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HOMO EUROPAEUS

HOMO EUROPAEUS
di Fabio Falchi

È noto che Carl Schmitt giudica il suo saggio Terra e mare (1), che è universalmente
considerato un contributo fondamentale per la comprensione della rottura epocale
contraddistinta dalla nascita del mondo moderno, un tentativo di sviluppare quanto
Hegel afferma nel paragrafo 247 dei Lineamenti di filosofia del diritto: «Come per
il principio della vita familiare, è condizione la terra fondamento e terreno stabile,
così il mare è per l’industria l’elemento naturale che la stimola verso l’esterno» (2).
Schmitt legge infatti la storia dell’Europa moderna alla luce dell’opposizione tra terra
e mare, fra Landmächte e Seemächte, alla cui testa vi è l’Inghilterra, ossia tra potenze
basate sul primato della funzione politica e potenze basate sul primato della funzione
economica e sullo sviluppo illimitato della funzione tecnico-produttiva. Scontro che
riflette due concezioni alternative dello Stato e della società e che si conclude con il
tramonto del Nomos della terra, ma anche con il venir meno del legame fra dominio
del mare e dominio del mondo.
Lo spazio “vuoto”, neutro ed in-definito che segna l’inizio (3) della talassocrazia
inglese viene ad essere sostituito nel XX secolo dal nuovo spazio globale “di-segnato”
dai moderni mezzi di comunicazione di massa e di trasporto. Al posto del conflitto
“classico” tra terra e mare si assisterebbe, secondo il pensatore tedesco, alla crescita
«inarrestabile ed irresistibile [del] nuovo Nomos del pianeta» (4). Ma riguardo a questo
nuovo ordinamento spaziale planetario, le considerazioni di Schmitt non forniscono
alcuna spiegazione: se da un lato egli sostiene che «molti vedono solo insensato disordine
dove in realtà un nuovo senso è in lotta per il suo ordinamento» e che «ciò che avanza
non è […] solamente mancanza di misura o un niente [corsivo mio] nemico del
Nomos» (5), dall’altro ritiene che «colui il quale riuscirà a imprigionare la tecnica
scatenata, a domarla e a metterla in un ordinamento concreto, avrà dato una risposta
all’appello del presente più di colui che cerchi con i mezzi di una tecnica scatenata di
atterrare sulla Luna o su Marte»(6).
Alla fine del Dialogo sullo spazio, Schmitt si ricollega, implicitamente,
all’Heidegger di Costruire, abitare, pensare (7), dichiarando di credere che «l’uomo,
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dopo la difficile minaccia di bombe atomiche e di simili orrori, un mattino si risveglierà

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e grato si riconoscerà figlio della terra saldamente fondata» (8), sicché è lecito
affermare che Schmitt risponde a quel che lui stesso chiama «l’appello del presente»,
non diversamente da Heidegger, con le parole di Hölderlin: «Dove c’è il pericolo, là
cresce anche ciò che salva» (9). Ma chi può assicurarci che il “nuovo che avanza”
non sia il (paradossale, ma non per questo meno reale) Nomos del nulla, del nichilismo?
Su quale fondamento si può escludere che il nichilismo sia incompatibile con qualsiasi
forma, se non di ordine, di organizzazione? Si può veramente liquidare il sintagma
evoliano “caos organizzato” (10) come inevitabile esito aporetico del “sogno ghibellino”
del metafisico romano, oppure, proprio in quanto autentica aporia e non banale
contraddizione, questo sintagma è l’espressione più adeguata per denominare la
condizione politica, sociale ed esistenziale dell’umanità europea (e che ormai sta
diventando quella dell’umanità dell’intero pianeta) nell’epoca del nichilismo “e”
dell’organizzazione totale del mondo?

Massimo Cacciari in Geo-filosofia dell’Europa (11), pur riconoscendo i meriti di


Carl Schmitt, vede nell’opposizione fra terra e mare l’essenza stessa della storia
europea, a partire dai Greci, o meglio l’opposizione che “struttura” il senso dell’ ethos
dell’Occidente dall’inizio alla fine, dalla «separazione» dell’Europa dall’Asia sino
allo sradicamento del Nomos: «La stessa caratterizzazione terranea dell’oîkos in
contrapposizione col principio dell’industria, col suo “naturale elemento”, e cioè il
mare, è al centro del par. 247 della Filosofia del Diritto [di Hegel], la cui importanza
è stata giustamente richiamata da Carl Schmitt. Ma si tratta della stessa relazione-
contrasto già presente come principio ermeneutico fondamentale della historìa classica
greca» (12).
Ciononostante, anche se Cacciari scrive pagine in gran parte condivisibili sulla
critica che Platone rivolge alla talassocrazia ateniese, non pare affatto plausibile
sostenere che l’imperialismo ateniese sia il “prototipo” della aberrante “civilizzazione”
mercantile dell’imperialismo angloamericano. Sono le “leggi” della Città, della
Gemeinschaft, che regolano la vita economica della grande polis “democratica”,
per quanto l’enorme crescita degli scambi commerciali e il diffondersi su (relativamente)
ampia scala di diversi impieghi della moneta, sia alla base delle importanti riflessioni di
Aristotele sull’economia, che giunge a distinguere (anticipando di svariati secoli la
nota analisi marxiana sulla differenza tra valore d’uso e valore di scambio) una
crematistica sana da una crematistica che egli definisce degenerata, ossia
l’accumulazione illimitata di beni e denaro, condizione necessaria, con lo sviluppo dei
mercati e del capitalismo commerciale, della nascita dell’economia moderna (13).
D’altronde, dopo la guerra del Peloponneso, Atene estende la direzione politica a
tutti gli ambiti delle attività economiche: «La circolazione monetaria fu sottoposta a
una rigorosa supervisione; […] il profitto dei dettaglianti fu limitato; il tempo e il luogo
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di svolgimento delle contrattazioni furono stabiliti pubblicamente; il commercio del

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grano rimase completamente sotto controllo amministrativo; l’attività del cambiavalute


(lo schiavo “trapezita” acquattato dietro il suo banco), fu sottoposta a stretta
sorveglianza. Le transazioni creditizie in materia di scambi con l’estero dovevano
conformarsi a norme e regolamenti» (14). Ancora più rilevante è il fatto che i residenti
stranieri, i meteci, che svolgevano la maggior parte delle attività mercantili ed artigianali,
non potevano partecipare alla gestione degli affari pubblici, né acquistare terre, poiché
erano privi, diremmo noi, dei “diritti politici”. Limiti che non verranno mai oltrepassati,
malgrado il significativo sviluppo economico di Atene nel IV secolo a. C.: «Lì non vi
era posto per il concetto moderno di “leggi di mercato” contrapposte alle “leggi dello
stato”. Né vi è alcuna traccia della distinzione medievale tra “legge dei mercanti”
(ius mercatorum) e “leggi del luogo del mercato” (ius fori)» (15). Il che significa che
la talassocrazia ateniese si configura come un “impero” costiero, ancora ben “fondato
sulla terra”, dato che non è il meteco bensì il “cittadino”ateniese a solcare il mare, ma
con lo “sguardo” costantemente rivolto verso la terra, in quanto il mare è lo “spazio”
non del mercante o dell’homo faber, ma quello dello zoon politikòn.
Pertanto, si può facilmente obiettare a Cacciari che egli, contrariamente a Carl
Schmitt, non tenendo sufficientemente conto del rapporto tra il Politico e l’Economico,
si preclude la possibilità di intendere appieno il “senso” della rivoluzione spaziale
moderna, che consiste, secondo lo studioso tedesco, nella “separazione” fra terra e
mare. Infatti, non è possibile non avvedersi della connessione fra tale “separazione”
e la scissione fra il Politico e l’Economico, che inaugura la Modernità e che conduce,
nel giro di qualche secolo, alla quasi totale dipendenza della funzione politica da quella
tecnico-produttiva. Un mutamento che Louis Dumont riesce a descrivere in modo
sintetico e con grande chiarezza: «Con il mondo moderno è avvenuta una rivoluzione
[…]: il legame tra ricchezza immobiliare e potere sugli uomini è stato spezzato e la
ricchezza mobile [il “liquido”] è diventata pienamente autonoma non solo in sé ma
come forma superiore di ricchezza […] E’ solo a partire da quel momento che si può
tracciare una distinzione chiara tra ciò che chiamiamo “politico” e ciò che chiamiamo
“economico”. Si tratta di una distinzione che le società tradizionali non conoscevano»
(16).
Tuttavia, è comprensibile, anche se non giustificabile, che Cacciari cerchi di
difendere la tesi che vi sia una sostanziale continuità tra l’Europa antica (e medievale)
e l’Europa moderna, dato che egli non distingue l’ homo occidentalis, cioè l’homo
oeconomicus, dall’homo europaeus, livellando sia il senso dell’esperienza dello
spazio e del tempo che caratterizza la Weltanschauung dell’uomo antico (e medievale),
sia il senso della distinzione tra Europa ed Asia (17). Di conseguenza, il filosofo
veneziano, commentando la Philia di Empedocle, può sostenere addirittura che
«creatrice è quell’inimicizia mortale che de-cide per sempre Europa da Asia» (18).
Che sia però assai difficile intendere la relazione tra Europa ed Asia come una relazione
di separazione costitutiva dell’identità dell’Europa e non come una relazione di
distinzione, è confermato non solo dal continuo coinvolgimento dell’impero persiano
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nella storia greca, ma anche, naturalmente, dall’azione politica di Alessandro Magno,

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che favorisce le unioni tra “barbari” e Greci e la cui concezione imperiale “anticipa”,
mutatis mutandis, quella di Roma, ossia non l’imperialismo moderno, ma un impero
fondato sull’integrazione e l’assimilazione. Ed è proprio la differenza tra impero ed
imperialismo che “spiega “il conflitto fra Cartagine e Roma, nonché la volontà di
Roma di distruggere definitivamente la città rivale; una “inimicizia” davvero decisiva
per capire l’opposizione tra homo europaeus e homo occidentalis. Perciò Claudio
Mutti a ragione afferma: «Diversamente da Luttwak e da Toni Negri [ed anche da
Massimo Cacciari], Thiriart sapeva bene che l’Impero è l’esatto contrario
dell’imperialismo e che gli Stati Uniti non sono Roma bensì Cartagine» (19).
Non si dovrebbe dimenticare che il filosofo Hans Georg Gadamer, poco prima di
morire, sentì il bisogno di rivolgersi, ma con scarso ascolto, agli europei, perché
riflettessero sul fatto che: «è […] straordinario […] che proprio Roma antica offra ai
popoli di oggi un esempio decisivo sul piano della storia e della civiltà, un punto di
riferimento e allo stesso tempo di monito, un orientamento di come tante diversità
possano coesistere e unirsi in un processo di arricchimento reciproco» (20). Un giudizio
non diverso esprime Rémi Brague, secondo cui l’Europa per salvarsi deve ridiventare
romana (21). Anche il filosofo francese Alain de Benoist osserva che l’autentico
impero è «universale nel principio ispiratore e nella vocazione [ma non è] universalista
nel senso che correntemente si assegna a questa espressione. La sua universalità
non ha mai significato una vocazione ad estendersi all’intera terra, ma si ricollega
semmai all’idea di un ordine equo che mira a federare dei popoli sulla base di
un’organizzazione politica concreta, al di fuori di qualunque prospettiva di conversione
o di livellamento. L’impero, da questo punto di vista, si distingue radicalmente da un
ipotetico Stato mondiale o dall’idea secondo la quale esisterebbero dei princìpi giuridico-
politici universalmente validi, in ogni tempo e in ogni luogo» (22). Ed è questa idea di
impero, come uni-totalità in sé differenziata, che caratterizza il disegno ghibellino di
Federico II di Svevia (23), il quale, più di ogni altro imperatore medievale, sembra
essere consapevole della funzione “sacrale” dell’impero (il Sacro Romano Impero),
cioè della sua funzione di mediare gli opposti e di integrare le differenze in base ad
una prospettiva spirituale unitaria; tanto è vero che concede ai musulmani (24) di
vivere in Italia in maniera conforme ai propri usi e costumi - in cittadine governate da
organismi autonomi - e tratta persino le comunità ebraiche con eguale rispetto per la
loro tradizione, a patto che non siano di nocumento per lo Stato (25). Anche lui, come
già Alessandro, vero uomo universale europeo, né tedesco, né siciliano, né italiano,
difensore del Politico come auctoritas, vale a dire come “ordine politico” che articola
e tutela le molteplici identità/differenze secondo un orizzonte di senso
intersoggettivamente condiviso. In effetti, la visione “differenzialista” del grande
imperatore svevo, stupor mundi, che pure ha ben presente la distinzione, non
certamente la separazione, fra Europa e Asia, (di)mostra il significato metapolitico e
geo-filosofico della terra, in quanto necessario oriente dell’uomo, e quindi quanto
profondamente sia “radicato nella terra” l’homo europaeus che si arrischia per
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mare, ovverosia quella “figura archetipica” che articola la logica della stessa

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