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Nuova
Rivista
di
Letteratura Italiana
XII, 1-2
2009
Edizioni ETS
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I. Introduzione
1. Così in WILLIAM ASHBROOK, Donizetti: la vita, Torino, EDT 1986, p. 66 e ID., Donizetti: le opere, To-
rino, EDT 1987, p. 306. I due volumi sono la traduzione di Donizetti and his operas, London, Cambridge
University Press 1983, a sua volta versione di molto ampliata e riscritta della precedente biografia, Doni-
zetti, London, Cassel 1965. Segnalo, tuttavia, che nella biografia scritta dalla moglie di Romani, EMILIA
BRANCA, Felice Romani ed i più riputati maestri di musica del suo tempo, Torino-Firenze-Roma, Ermanno
Loescher 1882, p. 218, si legge, forse per un errore di stampa, che l’opera fu rappresentata la prima volta
il 12 maggio 1833.
2. Cfr. BRANCA, Felice Romani…, pp. 217-8. Secondo ASHBROOK, Vita…, p. 66, Donizetti avrebbe avu-
to assai più tempo essendo stato interpellato con almeno dieci settimane di anticipo. A proposito dell’o-
pera, Branca racconta (pp. 225-226) che la celebre romanza del secondo atto Una furtiva lacrima non era
che il recupero di una musica da camera precedentemente scritta da Donizetti e inserita contro la vo-
lontà di Romani che la trovava fuori contesto e inutile; i dubbi del Romani furono confermati, secondo la
moglie, dal fatto che i critici avrebbero trovato il secondo atto «deboluccio», tanto da essere meno ap-
plaudito del primo. Sempre nel secondo atto, tuttavia, anche la barcarola del senator Tredenti Io son ric-
co e tu sei bella, a due voci, cantata da Adina e Dulcamara, riutilizza un motivo già scritto da Donizetti
per una poesia di Carlo Porta, la Lettera a Barborin, di cui Branca riporta la prima quartina. Ma in questo
caso, e sembra una contraddizione con quanto da lei scritto poco sopra, la barcarola ebbe un tale succes-
so che fu necessario replicarla.
3. BRANCA, Felice Romani…, p. 17.
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4. Musicata di nuovo nel 1851 da Saverio Mercadante. Il libretto fu in quell’occasione rivisto da Salva-
tore Cammarano, altro celebre autore, che per Donizetti aveva scritto Lucia di Lammermoor. Ancora più
fruttuosa fu l’intesa di Romani con Bellini, per il quale scrisse quasi tutti i libretti delle sue opere (fra cui
Norma, I Capuleti e i Montecchi, Il pirata, Beatrice di Tenda, La sonnambula). Prima che con Donizetti,
collaborò anche con Rossini (Il turco in Italia, 1814) e Giuseppe Verdi (Un giorno di regno, 1818).
5. Cfr. EUGÈNE SCRIBE, Le philtre: opéra en deux actes, Paris, Bezou 1831, liberamente accessibile sul si-
to della Bibliothèque Nationale de France all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k74122z (ul-
timo accesso: 20/09/2009). Per Felice Romani mi sono avvalso di GIORGIO PAGANONE, «L’elisir d’amo-
re», libretto e guida all’opera, in Gaetano Donizetti. «L’elisir d’amore», programma di sala, stagione 2003-
2004, Venezia, Fondazione del Teatro La Fenice 2004, pp. 13-53, accessibile liberamente all’indirizzo
http://www.teatrolafenice.it/public/libretti/19_9178elisir_gd.pdf&linkid=2&usg=AFQjCNFQHKjvE-
qK-ItJdjQ74JLtK0ObDzQ&source=gbs_web_references_r&cad=2 (ultimo accesso: 24/09/2009).
6. Così la dicitura nel libretto. Sulle connotazioni geografiche in Donizetti si veda BRUNO BRIZI, Il li-
bretto dell’«Elisir d’amore», «Cultura neolatina», XLI (1981), pp. 44-55 specialmente le pp. 46-7. L’anali-
si di Brizi verte specialmente sulle caratterizzazioni linguistiche del testo e dei personaggi, legate ad un
ambiente sociale di tipo popolaresco, dove quest’ultimo termine va inteso però nell’accezione di «popolo
borghese».
7. Mentre nel libretto italiano si beve vino francese, nella versione francese si beve vino italiano: il filtro
d’amore di Fontanarose, il Dulcamara dell’opera di Auber, è infatti un Lacryma Christi, prodotto tipico
delle pendici del Vesuvio e già all’epoca assai rinomato.
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8. ASHBROOK, Donizetti: la vita, p. 211 n. 55, in cui si legge, a proposito del libretto Le philtre scritto da
Scribe per l’omonima opera di Auber: «[…] Il soggetto di Scribe deriva da una commedia italiana, Il fil-
tro, di Silvio Malaperta». Aggiungo che, nell’edizione del 1965, Ahsbrook si limita a citare Scribe quale
fonte di Romani, senza alcun accenno ad una sua fonte italiana, la quale compare per la prima volta nel-
l’edizione del 1983.
9. STENDHAL, Le philtre, «Revue de Paris», V, tomes XIII-XV (1830) (rist. anast. Genève, Slatkine Re-
prints 1972, pp. 24-64). Ringrazio la dottoressa Stefania Santalucia, per avermi procurato le immagini
della riproduzione anastatica del volume posseduto dalla Bibliothèque Nationale de France.
10. Una veloce rassegna fra le pubblicazioni stendhaliane della fine del XIX secolo dà la seguente situa-
zione: in JOSEPH MARIE QUÉRARD, La littérature française contemporaine. XIX siècle, tome premier, Paris,
Daguin 1842, p. 456, il racconto Le philtre è detto «imité de l’italien de Sylvia Malaperta». Una nota ag-
giuntiva su di esso ci informa che era già comparso nel econdo volume di Dodecaton ou Le livre des Dou-
zes.. In effetti il racconto si trova alle pp. 327-363, privo però della famosa dicitura; il volume inoltre reca
sul frontespizio, oltre al nome dell’editore Victor Magen, la data di pubblicazione 1837, dunque poste-
riore a quella della Revue de Paris. In ROMAIN COLOMB Romans et nouvelles par de Stendhal. Précédés
d’une notice sur de Stendhal par M. R. Colomb, Paris, Michel Levy Frères 1854, pp. XCIX – C, si legge
invece Silvia Malaperta.
11. LOUIS ROYER, Stendhal imitateur de Scarron, «Mercure de France», t. 255, n° 872, 15 ottobre 1934,
pp. 251-268.
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Revue de Paris, su invito del fondatore del periodico, il giornalista e uomo politi-
co Luis-Désiré Véron. Una di queste, intitolata Le philtre, comparve sul numero
15 del 1830 con, s’è detto, la dicitura: «Imité de l’italien de Silvia Valaperta»12,
che, a una prima impressione, ha fatto ritenere che fosse stata tratta o ispirata da
un testo, probabilmente in italiano e di cui non si dava il titolo, scritto da una
donna di nome Silvia Valaperta. L’esame della prima pagina del racconto mostra
inoltre che l’iniziale maiuscola del cognome del fantomatico autore è effettiva-
mente di difficile lettura per via del carattere di stampa usato e può senz’altro
aver generato l’equivoco scambio fra le lettere iniziali M e V del cognome quale si
ritroverà nelle edizioni successive; tuttavia l’indice dello stesso volume, a pagina
252, riporta in maniera inequivocabile la forma Valaperta, della quale Royer affer-
ma con decisione l’esattezza, contro la forma Malaperta «comme l’ont imprimé
Colomb et les autres éditeurs des Romans et Nouvelles […]»13. Sotto questo
aspetto, un primo risultato sembra dunque raggiunto, se nel 1937 Henri Marti-
neau, il curatore un decennio prima dei Romans et Nouvelles de Stendhal 14, a
proposito del racconto Le philtre corregge se stesso e muta in maniera definitiva
Malaperta in Valaperta, pur lasciando, inspiegabilmente, il nome Sylvia15.
Ma continuiamo la nostra lettura di Royer. La traccia per identificare a sua
volta l’origine del racconto stendhaliano è annunciata nel titolo dell’articolo. Con
esso infatti Royer anticipa efficacemente la tesi, dimostrata in maniera direi esem-
plare, che la novella di Stendhal è ispirata ad un racconto di Scarron e precisa-
mente L’adultère innocent16, ambientato in Spagna e compreso nella raccolta del-
le Nouvelles tragicomiques del 1655. Da una serie di annotazioni a proposito dei
racconti ricavati dalle novelle dell’autore del Roman comiques, posti in margine a
un’edizione di Scarron posseduta da Stendhal, sembra che quest’ultimo avesse
avvertito la Revue de Paris che le sue novelle erano dei plagiats17; ma allora, fa
12. Si veda anche ANNALISA BOTTACIN, Ombre veneziane in «Francesca Polo» di Stendhal», in GIUSEPPE
BERNARDELLI, ENRICA GALAZZI, Lingua cultura e testo. Miscellanea di studi francesi in onore di Sergio Ciga-
da, vol. II, t. 1, Milano, Vita e Pensiero 2003, p. 109, n. 3, nonché CHARLES J. STIVALE, La temporalité ro-
manesque chez Stendhal: l’échafaudage de la bâtisse, Birmingham, Summa Publications 1989, p. 158, n. 44.
13. ROYER, Stendhal…, p. 257, n. 16.
14. STENDHAL, Romans et nouvelles, Établissement du texte et préface par Henri Martineau, vol. 2, Pa-
ris, Le divan 1928, p. 51.
15. Cfr. HENRI MARTINEAU, Table alphabétique des noms cités dans l’édition de ses oeuvres: précédée d’une
liste des errata et de compléments à cette édition, vol. 1, Paris, Le Divan 1937, p. 22, dove si legge: «RO-
MANS ET NOUVELLES TOME II Page 51 au lieu de Sylvia Malaperta lire Valaperta.» Anche se Martineau
non conforta con adeguata documentazione la rilettura del cognome, sono propenso a credere che è pro-
prio l’osservazione di Royer ad averlo spinto alla revisione e correzione del 1937. Se, infatti, avesse egli
stesso visionato la rivista, avrebbe certamente visto che il nome era Silvia e non Sylvia.
16. SCARRON, Oeuvres, Paris, Jean-François Bastien 1786, v. III, pp. 329-66. Royer non manca di mostrare
che, al di là delle evidenti affinità di fondo fra i due racconti permangono e sono visibili notevoli differenze.
17. ROYER, Stendhal…, p. 255, si rifà in questo caso a Ferdinand Boyer che avrebbe visionato il testo
annotato.
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18. Stendhal ha parzialmente alterato la verità, ammettendo l’esistenza di una fonte ma nascondendone
allo stesso tempo l’autore sotto falso nome. Cfr. BÉATRICE DIDIER, Le statut de la nouvelle chez Stendhal,
«Cahiers de l’Association internationale des études françaises» 27, 1 (1975), pp. 217-8. Anche questo ar-
ticolo cita Scarron ma non il racconto a cui Stendhal avrebbe attinto.
19. ROYER, Stendhal…, p. 257. La notizia è interessante, soprattutto per il minimo scarto di tempo che
sarebbe passato fra la morte di Valaperta e la pubblicazione del racconto, ma non corredata da alcun ele-
mento a riscontro. L’informazione non permette in ogni caso di stabilire se e quali rapporti vi fossero mai
stati fra lo scrittore francese e il musicista italiano; tantomeno da questo dato è possibile ricostruire il
percorso per cui da un nome come Giuseppe si sia arrivati a un nome come Silvia.
20. Ivi, p. 252.
21. D’altronde Emilia Branca, nella già citata biografia del marito Felice Romani, pur parlando del li-
bretto di Scribe, non fa mai i nomi di Stendhal, Malaperta o Valaperta. Analogo discorso vale per le bio-
grafie donizettiane successive, fra cui Fraccaroli (1945), Zavadini (1948), Piccinelli-Quintavalle (1975)
ecc. Stendhal insomma non è mai citato da alcuno; Malaperta, come ispiratore del libretto di Scribe-Ro-
mani, compare per la prima volta in Ashbrook.
22. HENRI CORDIER, Bibliographie Stendhalienne, Paris, Champion 1914, p. 200. La referenza dice esatta-
mente: «Die Liebestrank. Nach dem Italienischen des Silvia Malaperta von Henri Beyle (de Stendhal).
Deutsch von Friedrich von Oppeln-Bronikowski» (Aus Fremden Zungen, Berlin 1906, Heft 9, pp. 421-30).
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23. Cfr. Chroniken aus der italienischen Renaissance und nachgelassene Novelle, in VON STENDHAL,
HENRY BEYLE, Ausgewählte Werke, hrsg. von FRIEDRICH VON OPPELN-BRONIKOWSKI, band VIII, Jena,
Diederichs 1908, pp. 256-77. Nel volume sono raggruppate sia le Chroniques italiennes, sia le Nouvelles
di Stendhal.
24. Non è qui il caso di fare un elenco. È sufficiente una ricerca in internet per accorgersi che pratica-
mente tutti i programmi di teatro, le guide all’opera, le riviste, i siti e i libri usciti dopo la biografia di
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Se nel caso di Romani è certa la fonte da cui il suo libretto ha tratto spunto, non
mi pare invece si sia indagato accuratamente se l’idea e il tema di Tristano, in sé
abbastanza originale e parecchio diverso dalla vicenda canonica, sia di mano dello
Scribe o se abbia altra origine. Ad una prima lettura i due libretti conducono a
una sola immediata conclusione: il punto di forza della vicenda non sta nel mito
tristaniano, presente solo come momentanea allusione, ma nella figura del ciarla-
tano, Fontanarose per la versione francese, Dulcamara per quella italiana. È il suo
intervento che altera la situazione di stallo in cui si trovano il contadino respinto e
la frivola fittavola; è ancora lui che fa scattare la molla dell’innamoramento della
giovane grazie ad una serie di equivoci che da un lato rassicurano e rendono più
spontaneo e ardito il coltivatore, dall’altro portano la donna a prendere coscienza
del suo amore per lui. La storia insomma, ristretta al suo punto centrale, è quella
di un imbonitore che vende un innocuo beveraggio a un ingenuo, il quale crede
talmente alle sue qualità magiche da convincersi di avere effettivamente il potere
di fare innamorare la donna che ama. Questa a sua volta colpita dal mutamento di
carattere del ragazzo, di cui peraltro apprezza le qualità, se ne innamora davvero.
Il tutto avviene senza che mai nessuno ne sia chiaramente consapevole.
Cominciamo dunque dal famoso elisir d’amore o, in francese, «boire-amou-
reux». Senza voler ora ripercorrere la lunghissima storia dei pocula amatoria, co-
me erano chiamati nell’antichità i filtri d’amore, si deve osservare che essi hanno
sempre avuto una caratteristica in comune: il filtro doveva essere assunto dalla
vittima dell’incantesimo. Su questa base già il mito originario tristaniano presenta
una prima rilevante differenza: la pozione, infatti, provoca un doppio, reciproco,
legame, perché viene bevuta insieme dai due futuri amanti. Nota è la vicenda. La
regina d’Irlanda, dopo che Tristano ha conquistato la mano di Isotta la bionda
per conto dello zio Marco, re di Cornovaglia, fabbrica un filtro d’amore e lo affi-
da a Brangania, la giovane damigella di Isotta, perché lo faccia bere alla figlia, ri-
luttante al matrimonio, quando si coricherà con lo sposo la prima notte di nozze.
Le cose, però, non vanno come dovrebbero. Sulla nave con cui Tristano accom-
pagna Isotta dall’Irlanda in Cornovaglia dove andrà in moglie a re Marco, i due
giovani, assetati, bevono per errore dalla coppa che contiene il filtro; prima lui
poi lei. Da quel momento il destino, tragico, del loro amore si compie.
Ashbrook dichiarano l’esistenza di Silvio Malaperta quale fonte originaria del libretto (segnaliamo per
l’Italia, ad esempio, FABRIZIO DORSI, GIUSEPPE RAUSA, Storia dell’opera italiana, Milano, Mondadori
2000, p. 330). La sola eccezione di cui sono venuto a conoscenza è data da un articolo di ANSELM
GERHARD, Ein missverstandener Schabernack: Gaetano Donizettis eigenwilliger Umgang mit Felice Roma-
nis «L’elisir d’amore», in Una piacente estate di San Martino: studi e ricerche per Marcello Conati, a c. di
MARCO CAPRA, Lucca, LIM 2000, pp. 117-26. La segnalazione si trova nella bibliografia curata da FRAN-
CESCO BELLOTTO, in Gaetano Donizetti…, p. 93 e n. 34. Purtroppo non sono riuscito a procurarmi il sag-
gio dello studioso.
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Esiste un’altra non piccola differenza con i filtri d’amore dell’antichità. In ge-
nerale questi erano descritti soprattutto come narcotici ed eccitanti, il cui effetto
doveva avere uno scopo immediato e probabilmente aveva una durata momenta-
nea, giusto il tempo necessario per far crollare la resistenza della persona su cui si
erano posati gli occhi. Il filtro descritto nel Tristano è invece così potente che, nei
primi narratori del mito, dichiara una sorta di data di scadenza: di tre anni secon-
do Beroul, che diventano quattro in Eilhart von Oberge e addirittura una garan-
zia a vita sia in Thomas sia in Gottfried von Strassburg, che da Thomas prende le
mosse; in questi due ultimi scrittori ogni notazione temporale di durata scompare
perché l’effetto del filtro d’amore continuerà finché gli amanti vivranno. Da
Eilhart, inoltre, abbiamo un particolare importante: se un uomo e una donna be-
vono assieme la pozione la loro passione sarà indissolubile, anche contro la loro
volontà, fino a che il potere del filtro non sarà esaurito25.
Cosa rimane di tutto questo nel libretto di Scribe e, conseguentemente, di Ro-
mani? Praticamente nulla26. Non si è forse prestata abbastanza attenzione al fatto
che la storia raccontata nel libretto francese non ha niente a che vedere con il mi-
to di Tristano così come ci è pervenuto: nella nuova versione, infatti, Isotta non
ama Tristano, questi beve da solo il filtro che agirà su Isotta a distanza e infine la
vicenda ha un esito felice. Si direbbe quasi che Scribe non conoscesse molto be-
ne la vicenda di cui tratta o la trovasse irrilevante, in quanto tale, nell’economia
del suo libretto. Una conferma al nostro sospetto ci pare sia, nel libretto francese,
la strofa iniziale della storia dei due amanti:
La reine Iseult, aux blanches mains
A l’amour se montrait rebelle
Et Tristan se mourait pour elle
Sans se plaindre des ses dédains.
Nel primo verso Scribe parla di una «reine Iseult, au blanches mains»; questa,
però, nella storia tràdita, non è l’amante bensì la moglie di Tristano, da lui sposa-
ta per provare quello che prova Isotta la Bionda – lei sì sua amante nonché mo-
glie di suo zio, re Marco27. Una tale svista non sarebbe pensabile se il tema della
25. Si veda BEROUL, Le roman de Tristan, in Tristan et Iseut. Les poèmes français. La saga norroise, a c. DA-
NIEL LACROIX, PHILIPPE WALTER, Paris, Librairie Générale Française 1989, p. 120, vv. 2136-43. Il volume
riporta anche la versione di Thomas. Per GOFFREDO DI STRASBURGO, Tristano, si può consultare l’edizione
italiana in prosa, a c. di GABRELLA AGRATI, MARIA LETIZIA MAGINI, Milano, Mondadori 1983. Per Eilhart
von Oberge si rimanda a Tristano, trad. di Heide Reider, Perugia, Edizioni Scientifiche Italiane 1980.
26. È comunque interessante osservare che il mito di Tristano, per quanto in questo caso solo accennato,
declinato in una versione comica e snaturato rispetto all’originale, torna in musica dopo un silenzio pluri-
secolare, risalente addirittura al XIV secolo, epoca a cui appartiene Il lamento di Tristano una istampitta
di anonimo italiano. Solo pochi decenni separano la ripresa del mito di Scribe da Tristan und Isolde di Ri-
chard Wagner, del 1859 (ma rappresentata per la prima volta a Monaco di Baviera nel 1865).
27. Nel mito originario Isotta dalle bianche mani è, invece, innamorata del proprio marito e deve anzi
subire da lui il frustrante e continuo diniego di un rapporto coniugale.
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28. Nella versione italiana il riferimento alle “bianche mani” di Isotta scompare del tutto, sostituito dalla
connotazione della sua crudeltà.
29. Nel libretto italiano il nome di Tristano ricorre, quattro volte, esclusivamente nella storia narrata da
Adina.
30. La figura dello zio, pallidamente presente nella versione di Scribe, in quella italiana non solo perde il
nome, ma viene accortamente neutralizzata da Romani attraverso la sua lontananza, vecchiaia, malattia e
morte, grazie alla quale il giovane spasimante diverrà ricco. Anche il nome dato da Scribe allo zio, Ri-
chardet, sembrerebbe confermare che l’autore ha semplicemente mescolato nomi a valenza mitico-epica.
Richardet è infatti la traduzione di Ricciardetto. Nell’Orlando Furioso, costui è un paladino francese, fra-
tello di Rinaldo e Bradamante; si tratta, tuttavia, di un personaggio secondario e poco noto, legato so-
prattutto alla vicenda d’amore con Fiordispina. Esiste invece un altro poema italiano, di genere eroicomi-
co, che potrebbe essere all’origine del nome: si tratta del Ricciardetto, del poeta ed ecclesiastico di Pistoia
attivo a Roma, Niccolò Forteguerri o, alla greca, Carteromaco, scritto fra il 1716 e il 1725 e pubblicato
postumo nel 1738. Esso comparve in Francia col titolo Richardet nel 1766, sei anni dopo la morte del suo
traduttore, Anne-François Duperrier-Dumouriez, il quale, come avverte nell’introduzione, lo aveva pur-
gato e modificato in più punti con narrazioni proprie. Il poema dovette piacere parecchio, visto che fu
nuovamente tradotto da Louis-Jules Mancini-Mazarini e pubblicato nei volumi VII e VIII delle sue ope-
re, nel 1796. È questa, indubbiamente, un’edizione cronologicamente molto vicina alla stesura del libret-
to di Scribe ed è possibile che il titolo abbia suggerito a quest’ultimo il nome che, in una visione un po’
superficiale del mito, più poteva trovare punti di contatto con il mito epico-cavalleresco di Tristano.
D’altronde, come ho detto, a Scribe non interessa la vicenda dei personaggi di cui si appropria, quanto,
diciamo così, una loro funzione anche solo vagamente evocativa.
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bile come si vedrà più avanti. La storia di Tristano è usata insomma come exem-
plum, funge da etichetta di garanzia per un amore che non potrà che essere co-
niugale, riconosciuto all’interno di una radicata convenzione sociale, e “quindi”
fedele. In questa veste essa serve a nobilitare ironicamente un’altra storia d’amo-
re, ben più prosaica, che solo un fortunato e comico accidente conduce a un esi-
to positivo.
Torniamo al libretto. A lettura ultimata, la prima cosa evidente è che l’inizia-
le scena campestre funge da prologo e contenitore di tutta la storia successiva;
essa opera una vera e propria mise en abîme della vicenda, proprio grazie alla
lettura della storia di Tristano da parte di Adina, la quale anticipa, ridendo e
senza ancora saperlo, la propria storia d’amore31. Un altro aspetto del prologo
sembra nascostamente preannunciare la felice conclusione della vicenda; proba-
bilmente non colto da Scribe, giudicato in patria uomo di non eccelsa cultura e
pessimo letterato32, potrebbe invece aver esercitato un fascino sotterraneo sul
letterato italiano Romani. La scena di Adina che racconta una storia d’amore
letta in un libro prima che le accada, ricorda infatti, per analogia inversa, quella
di Francesca da Rimini che racconta, ex post, ciò che le è successo in seguito alla
lettura di un’altra ben nota vicenda d’amore33. Alla ridente Adina si contrappo-
ne una Francesca piangente la quale racconta a Dante34, nel canto V dell’Infer-
no, come, grazie alla lettura, il racconto della nascita dell’amore fra Ginevra e
Lancellotto fosse diventato realtà per lei e il cognato e li avesse tragicamente
condotti a morte. Alla storia d’amore che legge Adina riguardante Tristano e
Isotta, si oppone quella letta da Francesca sugli amori di Lancillotto e Ginevra,
mito confinante con il primo, si badi bene. Adulterio vero e proprio è quello di
questi ultimi, e quindi parallelamente adulterio è anche quello di Francesca; sto-
ria d’amore non colpevole è invece quella di Tristano e Isotta, perché nata in
modo indipendente dalla loro volontà e quindi, per completare il diagramma
non sarà colpevole nemmeno l’amore di Adina e Nemorino, che deve ancora
realizzarsi e in cui la vicenda si concluderà, diversamente dagli originali Tristano
e Isotta, con un felice e socialmente conveniente matrimonio, dopo l’assunzione
del filtro. Alla totale e immediata subordinazione di Francesca35 alla vicenda da
lei letta, risponde la derisione e il rifiuto apparente di quella stessa storia da par-
te di Adina; alla infelice e tragica realizzazione della storia d’amore della prima,
risponde la realizzazione piena della vicenda d’amore della seconda. Il riferi-
mento a Tristano e Isotta nella storia d’amore iniziale, aggiunge dunque, nel li-
bretto italiano, una sfumatura ulteriore che permette di giocare, attraverso il re-
cupero dantesco del mito di Ginevra e Lancillotto, su una memoria culturale
sotterranea e percepita nel suo aspetto di tradimento come negativa, cui con-
trapporre positivamente la vicenda, non certo cortese ma borghese, di Nemori-
no-Tristano e Adina-Isotta.
IV. Dulcamara
35. Definita icasticamente per questo «un’intellettuale di provincia» da GIANFRANCO CONTINI, Dante co-
me personaggio-poeta della «Divina Commedia», in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi 1970 (ma
1957), pp. 335-61. Sulla falsariga di questa definizione, EDOARDO SANGUINETI, Il realismo di Dante, Fi-
renze, Sansoni 1966, p. 28, identificherà Francesca come una «Madame Bovary del Duecento», paragone
ripreso anche da G IULIO F ERRONI , Da Dante a Flaubert, il lungo inganno, «Corriere della Sera»
6/09/1996. Si veda comunque RENZI, Le conseguenze…, pp. 161 e sgg.
36. Si veda MANLIO CORTELAZZO, PAOLO ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna,
Zanichelli 1999, edizione elettronica, secondo il quale il termine compare per la prima volta in maniera
ufficiale nel 1828 nel Dizionario compendiato delle scienze mediche, il che, naturalmente, non esclude la
sua conoscenza, già prima, in ambito popolare. Cfr. ad es. GIUSEPPE BOERIO, Dizionario del dialetto vene-
ziano, Venezia, Santini 1829, p. 201 s.v. Alla famiglia delle solanacee cui appartiene la dulcamara, appar-
tengono anche la belladonna e la mandragola, altra ben nota erba usata a pozioni e filtri erotici, legata
per antonomasia a Machiavelli e all’omonima commedia.
37. Cfr. ANNIBALE OMODEI (poi CARLO-AMPELIO CALDERINI), Annali universali di medicina, vol. CXXXII,
Milano, Società degli Editori degli Annali Universali delle Scienze e dell’Industria 1849, p. 656.
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Il fatto che Donizetti conoscesse Belli già prima del 1828, e che fosse a Roma nel
1828 durante il Carnevale, come afferma Ashbrook, non credo sia sufficiente a
stabilire che Dulcamara derivi da Gambalunga: non si può dimenticare infatti
che il libretto dell’opera del maestro di Bergamo nasce come traduzione e adatta-
mento di quello francese di Scribe. Un confronto fra i monologhi dei due imbo-
nitori mostra agevolmente che il Dulcamara dell’Elisir ricalca e riproduce in più
punti il suo omologo francese Fontanarose. Improponibile per più motivi l’ipote-
si che Scribe si sia ispirato a Gioacchino Belli per creare la figura di Fontanarose:
non conosceva l’italiano e non conosceva Belli, la cui cicalata venne pubblicata
per la prima volta solo nel 183642. Ritengo invece più logico ed economico pen-
sare che Fontanarose, Dulcamara e Gambalunga siano tre realizzazioni differenti
di un modello ormai affermato e diffuso di ciarlataneria, il solo tratto che in
realtà li accomuni.
La figura del ciarlatano, presente in tutta Europa, oggetto di una vasta lettera-
tura almeno a partire dal XVI secolo43, ha come antenato la più generale figura
del vagabondo, a sua volta nata da un retroterra antichissimo che aveva nei que-
stuanti il proprio punto di partenza. La prima organica rappresentazione de vaga-
bondi si trova nello Speculum cerretanorum, opera latina del giudice vescovile di
Urbino Teseo Pini, scritta fra il 1484 e il 148644. Lo Speculum descrive per la pri-
ma volta esaustivamente, suddivise per categorie, le professioni praticate da vaga-
bondi, furfanti, o comunque da tutta quell’umanità posta a margine del consorzio
civile, schiacciata fra povertà e degrado sociale; si tratta di un trattato di notevole
interesse, perché mette in scena personaggi le cui caratteristiche nel volgere di cir-
ca settant’anni entreranno di prepotenza a fondare con Lazarillo de Tormes, la let-
teratura picaresca. Nel paragrafo V, dedicato agli affratres, compare il termine
ciarlatanis, che forse, prendendo il posto di quello di ciurmatore, più vicino alla fi-
gura del medico imbonitore, attraverso la parola ciarla cominciava proprio allora a
sovrapporsi e fondersi con quello di cerretano, l’impostore vero e proprio45. Il li-
bro di Teseo Pini, parzialmente tradotto e modificato, fu rimesso in circolazione
col titolo di Vagabondo nei primi decenni del XVII secolo dal domenicano Raffae-
le Frianoro, al secolo Giacinto De Nobili, il quale non si fece scrupolo di ascrivere
a sé l’opera, che sarà ristampata più volte fino al 1828 e la cui fama varcherà i con-
fini italiani46. La figura del ciarlatano comincia nel frattempo ad assumere tratti
burleschi, degni «di appartenere più che alla storia dell’ipocrisia e della menzo-
gna, alla storia dello spettacolo e del teatro popolare, alla liturgia festosa, farsesca e
carnevalesca […]»47, come si intravede in un testo, datato al 1673, del veneto
Gnesio Basapopi, frate conventuale, al secolo noto come Giulio Cesare Bona:
Fraude in ti monta in banco, o zarattani,
Che con dir de le fiabbe e canzonette
De scarsella i ve cava le gazette
Il ciarlatano non è una novità nemmeno dal punto di vista musicale. Una cantata
con tale titolo, per tre soprani e basso continuo, di datazione incerta ma proba-
bilmente della seconda metà del XVII secolo, fu scritta da Giacomo Carissimi49.
In essa i ciarlatani sembrano addirittura due, Sdegno e Amore, anche se solo il
primo si dichiara «salta in banco»: questi vende agli astanti il suo infallibile
«eleutario» contro il mal d’amore e le piaghe che procura; Amore, a sua volta, vi
si contrappone proponendo un rimedio differente. Se il tema, ancora legato a te-
matiche arcadiche, non presenta un lessico medico specialistico, pure la sua rap-
presentazione tende al burlesco proprio attraverso la figura del ciarlatano che
elogia ciò che vende secondo moduli evidentemente topici già prima di Fontana-
rose, Dulcamara e Gambalunga: infallibilità e miracolosità del rimedio, costo as-
solutamente irrisorio, riconoscimenti da ogni parte del mondo, eccetera50:
Sdegno: Amore:
[…] Io vendo il vero, il buono
Se per misera sorte L’esquisito rimedio
Si ritrovasse alcun vicino E questi sono li privileggi e le patenti
À morte sol per haver gustate gioie In stesse che per molte
Da mille inganni avvelenate Dà ognun vedute prove
Prenda il mio Eleutario À mè dè già la Maestà
Nominato lo svario Del Sole, Madama serenissima la Luna
E se non si risana in un istante E il Tempo protomedico
Tenetemi un furfante. Concesse leggier le può
Il prezzo che mi viene non son Chi risaper le vuole
Nè cento scudi, nè cinquanta, Che s’io qui le narassi
nè venti, nè quaranta. Ad una vi mancherebbe il di. […],
Udite bene, lo sdegno
Non vuol altro che un Testone. […]
48. Ibidem. CORSINI, Medici, p. 55, cita un brano, probabilmente del XVII secolo, che propone rimedi
simili.
49. Altro titolo della cantata è Poiché lo Sdegno. La datazione delle opere di Carissimi (1605-1674), musi-
cista di spicco nella Roma del ’600, presenta non poche difficoltà, poiché nel 1773 l’Archivio di Sant’A-
pollinare, dove era raccolta per ordine papale sin dal 1675 la gran parte della sua produzione, andò di-
sperso o distrutto nel 1773 a causa dello scioglimento dell’ordine dei Gesuiti, che avevano fatto della
chiesa sin dal 1574 la sede del Collegium Germinicum-Hungaricum.
50. La cantata si trova in LUIGI TORCHI, L’arte musicale in Italia, vol. V, Milano, Ricordi 1897-908, pp.
237-85.
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Credo che bastino queste poche note a ipotizzare non una relazione di dipenden-
za ma la sostanziale contiguità fra le figure di Dulcamara, Fontanarose e Gamba-
lunga per i quali l’origine andrebbe ricercata assai più indietro nel tempo come
evoluzione della figura del furfante e del ciurmadore.
V. Giochi di specchi
Riprendiamo ora l’analisi del libretto italiano. Ai tre principali personaggi della
storia francese, Terezine, Guillaume, Fontanarose, rispondono i tre italiani Adi-
na, Nemorino e Dulcamara. Assente nella versione italiana il nome delle zio, Ri-
chardet in francese, perché inutile ai fini dell’azione vera e propria. Sostanzial-
mente invariato il nome di Jeannette, che diventa senza sforzo Giannetta, conta-
dina che cercherà invano di sedurre Nemorino quando scoprirà che è diventato
ricco. Infine il nome del sergente: Joli-Cœur diventa Belcore con semplice calco
morfologico del termine francese. Si tratta, per Giannetta e Belcore, di due figu-
re minori della storia anche se, certo, il sergente nel suo ruolo di rivale di Nemo-
rino ha un notevole rilievo; ma egli è un semplice strumento nelle mani di Adi-
na51. Il suo è più un carattere che una figura vera e propria; più che la affettata
galanteria del suo collega francese, Belcore mostra un atteggiamento quasi da mi-
les gloriosus, tronfio e spaccone, come Adina stessa immediatamente riconosce,
adatto a far risaltare ancora meglio la delicatezza e il tratto sognante e quasi fem-
mineo di Nemorino, primo personaggio a comparire e già delineato nella cavati-
na iniziale, nella prima scena dell’atto primo:
Quanto è bella, quanto è cara!
Più la vedo, e più mi piace…
ma in quel cor non son capace
lieve affetto ad inspirar.
Essa legge, studia, impara…
non vi ha cosa ad essa ignota…
Io son sempre un idiota,
io non so che sospirar. (I, 1)
Il nome Nemorino con quel suo richiamare alla latina un ambiente boschereccio
e nella forma di diminutivo, sembra alludere a un personaggio idilliaco o tardo
arcadico, di cui emerge, sin dalle prime parole l’aspetto languido e sognante52, la
semplicità di carattere e l’ingenuità, oppure, come più realisticamente e comica-
mente dice Dulcamara, dopo avergli venduto l’elisir, la dabbenaggine:
51. Giannetta aveva un ruolo assai più attivo nella versione francese.
52. A cui la musica contribuisce colorando con spunti di tonalità minore la tonalità maggiore dell’aria da
lui cantata.
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Adina, all’opposto di Nemorino, esordisce con una risata che precede il racconto
ai contadini della vicenda di Tristano e Isotta, narrazione inconsapevole della vi-
cenda che la riguarderà di lì a poco. Tale inconsapevolezza del legame fra il mito
e la sua storia rimarrà anche dopo che ammetterà di amare l’uomo che prima di-
sdegnava, segno forse anche questo della casualità del rapporto che lega i nomi
di Tristano e Isotta alla vicenda sua e di Nemorino. Costui dimostra un’inconsa-
pevolezza anche maggiore, anzi direi proprio una totale incapacità di compren-
sione di ciò che accade intorno a lui fino alla conclusione di tutta la storia: quan-
do ottiene il sospirato amore di Adina, non ha parole di ringraziamento che per il
dottor Dulcamara e per il suo magico liquore. I due personaggi si muovono ri-
spetto al mito su versanti opposti: Nemorino è convinto della validità del mito e
non coglie il motivo tutto interiore che lo ha portato a ottenere l’amore di Adina;
questa, a sua volta, non coglie la curiosa simmetria fra le due storie mentre è con-
scia delle qualità di Nemorino.
La storia letta da Adina, lo si è visto, non ha nulla a che vedere con la vicenda
originaria, ma serve a farla conoscere come ragazza capricciosa e volubile. Dietro
questa volubilità si scorge tuttavia una visione del mondo anticipatrice del futuro
mutamento del personaggio. Dopo aver narrato la vicenda di Tristano e Isotta,
amanti felici grazie a un magico filtro, ella canta infatti in maniera più scanzonata:
Elisir di sì perfetta,
di sì rara qualità,
ne sapessi la ricetta,
conoscessi chi ti fa! (I, 1)53
53. Nella partitura e nel libretto la quartina è affidata al “tutti” ma in realtà nell’esecuzione viene antici-
pata da Adina.
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La maestria del sergente gli permette persino di giocare con il proprio nome in-
serito in rima nell’ultimo verso. Nel gioco di continue inversioni che il libretto
distribuisce nascostamente sin dall’esordio della vicenda, l’accenno a Paride
preannuncia in verità, dopo un’iniziale momento di fortuna, la finale sconfitta
del sergente nella peraltro incruenta battaglia per ottenere l’amore di Adina.
L’intarsio mitologico non esiste nella versione francese, che anzi, si caratteriz-
za per una totale assenza di riferimenti mitologici classici, riferimenti che nel li-
bretto italiano tornano varie volte, anche solo come allusione: ad esempio quan-
do Dulcamara definisce la propria tasca un vaso di Pandora, anche in questo ca-
so con inversione di senso rispetto all’originale valore del termine, poiché la po-
polaresca “saccoccia” contiene antifrasticamente i rimedi alle sofferenze umane e
non tutte le sue disgrazie; o ancora quando Dulcamara crede ingenuamente alle
magiche proprietà del suo elisir e sogna di diventare un novello Creso; infine
quando il coro che chiude l’opera chiama Dulcamara “la Fenice dei dottori”55.
54. Esaminando le parti vocali delle cavatine di Nemorino e Belcore si nota anzi che mentre quest’ultimo
pone una forte e prolungata pausa sulla settima sillaba del verso, corrispondente all’inizio di ogni battu-
ta, nel caso di Nemorino è l ‘ottava sillaba (quindi in levare o più debole) ad avere il più delle volte una
durata maggiore.
55. La grande cultura classica di Felice Romani era tale che egli riprese e portò a termine, assieme ad
Antonio Peracchi, l’opera di GIROLAMO POZZOLI, Dizionario d’ogni mitologia e antichità, Milano, Batelli
e Fanfani 1809-27. Si veda BRANCA, Felice Romani…, pp. 33-5.
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L’incontro che segue fra Nemorino e Adina segnala la distanza che separa affetti-
vamente i due ma allo stesso tempo permette ad Adina, pur nel rifiuto delle at-
tenzioni di Nemorino, di misurare la differenza fra la sua delicatezza e la grosso-
lanità del sergente:
Odimi. Tu sei buono,
modesto sei, né al par di quel sergente
ti credi certo d’ispirarmi affetto;
così ti parlo schietto,
e ti dico che invano amor tu speri:
che capricciosa io sono, e non v’ha brama
che in me tosto non muoia appena è desta. (I, 3)
Alla richiesta disperata di Nemorino sul perché della sua volubilità segue, nella
stessa scena, la risposta di Adina:
Chiedi all’aura lusinghiera
perché vola senza posa
or sul giglio, or sulla rosa,
or sul prato, or sul ruscel:
ti dirà che è in lei natura
l’esser mobile e infedel.
56. Dopo aver dichiarato la propria superiorità in galanteria rispetto a Paride, Belcore si pone metaforica-
mente sullo stesso piano del dio della guerra, di fronte al quale anche la dea dell’amore (Venere, ovvero,
secondo il soldato, Adina) deve dichiararsi vinta. L’analogia, se da un lato serve mettere in luce la superfi-
cialità del sergente e la sua incapacità di cogliere il senso di quanto sta avvenendo, dall’altro conferma e
preannuncia ancora una volta l’inversione della vicenda: tanto Marte-Belcore quanto Adina, che evidente-
mente non si conforma alle leggi d’amore, dovranno cedere a Nemorino, seguace di Venere e vincitore in-
consapevole grazie a Dulcamara e allo pseudo elisir d’amore, veri strumenti della vittoria della dea.
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57. “Morire” è verbo ricorrente nel linguaggio di Nemorino, sia inteso come soluzione alla malattia d’a-
more, sia, in un caso, come culmine di felicità. Anche questo aspetto attiene al fondo ‘patetico’ del perso-
naggio. È comunque interessante notare che il binomio stabilità/fedeltà, contrapposto a quello leggerez-
za/infedeltà è connotato, secondo un topos classico, anche sessualmente. Femminile e volubile è Adina
così come “l’aura” della sua aria. Maschile e fermo è Nemorino e il “rio” che lo identifica. Si pensi sola-
mente all’aria “La donna è mobile”, dal Rigoletto di Verdi, andato in scena nel 1851, lontana ripresa di
“l’esser mobile e infedel” cantato qui da Adina.
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Dulcamara non lascia il tempo di pensare, si avvale di una sorta di aura di supe-
riorità che gli deriva dal modo in cui è apparso, da un linguaggio che lui suppone
e si augura sia ignoto ai più, in cui termini scientifici oscuri si mescolano a parole
di uso popolare facendo apparire queste ultime più elevate e di conseguenza
dando l’impressione di innalzare il livello culturale medio della massa di plebei
che lo circonda; gli ascoltatori sono così catturati dalla sua loquela da non accor-
gersi che eventi spacciati come grandi e straordinari prodigi descrivono in realtà
fatti di per sé normalissimi:
Per questo mio specifico,
simpatico mirifico,
un uom, settuagenario
e valetudinario,
nonno di dieci bamboli
ancora diventò.
Ad una lettura dettata dal buon senso, non vi è alcunché di particolare in un set-
tantenne che diventa nonno: è, anzi, nell’ordine delle cose, né a lui spetta il meri-
to diretto di questa discendenza58.
In una sequela inarrestabile di settenari in gran parte sdruccioli, in mezzo a
giochi allitteranti, gran dispiego di assonanze, rime o semplici omoteleuti, Dulca-
mara elenca le qualità dello specifico, inframmezzando in modo quasi sublimina-
le e martellante lo slogan di vendita rafforzato da allitterazioni interne:
Compratela compratela
per poco io ve la do
58. Certo, si potrebbe pensare che Dulcamara intenda dire il suo specifico sia un elisir di lunga vita e che
dunque un uomo di settant’anni, grazie ad esso, ha potuto generare dei figli e poi è vissuto ancora il tem-
po sufficiente per vedere che a loro volta questi gli dessero dei nipoti. La lettura è a rigore improponibi-
le, ma è pur vero che la credulità e l’ingenuità di Nemorino è con molta probabilità condivisa da tutto
l’uditorio, il quale potrebbe in fin dei conti trovare accettabile, o addirittura auspicabile, una tale eve-
nienza: il linguaggio di Dulcamara non la esclude e forse pure la incoraggia tacitamente, al punto che, se
qualcuno la contestasse, egli per primo, da imbonitore consumato, la farebbe sua senza alcuna esitazione.
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fino al momento in cui deve rivelare il prezzo del miracoloso prodotto, segnala-
to da un cambio di passo metrico in cui il settenario viene rimpiazzato dall’ot-
tonario59.
La comparsa di Dulcamara rimescola le carte. La vicenda procede ora attra-
verso azioni e reazioni basate sull’equivoco in cui cadono tutti i protagonisti.
Per primo Nemorino andrà da Dulcamara con l’intento di saggiarne, lui igno-
rante, la scienza; in men che non si dica si fa raggirare e gli dà i pochi soldi che
ha per ottenere un presunto elisir d’amore dai poteri straordinari. Dopo averlo
bevuto si sente trasformato, senza comprendere che è l’effetto dell’alcool che sta
per agire. Tuttavia la raggiunta sicurezza gli permette di affrontare con maggior
scioltezza e fermezza Adina, la quale non concepisce il mutato atteggiamento
del suo spasimante, equivocando sul fatto che egli abbia preso sul serio il suo
consiglio del “chiodo scaccia chiodo”. Nella schermaglia psicologica fra i due
ognuno canta fra sé, sicuro della vittoria sull’altro in un contrasto che è sottoli-
neato, per converso, dall’identica struttura della stanza di settenari che per en-
trambi è sbsc60:
Nemorino Adina
(Esulti pur la barbara (Spezzar vorria lo stolido,
per poco alle mie pene: gettar le sue catene,
domani avranno termine, ma gravi più del solito
domani mi amerà.) pesar le sentirà.) (I, 8)
59. Sulla costruzione retorica del discorso di Dulcamara si vedano le interessanti osservazioni di PAGA-
NONI, L’elisir…, p. 21 n. 12.
60. Indico in tal modo la struttura strofica, per evidenziare il fatto che i versi dispari usufruiscono di
quella che PIETRO G. BELTRAMI, Le metrica italiana, Bologna, il Mulino 1991, p. 184, chiama “rima ritmi-
ca”, basata cioè non sull’identità fonica dei rimanti ma appunto accentuale, trattandosi di sdruccioli. Il
verso di chiusura di ciascuna quartina è, come al solito, tronco.
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Con lo stesso metro e impianto rimico, ma su una diversa melodia, giunge la du-
ra e irata risposta di Belcore e in questo caso i doppi quinari sembrano sottoli-
neare la rabbia e la concitazione del sergente.
Il ciel ringrazia, o babbuino,
che matto, o preso tu sei dal vino!
Ti avrei strozzato, ridotto in brani,
se in questo istante tu fossi in te.
In fin ch’io tengo a fren le mani,
va’ via, buffone, ti ascondi a me.
61. Nello schema aabcbc i versi terzo e quinto di Adina sono in assonanza perfetta con i primi due, i
corrispondenti versi di Belcore sono invece in consonanza. La rima c è infine identica per tutti e tre i
personaggi.
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Se si considera ora la struttura generale dell’opera è facile rilevare che essa proce-
de per scene che si richiamano l’una con l’altra fra il primo e il secondo atto, in
una serie di capovolgimenti di situazione rispetto a un centro ideale, corrispon-
dente alla fine dell’atto primo e all’inizio dell’atto secondo, momento di massimo
sconforto di Nemorino e di massima gioia per Belcore. Partendo dagli estremi, la
scena iniziale di Adina che deride la vicenda amorosa di Tristano e Isotta viene
chiusa dall’opposta, in cui, dopo la confessione del suo amore per Nemorino, è
lei stessa a benedire il famoso filtro; la scena dell’arrivo di Belcore, il sergente che
corteggia e vuole sposare Adina, viene chiusa dalla corrispondente scena in cui lo
stesso Belcore presenta le armi al rivale in amore che lo ha sconfitto e che lui ave-
va arruolato; la scena dell’arrivo di Dulcamara che spaccia il suo specifico rispon-
de alla scena finale di Dulcamara che trova modo di dire che lo specifico non so-
lo cura ma fa diventare ricchi. La scena centrale, quella del matrimonio virtuale
fra Belcore e Adina culmine drammatico di tutta l’opera, avrà la sua conclusione
nella scena del matrimonio reale fra Adina e Nemorino. Essa segna anche l’inizio
dello scioglimento della vicenda, perché Adina stessa rimanda il matrimonio con
la scusa di voler godere della sofferenza di Nemorino alla vista delle sue nozze, in
realtà perché sta ormai prendendo coscienza del suo sentimento per lui. Anche la
scena iniziale in cui Adina dice a Nemorino di non pensare a lei trova un suo cor-
rispondente con la scena finale in cui Adina dà a Nemorino il contratto d’arruo-
lamento che lei ha riscattato e poi gli dice addio. Ma questa volta l’esito è oppo-
sto: se nella prima Nemorino era incapace di reagire ora è lui a prendere l’inizia-
62. Lirici greci. Saffo, Alceo, Anacreonte, Ibico, a c. di GIULIO GUIDORIZZI, Milano, Mondadori 1993, p. 5.
Il corsivo è mio.
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tiva e a porre Adina di fronte alla rischiosa scelta di perderlo per sempre, costrin-
gendola in tal modo a confessare il suo amore. Così la scena dell’elisir che Nemo-
rino va a cercare e poi compra da Dulcamara, ha la sua controparte nel tentativo
di Dulcamara di vendere ad Adina lo stesso elisir. Il rifiuto di Adina svela una
nuova opposizione questa volta fra Nemorino e Adina stessa: Nemorino affida ad
un elemento esterno, una pozione, la forza di conquista dell’amore di Adina,
Adina invece non ha alcun bisogno di pozioni o filtri perché l’elisir è lei stessa e
la sua grazia:
Una tenera occhiatina,
un sorriso, una carezza,
vincer può chi più si ostina,
ammollir chi più ci sprezza.
Ne ho veduti tanti e tanti,
presi cotti, spasimanti,
che nemmanco Nemorino
non potrà da me fuggir.
La ricetta è il mio visino,
in quest’occhi è l’elisir63 (II, 6)
63. È pur vero che quando Dulcamara svelerà ad Adina di aver venduto l’elisir di Isotta a Nemorino, lei
avrà come un sussulto: agisce il riferimento iniziale della storia. In quel momento giunge a compimento il
mutato atteggiamento di Adina nei confronti di Nemorino. Certa del suo amore, la fanciulla non avrà a
quel punto bisogno di acquistare l’elisir che Dulcamara tenta di venderle.
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Edizioni ETS
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Finito di stampare nel mese di settembre 2011