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UD 6 - Il sistema scolastico
In questa unità didattica sono spiegate le caratteristiche del sistema scolastico italiano; la
distinzione tra scuola dell'obbligo e scuola secondaria superiore; la descrizione delle
caratteristiche dell'università e gli aspetti più importanti della riforma del sistema di
istruzione.
UD 6 - Il sistema scolastico
Obiettivo di questa unità didattica è conoscere le caratteristiche generali e i problemi del
sistema scolastico italiano.
nella precedente costituzione (lo Statuto Albertino), in vigore fino alla Seconda guerra
mondiale. Se in passato il Senato era nominato dal Re e solo la Camera dei deputati
era eletta, dal 1948 i due rami del Parlamento sono diventati espressione delle scelte
elettorali dei cittadini. Si è così realizzato un sistema di rappresentanza sicuramente
democratico, ma in cui la differenziazione in due camere appare sostanzialmente
inutile. La differenza più rilevante fra le due camere appare la diversa dimensione
(vengono eletti 315 senatori e 630 deputati; vedi il modulo L’organizzazione della
Repubblica, 2.3). Nell'ambito di ciascuna delle due camere, si sono costituite
commissioni specializzate su diverse questioni. Le commissioni sono state costituite in
modo da rispecchiare la composizione dei gruppi parlamentari e non si sono limitate
alle attività di discussioni preparatorie delle leggi. La Costituzione ha stabilito la
possibilità per le commissioni di operare come veri parlamenti in miniatura,
approvando in via definitiva provvedimenti di legge se non esiste l'opposizione del
Governo, di un decimo dei componenti della Camera, o di un quinto della
commissione (art. 72). Le caratteristiche concrete dell'attività del Parlamento italiano
sono state definite da scelte operate successivamente durante l'elaborazione delle leggi
ordinarie o dei regolamenti parlamentari. Gli effetti più criticati dall'opinione pubblica
del bicameralismo italiano sono da una parte il numero eccessivo dei parlamentari,
dall'altra le complicazioni e i tempi più lunghi necessari per l'approvazione delle leggi
da parte di entrambe le camere.
Il Parlamento italiano prima dell'avvento del Fascismo (1922; vedi il modulo Da una
guerra all'altra: conflitti mondiali e il fascismo, 3.1) era un Parlamento di notabili: personalità
che avevano la propria base politica più nel prestigio e nell'influenza a livello locale
che nei legami con le organizzazioni di partito. Il Parlamento del secondo dopoguerra
ha visto invece i partiti e i loro gruppi parlamentari come protagonisti principali (vedi
il modulo Politica e istituzioni nell’Italia repubblicana, 2.3). I deputati e i senatori sono stati,
almeno fino al 1992, essenzialmente uomini di partito, legati a organizzazioni
politiche radicate nella società, in grado di orientare il consenso elettorale in modo
stabile. La carriera dei parlamentari si costruiva soprattutto nelle organizzazioni di
partito, nelle organizzazioni collaterali e nelle istituzioni elettive locali. I partiti e i loro
gruppi parlamentari influenzavano in modo decisivo la formazione dei governi e
l'attività parlamentare.
Fino alla fine degli anni Ottanta, i vincoli posti dalla guerra fredda (vedi la scheda la
guerra fredda) hanno di fatto reso impossibile un'alternanza di governo fra maggioranza
e opposizione. I partiti di opposizione potevano trovare solo nel Parlamento una via
efficace per influenzare la politica italiana. Da ciò la tendenza ad esaltare le
prerogative delle Camere rispetto all'esecutivo e il favore accordato a regolamenti della
vita parlamentare che rendevano spesso inevitabili relazioni di cooperazioni e di
scambio politico fra maggioranza e opposizione. Il Governo d'altra parte non aveva
un saldo controllo degli stessi gruppi parlamentari di maggioranza, che
rappresentavano spesso interessi economici, sociali e culturali eterogenei. Se nell'arena
elettorale, e a livello ideologico, dominava lo scontro fra maggioranza e opposizione,
nell'attività parlamentare le relazioni erano molto più complesse, dominate spesso
dalle contrattazioni - palesi od occulte - fra i diversi gruppi. Gran parte delle leggi
approvate hanno alla fine ottenuto anche il sostegno dell'opposizione. Gran parte
dell'attività parlamentare si è concentrata nell'approvazione delle cosiddette "leggine":
provvedimenti regolativi di interessi particolari, settoriali e locali, destinate spesso a
distribuire benefici a particolari aree su cui era facile ottenere consensi da quasi tutte
le forze politiche. Le leggi di portata più generale erano invece spesso bloccate e
ritardate non tanto dall'opposizione, quanto dalle resistenze e dai veti che emergevano
tra gli stessi partiti della maggioranza.
1.3 - Il Governo
Il Governo italiano è composto dal Presidente del Consiglio e dai ministri che
costituiscono il Consiglio dei ministri (art. 92 della Costituzione). Ai ministri si
affiancano un numero variabile di sottosegretari nominati dal Consiglio dei ministri. Il
numero del personale governativo - ministri e sottosegretari - è variabile, ed è
aumentato nel corso degli anni Ottanta. Il livello massimo fu raggiunto con l'ultimo
governo presieduto da Andreotti (1991), che comprendeva 32 ministri e 69
sottosegretari.
Secondo il dettato costituzionale la formazione del Governo è demandata all'iniziativa
del Presidente della Repubblica. L'art. 92 stabilisce infatti che "Il Presidente della
Il "Transatlantico" di Montecitorio
Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri". La
pratica è stata, almeno fino al 1992, molto diversa. Il Presidente non ha mai esercitato
in modo autonomo la propria prerogativa. La Costituzione richiede che la formazione
del Governo sia approvata sia dalla maggioranza dei deputati che dalla maggioranza
dei senatori. E d'altra parte, ciascuna delle due Camere può mettere in crisi il Governo
approvando una mozione di sfiducia. La formazione e la sopravvivenza dei governi
italiani è dipesa sostanzialmente dalle segreterie dei partiti, e in particolare da quelli
che potevano garantire un adeguato sostegno in Parlamento. Solo nel 1993, in una
fase di grave crisi di legittimità dei partiti politici, si è costituito un Governo
(presieduto da una personalità non parlamentare, Ciampi, governatore della Banca
d'Italia) privo di una base parlamentare predefinita e sostenuto soprattutto dal
Presidente della Repubblica.
Dal giugno 1945 al settembre del 2000 l'Italia ha avuto 58 governi, con un durata
media inferiore a 12 mesi. L'instabilità dei governi non ha significato però un regime
di instabilità politica. Si è mantenuta infatti una minore variabilità delle personalità
che hanno occupato le posizioni di governo fondamentali. Alcuni Presidenti del
Consiglio hanno guidato più di un governo: dal 1945, la carica di Presidente del
Consiglio è stata ricoperta da 25 esponenti politici. E alcuni dei ministeri chiave
(Esteri, Interni, Difesa) sono rimasti per lunghi periodi guidati dagli stessi uomini
politici, anche se cambiava la composizione del Governo e lo stesso Presidente del
Consiglio.
Ma in un altro senso si può dire che si è mantenuta una relativa stabilità politica del
Governo italiano almeno fino al 1992. La formazione, la sopravvivenza e la capacità
di azione dei governi si è sempre basata sull'esistenza di una adeguata coalizione
parlamentare. Dal 1948 al 1992 il Governo italiano è stato sempre espresso da
coalizioni di tre tipi, ad eccezione di un breve periodo. Dal 1948 al 1962 i governi
sono stati espressioni di coalizioni definite "centriste" formate da Democrazia
Cristiana (DC), Partito Liberale (PLI), Partito Repubblicano (PRI), Partito
Socialdemocratico (PSDI). Dopo il 1962 e fino al 1976, con brevi eccezioni, i governi
sono stati espressioni di coalizioni definite di "centrosinistra": rispetto alle precedenti
coalizioni di governo, veniva escluso il PLI, e incluso il Partito Socialista (PSI). Negli
anni Ottanta si aprì la fase delle coalizioni di "pentapartito", che durò dal 1981 al
1991. Facevano parte delle coalizioni, con brevi interruzioni, tutti i partiti che avevano
partecipato sia alle coalizioni centriste che a quelle di centrosinistra. In alcuni
momenti di transizione o di crisi politica, si sono formati governi composti da soli
democristiani (i cosiddetti "governi monocolore"), e sostenuti in Parlamento da una
maggioranza più larga. Fra il 1976 e il 1979 si formarono due governi monocolore
guidati da Andreotti, definiti governi di "solidarietà nazionale" perché furono sostenuti
in Parlamento anche dal Partito Comunista (PCI).
Gli stessi cinque partiti (DC, PSI, PLI, PSDI, PRI) hanno dato vita, in diverse
combinazioni, a tutte le compagini ministeriali tra il 1948 e il 1992. Esponenti del
partito di maggioranza relativa - la Democrazia Cristiana - sono sempre stati presenti
in tutti i governi, e hanno ricoperto sempre la carica di Presidente del Consiglio fino
agli anni Settanta. Negli anni Ottanta l'indebolimento del consenso elettorale e della
centralità politica della Democrazia Cristiana creò le condizioni per la formazione di
Governi presieduti da esponenti dei partiti alleati: un Governo guidato da Spadolini
(PRI) e due Governi guidati da Craxi. Non parteciparono invece mai alle compagini
ministeriali gli esponenti del Partito Comunista. Questa possibilità era osteggiata dagli
Stati Uniti e dai paesi europei loro alleati dopo il 1947. La frattura esistente a livello
internazionale fra paesi occidentali e blocco sovietico si rifletteva sul sistema politico
italiano, creando la cosiddetta conventio ad excludendum che impediva l'ingresso nel
governo di esponenti del PCI dopo il 1948. Questa condizione rendeva
sostanzialmente non praticabile una alternanza al governo fra maggioranza e
opposizione. I consensi elettorali ottenuti dalla DC e dai suoi alleati furono d'altra
parte sufficienti a governare fino al 1992.
Fino al 1993 d'altra parte entrambe le Camere erano elette con un sistema elettorale
di tipo proporzionale, sostanzialmente equivalente. In teoria, per il Senato era stato
previsto un sistema maggioritario, a collegi uninominali. Ma l'elezione diretta di
candidati poteva scattare solo nel casi in cui un candidato superava la soglia del 65%
dei voti espressi nel suo collegio. Questa soglia non é quasi mai stata superata: negli
altri casi si ricadeva nel sistema proporzionale, applicato a livello regionale.
Enti di previdenza 87 93 62
Totale amministrazioni
2204 3040 3494
pubbliche
Totale settore pubblico
2798 3746 4187
allargato
Totale settore pubblico
1684 1000 1502
allargato
Cittadini in fila
in un ufficio pubblico
Negli anni Novanta sono stati intrapresi diversi progetti per riformare la Pubblica
Amministrazione, aumentarne la produttività e migliorare la qualità dei servizi offerti
ai cittadini. Questi tentativi hanno però spesso incontrato la resistenza di molti settori
della burocrazia dello Stato, e in generale di chi traeva beneficio dall'assetto
preesistente. Alcune leggi approvate nella prima metà degli anni Novanta hanno
cercato di modificare i rapporti fra sistema politico e amministrazione, sulla base di
una più netta distinzione fra indirizzo politico e gestione amministrativa. Agli organi
politicamente responsabili (i ministri, i sindaci, i presidenti di enti pubblici) è stata
attribuita la definizione degli obiettivi, dei programmi e delle direttive per il
funzionamento degli apparati. Ai dirigenti della Pubblica Amministrazione ai diversi
livelli è stata invece conferita la responsabilità dell'effettiva gestione amministrativa,
tecnica e finanziaria.
La magistratura, a partire dalle inchieste e dai processi gestiti da un gruppo di
magistrati milanesi (l'indagine definita "Mani pulite" avviata nel 1992, vedi 1.5 e 4.5)
ha cercato di colpire gli intrecci e i rapporti illegali che si erano stabiliti fra esponenti
politici, amministrazione e uomini di affari.
Di grande importanza sono stati i tentativi di incidere sul rapporto di fiducia tra
amministrazione statale e cittadino. Tradizionalmente, la burocrazia pubblica
sembrava non fidarsi dei cittadini: ogni firma doveva essere autenticata da un notaio o
da una autorità competente, ogni domanda doveva essere corredata da certificati che
lo stesso cittadino doveva richiedere ad altri uffici pubblici, con lunghe attese e perdite
di tempo (Rapporto sulle condizioni della pubblica amministrazione: 441-445). Molti uffici
statali hanno opposto forti resistenze al "diritto all'autocertificazione", stabilito dalla
legge n. 15 del 4 gennaio 1968. Solo negli anni Novanta questa pratica è stata
progressivamente accettata: ciò ha avuto come conseguenza la sostituzione del 57%
dei certificati con autocertificazioni. Un passo decisivo sulla via della
sburocratizzazione e della semplificazione amministrativa è stato fatto dal ministro
Bassanini con la legge 59 del 15 marzo del 1997. La riforma è stata completata con
l'approvazione di un testo unico presentato dallo stesso ministro al Consiglio dei
ministri nell'agosto 2000 che mirava a ridurre drasticamente i carichi burocratici, gli
adempimenti non necessari imposti dalle amministrazioni ai cittadini. Il
provvedimento obbliga amministrazioni e gestori di servizi pubblici ad accettare le
"dichiarazioni sostitutive", pena sanzioni per violazione dei doveri d’ufficio. Le
strutture burocratiche possono acquisire d’ufficio la documentazione necessaria, anche
via fax e via Internet (si veda la scheda Riforma della Pubblica Amministrazione).
UD 3 - La politica a livello regionale e locale e
la frattura Nord - Sud
In questa unità didattica sono spiegate le caratteristiche della Costituzione rispetto a
centralismo e particolarismo; l'articolazione dei poteri sul territorio secondo la
Costituzione; l'istituzione delle Regioni; la frattura Nord-Sud e il fenomeno del leghismo; la
questione settentrionale e il federalismo.
Gli organi di governo locale possono essere di due tipi (Della Porta 1999: 232). Da un
lato esistono gli "organi periferici dello Stato" che dipendono dai diversi ministeri: i
prefetti, la polizia, gli uffici tributari e tutte le articolazioni sul territorio nazionale della
burocrazia statale. Dall'altra esistono i veri propri "enti territoriali", organismi elettivi
in diversi ambiti e le strutture burocratiche che da essi dipendono. Gli enti territoriali
italiani sono 20 regioni, 107 province e oltre 80 mila comuni. La valorizzazione degli
enti territoriali, e in particolare delle Regioni, può favorire il decentramento
pluralistico del potere, ravvicinare i cittadini alle istituzioni di Governo e creare
condizioni più favorevoli per la partecipazione e il controllo democratico.
Esistono molte tipologie di articolazione del rapporto fra Stato ed enti territoriali, che
vanno da un massimo a un minimo di autonomia concesso a questi ultimi. Si
contrappongo in generale tipologie di stato federale - come gli Stati Uniti, la Svizzera
e la Germania - a modelli con un forte grado di accentramento dei poteri, come
l'organizzazione dello stato francese, edificato da Napoleone dopo la Rivoluzione del
1789.
In Italia la costruzione dello Stato unitario si è realizzata in ritardo rispetto ai
principali paesi europei. L'unificazione nazionale ha assunto una forma
"contemporaneamente così debole da risultare in gran parte inefficace e così energica da moltiplicare
l'avversa reazione del paese e da rafforzare i secolari sentimenti particolaristici". La scelta attuata
dal Regno d'Italia dopo l'unificazione è stata quella di seguire il modello napoleonico,
già sperimentato con lo Stato Piemontese, per la strutturazione degli enti del governo
locale. La legge 2248 del 1865 ha unificato l'amministrazione di tutto il Paese secondo
i principi dell'accentramento statale e dell'uniformità organizzativa. Sono stati
conferiti poteri molto limitati a tutti gli enti territoriali, subordinati e controllati dal
governo nazionale. In ogni provincia l'autorità centrale era rappresentata dai prefetti,
direttamente dipendenti dal ministero degli interni. I sindaci dei comuni svolgevano
da una parte le funzioni proprie dei poteri municipali riferite a questioni strettamente
locali, dall'altra agivano come agenti dell'amministrazione centrale, ed erano da
questa strettamente controllati.
Il regime fascista ha aumentato il controllo centrale sugli organi di governo locale. La
legge del 1934 (Testo unico sui poteri locali) aboliva le cariche elettive a livello locale.
Si rafforzavano i poteri dei prefetti e i sindaci eletti dai cittadini erano sostituti dai
"podestà", nominati dal Governo.
La presenza di un'organizzazione statale fortemente accentrata non ha ridotto il peso
del municipalismo e del localismo. Il particolarismo italiano è stato caratterizzato da
una lealtà essenzialmente rivolta ad ambiti ristretti (la famiglia, il clan, il villaggio o la
frazione), dal forte peso delle subculture locali e da una sostanziale debolezza della
coscienza nazionale (Bellah 1974).
l'interesse nazionale e con quello di altre Regioni" (art. 117). Lo stesso articolo 117 definiva in
modo dettagliato le materie in cui la Regione era competente, in tutto o in parte, a
legiferare: l'assistenza sanitaria, il turismo, i trasporti, i lavori pubblici, l'urbanistica,
l'agricoltura, le foreste, l'artigianato, la polizia locale. Per le stesse materie, spettano
alle Regioni anche le funzioni amministrative, salvo quelle di interesse esclusivamente
locale che potevano essere attribuite ai Comuni e alle Province (art. 118).
Nell'assemblea costituente la Democrazia Cristiana aveva soprattutto sostenuto un
ampio decentramento di poteri e funzioni alle Regioni (soprattutto per l'istruzione, la
sanità, l'industria il commercio e le finanze) mentre il Partito Comunista manteneva
posizioni più prudenti. Dopo il 1948 le posizioni si sono rovesciate, per le condizioni
generali create dalla frattura a livello internazionale fra paesi occidentali e blocco
sovietico. Per il timore che le Regioni e gli enti locali cadessero sotto l'influenza dei
comunisti, i governi guidati dalla DC hanno sostanzialmente frenato un effettivo
decentramento politico.
Per molti anni, le autonomie locali previste dalla Costituzione hanno avuto
un'attuazione molto limitata. Comuni e province, anche se diventati enti elettivi,
hanno conservato fino agli anni Novanta la disciplina generale ereditata dal
precedente ordinamento.
La frattura Nord-Sud era sempre stata profonda sul piano economico fin dalla
costituzione dello Stato italiano, ma l'assenza di forti differenze etnoculturali aveva
reso più difficile la mobilitazione territoriale (Trigilia 1994: 82). Nel secondo
dopoguerra il divario economico Nord-Sud si è ridotto ma non si è sviluppato nelle
regioni meridionali un sistema produttivo autonomo. La questione meridionale era
assunta come questione nazionale: lo sviluppo economico e la modernizzazione
sociale delle regioni del Sud diventarono impegni prioritari per tutta la comunità
nazionale. Anche se non è facile una stima esatta, il Nord ha finanziato in misura
preponderante il bilancio dello Stato, mentre il Sud ha ricevuto risorse molto superiori
a quelle prodotte (Becchi 1995: 495). L’impegno meridionalista si è progressivamente
impoverito, riducendosi a una redistribuzione di risorse, spesso in chiave assistenziale.
Queste pratiche sono entrate in crisi nella seconda metà degli anni Ottanta, quando
l'aumento della pressione fiscale e gli alti costi di finanziamento del debito pubblico
hanno creato problemi crescenti per l'economia. Si è indebolita la capacità di
mediazione territoriale degli interessi da parte dei principali partiti. Si è aperto lo
spazio politico per l’agitazione leghista a difesa degli interessi delle regioni del Nord.
Le prime leghe fondate negli anni Ottanta in Piemonte, Lombardia e Veneto hanno
cercato di estendere alle regioni del settentrione il tipo di autonomia attribuito alle
regioni a statuto speciale (Valle d'Aosta, Trentino, Sardegna) e hanno tentato di farsi
interpreti dell'ostilità latente verso i meridionali esistente in alcune aree del Nord. Le
leghe cercavano di valorizzare l'identità etnoculturale delle singole regioni e
denunciavano la loro condizione di "colonie interne", costrette a subire rapporti
economici svantaggiosi imposti dal Governo nazionale.
La Lega Nord, fondata alla fine del 1989, ha unificato sotto la direzione di Umberto
Bossi le prime leghe autonomiste e ne ha sviluppato e radicalizzato il programma. Il
nuovo soggetto politico ha cercato di promuovere la mobilitazione delle popolazioni
delle regioni settentrionali contro diversi "nemici": il potere centrale romano, i partiti
tradizionali, il grande capitale, i meridionali, gli immigrati extracomunitari (Biorcio
1997). Si abbandonava la prospettiva autonomista e si promuoveva un progetto
indipendentista fino alla proclamazione simbolica della Repubblica Padana nel
settembre 1996. Il progetto leghista era presentato come la risoluzione di molteplici
problemi: la protesta fiscale, la difesa degli interessi della piccola impresa, le incertezze
sul futuro del sistema di Welfare, l'immigrazione extracomunitaria, l'allarme sociale
per il crescere della microcriminalità.
Negli anni Novanta, in parallelo ai successi elettorali della Lega, l'interesse per la
"questione meridionale" si è ridotto, mentre si sono moltiplicati i dibattiti, i convegni,
le prese di posizione sulla "questione settentrionale", che ha sollecitato sempre più
l'attenzione di tutte le forze politiche italiane. Nelle regioni del Nord è via via cresciuta
la domanda di autonomia, sostenuta da più di due terzi dei residenti. La questione
settentrionale non trova fondamento in specifici malesseri sociali e deprivazioni
percepiti dalla popolazione delle regioni del Nord. Le indagini di opinione mostrano
che in generale chi abita in queste regioni è molto più soddisfatto delle condizioni di
vita personale e familiare e dei principali servizi sociali (scuola, sanità e trasporti)
rispetto agli abitanti del Mezzogiorno.
La questione settentrionale nasce dalla contraddizione fra benessere economico e
malessere politico (vedi il modulo La società italiana dal dopoguerra a oggi, 6.4). Le inchieste
sulla corruzione avviate dal pool Mani pulite nel 1992 (vedi 1.5 e 4.5) provocarono un
crollo di credibilità della classe politica nazionale agli occhi dell'opinione pubblica. La
domanda di cambiamento del sistema di rappresentanza si espresse con molta più
forza nelle regioni settentrionali rispetto a quelle meridionali, come hanno mostrato i
risultati del referendum sulla legge elettorale del 18 Aprile del 1993.
La Lega si era costituita come il principale imprenditore politico della questione
settentrionale, unendo la lotta alla partitocrazia con la difesa dei concreti interessi
delle regioni del Nord gestiti in chiave populista. Ma i progetti separatisti si rivelavano
presto irrealizzabili. Dal 1998, gli sviluppi dell'integrazione europea con l'adesione
dell'Italia alla moneta unica hanno reso sempre meno credibili gli appelli al
separatismo.
La domanda di autonomia trovava espressione anche in forme più moderate. Si sono
moltiplicati i tentativi di sviluppare il federalismo da parte dei partiti del centrodestra e
del centrosinistra. È stata così varata dal Parlamento una riforma costituzionale (Legge
costituzionale 22 novembre 1999) per rafforzare l'autonomia delle regioni. Ogni Consiglio
regionale può approvare e modificare lo statuto regionale, che entra in vigore senza
richiedere l'approvazione del Parlamento. Sono stati rafforzati i poteri e il ruolo dei
Presidenti delle Giunte regionali, che vengono eletti a suffragio universale e diretto, a
meno che lo statuto regionale disponga diversamente. In futuro la classe politica
regionale potrà assumere un ruolo proprio, cessando di essere solo lo snodo e il punto
di passaggio delle carriere politiche fra il livello locale e le istituzioni nazionali.
Il patto fra la Lega Nord e il Polo legò la possibilità di rafforzamento delle autonomie
regionali alla conquista del governo nazionale da parte della coalizione di
centrodestra. In questa prospettiva, furono promossi referendum popolari per la
devoluzione alle regioni delle competenze per sanità, scuola e ordine pubblico (vedi la
scheda Riforma della Pubblica Amministrazione).
UD 4 - Partiti e movimenti politici
In questa unità didattica è spiegato quali sono le funzioni e le caratteristiche dei partiti nel
sistema politico italiano, quali sono le caratteristiche dei partiti tradizionalmente
importanti nella vita politica italiana e qual è la loro collocazione geopolitica. Inoltre, in
questa unità didattica è spiegato cosa si intende per crisi dei partiti e per passaggio dalla
Prima alla Seconda Repubblica.
Nella vita politica italiana hanno avuto un ruolo centrale i partiti. Dopo la Seconda
guerra mondiale molti commentatori hanno definito la forma di governo del nostro
Paese una "Repubblica dei partiti" (vedi il modulo Politica e istituzioni nell’Italia
repubblicana, 2.3 e 2.4). Il sistema dei partiti tradizionali si era formato dopo l'Unità
d'Italia, prima dell'avvento del regime fascista (1922). Le principali formazioni
politiche italiane hanno riacquistato nuova vita durante la Resistenza antifascista, si
sono consolidate nei primi anni dopo la proclamazione della Repubblica (1948-1953)
e sono rimaste sostanzialmente inalterate fino al 1992. Un secondo sistema di partiti è
emerso successivamente: alcune forze politiche tradizionali si sono dissolte, altre si
sono profondamente trasformate, mentre si formavano nuovi importanti protagonisti
della vita politica.
Nel secondo dopoguerra i partiti hanno svolto un ruolo fondamentale nella
fondazione e nel consolidamento della democrazia italiana, dopo il crollo del regime
fascista. Le identità politiche dei partiti che assumevano un ruolo decisivo nella vita
politica si erano costruite in riferimento alle principali fratture che avevano segnato la
storia nazionale. La frattura stato-chiesa (o confessionalismo-laicismo) che aveva
segnato il periodo dell'Unità d'Italia; il conflitto di classe fra salariati e imprenditori
I deputati all'interno dell'aula
di Montecitorio
che si era fortemente ideologizzato nel corso degli anni Venti; la frattura fascismo-
antifascismo, e infine la contrapposizione nei riferimenti internazionali nel periodo
della guerra fredda (Farneti 1983). Le diverse posizioni nel nostro sistema politico
erano sintetizzate, nel discorso dei politici e nel senso comune degli elettori,
soprattutto facendo riferimento alla dimensione sinistra-destra, che rispecchiava e
parzialmente rappresentava le altre contrapposizioni, e in particolare la frattura di
classe.
Pur presentandosi come sistema multipartitico, la configurazione di fondo del sistema
politico italiano fino agli anni Ottanta è stata caratterizzata dal "bipartitismo
imperfetto" che contrapponeva la DC al PCI (Galli 1966). Sinistra e destra hanno, nel
contesto italiano, assunto un particolare peso e significato perché connessi
nell'immaginario popolare alla contrapposizione fra questi due partiti, che guidavano
ripetitivamente le coalizioni di governo e le forze di opposizione.
Il bipartitismo italiano era però "imperfetto": per le condizioni esistenti a livello
internazionale, fino al 1989 appariva molto difficile, se non impossibile, un'alternanza.
Fino al 1992 la quasi totalità dei consensi elettorali era raccolta da un insieme di sette
partiti (DC, PCI, PSI, MSI, PRI, PSDI, PLI, vedi 1.4). Il comportamento degli elettori
è stato tale da garantire per molti anni una relativa stabilità nei rapporti di forza fra
queste formazioni politiche: spostamenti di soli 1 o 2 punti percentuali sono stati
spesso sufficienti per parlare di vittoria o, viceversa, di sconfitta di una lista.
Tabella 4.1 - Percentuali di voto alle Elezioni per la Camera
1953 1963 1976 1987 1992
Rif.
Comunista 1,5 1,7 5,6
(DP)
Fino alla fine degli anni Ottanta, l'identificazione con un partito politico è sempre
stata molto più diffusa in Italia rispetto ai principali paesi europei (Germania, Francia,
Gran Bretagna) (Biorcio e Manhaimer, 1995: 212). Ciò dipende dal peso che in Italia
hanno storicamente assunto le subculture politiche (in particolare quella di
derivazione cattolica e quella di derivazione socialcomunista). Milioni di iscritti ai
grandi partiti di massa, la partecipazione elettorale che si manteneva elevatissima,
l'ampiezza raggiunta dalle mobilitazioni politiche e sociali sembravano confutare
inequivocabilmente l'idea di un Paese dominato dall'alienazione politica. La capacità
di rappresentanza degli interessi attribuita ai partiti politici è stata invece sempre
molto bassa in Italia, soprattutto rispetto a Germania e Gran Bretagna. Negli altri
paesi europei è relativamente più diffuso un tipo di legame con i partiti di tipo
pragmatico.
La stabilità elettorale italiana è stata spiegata con la diffusione del cosiddetto "voto di
appartenenza" (Continuità e mutamento elettorale in Italia 1977). Con l'opzione elettorale
molti elettori riconfermavano in tutte le elezioni la propria adesione/identificazione
rispetto alle valenze politiche e culturali associate ad un determinato simbolo. Una
riprova indiretta dell'attaccamento ai diversi simboli elettorali esistenti si è
puntualmente realizzata in occasione della presentazione unitaria di coalizioni di due
o più partiti: la coalizione ha di regola ottenuto meno voti della somma dei voti
conseguiti separatamente dai singoli partiti in precedenza.
I partiti italiani a base popolare avevano allargato il loro consenso con la mediazione
di una rete di organismi collaterali (sindacali, studentesche, culturali, ricreative, ecc.),
in cui l'individuo potesse essere integrato "dalla culla alla tomba". Si era cioè
realizzata un'integrazione politica partigiana, contrapposta non tanto per la differente
composizione sociale quanto per le diverse (e alternative) culture politiche e reti di
integrazione sociale.
La capacità di radicarsi e di "farsi tradizione", integrando famiglia e ambiente, ha
caratterizzato il radicamento dei partiti di massa in particolari aree del Paese. Le
diverse esperienze storiche e le culture che si sono sedimentate sul territorio nazionale,
insieme alle diverse strutture economiche conviventi nella regione, hanno favorito una
forte differenziazione degli atteggiamenti politici su base territoriale. Negli anni
Sessanta i ricercatori dell'Istituto Cattaneo avevano individuato quattro aree
nettamente distinte per storia, tradizioni politiche e processi di sviluppo (Galli e altri
1968). La zona "Nord-Est", a egemonia democristiana, era formata dal Veneto, dal
Friuli e dal Trentino, insieme alle province lombarde di Bergamo e Brescia. La "zona
rossa", a egemonia comunista, era formata dall'Emilia, dalla Toscana, dall'Umbria, da
buona parte delle Marche e dalle province di Mantova, Rovigo e Viterbo. Le restanti
province della Lombardia, insieme al Piemonte e alla Liguria, furono assegnate al
"Nord-Ovest", la zona di più forte sviluppo industriale concentrato nel triangolo
Torino-Milano-Genova. Il Lazio insieme a tutte le regioni del Mezzogiorno furono
assegnate alla "zona meridionale".
Nelle prime due zone esisteva una specifica subcultura predominante. In queste aree
territoriali (le cosiddette "zone bianche" e "zone rosse") la tradizione politica si era
fortemente integrata con le subculture locali. La zona Nord-Ovest aveva una
fisionomia politica meno definita e più estesa era la mobilità elettorale. Nella zona
meridionale manteneva un ruolo dominante il "clientelismo semi-feudale e conservatore"
(Galli et al. 1968: 75). Le quattro zone territoriali hanno mantenuto tendenze
elettorali ben distinte, almeno fino agli anni Ottanta.
Tabella 4.2 - Percentuali di voto per aree territoriali (Elezioni per la Camera 1953 e
1987)
ELEZIONI Nord Nord Regioni Sud e
Italia
1953 ovest est 'rosse' isole
Due eventi esterni alla sfera della competizione partitica hanno indebolito gravemente
i fondamenti della identità e le capacità di conquistare consenso da parte della DC,
del PCI e del PSI, rendendo irreversibile la transizione a un diverso sistema politico.
La caduta del Muro di Berlino, con il dissolversi dei regimi dei paesi del blocco
sovietico e la fine della guerra fredda (vedi la scheda la guerra fredda), hanno inciso
profondamente sulle dimensioni su cui si era costruito il nostro sistema di
rappresentanza. Si sono indeboliti la cultura e i riferimenti simbolici della principale
forza della sinistra italiana. Ma è risultato indebolito anche il tradizionale ruolo di
"diga anticomunista" svolto dalla DC. Il PCI abbandonava la tradizione comunista e
avviava una difficile transizione verso una nuova collocazione politica. La
maggioranza del partito, guidata da Occhetto, fondava il PDS (Partito Democratico
della Sinistra) che aderiva al Partito Socialista Europeo. Una minoranza del PCI non
ha aderito al nuovo partito, e ha fondato Rifondazione Comunista.
L'esplodere delle inchieste della magistratura sugli intrecci fra politica e affari
("Tangentopoli"; vedi il modulo Politica e istituzioni nell’Italia repubblicana, 7.3) ha poi
definitivamente delegittimato la classe politica italiana della Prima Repubblica,
colpendo in particolare gli esponenti della DC e del PSI.
Il procuratore
Antonio Di Pietro
L'indagine era partita il 17 febbraio 1992 con l'arresto dell'ingegnere Mario Chiesa,
amministratore di un ospizio per anziani, che rivelò il sistema della riscossione di
tangenti consolidato da anni nel capoluogo lombardo (Della Porta 1999). La pubblica
accusa era gestita dal procuratore Di Pietro e da un gruppo di magistrati definito
come "Pool Mani pulite". Le inchieste investirono il PSI, la DC e i loro alleati di
governo, ma anche una parte del PCI milanese risultò organicamente coinvolta e
connivente con le pratiche di scambi occulti fra uomini d'affari, politici e
amministratori. Furono inviati avvisi di garanzia a due ex-sindaci socialisti di Milano:
Paolo Pillitteri, cognato di Bettino Craxi, e Carlo Tognoli. I media riservarono grande
attenzione alle inchieste sulla corruzione che investivano livelli sempre più alti del
potere politico. Le rivelazioni sul sistema di corruzioni e i processi che coinvolgevano
anche alcuni leader nazionali provocarono un crollo di credibilità dei partiti
tradizionali agli occhi dell'opinione pubblica. Molti imprenditori tesero a presentarsi
come innocenti vittime dei politici. Ma il sistema di corruzione si era sviluppato e
diffuso capillarmente perché fondato su reciproci vantaggi e scambi fra ceto politico e
operatori economici.
Con l'attuazione del sistema elettorale maggioritario a partire dalle elezioni
amministrative del giugno 1993, si avviò concretamente la trasformazione del sistema
dei partiti italiani. Quasi ovunque assunsero un ruolo da protagonisti i candidati
collegati a coalizioni basate sui partiti di opposizione di sinistra, meno coinvolti nelle
inchieste della magistratura. I candidati espressi dalle tradizionali forze di governo non
erano in grado di opporsi a quelli di sinistra. A contrastare la sinistra erano invece
quasi ovunque nelle regioni settentrionali i candidati collegati alla Lega Nord e, nel
Centro e nel Sud, i candidati del MSI.
In questo contesto di competizione politica, e per contrastare le annunciate possibilità
di accesso al potere governativo della sinistra, si realizzò la "discesa in campo" di
Berlusconi, che fondò Forza Italia e promosse la coalizione di centrodestra. Il vuoto
politico creato dalla crisi degli storici partiti di governo aveva creato lo spazio politico
per la formazione di un grande partito moderato in grado di opporsi validamente alle
sinistre. La scelta strategica innovativa di Berlusconi fu quella di coprire questo vuoto
inglobando due forze politiche (la "Lega" e il MSI) estranee al precedente sistema
partitico.
La crisi definitiva della Prima Repubblica è stata accelerata dall'affermarsi nello stesso
periodo di nuove regole per la competizione elettorale e di nuovi partiti politici. Questi
processi hanno condizionato le forme della transizione a un nuovo sistema politico.
Le elezioni del 1994 e quelle del 1996 rappresentarono una tappa importante nel
passaggio dallo storico "bipartitismo imperfetto" a una sorta di "maggioritario
imperfetto" all'italiana. Dopo il referendum del 1993 gli elettori italiani si sono
confrontati con le molteplici versioni del sistema maggioritario (nelle elezioni
comunali, provinciali, regionali, nazionali), imparando a esprimere il voto in forme
molto diverse, sia con uno che con due turni elettorali (vedi il modulo L’organizzazione
della Repubblica, 1.4). Il dispositivo del sistema maggioritario ha favorito la tendenza alla
bipolarizzazione degli orientamenti elettorali in riferimento ai candidati (e alle
coalizioni) ritenuti più forti. Si è affermato così un potenziale dualismo nella scelta di
voto: da una parte si può ancora esprimere la propria identificazione rispetto a un
partito, dall'altro si esprime una opzione rispetto a uno dei possibili governi.
Nel 1994 il carisma extra-politico di Berlusconi, unito a una grande disponibilità di
mezzi (economici, organizzativi e propagandistici), e a un'efficace diversificazione delle
alleanze al Nord e al Sud garantirono il successo del nuovo partito e della coalizione di
centrodestra. Forza Italia divenne il primo partito italiano e riuscì ad ottenere il
consenso elettorale necessario a una conquista immediata del Governo. I Progressisti
(le formazioni che discendono dalla tradizione comunista - PDS e Rifondazione
Comunista - alleate con la Rete, i Verdi, Alleanza Democratica) riuscirono ad
affermarsi solo tra gli elettori di sinistra e di centro sinistra, conquistando solo quote
marginali di elettorato di centro. Il riferimento privilegiato alla tradizione cattolica
non garantì un buon risultato per la coalizione di centro. La logica del sistema
maggioritario ridimensionò pesantemente le possibilità di successo delle altre forze
politiche. L'elettorato del Partito Socialista praticamente si dissolse e i partiti eredi
della DC (PPI e Patto Segni) ottennero limitati consensi.
La fase di instabilità politica non terminò però nel 1994. L'alleanza fra Lega e Forza
Italia durò pochi mesi. Umberto Bossi, temendo la subalternità e il dissolvimento del
suo movimento a vantaggio di Berlusconi, decise di rompere la coalizione di
centrodestra. Per contrastare il Polo, il PDS, il PPI e altre forze di centrosinistra
formarono nel 1995 la coalizione dell'Ulivo. La divisione fra Polo e Lega consentì al
centrosinistra un significativo recupero nelle elezioni politiche del 21 aprile 1996. La
rottura con la Lega aveva d'altra parte modificato parzialmente l'identità politica di
Forza Italia. Era diventato più stretto e coinvolgente il legame con Alleanza Nazionale,
formazione politica nata dalla trasformazione del MSI e radicata soprattutto nelle
regioni meridionali. L'Ulivo presentava una fisionomia moderata e responsabile e
appariva in grado di risanare le ferite ancora aperte nella situazione italiana e di
chiudere la fase di emergenza politica. Le elezioni del 1996 registrarono una sconfitta
politica per il Polo, malgrado una significativa crescita del consenso per Alleanza
Nazionale e un consolidamento relativo, e da qualcuno inatteso, di Forza Italia.
L'Ulivo insieme a Rifondazione Comunista conquistò la maggioranza in Parlamento.
Si formò un Governo presieduto da Prodi. Il nuovo sistema elettorale -
prevalentemente maggioritario - aveva favorito un esito da molti ritenuto desiderabile:
l'avvio di una possibile alternanza delle coalizioni di governo.
Tabella 4.3 - Elezioni per la Camera (1994-2001): percentuali voto proporzionale
1994 1996 2001
Lista Dini (RI) 4,3
Alleanza 12,0
13,5 15,7
Nazionale
Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta questo quadro subì profonde trasformazioni.
Nel 1967 e nel 1968 si sviluppò la mobilitazione degli studenti che investì pressoché
tutte le università italiane. Nello stesso periodo crebbe anche la partecipazione operaia
alle vertenze sindacali, che toccò i livelli più elevati nel 1969, nel periodo passato alla
storia come l'"autunno caldo" per le forme di lotta innovative e radicali praticate (vedi
i moduli Politica e istituzioni nell’Italia repubblicana, 5.1 e 5.2 e La società italiana dal
dopoguerra a oggi, 4.3).
Persistevano negli anni Ottanta le storiche differenze fra le regioni italiane nella
diffusione dell'associazionismo e della cultura civile. Il politologo americano Robert
Putnam ha condotto una lunga ricerca sul livello di senso civico esistente nelle regioni
italiane per spiegare le differenze di rendimento delle nuove istituzioni regionali.
Furono utilizzati quattro indicatori: 1) il numero delle associazioni sportive culturali,
ricreative e di impegno sociale rapportato alla popolazione della regione; 2) i livelli di
partecipazione elettorale nelle consultazioni referendarie; 3) la diffusione della lettura
dei quotidiani; 4) infine la tendenza a esprimere una quota ridotta di voti di
preferenza, considerati come segno di dipendenza da legami di tipo clientelare. Il
livello di civismo risultò molto elevato soprattutto in Emilia-Romagna, Toscana e
Trentino-Alto Adige, seguite dalle più importanti regioni del Nord (Lombardia,
Piemonte, Liguria, Veneto). Il livello di civismo diminuiva invece nettamente in quelle
meridionali. La relazione del livello di civismo con il rendimento delle istituzioni
regionali risultava molto forte e significativa.
I risultati della lunga ricerca avvaloravano così l'ipotesi che non erano tanto il livello di
sviluppo economico, le modalità o l'orientamento politico dei governi a spiegare il
buon funzionamento delle istituzioni democratiche. E Putnam poteva formulare la
conclusione che "Il civismo della regione spiega il funzionamento delle istituzioni. Il fattore decisivo
più importante è il grado in cui la vita politica e sociale di una regione si avvicina all'ideale della
comunità civica" (Putnam 1993: 140).
Le tradizioni civiche secondo Putnam si sono formate in una lunga storia, a partire
dalle condizioni che esistevano nelle diverse regioni italiane fra il 1100 e il 1300. La
monarchia feudale dei Normanni aveva governato il Mezzogiorno, mentre le regioni
centrosettentrionali avevano conosciuto esperienze comunali e repubblicane (Putnam,
1993: 156). Il capitale sociale esistente in queste regioni aveva consentito lo sviluppo di
un circuito virtuoso fondato sul binomio reciprocità/fiducia, creando le condizioni per
lo sviluppo di una comunità civica. Nelle regioni meridionali, le relazioni sociali
fondate sul binomio subordinazione/sfruttamento avevano invece ostacolato lo
sviluppo del capitale sociale e del senso civico (Putnam 1993: 211).
I risultati ottenuti da Robert Putnam sono stati verificati dalle ricerche comparative
realizzate da Ronhald Inglehart sui mutamenti dei valori e della cultura politica
(Inglehart 1993). La ricerca di Inglehart conferma le differenze fra regioni del Nord,
del Centro e del Sud già evidenziate da Putnam. Il quadro però non si manteneva
statico: tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta si verificava una
crescita del senso civico degli italiani che faceva diminuire le differenze rispetto agli
altri paesi europei.
L'espansione dell'associazionismo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta è stata
rilevante. Tra il 1983 e il 1997 l'adesione alle associazioni sociali ha avuto un netto
incremento, e ha coinvolto un quinto della popolazione italiana adulta. È cresciuta
anche la quota di popolazione che svolge attività volontaria gratuita, soprattutto
orientata a forme di assistenza e di servizi. Sono apparse nettamente in calo le forme
tradizionali di partecipazione politica: si sono dimezzate le adesioni ai partiti politici.
Il forte ridimensionamento di questa forma di partecipazione democratica segnala
solo la minore capacità di attrazione di queste organizzazioni e l'indebolimento del
loro radicamento sociale, eha reso evidente la fine del collateralismo: la drastica
riduzione della capacità dei partiti politici e dei loro attivisti di esercitare influenza
sulle molteplici reti organizzative esistenti nella società civile. Nel periodo considerato,
sono diminuite anche in modo significativo le adesioni alle organizzazioni di
rappresentanza degli interessi: sono nettamente cadute le adesioni ai sindacati e alle
associazioni professionali e di categoria.
Tabella 5.1 - Partecipazione associativa in Italia fra il 1983 e il 1997 (percentuali sulla
popolazione fra 18 e 74 anni)
Partecipano:
Associazioni
17,5 20,5 +3,0
sociali
Associazioni di
11,1 8,4 2,7
categoria
Svolgono attività
10,7 12,2 +1,5
di volontariato
Un laboratorio scolastico
Il sistema scolastico italiano è stato per lunghi anni condizionato dalle scelte
fondamentali contenute nella legge Casati, promulgata nel 1859 (vedi 6.2) e nella
riforma Gentile, del 1923 (vedi 6.3). La legge Casati era stata adottata inizialmente
dallo Stato Piemontese, e la sua validità fu estesa a tutto il Regno d'Italia nel 1877. La
riforma Gentile nasceva da una concezione aristocratica della scuola e della cultura.
Sul terreno scolastico si realizzò inizialmente una piena collaborazione fra l'idealismo
di Gentile e il fascismo. Successivamente il regime fascista introdusse alcuni correttivi,
anche per venire incontro allo scontento sollevato dall'eccessiva severità della riforma.
Gli interventi legislativi dell'epoca fascista svuotarono però progressivamente i principi
liberali contenuti nella riforma Gentile e delinearono un ordinamento rigido e
autoritario.
La Costituzione del 1948 introduceva a livello di principio importanti rotture con
l'ordinamento fascista del sistema di istruzione. Si affermava solennemente la libertà di
insegnamento e l'autonomia delle istituzioni formative (art. 33). Si stabiliva il principio
del diritto allo studio e l'impegno dello Stato per la sua realizzazione:
La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I
capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La
Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che
devono essere attribuite per concorso (art. 34).
Ma il percorso per realizzare il modello di sistema scolastico delineato dalla
Costituzione si è rivelato difficile e complesso.
La durata dell'istruzione elementare prevista dalla legge Casati era inizialmente di solo
due anni. Ma il compito di istituire scuole elementari era attribuito ai Comuni e
l'obbligatorietà dell'istruzione non era fatta rispettare. Con la legge Coppino (1877) si
innalzò l'obbligo di un anno e si stabilirono sanzioni per gli inadempienti. Nella
popolazione italiana, che all'epoca era per quasi il 70% impegnata in attività agricole,
la domanda di istruzione era molto limitata e l'evasione dall'obbligo scolastico molto
diffusa. Con il progredire dell'industrializzazione del Paese, la durata dell'istruzione
obbligatoria si è progressivamente innalzata: dall'8° anno nel 1859 (legge Casati), al 9°
anno nel 1877 (legge Coppino), al 12° anno (legge Orlando). Con la legge Gentile
(1923) l'obbligo fu esteso fino al 14° anno.
Nel secondo dopoguerra, la scuola di base rimase sostanzialmente immutata fino al
1962. Il sistema scolastico italiano restava fondato su una selezione precoce degli
alunni, che avveniva a undici anni, al termine della scuola elementare. Il sistema di
formazione di base era rimasto sostanzialmente immobile per cento anni, come
l'aveva creato la legge Casati e riconfermato la legge Gentile: un sistema fondato sul
doppio binario, che non offriva alternative. Ogni ceto aveva la sua scuola. Una scuola
umanistica (contraddistinta dal latino e dalla possibilità di accedere alla scuola
superiore e all'università) per la formazione della classe dirigente. Una scuola di tipo
tecnico professionale, senza latino e senza sbocchi nell'istruzione superiore, per le classi
popolari. La riforma Gentile aveva accentuato la separazione dei due tipi di
istruzione, moltiplicando i generi di istruzione successivi alla scuola elementare.
Furono create sia classi integrative post-elementari che la scuola complementare, poi
riassorbite nella scuola di avviamento professionale.
All'inizio degli anni Cinquanta solo il 35% dei ragazzi di 13 anni frequentava ancora
la scuola. Alla fine del decennio, il 51% dei ragazzi arrivava a compiere l'obbligo
formativo.
La situazione è profondamente cambiata dopo l'istituzione della scuola media unica
nel 1962. La scolarizzazione a livello di base ha conosciuto una brusca impennata
negli anni Sessanta. Dopo l'introduzione della scuola media unica, gli iscritti sono
raddoppiati nell'arco di un decennio. Da circa 800.000 del 1952-53 gli studenti
passarono a oltre due milioni nel 1969-70. Alla fine degli anni Sessanta, il 74% dei
ragazzi di 13 anni frequentava la scuola media.
Anche la scuola secondaria superiore è stata per lunghi anni condizionata dalle scelte
fondamentali contenute nella legge Casati e nella riforma Gentile. La legge Casati
riservava la definizione di scuola secondaria solo ai corsi preparatori all'università: il
ginnasio e il liceo classico. La riforma Gentile cercò di articolare meglio la scuola
superiore per porre un argine all'aumento crescente della popolazione scolastica. La
riforma accentuò la separazione fra i vari ordini paralleli di scuole successive alle
elementari. Fu attribuita una netta preminenza al liceo classico, facendone il centro
della cultura umanistica, identificata con la cultura nazionale. Alla cultura e
all'istruzione tecnica venne riservato un semplice valore professionale. Venne creata
una complessa gerarchia fra i tipi di scuole secondarie che doveva riprodurre quella
delle classi sociali e delle strutture occupazionali esistenti nella società.
Anche dopo la creazione della Repubblica, la scuola media superiore è rimasta
sostanzialmente legata all'impostazione precedente. La struttura dell'istruzione
secondaria non solo era complessa, ma anche estremamente rigida, perché erano
molto difficili i passaggi fra tipi di scuola. Gli iscritti alla scuola media superiore, solo
455 mila nel 1952, diventarono 740 mila nel 1960. Dopo l'introduzione della scuola
media unica nel 1962, raddoppiò in pochi anni l'iscrizione a licei e istituti medi
superiori, passando a 1.401.185 nel 1967 e a 1.732.178 nel 1970. La percentuale di
giovani che frequentava la scuola media superiore crebbe bruscamente da poco più
del 10% agli inizi degli anni Cinquanta, al 17% agli inizi degli anni Sessanta fino a
superare il 35% all'inizio degli anni Settanta. Si diffuse sempre più sul piano sociale il
principio del diritto di tutti ad avere il massimo di istruzione possibile (vedi il modulo
La società italiana dal dopoguerra a oggi, 6.1). Dalla fine degli anni Sessanta la scuola
secondaria superiore era così diventata di massa, sospinta dal dinamismo economico
sociale crescente, che fece crescere le aspettative di mobilità individuale.
Venne però a mancare ogni intervento organico di riforma dei piani di studio e di
riorganizzazione delle strutture scolastiche in grado di adeguare l'offerta formativa alla
crescente domanda. Il complesso del sistema scolastico italiano rimase sostanzialmente
identico a quello progettato da Gentile negli anni Venti. Le scuole superiori erano
rimaste divise fra i licei, rivolti a una formazione elitaria e incentrati su una cultura
umanistica disancorata da ogni finalità professionale, e gli istituti tecnici e
professionali, pensati come luogo di formazione dei giovani destinati a un inserimento
sul mercato del lavoro con ruoli tecnici ed esecutivi. Si accresceva il divario fra i profili
professionali richiesti dal mercato e la formazione impartita dall'istruzione tecnica, per
la lentezza dell'aggiornamento dei programmi e delle competenze degli insegnanti.
I tassi di scolarità dei giovani fra i 15 e i 18 anni crebbero ulteriormente negli anni
Ottanta e Novanta. Si innalzarono i livelli di istruzione nel complesso della
popolazione. La percentuale di persone fra i 25 e i 64 anni con il diploma di scuola
media crebbe fino a raggiungere il 38% nel 1996 (Ocde 1998). Ma la diffusione
dell'istruzione secondaria in Italia, alla fine degli anni Novanta, era ancora molto al
disotto dei livelli toccati da paesi come gli Stati Uniti (86%) la Germania (81%) la
Gran Bretagna (76%) e la Francia (60%).
6.4 - L'università
Fino al 1969 gli accessi all'Università restavano preclusi per gli studenti provenienti da
molti istituti. Solo per gli studenti usciti dal liceo classico erano accessibili tutti i corsi
universitari. Possibilità più ridotte erano riservate agli studenti del liceo scientifico e
ancora più limitate a quelli degli istituti magistrali e tecnici. Dopo l'esplosione del
movimento studentesco, tra il 1967 e il 1968, il Governo fece approvare una legge per
allargare le possibilità di accesso all'università. Fu modificato l'esame che concludeva
la scuola media superiore, rendendolo meno selettivo. Fu liberalizzato l'accesso a tutte
le facoltà universitarie per gli studenti provenienti da tutti i tipi di scuola secondaria
superiore. Un rapido aumento delle immatricolazioni universitarie si era peraltro già
verificato negli anni precedenti. Tra il 1960 e il 1969 gli studenti passarono dal
268.000 a 642.000. Tra il 1961 e il 1966 la crescita della scolarità universitaria fu del
54%; fra il 1966 e il 1969 del 70%. Nel quinquennio 1970-75, dopo la liberalizzazione
degli accessi, gli iscritti all'università ebbero un ulteriore aumento del 70,5%. Il
numero degli iscritti continuò a crescere negli anni successivi, superando il milione e
mezzo nel 1993.
Secondo molti sondaggi, polizia e carabinieri sono le due istituzioni in cui gli italiani
hanno più fiducia. Ma non esiste uguale convinzione sulla efficacia della loro azione.
Le forze dell'ordine sono in numero sufficiente per contrastare la delinquenza. Alla
fine del secolo, in Italia ci sono 488 agenti ogni 100.000 abitanti, rispetto alla media di
375 agenti ogni 100.000 cittadini dell'Unione Europea. Ma le statistiche ufficiali
provano che le forze dell'ordine sono impiegate male nel nostro Paese. L'Italia ha il
primato negativo per numeri di delitti risolti: si scopre un colpevole per il 65% per
cento degli omicidi contro il 95% per cento della Germania (dove gli agenti sono solo
320 ogni 100.000 abitanti). Negli ultimi anni il numero dei delitti senza colpevole ha
subito un ulteriore incremento, passando all'84% di tutti i delitti denunciati, contro
l'81% per cento del 1998. Per il furti denunciati, il livello di reati non puniti è salito al
95%. Il coordinamento fra i diversi corpi che si impegnano contro la criminalità in
Italia resta d'altra parte molto insoddisfacente: si verifica spesso duplicazione,
sovrapposizioni e inutile concorrenza delle indagini, fra Polizia e Carabinieri.
Un'aula di tribunale
Ma anche se si individuano i responsabili, gran parte di essi non sconta le pene
previste dal codice. Circa l' 80% dei reati finisce in prescrizione prima che il colpevole
passi i tre gradi di giudizio. La durata media di un procedimento penale è di 443
giorni in tribunale, 601 giorni presso la Corte d'appello, e di 166 giorni in Cassazione.
A questi tempi vanno aggiunti quelli dovuti alle operazioni per presentare i ricorsi e
alla lentezza della burocrazia. Tra il 1991 e il 1999, 17.500 detenuti sono stati
scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Per fronteggiare l'allarme
dell'opinione pubblica per la diffusione e l'impunità della criminalità, sono state
proposte dai governi diverse misure: pene più severe per scippi e furti in casa,
prolungamento della custodia cautelare in carcere, norme per frenare la sospensione
condizionale della pena. L'inasprimento delle pene non può avere una reale efficacia,
perché per gran parte dei delitti non si trova il colpevole. Anche la strategia operativa
etichettata con l'espressione "tolleranza zero" - resa celebre dalle iniziative del sindaco
di New York Giuliani - rischia di essere un insuccesso. Secondo i criminologi infatti il
declino della criminalità americana è imputabile soprattutto a fattori demografici e
occupazionali. La tolleranza zero con arresti in massa se ha ridotto alcuni reati nel
breve periodo, produce effetti che favoriscono il loro aumento a medio termine.
Le principali organizzazioni mafiose che operano in Italia sono Cosa nostra (Sicilia), la
'ndrangheta (Calabria), la Camorra (Campania). Ciascuna delle associazioni mafiose ha
una storia e tratti peculiari. Cosa nostra ha una struttura piramidale, con un vertice (la
commissione) che raccoglie i capi a livello provinciale e un vertice regionale. Può
contare su circa 5000 affiliati, selezionati sulla base di criteri di affidabilità, e tenta di
esercitare un controllo totale sul territorio. Si adatta con flessibilità all'ambiente e alle
sue trasformazioni e utilizza tutti i mezzi per estendere la propria influenza: relazioni
di scambio con uomini politici e amministratori, infiltrazioni nei più diversi ambiti,
sviluppo di relazioni familiari, costituzione di clientele e concessione di favori per
ottenere contropartite. Cosa nostra ha colpito, senza esitazione, magistrati, forze
dell'ordine, uomini politici e amministratori che si opponevano al suo potere sul
territorio e cercavano di sviluppare un'efficace azione antimafia.
La 'ndrangheta calabrese ha invece una struttura orizzontale che comprende 144
organizzazioni con circa 5600 affiliati. Esistono rapporti fra i diversi gruppi, ma
manca una direzione unificata. La 'ndrangheta esercita il controllo sul territorio
attraverso la sua grande diffusione tra la popolazione: si stima che esista un suo
affiliato ogni 383 abitanti della Calabria.
La Camorra, che ha la sede principale in Campania, è ancora più polverizzata,
suddivisa in molteplici gruppi che si aggregano e disgregano continuamente. Può
contare su circa 6800 affiliati, ma non ha alcun vertice regionale di direzione. La
Camorra esercita il controllo sul territorio attraverso la gestione di molteplici attività da
cui dipendono economicamente le famiglie degli strati più poveri della popolazione:
dalla falsificazione dei capi di abbigliamento firmato alla duplicazione abusiva di
compact disc e videocassette, fino allo spaccio minuto di droga. Mentre Cosa nostra e la
'ndrangheta gestiscono soprattutto l'importazione delle grandi partite di droga, lasciando
alla malavita di quartiere lo spaccio, la Camorra campana si occupa direttamente della
piccola distribuzione.
Per molti anni, grazie ai legami e alle connivenze delle organizzazioni mafiose con
politici, amministratori locali e soprattutto con i partiti di governo, la lotta dello Stato
contro il crimine organizzato nelle regioni meridionali è stata inefficace e
contraddittoria. Solo negli anni Ottanta la strategia di attacco contro la mafia cambiò.
Si comprese che non era utile cercare solo i responsabili dei singoli delitti, ma
occorreva colpire la mafia nel suo complesso, come organizzazione criminale
organizzata. Nel 1982 la legge Rognoni-La Torre introdusse il concetto di
associazione mafiosa, e più efficaci pene contro i mafiosi. Si costituì a Palermo un pool
di magistrati antimafia, che sviluppò l'iniziativa giudiziaria per colpire Cosa nostra come
organizzazione centralizzata. Per smantellare l'organizzazione fu utilizzata una
legislazione speciale per i pentiti, che potevano ottenere benefici e sconti di pena
collaborando con la giustizia. La mafia ha cercato di reagire. Furono colpiti i giudici
più impegnati: Falcone e Borsellino, assassinati nel 1992 (vedi la scheda Giovanni Falcone
e Paolo Borsellino ). Ma furono colpiti anche esponenti politici che non garantivano più
protezione: il democristiano Salvo Lima e l'esattore siciliano Ignazio Salvo.
Negli anni Novanta i governi cercarono di promuovere una più efficace politica
antimafia. È stata costituita la DIA (direzione investigativa antimafia), che coordina gli
organi investigativi su tutto il territorio nazionale. A livello della magistratura fu creata
la Direzione nazionale antimafia per centralizzare l'azione giudiziaria contro la
criminalità organizzata.
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Letture consigliate
Roberto Biorcio (1997), La Padania promessa. La storia, le idee e la logica d’azione della Lega Nord,
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Continuità e mutamento elettorale in Italia (1977), a cura di A. Parisi e G. Pasquino, Bologna, Il
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Donatella Della Porta (1999), La politica locale, Bologna, Il Mulino.
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Sitografia
-Per qualsiasi dato riguardante la popolazione:
http://www.istat.it
-Per conoscere la Costituzione italiana:
http://www.quirinale.it/costituzione/costituzione.htm
-Per avere maggiori informazioni sulla DIA:
http://www.interno.it/dip_ps/dia/
-Per conoscere gli enti territoriali italiani:
http://affariinterni.interno.it/
-Per i dati sulla criminalità in Italia
http://www.poliziadistato.it/pds/primapagina/note_sulla_sicurezza/2006.htm
-Per conoscere la storia dei Governi italiani dal 1943 ad oggi:
http://www.governo.it/Governo/Governi/governi.html