! E vivo,
non ha subito danni, tranne una cicatrice sulla sua bella fronte, unico
segno di una caduta con l’aereo.
Ma ho molta paura: conosco Ima, e so che in questo Paese ove
attualmente regnano la brutalità, la volgarità, la stupidità, lo spirito
del caos, non c’è posto per lui! E soltanto colui che conserva un’asso­
luta fiducia in Dio, una completa pace interiore e tace per sopportare
queste condizioni, potrà restare senza mettere la sua vita in pericolo.
Ma Ima non starà zitto! Non capisce che non siamo nel Tempio dove
l’amore, la verità, la sincerità regnano incontrastati, dove ognuno può
esprimere le sue idee senza rischiare di essere mal interpretato. Ima
non riuscirà ad adattarsi a questo mondo, non tollererà le ingiustizie e
vorrà combattere lo spirito infernale che ormai prevale in questo Pae­
se. Apparentemente ha dimenticato chi è, anche se gli è rimasto un
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 355

concetto molto elevato delle cose, gli sono rimasti la sua onestà ed il
suo coraggio. Crede di potersi aspettare altrettanto dai figli degli uo­
mini, vuole credere nell’uomo, e rimuove nel suo inconscio l’incrolla­
bile fede in Dio che impregna perfettamente la sua anima.
Va da una delusione all’altra; perché rimuove quella sua fede in
Dio? Perché non vuole più credere in Dio? Questo spiega tuttavia la
sua mancanza di fiducia in se stesso! Constato che deve aver subito
una terribile scossa psichica, ma dove, e quando? Perché ho la sensa­
zione continua e pesante d ’essere stata io a causargli questo male,
questa spaventosa delusione? So che è per causa mia che ha perso la
sua fiducia, una volta, chissà in quali circostanze, ma non riesco a
scoprirne la ragione. Una cosa mi sembra perfettamente chiara: sono
io che devo ricondurlo a Dio, ed è per questo che è diventato mio
figlio. Devo risvegliare in lui, rendere cosciente la sua fiducia in se
stesso che è identica alla fiducia in Dio, perché è a causa mia che l’ha
persa. Deve riconoscere che l’amore profondo e la fiducia che ha in
me sono solo una proiezione della grande fiducia che ha in Dio,
racchiusa nel suo inconscio. Deve riconoscere ed amare cosciente­
mente Dio in ogni persona. La persona è soltanto un guscio, la ma­
schera attraverso la quale Dio si manifesta. Deve vedere chiaramente
che ciò che egli ama in una persona, è quanto di bello, buono, autenti­
co ci sia in essa, ovvero Dio, e non la persona. Anche in me, che so di
essere la persona che egli ama di più! Tocca a me dirigere questo
amore verso Dio. Deve capire che ama anche Dio in me, e che la mia
persona non è altro che uno strumento mediante il quale Dio si mani­
festa sotto forma di amore materno ; che attraverso ogni persona che
ama - quindi anche me - egli ama Dio, non la persona. Allora potrà
capire meglio me e tutti gli altri, ma soprattutto se stesso, e sarà la
fine di tutte le delusioni.
Più tardi, devo sopportare di vedere il mio unico figlio, l’essere
che amo di più al mondo, abitare in una camera non scaldata, senza
coperta, praticamente senza nulla da mangiare, mentre fuori la tempe­
ratura è da settimane a 20° sotto zero. Potrei facilmente trovargli una
camera riscaldata, potrei dargli da mangiare e procurargli tutto ciò di
cui ha bisogno. Ma so che è meglio per lui salvare la sua anima piut­
tosto che il suo corpo. Per amor suo, devo essere crudele !
Mi inginocchio ai piedi del mio letto, e nel buio parlo con Dio:
«Sii con lui, o Dio! e fai che egli Ti ritrovi e che si ritrovi.
Consentigli di trovare la strada che conduce a Te e fai che non se ne
allontani mai! Sveglialo, svegliaTi .in lui, Dio, giacché abiti anche in
356 Elisabeth Haich

lui e devi risvegliarTi in lui affinché egli si risvegli, perché le mie


forze non bastano più. Deve diventare cosciente di ciò che è, altri­
menti è perduto. E Tu conosci l’unica via che può ricondurlo a Te, a
riconoscerTi, mio Signore, mio Dio, a riconoscersi: deve sentirsi ab­
bandonato da tutti ed essere certo che anch’io l’ho abbandonato; deve
essere deluso da tutti, deve perdere ogni speranza per poterTi ritrova­
re, per ritornare cosciente in Te, cosciente di sé. Tu sai, mio Dio, che
non ho altra scelta per salvarlo; non posso e non devo più dimostrar­
gli il mio amore: deve trovarTi da solo. Sono soltanto un essere
debole, mio Dio, ma Tu, Tu sei Dio. Tu sei amore, l’ami più di
quanto possa fare io. Dio, sii con lui sempre e dovunque, perché ora
debbo essere crudele. Amalo con il Tuo amore divinoì Prendilo sotto
la Tua protezione in questa sua lotta, mentre passa attraverso questa
prova dolorosa affinché non perda la salute per sempre. Sai che se
pecca contro la sua salute è solo perché ha perso fiducia e, nel suo
inconscio, vorrebbe distruggersi e morire. Proteggilo, apri i suoi occhi
spirituali, non abbandonarlo... non abbandonarlo... non abbandonar­
lo...»
E così di seguito, notte dopo notte...
Una sera, mentre sto per inginocchiarmi per parlare di mio figlio
con Dio, accade qualcosa di strano: con mia grande sorpresa, intorno
\.

a me aumenta la luce. E sempre più chiara, e in questa luminosità che


sta ancora aumentando, mi appare un paesaggio bellissimo. C’è
un’alta montagna percorsa fino alla cima da un sentiero stretto e
difficile; so che questa strada conduce alla meta, a Dio, e la imbocco
senza esitare.
Il sentiero passa attraverso un paesaggio gradevole, e mi conduce
sempre più in alto fino al momento in cui, lasciato alle spalle il verde
degli alberi, mi ritrovo nella regione inospitale delle alte vette. Il
sentiero si fa sempre più erto, stretto, pietroso, ma mi ci arrampico
con straordinaria facilità: mi sembra quasi di galleggiare.
I territori abitati sono lontani, alle mie spalle, ed il mio orizzonte
si allarga. La vista abbraccia tutto ciò che si estende sotto di me, ma
non devo perdermi in queste considerazioni; dopo innumerevoli tor­
nanti, il sentiero finisce ai piedi di una scala di pietra composta da
sette gradini, ognuno dei quali è due volte più alto di quello che lo
precede.
Sola, sotto la volta celeste, contemplo questa scala sapendo con
assoluta certezza di doverci salire.
Avanzo con un respiro profondo e una grande fiducia nelle forze
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 357

di cui il Creatore ha dotato ognuno dei suoi figli, forze che durante
quella mia lunga escursione non si sono esaurite ma, anzi, sembrano
essersi moltiplicate.
Il primo gradino è facile: devo vincere il peso del mio corpo per
superarlo. È davvero facile.
Il secondo gradino è già un po’ più alto, e risveglia la resistenza
del corpo; ma è già molto tempo che padroneggio le energie del cor­
p o , e salgo il gradino senza alcuna fatica.
Il terzo è parecchio più alto. Devo trionfare dei miei sentimenti
per issarmici, e non appena li controllo mi ci trovo sopra.
Quando guardo il quarto gradino, vengo colta dal dubbio: come
riuscirò ad arrampicarmi lassù? Ho ancora abbastanza energia? In
quel momento, riconosco che è proprio il dubbio a togliermi le forze
ed a paralizzarmi; il dubbio è un pensiero, quindi devo vincere i mìei
pensieri per trionfare sul dubbio. Grazie al lungo allenamento e a tutti
gli esercizi praticati nel Tempio, so come fare: chiamo a raccolta tutte
le forze del mio spirito, io sono la fiducia in Dio e non penso a nulla.
E, con i miei pensieri, scompare anche il dubbio, sicché eccomi sul
quarto gradino.
Ho la strana sensazione di crescere a mano a mano che salgo.
Sono già molto più alta di quanto non fossi sul primo gradino; eppu­
re, il quinto è così alto che non riesco a salirci se non usando le
braccia ed i piedi. Con grande difficoltà mi aggrappo, mi isso ed
avanzo con molta fatica, ma d’un tratto provo l’indescrivibile sorpre­
sa di non aver più corpo; tutto ciò che era materiale in me è scompar­
so, ed io sono diventata uno spirito invisibile.
Ai piedi del sesto gradino mi attende un’altra difficoltà: giacché
non ho più corpo, non ho più né piedi né mani per aggrapparmi e
arrampicarmi; come fare?
Mi guardo intorno per trovare una soluzione e d’un tratto vedo,
disteso ai miei piedi, il mondo intero! Tutti i paesi, le città, le case e
le innumerevoli creature, simili a giocattoli... Mi sento invadere da un
amore infinito per loro; penso alle sofferenze di tutti coloro che per­
corrono il lungo e laborioso cammino della conoscenza, penso a tutti
quelli, così numerosi, oh! talmente numerosi, che ancora errano nel
buio, prigionieri del loro stesso egoismo, come anch’io sono stata un
tempo!...
Oh miracolo! nel momento in cui il cuore mi si riempie d ’amore
universale, salgo sul sesto gradino.
È così che mi trovo davanti al settimo ed ultimo gradino, il più
358 Elisabeth Haich

alto, alto come me. Un desiderio ardente si sprigiona da tutta me


stessa: devo, voglio salirci! Invano. Non so come fare, giacché non ho
mani né piedi, e non ho la forza muscolare del corpo per raggiungere
la meta. Tutto ciò che so è che voglio, devo salirci perché lassù
troverò Dio e voglio vedere il Suo volto.
Resto lì. Aspetto. Non succede niente.
Mentre mi guardo intorno, noto che non sono sola: un altro essere
è arrivato su questo sesto gradino. Mi implora di aiutarlo a raggiunge­
re la meta e nel comprendere l’ardore del suo desiderio, dimentico il
mio, cerco di aiutarlo a salire il settimo gradino.
Nel momento stesso in cui dimentico il mio desiderio, non so che
accade ma sono io che mi trovo lassù, mentre il mio compagno è
scomparso senza lasciare la minima traccia. Era soltanto un’illusione
per aiutarmi a dimenticare l’ultimo desiderio ancora imperniato su di
me: fintantoché voglio elevare la mia persona, non mi è possibile
supéràre il gradino che è alto come me.
Sonò arrivata! Immediatamente, percepisco la figura di luce di un
essere celeste: la mia metà complementare! La sua forza d’attrazione
irresistibile mi chiama a sé e, con gioia e felicità mi fondo in lui, nel
suo cuore, in perfetta unità. Sono cosciente del fatto che Egli è sem­
pre stato Me, ed Io Lui, immagine dualistica proiettata dal mio vero
Sé divino. In quello stato dualistico, guardavo a Dio come ad un
essere separato da me e lo sentivo come un “Tu”. Ora, in quest’unio­
ne paradisiaca, sento che sto per diventare quella potenza invisibile
che fino ad ora ho chiamato Dio. Un disco di fuoco comincia a
girarmi attorno, ed è nel suo asse immutabile, nella mia colonna
vertebrale, che abita il mio Sé autentico, IO.
Sento la mia colonna vertebrale bruciare come un arco di fuoco,
come un ponte di corrente vitale che irradi una luce abbagliante in
ognuno dei miei sette centri di energia ed animi tutto il mio corpo.
Fuori dal tempo e simultaneamente, vedo l’interminabile catena di
tutte le forme di vita in cui mi sono incarnata fin dalla prima separa­
zione dall’unità paradisiaca, forme che costituiscono il lungo, lun­
ghissimo cammino dello sviluppo, tutto ciò che sono stata, tutto ciò
che ho vissuto fino a questo momento. Osservo che le mie innumere­
voli vite sono state, sono e saranno sempre legate agli stessi spiriti;
gli eventi delle vite precedenti hanno creato nuove relazioni, nuovi
sviluppi, nuovi rapporti che si completano reciprocamente, simili alle
tessere di un grande mosaico.
Riconosco i legami che mi uniscono alla mia metà complementa-
Iniziazione: memorie di un’Egizia £ 359
V\

re, con Ptahhotep, con Atothis, con Ima, Bo-Ghar e tanti altri. In tutte
queste relazioni che abbiamo vissuto, vedo come anime più avanzate
ci abbiano aiutati, come ci siamo aiutati reciprocamente, come abbia­
mo assistito quelli che erano meno avanzati di noi, come abbiamo
lavorato per la spiritualizzazione della Terra sviluppando la nostra
coscienza nella materia, nel corpo. L’esperienza che abbiamo accu­
mulato nel corso di tutte queste vite e di cui tutti beneficiamo, serve
ad allargare e ad approfondire la coscienza nel corpo che, progressi­
vamente, diventa più spirituale e più bello. La materia che compone
le nostre varie forme di manifestazione si fa più elastica, più morbida
e risponde sempre meglio alla volontà e alle radianze dello spirito,
fino a che il corpo diventa, finalmente, il servo obbediente del Sé che
non maschera e non trattiene più alcun raggio luminoso dello spirito.
Comprendo il mistero della piramide perché sono diventata piramide
usando la materia, il corpo, esclusivamente come base solida, ma che
manifesta costantemente il divino !
Intorno a me, la terra, il cielo, l’intero universo si fondono in un
mare di fuoco; sono circondata da fiamme immense. Per un attimo ho
l’impressione che verrò distrutta con tutto il cosmo: ci sono lampi che
mi percorrono le vene, il fuoco mi consuma tutta e poi, d’un tratto,
tutto cambia; il fuoco non brucia più, io stessa sono questo fuoco ce­
leste che penetra, anima e consuma ogni cosa. Vengo inondata di
luce, ma questa luce emana da me. Io sono la fonte di questa luce e di
tutto ciò che è. La Terra non ha più alcuna influenza su di me, la sua
forza gravitazionale che mi ci incatenava non agisce più e io fluttuo
nel Nulla, il mio ESSERE non conosce più alcun limite. Ora, io sono
colei che attrae tutto a sé giacché nulla più mi àncora, nulla più mi
attira...
Cerco coloro che ho amato, giacché so che non hanno potuto
essere distrutti; ma invano cerco nel Nulla intorno a me: nel vuoto,
non c’è altri che me\ allora rivolgo la mia attenzione all’intemo.
Ed ecco! Riconosco che tutto e tutti vivono in me\ L’universo è in
me perché tutto ciò che è vive in me; io sono tutto ciò che è; io mi
amo in ciò che amo; comprendo che tutto ciò che avevo creduto di
non amare era soltanto ciò che ancora non avevo riconosciuto dentro
di me\ Ora che mi conosco perfettamente, amo tutto e tutti con lo
stesso amore, giacché io sono una con essi, io sono “io ” in Tutto,
uno-in-Tuttol
Io sono il compimento, la vita, TESSERE raggiante, eterno ed
immortale... Non c’è più né lotta, né rimpianto, né sofferenza. Non
360 Elisabeth Haich

c’è neanche più declino, né fine, né morte. In tutto ciò che nasce io,
l ’immortale, comincio una nuova forma di vita e, in tutto ciò che
muore io, l ’immortale, mi ritiro in me stesso, nel Sé eterno, divino,
creatore, mantenendo e rinnovando ogni cosa.
Noto che lo spazio e il tempo esistono soltanto alla periferia del
mondo creato, simile ad un disco che gira a folle velocità. Ma in me,
10 sono l ’eternità senza tempo né spazio. E mentre riposo in me, con
11 mio ESSERE eterno riempio lo spazio e tutto ciò che in esso vive:
IO SONO L’UNICA REALTÀ
10 SONO LA VITA! IO SONO COLUI CHE SONO!
Riposo in me e sento una pace infinita... Ma in quella pace, odo
un richiamo che mi obbliga a reintegrare il corpo che avevo disertato.
Volgo il faro della mia coscienza nella direzione da cui giunge questo
appello, e riconosco la voce che si rivolge al mio essere, la voce
familiare ed amata del mio maestro Ptahhotep. Mi chiama...
Lascio il mio Sé celeste per rivestire l’abito dell’“io” personale.
Ma in me, resto cosciente di ciò che sono...
Sono di nuovo umana, ma nel cuore porto il Sé divino divenuto
cosciente, Dio. Ormai, è Lui che agirà attraverso la mia persona... e
lentamente apro gli occhi.
11 mio sguardo incontra gli occhi azzurri e incredibilmente profon­
di del mio maestro Ptahhotep, che emettono la stessa luce, lo stesso
amore, la stessa pace che ho appena vissuto nello stato di liberazione
e beatitudine dell’iniziazione e che mi porto nel cuore.
Non posso articolare alcuna parola. Non riesco ancora a trovare il
giusto rapporto tra il mio Sé e il mio corpo.
Ma non ho più bisogno di parlare, giacché conosco i pensieri e la
volontà del mio maestro. Siamo nell’unità spirituale, in Dio. Tutti in
uno!
Mi appoggia sul cuore la sua mano destra, e sento la vita ritornar­
mi nel corpo. Respiro profondamente, la corrente vitale penetra nei
miei arti anchilosati; il cuore riprende a battere vigorosamente e, a
poco a poco, riprendo il controllo del corpo.
Ptahhotep ed il suo assistente mi aiutano a sedermi, poi ad uscire
lentamente dalla bara. Sono ancora vacillante. Ptahhotep e l’altro
gran sacerdote mi prendono per mano e mi conducono fuori dalla
nicchia in cui si trova il sarcofago iniziatico. Vedo che tutti gli iniziati
del Tempio, tutti i sacerdoti e le sacerdotesse sono riuniti nella grande
sala dell’Arca dell’Alleanza e mi attendono solennemente. Quando
entro, accompagnata dai due gran sacerdoti, mi accolgono con il salu­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 361

to segreto degli iniziati, la sillaba magica sacra


«OM»...
Mi sento come un neonato fra i risuscitati; il mio corpo è sempre
com’era prima, eppure io sono diventata un essere diverso. Mi trovo
in un mondo nuovo: non vedo più le cose dal di fuori soltanto, ma
anche nella loro essenza, vedo il nucleo sul quale è stata edificata la
forma esterna la quale è semplicemente una manifestazione.
Mi trovo fra i risuscitati; il mio essere profondo vibra all’unisono
con la parola magica divina - mantram. Con l’aiuto di questa vibra­
zione indescrivibile, di questa intonazione, faccio l’esperienza nella
coscienza fisica dell’unità del Sé divino con tutti questi iniziati e con
l’universo. Sono venuti tutti, sacerdoti e sacerdotesse, per salutarmi
dopo la mia resurrezione e testimoniare il loro amore divino per me.
Anche mio padre Atothis è presente ed anch’egli indossa la semplice
veste bianca degli iniziati. Il dolce maestro Mentuptah è qui, ed insie­
me a lui c’è il mio caro fratello Ima. Quando i miei occhi incontrano
il suo nobile sguardo, mi sorride e mi ritornano in mente tutte le
visioni oniriche, le prove più difficili dell’iniziazione, quelle della
“rinuncia totale” e dell’“amor crudele”. Ima, caro ed amato Ima, sai
che, nell’iniziazione, sei stato tu ad aiutarmi a superare l’esame più
difficile?
La figura maestosa di una sacerdotessa di una certa età si stacca
dal cerchio degli iniziati, tende una veste a Ptahhotep ed eccomi in
abito sacerdotale. Poi gli consegna il diadema, il segno degli iniziati,
ed è Lui a poggiarmi sul capo il nastro d’oro con la testa di serpente,
simbolo dell’energia di vita procreatrice trasformata e spiritualizzata,
che ora porto con pieno diritto, non soltanto in qualità di regina, ma
anche quale iniziata.
Eccomi dunque sacerdotessa, al grado più basso della gerarchia.
Tocca a me soltanto decidere se salire progressivamente di grado fino
ad essere degna di usare il bastone della vita.
Ptahhotep mi si avvicina, mi posa una mano sul capo in segno di
benedizione, poi mi prende per mano e mi conduce verso gli iniziati,
verso il secondo gran sacerdote che, a sua volta, mi benedice. Poi,
eccomi davanti al mio amato padre: sento tutto l’amore del suo cuore
riversarsi in me dalla sua mano. Passo davanti ad ogni iniziato rispet­
tando il rango, e ne ricevo la benedizione; l’ultimo è Ima, che è stato
iniziato poco tempo prima di me: mi benedice, ma sento che gli trema
la mano...
Ptahhotep mi conduce all’Arca dell’Alleanza. Mi inginocchio e,
362 Elisabeth Haich

per la prima volta, mi viene permesso di posarvi le mani. Sento


l’energia di fuoco emessa dall’Arca ricaricare ogni goccia del mio
sangue; respiro profondamente, fin nel mio essere più profondo, ed
ora, nella mia coscienza risvegliata - nel corpo - vivo, provo il compi­
mento dell’unità paradisiaca, l’onnipotenza e l’onniscienza in Dio...
Comprendo e faccio l’esperienza dell’ESSERE. Ovunque volga il
faro della mia coscienza, tutto mi appare chiaro, luminoso e le ultime
verità si svelano davanti ai miei occhi. Faccio l’esperienza deU’illimi-
tata potenza che conferisce al mio Sé la facoltà di dirigere l’energia
divina creatrice.
Ptahhotep mi riprende per mano e passiamo attraverso le sale che
avevamo percorso in senso inverso prima dell’iniziazione; ecco la
porta di pietra, ed eccoci di nuovo nel Tempio. Gli iniziati ci seguono
lentamente, tutti i neofiti ci attendono ed ora tocca a me compiere il
mio primo dovere in qualità di sacerdotessa. Rimango davanti all’al­
tare accanto a Ptahhotep. In raccoglimento, i neofiti sfilano uno dopo
l’altro per ricevere la mia benedizione: poso la mano destra sulla loro
testa. Il corteo si chiude con i bambini della scuola dei neofiti, fra cui
il mio figlio adottivo Bo-Ghar che si inginocchia davanti a me, mi
guarda adorante prima di chinare il capo e ricevere la mia benedizio­
ne. Oh Bo-Ghar, mio piccolo Bo-Ghar, quale strano ruolo hai avuto
nel mio sogno iniziatico!...
Ha fine la mia prima cerimonia nel Tempio, e Ptahhotep mi lascia
da sola nella cella che occupavo prima dell’iniziazione. Le regole
severe mi obbligano a riposarmi prima di prendere un po’ di cibo e
qualcosa da bere.
Resto a lungo sul mio giaciglio, pensosa, non riuscendo a liberar­
mi dalle strane visioni iniziatiche. Incubi! Che gioia sapere che tutto
questo era solo un sogno, e che mi sono svegliata! Com’è possibile
che abbia in me tali immagini, così da poterle sognare? Non possono
rappresentare la realtà! È impensabile che l’umanità cada così in bas­
so, che gli uomini si uccidano fra loro con tanta crudeltà, con armi
così infernali! E la cantina, quell’orribile rifugio del sogno! Eppure
conosco la legge immutabile che dice che un essere può immaginare
solo ciò che potrebbe esistere nella realtà!
E per questo che ciò che un uomo può immaginare può anche
realizzarsi! Altrimenti non potrebbe immaginarselo !
Oh! quelle orride visioni! Quegli uccelli giganteschi che, in un
boato terribile, volavano così in alto che talvolta non si vedevano
neanche più. Erano guidati dagli uomini, e lasciavano cadere grosse
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 363

uova che, una volta a terra, distruggevano tutto in un’area immensa.


Le ho viste distruggere case intere, in un fragore infernale... Dunque
può essere possibile? E perché i figli degli uomini dovrebbero mettere
la loro intelligenza al servizio di una tale assurdità diabolica? E questi
bizzarri apparecchi, che non ho soltanto visto, ma anche utilizzato?
Udivo voci umane giungermi da molto lontano, ed anch’io venivo
udita di lontano. Ima davvero riderebbe, se gli raccontassi che gli
uomini comunicavano con questi apparecchi invece di mettersi sem­
plicemente in contatto telepatico! Mi chiederebbe certamente di fargli
una descrizione esatta dell’apparecchio, cosa che non saprei fare.
Così come non potrei descrivere la struttura interna dell’Arca del-
l’Alleanza, né del bastone della vita a qualcuno che volesse copiarli.
Eppure, esistono! So dunque anche che quest’apparecchio di comuni­
cazione a distanza può esistere. E tu, Ima, servitore puro e fedele di
Dio, nel mio sogno dovevi guidare uno di quegli uccelli di ferro.
Eravate giovanotti belli e sani ma sembravate stregati, andavate ad
ammazzare o a farvi ammazzare a vostra volta... Come potevate far­
lo? Come potevate obbedire ad ordini tanto disumani?
E chi era quell’uomo dagli occhi di fuoco che, nel mio sogno
iniziatico, era “il mio sposo”... Mi era così vicino, era così caro al mio
cuore, era davvero la mia metà complementare. Era il mio migliore
amico! Eppure, non sapeva chi io fossi, proprio come ora neanch’io
so più chi egli fosse.
Visione dopo visione, rivivo questi sogni uno dopo l’altro. Rico­
nosco in ognuno di essi i miei parenti, i miei fratelli e le mie sorelle,
tutti i miei amici e nemici della mia attuale vita, qui in Egitto. Spesso
mi fanno sorridere, queste strane relazioni...
Scende la sera, e la giornata si conclude con una cena di festa a
cui partecipano tutti i sacerdoti, le sacerdotesse ed i neofiti. Il Faraone
è presente, e come accade per una celebrazione iniziatica, ci sono
anche i parenti prossimi della festeggiata. La mia cara Menu! Appena
esco dal giardino, si precipita verso di me con tutta la velocità che le
V

consente il suo corpo pesante. E raggiante di gioia, mi abbraccia,


singhiozza, è tutta sconvolta:
«Sei viva, sei viva! Dimmi, mi amerai ancora, ora che sei sacerdo­
tessa? Mi vorrai ancora bene? Posso restare con te?»
Accarezzo il capo di questa vecchia che amo tanto, e la calmo:
«Menu, Menu! Naturalmente ti voglio bene, ed è ovvio che resterai
sempre con me. L’amore che nutro per te è aumentato ancora di più.»
CAPITOLO XXXIX

Sacerdotessa

Le sacerdotesse hanno vari compiti che devono svolgere a secon­


da delle rispettive facoltà. Alcune danno lezioni ai danzatori del Tem­
pio, altre, immerse in un sonno sacro, aiutano a ritrovare il cammino
quelle anime confuse che, dopo la morte, vanno errando per l’atmo­
sfera terrestre. Senza quell’aiuto, esse vi resterebbero ancora forse per
centinaia, migliaia di anni giacché, prive di organi sensoriali, non
hanno la possibilità di accumulare esperienze né di stabilire un con­
tatto con altri esseri. Sono rinchiuse in se stesse e non riescono a
trovare la via del progresso. Le sacerdotesse cercano queste anime
tormentate, ne penetrano l’essenza con tutta la forza dell’amore e,
grazie alla loro identità interiore, impregnano la loro coscienza di
idee che consentiranno loro di trovare una giusta soluzione al loro
stato. La missione di queste sacerdotesse è, per questo, doppia: da un
lato aiutano le anime errabonde ad avanzare e, contemporaneamente,
ripuliscono l’atmosfera terrestre.
Altre sacerdotesse lavorano con i giovani, per insegnar loro come
garantire ai loro discendenti corpi molto più belli e più sani. Iniziano i
giovani ai misteri dell’amore fisico, insegnano ai giovanotti come
nobilitare l’istinto mediante la forza dello spirito per stabilire una
relazione spirituale elevata, un sacramento. I giovanotti sul punto di
sposarsi seguono anch’essi questi corsi, per conoscere l’energia sacra,
per trasmetterla alla loro futura sposa e procreare nobili bambini.
Infine, alcune sacerdotesse hanno gli stessi compiti dei sacerdoti:
dirigono gruppi di neofiti, controllano gli esercizi di concentrazione,
ricevono coloro che, in qualsiasi campo, hanno bisogno di consigli. E
quando queste sacerdotesse hanno raggiunto il rango superiore del
sacerdozio, possono guarire i malati con il bastone della vita. Seguen­
do questa via si può diventare grande sacerdotessa, e questo è il
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 365

gruppo a cui sono stata assegnata.


Amo profondamente il mio lavoro! È meraviglioso vedere l’anima
dei miei allievi sbocciare, rivelando sempre meglio il divino.
V

E l’illustrazione vivente del cubo opaco che a poco a poco diventa


trasparente lasciando intravvedere il principio creatore divino.
Ogni giorno lo sperimento con i miei cari neofiti, e provo altret­
tanta gioia nell’occuparmi di coloro che vengono al Tempio ad espor­
re i loro problemi fisici e psichici; li ricevo nella celletta che Ima mi
aveva assegnato quando ero entrata per la prima volta nel Tempio:
qui, la gente mi rivela il suo “altro” volto, quello che nessuno sospet­
ta, a volte neppure loro. Vedo il volto interiore di ogni creatura, ed è
molto interessante, per me, imparare a discemere come gli eventi e le
esperienze lo abbiano modellato secondo la legge dell’azione e della
reazione.
Oh! se tutti gli uomini potessero vedere ciò che si nasconde in
loro! Non potrebbero più odiarsi, non potrebbero più aver paura gli
uni degli altri! Non ci sono persone cattive: si fanno del male, a volte
crudelmente, perché credono che gli altri vogliano loro male, e si
difendono prima ancora di esser state attaccate, per paura. Danno così
agli altri una buona ragione per pensare che sono animate da cattive
intenzioni.
Se si potesse convincerli tutti che agiscono così soltanto per paura
reciproca, e non per cattiveria, allora si sentirebbero rassicurati e
potrebbero stringersi la mano. Gli uomini sono ignoranti e ciechi, non
si vedono: ed è questa la fonte di tutta l’inimicizia e di tutta l’ostilità
sulla Terra. Non c’è niente di più bello che poter aprire gli occhi a
qualcuno ed osservar crescere in uno sguardo la luce della compren­
sione e della conoscenza.
Oltre a questo compito, sono autorizzata ad essere presente quan­
do Ptahhotep o il suo sostituto guariscono i malati con il bastone della
vita. Il mattino, i malati arrivano al Tempio con i loro mezzi o portati
dai parenti, e Ptahhotep fa penetrare in quei poveri corpi una nuova
energia vitale.
Spesso ho potuto osservare come questo bastone della vita guari­
sca in pochi secondi fratture o orribili ferite, delle quali resta tutt’al
più un lieve ispessimento, una sottile cicatrice.
Come si saldano pezzi di metallo, il bastone della vita salda le
ossa spezzate e richiude le ferite muscolari, nonché i tendini, le vene,
i nervi e la pelle. Agisce con la stessa rapidità nei casi più complessi
di infiammazione polmonare, renale o di qualsiasi altro organo. Gran­
366 Elisabeth Haich

de è la misericordia di Dio, che diede agli uomini questo mezzo per


ritrovare la salute.
Oltre al mio compito nel Tempio, continuo a svolgere le mie
funzioni quale moglie del Faraone. Come in passato, sono a fianco di
mio padre nei ricevimenti e nelle altre funzioni ufficiali; osservo la
gente di Corte e tutti coloro che assistono a quelle feste, e spesso
riceviamo rappresentanti di paesi stranieri che sono molto diversi dai
figli degli uomini di qui.
Il colore della loro pelle, la forma della testa, la loro corporatura e
tutte le forze che ne emanano sono diverse; a volte portano in dono
cose meravigliose che qui non conosciamo: animali che non ho mai
visto, pietre preziose, stoffe, straordinario vasellame. Padre ha già
fatto venire molti artisti da questi paesi lontani affinché insegnino la
loro arte ai nostri giovani allievi del Tempio; in cambio, alcuni dei
nostri artisti e dei nostri scienziati sono andati da loro per far cono­
scere le nostre arti e le nostre scienze. Padre mi ha detto che un
giorno ci andremo anche noi.
Da quando sono stata iniziata posso andare in giro da sola sul
carro con i leoni. Grazie all’iniziazione, ho ricevuto la facoltà di
dirigere la volontà nei centri nervosi di altri esseri e tenerli sotto
controllo; ora padroneggio i miei centri nervosi divenuti attivi (quelli
ancora latenti nei figli degli uomini) e posso emettere una forza di
volontà così potente e così penetrante, da fare di un altro lo strumento
inconscio del mi volere. Ma il principale dono di Dio è il libero arbi­
trio, di cui l ’uomo ha pieno diritto, e che nessuno può violare. Sareb­
be magia nera! Ecco perché non esercito mai sugli altri la potenza
della mia volontà.
Eppure sarebbe così semplice aiutare qualcuno a risolvere i suoi
problemi, se potessi agire con la mia volontà! Prenderei allora su di
me la responsabilità e sarei io ad aver risolto il problema, e non quella
. persona; le avrei anche tolto la possibilità di superare il suo esame.
Ciascuno deve risolvere i suoi problemi, perché è soltanto così che si
accumulano esperienze, sviluppando la propria forza di volontà ed
allargando l’orizzonte della coscienza.
Gli animali, invece, sono direttamente sottoposti alle forze della
natura, della quale eseguono automaticamente la volontà; non sono
dotati di libero arbitrio, ed è per questo che posso sottomettere i leoni
al mio volere. È magnifico vedere con quale rapidità questi animali
obbediscono ai miei pensieri: reagiscono al minimo impulso della
volontà, e a volte ho la sensazione che appartengano allo stesso Sé
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 367

delle mie mani e dei miei piedi. Lo stesso Sé divino è la vita di ogni
creatura, e 1’“amore” degli animali non è altro che lo sforzo inconscio
di realizzare quest’unità del Sé ad un livello di coscienza inferiore,
fisica. Il bambino incosciente fa la stessa cosa quando tenta di realiz­
zare quest’unità, questa identità, portando tutto alla bocca.
Gli animali hanno questo stesso istinto: l’unità, ovvero l’amore fra
me ed i miei leoni, è così grande che mi prendono la mano o a volte
la testa fra le mascelle e fanno finta di mangiarmi. Non mi mordono,
è soltanto un gioco, ma capisco che, quando ad esempio questi ani­
mali divorano una gazzella, seguono soltanto quest’istinto che li spin­
ge all’unità. L’istinto di conservazione e l’istinto di preservazione
della specie hanno dunque la stessa fonte originaria: l’aspirazione di
ritrovare lo stato di unità divina.
Ecco perché le manifestazioni di questi due istinti sono così stret­
tamente legate e frammiste le une alle altre; la natura sfrutta le ten­
denze originali verso l’unità per garantire la discendenza mediante
l’istinto di procreazione, e mediante la fame per mantenere il corpo in
buona salute. Infatti la carne che i leoni ricevono dal guardiano non è
mai buona per loro quanto quella che strappano dalla preda appena
uccisa perché, tramite quest’atto, fanno l’esperienza di una specie di
unione con ciò che vive, con la vita stessa. Con ciò che è morto
possono soltanto placare la fame, non il loro desiderio di unitàl
Mi diverto molto in compagnia dei leoni: è affascinante osservare
questi animali magnifici manifestare tutte le caratteristiche del Ra
(sole) divino trasformate sul piano animale. Il piccolo Bo-Ghar condi­
vide questa mia gioia, è in perfetta armonia con tutto ciò che faccio e
dico. Ora tocca a me insegnargli l’arte di stare in equilibrio sul carro,
proprio come ha fatto un tempo mio padre con tanta pazienza. Bo-Ghar
è molto dotato anche per questo, ed esegue istintivamente i movimenti
giusti sicché, in breve, può già accompagnarmi nelle corse più lunghe.
Durante i periodi più calmi accompagno Padre al mare, nella no­
stra casetta delle vacanze. Bo-Ghar viene con noi e, in tre, ci godiamo
i piaceri del mare. Padre si occupa con gioia del ragazzino: è una
gioia vedere la sua anima pura sbocciare come un bel fiore. Un gior­
no, Padre osserva a lungo Bo-Ghar prima di chiamarlo e chiedergli:
«Bo-Ghar, vuoi diventare il mio collaboratore?»
Bo-Ghar si prosterna davanti a Padre e, a mani giunte, gli rispon­
de con profondo rispetto:
«Maestro e signore, dedicherò tutta la vita al compito che mi
affiderai per poterne essere degno.»
368 Elisabeth Haich

Padre accarezza la testa del ragazzino:


«Alzati, Bo-Ghar. Lavorerai con noi alla grande opera che è la
salvezza della Terra. Fa’ ciò che dicono i maestri del Tempio, e un
giorno sarai nostro assistente... Alzati, non devi gettarti ai miei pie­
di.»
Bo-Ghar si alza, non può nascondere la gioia, danza e saltella
come una scimmietta; poi decide di comportarsi da adulto per essere
degno della fiducia di mio padre e, siccome non ce la fa più, corre
alla spiaggia a cercare conchiglie.
Da sola con mio Padre, gli chiedo:
«Padre, dacché ho ricevuto l’iniziazione, quando mi libro al di
sopra del tempo, posso vedere il passato e l’avvenire altrettanto bene
quanto li vedi tu. Eppure, non riesco a vedere nulla del mio futuro.
Perché? L’unica cosa di cui mi importa è il progresso che mi consen­
tirà di svilupparmi fino al supremo grado divino, allora spiegami
perché posso vedere il futuro di tutti, tranne il mio! Mi si annebbia la
vista tutte le volte che dirigo la coscienza verso il mio avvenire.»
Padre mi guarda, sorride e attende.
Gli sorrido e rispondo col pensiero: ci comprendiamo. Il suo
sguardo dice:
«Perché lo chiedi? Se non puoi vedere il futuro è perché così deve
essere affinché tu possa fare correttamente il tuo dovere. Non pensar­
ci, agisci e fai tutto ciò che è in tuo potere per raggiungere con i tuoi
sforzi il supremo grado di cui hai fatto l’esperienza durante l’inizia­
zione con l’aiuto di Ptahhotep.»
Quando il dovere ci richiama in città, i nostri giorni si dividono
fra il Tempio ed il palazzo. Il mio lavoro mi dà gioia e soddisfazione,
ma tutto il giorno attendo di poter arrivare alla sera; dopo aver com­
piuto tutti i miei doveri, finalmente posso rimanere assorta in me
stessa, in Dio. Ogni volta rinnovo la mia intenzione di raggiungere il
livello supremo con le mie forze, e pur avvicinandomi sempre di più,
vengo ogni volta delusa perché, quando ritorno nella mia coscienza
individuale, devo proprio ammettere che, di nuovo, non sono riuscita
a raggiungere l’ultima realtà che ho vissuto durante l’iniziazione, ed
il cui ricordo mi brucia nel cuore. Allora, la mia unica consolazione è
prender parte alla funzione della sera con Ptahhotep.
Ptahhotep, il suo assistente, i sacerdoti e le sacerdotesse, tutti gli
iniziati si riuniscono nel Tempio ogni sera al tramonto. Ci sediamo in
cerchio e Ptahhotep ed il suo assistente si fronteggiano come due poli.
Formiamo due semicerchi a destra e a sinistra di essi, e ci vuole un
Iniziazione: memorie di un 'Egizia 369

certo tempo perché riusciamo a liberare il corpo spirituale da tutte le


impurità inevitabilmente assorbite stando a contatto con i figli degli
uomini. Poi Ptahhotep tende le mani benedette ai suoi due vicini e
tutti ci prendiamo per mano, formando così un circuito attraverso il
quale Ptahhotep ed il suo assistente conducono nei nostri corpi la
suprema corrente divina. Questo ci aiuta non solo a raggiungere lo
stato di coscienza superiore dell’Unità divina, ma anche a conseguire
una maggiore resistenza dei nervi molto più in fretta di quanto po­
tremmo fare se dovessimo dipendere soltanto dalle nostre forze. Que­
sti momenti di beatitudine che ho la gioia di vivere ogni giorno du­
rante il rito della sera, sono la sostanza ed il senso stesso della mia
vita.
O Dio! dammi la forza di elevare la mia coscienza fino a Te con i
miei mezzi.
CAPITOLO XL

Ci rivedremo

Un giorno la Corte si prepara per un grande ricevimento: poco


tempo prima, Padre aveva inviato il suo comandante Thiss-Tha, molti
notabili ed una parte dell’esercito in un paese lontano, con battelli
carichi di doni e beni di scambio. Il signore di quel paese aveva loro
riservato una buona accoglienza e, a sua volta, aveva inviato i suoi
soldati, i suoi doni e dei beni di scambio. Oggi si celebra l’arrivo
delle truppe straniere.
Menu mi mette il mio abito da festa e, secondo il solito rituale,
Roo-Kha mi porta i gioielli della regina. Due Anziani mi conducono
in presenza di mio padre e poi, seguiti da tutta la Corte, attraversiamo
insieme il lungo colonnato fino alla terrazza del palazzo. Nel centro
c’è il trono di Padre; egli vi prende posto con tutta la sua dignità, la
sua bellezza virile. Alla sua destra, il leone delle udienze; a sinistra,
un po’ in avanti, quasi sull’orlo della terrazza, il mio trono. Alla
nostra destra e alla nostra sinistra, i dignitari prendono posto secondo
il loro rango.
E la festa comincia: sfilano le truppe della nazione straniera in
corteo, il loro capo con il suo seguito viene fino alla terrazza e si
prosterna davanti a noi, in terra, a braccia tese. Egli fa una allocuzio­
ne nella nostra lingua per mostrare che desidera concludere con noi
una durevole alleanza, poi fa avanzare i portatori che ci presentano i
doni.
Osservo dall’alto tutta questa scena e vedo passare gli uomini del
suo seguito, tutti magnifici nei loro abiti da festa e da combattimento.
Questi stranieri sono alti, robusti, con le spalle larghe e muscolosi; da
noi, soltanto i discendenti dei figli di Dio sono così grandi e forti
come questi soldati, sebbene siano molto più sottili, più elastici.
Ptahhotep, Padre ed alcuni altri rappresentanti dei figli di Dio, quali
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 371

Ima, Mentuptah, Imhotep ed alcune sacerdotesse, hanno corpi magni­


fici e robusti, ma sono maestosi, di nobile aspetto e spirituali: non
danno quest’impressione di robustezza e di forza animale come inve­
ce accade con i corpi degli stranieri. Non ho mai visto esemplari
simili e non mi piacciono affatto. Nel nostro Paese, ho l’abitudine di
vedere i tratti raffinati e nobili nei discendenti dei figli di Dio come
nella razza ibrida, mentre questi volti grossolani, irregolari e volgari...
e le orecchie! Le nostre orecchie sono piccole, sottili e ben disegnate,
con il lobo ben pronunciato. Questi soldati invece hanno orecchie
spesse, larghe, con il lobo che sembra saldato al collo; sembrano
scimmie.
C’è una cosa davvero sorprendente, giacché è sconosciuta da noi:
questi stranieri hanno i capelli rossi! Inoltre sono molto villosi, il
volto, le mani, le braccia e i piedi sono ricoperti di peli che brillano al
sole come fili dorati; sono molto consapevoli della loro persona e
quando parlano o ridono, rivelano denti bellissimi, bianchi e sani, il
che, nuovamente, mi fa pensare agli animali. Ne emana una forza
potente, ma nessuna radiazione spirituale. No! Proprio non mi piac­
ciono affatto!
Mi rendo conto che anche noi siamo strani per loro, almeno quan­
to loro lo sono per noi, e che anche noi non riscuotiamo successo:
vedo che i loro occhi non sono ancora aperti alle cose dello spirito,
non sono coscienti delle raffinate forme spirituali, vedono soltanto
che siamo più piccoli di loro e leggo i loro pensieri sdegnosi in
merito. Ho l’abitudine di vedere accendersi la fiamma deH’aminira-
zione negli occhi degli uomini che mi guardano, ma questi stranieri
ammirano i miei abiti, i miei gioielli e non si accorgono nemmeno
che sono bella! Mi rendo conto benissimo che osservano la regina per
curiosità in ogni istante, ma non sanno che sono bella! Sì! Ho eredita­
to la vita sottile di mia madre, ma la bellezza di una donna non
dipende dai fianchi. Questi uomini, questi guerrieri stranieri, trovano
bella una donna soltanto se è alta e ben in carne. Come sempre mi
analizzo: si sta forse risvegliando la mia vanità? No! Lungi da me
quel pensiero! Semplicemente, non mi piace vedere individui tanto
ignoranti, volgari e privi di maturità come soltanto i figli degli uomini
della classe inferiore potrebbero essere nel nostro Paese.
Tutti questi stranieri, inclusi i capi ed i dignitari, mancano com­
pletamente di cultura; uno di loro mi sta davanti, appena al di sotto
del mio trono: dev’essere un ufficiale superiore perché è comparso
accanto al capo, ed ora mi fissa ostinatamente da in mezzo ad un
372 Elisabeth Haich

gruppo di soldati. Le sue labbra riflettono un’espressione sprezzante:


come può mancare a tal punto di distinzione? Come può un uomo
squadrare una donna con tanta arroganza? A Corte soltanto Roo-Kha
è così maleducato, ma il suo sguardo non vuole e non può nascondere
la sua ammirazione per la mia bellezza. Invece, questo straniero mi
guarda soltanto con impertinenza, senza alcuna ammirazione! Ma non
voglio che mi si risvegli la vanità: sto in guardia, e mi tengo sotto
stretto controllo!
Volgo altrove lo sguardo, seguendo con grande interesse i giochi
militari a cui si dedicano i soldati; debbo ammettere che questi uomi­
ni hanno una forza fisica sconosciuta da noi. Questa razza è nata da
un figlio di Dio “mezzosangue” che ha manifestato l’energia divina
del padre nel corpo e non nello spirito, sicché è diventata molto alta.
Poi i discendenti si sono incrociati con uomini primitivi, sviluppando
corpi dallo scheletro e dai muscoli impressionanti. Ma non sono, e lo
si vede subito, agili ed elastici come i nostri combattenti che, tuttavia,
non potrebbero compiere gli atti di forza dei soldati stranieri. Durante
tutto lo spettacolo i miei occhi ritornano sempre all’ufficiale che,
infaticabilmente, continua a guardarmi. A dire il vero varrebbe la
pena di guidare verso i misteri dello spirito uno straniero dai capelli
rossi, per quanto bizzarro ed incolto, affinché i suoi occhi interiori si
aprissero a poco a poco permettendogli di vedere in una donna la
bellezza della spiritualità e non soltanto quella della carne.
Passano i giorni. Sono così occupata dalle festività che non posso
tornare al Tempio. Feste, cerimonie, spettacoli, banchetti si susseguo­
no, e devo svolgere il mio compito a fianco di Padre, a fianco del
Faraone. Menu è nel suo elemento: mi veste e mi adorna di cose
sempre più belle. Bo-Ghar è amaro, infelice perché non ho più tempo
per lui. Roo-Kha viene frequentemente a portarmi gioielli sempre più
straordinari, a testimonianza dell’arte dei nostri orafi. Li indosso per­
ché è mio dovere, ma interrogo con curiosità il mio grande specchio
d’argento: che dirà lo straniero alla vista di questo mio nuovo abito,
di questi nuovi gioielli? Soprattutto quando Padre ed io, come tutta la
Corte, ci presentiamo vestiti come i nostri ospiti, in loro onore? Ah!
non posso fare a meno di ridere quando vedo Padre in quella strana
tenuta! Ed io? Lo straniero dai capelli rossi, mi troverà bella, accon­
ciata a quel modo?
Ora “lo” conosco! Padre mi ha presentata al suo capo e a tutti i
notabili, così ogni giorno sono in compagnia degli emissari della
nazione lontana. Il signore di questo Paese ha scelto, per questa spe­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 373

dizione, uomini che hanno rapidamente assimilato la nostra lingua, il


che ci consente di intrattenerci gradevolmente con loro. Eppure,
quando sono con quell' ospite straniero, lo stesso che mi ha fissata con
tanta ostinazione durante il ricevimento, mi sento molto a disagio; il
cuore mi batte più forte, perché ha esattamente la stessa voce della
figura maschile avvolta dalla nebbia nel mio sogno iniziatico. Incre­
dibile!
Questi stranieri sono strani, privi di cultura, ignoranti, ma non
sono affatto stupidi. Sono molto vicini alla natura e senza conoscere
intellettualmente le leggi interiori e creatrici delle cose né la loro
essenza, ne sanno parecchio, grazie alle esperienze dirette. E molto
interessante constatare come una verità che noi impariamo attraverso
una contemplazione spirituale affiori nella coscienza di questi stranie­
ri sotto forma di credenza, di superstizione; quando non conoscono né
la fonte né la causa di un’energia, immaginano eh’essa emani da un
essere invisibile e chiamano “dio” le loro stesse immaginazioni. Insi­
stono, si intestardiscono a chiamare “dei” queste creature di favola,
questi fantasmi, e pretendono di conoscere tutto molto meglio di noi.
Quando cerchiamo di spiegar loro la verità ed i fatti, scuotono la
testa, ridendo con condiscendenza.
È ovvio che non mi è permesso divulgare i misteri del Tempio,
tuttavia ho cercato di spiegare allo straniero quali sono le forze che,
durante un temporale, causano i lampi ed il tuono. Non potevo dirgli
che sono i gran sacerdoti che, grazie all’Arca dell’Alleanza, produco­
no lampi e pioggia dall’intemo della piramide, senza la quale non
avremmo precipitazioni e il nostro Paese diverrebbe incolto; ma gli
ho spiegato che il lampo proveniva dall’incontro di due forze oppo­
ste, e che anche lui avrebbe potuto produrre un simile fenomeno bat­
tendo con forza due pietre l’una contro l’altra. Ancora una volta mi
ha guardato sdegnoso, dicendo che sapeva benissimo che il lampo era
la freccia del “dio-capo” e che, in certe pietre, abitavano dei “piccoli
demoni” i quali, se disturbati, lanciavano piccoli lampi. Quanto alla
spiegazione reale dei fenomeni, non ha voluto saperne! Infatti, poco
importa il nome che si dà al lampo, se “freccia del dio-capo” oppure
“incontro tra forza positiva e negativa”: per contro, se questa gente si
intestardisce a credere in dei immaginari, non potrà mai controllare le
forze della natura e resterà schiava delle sue superstizioni. Sono se
non altro riuscita ad interessare il mio ospite con le spiegazioni che
gli ho dato sui fenomeni naturali, perché adesso vuole saperne di più
anche se non crede a ciò che gli dico. Vuole che gli dia delle lezioni;
374 Elisabeth Haich

quindi, ogni sera, verrà al Tempio ed io gli insegnerò i primi rudi­


menti della conoscenza.
Dopo il tramonto, Menu mi veste con il mio abito sacerdotale.
Velata, mi reco al Tempio insieme a lei. Un neofita ha fatto entrare lo
straniero che mi aspetta nella mia cella. Menu rimane nel cortile,
mentre io entro. Eccolo: si è appoggiato alla parete e mi sorride con
aria condiscendente. Questo sorriso mi innervosisce: come può avere
l’audacia di guardarmi in questo modo? Non mi è superiore in nulla,
e soltanto la sua ignoranza gli fa credere che, giacché è fisicamente
alto e robusto, mi può dominare. Evidentemente non sa che la poten­
za dello spirito è al di sopra di tutto. Glielo proverò! Vincerò questo
gigante rosso ed impertinente con l’energia del mio spirito, e malgra­
do tutta la sua forza fisica!
Lo straniero si inchina profondamente davanti a me, ma vedo che
10 fa senza convinzione: in questo Paese la gente mi adora quale
sacerdotessa perché sono al servizio di Dio, e anche lo straniero sa
che sono una sacerdotessa del Tempio, ma non ha nessuna idea di che
cosa significhi l’iniziazione; non sa che il nostro sapere non si fonda
su vaghe credenze basate sull’immaginazione umana, ma, al contra­
rio, sul riconoscimento della verità, l ’onniscienza divina! Ma gli apri­
rò gli occhi, gli spiegherò il mistero dell’uomo e delFuniverso che lo
circonda, il mistero di tutta la creazione.
«Se vuoi giungere alla vera conoscenza — gli dico — devi comin­
ciare con il conoscere te stesso. Devi sapere ciò che sei. Imparando a
conoscerti, scoprirai che tutte le verità sono nascoste in te. La cono­
scenza di sé conduce dunque a tutti i misteri del mondo. Comincia col
risolvere il grande enigma della nostra Sfinge: l’uomo stesso! Devi
sapere chi sei!»
Lo straniero mi considera inizialmente con attenzione, poi sorride:
«Devo sapere chi sono? Lo so da un pezzo! Come può essere un
così grande mistero? Ma mi sembra, Regina, che sia tu a non sapere
chi sono. Allora, sarò io ad insegnartelo: sono un uomo!»
Poi si mette a ridere, scoprendo la sua chiostra di denti bianchi e
robusti.
Ah, che bambino! Ride così di cuore che rido anch’io.
«So che sei un uomo...» ma non posso concludere la frase, perché
11 gigante dai capelli rossi mi interrompe ineducatamente:
«Regina, non soltanto non sai che sono un uomo, ma non sai
neanche che cosa sia un uomo. Non sono sacerdote e non posso leg­
gere i pensieri come voi, ma conosco le donne e mi rendo conto
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 375

benissimo che c’è qualcosa che non sai o che ti sei completamente
dimenticata, ovvero ciò che sei tu\ Cioè, che sei una donna! Come
puoi insegnarmi i misteri profondi dell’uomo e dell’universo, quando
non conosci la verità fondamentale che tutti possono constatare?»
Con aria dignitosa, rispondo:
«So benissimo di essere una donna.»
Lo straniero si diverte con impertinenza, ma continuo senza la­
sciarmi disturbare da questo atteggiamento.
«La forma esterna è soltanto il guscio dell’essere profondo. Quan­
do si conosce l’essenza dell’essere e si è questa essenza, la forma
esterna diventa solo più uno strumento con il quale non ci si identifica
piiì! Il corpo è soltanto l’abito del Sé. Anche tu porti abiti, eppure non
sei i tuoi abiti; lo stesso avviene con il tuo corpo, sia esso maschile o
femminile, ma il tuo Sé è il creatore. La persona, la manifestazione
fisica e materiale, è solo una metà dell’essere reale: l’altra metà resta
nel non-manifesto, nell’inconscio. Che la parvenza sia maschile o
femminile, dipende soltanto dalla metà che si è incarnata. Quando
una persona ha reso coscienti entrambe le metà del suo essere, le ha
provate in sé e le ha vissute, allora diventa identica al suo Sé, e porta
in lei, in perfetto equilibrio, i due principi: quello maschile e quello
femminile.»
«Eppure il suo corpo resta o maschile o femminile, non è vero?»
«Naturalmente la manifestazione materiale può essere soltanto
unilaterale, parziale: non c’è più nulla di fisico là dove le due metà si
uniscono. L’Unione delle metà complementari, dei due poli, signifi­
cherebbe la totale distruzione della materia, la smaterializzazione del
corpo. Soltanto spiritualmente si può essere androgini.»
«Regina, di tutte queste belle parole una cosa mi sembra chiara, e
qui sono proprio d’accordo con i vostri “misteri”: la mia parvenza
fisica, come dici tu, è solo la metà di un’unità. Fin qui ho spesso
cercato e trovato un complemento, ma non mi sono affatto distrutto.
Forse non ho mai trovato una reale unità? Ora, se anche questo do­
vesse significare l’annullamento, continuerei comunque a cercare la
mia vera metà complementare. Sono un uomo, e la mia altra metà
può essere soltanto una donna che mi darà la gioia perfetta. E per
quella donna, darei volentieri la mia vita.»
Nel mio corpo il sangue si surriscalda, salendomi alla testa; da­
vanti a questo modo di vedere le cose, mi sento davvero impotente.
Come spiegargli che la felicità che sta cercando in una donna di carne
ed ossa è effimera, e che non potrà soddisfare il suo spirito immortale?
376 Elisabeth Haich

Per oggi, l’incontro si conclude. Gli ci vuole un certo tempo per


digerire queste nuove verità.
Sera dopo sera lotto contro la sua ignoranza: voglio che progredi­
sca, e cerco di usare le parole più adatte per accendere il lui la scintil­
la divina, per risvegliare il suo Sé superiore. D mio primo pensiero al
mattino è per lui, ricordo tutto ciò che abbiamo detto e fatto la sera
precedente e mi concentro per tutto il giorno su ciò che gli insegnerò
la sera. Faccio lunghe passeggiate sul carro con i miei leoni, ma non
porto più Bo-Ghar con me; questi, scoraggiato, va dal suo maestro ed
Ima lo consola facendogli ogni sorta di doni, in grado di rendere
felice qualsiasi altro ragazzino. Questo rattrista anche me, ma devo
trovare il tempo di restare sola con i miei pensieri.
Dopo la passeggiata riaccompagno i leoni nella cinta e, congedan­
domi da loro, li accarezzo sul capo. Mentre le mie dita scorrono nella
criniera, un pensiero mi assale: mi sembra che proverei la stessa
sensazione se accarezzassi i capelli rossi dello straniero. Ah! i miei
leoni, come li amo!
La sera, dico allo straniero che i suoi capelli mi ricordano la
criniera dei leoni.
«Regina, potrei accompagnarti una volta in una delle tue passeg­
giate con i leoni? Se potessi vedere con i miei occhi come governi
questi animali straordinari con la tua sola volontà, forse potrei credere
ai tuoi poteri soprannaturali» dice con un sorriso pieno di complicità.
«Come sai che possiedo poteri sovrumani?»
«Tutti coloro con cui parlo ti adorano come fossi una dea; sono
tutti fermamente convinti che tu sia un essere soprannaturale, ma io
no!»
Offesa, gli chiedo:
«E tu, cosa pensi di me?»
Con un moto di collera mi rendo conto che, in attesa della sua
risposta, il mio cuore batte più forte. In quel momento l’immagine di
Ptahhotep si impone alla mia attenzione simile ad un lampo, con
un’espressione di avvertimento sul nobile volto.
«No, no! Lasciami ora, non c’è nessun pericolo!» dico alla visione
interiore.
E sto già ascoltando ciò che lo straniero mi risponde:
«Quello che penso di te? Perché vuoi sentirlo dalla mia bocca?
Giacché ti libri così in alto, sopra a tutto quanto è materiale, come
può interessarti il pensiero di una povera mente terrena come la mia?
Comunque, puoi leggere tutti i miei pensieri, non è vero?»
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 377

«Sì, vedo i tuoi pensieri, ma devo metterti alla prova per sapere se
sei davvero sincero.»
Mi sento a disagio, inquieta, ma non ho il tempo di analizzare
questa sensazione perché lo straniero chiede:
«Vuoi sapere se sono sincero ed onesto con te? Perché non comin­
ci col rivolgere questa domanda a te stessa, per sapere se sei sincera
ed onesta con me e con te stessa ?»
Resto muta. Non so che rispondere: per molti anni ho imparato ad
osservarmi, a tenermi sotto controllo, ad analizzare le cause di tutte le
mie azioni, di ogni gesto e di ogni pensiero. Sono certa di essere
onesta con me stessa, quindi con il mondo esterno e di conseguenza
anche con lui; eppure quelle sue parole mi causano un’imbarazzante
sorpresa: e se avesse ragione? Non ho forse il . coraggio di essere
sincera in tutti i miei pensieri e i miei sentimenti? Decido di sottopor­
mi ad una seria analisi ma, ad ogni modo, concentrerò tutte le mie
energie per non perdere la lotta con lui. Devo trionfare, non posso
ammettere che uno straniero così incolto immagini che io possa esse­
re più debole di lui, non posso ammettere che creda di essermi supe­
riore!
Il giorno seguente ci prepariamo ad uscire con i leoni. Poco prima
di salire sul carro, lo straniero si mette accanto a loro e inchina la sua
rossa capigliatura davanti a me:
«Non vuoi per caso constatare da te se i miei capelli sono davvero
simili alla criniera dei leoni? Perché se questi animali sopportano le
tue carezze, può anche darsi che le tolleri anch’io!»
E scoppia a ridere, scoprendo i denti bianchi. Davvero, è un bam-
binone; non è una mancanza di rispetto, è un segno di puerilità e non
è possibile prendersela con lui. Rido insieme a lui e, se non ci fosse il
guardiano dei leoni, avrei voglia di tirargli i capelli e scompigliarli!
I giorni passano, e si avvicina il momento in cui lo straniero dovrà
ritornare in patria. Dovrei essere soddisfatta, la “donna” in me do­
vrebbe trionfare: il suo atteggiamento è davvero cambiato, ha perso
l’arroganza, ed ogni giorno attende il momento di potermi vedere.
Ora so che non si è mai sentito superiore, ma che i suoi modi erano
una difesa per proteggersi da una completa “capitolazione”. Non vo­
leva separarsi dalla sua superbia maschile, mi aveva ammirata fin dal
primo istante del nostro incontro e la mia vanità, che all’inizio mi
aveva spinta a passare più tempo con lui, ora poteva dirsi pienamente
soddisfatta. Eppure, non lo ero; un’angoscia costante mi tormentava.
Ma ogni volta che avevo analizzato i miei sentimenti, quest’ansia mi
378 Elisabeth Haich

aveva dato la garanzia che il mio interesse per lui non derivava dal­
l’istinto femminile della mia natura inferiore. Io mi tengo sempre
sotto controllo! Menu sostiene che ho tutti i sintomi dell’innamora­
mento, ed è al massimo della gioia perché “sto sbocciando”. Che
errore! Menu non può giudicare, giacché vede tutte le cose dal punto
di vista terreno. Non può immaginare che non voglio né devo essere
innamorata, cosa che, d’altronde, non mi sta affatto succedendo. E
come potrei innamorarmi di questo gigante rosso e volgare? Non mi
piace. L’effetto che produce su di me è sgradevole, persino ripugnan­
te. In certi momenti di autoanalisi, mi sono chiesta se avrei voluto
avere un figlio da lui, giacché le relazioni fra uomini e donne servono
alla procreazione. Dio me ne guardi! Un bambino con quelle orec­
chie, con quella struttura ossea? Con forme così brutali, con un corpo
tanto villoso? No! Assolutamente! Il che voleva dire che non ero
affatto innamorata di lui.
Voglio soltanto aiutarlo a trovare Dio. Mi occupo con altrettanto
interesse di tutti i miei allievi, ed ecco perché penso a lui e mi con­
centro su di lui con tutta l’anima. Ma non ha ancora trovato Dio, ecco
una cosa in cui ho fallito! Questa è la causa della mia tristezza, della
mia ansia, perché se penso che fra non molto lascerà il Paese e forse
non lo rivedrò più in questa vita...
Poi, tutto precipita con la rapidità di un fulmine.
L’ultima sera mi reco al Tempio per congedarmi da lui. Come al
solito se ne sta appoggiato alla parete, ma non tenta più di assumere
un atteggiamento di dominazione, come aveva fato la prima volta.
Non mi guarda, fissa il vuoto con ostinazione.
«Che cos’hai?»
«Mi chiedo perché sia venuto a trovarti qui, ogni sera. Che senso
ha? Che volevi da me, bella Regina senza cuore? A che mi sono
serviti i tuoi insegnamenti, se non a rendermi infelice? Non hai smes­
so di dirmi che dovevo trovare me stesso, ma ad ogni tua parola, ad
ogni tuo gesto, mi sono perso sempre un po’ di più. Ero un soldato
coraggioso, senza paura, che non temeva nessuno, e sono diventato
uno schiavo: lo schiavo di una donnina che non mi arriva neanche
alla spalla. Ora ho paura del futuro: come potrò vivere senza di te?»
Un’ondata di gioia m’invade... e l’attribuisco alla vanità. Ma, co­
munque, mi fa paura! All’inizio avevo davvero voluto che ricono­
scesse la mia bellezza femminile ed il mio potere, ma dopo aver
raggiunto quel risultato avevo usato l’una e l’altro per aiutarlo a tro­
vare la via interiore. Mi ero data molto da fare per risvegliare in lui il
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 379

Sé, e lui, invece, si era innamorato di me! Non avevo certo voluto
andare così lontano, e non volevo né voglio un amore terreno, volevo
creare con lui un’unità infinitamente superiore, l’unità del Sé\ Volevo
condurlo a Dio! Ho fatto emergere invano dal mio intimo le più
profonde verità: lui vede solo la donna in me, e non può elevarsi al di
sopra della sessualità. Non mi vede, non nota neppure che non mi
ama, io non esisto per lui, ama il mio corpo, il guscio che è solo una
manifestazione del mio Io autentico! Che umiliazione, che delusione!
Allora, tremando, gli dico:
«Vedi, per te davvero non ha avuto senso venire qui ogni giorno a
trovarmi giacché è impossibile che noi ci incontriamo. Io voglio ele­
varti al livello dello spirito e tu vuoi abbassarmi al livello del corpo.
Questa, è stata una lotta senza senso. Tornatene in pace nel tuo paese,
e non ci vedremo mai più!»
A queste parole il sangue gli sale alla testa, l’uomo diventa intera­
mente rosso scuro, così scuro che i capelli sembrano più chiari della
pelle. Dagli occhi escono lampi e, spaventata, vedo il suo corpo spiri­
tuale infiammarsi con ardore. Senza darmi il tempo di reagire, mi
prende per un braccio, mi attira appassionatamente contro il suo petto
robusto, rovescia all’indietro la mia testa, preme la sua bocca sulle
mie labbra con tanta forza che non riesco più a respirare... Poi mi
bacia il volto, il collo, nuovamente le labbra, ripetendomi all’orec­
chio, fra quei baci brucianti:
«Non vuoi più rivedermi? Ma io voglio rivederti, e allora ci rive­
dremo... ci rivedremo...»
Quando avevo visto il suo volto selvaggio avvicinarsi a me, ero
stata colta da uno spavento mortale: volevo respingerlo, liberarmi, ma
quando mi aveva abbracciata in quella stretta vigorosa, quando avevo
sentito su di me i suoi baci appassionati, ero stata invasa dalla sua
stessa fiamma, avevo perso l’autocontrollo, e senza più alcuna resi­
stenza ero passata dall’orrore ad un’estasi sublime, ad un indicibile
piacere: mi ero accorta allora che l’amavo, che l’avevo amato fin dal
primo istante, con l’anima, il corpo, con tutta me stessa, infinitamen­
te, appassionatamente!
Il fuoco mi invade irresistibile: come sfuggite da un vulcano enor­
me, le fiamme brucianti mi avvolgono, mi divorano; sento che la mia
colonna vertebrale diventa un ponte incandescente che brucia con
sette torce. Ma non mi trovo più nell’asse immobile della colonna,
non sono più nel centro da cui si irradia il mio Sé autentico, il Sé del
fuoco della vita, perché la mia coscienza è caduta nel corpo acceso; i
380 Elisabeth Haich

lampi crepitano e mi bruciano le vene, bruciano tutto il mio essere. I


nervi sono in fiamme, tutti i pensieri svaniscono, consumano la co­
scienza e mi distruggono... poi tutto scompare.
A poco a poco, riprendo coscienza... lentamente apro gli occhi:
muri di pietra... riconosco... sono distesa al suolo, nella mia cella.
Sono sola... il silenzio è mortale.
Non ho alcun pensiero. Non ho assolutamente più nulla su cui
ancora riflettere...
Prostrata, mi alzo, mi metto il velo e lascio la cella.
Il lungo e ombroso colonnato mi sembra vuoto, eppure vedo subi­
to una figura appoggiata al muro: Ima! Mi sembra come pietrificato, e
mi fissa con uno sguardo indescrivibile che vedo anche al buio, uno
sguardo che devo vedere, che mi passa da parte a parte. Poi si volta e,
lentamente, se ne va nella direzione opposta.
Con la testa vuota tomo a palazzo. Menu, che si era addormentata
in un angolo del cortile del Tempio, mi accompagna in silenzio come
sempre, ma sbadigliando talvolta rumorosamente.
CAPITOLO XLI

Il leone

Sono inginocchiata davanti a Ptahhotep.


Non parlo. Egli comprende le parole che non pronuncio. Resto in
silenzio...
«Padre della mia anima, salvami! Togli questo fuoco dal mio
corpo, rendimi la libertà! Non posso continuare a vivere così... Mi
sono perduta, sono distrutta, non ho più nessun controllo su me stes­
sa, non posso più pensare come voglio perché sono i miei pensieri
che mi controllano e mi lacerano la mente.
Aiutami, Padre della mia anima, aiutami a ritornare sulle alture
celesti ove regna il chiarore, la purezza, la libertà spirituale. Rendimi
le ali affinché possa di nuovo volare con voi, come la forza creatrice
di Dio, il divino falco Horus che attraversa lo spazio e crea nuovi
mondi.
Apri di nuovo le porte del cielo, Padre della mia anima, lasciami
sentire ancora la musica delle sfere che ormai risuona solo più nel
ricordo perché in me c’è il silenzio delle tombe; le mie orecchie sono
diventate sorde.
Riaprimi gli occhi, Padre della mia anima, perché sono bruciati ed
è solo nel ricordo che vedo la luce celeste, la luminosità divina; i miei
occhi spirituali sono diventati ciechi.
Aprimi la porta della mia patria celeste, dove avevo tutti i tesori
dello spirito che ormai vivono solo più nel ricordo, Padre della mia
anima, perché sono caduta e sono diventata una povera mendicante
sulla Terra.
Padre della mia anima, lasciami di nuovo accedere alla felicità ed
alla pace dell’unità divina di coloro che hanno trovato la salvezza;
una felicità che conosco solo più nel ricordo, giacché mi sono perduta
nel deserto dell’abbandono e sono ossessionata e torturata senza tre­
382 Elisabeth Haich

gua dall’incessante angoscia di questa lacerazione.


Posa la tua mano benedetta sul mio capo, che io sia liberata dal
dominio del tempo, e che nell’eterno presente io possa ridiventare
quella che ero, quella che sono in realtà, quella che, nel mondo delle
apparenze illusorie, non posso più essere.
Padre della mia anima, salvami! Salva la mia anima! Permettimi
di udire di nuovo la tua voce come quella di Dio, giacché non perce­
pisco più la tua risposta, sono sorda e cieca, ho perduto le ali celesti,
mi sento respinta, ripudiata, esiliata. Riprendimi, Padre della mia ani­
ma, riprendimi nell’unità dei beati, perché non posso continuare a
vivere così. Salvami, Padre della mia anima, salvami, tu che sei il
rappresentante di Dio, non mi abbandonare, non mi abbandonare...
non mi abbandonare...»
Nessuna risposta.
Ho perduto tutto. La mia ragione, che mi aveva sempre sostenuta,
ora è annebbiata. Soltanto pensieri sfocati errano nella mia testa,
come viaggiatori stanchi.
A palazzo, distesa sul mio giaciglio, ho una sola idea in mente:
non posso continuare questa vita, non posso più vivere! Sono solo più
l’ombra di me stessa. Nella nebbia mi appaiono dei volti, quello di
Menu che piange disperatamente, quello di Bo-Ghar, lo sguardo di­
strutto di Bo-Ghar...
Voglio morire! Morire!
Prima controllavo il mio corpo e potevo lasciarlo coscientemente,
ma ora ci provo invano! Non posso più uscirne, sono inchiodata nel
corpo, non posso più lasciarlo, sono incatenata nella materia.
Voglio andare all’Arca dell’Alleanza: consumerà il mio corpo
come brucia gli animali del sacrificio morti nel Tempio, senza lascia­
re la minima cenere.
Mi mette il velo e vado al Tempio. Attraverso la grande sala, arrivo
alla porta di pietra del corridoio sotterraneo che conduce alla grande
piramide, ma non posso oltrepassarla: nell’aria urto contro una parete
invisibile, ed una luce si accende nella mia povera testa: la frequenza
inferiore dell’Arca dell’Alleanza, Vultra-material L’odio materializ­
zato! Sebbene del tutto invisibile, essa protegge un luogo molto me­
glio delle più spesse mura. Tento ancora di forzare questa barriera,
ma il muro incredibilmente duro dell’ultra-materia mi respinge ineso­
rabilmente.
Nessuna pietà per me... nessuna pietà...
Lentamente ritorno sui miei passi nel corridoio del Tempio, passo
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 383

davanti alla mia piccola cella, vi entro senza neppure pensarci. Mi


siedo sulla panca di pietra, assorta nei miei ricordi... lo spazio si
apre... da ogni lato sento l’eco dell’infinito e sorgono immagini: una
figura velata dalla nebbia si avvicina a me... la riconosco, è la figura
indistinta della visione iniziatica. Mi viene vicina... una fiamma... poi
tutta la figura si infiamma, diventando un essere di fuoco maschile
che irresistibilmente mi abbraccia, mi penetra... mi infiammo, brucio.
Poi sento la sua voce mormorare:
«Te l’avevo detto che ci saremmo rivisti. Tu mi appartieni, non
potrai mai liberarti di me. Ci rivedremo ancora, ci rivedremo sem­
pre... nel tempo infinito, nell’infinito senza tempo, ci rivedremo...» e
l’eco ripete migliaia di volte «rivedremo... rivedremo... rivedremo...»
Urlo:
«No, no, non ti voglio, ti odio!»
La figura di fuoco ride:
«Finché mi odi, mi ami, e sei in mio potere! Non credere di poterti
sbarazzare facilmente di me!... Ci rivedremo...»
Ascoltando quella voce che l’eco mi ripete all’infinito e con una
tale intensità da fame vibrare l’aria, so che la figura avvolta nella
nebbia, la figura che ora brucia, mi parla e mi guarda con occhi ai
quali non so più resistere. È questa la voce, sono questi gli occhi che
ho cercato in tutte le voci che mi hanno parlato, in tutti gli occhi che
mi hanno guardata, in tutti gli uomini che ho incontrato nelle mie
innumerevoli vite, e di cui mi sono ricordata nella visione iniziatica.
In tutti quegli uomini ho cercato colui che amo di un amore immorta­
le, che amo con ogni goccia del mio sangue, l’unico, il solo, il “mio”
sposo: il riflesso della mia metà complementare...
Un’altra immagine si impone alla mente, quella di un uomo che
non amo come la mia metà complementare, ma come me stessa: lma\
Non potrei mai amarlo di un amore terreno, giacché sono sempre
stata unita in Dio con lui. È l’amore eterno dell’unità paradisiaca a le­
garci; voglio andare da lui, spiegargli tutto, mi comprenderà. L’unità
che mi lega a lui sarà il mio faro nelle mie peregrinazioni future,
illuminerà il mio sentiero oscurato affinché ritrovi il cammino che
conduce alla patria celeste, a Dio.
Mi precipito fuori dalla cella, lo cerco alla scuola dei neofiti ove è
sacerdote, e nella quale prepara i candidati all’iniziazione. Lo cerco
ovunque, in ogni aula, in tutti gli angoli, ma non c’è; d’un tratto
compare il giovane sacerdote che mi aveva assistito negli ultimi pre­
parativi prima dell’iniziazione, e mi chiede:
384 Elisabeth Haich

«Stai cercando Ima?»


«Sì; dove posso trovarlo?»
«Non nel Tempio. Se n’è andato in preda alla disperazione, si è
perduto perché ha creduto in una donna, invece di credere in Dio al di
sopra di ogni cosa. Se n’è andato via prostrato, e nessuno è riuscito a
trattenerlo: ha preferito esiliarsi fra le tribù selvagge dei neri perché
laggiù, perlomeno, nessuno potrà deluderlo. I neri non mentono: sono
come sono. Queste sono state le sue ultime parole, sicché non ritrove­
rai mai più Ima!»
L’orrore mi paralizza, mi rende muta. Oh, Ima! Ti ho fatto spro­
fondare nell’infelicità e nella disperazione! A questa notizia l’inferno
dentro di me diventa insopportabile, una vera tortura... Eppure so che
il giovane sacerdote su una cosa si è sbagliato: ritroverò Ima\ Se non
è in questa vita, sarà nella prossima. Tutto passa, solo l’autentico
amore rimane. E questo amore che è al di sopra dei sessi, l’amore
dell’unità spirituale, ci riporterà, Ima ed io, infallibilmente l’una ver­
so l’altro.
Rientro a palazzo; l’unica cosa di cui sono ancora sicura è che
devo morire. Già non avrei più potuto vivere senza essere sacerdotes­
sa, senza essere un’iniziata, ma ora che so di aver trascinato all’infer­
no il mio migliore amico, le mie torture morali sono indicibili: ogni
mio pensiero, ogni mio sentire si ribella all’idea di continuare a vive­
re. Voglio distruggermi e tento, con sforzi disperati, di lasciare il
corpo.
Ormai non ne sono più capace! Non posso più morire! Devo
portare in me il fuoco che mi brucia e mi distrugge i nervi. Non posso
fuggire! Quando, completamente spossata, mi sdraio per trovare un
po’ di riposo, sento un’oppressione sul petto, riesco a malapena a
respirare, ho un macigno sul cuore. Chiudendo gli occhi vedo un
fuoco abbagliante, fiamme rosse e divoratrici, fiamme simili ai capel­
li dello straniero... alla criniera dei leoni... I leoni! Certo, andrò da
loro!
Mi preparo come per fare una gita con il carro, ed il guardiano mi
lascia entrare perché sa che, dopo l’iniziazione, mio Padre mi permet­
te di guidare da sola gli animali.
Mi avvicino ai miei leoni che mi accolgono abbassando la testa e
digrignando i denti. Sentono un odore, sentono una strana emanazio­
ne che rimane incollata alla mia pelle. Vado da Shima e gli accarezzo
la testa, sicché Shu-Ghar comincia a brontolare, si raccoglie sulle
zampe posteriori, pronto a balzare: nei suoi occhi scintillano la rabbia
Iniziazione: memorie di un'Egizia 385

e la gelosia; in me si risveglia l’istinto di conservazione, proietto


verso Shu-Ghar la mia volontà come facevo alla guida del carro, ma,
terrorizzata, mi accorgo di non riuscirci più! La mia volontà è paraliz­
zata, morta, ed il leone scatta. Mi volto appena in tempo per scorgere
tre uomini spaventati che stanno accorrendo: Thiss-Tha, Bo-Ghar e il
guardiano. Con tutta la forza, con tutta la rapidità di cui sono ancora
capace mi slancio fuori dal recinto; sento l’alito caldo del leone sulla
nuca, sento le sue fauci su di me... e un gran colpo in testa. Ma
continuo a correre, vedo aprirsi una porta su un luogo nel quale il
leone non avrà potere alcuno: sulla porta c’è la figura sottile e pallida
di mia madrel
«Madre!» dico, correndo, perché so che fra le sue braccia sarò in
salvo. Madre mi attende, a braccia aperte, con il.suo dolce sorriso! Un
ultimo sforzo... e cado fra le sue braccia. Il leone scompare, sono in
salvo...
Poi tutto si oscura, ma di una cosa sono certa: sto fra le braccia di
mia madre che mi ha aiutata a varcare la soglia. Mi sento bene... mi
riposo... e godo appieno dell’amore di mia madre che da tanto tempo
non vedevo; godo della pace, dell’amore.
Una forza straordinaria attira la mia coscienza in un punto, e mi
sveglio: giaccio in una bara, non sento il corpo. Ho la coscienza
annebbiata, so soltanto che voglio alzarmi e che non ci riesco. Allora
vedo Ptahhotep ed il suo assistente, sono accanto a me. Ptahhotep mi
trattiene piano, con tenerezza. Devo rimanere sdraiata. Sono nel mio
corpo spirituale, ma la corda magica mi lega ancora al corpo materia­
le di carne ed ossa. Il corpo imbalsamato è nel sarcofago ed il mio
corpo spirituale ha la stessa posizione. Ptahhotep ed il suo assistente
sono qui, li vedo anch’essi nel loro corpo spirituale: vedo gli ardenti
fuochi di energia che hanno creato gli occhi nei loro corpi materiali,
attraverso i quali guardano nel mondo manifesto; i due centri di forza
di Ptahhotep ora irradiano una luce fosforescente azzurrina, che mi
raggiunge, che mi penetra... e il sonno mi accoglie.
La sala ed i due gran sacerdoti scompaiono; mi ritrovo fra le
braccia di mia madre, ed ora riconosco che si tratta delle correnti di
forza che, un tempo, avevano composto le sue braccia come d’altron­
de tutto il suo corpo e che, proiettate fuori da quest’ultimo, si sono
trasformate in amore. Queste forze mi sostengono colmando d’amore,
di pace e di sicurezza la mia anima tormentata.
Un suono improvviso e sgradevole mi fa trasalire disturbando la
mia quiete, una specie di schiocco che le orecchie spirituali percepi­
386 Elisabeth Haich

scono come una scossa. Cerco l’origine di questo suono e mi accorgo


che sono le fruste dei guardiani di schiavi: schioccano ritmicamente
per armonizzare il passo degli uomini che tirano la mia bara, la quale
scivola lentamente, come una slitta lungo una rotaia. Devo aver appe­
na lasciato il palazzo.
Voglio sedermi, ma è impossibile; non posso muovere gli arti
perché sono strettamente avvolta in bende sottili dal collo fino alle
dita dei piedi. Mi sembra di essere saldata in un pezzo solo, con le
mani incrociate sul petto, le gambe distese, parallele. In questa posi­
zione posso solo guardare in avanti, verso l’alto: davanti ai miei
piedi, nel sole abbagliante, vedo le schiene nude degli uomini madide
di sudore che ritmicamente si chinano in avanti ad ogni movimento di
trazione. Più in alto, più lontano, scorgo un edificio di pietra bianca
con un buco nel mezzo, una macchia nera simile ad una porta. In
quella luce accecante, il biancore luccicante dei muri si staglia distin­
tamente contro l’azzurro cupo del cielo; la macchia nera si fa più
grande a mano a mano che procediamo. Guardo il cielo: è così cupo
da sembrare nero. Due grandi uccelli volano sopra di me... cicogne o
gru?
Eccoci giunti all’edificio, ora la macchia nera è immensa... sì... è
davvero un’apertura. Oh, questo posto lo conosco, siamo nella Città
dei Morti: una tomba! Gli uomini oltrepassano la porta e scompaiono
nel buio... poi sono io a varcare quella soglia nera. L’oscurità è im­
pressionante dopo la luce accecante del sole, sono nel buio assoluto.
Mi invade un orrore indicibile e, dentro di me, imploro Ptahhotep:
«Per quanto tempo, per quanto tempo devo restare chiusa qui
dentro?»
Ed ora la voce così familiare di Ptahhotep mi giunge distintamen­
te, per pronunciare l’inesorabile verdetto, incomprensibile:
«Tremila anni...»
Una disperazione, un’indescrivibile paura si impadronisce di me,
e da questa paura paralizzante sorge all’improvviso il mostro, espres­
sione della legge della materia: vedo la sua smorfia mortale e sarca­
stica fronteggiarmi, il suo sguardo tagliente e penetrante passarmi da
parte a parte, introdursi così profondamente in me allo scopo di legar­
mi alla mummia che, un tempo, era stata me.
Allora il mostro mi dice:
«Ebbene! Alla fine, sei in mio potere! Vedi, ciò che sta in alto e
ciò che sta in basso, sono sempre l’uno il riflesso dell’altro. La perfe­
zione che riposa in se stessa e la rigidità eterna sono i due aspetti
Iniziazione: memorie di un’Egizia 387

della stessa divinità. Volevi diventar cosciente nella perfezione che ri­
posa in se stessa, ed ora sei caduta nella rigidità !
Sì, i sacerdoti imbalsamano le spoglie mortali degli iniziati affin­
ché il loro corpo, come un accumulatore, irradi ancora a lungo l’ener­
gia divina; il loro spirito è libero e nella loro coscienza non sono più
legati alla Terra: ma tu, a causa dell’amore fisico, hai condotto nei
tuoi centri nervosi inferiori l’energia divina che possedevi, e ti sei
bruciata; ora la tua coscienza ed il tuo corpo spirituale sono incatenati
al tuo guscio materiale, e sei per sempre mia prigioniera. Benché il
corpo spirimale dell’iniziato resti legato alla mummia dall’imbalsa­
mazione, la sua coscienza rimane nell 'eternità, mentre la ma è esiliata
nell'infinità !
L ’eternità è l ’eterno presente, l ’infinità è l ’eterno futuro che non
sarà mai raggiunto, che non diventa mai presente.
L’eternità non ha mai avuto inizio, sicché non ha fine. L’eternità è
il presente assoluto che non conosce né passato né futuro, mentre
Y infinità, invece, è la caduta al di fuori d&ÌYeternità, nel futuro senza
presente !
Volevi partecipare alla spiritualizzazione della Terra? E allora co­
mincia, se puoi, a spiritualizzare questo mucchietto di terra che era il
tuo corpo! Hihihi! Qui giace la sacerdotessa, e la sua coscienza è solo
più un sassolino!
Ti trovi davanti alla prima prova iniziatica: nello stato di coscien­
za proprio della materia, ma con una coscienza umanal Allora, per­
ché non cerchi di scappare? Sei mia prigioniera! Non puoi più liberar­
ti, non puoi più disfarti di me perché tu sei diventata me. Durante
l’iniziazione sei stata tu a vincermi, perché davanti alla tua divina
coscienza di Sé spirituale ho dovuto riconoscere che non posso esiste­
re senza il Sé; ho dunque dovuto riconoscere che io sono te. Ma ora, è
il contrario: nella tua coscienza, tu sei diventata materia, ti sei identi­
ficata con il corpo, eppure, come me, sei spirito: lo spirito della mate­
ria. Di conseguenza, sei tu che sei diventata me\
Sei mia prigioniera per l’infinità, nel buio... chiusa in questo cada­
vere che era il tuo corpo e che, grazie all’imbalsamazione, non si
altererà. Senza questo processo avresti potuto liberartene, ma d’ora in
poi la ma punizione consiste nell’osservare questa mummia che con­
serverà la ma bellezza imbalsamata, ma poi si accartoccerà a poco a
poco, diventando la mia immagine, il mio ritratto. Volevi diventare
immortale nello spirito d ell’eternità ed ora, in questa mummia, sei
diventata immortale nell’infinità, nell’infinità... nell’infinità...»
388 Elisabeth Haich

Sono impotente. Devo ascoltare. Giaccio qui, e il mio corpo spiri­


tuale è indissolubilmente legato alla mummia. Nella mia disperazio­
ne, cerco di rifugiarmi nell’incoscienza, ma non mi è possibile: devo
rimanere sdraiata qui, cosciente, senza avere la minima idea del tem­
po che passa.
Tempol Ma cosa sei, dunque, tempo ? Esisti solo per l’uomo infeli­
ce; nella gioia, non c’è nessun tempo: la coscienza è calma, il concet­
to di tempo scompare. Una volta passata la gioia, allora ci accorgia­
mo che, mentre la nostra coscienza si librava nel presente assoluto ed
eterno, il tempo trascorreva in fretta. Il tempo comincia quando si
cade fuori dalla gioia, fuori dal paradiso. Ma nemmeno l’infelicità
conosce il tempo, giacché più un uomo è infelice e più lento passa il
tempo, i minuti sembrano ore e nella più profonda sofferenza, quando
il dolore ed i tormenti diventano insopportabili, ogni istante diventa
infinito, il tempo si coagula, si irrigidisce ! Oh! quanto ha ragione,
dunque, questo Satana! Ciò che sta in alto e ciò che sta in basso si
assomigliano come gemelli, come la realtà assomiglia all’apparenza,
che è il suo riflesso. La gioia è Veternità senza tempo, ed il suo con­
trario, l’infelicità, è il tempo senza fine, Vinfinità.
Giaccio qui e non ho niente, assolutamente niente per paragonare
o misurare il tempo! Albero della conoscenza del bene e del male!
Colgo appieno la tua verità: una conoscenza è possibile solo attraver­
so il paragone ! E come posso conoscere la corsa del tempo se non
vedo il sole, orologio divino... se non ho neppure la minima idea
dell’esperienza del tempo in questa oscurità, e non so che cosa sia un
giorno nel buio? Che cosa può indicarmi il tempo quando non accade
nulla, quando mi trovo in un ambiente oscuro e cristallizzato? Che
posso sapere del tempo dal momento che non ho più un cuore, le cui
pulsazioni nel petto battevano il ritmo della vita, e che ora potrebbero
darmi un’idea del tempo? Sono qui da pochi minuti che mi sono parsi
interminabili, o da settimane?... Anni?... Secoli?... Millenni?... Come
posso valutare la differenza?
La spaventosa paura non mi lascia neppure per un istante, non ho
più polmoni per respirare a fondo, per trarre nuova forza dalla fonte
eterna e misurare il tempo con il respiro. Nulla, non c’è nulla che
possa dare sollievo alla mia anima torturata... i tormenti e la sofferen­
za non hanno fine, non hanno fine, non hanno fine...
CAPITOLO XLII

Nebbia e risveglio

Il tempo trascorse sul grande orologio cosmico, alla periferia del­


l’immensa ruota della creazione, senza che io ne avessi la minima
nozione.
Mi sembrava di essere rimasta lì un’eternità, immobile, a soffrire
tutti i tormenti dell’inferno quando, malgrado tutto, venne il momento
in cui sentii una forza avvicinarsi a me, un’energia più grande e più
forte del legame che tratteneva la mia coscienza legata alla mummia
la quale, nel frattempo, si era seccata, si era ricoperta di rughe ed
offriva la spaventosa immagine della legge della materia. Quella for­
za mi attirava in modo irresistibile... verso un punto. Dopo le intermi­
nabili sofferenze dell’inferno, finalmente persi conoscenza.
Due esseri le cui anime avevano un legame con me si erano uniti,
dandomi l’occasione di ereditare un corpo corrispondente al grado
della mia coscienza decaduta. Siccome quand’ero caduta ero stata una
donna, mi sarei reincarnata quale donna, fino a raggiungere di nuovo
il livello da cui ero caduta. Giunsi in un ambiente composto da esseri
ottusi, appena coscienti, dove le mie azioni ed i miei gesti, nonché
quelli dei miei vicini, erano dettati dalle passioni e dagli istinti anima­
li e dove imparai solo la brutalità, l’egoismo e l’assenza d’amore.
In quello stato di coscienza nebuloso e semi-animalesco vissi an­
cora diverse incarnazioni che avevano il compito di risvegliare la mia
vita emotiva. La miseria ed il lavoro incessanti risvegliarono ed acui­
rono i miei nervi insensibili e smussati; gli uomini ebbero una funzio­
ne importante: dal loro corpo emanava sempre lo stesso fuoco del­
l’istinto fisico e a quel fuoco mi consumavo. Incontravo sempre gli
occhi fiammeggianti e la voce che sussurrava, gli occhi e la voce
dello spirito di fuoco della mia terza prova. Sempre, in continuazione,
dovevo danzare con lo spirito della cantina della sensualità e delle
390 Elisabeth Haich

passioni ove la gente faceva del sacramento della procreazione uno


scopo a se stante per soddisfare il proprio piacere. Dovevo danzare
con quello spirito, danzare, danzare fino a non poter più stare in piedi.
Volevo “essere felice” ed infaticabilmente cercavo l’amore, il solo ed
unico uomo che avrei potuto amare, che avrebbe potuto amarmi, il
ritratto della mia metà complementare. Ma incontravo soltanto una
sensualità esacerbata, passioni senza amore che non potevano soddi­
sfarmi. Sempre alla ricerca della felicità, passavo fra le braccia di
molti uomini allo scopo di trovare colui che amavo e con il quale
avrei potuto vivere Vamore autentico...
Quelle vite furono un interminabile seguito di delusioni: il destino
mi mandava avanti a colpi di frusta e la mia anima soffriva talmente
che il fuoco dei tormenti consumò lo strato di insensibilità che isolava
i miei nervi e, a poco a poco, risvegliò la mia coscienza comatosa.
L’eccitazione e l’agitazione mi offrirono se non altro l’occasione, in
ogni incarnazione, di elevare il sistema nervoso di almeno uno scali­
no. Fu così che Vamore eterno mi permise, tramite la sofferenza, di
sensibilizzare ed affinare i nervi e di aumentarne la resistenza.
In ognuna di queste vite ero guidata da una forza cosciente che mi
faceva cercare senza sosta, ostinatamente, coloro di cui davvero non
mi ricordavo ma che qualche goccia di sangue, in me, desiderava
ritrovare... Esseri come me, fra i quali mi sarei sentita “a casa”, e dei
quali facevo parte senza alcuna riserva, con tutta me stessa:
Ptahhotep, Atothis, Ima, Bo-Ghar... ma non li trovavo!
Qui e là mi pareva di riconoscerne uno, e in me si accendevano
l’amore ed il ricordo. Poi la nebbia ricadeva su quell’immagine... e li
perdevo di nuovo. Talvolta mi accadeva di udire un servitore di Dio
parlare di un grande maestro, di un “figlio di Dio”, e allora avevo
l’impressione indefinibile di essere stata vicina a questo essere supe­
riore una volta, in un posto, in un passato che si perdeva nella notte
dei tempi, mi sembrava di aver già sentito questo insegnamento diret­
tamente dalla bocca di qualcuno; e nella mia povera anima confusa si
agitava una forza che mi attirava da qualche parte, laggiù, dove questi
esseri superiori erano “a casa”. Erano istanti fugaci, perché il destino
mi cacciava sempre più lontano infliggendomi esperienze brutali che
facevano svanire quei ricordi vacillanti; e dimenticavo ogni cosa.
I miei sensi limitati, costantemente purificati dalle privazioni fisi­
che e spirituali, si affinarono sempre di più, consentendo ai miei nervi
di sopportare le vibrazioni dell’amore che non chiede nulla in cam­
bio. A poco a poco, un raggio d’amore divino cominciò a manifestar­
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 391

si attraverso la passione grezza degli istinti corporali e, nella vita


seguente, quest’amore sollevò definitivamente la nebbia che mi oscu­
rava la vista spirituale. Quando venni al mondo per diventare una
serva trascurata ed abbandonata, già portavo in me l’amore divino
disinteressato; ma i centri nervosi e cerebrali superiori dovevano an­
cora risvegliarsi, per poter esprimere e utilizzare tutte le facoltà spiri­
tuali. Incontrai di nuovo l’uomo dalla voce familiare e dagli occhi di
fuoco che, una volta, era stato lo straniero dai capelli rossi, e che nel
frattempo aveva percorso la sua strada lungo numerose incarnazioni.
L’amavo, dovevo amarlo per poter raccogliere le ultime esperienze
dell’amore fra un uomo e una donna. In quell’amore dirigevo nel
corpo soltanto forze fisiche, il che non presentava alcun pericolo di
caduta. Il nostro comune destino ci riportò l’uno verso l’altra sulla
scalinata dei mendicanti, e i ricordi si risvegliarono in me con tale
precipitazione che la mia mente ancora intontita ne fu stimolata: mi si
erano aperti gli occhi spirituali. Ma questa scossa era stata troppo
brutale ed il corpo non era riuscito a reggerla, sicché, un istante dopo,
morii.
Alcuni secoli più tardi, secondo la legge dell’ereditarietà, venni
attratta da due esseri puri e colmi d’amore, la cui vita era legata alla
mia da molto, molto tempo.
Ancora una volta aprii due occhi umani su questa Terra, sulla
quale lanciai uno sguardo carico di tutte le mie esperienze passate. Le
stesse frequenze costruiscono le stesse forme, e siccome in questa
vita ho, nella mia costellazione psichica, lo stesso livello che avevo
quand’ero la figlia del Faraone, le assomiglio anche fisicamente. Tut­
tavia, giacché sono molto più ferma nello spirito e nella forza di
volontà, anche la mia ossatura è diventata più robusta di quella di
allora. Invece, la forma, il colore e lo sguardo (cioè Y espressione
degli occhi) sono gli stessi di allora.
Quando contemplo questa mia vita presente dal momento della
nascita in poi, tutto mi diventa perfettamente chiaro! Fu in Egitto che
per l’ultima volta fui cosciente di me, ed ora che mi trovo in uno stato
di coscienza di Sé nuovamente risvegliato, sono proprio i ricordi di
quella vita così importante, svoltasi sullo stesso livello di coscienza,
ad animarsi dentro di me.
L’esperienza della bara è l’ultima impressione della mia vita di
allora; l’orrore si è impresso così profondamente nella mia anima che
è stata la prima di cui mi sono ricordata in questa vita.
Ma tutte queste cose si manifestarono molto prima, già nell’infan­
392 Elisabeth Haich

zia, sotto forma di ricordi inconsci o semicoscienti. L’immensa delu­


sione che avevo sentito quando, a tavola, mi ero resa conto che il
concetto di “Padre” non significava “l’uomo più importante del Pae­
se”... la stupefacente convinzione che i miei genitori (che più tardi
amai profondamente) non fossero i miei veri genitori, furono infatti i
primi ricordi semicoscienti di quella mia vita in Egitto. Gli “occhi”
del brodo, i miei sforzi per trovare un’unità in una cerchia di amici,
testimoniavano la mia nostalgia, la mia sete di gioia nell’Unità del Sé
che avevo vissuto nel Tempio.
Le strane posture a cui mi esercitavo da ragazzina, senza aver mai
avuto occasione di vederle prima, quelle stesse posture che il nostro
amico di ritorno dall’Estremo Oriente chiamava “Hata Yoga”, erano
il ricordo degli esercizi insegnatimi nel Tempio da Mentuptah. Quel
sistema di esercizi faceva parte del sapere segreto dei figli di Dio, che
coloro che erano fuggiti in India avevano salvato ed insegnato ai
grandi maestri di questo popolo, i quali li hanno praticati fino ai
giorni nostri.
L’incubo infantile che così spesso si era ripetuto riempiendomi di
orrore (il leone che mi insegue e di cui sento il muso sulla nuca) fu un
primo ricordo delle ultime impressioni di quella mia vita in Egitto, le
impressioni della morte di cui avevo fatto esperienza.
E voi, “giganti”, “titani”, “semi-dei” dalle facoltà che superavano
quelle dei figli degli uomini e di cui mio padre, il padre amato in
questa vita, non sapeva nulla perché non si ricordava più: voi,
Ptahhotep, Atothis... figli di Dio... dove siete?
Grido nella mia anima senza emettere un suono, come ho impara­
to un tempo nel Tempio dal mio maestro amato e venerato, il gran
sacerdote Ptahhotep. E resto in ascolto dentro di me, per ricevere una
risposta...
Comincio col ritrovarmi in un buio vuoto, ma sono perfettamente
cosciente in esso e so che il faro della coscienza è la massima luce,
l’unica luce capace di dissipare le tenebre. E la luce della mia co­
scienza si concentra sempre di più. Dove siete, esseri dei quali faccio
parte, ai quali assomiglio, voi che siete amore, voi che mi compren­
dete, voi che non mi avete mai abbandonata neppure nelle ore più
terribili della decadenza, dove siete? Dove siete?
Nel buio, una luce fosforescente e verdastra sempre più distinta,
più vicina, assume la forma del corpo meraviglioso del mio caro
maestro Ptahhotep. Mi rendo conto che il mio Sé si è ora proiettato
nella cameretta della nostra casa su in montagna, nella persona che,
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 393

durante la mia visione iniziatica, fece l’esperienza del Sé creatore che


si libra al di sopra del mondo creato. Nel tempo del mondo tridimen­
sionale solo un istante è trascorso e, in quello stesso momento, vivo
in me tutte le forme latenti che ho portato dentro di me quali possibi­
lità di manifestazioni, e che si sono realizzate sul piano materiale, dal
livello inferiore ed inconscio della materia fino al supremo grado del
Sé realizzato nella materia.
Ptahhotep è sempre davanti a me; il suo sguardo, i suoi occhi
celesti pieni d’amore si posano su di me... Quello sguardo... quella
corrente di energia che penetra tutto e che compone il suo sguardo, fa
scomparire gli ultimi veli davanti ai miei occhi e mi permette di
rivivere tutto ciò che esiste nella mia attuale coscienza come eternità,
come presente assoluto e senza tempo...
Immergo lo sguardo in quelle due fonti di vita che sono gli occhi
del mio maestro e, con indescrivibile gioia, comprendo le parole che
non pronuncia: possiedo di nuovo la facoltà dello spirito! Ci com­
prendiamo di nuovo, come in Egitto!
Vorrei gettarmi fra le sue braccia, ma Egli alza la mano destra per
frenare il mio slancio. I suoi occhi mi dicono:
«Non toccarmi! Sai che non sono sul piano terreno, e che tu puoi
vedermi soltanto perché hai elevato la tua coscienza sulla stessa fre­
quenza vibratoria spirituale nella quale io mi trovo. Se volessi toccar­
mi forzeresti la ma coscienza a scendere a livello dei nervi tattili, al
livello materiale, e la mia immagine scomparirebbe istantaneamente
alla vista. D’ora in poi sarai in grado di elevare la tua coscienza fino
alle alte frequenze per trovarmi, come potevi fare una volta, durante
quella ma vecchia proiezione del Sé che chiami “la tua incarnazione,
la tua vita in Egitto”.»
Mantengo la calma, mantengo il controllo su me stessa, perché
non voglio in nessun caso abbandonare questo stato in cui posso
percepire Ptahhotep con i miei occhi spirituali; ma la mia anima è
stracolma di gioia, mi sembra che i nervi non riescano a sopportare
questa tensione straordinaria, mi sembra che il cuore mi stia per
esplodere. Ptahhotep alza di nuovo la mano destra e, senza pronuncia­
re la minima parola, invia una corrente di energia nel mio cuore che
ricomincia a battere regolarmente.
«Padre della mia anima, ora comprendo che la mia vita attuale è il
risultato di tutte le azioni delle mie vite precedenti. Comprendo i
rapporti fra le persone, i rapporti fra gli eventi, ma ho ancora delle
domande a cui non trovo risposta. Ad esempio, so che il mio adorato
394 Elisabeth Haich

figlio unico è Ima, e adesso so che cosa voleva perdonarmi quando


era ammalato, quando la febbre lo faceva delirare: ma perché crede di
essere stato un nero?»
Attraverso lo sguardo di Ptahhotep la risposta compare sotto for­
ma di immagini che si susseguono. Nell’anima di Ima si era svolta
una terribile tragedia: nel momento in cui aveva notato che cosa stava
accadendo tra lo straniero dalla chioma rossa e me, un’indescrivibile
delusione si era impadronita di lui, causando un’angoscia, un’ansia
divorante che l’aveva spinto fuori dal Tempio, per andare lontano, in
Africa, fra i neri.
Un’altra immagine mi mostra Ima, così come lo avevo conosciuto
in Egitto, ma in un paese tropicale, circondato da neri. Emana un
amore divino in mezzo a questi figli di uomini primitivi, e loro lo
percepiscono, lo comprendono istintivamente come accade agli ani­
mali.
Ima insegna, guarisce i malati, aiuta come può i neri, e questi
rispondono al suo amore e ai suoi sforzi attraverso un’adorazione
puerile. Nella disperazione, prende in moglie una donna nera e si
lascia trascinare nell’amore carnale. La sua coscienza si àncora sem­
pre di più nella materia, la lotta per la sopravvivenza nella giungla lo
spinge sempre di più verso la vita umana: muore con la coscienza
rivolta alle sofferenze ed ai problemi umani, e siccome nei suoi pen­
sieri si era occupato dei suoi amati neri, siccome si è identificato con
loro, si reincarnerà come uno di essi, secondo la legge dell’affinità.
Nella sua vita seguente, è portatore della stessa coscienza caotica
ed inferiore in cui la disperazione e la soddisfazione degli istinti
l’avevano precipitato. La sua intelligenza si irradia ancora attraverso
il guscio fisico e, in mezzo ad una tribù, diventa un capo amato e
rispettato. Prende moglie, ha dei bambini e lo vedo come un nero, ed
è soltanto dallo sguardo che lo riconosco sotto questa forma; va a
caccia nella giungla, nella savana, si arrampica sugli alberi per sor­
prendere gli animali selvatici che ucciderà e che porterà a casa. Un
giorno, mentre è a caccia, viene attaccato da una tigre: lotta eroica­
mente ma l’animale trionfa e lo uccide. Vedo ancora sua moglie che,
sentendo urlare il marito, si precipita per aiutarlo... La visione si can­
cella e vedo ancora in quale stato si trova Ima dopo la morte: lo
sforzo incessante ed incosciente che, nella sua condizione disincarna­
ta, ha fatto per ritrovarmi, lo avvicina sempre un po’ di più; dopo il
nostro incontro in Egitto abbiamo percorso entrambi un lungo cam­
mino di sviluppo, ma né l’uno né l’altra eravamo ancora abbastanza
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 395

maturi per ritrovarci. Poi, finalmente, abbiamo raggiunto un livello


sul quale possiamo di nuovo incontrarci senza che ci sia alcun perico­
lo di soccombere all’amore fisico.
La volontà di conservare ad ogni prezzo la purezza del nostro
amore e di allontanare da noi ogni tentazione, la legge dell’ereditarie­
tà fisica, contribuiscono a fare di Ima mio figlio. In questa vita, deve
anche riacquisire la sua chiara visione spirituale di un tempo. E sicco­
me per causa mia ha perso la fede, toccherà a me ricondurlo a Dio.
Ma il tempo non è ancora maturo, è solo un bambino.
«Padre della mia anima, dov’è Atothis, tuo fratello e mio padre in
Egitto? Desidero ristabilire i contatti con lui. Sono certa che anche lui
non mi ha abbandonata.»
Davanti ai miei occhi spirituali compare l’immagine di un uomo
meraviglioso, di un essere che, di recente, è stato il più grande mae­
stro che abbia rivelato le verità più profonde. Avevo letto i libri in cui
i suoi discepoli avevano raccolto tutte le sue conferenze e mi avevano
commossa: ogni frase mi dava l’impressione di conoscere quell’uo­
mo, di essere in stretto rapporto con lui, di conoscere i suoi pensieri,
di essere parte di lui! Sapevo che non avrei mai avuto l’occasione di
incontrarlo perché era morto in un paese lontano mentre io ero ancora
una bambina. Avevo spesso guardato, a lungo, il ritratto di quest’uo­
mo straordinario che aveva posseduto facoltà sovrumane, di questo
non c’era dubbio, e sapevo che i suoi occhi, il suo sguardo divino mi
erano familiari... in qualche luogo. Non sapevo perché spesso sognas­
si di correre da lui, con i capelli e la tunica bianca al vento, per
rifugiarmi fra le sue braccia aperte nella gioia dell’incontro. Folle di
felicità, piangevo dicendo:
«Padre! Padre!»
Al risveglio, non sapevo perché l’avessi chiamato “padre” in so­
gno, né perché avessi pianto così amaramente da inzuppare il cusci­
no...
Ptahhotep sorride:
«Ti ricordi?»
«Sì, Padre della mia anima, mi ricordo. Una volta, in Egitto, in
riva al mare mi disse: “Verrà un giorno in cui io sarò sulla Terra
mentre tu non vivrai in un corpo; verrà anche il giorno in cui tu sarai
incarnata sulla Terra, mentre io lavorerò dalla sfera spirituale alla
grande opera di spiritualizzazione...” E dov’è, ora, Padre della mia
anima, dov’è?»
Comprendo la risposta che Ptahhotep mi dà spiritualmente:
396 Elisabeth Haich

«Quand’era sulla Terra promise ai suoi discepoli di non abbando­


narli neppure dopo la sua morte, e che avrebbe continuato l’enorme
compito di iniziare l’umanità alle verità antiche. Tu e Bo-Ghar siete
già i suoi - i nostri - collaboratori, senza che ne siate coscienti. Più
tardi, sarete collaboratori coscienti.»
«Bo-Ghar? Vive di nuovo sulla Terra? E dov’è? Forse non l’ho
riconosciuto?»
«Aspetta! Vive nel lontano paese dove anche Atothis si era rein­
carnato. Sai che ti ha promesso che sarebbe venuto dall’altra parte del
pianeta per salvarti qualora fossi stata in pericolo, sicché verrà a te al
momento opportuno.»
«Pericolo, Padre della mia anima? Quale pericolo?»
«Ricordati di ciò che ti dissi in Egitto prima dell’iniziazione: se
cadi dovrai vivere tutti i sogni iniziatici nella realtà terrestre, perché i
sogni non sono nuli’altro che realtà nel mondo energetico non mate­
riale e “costruttore di immagini” dell’uomo.
E ciò che chiamate “realtà” non è altro che un sogno, una proie­
zione del Sé che è stata sognata ed agisce sul piano materiale, fino
nell’atmosfera terrestre. Per ritornare ad essere un’iniziata, una colla­
boratrice utile, devi superare di nuovo tutti gli esami che hai sbagliato
una o più volte: una vecchia conoscenza ti aiuterà a varcare la soglia
mistica. Il giovane sacerdote che, un tempo, ti aveva preparata all’ini­
ziazione, ora vive sulla Terra, ed al momento giusto ti sarà accanto
per aiutarti lungo la via che conduce alla meta.»
«Come mai Thiss-Tha, il generale di Atothis, è diventato, in que­
sta vita, il padre che amo teneramente?»
«Sarebbe troppo lungo enumerare tutte le cause che lo condussero
a questo risultato, ma ti dirò le principali. Come sai, Vaspirazione, la
nostalgia, è la forza più potente dell’anima umana. L’uomo si rein­
carna laddove la sua aspirazione, la sua nostalgia conducono la sua
coscienza. Quando sei stata aggredita dal leone, c’erano tre uomini
che tentarono di salvarti: Thiss-Tha, Bo-Ghar e il guardiano dei leoni.
Bo-Ghar ti aveva seguita quando avevi lasciato il palazzo, ti era corso
dietro disperatamente per salvarti; Thiss-Tha era sul punto di attacca­
re i suoi leoni al carro, quando aveva visto che il tuo stava per balzarti
addosso. Naturalmente aveva cercato di trattenerlo, ma l’animale era
stato più veloce. Ti aveva assestato un tale colpo che, quando riusci­
rono a liberarti dai suoi artigli, il tuo corpo era così profondamente
ferito che non fu possibile tentare una rianimazione. Thiss-Tha prese
il tuo corpo lacerato fra le braccia e, accompagnato da Bo-Ghar prò-
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 397

strato e terrorizzato che gli singhiozzava accanto, ti ricondusse a pa­


lazzo. Thiss-Tha era un uomo onesto ed integro, che amava il Farao­
ne e te senza riserve. Mentre portava il tuo corpicino agonizzante, fu
colto da un’infinita compassione... ti sosteneva come un neonato,
come la sua bambina, e ti amò come un padre. La tua ultima esperien­
za di questa vita, fu la tua corsa verso Thiss-Tha che avevi scorto, per
cercare aiuto. Da lui hai cercato protezione, e questi sentimenti che
avete avuto l’uno per l’altra sono la ragione profonda che hanno crea­
to questa relazione figlia-padre protettore, che si è realizzata in una
vita successiva.
Ma, oltre a molti altri particolari, c’è un’altra causa importante
che fece sì che diventassi sua figlia: per poter ripercorrere l’iniziazio­
ne in questa vita, era assolutamente necessario che tu ereditassi dei
centri nervosi e cerebrali altamente sviluppati ed aperti alle manife­
stazioni spirituali. Se potessi seguire la lunga catena dei discendenti
di Thiss-Tha, quel Thiss-Tha che visse un tempo in Egitto, allora
osserveresti che la catena delle cellule vive non si è mai interrotta dal
Thiss-Tha di allora fino al Thiss-Tha di oggi, tuo padre in questa vita.
In altri termini, il corpo di ognuno dei suoi figli si è sviluppato a
partire da una cellula viva del corpo di Thiss-Tha, ed il corpo dei loro
figli si è sviluppato ogni volta da una cellula viva, e così via. Il
processo è andato avanti per generazioni e generazioni finché il padre
e la madre di tuo padre sono nati, e hanno messo un’altra cellula viva
e fecondata a disposizione dello spirito di colui che fu Thiss-Tha, il
che gli consentì di reincarnarsi nella stessa catena ereditaria.
La relazione fra genitori e figli è infinitamente più profonda e
risale a tempi molto più antichi di quanto gli scienziati che oggi
studiano queste leggi possano immaginare. Costoro vedono soltanto il
corpo, ma esistono leggi di ereditarietà superiori a quelle del corpo,
quelle che derivano dalle relazioni spirituali elevate. Chi si assomi­
glia si pigliai Un’altra ragione per cui potevi incarnarti come figlia di
Thiss-Tha era la somiglianza dei vostri caratteri: non a caso tutti
notano questo tratto in comune fra tuo padre e te. Non gli assomigli
perché sei sua figlia, ma sei diventata sua figlia perché gli assomiglil
E dunque naturale che tu gli assomigli anche fisicamente, nella cor­
poratura, nel portamento, nell’ossatura e nei tratti del volto. Le stesse
forze creano le stesse forme \
Se hai capito il sistema dell’ereditarietà delle cellule vive, allora
comprendi anche perché tuo padre, in questa vita, abbia la stessa pelle
scura, gli stessi capelli, gli stessi occhi neri di un tempo, ih Egitto. I
398 Elisabeth Haich

colori e le forme sono anch’essi manifestazioni dello spirito. La pos­


sibilità di ereditare questi colori e queste forme inusuali in questo
paese, venne offerta da un lontano discendente di Thiss-Tha, un mari­
naio che viaggiò molto. Possono trascorrere secoli prima che riemergano
nella catena ereditaria una forma ed un colore dimenticati da tempo.
Ecco perché genitori di pelle chiara possono generare, in modo inatte­
so, un bambino con la pelle e la capigliatura più scuri. Se fossero
coscienti, questi spiriti che si sono reincarnati in modo così incon­
gruo, potrebbero raccontare come sono arrivati a questa ereditarietà.
In generale, solo più tardi prendono coscienza della loro missione e
della loro origine, ed è bene così, giacché se un bambino di oggi si
ricordasse della sua vita precedente e ne parlasse alle persone che lo
circondano, certamente lo prenderebbero per un malato mentale o
perlomeno per un mentitore o una persona troppo fantasiosa.
Ma questo basta, per oggi, piccola mia. Toma nella tua coscienza
fisica. Dopo questa grande scossa del ricordo, i tuoi nervi, per non
ammalarsi, hanno bisogno di perfetto riposo.»
A poco a poco la visione di Ptahhotep si cancella. Ancora per
pochi istanti scorgo lo sguardo divino dei suoi occhi luminosi, poi
scompare alla mia vista e, tutt’intomo, ogni cosa ritoma ad essere
oscura. Dirigo la luce della mia coscienza sulla domanda:
«Dove sono?»
Dall’oscurità sembrano uscire parecchie piante, si abbozzano i
contorni di vari oggetti: forme e colori si precisano finché, infine,
tutto è cambiato e mi ritrovo coscientemente nella cameretta della
nostra casa nel bosco.
Sì, mi trovo nella camera della casetta delle vacanze. Questo è
proprio vero. Eppure, durante la mia iniziazione in Egitto, quando il
mio corpo riposava nella bara di pietra, quando la mia coscienza
sperimentava, sotto forma di sogno, tutte le vite non ancora vissute
che sonnecchiavano allo stato latente nel mio “Io”, queste visioni
oniriche erano state assolutamente reali per me, reali quanto è reale
questa realtà che mi vede qui, nella casetta nel bosco. Chi può dirmi
che cos’è la realtà? Non ho fatto altro che sognare, qui, nella caset­
ta, di essere vissuta in Egitto migliaia di anni fa, di avervi ricevuto
l'iniziazione... oppure è adesso che sto sognando, durante la mia
iniziazione nella piramide, di essere nella nostra casetta nei boschi?
E la mia vita, che considero essere la realtà di questo momento, non
è altro che un concatenarsi di visioni oniriche in una coscienza, che
mi offrono la possibilità di superare degli esamil
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 399

Mio figlio di oggi - Ima in Egitto?


Qual è la “realtà”?
Durante l’iniziazione ho visto in sogno immagini talmente spa­
ventose e caotiche che mi è difficile ricordarle con precisione. Tutta­
via, tutte queste cose impossibili erano perfettamente reali nelle mie
visioni iniziatiche. Ancora adesso vedo certe immagini di quei sogni;
ho visto Ima adulto, in uniforme da pilota, poi altre immagini di noi
tutti accompagnati da molta gente, seduti in un rifugio per un periodo
interminabile; mi ricordo anche di soldati nemici che avevano invaso
la città mentre la nostra casa era crollata, e poi altri sogni, impossibili,
atroci, caotici! Che orrore! Ma certamente ho sognato cose del genere
perché i giornali scrivono sempre più articoli sulla probabilità di una
seconda guerra mondiale.
Sto dunque cercando di fare un po’ d’ordine in me...
Resto ancora immobile a lungo. La mia cameriera, una ragazza
gentile, infine entra e mi chiede:
«Che posso prepararle per pranzo?»
«Grazie Betty, nulla. Preferisco andare a dormire. Oggi sono un
po’ stanca.»
«Sì, signora, lei riflette troppo. Le ho detto spesso di non leggere,
di non pensare così tanto... Spero che non si ammali, è talmente
pallida.»
Mi prepara il letto, mi augura la buonanotte ed esce.
Dormirò, giacché mi rendo conto che, nella visione, Ptahhotep
aveva ragione: i miei nervi hanno davvero bisogno di riposo assoluto.
CAPITOLO XLIII

Roo-Kha e le dodici compresse

Ciò che accadde in seguito fu così rapido che nel mio ricordo tutti
questi eventi sembrano un sogno.
Cominciai a trasmettere agli altri le verità che Ptahhotep mi aveva
insegnato nel Tempio; la gente veniva sempre più numerosa alle mie
conferenze, come viaggiatori assetati, avidi di dissetarsi all’acqua del­
la vita nei misteri profondi dell’iniziazione, nel Sé divino. Da quel
momento in poi, il mio lavoro è sempre stato lo stesso: sono qui,
all’inizio di un cammino che sembra interminabile, in fondo al quale
si erge la figura brillante tutta fatta di luce - il Sé cosmico creatore -
che attende, a braccia aperte, ognuno di noi. Sono qui a mostrare la
via alle pecore innumerevoli che, tutte, cercano la luce ed avanzano
lentamente, una accanto all’altra, nella direzione dell’essere di luce...
così come la mia visione di un tempo, sulle Dolomiti.
Il mio karma, che aveva creato il mio destino ed il mio carattere,
si svolgeva nel mondo tridimensionale secondo le leggi del tempo e
dello spazio; ero sola con la mia missione, senza guida per consigliar­
mi, come debbono restare soli tutti coloro che vogliono diventare
collaboratori indipendenti e degni di fiducia per lavorare alla grande
opera. Molto di rado, e soltanto quando mi sono trovata ad una svolta
della mia esistenza, ho potuto giovarmi di un aiuto e di qualche
indicazione proveniente dalle forze superiori che governano la Terra.
Quanto ai miei problemi, ho sempre dovuto risolverli da sola, ma nel
corso degli anni ci fu sempre qualcosa a ricordarmi le mie esperienze
egizie.
Per la prima volta mi recai in un paese straniero per partecipare ad
una conferenza, e vi incontrai qualcuno che conoscevo dai tempi
dell’Egitto: genti di tutto il mondo erano riunite in quel luogo, e
passai davanti ad una sala in cui alcuni membri di quell’associazione
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 401

avevano preso posto; scorsi di schiena un uomo, ne intravvidi il profi­


lo, e pur avendo la mente occupata in tutt’altro, pur essendo lontanis­
sima dai ricordi della vita egizia, riconobbi quell’uomo al primo col­
po d’occhio, e il cuore si mise a battere più forte per la sorpresa: Roo-
Kha! L’uomo si alzò, e sebbene dissimulassi perfettamente la mia
sorpresa, mi guardò con perplessità. Si inchinò e si presentò:
«Ewalt Klimke.»
Ci scambiammo una stretta di mano. Rimase muto per un attimo
poi, imbarazzato, mi disse:
«Che strano! Che strano! Chi è lei veramente? Ho la strana sensa­
zione di dovermi prosternare davanti a lei, a braccia tese, fino a terra.
Che strano! — aggiunse — Perché ho questa strana sensazione?»
Sorridendo, risposi:
«Lei era in Egitto, ed era cancelliere e ministro delle finanze nel
governo di mio padre.»
Tutti i presenti scoppiarono a ridere di cuore, credendo che fosse
uno scherzo. Soltanto Ewalt Klimke rimase silenzioso, mi guardò con
perplessità, imbarazzato. Mi chiamò “Regina” per tutta la durata della
conferenza, e appena poteva mi fissava con ostinazione ripetendo:
«Che strano...»
Chiacchierammo come vecchi amici.
Un altro evento, che risale allo stesso periodo, mi è rimasto altret­
tanto impresso nella memoria; una sera d’autunno, come al solito, mi
ritirai per andare a letto. Stavo sognando non so cosa quando, d’un
tratto, tutto divenne chiaro: vedo un automobile che si avvicina a me,
che si ferma alla mia altezza, e ne scendono due uomini vestiti di
bianco, che sembrano medici. Uno viene verso di me, tira fuori dalla
tasca uno strumento a forma di cucchiaio con il quale mi estrae dal­
l’orbita l’occhio malato. L’altro porta una fiala, la apre e ne tira fuori
un disco rotondo e bianco che non riconosco, forse una grossa com­
pressa. Alza la compressa all’altezza egli occhi affinché possa con­
templarla bene e dice:
«Non temere nulla, metterò questa cosa (e mi mostra la compres­
sa) nell’orbita del tuo occhio. Dodici di queste debbono riassorbirsi
prima che tu riabbia indietro il tuo occhio. Soprattutto non aver paura
della cecità apparente di quest’occhio.»
Mi infila la compressa nell’orbita vuota, mi chiude la palpebra e
copre l’occhio destro con una tovaglietta bianca.
Il giorno seguente, al risveglio, cercai di alzarmi ma dovetti arren­
dermi all’evidenza: non vedevo più nulla con il mio occhio malato,
402 Elisabeth Haich

era come se mi ci avessero messo davanti una spessa placca. Presi


uno specchio per osservarlo: la pupilla era diventata opaca, grigiastra.
Sapevo che era la cateratta. Questa malattia si sviluppava nel mio
occhio destro da diversi anni, ma si era aggravata molto lentamente,
impercettibilmente, e ancora il giorno prima vedevo abbastanza bene,
dall’esterno non si notava nulla. Ora invece, d’un tratto, nello spazio
di una notte, il cristallino dell’occhio destro si era opacizzato, diven­
tando una vera e propria cateratta!
«Non temere nulla...»
La voce del visitatore notturno del mio sogno mi risuonava ancora
nelle orecchie. No, non avevo paura! Ma bisognava ricominciare il giro
dei medici, dei professori, fino a trovarne uno in grado di operare l’oc­
chio. Da un pezzo avevo imparato l’inutilità della paura. Ma che poteva­
no significare quelle compresse bianche, dodici delle quali dovevano
riassorbirsi prima che potessi ritrovare l’occhio? Cosa poteva voler dire?
Andai da diversi medici che, quasi tutti, parlarono di operarmi a _
breve scadenza. Tuttavia, c’era un pericolo: dal momento che avevo
già trentacinque anni e che bisognava tagliare una parte dell’iride (il
che avrebbe dato alla pupilla, così ingrandita, la forma del buco della
serratura) l’occhio operato non avrebbe più potuto sopportare una
luce forte, ed avrei dovuto tenere costantemente degli occhiali scuri.
Decisero quindi di aspettare ancora, ed io seguii il loro consiglio.
Continuavo a lavorare, ma non riuscivo ad abituarmi ad avere solo
più un occhio sano: la cateratta mi dava molto fastidio.
Giunse l’estate e, come ogni anno, andammo sul lago, nella villa
di famiglia. Incontrai un vescovo cattolico che cercò di convincermi
ad andare a farmi visitare da un professore di Vienna, che conosceva
personalmente:
«Ha tecniche operatorie del tutto diverse da quelle degli altri me­
dici; ci vada, e senta cosa le dice. Io sono un servitore di Dio e forse
Dio le dà questo consiglio attraverso la mia bocca.»
Mi avevano dato già molti consigli sul mio occhio, sicché ormai
non ci facevo più caso, tuttavia le parole “forse Dio le dà questo
consiglio attraverso la mia bocca” mi rimasero impresse.
Quell’autunno, Padre mi accompagnò a Vienna dal professore in
questione, il quale consigliò un’operazione immediata:
«Deve sbarazzarsi di quest’orrida e noiosa cateratta al più presto,
perché ha un’influenza negativa sulla psiche.»
«Ma il mio occhio non patirà del fatto che una parte dell’iride
debba essere tagliata?»
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 403

Mi guardò a lungo, controllò i miei riflessi nervosi, mi parlò del


mio lavoro di scultrice, fece ogni tipo di domande che apparentemen­
te non avevano nessun rapporto con gli occhi, poi improvvisamente,
dichiarò:
«Non le taglierò neanche un pezzettino d’iride; stia tranquilla,
dopo l’operazione l’occhio non sarà ipersensibile alla luce.»
«Allora, facciamola il più rapidamente possibile» dico.
La settimana seguente entrai in clinica il giorno prima dell’inter­
vento.
Era una magnifica serata d’autunno e, prima di andare a letto,
andai alla finestra per contemplare la città. Scostai la tenda e mi vidi
osservata dal grande disco rotondo e bianco della luna piena\ In quel
preciso istante, riconobbi con sorpresa la grossa compressa bianca
che il medico mi aveva mostrato in sogno: era la luna pienal
Mi aveva detto: “dodici di queste debbono consumarsi prima...” Il
mio cuore cominciò a battere forte, mentre cercavo di ricordarmi la
data di quel sogno. Sì, la luna piena si era mostrata esattamente dodici
volte da allora! Allora, seppi che l’operazione mi avrebbe reso la
vista, mi avrebbe reso il mio occhio destro!
Il mattino seguente l’operazione andò bene e durò poco: la luce
penetrava di nuovo nel mio occhio cieco, davanti al quale comparve
una mano:
«Cosa vede?» chiese il professore.
«La sua mano benedetta, professore» dissi, mentre mi bendavano
entrambi gli occhi.
E mentre spostavano il mio letto a rotelle per il corridoio della
clinica, sentii aprire e chiudersi le porte, poi la voce dolce di padre
che chiedeva:
«Come va, Esther?»
«Bene, Padre, ci vedo!»
Quell’intervento mi diede l’occasione di fare esperienze molto
interessanti, fra le quali la più importante fu che imparai che le vibra­
zioni che percepiamo come “luce”, lo sono soltanto per i nostri occhi
sani. Altrimenti, esse rappresentano una forza abbastanza potente per
uccidere un uomo, persino un essere più forte ancora: questo dipende
dalla relazione fra la sensibilità cutanea di una creatura e l’intensità
della luce.
Ecco ciò che accadde. Poche ore dopo l’operazione il professore
mi disse:
«Non abbia paura: ora le toglierò la benda dall’occhio operato e ci
404 Elisabeth Haich

metterò davanti una candela accesa, per vedere le reazioni.»


Mi chiesi perché avrei dovuto avere paura, e attesi che il medicò
togliesse la benda. Questi ordinò:
«Apra l’occhio.»
Mi ero preparata a vedere una candela accesa, ma vidi soltanto il
buio. Invece ricevetti un tal pungo nell’occhio operato che la mia
testa venne proiettata all’indietro; chiusi subito l’occhio senza capire
bene cosa fosse accaduto.
Udii allora il professore ridere:
«Non le avevo detto di non aver paura? La retina, in questo mo­
mento, è così sensibile che percepisce anche la più piccola luce come
un urto brutale, e non come luce. Si riposi, adesso. Fra qualche ora
tornerò ad esaminare l’occhio. Fin qui, tutto bene.»
Ed uscì. Rimasi nelle tenebre a riflettere: cos’è la luce? Com’è
che la stessa luce, percepita dall’occhio sano come fiamma di una
candela, può causarmi dolore ed essere percepita come un,, pugno?
Non ho visto nessuna luce, ho solo sentito un gran colpo, tant’è che la
mia testa è stata proiettata all’indietro.
Ne dedussi che se fosse esistito un essere dalla pelle sensibile alla
luce quanto la retina del mio occhio operato, lo si sarebbe potuto
uccidere a distanza dirigendogli contro semplicemente la luce di un
proiettore.
Con altrettanta certezza, si sarebbe potuta immaginare una specie
di luce - che potremmo chiamare “ultra-luce” - talmente più intensa
di quella che abbiamò l’abitudine di vedere con i nostri occhi umani,
che avrebbe potuto, a seconda della sensibilità della nostra pelle,
uccidere anche noi, così come la luce ordinaria avrebbe ucciso una
creatura con una pelle sensibile quanto la mia retina.
Realizzai che tutto era relativo, una semplice questione di rappor­
to fra la forza agente e la resistenza che incontra. Questo corrisponde­
va a quanto mi era appena stato rivelato: una straordinaria quantità di
forme di vita differenti possono esistere sui vari pianeti, sui corpi
celesti, in tutto l’universo; una creatura simile all’uomo che dovesse
vivere su Urano o Nettuno, certamente dovrebbe avere una pelle sen­
sibile quanto la retina del mio occhi appena operato, dal momento che
il sole è infinitamente più lontano da quei due pianeti che non dalla
Terra. E se questi due esseri dovessero ancora “vedere” alla luce del
sole come facciamo noi qui, sulla Terra, vorrebbe dire che i loro
occhi avrebbero una sensibilità che non possiamo neppure immagina­
re. Ma perché andare così lontano? Gli animali che vivono nelle
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 405

profondità oceaniche possiedono occhi di quel genere e facoltà che


non possiamo capire, perché, così come siamo fatti, non potremmo
mai esistere nel buio e nella profondità dei mari.
Restai immersa nella meditazione, pensando alla diversità dei
mondi e dei loro abitanti; mi sentivo molto umile davanti alla potenza
de\V ESSERE eterno che chiamiamo Dio.
Un’altra esperienza interessante che derivò dall’intervento fu que­
sta verità: simili ai polmoni che non ispirano l ’aria p er loro stessi ma
per tutto il corpo al quale la distribuiscono, gli occhi non assorbono
la luce per loro soltanto, ma anche p er tutto il corpo al quale la
distribuiscono. Perché la luce è energia !
Tre giorni dopo l’operazione, il professore entrò in camera mia
insieme ad un’infermiera e mi disse:
«Adesso si sieda in poltrona. Si metta le pantofole, le daremo una
mano!»
Mi sentii offesa:
«Professore, non sono ammalata, e tre giorni di letto non possono
avermi indebolita al punto da non potermi sedere e alzarmi in piedi.
Non ho bisogno di aiuto.»
«Bene, bene — disse il professore — e allora si alzi, se ci riesce!»
Misi le gambe giù dal letto e... che sorpresa! I piedi e le gambe
erano così deboli che sarei crollata se le braccia vigorose dell’infer­
miera e del professore non mi avessero sostenuta a destra e a sinistra!
Le gambe penzolavano miseramente, rifiutando di obbedirmi; e non
solo le gambe, ma anche la spina dorsale era senza forza. Mi sentii
bene solo quando il professore e l’infermiera mi sedettero in poltrona.
Com’era possibile?
Sentii il professore che rideva:
«Come vede, non avrebbe potuto alzarsi da sola! E rimasta al buio
completo per tre giorni, e quando una persona viene privata improv­
visamente della luce, perde le forze al punto da non poter più stare in
piedi. Quando potrà riaprire gli occhi, le forze le ritorneranno subito.
Durante la guerra, i soldati diventati ciechi ci causarono molti proble­
mi, non tanto per il loro stato psichico, ma per la perdita totale delle
energie a causa di quella improvvisa cecità. L’anima umana è fatta in
modo miracoloso, e persino quando si presenta una catastrofe terribile
quale la cecità, l’uomo trova in sé la forza di continuare a vivere e a
provare gioia: la nostra massima preoccupazione, è stata dunque di
rimettere in piedi quei ragazzi completamente senza forze. Grazie a
Dio il corpo è elastico, e a poco a poco la pelle provvede all’approv­
406 Elisabeth Haich

vigionamento di luce, ma i primi tempi sono difficili, a volte tragici, a


causa di questa incredibile debolezza causata dalla mancanza di
luce.»
Taccio. Da quando ho avuto quella malattia all’occhio mi sono
resa conto sempre meglio di che potesse significare “esser ciechi”;
me ne sono resa conto molto meglio di quando avevo gli occhi sani.
La mia esperienza mi ha fatto capire questo passo della Bibbia:
«L’occhio è la lampada del corpo. Se il tuo occhio è in buono
stato, tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è in
cattivo stato, allora tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre.» (Matteo 6,
22.23)
Mi sanguinava il cuore al pensiero che non bastassero fra gli
uomini i ciechi “naturali”, ma che bisognasse ancora far delle guerre
durante le quali moltissimi uomini in buona salute avrebbero perso la
vista, senza parlare di altre mutilazioni! L’umanità, sarebbe mai stata
abbastanza matura per rifiutare di obbedire alla tirannia dei politici
privi di ogni coscienza che firmano le dichiarazioni di guerra?
Due settimane dopo il professore mi accompagnò nella camera
oscura, per esaminarmi gli occhi. Mise davanti all’occhio operato una
lente molto forte, e riuscii a leggere tutte le lettere, anche i caratteri
più piccoli. Inaspettatamente il professore mi abbracciò e mi sollevò
da terra, tant’era felice: era un uomo di una certa età, assolutamente
delizioso, ma non riuscivo a capire per quale ragione avesse espresso
in quel modo intempestivo la sua gioia! Toccai terra di nuovo e,
raggiante, mi disse:
«Sa che il metodo che ho usato per questa operazione viene tenta­
to soltanto sui bambini e sui giovani fino ai vent’anni? Dopo quell’età
c’è il pericolo che l’iride si infiammi, il che può comportare la perdita
dell’occhio. Quando è venuta qui per la prima volta l’ho osservata
attentamente, ed ho notato che possedeva una vitalità ed un’elasticità
fuori del comune. Aveva riflessi eccellenti e, come faccio sempre, mi
sono lasciato guidare dall’intuizione. Ho osato operarla come se fosse
stata ancora una bambina, sicché ora comprende la mia gioia. Que­
st’operazione è un successo completo. I suoi tessuti erano ancora
abbastanza giovani per sopportarla brillantemente. Congratulazioni!
Tornerà a casa con due occhi sani!»
Lo ringraziai della sua benevolenza, ci congedammo e rientrai a
casa. Le dodici compresse si erano riassorbite, e la luce aveva ritrova­
to la via nel mio occhio sinistro.
CAPITOLO XLIV

... e compare il giovane sacerdote

Passarono gli anni, mio marito ed io vivevamo in pace e l’amore


che nutrivamo l’uno per l’altra era rimasto inalterato nel tempo. Con­
tinuavo a scolpire, ricevevo molti ordini e dedicavo il tempo libero
alle consulenze psicologiche per pazienti sempre più numerosi. Più
volte alla settimana facevo delle conferenze sulla conoscenza del Sé,
sull’insegnamento che avevo ricevuto da Ptahhotep in Egitto, e quan­
do avevo bisogno di riposo mi sedevo al piano.
Ogni giorno facevo esercizi di Yoga spirituale che mi consentiva­
no di raggiungere stati di trance profonda, ma l’ultima porta restava
ancora sbarrata. Ad un certo livello di sviluppo lungo il cammino
della realizzazione perfetta del Sé, andavo a sbattere contro un osta­
colo, simile ad un muro, che non riuscivo a sfondare con la coscienza.
Ogni anno trascorrevo alcuni mesi da sola nella nostra casetta nel
bosco, per praticare lo Yoga. I giovani alberi da frutto che avevo piantato
erano diventati belli e forti, ma malgrado la perseveranza con cui mi
esercitavo, i guardiani del grande cancello non mi lasciavano entrare.
Tornò l’autunno e, per un giorno, lasciai la casa nel bosco per
festeggiare in famiglia e con gli amici il settantesimo compleanno di
mio padre.
Il giorno seguente, mentre mi preparavo a ripartire per il bosco,
squillò il telefono ed una vecchia amica mi chiese quali fossero i miei
progetti per quel pomeriggio. Le risposi che ero libera.
«Il celebre scrittore con cui ero in India da Maharishi è arrivato, è qui
da me; se vuoi incontrarlo, vieni questo pomeriggio» mi disse l’amica.
Quel pomeriggio andai da lei, mi fece entrare in salotto e scorsi
quell’uomo che era diventato celebre in tutto il mondo per i suoi libri
sui grandi yogi dell’india. Rimasi inchiodata dalla sorpresa: davanti a me
c’era il giovane sacerdote che, nella mia vita in Egitto, mi aveva assistita
408 Elisabeth Haich

nel corso delle ultime preparazioni prima della grande iniziazione.


Intavolammo una breve conversazione, e dissi di aver letto i suoi
libri e che da parecchio tempo mi esercitavo nello Yoga spirituale,
sebbene non fossi ancora riuscita a raggiungere la meta suprema...
Arrivarono altre persone, e la conversazione assunse un tono più
leggero. Più tardi, in serata, parlammo dei suoi libri e non ebbi più
alcuna occasione di rimanere sola con lui.
Me ne andai pensando:
«Così, non è successo nulla...» perché avevo segretamente sperato
che quel celebre yogi bianco avrebbe potuto aiutarmi nel mio pro­
gresso lungo la via mistica.
Il giorno seguente, la mia amica mi telefonò per informarmi che
lo scrittore desiderava incontrarmi privatamente e che avrei potuto
recarmi da lei quel pomeriggio, cosa che feci.
Lo scrittore era seduto sul divano nella posizione del loto, e quan­
do mi fui accomodata, mi chiese:
«Che desidera?»
«Non ho alcun desiderio — risposi — vivo in pace, in un’assoluta
calma interiore.»
«Perché è venuta da me? Che si aspetta da me?»
«Voglio la realtà» dissi.
Lo scrittore tacque per un attimo, poi mi guardò e chiese:
«E questa calma assoluta, non è forse realtà?»
«Sì, è una realtà, ma voglio ancora di più. Sono come Mosè che
vide la terra promessa ma non ci mise mai piede. Credo di vedere
tutto, ma voglio entrare, non posso accontentarmi di vedere dal­
l’esterno tutto ciò che si trova all'interno. Voglio entrare.»
Sorrise:
«Sì, lei è proprio davanti alla grande porta, con la mano già sulla
maniglia. È eccezionale che qualcuno abbia potuto progredire tanto
senza l’aiuto di un maestro. Sicuramente lei ha già ricevuto l’inizia­
zione in una vita precedente, ed ora le resta soltanto l’ultimo passo, la
porta che la separa dalla grande meta.»
Osservavo lo yogi: non si ricordava più di essere stato sacerdote
in Egitto e di avermi conosciuta là? Oppure non voleva parlarne? Il
suo sguardo insondabile non tradiva alcun pensiero.
Risposi:
«Sì, lo so, e voglio entrare anche se dovessi sfondare la porta con i
pugni.»
«E lei crede che possa aiutarla?» mi chiese.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 409

«Quando sarà venuto il tempo per me, allora mi potrà aiutare.»


«E quando sarà venuto il tempo per lei, crede che allora potrei
davvero aiutarla?»
«Sì» risposi.
Come se avesse atteso quella risposta, mi indicò una sedia di
fronte a lui:
«Si sieda qui, chiuda gli occhi, si concentri intensamente ed entri
nel suo cuore.»
Feci come diceva. Ad occhi chiusi, vidi uscire dal plesso solare
dello yogi un’intensa corrente gialla di luce brillante che mi avvolse
come un serpente, formando un cerchio intorno a me, che poi ritornò
allo yogi avvolgendo anche lui, tornò ancora a me e ancora a lui,
come un grande otto.
Nel frattempo, nella concentrazione, sentivo che mi stavo avvici­
nando al punto che non ero ancora riuscita ad oltrepassare. In quel
momento, percepii una strana energia impadronirsi della mia coscien­
za e condurla come attraverso una porta verso una profondità infini­
ta...
Persi qualsiasi nozione del tempo, e non avrei saputo dire quanto
tempo fosse trascorso quando la voce dello yogi bianco mi disse:
«Ora può aprire gli occhi.»
Lo feci e mi accorsi di essere andata molto lontano dalla mia
coscienza fisica terrena. Non volevo parlare, ogni parola era super­
flua.
Lo scrittore mi disse:
«Ho stabilito un contatto tra il suo Sé ed il Sé supremo, giacché
lei è pronta per questo. Ormai, quando avrà una domanda, si concen­
tri su di me e riceverà la risposta il giorno stesso.»
«Sulla sua persona o sul suo Sé superiore?»
Sorrise, ma non rispose; capii che era perfettamente inutile parlare
della sua persona.
Da quel giorno in poi, ci riunimmo in parecchi dalla mia amica
per meditare sotto la guida dello yogi.
Alcune settimane più tardi se ne andò, e mi ritrovai da sola, a fare
la mia vita come prima.
Circa sei mesi dopo, mentre eravamo in compagnia di amici, uno
di loro cominciò a parlare di magia nera; disse che i maghi neri
sceglievano alcuni discepoli di cui si servivano come di strumenti
ciechi affinché costoro eseguissero la loro volontà senza la minima
resistenza. Questi discepoli venivano posseduti dal mago nero, perde­
410 Elisabeth Haich

vano ogni indipendenza, erano totalmente annientati. Il giorno dopo


queste parole mi tornarono in mente, e cominciai a rifletterci; non ero
stata imprudente ad affidarmi con tanta ingenuità a quello yogi bian­
co? Ero convinta che fosse un “mago bianco”, se vogliamo chiamarlo
così, ma nello stesso tempo mi ero consegnata nelle sue mani senza la
minima vigilanza.
Era un mago bianco... o nero? Come avrei potuto saperlo? Come
si può sapere se ci si trova davanti ad un mago bianco o ad un mago
nero? La domanda, per il momento, non aveva risposta. Ma quello
stesso pomeriggio eravamo invitati da un compagno di scuola di mio
marito il quale ci raccontò che, sfogliando un vecchio libro, aveva
trovato un brano molto interessante che parlava della differenza fra
maghi bianchi e neri:
«Quando vuole aiutare un allievo a progredire, il mago bianco
stabilisce con lui un legame a forma di otto. In tal modo, il maestro e
l’allievo rimangono nel mezzo del loro cerchio, essendone il centro.
Invece, il mago nero priva il proprio allievo della sua indipendenza,
giacché lo prende con sé in un solo cerchio. In tal modo, è il mago
nero ad essere il centro del cerchio, mentre il discepolo rimane nella
circonferenza, diventando così il satellite del mago, come un pianeta
che gira intorno al sole.»
Fui sconvolta da quella spiegazione: quell’amico non sapeva, non
poteva sapere che era proprio la risposta che cercavo. Non ne avevo
parlato con nessuno, eppure, quello stesso giorno, avevo ricevuto la
risposta.
Il Sé superiore - Dio - trova sempre una bocca umana se ha qual­
cosa da dirci: per Lui, non esistono ostacoli.
CAPITOLO XLV

Ima e Bo-Ghar

Poi scoppiò la guerra, e i due uomini che mi erano più intimamen­


te legati indossarono l’uniforme.
Mio marito doveva svolgere il pesante compito di comandante in
una delle più importanti fabbriche di stato, ora sotto controllo milita­
re; un giorno, mentre eravamo a tavola, la porta si aprì e comparve
mio figlio... in uniforme da pilota.
Mi sembrò che la terra mi si stesse aprendo sotto i piedi, e pensai
che mi avrebbe inghiottita: nella cerchia dei nostri amici, i figli che
erano diventati piloti erano già tutti al cimitero. Quando mio figlio era
entrato, avevo avuto la strana sensazione di averlo già visto in quel­
l’uniforme... ma non avevo avuto né il tempo né la voglia di riflettere
su quando e dove fosse accaduto, tanto ero terrorizzata all’idea che
fosse diventato aviatore. I nemici avevano un’aviazione molto più
sofisticata della nostra ed avevano ucciso i nostri giovani migliori
perché soltanto i migliori erano stati scelti per diventare piloti, giac­
ché gli esami erano molto duri. A quel tempo lavoravo proprio ad una
grande scultura, una pietra tombale per un aviatore caduto di recente,
un amico d’infanzia di mio figlio... ed ora mio figlio era qui, in
uniforme da pilota.
«Perché indossi quest’uniforme?»
«Perché? Perché mi hanno accettato come pilota» risponde, fiero.
«Ma, se eri nel Genio! Come sei finito nell’Aviazione? I giovani
non possono essere reclutati dall’Aviazione senza l’autorizzazione
dei genitori!»
«Mamma, siamo in guerra, e come vedi non abbiamo più bisogno
del permesso paterno!»
Taccio, non c’è nient’altro da fare. Vagabondo per casa come una
sonnambula per giorni interi, parlando con Dio; non ho più nessuna
412 Elisabeth Haich

autorità su mio figlio, devo dunque affidarlo alle mani di Dio. E lo


faccio consapevolmente . Devo riconoscere che Dio ama mio figlio -
deve amare mio figlio - più di me, essere umano imperfetto, proprio
perché è Dio. Devo anche ammettere che, qualsiasi cosa accada, sarà
un bene anche se, per il mio cuore di madre e dal limitato punto di
vista umano, dovesse significare una catastrofe. Devo mettere in p ra ­
tica la fede che ho in Dio\ Il mio cuore non deve temere, i miei nervi
devono mantenersi saldi perché il destino del mio unico figlio non
dev’essere più considerato dal punto di vista umano, ma dal punto di
vista del Grande Tutto al di là dello spazio e del tempo... e deve agire
conformemente alle Sue leggi. Le madri pregano notte e giorno per i
loro figli, ed io, come potrei fare? Dio non si lascia convincere dagli
umani e so che, secondo la legge del carattere e del destino, a mio
figlio accadrà esattamente ciò che è necessario perché la sua coscien­
za si sviluppi. Sì, Dio lo ama! Più di me! E questa idea mi dà la forza
necessaria per continuare a vivere.
La guerra è l’attesa ininterrotta della fine del massacro. Apparen­
temente, tutto continua come prima: si lavora, si va al concerto e
all’opera, ci si ritrova con gli amici... tuttavia tutto è retto dall’attesa,
e qualsiasi cosa facciamo, aspettiamo la fine della guerra.
Passano gli anni e, dentro di me, vedo con sempre maggior preci­
sione l’enorme macchina da guerra che si avvicina dall’est. Un gior­
no, mi telefona un’amica: vorrebbe presentarmi una persona molto
interessante, un indiano, un vero yogi. A più riprese aveva voluto
presentarmi dei “veri yogi” ma, ahimè, si erano poi rivelati persone
del tutto comuni. La mia amica crede che ogni Indiano debba essere
un vero yogi, sicché la sua proposta non mi stuzzica in modo partico­
lare; ma insiste, e decide di venirmi a parlare.
Al suo arrivo, mi racconta una lunga storia: aveva visto la fotogra­
fia di un giovane yogi indiano su un giornale, l’aveva cercato ovun­
que e l’aveva trovato solo quando un “caso” le aveva fatto scoprire
che l’indiano in questione, colui che lei aveva cercato in tutta la città
di più di un milione di abitanti, viveva proprio nella sua stessa casa!
Era un enorme palazzo moderno, anomino, dove i contatti fra gli
inquilini erano inesistenti.
L’ascolto con pazienza poi, per porre fine ai suoi aneddoti, le chiedo:
«Allora, che posso fare per te?»
«Devi incontrarlo. Permettimi di portarlo qui e di presentartelo.
Vive molto ritirato, non va mai da nessuna parte, ma quando gli ho
parlato delle tue conferenze settimanali sulla filosofia yogica, ha detto
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 413

che sarebbe venuto. Guarda, eccoti qualche foto» mi dice porgendomele.


Non molto interessata, le prendo, dò un’occhiata... e mi si mozza
il fiato: Bo-Ghar\ Il cuore si mette a battere più forte a mano a mano
che osservo più da vicino ogni foto. Non ci sono dubbi: è Bo-Ghar.
Lo sguardo di quei grandi occhi neri, questa incredibile espressio­
ne di purezza, come quella di un bambino, quel volto raggiante, li
riconosco bene: è lui! Non era più il ragazzino che avevo conosciuto
un tempo e la cui immagine mi si era impressa profondamente dentro,
ma un giovanotto, un adulto.
«Elena — dico alla mia amica — domani sera sono libera. Portalo
qui.»
Il giorno seguente, Elena si presenta con Bo-Ghar. Beviamo il thè,
parliamo di vari argomenti, ma dentro di me vedo le immagini di un
grande palazzo di pietra, di una camera che mi appartiene, di mobili
magnificamente intarsiati d’oro, di un basso giaciglio ricoperto di
pelli di animali, di un corpo di cui vedo le gambe, le braccia, le mani,
tutto, fino al collo, ma non la testa; perché io sono questa forma uma­
na seduta sulle pelli.
Ai miei piedi c’è un bambino, un bambino vivace ed adorabile
che mi guarda... lo stesso sguardo di questo Indiano. E lui, perché mi
chiama “regina”? Glielo chiedo:
«Perché lei è una regina» mi risponde con convinzione.
«Ah sì, ha ragione — risponde mio marito — dirige e governa a
meraviglia, soprattutto me» e ride di cuore, e noi con lui.
Entra mio figlio, vede il nostro ospite indiano, e ammutolisce per
la sorpresa. Si riprende subito, e lo presento. I due ragazzi si guarda­
no a lungo, sbalorditi, con gli occhi pieni di interrogativi. Interrompo
quel silenzio imbarazzato offrendo una tazza di thè a mio figlio che si
siede con noi, e beve senza mai smettere di guardare il nostro ospite.
Così Bo-Ghar compare da noi per la prima volta; diventa rapida­
mente il prediletto di tutta la famiglia: i miei genitori, mio fratello, le
mie sorelle lo accettano come un fratello nuovo; apre la sua scuola di
Yoga e, giacché ancora non padroneggia la nostra lingua, mi prega di
dare spiegazioni su questa disciplina una volta la settimana, e la no­
stra collaborazione ha inizio.
La guerra continua. D’inverno continuiamo a lavorare come pri­
ma, d’estate ci trasferiamo nella casetta in montagna. Bo-Ghar viene
con noi e lassù vive secondo le regole dello Yoga che i suoi maestri
gli hanno insegnato in India.
Mio figlio aveva già fatto un’esperienza terribile, era caduto con
414 Elisabeth Haich

l’aereo ma, miracolosamente, se l’era cavata con una commozione cere­


brale e poi si era ristabilito completamente. Gli restava solo una cicatrice
sulla fronte nobile e spaziosa, a testimoniare le gravi ferite subite.
Un giorno, con la guerra alle porte, la mia dolce e tenera madre
cade: quando cerchiamo di aiutarla ad alzarsi, riesce ancora a dire:
V

«E un colpo, un colpo...»
Rimane a lungo a letto e, con difficoltà, riesce a spiegarci che
sente una parte del corpo come se fosse già morta.
«E, sapete — aggiunge — è molto interessante, perché sono per
metà di qui e per metà nell’aldilà; vedo tutti voi anche dall’esterno,
ma solo a metà, perché già vedo come siete dentro. E vedo anche
tutto il vostro destino. Quando starò meglio, vi racconterò. Adesso
faccio così fatica a parlare.»
\

E già in comunicazione con l’altro mondo. Quando, in città,


un’amica parla di lei, Madre dice:
«La mia amica X.Y. è qui con me e dice...» e poi pronuncia
esattamente le stesse parole che la sua amica, a diversi chilometri di
distanza, sta dicendo in quello stesso momento.
Abbiamo controllato: spesso accade che Madre, in camera da sola
con l’infermiera, mentre io sono al secondo piano con mio marito,
dica d’un tratto:
«Mia figlia Esther è qui e dice di me che...» e ripete con precisio­
ne le stesse parole che sto pronunciando al secondo piano.
Un giorno l’infermiera mi telefona, pregandomi di scendere im­
mediatamente: Madre ha avuto un altro attacco. Mi precipito. Lei
giace nel letto, livida in volto. Ormai non può più parlare.
Con la mano destra indica la lingua, per dirmi che ormai non si
muove più. Rimane senza poter dire una parola per diverse ore.
D’un tratto, entra Bo-Ghar: con il suo povero volto contorto e
semiparalizzato, Madre lo guarda e la gioia le sprizza dagli occhi; Bo-
Ghar si siede accanto a lei, le circonda il polso con la mano e, dopo
un paio di minuti, Madre apre la bocca e, sillaba dopo sillaba, dice
lentamente ma distintamente:
«Una forza emana dalla mano di Bo-Ghar e scorre dentro di me.
Ora questa forza mi sale alla testa, dove sento questa pressione che
mi impedisce di parlare; grazie a questa energia che Bo-Ghar mi
trasmette, la pressione si fa più leggera, posso parlare... vorrei dirvi
ancora che...» E ci comunica le sue ultime volontà.
Un po’ più tardi, Bo-Ghar se ne va. Madre può parlare ancora per
circa un’ora e mezza, poi, d’un tratto dice:
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 415

«L’influenza dell’energia che mi ha trasmesso il mio caro Bo-


Ghar a poco a poco va diminuendo e mi è sempre più difficile muo­
vere la lingua e parlare. Il legame fra me ed il mio corpo si dissolve:
Dio sia con noi...»
E queste furono le sue ultime parole; due giorni dopo portavamo
fuori la sua bara, e da allora il posto a capotavola è rimasto vuoto, con
una candela accesa davanti alla sua sedia...
CAPITOLO XLVI

Le prove si ripetono

Poi, venne l’ultimo inverno prima della fine delle ostilità; il nostro
giardiniere era già da un pezzo sotto le armi, e l’orto era stata abban­
donato a se stesso. Così, andai nella casetta, su in montagna, per
salvare ciò che poteva essere salvato.
Una notte venni svegliata da un orribile ululato: le sirene! Nella
capitale!
Saltai giù dal letto e corsi alla finestra della sala da pranzo da cui
si poteva vedere la città: nel buio sentii passare molti aerei; l’aria era
vibrante del loro boato. Sotto i miei occhi, un terribile gioco di luci:
erano le bombe che cadevano dal cielo esplodendo come fuochi d’ar­
tificio. Innumerevoli cannoni della contraerea sparavano senza inter­
ruzione e, visto da qui, ogni tiro sembrava un lampione rossastro che
fluttuasse per un attimo. A volte, dal cielo, cadeva una torcia in
fiamme, e sapevo che una madre avrebbe atteso invano il ritorno di
suo figlio. Questo gioco di luci accompagnato da un boato assordante
durò un’ora e mezza circa, eppure mi sembrava di essere alla finestra
da un’eternità, pietrificata.
Laggiù, dove questo gioco significava morte e distruzione per
migliaia di persone, vivevano tutti quelli che amavo, e mio figlio
doveva trovarsi in cielo, come un bersaglio contro il quale altri poveri
ragazzi, su aerei migliori del suo, dovevano per forza sparare, contro
le loro convinzioni di uomini, come mio figlio.
D’un tratto mi sentii attratta verso un albero: vidi due occhi verdi
e brillanti che mi osservavano. Un gufo! Era appollaiato su un ramo,
immobile come una statua; non avevo ancora mai visto un gufo in
quella zona... Come ci era arrivato? Senza volere, cominciai a parlar­
gli:
«Uccello, caro uccello, non è proprio colpa tua se la credenza
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 417

popolare ha fatto di te l’araldo della morte; vuoi forse dirmi che


coloro che amo e che abitano nella capitale non sono già più su
questa terra?»
Il gufo si dondolò su un ramo, si avvicinò a me, aprì le ali e
scomparve nel bosco...
In quello stesso istante, seppi che la forza che controlla e guida
ogni cosa aveva voluto farmi sapere, con l’allontanamento dell’“uccello
della morte”, che tutti coloro che amavo erano ancora vivi...
Sì, tutti i miei\ Ma le migliaia che già erano morti in quest’orribile
notte, e tutti coloro che già erano caduti durante questa spaventosa
guerra? Erano stati gli esseri cari ed amati di qualcuno! E perché
avevano dovuto morire? Perché uccidersi in modo tanto insensato?
L’orrido spettacolo si ripeteva ogni notte.
D’estate, diversi membri della famiglia ed anche Bo-Ghar mi rag­
giunsero nella casa nel bosco. Ogni notte, con il cuore in una morsa
di ghiaccio, guardavamo la tragedia che si svolgeva sotto i nostri
occhi, e poi le sirene annunciavano la fine dei bombardamenti, squil­
lava il telefono e mio marito mi tranquillizzava: i nostri erano ancora
tutti vivi...
D’autunno, rimasi da sola e lavorai assiduamente nell’orto e nel
frutteto. La sera osservavo il progredire dei cannoni nemici: ah! quei
poveri ragazzi che dovevano essere “i nostri nemici” !
Una sera, decisi di tornare in città: volevo stare con i miei nei
momenti terribili dell’assedio.
Squillò il telefono... Che strano, mi sembrava di aver già vissuto
questa situazione... Sapevo che era mio marito al telefono, e sapevo
con precisione che cosa ci saremmo detti: sembrava un sogno!
Questa sensazione non mi abbandonò più durante i giorni spaven­
tosi che seguirono, giorni che divennero settimane, mesi, persino
anni!
Sapevo sempre che cosa sarebbe successo il momento seguente,
come se avessi già vissuto tutti quei terribili eventi; non facevano che
ripetersi - lo sapevo - ma non potevo capire dove e quando avessi
potuto trovarmi in una simile situazione.
Quando, per la prima volta dopo il mio rientro in città, le sirene
annunciarono durante la notte la ripresa dei bombardamenti, scesi nel
rifugio insieme a tutti gli altri abitanti della casa. Eravamo lì, con aria
grave, col gelo nel cuore, in attesa del seguito degli eventi, e sapevo
di aver già vissuto tutto questo una volta. E andai avanti così, per
tutte le atroci notti di bombardamento.
418 Elisabeth Haich

Quell’impressione di “déjà vu” si intensificò ancora di più un


giorno, nel tardo autunno, quando si aprì la porta e comparve mio
figlio: perché ero sorpresa nel vederlo vestito da pilota? Sì! Mi ricor­
davo di lui, del giovane sacerdote egizio Ima e dei legami che ci
univano; ma i miei ricordi egizi lo presentavano vestito ben diversa-
mente. Come mai, dunque, avevo l’impressione di averlo visto in
quell’uniforme da aviatore già nella mia vita in Egitto ?
Perché mi sembra che tutto ciò che vivo, tutto ciò che provo, non
sia la “realtà”, ma che stia solo sognando queste immagini, che stia
solo vivendo i sogni del mio sogno iniziatico nella piramide ?
Ricordo precisamente tutte le relazioni di quella mia vita in Egitto
ma, malgrado tutti i miei sforzi, non posso ricordarmi gli eventi, i
miei sogni iniziatici.
Che strano! Come può uno ricordarsi che non si ricorda ? Giac­
ché, se non mi ricordo qualcosa, non posso sapere che questa cosa è
esistita. Ma so che durante l’iniziazione nella piramide ho vissuto
tutto il mio futuro sotto forma di visioni, e che queste visioni, o
immagini oniriche, erano state per me l’occasione di superare certe
V

prove. E vero che il mio maestro Ptahhotep mi aveva sensibilizzata


sul fatto che, se fossi caduta dopo l’iniziazione, tutte le prove iniziati­
che si sarebbero ripetute sul piano terreno. Mi aveva avvertita! Sì, ho
continuamente l’impressione che tutto si ripeta\
Per moltissimi anni avevo annotato i sogni immediatamente dopo
il risveglio, quando ero ancora mezza addormentata, ma era più di un
anno che non avevo riletto quelle descrizioni. Dunque le ripresi in
mano, e fui stupita nel constatare che la maggior parte dei sogni che
avevo annotato, avevano a che vedere con eventi che si erano poi
realizzati sei mesi o al massimo un anno dopo; ma li avevo dimenti­
cati quasi tutti. Se non avessi visto e riconosciuto la mia scrittura,
avrei avuto difficoltà a credere di essere stata io ad aver sognato e de­
scritto queste visioni. Com’era possibile che, quando erano accadute
quelle cose, non mi fossi più ricordata di averle sognate prima, e
spesso con incredibile precisione?
Quella scoperta mi sconvolse letteralmente! Cos’è questa forza, in
noi, che conosce e ci annuncia il futuro con tanta certezza? E perché
siamo tanto imperfetti da non poter comprendere il linguaggio dei
sogni e tanto meno ricordarci, quando si ripetono esattamente nella
vita, di quegli eventi già vissuti, anche se solo in sogno? Davvero,
non meritiamo che quest’energia si occupi di noi con tanta cura, con
pazienza infinita, per rivelarci le verità e le leggi interiori...
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 419

Come potrei spiegare che mi ricordo di mio figlio - Ima - in


uniforme da aviatore durante una mia vita precedente in Egitto?
Come potrei spiegare che, quand’era entrato, avevo saputo immedia­
tamente che mi avrebbe lasciata, perché l’aviazione non poteva più
restare nell’aeroporto vicino alla città senza rischiare di essere bom­
bardata e distrutta? Quando aveva pronunciato quelle parole, ed io la
risposta, sapevo che tutto quanto era già accaduto... avevo di nuovo
l’impressione di sognare...
Ma non avevo osato parlarne con nessuno, neppure a mio figlio,
perché temevo che credessero che fosse la conseguenza dello choc.
Era meglio tacere.
In seguito vivemmo il terribile periodo dell’assedio, passando cin­
que settimane in cantina sotto un fuoco incessante. La casa crollò e
dovemmo fuggire fra le rovine; il destino ci sballottò da ogni parte e,
dopo molte prove e tribolazioni, cominciammo a ricostruire la vita.
Eravamo diventati mendicanti: mio marito era stato ferito gravemente
e per molto tempo non riuscì a lavorare; Bo-Ghar ed io ci mettemmo
al lavoro giorno e notte come uomini primitivi nella giungla, e sulle
rovine della casa di famiglia aprimmo di nuovo la scuola di Yoga...
Passavano i mesi, e lavoravamo di gran lena. Dovemmo imparare
che cosa voleva dire la fame: erano bastate poche settimane per fare
di noi, uomini di sangue e carne, scheletri viventi ricoperti di pelle.
Quando si incontravano per strada, gli amici stentavano a riconoscer­
si; scoprimmo una nuova paura, una paura insidiosa che avvelenava
la nostra anima tormentata: che avremmo mangiato, l’indomani?
Come avremmo potuto continuare a lavorare così tanto senza mai
mangiare abbastanza... e rimanere in buona salute?
La fertilissima terra della nostra patria offriva i suoi tesori con
generosità, ma ci eravamo ridotti a veder transitare i treni merci stra-;
colmi di cibo che venivano avviati in lunghe file verso un paese
straniero...
A poco a poco, dopo lunghi e terribili mesi, le cose cominciarono
ad andare meglio: ricevemmo sempre più cibo e riprendemmo peso.
Tuttavia, amici e conoscenti facevano ancora fatica a riconoscersi! Ci
eravamo abituati ad essere tutti scheletrici, ma spesso ci accadeva di
incrociare per strada un signore magrissimo che ci ricordava un ami­
co corpulento di un tempo... Allora ci fermavamo, ci voltavamo, ci
riconoscevamo e, pieni di gioia, ci abbracciavamo... Ma ci volle mol­
to tempo perché tutti potessero ritrovare l’aspetto che avevano avuto
prima della guerra!
420 Elisabeth Haich

Ero ossessionata dalla sensazione di aver già vissuto tutto questo;


mi accompagnava ovunque andassi, qualunque cosa facessi, ma so­
pravveniva soltanto nel momento in cui l’evento si era appena con­
cluso., non conoscendo il futuro, non sapevo neppure cosa fosse acca­
duto a mio figlio che non avevo più rivisto da quando ci eravamo
lasciati quel giorno, e di cui non avevo più ricevuto alcuna notizia.
Un giorno, un anno e mezzo più tardi, qualcuno suonò alla porta:
era mio figlio. Fui nuovamente invasa da quella sensazione che la
psicologia chiama “déjà vu”: sapevo che erano ripetizioni, tutti questi
eventi erano ripetizioni! Ma qual era la loro fonte?
Una notte, tutto si chiarì!
Una volta avevo dovuto affrontare la più terribile delle prove,
quella dell’“amore crudele”, riguardante l’essere che amavo di più al
mondo, mio figlio; mi ero inginocchiata ai piedi del letto per parlare
di lui con Dio affinché Egli gli mostrasse la via da seguire.
Avevo seguito il sentiero che, in noi, conduce a Dio, mi ci ero
inoltrata sempre più a fondo, avevo ritirato la coscienza dall’esterno
per volgerla interamente verso l’interno, finché, d’un tratto, mi ero
trovata davanti ai sette gradini, i sette gradini che ora conoscevo!
E, leggera, salto, salgo facilmente; gioia e felicità! Conosco la
via... mi ricordo... oh Dio... mi ricordo! Riconosco che tutti gli eventi
che ho vissuto nella mia vita sul piano terreno e materiale quali “real­
tà”, sono gli stessi che avevo già vissuto durante l’iniziazione nella
piramide, migliaia di anni prima.
In quell’epoca, quegli eventi riposavano ancora nella profondità
della mia anima, come energie inconsce e latenti, come cause allo
stato puro. Perché tutto ciò che avviene sulla Terra è la materializza­
zione della causa originale che, a livello spirituale, è già pronta e
attende di essere realizzata. Quando si può raggiungere coscientemen­
te questa profondità del Sé, ove tali energie aspettano di essere realiz­
zate, si possono vivere simultaneamente le cause originarie ed il loro
effetto - il futuro - come se si trattasse del presente assoluto! Ed il
presente, la nostra vita, tutto ciò che ci accade, non sono altro che
occasioni p er affrontare delle prove iniziatiche, occasioni p er dissol­
vere e liberarci dalle tensioni interiori che, dal tempo dei tempi,
abbiamo accumulato in noi attraverso i nostri pensieri, le nostre
parole, le nostre azioni, e che sono diventate le cause prime del
nostro destino, del nostro avvenire. Più prendiamo coscienza di que­
ste tensioni, più riusciamo a vincerle, e maggiormente liberiamo la
nostra coscienza umana che è ostacolata da queste energie e che è
Iniziazione: memorie di un’Egizia 421

limitata perché è ostacolata, più possiamo identificare la nostra co­


scienza con il Sé divino e autentico, in attesa dietro ad ogni sensazio­
ne personale d ell’ego, e più possiamo identificarci con Dio; questa è

L’INIZIAZIONE.
Epilogo

Dopo l’esperienza di quella notte, sapevo che le tensioni e le


difficoltà si erano cancellate dalla mia anima, e che avrei dovuto
sbarazzarmi di tutto ciò che era personale. Ero uscita vittoriosa da
questa lotta con me stessa e più nulla, in me, mi legava alla mia
“persona”, dunque tutto ciò che era personale doveva scomparire.
Questo si manifestò con una strana sensazione che mi accompa­
gnava ovunque andassi, a casa come per strada: non ero davvero
“presente”. Non ero lì? E dove, allora? Ma questo, non lo sapevo.
D’un tratto, presi coscienza del fatto che il mio Io non era mai
nello spazio, non era “lì” dove si trovava il mio corpo ma che, dall’in­
finito, si proiettava nella mia persona; e il mio Io cominciava ora a
proiettarsi anche altrove, oltre al luogo in cui si trovava il mio guscio.
Ma dove?
In un altro Paese!
Seppi allora che avrei dovuto partire, che stavo per partire! Perché
quando lo spirito, la causa, non è più presente, allora la forma appa­
rente, l’effetto, deve seguirla ed andare laddove la causa si proietterà
per continuare a vivere. Altrimenti la forma deve scomparire, cioè
morire. Ma come lasciare questo Paese? Qui nessuno può avere un
passaporto!
L’ora della partenza non era ancora suonata. Altre prove mi atten­
devano.
Una notte mi svegliai di soprassalto: vidi mio padre in piedi da­
vanti a me, con il sorriso dell’addio sulle labbra; compresi che doveva
lasciarci e volli alzarmi, chiedergli dove e perché stesse andandosene,
ma scomparve davanti ai miei occhi. Allora mi resi conto che solo in
quel preciso momento mi ero svegliata.
Mio padre aveva ottant’anni, ma era perfettamente sano di corpo e
di mente; svolgeva ancora compiti pesanti, eppure sapevo che il suo
spirito era venuto per congedarsi da me; l’ora cosmica era suonata per
lui, doveva abbandonare il corpo.
Iniziazione: memorie di un ’Egizia 423

Già il giorno seguente era in ospedale, e ci congedammo da lui.


Non potè - o non volle - più parlare. Ci fissò tutti a lungo, uno per
uno, ci avvolse tutti in un ultimo sguardo profondo, pieno d’amore ed
espressivo. Poi chiuse gli occhi e non li riaprì più. Accompagnammo
al cimitero la seconda bara della famiglia.
Mio figlio fece tutto ciò che era in suo potere per trovare lavoro,
ma malgrado i suoi sforzi incessanti, dovette arrendersi all’evidenza
che non c’era più posto per lui nel suo Paese. Un giorno prese la
chitarra, quella che non aveva mai abbandonato neppure nelle ore più
crudeli della guerra, e se ne andò in una nazione che gli avrebbe
permesso di vivere liberamente e di farsi una famiglia; ci salutammo
senza sapere se ci saremmo mai più rivisti in questa vita, ma nel più
profondo di Me sentivo che l’avrei rivisto e che avremmo ancora la­
vorato insieme nel giardino di Dio...
Poi, venne l’ultimo atto.
Bo-Ghar aveva appena terminato una conferenza e, come al solito,
c’era così tanta gente che la polizia doveva fare servizio d’ordine.
La gente circondava Bo-Ghar e non voleva lasciarlo andare. Mio
marito ed io, un po’ in disparte, aspettavamo pazientemente che ri­
spondesse a tutte le domande e facesse tutti gli autografi che gli
erano richiesti, quando un ufficiale della polizia segreta venne verso
di me con l’intenzione evidente di parlarmi:
«Tutta la mia famiglia ed anch’io pratichiamo lo Yoga e so quale
sia lo straordinario valore di questa disciplina. Ecco perché sia lei che
l’indiano rappresentate un pericolo, ed il partito vi guarda di traverso.
Quindi, dovete decidervi a lavorare p er e con il partito oppure ad an­
darvene. Vi lasceremo andare in pace, ma se non lo farete ci vedremo
obbligati a ricorrere ad altri mezzi. Questa è la proposta dei miei
superiori: pensateci ed agite di conseguenza. Tornerò a sentire cosa
avrete deciso.»
Bo-Ghar, con il suo passaporto, poteva liberamente andarsene dal
Paese, ma io avrei dovuto chiedere prima un permesso di uscita e poi
ottenere, in un’altra nazione, il permesso di entrata. Mi trovai coinvolta
in una corsa infernale per cercare di acquisire tutti i documenti necessari
finché, alla fine, fu chiaro che non mi avrebbero mai dato un passaporto.
Mi spedivano da un ufficio all’altro e tornavo sempre con risposte nega­
tive; avrebbero dunque fatto ricorso “ad altri mezzi” per quello che
mi riguardava, e sapevamo che cosa avrebbe voluto dire: alcuni dei
nostri amici erano scomparsi e quelli che erano tornati dopo indicibili
torture erano spezzati, ed erano morti poco dopo, miserevolmente.
424 Elisabeth Haich

Bo-Ghar disse allora a mio marito:


«Resta un’ultima soluzione per salvare tua moglie: divorzia, io la
sposerò e così potrà avere lo stesso mio passaporto. Allora, potremo
abbandonare il Paese legalmente.»
Mio marito strinse la mano di Bo-Ghar ma non riuscì ad articolare
una sola parola. Il suo volto e le lacrime tradivano la sua sofferenza.
Venne il giorno in cui dovetti dire addio a tutti coloro che mi
erano stati vicino, per andare in un luogo sconosciuto che sarebbe
diventato per me “casa mia”, ovunque Dio volesse che fosse.
Bo-Ghar aveva mantenuto la parola, era venuto dall’altra parte
del pianeta per salvarmi!
Ritrovammo Ima e, insieme, ora seguiamo le tracce dei titani che
ci mostrano il cammino dell’iniziazione, verso la redenzione, verso il
paradiso perduto...
E quando cerco coloro che amo, volgo il faro della coscienza
verso l’interno, perché tutto e tutti vivono in me!
Il Sé , che è contemporaneamente il Sé di ogni essere vivente,
quindi anche il mio, non ha limiti. Io sono tutto ciò che è\ In tutto ciò
che amo, io mi amo, perché le sole cose che crediamo di non amare,
sono quelle che non abbiamo ancora riconosciuto in noi!
IL SÉ È LA VITA, È LA SOLA REALTÀ;
E COLUI CHE È INIZIATO AL MISTERO DEL SÉ,
IL CHE SIGNIFICA CHE È ANCHE RIUSCITO
A CONOSCERSI PERFETTAMENTE,
AMA TUTTO E TUTTI ALLO STESSO MODO
PERCHÉ EGLI È UNO CON LORO!

ne.
dalla Nuo
Composizi

RISTAMPA ANNO

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 92 93 94 95 96 97 98 99 2000
fiLB00052572

You might also like