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Trasmissione di culture nel Medioevo: germani e latini dallo scontro ai “Carmina Burana”
Il vero crogiolo interetnico che diede origine alla letteratura europea si produsse tuttavia non tanto
nell’antichità classica quanto nel passaggio dalla tarda antichità a quello che si usa chiamare
Medioevo, fra IV e VIII secolo: fu quella l’epoca del grande incontro di sistemi che contrappose e
poi coagulò la cultura classica nella sua sintesi cristiana con le culture germaniche delle tribù.
Dopo la riforma carolingia, la mancanza di una trasmissione scritta viene percepita ormai
definitivamente come assenza di memoria storica tout court e dunque come privazione dell’identità.
Recenti contributi hanno confermato che nei regni romano-barbarici, l’opposizione barbari/romani
resta vitale serve, in continuità con l’uso cristiano, come connotazione negativa dell’altro,
chiunque esso sia.
Grazie a questa impostazione culturale la Chiesa si pose come ente di mediazione fra i barbari e la
popolazione romana, compresi i suoi reggenti politici: l’ipotesi di convertirli e farli membri della
Chiesa costituiva una possibilità efficace di assorbimento e insieme un ponte fra le civiltà.
Anche alle invasioni barbariche si può opportunamente applicare il paradigma greco-romani del
popolo sconfitto che conquista con la sua cultura i suoi vincitori il connubio romano-germanico si
avverte nelle opere storiografiche, negli indovinelli, a livello narratologico in alcuni nuovi miti che
entrano nella cultura latina (la ricerca della coppa che dona felicità), perfino la rima è con certezza
lo sviluppo di una figura retorica assunta da una cultura non latina (praticamente ogni espressione
del Medioevo è frutto dell’incontro romano-germanico).
La grande novità imposta nella riforma di Carlo Magno, che favorisce una standardizzazione delle
forme di latino in uso nella liturgia e nei documenti e un recupero della formazione scolastica della
latinità tardo antica, è la creazione di uno strumento di comunicazione internazionale che fornisce a
intellettuali di qualsiasi provenienza un canale di espressione e di scambio in grado di garantire un
pubblico più vasto e una comprensibilità più estesa, ma anche di produrre una moltiplicazione dei
punti di emissione.
Questa latinità internazionale ritarda di certo lo sviluppo delle lingue volgari, ma nel contempo ne
agevola al loro interno la formazione di modelli di scrittura.
A partire dal XII-XIII secolo la maturazione di questo quadro porterà alla possibilità di
un’interferenza reciproca fra i due arcipelaghi linguistici, anche sul piano delle testimonianze scritte
Carmina Burana.
La grande differenza che separa la “globalizzazione” latina di Roma da quella medievale sta nel
rovesciamento dell’emittente e dell’obiettivo: mentre la grande letteratura e la storiografia romana
erano scritte in latino da autori di ogni parte del mondo, ma si occupavano di storia universale, la
produzione medievale esprime in latino il punto di vista di autori di provenienza estremamente varia
su problemi anche regionali, perché non esiste più un centro localizzabile geograficamente la
scrittura del Medioevo latino e tanto più del Medioevo volgare è intrinsecamente pluralista.
Gli sviluppi dello studio comparato dei temi e dei miti letterari
Fu a partire dagli anni sessanta, con i fondamentali contributi di Trousson e Levin, che cominciò ad
affermarsi una nuova tematologia comparatistica: in versione non più solo erudita e documentario-
genealogica, ma anche storico-critica ed ermeneutica.
Pioniere del recupero e della riabilitazione critica della tematologia con il suo capitale lavoro sul
mito di Prometeo, Trousson ha anche contribuito in sede teorica e metodologica alla messa a punto
di quest’indirizzo di studi egli è stato fra i grandi riorganizzatori della Stoffgeschichte per
restituirla ad un approccio storico-critico più complesso: il punto chiave della sua impostazione
teorica si orienta sui “temi dell’eroe” e i “temi di situazione” secondo Trousson lo scopo di uno
studio tematologico è di interpretare le variazioni e le metamorfosi di un tema letterario attraverso il
tempo, alla luce delle loro relazioni con i contestuali orientamenti storici, ideologici e intellettuali,
evidenziando così l’adattamento degli elementi costitutivi del tema alle trasformazioni delle idee e
dei costumi e il carattere dinamico ed evolutivo che è l’essenza stessa del tema mito come
presupposto del tema.
Pare utile segnalare la distinzione stabilita dallo studioso belga tra la critica “tematica”, intesa come
indagine del tema caratteristico di una singola opera, e la “tematologia”, identificata nello studio
comparatistico delle trasformazioni storiche di un tema attraverso una pluralità di testi (distinzione
che sarà adottata anche da Brunel).
La riemergente critica “tematica” venne, soprattutto fra anni cinquanta e sessanta, incarnata in
alcune delle tendenze fondamentali della cosiddetta nouvelle critique ginevrina e francese, che
individuarono nel tema la funzione chiave e l’elemento cruciale attorno al quale si dispiegano le
profonde dinamiche di significato dell’immaginario di un autore. In questa prospettiva, il complesso
aggregato semantico di un tema strategico e ricorrente veniva concepito come quell’elemento
testuale che permetteva di ricostruire e identificare le modalità peculiari del processo creativo o la
fondazione e articolazione della poetica di un autore tra gli esponenti fondamentali della nuovelle
critique ricordiamo Jean-Paul Weber, teorico del “monotematismo”, Georges Poulet, Jean-Pierre
Richard e Jean Starobinski.
Contemporaneamente, su questo versante della ricerca tematica e all’incrocio con la controversa
emergenza di una critica letteraria di impostazione psicanalitica nasceva anche la “psicocritica” di
Charles Mauron, la quale indagava l’inconscio dello scrittore sulla base delle “metafore ossessive”,
ricorrenti e prevalentemente involontarie, per poi risalire al “mito personale”.
Harry Levin tentò di dimostrare come gli elementi tematici non rappresentassero l’intrusione di
“materiali” estrinseci rispetto al testo letterario, ma entrassero a pieno diritto e interattivamente fra
le istanze fondamentali del processo creativo.
Ma la storia della riaffermazione critica della tematologia e degli studi tematici in generale non è
stata affatto lineare. Mentre infatti le ricerche comparatistiche proliferavano con successo
nell’ambito della “mitocritica”, la grande ondata teorica di impostazione strutturalistica che si
affermò soprattutto negli anni settanta tornò vigorosamente ad orientare l’interesse critico attorno al
principio chiave della specificità letteraria, che postulava l’autonomia dei fenomeni letterari e delle
loro modalità di formalizzazione, concentrando l’interesse critico sull’analisi delle forme di
strutturazione testuale, escludendo o limitando fortemente l’intrusione di letture storiche,
contestuali, psicologiche, ecc.
In questa prospettiva, lo studio tematico venne sostanzialmente marginalizzato, per le difficoltà di
conciliare l’interesse tematico, e di tutte le sue dinamiche di “sconfinamento” extraletterario, con
l’analisi formale incentrata sulle modalità specifiche che sovraintendono alla costruzione
dell’oggetto letterario come affrontare la pluridimensionalità antropologica, psichica, ideologica e
storica che è alla base dell’origine e delle trasmutazioni dei temi e dei miti letterari senza infrangere
le barriere fra testo ed extratesto?
I miti letterari
Tornando agli oggetti della ricerca tematologica, bisogna addentarsi nella controversa selva dei
problemi terminologici che si addensano attorno a questo campo di studi.
La definizione del mito in senso etno-religioso può richiamarsi all’etimlogia del termine mythos,
che indica il racconto e la parola nell’accezione “favolosa”, opposto al logos il mito racconta una
storia sacra, che ha avuto luogo nel tempo primordiale, ed è sempre il racconto di una “creazione”.
La desacralizzazione del mito nel passaggio dai miti etno-religiosi a quelli letterari produce una
sostanziale degradazione e degenerazione del racconto mitico e della sua rigorosa organizzazione
strutturale devalorizzazione di un modello.
Tornando alla definizione del mito in senso etno-religioso, esso si configura come un racconto
fondatore, anonimo e collettivo, privato degli aspetti individuali, che assolve a una funzione socio
religiosa proponendo modelli di condotta morale e sociale. Inoltre il mito etno-religioso racconta
una storia concepita e recepita come veridica; altro suo requisito fondamentale è la ridondanza
mito come un insieme narrativo consacrato dalla tradizione e che almeno in origine ha manifestato
l’irruzione del sacro o del sovrannaturale nel mondo.
Si possono distinguere tre funzioni essenziali all’individuazione del mito: quella narrativa, quella
esplicativa, e quella di “rivelazione” che lo radica nella dimensione del sacro la tendenza è di
rappresentare narrativamente il mondo mentre si cerca di spiegarlo.
Ma che cos’è un mito letterario e in cosa si differenzia da uno religioso?
Possiamo proporre due definizioni: esso è da una parte un mito preesistente e ripreso dalla
letteratura, dall’altra esso può consistere anche in un mito nato direttamente dalla letteratura
(Tristano e Isotta, Don Giovanni, Faust).
I problemi classificatori e terminologici ricorrono anche in relazione alla categoria dei miti letterari
la classificazione di Philippe Sellier propone le seguenti categorie di miti letterari: in primo luogo
troviamo miti letterari nati dalla rielaborazione narrativa di racconti d’origine mitica costitutivi della
tradizione culturale occidentale, consolidatisi principalmente attraverso la letteratura greca e le
Sacre Scritture; in secondo luogo ci sono i miti letterari di nascita “recente”, originati da opere
letterarie, come Tristano e Isotta, o Faust.
L’importante è che comunque ogni illustrazione è simbolica di una situazione umana esemplare per
una certa collettività.
È opportuno secondo Sellier ascrivere alla categoria di miti letterari anche i miti “politico-eroici”,
come quelli di Alessandro, Cesare, Napoleone, Giovanna d’Arco: nel caso di questi particolari
processi di “mitizzazione” è accaduto che alla storia reale si sia sovrapposta una storia di secondo
grado, organizzata attorno ad uno scenario tipico della configurazione mitica.
Alla categoria dei miti letterari sono poi ascrivibili i miti parabolici, e ancora alcune immagini
chiave, come quella di Progresso, Razza, Macchina, capaci di esercitare una fascinazione collettiva
pari a quella dei miti primitivi.
È bene a questo punto precisare quali sono gli elementi e le funzioni costitutive che identificano il
mito letterario: rispetto al mito etno-religioso esso perde le caratteristiche di anonimato e il carattere
“fondativo/veridico”, conservandone la saturazione simbolica e la struttura rigorosa, nonché la
presenza del sacro.
Le caratteristiche costitutive del mito letterario sono dunque rappresentate dal valore di esemplarità
di cui esso è portatore, dal suo durevole perdurare sulla coscienza collettiva che si accompagna ad
un attitudine a nascere e rinascere, trasformandosi continuamente.
Il carattere della polisemia e polivalenza del mito è il punto cruciale sul quale tutti gli studiosi
pongono l’accento emerge il principio della sostanziale mobilità polisemica del mito letterario
che, nel suo viaggio attraverso le epoche, le culture, gli autori e i lettori, può essere
rifunzionalizzato e investito di significati differenti.
Un versante critico fondamentale dello studio tematologico è quello che investe il problema della
ricezione letteraria: i parametri di aspettativa del lettore condizionano l’orientamento ideologico del
testo in rapporto alla riutilizzazione di un materiale tematico tradizionale mito di Ginevra.
Il richiamo ad una corretta valutazione delle declinazioni e caratterizzazioni culturali di miti e temi
letterari pare fondamentale: è infatti legato alla natura “narrativa” e dunque comunicativa del mito il
fatto che esso produca, a partite da comuni costanti archetipiche e psichiche, una varietà di
“racconti” culturalmente differenziati.
È utile ricordare anche che la relazione tra mito e testo letterario può articolarsi in forme differenti:
il mito può essere palese e integrale, oppure integrato sotto forma di racconti incastonati, oppure
ancora la sua presenza può essere criptata e non palese. L’elemento di base è costituito
dall’individuazione delle unità invarianti che definiscono, nelle loro relazioni strutturali, lo scenario
ovvero il modello mitico permanente, che è ciò che assicura la trasmissione dell’identità del mito
il rapporto fra testi e modello mitico fa dunque da una parte emergere la ripresa degli elementi
invarianti e dall’altra l’apparizione delle varianti, che investono questioni di poetica e immaginario
individuali.
I miti non sono meri materiali estrinseci dell’invenzione letteraria, bensì parti integranti di testi
letterari, strutturati e costruiti secondo codici specifici e inoltre costitutivamente legati alla realtà
extratestuale e a contesti variabili a seconda delle epoche e delle realtà linguistiche e culturali la
loro natura li configura come chiave d’accesso ad una fitta rete di relazioni.
I temi letterari
La definizione più larga dei temi letterari è quella che li individua come quei soggetti di
preoccupazione o di interesse generale per l’uomo, che si “depositano” nell’orizzonte storico-
letterario trasmettendosi in prospettive di lunga, media e breve durata. I temi letterari sono dunque
entità mobili, flessibili.
Pare utile indicare alcune grandi categorie attorno alle quali si possono essere aggregati i temi
letterari: si può partire dal livello più generale, dei cosiddetti “universali tematici” di lunga durata,
per passare a quello delle tematiche d’epoca, fino a quello controverso e spesso cifrato delle
tematiche personali.
L’orizzonte dello studio tematologico è dunque così composto: si va dai tipi mitologici, leggendari e
storici, ai tipi sociali, professionali e morali, ai motivi ricorrenti della letteratura e del folklore, ai
topoi e luoghi comuni, a episodi o scene ricorrenti che certi generi richiedono per convenzione, alla
rappresentazione di situazioni umane ricorrenti, per arrivare ai temi d’epoca o storici interessanti da
un punto di vista comparatistico per il loro incrocio con la storia del gusto e delle mentalità. In un
ordine di generalità crescente si approda poi ai problemi fondamentali della condotta umana
(destino, amore) e alle idee, ai sentimenti, ai concetti.
Si arriva così dunque agli “universali tematici”, come le esperienze della nascita, della morte,
dell’infanzia, dell’amore, del sogno o della guerra.
Per quanto riguarda invece l’articolazione e la strutturazione interna di un tema letterario è
necessario fare riferimento al concetto di “motivo”: i motivi si configurano come le unità elementari
e subordinate, ovvero come le particelle più piccole del materiale tematico, dalla cui associazione si
generano i “nessi tematici” dell’opera il tema rappresenta l’unità maggiore capace di aggregare e
organizzare al suo interno una molteplicità di motivi.
La distinzione fra i due concetti poggia in definitiva sul loro grado di astrazione e generalizzazione
possiamo parlare dello specchio come motivo ricorrente all’interno di configurazione tematiche
differenti (amore, bellezza, doppio): la concorrenza di diversi motivi forma una configurazione
stabile che ricorre spesso in forme stereotipate, e si designerà come topos.
Il patrimonio tradizionale dei topoi si è consolidato, nel passaggio dal mondo classico alle nascenti
letterature europee, attraverso il filtro codificatore e stereo tipizzante della cultura medievale, in un
processo di canonizzazione e cristallizzazione retorica che è divenuto il tratto peculiare della
fisionomia dei topoi invocazione alla natura, immagine del mondo alla rovescia, del locus
amoenus, le metafore del mondo come libro o della vita come teatro.
Il principio della ricorrenza, che nel caso dei topoi si coniuga alla riproduzione fortemente
stereotipata del modello, coinvolge e qualifica anche altri materiali della letteratura, ovvero i temi e
i motivi, rappresentando il segno evidente del loro radicamento all’interno della memoria collettiva.
La tematologia si colloca insomma in un crocevia strategico fatto di dinamiche letterarie e di
rapporti con l’immaginario. Ogni tema ha una doppia dimensione: quella legata a un testo specifico
(e quindi alla poetica individuale) e quella contemporaneamente trans-testuale e trans-soggettiva,
aperta alle dinamiche storico-culturali e storico-letterarie l’individuazione di una determinata
tematica all’interno di una certa classe di testi può fungere da “rivelatore ideologico”.
La ricerca tematico/strutturale doveva prevedere, oltre ad un’indagine intratestuale, anche un
approccio di natura intertestuale tramite la costituzione di “serie tematiche”, ovvero di insiemi di
testi raggruppati a partire da un tema o da un motivo e analizzati contrastivamente.
I temi letterari dunque, in quanto elementi di un immaginario diffuso e continuamente arricchito,
manifestano una polisemia costitutiva che li rende mobili, proteiformi e soggetti a una pluralità di
possibili letture interpretative.
Pare dunque evidente come una riconsiderazione dei rapporti fra tematologia e comparatismo debba
oggi necessariamente passare anche attraverso la chiarificazione delle relazioni disciplinari che
intercorrono tra le nuove prospettive critiche e la letteratura comparata: l’apporto critico e lo
stimolo teorico non possono che introdurre a dei punti di vista inediti sugli orientamenti culturali
che sono alla base dei processi di selezione, trasmissione e metamorfosi di quei cruciali “depositi”
semantici rappresentati dai miti e dai temi letterari.
I generi letterari
Una “nozione-esorcisma”
Una storia dei generi sarebbe non la storia della poesia, ma il sostrato delle situazioni e delle
intenzioni che fanno vivere la poesia e in più la renderebbero comprensibile dal punto di vista
critico lo studio del genere è una codificazione di determinati atti linguistici ricorrenti che una
società istituzionalizza in quanto funzionali alla sua ideologia. La necessità è quella di considerare
la compresenza assidua delle due entità del genere stesso: quella storica, che induce a constatare
l’esistenza di determinati generi in un certo periodo storico e quella strutturale, che ne postula
l’esistenza a partire da una teoria del discorso letterario.
Un contributo fondamentale alla ridefinizione del genere letterario è data da Introduction à
l’Architeste di Gérad Genette per Genette i generi non solo mutano in continuazione, ma non è
possibile postularne nemmeno la coincidenza con i singoli testi letterari.
È nel campo delle teorie della ricezione che si mette maggiormente a fuoco l’importanza del genere
per l’interpretazione Hans Jauss: la nozione del genere è fondamentale all’elaborazione dle
concetto stesso di ricezione, essendo quest’ultima condizionata da convenzioni ben determinate e
caratterizzanti l’orizzonte di attesa del ricevente o fruitore del messaggio letterario.
Il genere come categoria collettiva nello studio generale e comparato della letteratura
La storia dei generi letterari è una storia di lunga durata, poiché si tratta di una vittoria strutturale e
non di “eventi”, qual è viceversa quella delle opere e degli autori.
La riflessione comparatistica ha contribuito efficacemente a far luce sul pericolo che una teoria dei
generi possa condurre alla costruzione di “modelli” o autori-modello, frutto di un “pensiero
mitologico” Maria Conti, Principi della comunicazione letteraria.
Appurato che non c’è limite al numero di generi letterari, né alla loro incarnazione “canonica” in
autori esemplari, la nozione moderna di genere letterario è state declinata in varie direzioni oltre che
in quelle previste dalla teoria della comunicazione letteraria generi come veri e propri “attivatori”
della memoria culturale, in particolare il romanzo storico e la biografia.
Un’altra prospettiva degna di nota è quella che studia i caratteri della trasformazione e della
“trasgressione” dei generi.
Il tradizionale studio dei generi che ha impegnato la comparatistica nel corso del Novecento nella
forma dell’indagine delle costanti o invarianti letterarie è approdato nel migliore dei casi a una
poetica comparata: la poetica comparata si avvale sia della ricerca storica sia della riflessione
critica, fuggendo per quanto possibile ogni forma di dogmatismo grazie ad un approccio
prevalentemente induttivo relazione motivata fra un certo numero di testi.
L’altro aspetto fondamentale della poetica comparata è l’attenzione posta non tanto sul rapporto fra
autore e testo, ma fra quest’ultimo e i lettori, nonché fra i testi e i loro problemi di trasmissione.
Per quanto riguarda i generi, un caso tuttora esemplare è Comparative Poetics (1990), di Earl
Miner: questo studio mira non solo a destrutturare il carattere assoluto del sistema occidentale dei
generi alla luce di quello estremo orientale, ma anche a mostrarne il carattere intrinsecamente
storico, cioè determinato dalla scelta operata dalla tradizione critica letteraria in Occidente.
Le due dimensioni, quella intertestuale e quella transdisciplinare, insieme all’orizzonte più generale
fornito dalla consapevolezza dell’esistenza e dallo studio di altre culture e altre poetiche, possono
addirittura esaltare lo studio dei generi letterari se si arriva a vedere in questi non il mero
perpetuarsi di convenzioni, ma uno dei numerosi casi attraverso i quali proprio la dimensione
convenzionale della cultura può diventare luogo di produzione di nuove identità, riprendendo Jauss
quando fa notare che un’opera totalmente nuova non potrebbe essere né compresa né valutata.
La letteratura e le arti
Qualche esemplificazione
La letteratura di viaggio è un campo di ricerca principe del metodo comparatistico, come lo è lo
studio dei temi e dei miti. È di certo possibile analizzare problemi relativi a queste vaste aree di
ricerca restando confinati nello specifico letterario: ma ampliando lo sguardo a ciò che altre arti
hanno espresso si arriverà a ricavare una panoramica più ampia e completa. D’altro canto tali analisi
diranno molte cose sulle maniere in cui la letteratura interagisce con le altre arti studiare il
rapporto tra letteratura e altre arti vuol dire studiare allo stesso tempo i modi in cui il rapporto si
crea e i fatti che lo determinano e che a loro volta ne sono determinati (distinguere questi due aspetti
è possibile solo in via astratta, poiché nella pratica essi sono intrecciati in modo non distinguibile).
• In che modo la letteratura parla alle altre arti: in che modo le altre arti forniscono materiale
alla letteratura
Le arti figurative, o la musica, possono essere l’oggetto della letteratura Ode on a Grecian Urn di
Keats, Doktor Faust di Mann, ecc.
Esiste anche una categoria di opere letterarie in cui l’arte figurativa o musicale, più che esserne
oggetto, ne costituisce l’ossatura.
• In che modo le altre arti parlano della letteratura: in che modo la letteratura fornisce
materiali alle altre arti
Quest’area di ricerca è nel contempo il rovesciamento e il prolungamento dell’area precedente.
La letteratura può essere l’oggetto di altre arti, come nei casi dell’iconografia sacra tratta dagli
episodi della Bibbia.
Le arti che comunque hanno avuto più strettamente e organicamente rapporti con la letteratura sono
essenzialmente la musica e il cinema: la musica può rifarsi direttamente alla letteratura “rivestendo”
di note un testo poetico più che di traduzione qui si può parlare di sovrapposizione di forme e
strutture.
Nella storia della cultura è capitato spesso che poeta e compositore di musica fossero una sola
persona: nella Grecia classica, oppure nella Francia e nella Germania nel XIII secolo. Si è pure
verificato che si sia costituita una pratica letteraria ad hoc per la musica Pietro Metastasio.
I rapporti fra letteratura e cinema sono forse anche più complessi e più stretti rispetto a quelli di
letteratura e musica, anche se in un certo senso più indiretto: a differenza della musica, non è
possibile per il cinema impadronirsi di un testo letterario in maniera completa, ma è sempre
necessaria un’opera di intermediazione e traduzione, operata dalla sceneggiatura.
• I talenti plurimi
A questo punto si possono anche indicare alcune personalità artistiche che si sono espresse
attraverso più codici comunicativi Leopardi, Michelangelo, Pasolini.
• Le poetiche
Il rapporto fra la letteratura e le altre arti può manifestarsi anche a livello di programmi e intenzioni
estetiche: in uno stesso periodo storico arti diverse possono essere manifestazioni di poetiche simili
o addirittura identiche.
• Il problema delle periodizzazioni
Molto più spesso è capitato che le arti seguissero percorsi diversi fra loro. Il caso più eclatante è
quello del Romanticismo. Talvolta è capitato anche che l’ambito di una categoria storica, pensata su
misura per una data arte, venisse ampliato tanto da poterne includere un’altra, come è accaduto per
il concetto di Barocco.
• Procedimenti costruttivi
Un’arte può tentare, talvolta con successo, di imitare i procedimenti costruttivi di un’altra arte
flusso di coscienza, monologo interiore.
• Temi, motivi e miti
Il modo migliore di affrontare lo studio di temi, motivi e miti letterari è di non restare confinati
nell’ambito della letteratura.
Avrebbe ad esempio poco senso studiare il mito di Orfeo prescindendo dai molti melodrammi o
dalle centinaia di rielaborazioni pittoriche a lui dedicate, o studiare il tema del Don Giovanni senza
parlare dell’opera di Mozart che lo ha esaltato e definitivamente consolidato.
• La teoria delle arti
Rimane da indicate un ultimo ambito di studio: la teoria delle arti, e precisamente quella parte che
ripercorre i modi in cui le singole arti si sono, nel corso dei secoli, costituite come tali in che modo
si sono manifestati nel corso dei secoli i rapporti fra le arti? E soprattutto, fra quali arti?
• Qualche esempio di analisi strutturale
Il più valido metodo di comparazione delle arti è fondato sull’analisi delle vere e proprie opere
d’arte, e quindi sulle loro relazioni strutturali Theory of Literature. Non si tratta ovviamente
dell’unico metodo di analisi, ma è certamente quello che ha il pregio di mostrare nel modo più
chiaro come due o più arti possono tenersi fra loro nella lunga storia di coesione, separazione,
riavvicinamento, trasposizione, ecc.
Per esemplificazioni pratiche si possono scegliere quelle di un’opera creata attraversa
l’utilizzazione integrale di un’opera d’arte preesistente. Presupposto essenziale sarà inoltre che le
due opere appartengano ad ambiti artistici diversi, che la seconda inglobi completamente la prima.
A queste condizioni risponde in realtà nella pratica tutta la musica composta su un testo scritto in
precedenza quando un musicista si accosta ad un testo letterario, sovrappone alla struttura poetica
una seconda struttura musicale, che interagisce con la prima esempio dell’Erlkönig di Schubert e
di quello di Loewe, basati sul testo di Goethe.
I viaggi e la letteratura
Come si può classificare la letteratura di viaggio, che va da opere come i Diari di Cristoforo
Colombo, le Lettere di Vespucci, fino a Robinson Crusoe di Defoe o ai libri di Chatwin?
La prima difficoltà da affrontare è quella della definizione stessa del termine “viaggio”, se sia da
intendere solo in senso reale o anche allegorico o metaforico per aver diritto di entrare a far parte
del genere della letteratura di viaggio, il che è un problema di non facile soluzione.
Una prima considerazione da fare è che la letteratura di viaggio è un genere mutevole, che si
sovrappone ad altri generi, con i quali condivide una frontiera in continuo movimento.
D’altra parte la letteratura di viaggio può rivendicare a pieno titolo la propria partecipazione alla
fondazione di nuove discipline dalle relazioni di viaggio cinquecentesche derivano le moderne
sociologia ed etnografia. Addirittura le scienze naturali e la storia additano i loro fondatori a Plinio
ed Erodoto.
La letteratura di viaggio è per sua natura abituata a valicare confini. Anzi, è proprio questo il suo
promo carattere.
Si andrà alla ricerca soprattutto di ciò che rappresenta il momento privilegiato del testo di viaggio,
cioè l’incontro con l’altro e l’altrove.
Dal momento che la letteratura di viaggi sconfina e si sovrappone con l’etnografia, la letteratura
scientifica, la geografia, le scienze sociali, ecc., è comunque interessante valutarla come genere non
specialistico, nel senso che accoglie opere di autori di ogni estrazione ideologica e con interessi e
specializzazioni diversi.
La letteratura di viaggio è una letteratura internazionale, e proprio per il fatto di essere spesso
adiacente ad altri generi ai quali anche si sovrappone, si presta ad essere studiata con strumenti
comparativi.
Al contrario dello studio letterario più recente, la vecchia comparatistica di ispirazione positivista
era perlopiù interessata ad analizzare i rapporti reali e documentabili che intercorrevano fra le
diverse culture e i diversi autori si cercava cioè di ricostruire la storia di un’opera letteraria,
collocandola all’interno di una gerarchia e istituendo canoni di autori primari e autori secondari.
Solo negli ultimi vent’anni i testi di viaggio sono stati inseriti nell’insieme più generale dei testi
culturali.
In una simile prospettiva, lo studio della letteratura di viaggio si troverà a lavorare a fianco di altri
campi di ricerca:
o con gli studi posto coloniali, quando in un testo di viaggio la descrizione dell’altro e
dell’altrove sia stata strumento funzionale all’ideologia dominante
o con i gender studies, visto che la scrittura di viaggio è la traduzione letteraria di
un’esperienza ritenuta, fin dalle sue origini mitologiche, prerogativa maschile, mentre la
produzione dell’Ottocento e del Novecento ha messo in discussione fortemente questa
prerogativa
o con l’imagologia, perché le opere in questione sono proprio quelle che per elezione
forniscono immagini di luoghi e popoli
o con gli studi sul genere letterario, visto che la letteratura di viaggio è per definizione un
genere di frontiera
o con lo studio delle identità nazionali, perché mostra come le culture siano rappresentate e
definite non solo dall’esterno, ma anche dal loro interno
o con il genere della letteratura della migrazione, vale a dire la letteratura del viaggio verso di
noi, intesi come diversi
Si cercheranno allora, attraverso la comparazione e il dialogo fra testi lontani, alcune persistenze a
livello tematico per avviare un dialogo interno fra questi testi.
Il viaggio è finito
Già dagli inizi del XX secolo nessun luogo era ormai abbastanza lontano, e quelli che ancora
richiedevano spirito d’avventura e intraprendenza per essere raggiunti si rivelavano infine troppo
simili al punto di partenza.
Una condanna simile viene estesa da Lévi-Strauss anche alla letteratura di viaggio, capace solo a
suo parere di propagandare luoghi comuni e di sostituire con rozze mediazioni l’esperienza diretta.
Se oggi qualsiasi luogo è tanto vicino e così poco imprevedibile da non offrire più una meta
prestigiosa ed esclusiva per potersi fregiare del titolo di “viaggiatore”, si deve allora ripiegare sulla
quantità e visitare più luoghi possibili.
Ma se è vero che viaggiare non è più possibile, allora che cos’è che rende possibile scrivere un
viaggio, immaginarlo e leggerlo? In altri termini, che cosa comunica di tanto prezioso il racconto di
un viaggio, che il viaggio reale non riesce neppure a evocare?
In realtà la godibilità letteraria è dovuta a un sapiente dosaggio di aneddoti e divagazioni.
Il viaggiatore-scrittore si muove così in una geografia parallela in cui i luoghi non esauriscono il
loro significato all’interno di uno stereotipo, ma diventano mete parziali correlate tra di loro, unite
da una trama di nessi più o meno fitta a seconda della curiosità e della sensibilità di chi la percorre.
L’invenzione sociale che ha preservato i viaggiatori dall’imprevisto e li ha trasformati in turisti,
sottraendogli il piacere della vera scoperta, è la “vacanza” (parola che è l’ambiguo significato di
riposo e vuoto): intorno al tempo prestabilito della vacanze si è creata l’industria del turismo.
A organizzare le prime gite turistiche fu l’agenzia inglese di Thomas Cook, che avrebbe poi
registrato un successo e un’espansione su scala mondiale si assiste a una vera e propria svolta
ideologica nella concezione del viaggio, che diventa merce.
Prima del turismo c’erano stati i viaggi, e prima dei viaggi le esplorazioni. Le tre figure di questa
periodizzazione storica sono così diverse da riassumere vere e proprie categorie antropologiche, di
uomini il cui spostamento ha finalità del tutto differenti infatti il viaggio di vacanza ha successo
solo quando il programma è rispettato in ogni dettaglio, ovvero quando neutralizza ogni possibilità
di imprevisto.
L’ospitalità diventa quindi elemento fondamentale, e si situa all’estremità finale del percorso
compiuto: è l’etica dell’incontro come perfetto rovesciamento del rito di iniziazione del viaggio
nel Grand Tour, dove il giovane viene portato temporaneamente fuori dalla comunità per poi farne
ritorno, arricchito dall’incontro con la diversità, nell’istituto dell’ospitalità è lo straniero che viene
accolto dentro a una comunità, e sarà proprio la sua diversità a fecondare e rafforzare la comunità
chiusa
Del resto la parola ospita conserva una certa ambiguità semantica, che rende difficile distinguere
“colui che riceve” da “colui che è ricevuto” ambiguità che si ripropone sul piano della letteratura
di viaggio tra scrittore e lettore.
La traduzione letteraria
Le definizioni più ricorrenti per questa disciplina sono quelle di traduttologia e di translation
studies.
In questo panorama, l’attenzione nel nostro caso si deve circoscrivere alla traduzione letteraria e al
suo rapporto con la letteratura comparata, riconoscendo alle due discipline sopraccitate il ruolo
nell’evidenziare la funzione culturale svolta dalla traduzione intesa come processo, come atto
dinamico che comporta una serie di conseguenze e che supera definitivamente la prospettiva che la
vedeva semplicemente come un prodotto.
Il pregiudizio sulla traduzione si è protratto fino ad oggi, negandole non solo ogni statuto d’opera
d’arte, ma negando perfino l’identità del traduttore. La conseguenza di un simile atteggiamento
protratto per secoli ha prodotto l’effetto di mancata consapevolezza dell’atto della traduzione che si
celava in realtà in ogni processo di scambio e di comunicazione.
Superato ormai il concetto dualistico e oppositivo di opera originale e di traduzione, si preferisce
parlare dell’opera prodotta come di un prodotto culturale originale che ha preso spunto, senza
dubbio, da un testo di partenza, per segnalare tuttavia in seguito la propria alterità portatrice di un
valore originario e allo stesso tempo di un valore autonomo.
L’idea della traduzione come atto fondativo della trasmissione culturale e dello scambio è quella
che ci consente di guardare alle storie letterarie da una diversa prospettiva, di riconsiderare
l’apporto delle letterature straniere tradotte all’interno del panorama delle produzioni nazionali.
La traduzione va intesa dunque come opera e atto culturale, all’interno del fenomeno del passaggio
da una letteratura e da una cultura all’altra che viene assunto oggi nel suo carattere globale.
Il nome e la cosa
Cicerone designava come interpretes il traduttore orale, la cui traduzione corrisponde oggi a quella
che definiremmo letterale. Ciò che interessa Cicerone non è però questa prospettiva limitata alla
semplice elocutio, quanto l’intera compositio non solo la semplice traduzione, ma anche un
processo di assimilazione di “latinizzazione” dell’espressione e del contenuto originali, attraverso
l’adeguamento della cultura greca a quella romana. Cicerone introduce qui l’idea di traduzione
intesa come resa del testo nella pienezza di dominio dell’intera composizione, della sua cifra
espressiva all’articolazione del periodo e all’armonizzazione del contenuto.
Le parole di Cicerone verranno riprese e confermate da Orazio e in seguito da San Girolamo
(Vulgata).
Nel tardo latino, converto sarà soppiantato da transfero: l’importanza di tale percorso, aprendo la
riflessione sulla traduzione al panorama europeo, risiede nel superamento della concezione
medievale prevalentemente didattica e strumentale, e nell’affermarsi una visione umanistica della
pratica del tradurre, resa maggiormente autonoma e “creativa” in quanto segno di un “passaggio”
linguistico, ma anche dell’intervento individuale e originale.
La traduzione acquista dunque fra Trecento e Quattrocento quelle caratteristiche essenziali al suo
riconoscimento come attività autonoma sulle quali si fonderà tutta la successiva riflessione teorica.
La lunga questione intorno al “nome” della traduzione anticipa la complessità della questione
intorno alla “cosa” stessa, vale a dire alla vera essenza dell’atto del tradurre.
Nel 1959 Roman Jakobson ha distinto fra tre modi di interpretazione di un segno linguistico: la
traduzione “endolinguistica” o “riformulazione”; la traduzione “interlinguistica” o “traduzione
propriamente detta” e quella “intersemiotica” o “trasmutazione”. Il primo tipo, la traduzione
endolinguistica, in cui includiamo la parafrasi, traduce un termine includendone un altro, più o
meno sinonimo.
La traduzione interlinguistica consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di
un’altra lingua.
La traduzione intersemiotica consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi
di segni non linguistici, implicando un cambiamento di codici, vale a dire di linguaggi.
Al di là delle distinzioni interne riconosciute da Jakobson, esistono numerosi termini che
distinguono la traduzione ponendola in relazione con altre forme di scrittura versione, imitazione
(o traduzione libera, che prevede l’intervento creativo dell’autore), riscrittura, adattamento e
trasposizione (che interessano maggiormente le traduzioni intersemiotiche).
Fedeltà o bellezza?
Le prospettive contemporanee degli studi sulla traduzione concordano nel superamento della
concezione dualistica secondo cui la traduzione dovrebbe essere, rispetto all’originale, fedele o
infedele, letterale o libera.
L’idea di fedeltà in traduzione si lega al predominio della resa letterale, parola per parola, e alla
particolare attenzione pedagogica che tende a dare alla traduzione un carattere informativo più che
creativo un esempio può essere tratto dalla Bibbia, che porta attenzione specifica al Verbum Dei;
solo nell’epoca della Riforma e con la traduzione della Bibbia in lingua tedesca fatta da Lutero nel
XVI secolo è stato possibile trasporre il testo sacro in un diverso idioma reso comprensibile al
popolo.
L’idea di infedeltà della traduzione si lega invece a un’interpretazione del testo che non tiene conto
della realtà storica, culturale e linguistica da cui l’opera proviene, ma la proietta direttamente nella
cultura d’arrivo fino all’Ottocento gli eroi omerici continuarono a darsi del “Lei” invece che del
“tu” originario, per conformità al ruolo di principi e nobili; con il Romanticismo il principio di
fedeltà/infedeltà sarà negato in nome della tendenza ad attribuire maggiore importanza ai
nazionalismi e dunque a distinguere in maniera più definita i prodotti culturali propri di una data
nazione da quelli appartenenti a culture straeiere.
Parlare di fedeltà o infedeltà, di maggiore o minore bellezza rispetto a queste traduzioni non
costituirebbe un criterio sufficiente a svelarne l’essenza né la prospettiva culturale da cui sono
scaturite e a cui sono rivolte, vale a dire quelle che vengono definite le condizioni della traduzione.
Un’analisi singola o comparata dovrebbe piuttosto tenere in considerazione tali condizioni, e
operando una serie di osservazioni spaziare in molteplici direzioni: soffermarsi sulle peculiarità
linguistiche e lessicali, osservare il mantenimento o meno della struttura metrica originale,
considerare il pubblico al quale la traduzione è destinata, mettere in rilievo il prestigio del testo che
viene tradotto, considerare l’eventuale prestigio del traduttore.
Solo considerando l’opera tradotta in modo dinamico verrà negato ogni valore alla dialettica tra
fedeltà e infedeltà per approdare piuttosto ad un’idea di traduzione che si fonda sul “movimento del
linguaggio”. Quest’idea prevede a sua volta l’unità dialettica di forma e contenuto e mette l’opera
tradotta in relazione, da una parte, al suo orizzonte d’attesa, e dall’altra all’idea di traduzione come
comprensione.
Si tratta di una concezione dinamica che ci permette di sfuggire definitivamente, o quasi, da ogni
visione normativa, dualistica o generalmente rigida della traduzione e dello studio dell’opera
tradotta per ribadire la necessità del confronto con la prospettiva storica e con il singolo, originale
rapporto di ogni traduttore non c’è la traduzione, ma le traduzioni.
Imitazione ed esportazione
La prospettiva dello studio comparatistico rispetto alle idee di nazione, lingua e cultura è quella di
considerarle come delle entità dinamiche. La coincidenza fra i termini è labile, in una situazione di
multilinguismo in una stessa nazione e di multiculturalità in una stessa lingua.
Possiamo riconoscere nel dialogo che si instaura fra i diversi termini il luogo della traduzione.
La tradizionale prospettiva nazionalistica ha portato al predominio di modelli storiografici e di
criteri di periodizzazione basati su un’unica letteratura dominante.
La coincidenza troppo frequente dell’idea di una letteratura con quella di una struttura politica e
geografica (una nazione), ha finto per considerare anche la lingua propria dell’area culturale come
predominante, perdendo di vista non solo le opere degli scrittori che non si conformavano a tale
lingua, ma anche il ruolo svolto dalle opere tradotte.
Il riconoscimento dell’importanza della traduzione si lega dunque all’acquisizione della rinuncia
dell’idea che possano esistere società monolingue, insieme alla rinuncia di una visione
imperialistica di culture dominanti e di lingue di maggiore o minore prestigio.
Una mappatura della letteratura, proposta da Lambert, che non consiste in una giustapposizione o
accumulazione di monografie nazionaliste, vorrebbe studiare i fenomeni letterari su scala mondiale,
implicando necessariamente l’idea della letteratura come insieme dinamico, in continuo mutamento
proprio a causa dei meccanismi di scambio, importazione ed esportazione che si verificano tramite
le traduzioni idea del polisistema letterario inaugurata da Itamar Even-Zohar.
Even-Zohar identifica la letteratura tradotta all’interno di un polisistema dato come portatrice di
un’attività primaria legata ad un principio di innovazione. Questo vuol dire riconoscere alla
letteratura tradotta un ruolo attivo addirittura nella modellizzazione del centro del polisistema.
Eliminando la separazione fra opere originali e opere tradotte è possibile superare i limiti e le
immobilità di un sistema costituito e riconoscere nelle opere tradotte una nuova forza che si è
configurata tramite l’importazione di generi letterati, temi e motivi, linguaggi e tecniche espressive,
ma anche di ideologie, prospettive politiche, ecc.
Le traduzioni svolgono dunque secondo Even-Zohar un ruolo innovativo all’interno di una cultura
data, in particolare quando si verificano le condizioni relative a tre casi principali: quando un
polisistema non è ancora cristallizzato, e cioè una letteratura è “giovane”, in fase di formazione;
quando una letteratura è “periferica” e “debole”; quando ci sono punti di svolta, crisi o vuoti di una
letteratura.
Nel primo caso le opere tradotte permettono ad una letteratura “giovane” di acquisire facilmente dei
modelli, dei tipi su cui modellarsi; questo vale anche per il secondo caso, nel quale però si può
verificare una forma di dipendenza nei confronti delle letterature canonizzate e gerarchicamente
riconosciute come dominanti, con la conseguenza di tendere più ad un effetto di imitazione che allo
sviluppo di potenzialità creative autonome; nel terzo caso la traduzione può assumere un ruolo
centrale e di spunto creativo andandosi ad insinuare nelle zone di “vuoto” letterario (un esempio di
letteratura in stato di crisi è quello dell’Italia durante il fascismo, dove le traduzioni apparivano
come veri e propri “strumenti di liberazione”, e fonti inesauribili di modelli letterari).
Un approccio come quello proposto da Even-Zohar permette dunque di porsi alcune precise
questioni: quale sistema culturale traduce? In quali momenti storici? Quali effetti producono le
traduzioni sul sistema di arrivo e quali funzioni vi ricoprono? Chi sono i traduttori? Qual è il cirterio
di selezione dei tesi? Quali sono le opere che non vengono tradotte e per quali motivi?
Un esempio di lettura
Un esempio interessante che aiuta a comprendere il modo in cui oggi sia possibile analizzare un
testo dal punto di vista della traduzione è quello fornito dai due racconti di Iginio Tarchetti, Il
mortale immortale (dall’inglese) e la sua ripubblicazione con il titolo L’elisir dell’immortalità
(imitazione dall’inglese) si tratta in realtà di un plagio da Mary Shelley, una traduzione invisibile
fatta passare per originale, ma interessante è l’analisi testuale che, confrontando il testo italiano
all’inglese, scopre le ingerenze di Tarchetti nei confronti di Mary Shelley, le sue modifiche, le sue
soppressioni, aggiunte al testo e le manipolazioni. Quello che più interessa capire è la funzione che
la traduzione ricopre.
La scelta del traduttore/autore Tarchetti si rivolge verso un genere letterario, il fantastico, ancora
poco frequentato nella letteratura italiana ottocentesca.
Il racconto gotico di Mary Shelley, presentato come produzione propria, rappresentava una scelta
strategica determinante possibilità di dare inizio tramite l’appropriazione di testi stranieri ad un
nuovo canone italiano.
Dal punto di vista linguistico Tarchetti operava una “deterritorializzazione” interna alla stessa
lingua italiana, serve dosi del linguaggio manzoniano per stravolgere il discorso narrativo
dominante conducendolo decisamente verso il fantastico in un periodo in cui le traduzioni italiane
di romanzi fantastici stranieri era ridotta a pochissimi titoli, Tarchetti irrompeva sul panorama
letterario minandolo dall’interno e destabilizzando il modello borghese egemone.
La traduzione di Tarchetti rappresenta un esempio significativo della relazione esistente fra i testi,
della migrazione di temi e generi letterari fra culture differenti, nonché dell’impiego destabilizzante
del potere della traduzione e delle sue ripercussioni sulla realtà culturale esistente mediante il
plagio si annulla la condizione di secondo grado di testo tradotto presentandolo come primo
racconto gotico scritto nell’italiano del registro realistico più diffuso.
Il punto di partenza e l’interesse essenziale della letteratura comparata è dato dall’incontro con
l’“altro”, con i testi letterari stranieri e le culture diverse dalla nostra e tra loro.
Ricollegandosi a questo obiettivo centrale della letteratura comparata, l’imagologia letteraria può
essere intesa come una delle forme di indagine più “concrete” dell’approccio con l’alterità. Un’altra
modalità d’indagine, sviluppatasi in tempi molto recenti, è quella degli studi interculturali, i quali si
occupano delle analogie, delle differenze e dei rapporti tra i diversi grandi sistemi culturali,
aiutando a interpretare la portata civile dei testi letterari, e a vedere il mondo nel modo più ampio
possibile.
Le origini dell’imagologia
Le principali correnti imago logiche europee che possiamo designare come vere e proprie “scuole”
sono due: quella sviluppatasi tra gli anni sessanta-settanta intorno alla figura di Hugo Dyserinck,
nota come “scuola di Aquisgrana”, e quella nata negli anni settanta dietro l’impulso del francese
Daniel-Henry Pageaux.
Per entrambe le “scuole” è di fondamentale importanza la presa di distanza dai presupposti teorici
della tradizionale imagologia positivista.
Fino alla metà del Novecento e per tutto l’Ottocento, sull’imagologia tradizionale gravava l’eredità
positivista, e l’interesse dei comparatisti era dunque guidato da una concezione deterministica dei
caratteri nazionali.
La prospettiva sovranazionale e la mentalità cosmopolitica dei comparatisti della nuova stagione
iniziarono a mettere in atto, posero le prime, seppur fragili, basi che avrebbero permesso di
innestare nella ricerca imago logica delle finalità etico-politiche, come la sempre più ribadita
esigenza di contribuire alla migliore intesa fra i popoli.
L’indicazione di ampliare le ricerche sull’aspetto delle relazioni spirituali tra le nazioni e le loro
letterature è stata generalmente interpretata come l’inizio dell’imagologia.
L’imagologia di scuola francese di venne però a trovare in crisi, a causa delle critiche mosse dalla
cultura nordamericana, e specialmente da Wellek.
La scuola di Aquisgrana ha partecipato intensamente negli ultimi anni alla discussione intorno alle
problematiche connesse al concetto di identità nazionale, dibattito indirizzato a chiarire come la
nazione sia un “mito”, nato con la modernità e realizzato dalle intellighenzie dei vari paesi, e come
sia errato pensarla secondo criteri teleologici, ossia come una realizzazione finale della storia. Il
contributo della letteratura al processo di formazione di identità nazionale o collettiva sarebbe
quello di creare un discorso unificante nazione come “comunità immaginata”.
Il significato della letteratura in questo contesto si illumina ulteriormente se si prende in
considerazione la tesi che il principale lavoro di “identificazione” etnica e nazionale sia svolto
sempre dagli altri. Può avvenire infatti che una comunità si identifichi nell’immagine, negativa o
positiva che sia, che ne hanno sviluppato i suoi vicini, ossia che essa si appropri di un’eteroimage
per trasformarla in un’autoimage.
Dyserinck è convinto che la letteratura comparata sia una “disciplina europea”: a suo avviso, questa
prospettiva di studi è in grado come nessun altro di contribuire alla comprensione e alla soluzione di
quelle problematiche che nascono dalla configurazione multinazionale dell’Europa e sulle quali la
letteratura ha inciso grandemente. Una posizione tuttavia, che di fronte all’emergere di scuola
comparatistiche extraeuropee non sembra più così facilmente sostenibile.
Lasciando per un momento da parte la questione della “portata europea” dell’imagologia nella
definizione assegnatale dalla scuola di Aquisgrana, sarà utile chiarire ulteriormente quale sia
l’effetto che le images letterarie possono avere sulla realtà e sulla vita pratica: sebbene il lettore
adulto e “normale” sappia distinguere tra realtà e finzione, la forza suggestiva della letteratura
farebbe comunque sé che egli sia portato a fare propri i giudizi che essa veicola, specialmente se si
tratta di giudizi e descrizioni apparentemente oggetti di altri luoghi e popoli.
A proposito della pretesa di verità implicita nelle images e del loro statuto all’interno dell’opera
letteraria, è stato definito il concetto di “imagotipia” siamo ovviamente a concezioni teoriche
elaborate ancora in un orizzonte coincidente quasi esclusivamente con le letterature europee e la
rappresentazione stereotipata di varie popolazioni, ma questo discorso potrebbe essere applicato
anche a temi interculturali come quello dell’incidenza della “letteratura coloniale” e sul discorso e
sull’azione imperialistica da parte di ex potenze “imperiali” come l’Inghilterra e la Francia.
Sebbene non privi di interesse in questa direzione, gli studiosi di Aquisgrana hanno preferito
concentrarsi sul contesto europeo l’Europa è loro considerata come un laboratorio.
Rimane però da chiedersi se sia possibile escludere in partenza dallo studio intorno all’identità
europea l’immagine che della nostra cultura si sono creati gli altri popoli, soprattutto quelli che in
passato sono stati colonizzati e che oggi subiscono in molti casi la dipendenza economica dalla
vecchia “madrepatria” europea. O se, viceversa, si possa prescindere dal rimando al mondo
extraeuropeo presente nell’esotismo o nel mito del “buon selvaggio”, dei discorsi attraverso i quali
la cultura europea ha costruito un immaginario “altro” e un fantastico altrove, formando e
inventando in questa maniera nel corso dei secoli la propria identità, a discapito e predeterminando
quella altrui.
Come Hugo Dyserink, anche il principale fautore dell’imagologia in ambito francese, Pageaux, ha
apportato diverse modifiche all’impostazione originaria di queste ricerche, attingendo per la propria
riformulazione teorica in particolare ai metodi della storia delle mentalità, dell’antropologia e della
semiologia e avvicinandosi alla cosiddetta “storia delle idee”.
Per quanto riguarda i campi d’indagine da lui individuati, vi è una sostanziale coerenza rispetto
all’imagologia tradizionale, espressa nell’interesse per la letteratura di viaggio e per lo studio
imagologico delle ricezioni.
Agli occhi di Pageaux, la saggistica sulle letterature straniere va dunque studiata nella prospettiva
del suo carattere di “rappresentazione”.
Un ulteriore campo elettivo per lo studio di testi imago tipici è quello della così detta
“paraletteratua”, la cui importanza sarebbe data secondo Pageaux sia dal suo carattere popolare e di
“massa”, sia dall’utilizzazione particolare di stereotipi su altri paesi e sul proprio. In entrambi i casi
essi agiscono in modo tale da accentuare il processo di identificazione del lettore con i personaggi
fittizi, identificazione che lo lega agli altri lettori e omogeneizza un pubblico nazionale Asterix.
Nella versione imagologica sviluppata da Pageaux, il “mito” rappresenta una delle forme che
images e autoimages possono assumere all’interno del testo letterario: si tratta in entrambi i casi di
linguaggi simbolici tramite i quali lo scrittore, la società e la cultura si esprimono a proposito di sé e
degli altri. Lo stesso vale per lo stereotipo, che eleva un singolo elemento a essenza di un fenomeno.
Tra questo e il mito sussiste una stretta connessione, visto che lo stereotipo può essere virtualmente
un mito, e il mito può dare origine a una serie di stereotipi.
Il funzionamento del mito è analogo a quello dell’ideologia: proietta valori collettivamente
riconosciuti con la funzione sostanziale di “unificare il gruppo”.
Nel testo imago tipico si realizza dunque una delle tre possibili rappresentazione dell’“altro”,
attraverso le quali si stabilisce una gerarchia fra la propria cultura e quella straniera si tratta in
sostanza di attitudini mentali classificabili come mania, fobia, filia (solo quest’ultima è in grado di
instaurare una relazione paritaria fra noi e gli altri).
Lo studio imagologico messo a punto da Pageaux si profila dunque come analisi culturale, la quale,
partendo dal testo letterario, individua come proprio oggetto l’imagerie dell’altro.
Non si tratta quindi, come per gli esponenti di Aquisgrana, di mettere in luce delle singole “strutture
imagotipiche” che fanno capo a determinati autori e testi letterari, bensì di raccogliere una serie di
elementi i quali compongono una “scrittura dell’alterità” di una società e di un’epoca, con lo scopo
di ricomporli in una “storia dell’immaginario” l’interesse è quello di scoprire non solo le
immagini usate per la scrittura, ma anche quelle usate nell’agire, nel pensare, ecc.
A partire da questo principio, Pageaux ha messo a punto un procedimento semiotico-strutturale che
si articola in diverse fasi e che ha l’obiettivo di rendere espliciti i materiali e le forme attraverso i
quali si viene a costruire un’image.
La prima consiste nell’analisi semiotica del testo: ricorrenza di determinate parole chiave ed
espressioni costituenti il materiale lessicale delle images.
Con la seconda fase si passa ad un’analisi semantico-strutturale finalizzata a mettere in luce i
meccanismi attraverso i quali lo scrittore ha attuato determinate scelte linguistiche: il materiale
lessicale impiegato risponderebbe ai due quesiti di “differenziazione dall’altro” e “assimilazione
all’altro” questa seconda fase non può fermarsi all’analisi testuale, ma trova un complemento in
quella storica.
Per quanto riguarda la terza tappa, Pageaux si ispira ai modelli dell’antropologia culturale: alla luce
dell’antropologia, l’approccio imagologico al testo si propone come analisi del “sistema di
qualificazione differenziale” (ovvero l’analisi delle “grandi opposizioni” che strutturano il testo e le
principali unità tematiche) a questo livello l’image assumerebbe la forma di “scenario”,
presentandosi come il risultato di uno sviluppo tematico-narrativo definito come una sequenza di
scene che può coincidere con l’intero testo imago tipico.
Da questo breve riassunto si vede come lo strumentario metodologico della scuola di Pageauz è
estremamente sofisticato e richiede una buona conoscenza di molte discipline.
Dopo essersi per anni concentrato su studi intraculturali (letteratura e cultura francese, spagnola,
portoghese), egli si è dedicato ai rapporti letterari interculturali, in particolare fra la cultura
latinoamericana e quella francese.
Sembra anche in crescita l’interesse per i problemi imago logici sollevati dal colonialismo:
attraverso questa prospettiva, l’imagologia appare uno strumento eccellente per l’acquisizione
critica delle pratiche culturali e dei processi mentali di “noi” europei, permettendo così un
ripensamento e una collocazione cosciente da parte dello studioso nella propria cultura di
appartenenza.
Con quest’ultimo passaggio ci si trova di fronte a una specie di bivio che collega l’imagologia
attuale con gli studi postcoloniali e con quelli interculturali.
Aspetti imago logici e imago tipici degli studi postcoloniali
La questione dell’identità e quella dell’immaginazione letteraria e culturale dell’alterità occupa una
posizione centrale anche negli studi postcoloniali.
A cominciare da Orientalism (1978) di Edward Said, essi si propongono, in una pluralità di
approcci, di mettere in luce l’egemonia culturale dell’immaginario europeo e i caratteri specifici
delle letterature postcoloniali tese a dar voce a delle identità proprio attraverso un confronto
conflittuale con l’Europa.
Analizzando il ruolo che la letteratura svolge nella rappresentazione dei popoli extraeuropei,
oltreché la sua funzione di “narrare” la propria nazione, gli studiosi posto coloniali hanno messo a
punto strumenti critici e metodologie attingendo alle correnti filosofiche europee più recenti, ma
distinguendosi per l’originalità e per la comune critica all’eurocentrismo.
Sono molteplici gli elementi che spesso permettono di parlare delle ricerche postcoloniali come
esempi di imagologia interculturale extraeuropea la visione europea mediorientale tende ad
assumere il carattere di una vera e propria “invenzione” (Orientalism): potere politico, istituzioni e
studi scientifico-accademici, nonché letteratura hanno collaborato per diversi secoli alla creazione
discorsiva di un’immagine dell’Oriente come “altro” al fine di giustificarne il dominio (vedi autori
come Kipling, Conrad, Dickens).
Nonostante i parallelismi lampanti con l’impostazione teoriche di Dyserinck e di Pageaux,
l’imagologia europea non ha finora riconosciuto in sé gli elementi che la avvicinano alla teoria
postcoloniale.
La teoria postcoloniale si divide al suo interno in diverse correnti. Il modello dell’ibridismo
culturale è particolarmente adatto a illuminare ulteriormente da una prospettiva mondiale il campo
degli studi imago logici. Esso trova il suo riscontro nei modelli del meticciato e della
creolizzazione.
Sul piano teorico, è evidente che la stessa idea di un’identità culturale ibrida si viene a contrapporre
all’idea, centrale per l’imagologia, di un’identità dialettico-differenziale, originata cioè dal continuo
confronto fra “noi” e “gli altri”. Tuttavia, sebbene la figura del meticciato sia stata sviluppata sulla
base di un’esperienza culturale extraeuropea, è possibile applicarla anche alla cultura del nostro
continente, dando così rilievo, oltre che alle realtà culturali delle grandi metropoli, alla mescolanza
tra le varie componenti che sono alla base sia delle singole culture nazionali, sia della stessa nostra
civiltà.
Il modello del meticciato rappresenta così un’alternativa a quello della reciprocità dialettica tra
identità e alterità.
Una corrente postcoloniale nella cui produzione critica e letteraria prevalgono gli elementi
imagotipici, è quella del “nativismo”, che vuole intervenire direttamente sulla costituzione di
un’identità culturale, in questo caso africana, i cui autori principali insistono sulla necessità di
rivalutare le espressioni proprie delle origini culturali africane.
Questa posizione si basa sull’idea dell’esistenza di una specificità “nera”, riscoperta nella storia e
nelle tradizione dell’Africa e contrapposta a quella “bianca”: una concezione, potremmo dire,
“essenzialista”, molto discussa e in parte contestata da studiosi dello stesso continente, che può
essere collegata alle poetiche anticolonialiste della prima metà del Novecento, le quali opponevano
all’idea della superiorità europea, quella antitetica dell’originalità della cultura africana: la più nota
di esse è la négritude.
È senz’altro possibile dire che, così come il movimento della négritude ha avuto una notevole
importanza nell’avviamento al processo di auto definizione da parte di culture che troppo a lungo
sono state esoticizzate o collocate al di fuori della storia del pensiero europeo, il significato della
corrente “essenzialista” degli studi postcoloniali consiste soprattutto nella ricostruzione e narrazione
di un’identità perduta. Tuttavia non è da sottovalutare il pericolo inerente a un atteggiamento che,
pur valorizzando la propria cultura, sostenendo la sua unicità e intraducibilità, finisce con l’isolarla,
tendendo ad escludere la via del colloquio tra le culture.
Si chiarisce così in che senso il confronto tra imagologia e teoria posto coloniale ruoti intorno alla
questione dell’identità e come la diversità tra i due campi di studio sia proprio una questione
d’identità.
Gli imagologi europei sottolineano per un verso la loro posizione sovranazionale, ovvero neutrale,
negando quindi un qualsiasi coinvolgimento soggettivo, e per l’altro verso sostengono la necessità
di una presa di coscienza di tale punto di vista, sottovalutando tuttavia gli stimoli che potrebbero
provenire da un dialogo teorico con i comparatisti postcoloniali.
La decolonizzazione
Per un certo numero di autori la dizione “studi postcoloniali” non corrisponde più all’oggetto a cui
tale approccio critico si rivolge. È terminata ormai la fase “postcoloniale”.
In questa fase il mondo non sarebbe più diviso fra colonizzatori e colonizzati, ma all’interno di
entrambi i gruppi ci sarebbe una varietà di voci che richiedono una riformulazione delle questioni
identitarie.
Il comparatista deve decolonizzarsi e riconoscere sia gli storici difetti di eurocentrismo sia i tentativi
che nella sua storia sono stati fatti per decolonizzare la critica letteraria.
In questa stessa direzione va riconosciuta l’opera dei comparatisti che hanno cominciato a porre le
questioni dell’interculturalità all’attenzione degli accademici e delle giovani generazioni
universitarie attraverso gli east-west studies. Fa parte infatti del processo di decolonizzazione critica
tutto ciò che mette in crisi la visione eurocentrica del mondo e che costringe gli studiosi ad adottare
un linguaggio più preciso e libero dai pregiudizi europei.
Un campo di ricerca estremamente innovativo è dato dall’incontro della letteratura comparata con il
femminismo e i gender studies.
Se il femminismo ha insegnato a guardare dalla prospettiva delle donne, i gender studies hanno
minato il mito della neutralità del soggetto e introdotto il concetto che ogni attività di pensiero
umano è sessuato. Le letteratura comparata ha accolto questa sfida, al punto da assumere il genere
sessuale come una delle categorie che organizzano la produzione e la ricezione letteraria.
La letteratura inoltre è da sempre il luogo in cui si elabora e tramanda il complesso di immagini,
figure esemplari e miti originati sia dalla traduzione che dal pensiero delle donne.
Solo grazie alla letteratura sono leggibili i miti di personaggi letterari (Didone, Ipazie) che
caratterizza le figura e i modelli del femminile nella società occidentale. La letteratura è anche la
voce delle donne scrittrici.
Sempre nell’ambito della critica letteraria gli studi femminili hanno potuto indagare sul ruolo della
donna intellettuale, su quello della lettrice e sulla trasmissione della cultura femminile. Sono state e
sono proprio le voci delle letterate a contribuire nella maniera più visibile al dibattito e
all’evoluzione di un sapere delle donne.
L’ottica della critica femminista e gender si estende con grande risonanza in un corpus di studi
dedicati a figure e miti femminili. Questi consentono di ricostruire, attraverso il confronto con le
varianti dell’immaginario maschile, come il concetto di femminilità muti con le epoche storiche e
soprattutto in relazione al sistema di valori patriarcali e maschili che è all’origine delle “molestie
sessuali” la figura di Didone ha assunto nelle varie epoche diverse valenze (donna fedele,
indomita regina, amante abbandonata, ecc.) in base ai valori di volta in volta utilizzata dalla cultura
maschile. Lo stesso si può dire per la figura di Ginevra, soprattutto per come la tradizione letteraria,
dal ciclo bretone in poi, ne abbia modificato finalità e struttura.
Riprendendo il discorso di de Beauvior, appare evidente come le figure femminili rispondano a
schemi rigidi: la donna virtuosa contrapposta alla peccatrice, la madre all’amante e così via. Non è
un caso che la variazione di un termine comporti lo slittamento di tutto il sistema.
Attraverso queste analisi storico-letterarie si evidenzia il cambiamento culturale e dei sistemi di
valore, ma anche il persistere di paradigmi che sembrano inalterabili la figura di Ipazia ad esempio
passa da essere icona del filosofo ingiustamente ucciso dall’oscurantismo religioso per la critica
illuminista ad essere vittima della contrapposizione fra i sessi e della prepotenza maschile.