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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv.

(Monastero di Montefano - Fabriano)

APPUNTI
SULLA
REGOLA DI
S.BENEDETTO
di
D.Lorenzo
Sena, OSB.Silv.
sansilvestro@pasadena.it

INDICE GENERALE

INDICE DEI CAPITOLI DELLA


REGOLA (in ordine progressivo)

INDICE GENERALE (di questo commentario)

INTRODUZIONE GENERALE

1. L'autore

2. Il libro

3. Struttura e divisione

4. Fonti della Regola

5. Relazione con la
Regula Magistri

6. Lingua e stile della Regola

7. Modello sapienziale

8. L'uso della Bibbia nella Regola

9. Manoscritti della Regola

10. Edizioni della Regola

11. Commenti alla Regola

Appendice: le Congregazioni
Benedettine

COMMENTO AL TESTO

Prologo

CAP. 73 - Non tutte le norme della perf.sono


contenute in questa Reg.

CAP. 1 - Delle varie specie dei monaci

CAP. 2 - Quale debba essere l'abate

CAP. 64 - L'elezione dell'abate

CAP. 3 - La convocazione dei fratelli a consiglio

SEZIONE ASCETICA (capitoli 4-7 e 68)

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

CAP. 4 - Quali sono gli strumenti delle buone


opere

CAP. 5 - L'obbedienza

CAP. 68 - Se a un fratello vengono comandate


cose impossibili

CAP. 6 - L'amore al silenzio

CAP. 7 - L'umilta`

OPUS DEI (capitoli 8-20; 47; 50; 52)

CAP. 8 - L'Ufficio divino nella notte

CAP. 9 - Quanti salmi debbano dirsi nell'Ufficio


notturno

CAP. 10 - Come debba celebrarsi l'Ufficio


notturno in estate

CAP. 11 - Come si debba svolgere l'Ufficio


notturno nelle domeniche

CAP. 14 - Come debba celebrarsi l'Uff. nott.


nelle feste dei Santi

CAP. 12 - Come si celebra l'Ufficio delle Lodi

CAP. 13 - Come si celebrano le Lodi nei giorni


feriali

CAP. 15 - In quali tempi debba dirsi l'Alleluia

CAP. 16 - Quali siano i divini Uffici durante il


giorno

CAP. 17 - Quanti salmi debbano dirsi in queste


Ore

CAP. 18 - Con quale ordine debbano dirsi i salmi

CAP. 19 - Atteggiamento durante l'Ufficio

CAP. 20 - La riverenza nella preghiera

CAP. 47 - Il segnale per l'Ufficio divino

CAP. 50 - I frat. che lavorano lontano


dall'orat. o sono in viaggio

CAP. 52 - L'oratorio del monastero

Excursus sulla preghiera monastica e nota


bibliografica (Opus Dei)

I COLLABORATORI DELL'ABATE
(capitoli 21; 31; 65)

CAP. 21 - I decani del monastero

CAP. 31 - Quale debba essere il cellerario del


monastero

CAP. 65 - Il Priore del monastero

IL DORMITORIO E IL SILENZIO NOTTURNO (capitoli 22; 42)

CAP. 22 - Come debbano dormire i monaci

CAP. 42 - Che dopo compieta nessuno parli

CODICE PENITENZIALE (capitoli 23-30;


43-46)

CAP. 23 - La scomunica per le colpe

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

CAP. 24 - Quale debba essere il grado della


scomunica

CAP. 25 - Le colpe piu` gravi

CAP. 26 - Quelli che senza autorizzaz. trattano


con gli scomunicati

CAP. 27 - Come l'abate debba essere premuroso


verso gli scomunicati

CAP. 28 - Quelli che, puniti piu` volte non


vogliono correggersi

CAP. 29 - Se i frat. usciti dal monast. debbano


essere riaccettati

CAP. 30 - Come debbano punirsi i fanciulli di


minore eta`

CAP. 43 - Quelli che giungono tardi all'Ufficio


divino o alla mensa

CAP. 44 - Come debbono fare la soddisfazione gli


scomunicati

CAP. 45 - Quelli che sbagliano nell'oratorio

CAP. 46 - Quelli che sbagliano in una qualsiasi


altra cosa

BENI MATERIALI e POVERTA` INDIVIDUALE


(capitoli 32-34; 54-55; 57)

CAP. 32 - Gli arnesi e gli oggetti del monastero

CAP. 33 - Se i monaci debbano avere qualcosa di


proprio

CAP. 34 - Se tutti debbano ricevere il


necessario in misura uguale

CAP. 54 - Se il monaco possa ricevere lettere o


altre cose

CAP. 55 - Vesti e calzature dei fratelli

CAP. 57 - Gli artigiani del monastero

ALIMENTAZIONE DEI MONACI (capitoli


35-41)

CAP. 35 - I settimanari di cucina

CAP. 36 - I fratelli infermi

CAP. 37 - I vecchi e i fanciulli

CAP. 38 - Il lettore di settimana

CAP. 39 - La misura del cibo

CAP. 40 - La misura del bere

CAP. 41 - In quali ore i fratelli debbono


prendere cibo

LA GIORNATA IN MONASTERO (capitoli


48-49)

CAP. 48 - Il lavoro manuale giornaliero

CAP. 49 - L'osservanza della quaresima

RELAZIONI CON L'ESTERNO (capitoli


66-67; 51; 53; 56)

CAP. 66 - I portinai del monastero

CAP. 67 - I fratelli mandati in viaggio

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

CAP. 51 - I fratelli che vanno fuori non molto


lontano

CAP. 53 - Come debbono essere accolti gli ospiti

CAP. 56 - La mensa dell'abate

AGGREGAZIONE AL MONASTERO e FORMAZIONE


(capitoli 58-61+62)

CAP. 58 - Procedura per l'ammissione dei


fratelli

CAP. 59 - I figli dei ricchi o dei poveri che


vengono offerti

CAP. 60 - I sacerdoti che volessero eventualmente


entrare in monast

CAP. 61 - Come debbano accogliersi i monaci


pellegrini

CAP. 62 - I sacerdoti del monastero

RELAZIONI FRATERNE (capitoli 63; 69-72)

CAP. 63 - L'ordine della comunita`

CAP. 69 - In monastero nessuno ardisca difendere


un altro

CAP. 70 - Nessuno osi arbitrariamente percuotere


un altro

CAP. 71 - Che i fratelli si obbediscano a


vicenda

CAP. 72 - Lo zelo buono che i monaci debbono


avere

APPENDICE GENERALE: Valori fondamentali


della Regola

EXCURSUS su L'ABATE DELLA RB (Appendice ai cc.2.3.64 della RB). Vedi:

L.SENA, La figura dell'abate nella RB e problemi attuali. Applicazione ai


superiori delle comunita` silvestrine. In: "Inter Fratres" 35
(1985) 1-29.

EXCURSUS sulla LECTIO DIVINA


(I.Appendice al c.48 - numeraz. propria)

EXCURSUS sul LAVORO MONASTICO


(II.Appendice al c.48 - numeraz. propria)

INDICE DEI CAPITOLI DELLA REGOLA


(in ordine progressivo)

Prologo

CAP. 1 - Delle varie specie dei monaci

CAP. 2 - Quale debba essere l'abate

CAP. 3 - La convocazione dei fratelli a consiglio

CAP. 4 - Quali sono gli strumenti delle buone opere

CAP. 5 - L'obbedienza

CAP. 6 - L'amore al silenzio

CAP. 7 - L'umilta`

CAP. 8 - L'Ufficio divino nella notte

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

CAP. 9 - Quanti salmi debbano dirsi nell'Ufficio notturno

CAP. 10 - Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno in estate

CAP. 11 - Come si debba svolgere l'Ufficio notturno nelle domeniche

CAP. 12 - Come si celebra l'Ufficio delle Lodi

CAP. 13 - Come si celebrano le Lodi nei giorni feriali

CAP. 14 - Come debba celebrarsi l'Uff. nott. nelle feste dei Santi

CAP. 15 - In quali tempi debba dirsi l'Alleluia

CAP. 16 - Quali siano i divini Uffici durante il giorno

CAP. 17 - Quanti salmi debbano dirsi in queste Ore

CAP. 18 - Con quale ordine debbano dirsi i salmi

CAP. 19 - Atteggiamento durante l'Ufficio

CAP. 20 - La riverenza nella preghiera

CAP. 21 - I decani del monastero

CAP. 22 - Come debbano dormire i monaci

CAP. 23 - La scomunica per le colpe

CAP. 24 - Quale debba essere il grado della scomunica

CAP. 25 - Le colpe piu` gravi

CAP. 26 - Quelli che senza autorizzaz. trattano con gli scomunicati

CAP. 27 - Come l'abate debba essere premuroso verso gli scomunicati

CAP. 28 - Quelli che, puniti piu` volte non vogliono correggersi

CAP. 29 - Se i frat. usciti dal monast. debbano essere riaccettati

CAP. 30 - Come debbano punirsi i fanciulli di minore eta`

CAP. 31 - Quale debba essere il cellerario del monastero

CAP. 32 - Gli arnesi e gli oggetti del monastero

CAP. 33 - Se i monaci debbano avere qualcosa di proprio

CAP. 34 - Se tutti debbano ricevere il necessario in misura uguale

CAP. 35 - I settimanari di cucina

CAP. 36 - I fratelli infermi

CAP. 37 - I vecchi e i fanciulli

CAP. 38 - Il lettore di settimana

CAP. 39 - La misura del cibo

CAP. 40 - La misura del bere

CAP. 41 - In quali ore i fratelli debbono prendere cibo

CAP. 42 - Che dopo compieta nessuno parli

CAP. 43 - Quelli che giungono tardi all'Ufficio divino o alla mensa

CAP. 44 - Come debbono fare la soddisfazione gli scomunicati

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

CAP. 45 - Quelli che sbagliano nell'oratorio

CAP. 46 - Quelli che sbagliano in una qualsiasi altra cosa

CAP. 47 - Il segnale per l'Ufficio divino

CAP. 48 - Il lavoro manuale giornaliero

CAP. 49 - L'osservanza della quaresima

CAP. 50 - I frat. che lavorano lontano dall'orat. o sono in viaggio

CAP. 51 - I fratelli che vanno fuori non molto lontano

CAP. 52 - L'oratorio del monastero

CAP. 53 - Come debbono essere accolti gli ospiti

CAP. 54 - Se il monaco possa ricevere lettere o altre cose

CAP. 55 - Vesti e calzature dei fratelli

CAP. 56 - La mensa dell'abate

CAP. 57 - Gli artigiani del monastero

CAP. 58 - Procedura per l'ammissione dei fratelli

CAP. 59 - I figli dei ricchi o dei poveri che vengono offerti

CAP. 60 - I sacerdoti che volessero eventualmente entrare in monast.

CAP. 61 - Come debbano accogliersi i monaci pellegrini

CAP. 62 - I sacerdoti del monastero

CAP. 63 - L'ordine della comunita`

CAP. 64 - L'elezione dell'abate

CAP. 65 - Il Priore del monastero

CAP. 66 - I portinai del monastero

CAP. 67 - I fratelli mandati in viaggio

CAP. 68 - Se a un fratello vengono comandate cose impossibili

CAP. 69 - In monastero nessuno ardisca difendere un altro

CAP. 70 - Nessuno osi arbitrariamente percuotere un altro

CAP. 71 - Che i fratelli si obbediscano a vicenda

CAP. 72 - Lo zelo buono che i monaci debbono avere

CAP. 73 - Non tutte le norme della perf. sono contenute in questa Reg. 43

Testi usati per la compilazione di questi appunti (affinche' non si creda che
sia "farina del mio sacco"!):

BOGGERO, M.B. Appunti sulla Regola di S.Benedetto, pro man., Fabriano 1979.

COLOMBAS, G.M. La Regla de San Benito, Madrid, 1979.

DE VOGUE', A. La Regle de Saint Benoit, voll.7, Paris 1972-77.

LENTINI, A. S.Benedetto. La Regola, 2ed., Montecassino 1980.

WATHEN, A. Introduzione allo studio della Regula S.Benedicti, pro man., Roma
1977-78.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

... e altre "scopiazzature" qua e la' su altri testi. Sopratutto ho seguito


lo schema di COLOMBAS, prendendo molto anche dal suo
testo.

D.Lorenzo Sena, OSB.Silv.

Fabriano, Monastero S.Silvestro, Ottobre 1980

INTRODUZIONE GENERALE

1. L'AUTORE

Benedetto nacque a Norcia verso il 480. Mandato a studiare a Roma, a 20 anni circa,
verso il 500, fuggi' la corruzione e la miseria
del mondo e si rifugio' dapprima in un
piccolo borgo, Affile, a 50 km da Roma, ove pensava di vivere con altre pie persone in
forma ascetica. Cerca poi la solitudine nella valle dell'Aniene, sui monti Simbruini, desiderando
di piacere solo a Dio.

Inizia cosi' in una grotta l'esperienza eremitica nella sua forma piu' pura, tra
incredibili asperita' e penitenze per vari anni: lotta
contro il demonio, lotta con se
stesso, preghiera, macerazioni. Cosi' egli pensa di vivere per sempre.

Ma il Signore ha altri disegni: molti, attirati dalla sua santita', vogliono mettersi
sotto la sua guida, e allora l'anacoreta inizia la sua
esperienza di cenobita e di padre
di monaci. Costruisce a Subiaco o meglio nella valle sublacense 12 piccoli monasteri, con
dodici
monaci ciascuno, retti ognuno da un proprio capo, ma tutti dipendenti da Benedetto
stesso.

Nel corso degli anni si matura nel santo un altro ideale di organizazione e di vita
cenobitica. Verso il 529 si reca a Montecassino,
dove fonda il grandioso monastero. Qui,
nella piena maturita' degli anni e del pensiero, egli scrive la Regola con una
organizzazione che consenta a tutti di vivere e lavorare nel recinto della clausura, con
una costituzione che poggi sulla stabilita'
dei monaci. Dalla Regola, che e' il reflesso
fedele della sua vita - come dice S.Gregorio Magno - appare che l'autore:

- e' un innamorato di Cristo, Signore e Re, e insieme di Cristo sofferente e


paziente, obbediente al Padre;

- e' convinto che nella vita quotidiana in seno alla comunita' si puo' trovare
Dio, oggetto della sua ricerca, poiche' nella comunita'
stessa si realizza il mistero
pasquale di Cristo morto e risorto.

Benedetto muore a Montecassino nel 547(?) o qualche anno dopo.

Cf.Agiografia di Benedetto nello studio approfondito del Libro II dei Dialoghi


di S.Gregorio Magno.

2. IL LIBRO

Come detto sopra, S.Benedetto scrisse la Regola a Montecassino in un periodo databile


dal 530 al 550. Non la scrisse tutta di
getto, ma a poco a poco, rivedendola varie
volte, aggiungendo o togliendo con sapienza varie cose (vedi piu' sotto: 3. Divisione e
struttura della Regola). E' certo che e' stata una gestazione lenta, opera di un uomo
pratico e spirituale, frutto delle sue
convinzioni profonde, delle sue letture,
della sua esperienza di monaco e di abate, docile alla voce dello Spirito che parla alla
Chiesa (cf.RB.Prol. 11).

Benedetto scrive con un suo disegno preciso: un testo chiaro e fisso che non solo
intende impedire il disordine di falsi monaci
(sarabaiti e girovaghi), ma vuol dare ai
cenobiti un corpo di dottrina ascetica sobrio e insieme abbastanza completo, un
equilibrato
ordinamento liturgico per l'Opus Dei e un codice di norme per
tutta l'organizzazione del cenobio. La Regola e insieme un testo
legislativo e
spirituale.

Certo, Benedetto non vuole essere un innovatore riguardo ai principi ascetici e


mistici: venera e segue tutta la tradizione
monastica precedente (lo dice
espressamente nel cap.73). Ma da tutta la materia disseminata nei vari testi delle regole
anteriori a
lui, nella vita dei Padri, negli scritti spirituali di Cassiano,

egli intende trarre un nuovo testo che sintetizza, ordina e perfeziona gli elementi
precedenti.

L'originalita' della Regola appare se si considera lo spirito di cui l'autore la anima:


"la Regola si impose ben presto su quelle
preesistenti per la sua intrinseca
validita'", dicono i Vescovi italiani nel loro Messaggio per il XV Centenario di
S.Benedetto.
Emerge in essa - che Bossuet definisce "dotta e misteriosa sintesi del
Vangelo" - il primato di Dio mediante la ricerca di Lui e
l'adesione a
Lui solo. Il punto qualificante della spiritualita' della Regola e' il cristocentrismo:
Cristo posto al di sopra di tutto e nel
mare di tutte le realta': "Non anteporre
nulla all'amore di Cristo" (RB 4,21); e tutto nel monastero va visto come segno della
sua
presenza. E' veramente la vita del cristiano che non conosce altro se non Gesu' Cristo
(cf.1Cor 2,2) e in lui il senso della vita e
della storia e racchiuso come in un unico
raggio di sole.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Si spiega cosi' il posto centrale che Benedetto assegna alla liturgia, chiama
"Opera di Dio" - Opus Dei. "Nulla preporre all'Opera di
Dio"
(RB 43,3) e "Nulla preporre all'amore di Cristo" (RB 4,21) sono due
espressioni di una unica convinzione: la liturgia infatti e' lo
spazio privilegiato
dell'incontro con Cristo, percio' il santo pone al centro e al culmine della giornata
monastica il momento della
lode divina che ritma il fluire del tempo.

Notiamo poi nella Regola la profonda umanita' fatta di equilibrio e discrezione.


Benedetto ha la caratteristica di saper vedere
l'essenziale, il veramente stabile e
duraturo, mentre e' indulgente per le cose accessorie; considera l'uomo non solo quale
dovrebbe essere, ma anche quale realmente e'. Per cui vuole che le norme si adattino a
persone, condizioni e circostanze, e
rimette ogni disposizione concreta al giudizio
dell'abate. E' la "discrezione" fatta espressamente notare da S.Gregorio
Magno:
"mirabile per la discrezione" - "discretione praecipuam"
(Dial.II,36). Benedetto vuole che ai fratelli malati o gracili si dia un lavoro
piu'
leggero (Rb 48,24); che quando c'e' un lavoro particolramente faticoso l'abate puo'
aumentare la razione del cibo (RB 39,6) e
anche del vino (RB 40,5); raccomanda all'abate
la massima sollecitudine verso i fratelli erranti (RB 27), verso i malati (RB 36);
lascia
all'abate molta liberta' per quanto riguarda il cibo, la bevanda, i vestiti; vuole che ai
fratelli si dia tutto il necessario perche'
non abbiano a lamentarsi (RB 55,19); esorta
l'economo ad essere come un padre per tutta la comunita' (RB 31,2), in modo che
"nella casa di Dio nessuno si rattristi" (RB 31,19).

In compenso insiste sulla disciplina interiore e va diritto alle disposizioni


intime: la ricerca di Dio, l'Opus Dei, l'umilta', l'obbedienza;
qui vuole un impegno totale, una coerenza senza incrinature.

Ecco quindi lo spirito nuovo che Benedetto immette nella Regola; per questo fu
tanto stimata nell'Occidente e col tempo ritenuta
degna di imporsi su tutte le precedenti,
proprio per il suo valore intrinseco.

Per chi scrisse S.Benedetto? Dall'esame interno della Regola appare che egli non
pensava solo a Montecassino, perche' si
presuppongono piu' monasteri, grandi e piccoli,
situati in regioni di clima diverso (RB 40,5-8; 48,7; 55,1; ecc.). Sembra piu'
verosimile
l'ipotesi che egli abbia voluto fissare nello scritto delle norme per i suoi monaci di
Montecassino, di Terracina e forse
anche di Roma e Subiaco, e che poi altri abati
d'Italia, attratti dalla fama di santita' dell'abate cassinese, lo abbiano spinto a
scrivere o abbiano adottato il suo scritto.

La Regola si diffuse presto in tutta Europa. A causa delle vicende tumultuose


dei tempi, e' difficile ricostruire il cammino di
propagazione della Regola. Molto
certamente giovo' alla sua diffusione l'autorita' prestigiosa di Gregorio Magno (sec.VI)
che nei
suoi "Dialoghi" diede speciale risalto alla biografia di Benedetto
(tutto il Libro II) e fece l'elogio del codice monastico. Dagli studi
appare che gia'

agli inizi del sec.VII, la Regola era conosciuta nelle Gallie. Lo stesso vale
per l'Inghilterra, dove probabilmente fu portata da
Agostino e dagli altri
missionari inviati da Gregorio Magno. Da li' penetro' nella Frisia e nella Germania;
si diffondeva
contemporaneamente in Belgio, in Svizzera e in tutte le
regioni dell'Europa Centrale.

Questo non significa che le altre regole erano sparite, specialmente quella di
S.Colombano; solo che alla fine quella di
S.Benedetto fini' col prevalere, persino a Bobbio
stessa, fondazione di Colombano.

Al tempo di Carlo Magno (sec.IX), ormai la Regola dominava. Carlo Magno e poi
Ludovico il Pio, con l'opera di riforma di
S.Benedetto di Aniane, contribuirono
molto alla diffusione e all'affermazione del codice monastico cassinese.

La Regola fu la base di vita a numerose riforme monastiche (congregazioni): Cluniacensi


e Camaldolesi (sec.X); Avellaniti e
Vallombrosani (sec.XI); Cistercensi
(sec.XII); Silvestrini e Celestini (sec.XIII); Olivetani (sec.XIV); Trappisti
(ramo piu' rigoroso dei
cistercensi, sec.XVII); ecc. Anche le costituzioni dei Certosini e
dei Premostratensi sono direttamente influenzate dalla Regola
benedettina. Da essa
prendono ispirazione anche le norme di parecchi ordini militari e ospedalieri del
Medioevo.

Infine, tutte le nuove istituzioni di vita religiosa e regolare che sono fiorite nel
corso dei secoli, si sono ispirate ai principi essenziali
e alle norme fondamentali,
ascetiche e disciplinari, del codice del Patriarca di Montecassino.

3. STRUTTURA E DIVISIONE

Abbiamo gia' detto che Benedetto non compose la Regola di getto, ma durante la sua
vita, un po' per volta, aggiungeva un nuovo
pensiero che modificava o precisava il
pensiero precedente; questa elaborazione continua duro' fino al

termine della sua vita, perche' cambiavano le circostanze e maturava le sue esperienze
di vita monastica.

Possiamo trovare nella Regola delle sezioni piu' o meno integrali (per es., codice
liturgico: capp.8-20; codice penitenziale:
capp.23-30 e 43-46) che forse all'inizio erano
dei fascicoli a parte e poi furono inseriti nel testo. E' evidente poi che i capp.67-73
sono un'appendice aggiunta dopo; in una prima stesura, la Regola terminava al cap.66,
come appare chiaro dalla frase di
cap.66,8.

Cio' che ancora fa pensare a una stesura prolungata nel tempo e' il fatto che alcuni
argomenti sono trattati piu' volte:

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

- due sezioni distinte riguardano le colpe e le penitenze: capp.23-30 e capp.43-36;

- dell'abate si tratta all'inizio (cap.2) e alla fine (cap.64);

- la dottrina dell'obbedienza e' disseminata in tutta la Regola (capp.5; 68; 71; ecc.).

Non possiamo dunque pretendere uno schema troppo preciso. Possiamo tuttavia
tentare una divisione secondo un certo ordine:

- Oltre al Prologo e alla Conclusione (c.73),

- I Parte: sezione spirituale, principi ascetici (cc.1-7);

- II Parte: codice liturgico, (cc.8-20);

- III Parte: sezione disciplinare, leggi varie, (cc.21-72).

Quest'ultima parte, la dividiamo in varie sezioni:

(a) Decani del monastero, (c.21) e modo di dormire (c.22);

(b) codice penitenziale, (cc.23-30 e 43-46);

(c) ordinamento interno del monastero

e uso dei beni temporali, (31-57, eccetto 43-46):

- economo del monastero (31-34)

- disciplina sul vitto (35-41)

- orario e occupazioni dei monaci (42.47-48.54-57 e 49, Quaresima)

- chi e' in viaggio (50-51)

- oratorio (52)

- ospitalita' (53)

(d) accettazione dei candidati, (cc.58-62);

(e) gerarchia monastica, (cc.63-65)

- ordine della comunita' (63)

- elezione dell'abate (64)

- elezione del priore (65)

(f) relazioni con estranei (portineria e fratelli in viaggio, cc.66-67);

(g) relazioni scambievoli tra i fratelli, (cc.68-72).

4. FONTI DELLA REGOLA

S.Benedetto, come qualsiasi altro autore monastico del VI secolo, non aveva la
pretesa di fare un'opera nuova e originale; le
regole cenobitiche si proponevano di
codificare dottrine ascetiche e usi-tradizioni per i monasteri. Benedetto, attraverso uno
studio
profondo ed assiduo, aveva familiare oltre la Bibbia (vedi piu' sotto al n.8
di questa Introduzione Generale), la precedente
letteratura patristica e monastica.

a) San Pacomio.

Nato in Egitto verso il 290 (morto verso il 346), era soldato pagano. Si converti' e si
ritiro' nei deserti d'Egitto a condurre una vita
aspra di penitenza e di preghiera.
Pacomio e' giustamente celebre nella storia del monachesimo cristiano per essere stato il primo
organizzatore della vita ascetica comunitaria: e' veramente il padre del cenobitismo.
La regola che da lui prende nome e' la prima
regola monastica scritta (fu tradotta
in latino da S.Girolamo nel 404) e ad essa si sono riferiti in qualche modo tutti i
legislatori
venuti dopo. La vita monastica dei pacomiani era derivata direttamente
dalla Scrittura, sopratutto NT e in particolare i Vangeli.
Altra caratteristica era imitare
gli esempi dei Padri (Antonio il Grande, Pacomio stesso e cc.). La nota dominante e'
l'organizzazione: si trattava di una specie di villaggio diviso in tante case o
famiglie.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Le osservanze principali sono quelle che poi diverranno comuni a tutti i monaci:
ufficio divino, celebrazioni liturgiche, letture
bibliche, conferenze spirituali, lavoro
di vario tipo secondo le varie "case". Inutile dire che in questi grandi
agglomerati monastici
c'era posto per tutti, c'era possibilita' di vari mestieri e di
varie occupazioni.

Cf. G.TURBESSI, Regole monastiche antiche, 1974, pp.91-102 per l'introduzione e


pp.103-131 per il testo delle Regole.

b) San Basilio

In RB 73,5 S.Benedetto parla di "Regola del nostro santo padre Basilio'. Per dire
cosi', e' evidente che questi era conosciuto bene
in Occidente ai tempi di S.Benedetto.

S.Basilio, detto "Magno", e' uno dei piu' grandi Padri della Chiesa
Orientale. Nacque in Cappadocia nel 329 e fu presto affascinato
dall'ideale monastico;
percio' ando' a vedere la vita degli asceti, in Cappadocia e fuori. Dono' gran parte dei
suoi beni ai poveri e si
ritiro' presso Neocesarea. Presto si trovo' circondato da
discepoli, sopratutto per l'equilibrio della sua vita e per l'impostazione
evangelica
del suo insegnamento. Fu consigliere e maestro di tutti i monaci della Cappadocia e
con somma prudenza e carita'
seppe dare un nuovo volto alla spiritualita' di questi
austeri abitanti delle solitudini, i quali erano di una rigidezza a volte strana e
quasi
selvaggia, quindi mancante di carita', ed erano criticati aspramente da pagani e cristiani
e mal visti dal clero.

Basilio scrisse due collezioni di regole:

- Regole lunghe ("Regulae fusius tractatae") e

- Regole brevi ("Regulae brevius tractatae",

tradotte poi in latino da Rufino.

Basilio non fu tanto un fondatore di un nuovo ordine religioso, quanto un equilibratore


del monachesimo; si preoccupo' di
ripensare l'ideale monastico nella linea della
S.Scrittura, specialmente dei Vangeli, collegandolo alla teologia ecclesiale e
togliendo ogni forma di individualismo egoistico.

E' merito di Basilio aver avvicinato il monachesimo alla cristianita' aver dimostrato a tutti i battezzati l’ideale della perfezione nella
vita degli asceti. La sua influenza divenne maggiore allorche' venne ordinato prete verso il 362 e sopratutto quando
venne
consacrato vescovo nel 370.

Al centro dell'ascesi e della mistica del santo c'e' l'amore di Dio e l'amore
del prossimo; siccome l'ideale di Basilio sgorga
direttamente dai due precetti della
carita', esso e' nello stesso tempo attivo e contemplativo. Non bisogna
certo esagerare circa
l'influsso sociale del monachesimo basiliano, ma e' vero che c'e'
stato, anche se quello del santo e' derivato specialmente dalla
sua qualita' di vescovo.
S.Basilio mori', appena cinquantenne, nel 379. E' uno dei piu' grandi Padri e Dottori
della Chiesa.

Cf. G.TURBESSI, o.c., pp.133-147 per l'introduzione e pp.148-266 per il testo


delle Regole.

c) Sant'Agostino

Agostino e' uno dei piu' grandi geni dell'umanita'. Immenso e' stato il suo influsso
nel pensiero e nell'azione della Chiesa
d'Occidente. Tutti conoscono i suoi meriti nel
campo della teologia, della filosofia e della letteratura; invece il suo influsso in campo
monastico e' stato riscoperto solo negli ultimi anni; eppure il monachesimo latino deve
molto a lui.

Nato a Tagaste, in Africa, probabilmente nel 354, dopo un periodo movimentato e di


sbandamento intellettuale e morale (narrato
nelle sue famose Confessioni), si
converti' e fu battezzato da S.Ambrogio di Milano.

La risoluzione di farsi cristiano coincise con quella di farsi monaco (era stato
colpito dalla vita di Antonio, il grande eremita); tutta
la sua esistenza fu tesa nel
realizzare in se' (e intorno a se') i punti essenziali dell'ascesi monastica, vista
non come realta' statica
ma dinamica, da realizzare in una continua ricerca di Dio,
resa possibile dalla grazia, in uno studio appassionato e costante della

S.Scrittura; avra' come modello e stimolo l'esempio della prima comunita'


cristiana di Gerusalemme', descritta negli Atti degli
Apostoli.

Quando ritorno' in Africa, verso il 388, Agostino si spoglio' dei beni che aveva e si
ritiro' fuori della citta', in compagnia di alcuni
amici per una vita di perfezione, nella
preghiera, nello studio e nell'austerita'.

Nel 391 si trasferisce da Tagaste a Ippona in cerca di maggior pace; ma il vescovo


all'improvviso lo chiama e lo ordina sacerdote;
pero' gli regala un terreno vicino alla
cattedrale: qui Agostino costruisce un monastero, che diventa presto seminario di
preti e di
vescovi della Chiesa cattolica africana. Dovette lasciare la pace del chiostro
quando fu, a malincuore, consacrato vescovo nel
395. Mori' a Ippona nell'anno 430.

L'ascesi monastica agostiniana e' contenuta nella Regola per i servi di Dio
("Regula ad servos Dei"), molto breve ma piena di
sapienza e di
equilibrio. Le grandi linee sono:

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

- ricerca costante di Dio nella vita comune, realizzata in un perfetto


spogliamento individuale e in una perfetta comunione di beni;

- fusione degli spiriti e dei cuori in una autentica carita';

- apertura pastorale ai fratelli.

C'e' somiglianza tra il monachesimo agostiniano e quello di S.Basilio Magno: tutti e


due prendono a modello il Vangelo e il
fervoroso inizio della prima comunita' cristiana di
Gerusalemme; in S.Agostino si vede piu' chiaramente l'unione del monachesimo
al
sacerdozio, come pure un impegno piu' immediato verso lo studio delle scienze sacre.

La "discrezione". sia come discernimento degli spiriti sia come


moderazione ed equilibrio, trova nei due grandi dottori (Basilio e
Agostino) dei
meravigliosi precursori di S.Benedetto.

S.Agostino sviluppo' e organizzo' in terra d'Africa anche la vita monastica


femminile con le due celebri lettere : "Epistula 210 e
211" indirizzate alle
sacre vergini.

Cf. G.TURBESSI, o.c., pp.269-280 per l'introduzione e pp.281-297 per il testo


della Regola.

d) Giovanni Cassiano

Nessuno meglio di Giovanni Cassiano puo' farci comprendere la vita monastica come la
vivevano i Padri del Deserto; nelle sue
opere: De Institutis coenobiorum
(Istituzione dei cenobi, 12 libri) e Collationes (Conferenze o Collazioni, 24
libri) egli ci fornisce un
materiale completo e insieme indispensabile per la comprensione
della vita monastica primitiva; la vita ascetico-mistica realizzata
e vissuta dai Padri
appare come il fondamento per chi voglia seguire i consigli evangelici.

Nato verso il 360, originario probabilmente della Scizia, Cassiano era vissuto a lungo
come monaco prima in Palestina e poi in
Egitto e conobbe, essendo loro discepolo o amico, i
piu' grandi Padri del Deserto, sia dell'Oriente che dell'Occidente. Come frutto
dei
suoi viaggi e delle sue conoscenze, inizio' gli occidentali alla vita spirituale dei
monaci dell'Oriente con le due opere di cui
sopra. Ordinato prete ad Antiochia intorno al
413, lascio' l'Oriente verso il 415 per recarsi a Marsiglia, dove fondo' due
monasteri,
uno per uomini e uno per donne. Mori' verso il 435.

Cassiano fu il primo ad introdurre in Gallia una forma di ascetismo ispirata alla


tradizione egiziana ma mitigata da una prudenza
che sembra annunziare la moderazione di
S.Benedetto.

Cassiano e' molto importante per capire la Regola benedettina, perche' costituisce una
delle fonti piu' importanti; moltissimi passi
della RB trovano riscontro nelle opere di
Cassiano; S.Benedetto lo cita spesso e ne raccomanda

espressamente la lettura (RB 42,3-5; 73,5), anche se i termini


"institutiones" e "collationes" possono essere nomi comuni e
indicare
certamente l'opera di Cassiano, ma non soltanto questa.

e) Le "Vitae Patrum"

Altra fonte della RB e libro raccomandato ai monaci per il loro cammino spirituale (RB
73,5) sono le Vite dei Padri ("Vitae
Patrum"). Si tratta di una
collezione di documenti biografici antichi, chiamata cosi' genericamente. Sono giunte a
noi attraverso
una trascrizione del sec.XVII, riunita in 10 Libri che contengono
svariati argomenti:

- Libro I: Vite dei Padri (per es. Antonio, Pacomio, ecc.);

- Libri II-VII: Apoftegmi o Detti dei Padri del Deserto;

- Libri VIII-X: Storia dei monaci d'Egitto,

Storia Lausiaca di Palladio,

Collazioni (conferenze) scelte di Cassiano,

Prato spirituale di G.Mosco, ecc.

f) Le "Regulae Patrum"

Si tratta di un insieme di Regole che formano un "corpus" caratteristico


nella legislazione monastica occidentale. Sono quattro
Regole "gemelle":

- La Regola dei 4 Padri ("Regula IV Patrum");

- La Seconda Regola dei Padri ("II Regula Patrum");

- La Terza Regola dei Padri ("III Regula Patrum");

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

- La Regola di Macario ("Regula Macarii).

Si ritiene che siano resoconti di sinodi di abati della Gallia del V secolo. La Regula
IV Patrum, da cui sono nate le altre tre,
costituisce veramente un documento molto
importante: si puo' affermare che e' il primo testo legislativo del monachesimo
occidentale, il primo nucleo di regola che e' servita realmente a governare una
comunita' in Occidente, i cui elementi sono stati di
base per le regole posteriori.
Contiene difatti tutti gli elementi essenziali di una regola: insistenza sulla vita
comune, ruolo del
superiore, obbedienza dei fratelli, accoglienza dei postulantigrande
insistenza sullo spogliamento di se' (beni personali), condanna
della mormorazione e
correzione delle colpe; parla del digiuno, della lettura, del lavoro, del servizio
vicendevole del cellerario,
della cura degli attrezzi, dell'accoglienza dei monaci
forestieri e percio' del rapporto con gli altri monasteri. Tutte cose che troviamo
poi in
maniera chiara nelle regole posteriori, soprattutto nella RM ("Regula Magistri")
e nella RB. E' poi tutta intessuta (come le
altre regole) di citazioni della S.Scrittura
che fanno da fondamento alle prescrizioni.

La Regula IV Patrum concretizza il desiderio (e il pallino, quasi) di Cassiano di organizzare


la vita cenobitica in un periodo in cui
predominava una corrente ascetica ancora
fortemente caratterizzata dall'eremitismo.

Cf. G.TURBESSI, o.c., pp.317-323 per l'introduzione e pp.324-334 per il testo.


Cf.H.LEDOYEN, La Regle de Saint Benoit.
Legislation monastique, in "Atti del
7.Congresso Internazionale di Studi sull'alto Medioevo", Spoleto 1982, pp.397-401.
Ed.critica
di De Vogue': SC 297-298.

g) La "Regula Magistri"

Per i rapporti particolari che presenta con la RB esige una speciale menzione e una
trattazione a parte (vedi appresso, n.5 di
questa Introd.Gen.).

Da qui in poi non si tratta propriamente di Fonti della RB, ma di regole e persone
contemporanei di S.Benedetto.

h) San Cesario di Arles

Resta incerto se S.Benedetto abbia conosciuto l'opera del suo contemporaneo S.Cesario
(470-542). Egli, fattosi monaco a Lerins
fin dalla piu' tenera giovinezza, volle rimanere
tale anche da vescovo (come S.Agostino che aveva preso a modello), cercando di
unire i
doveri pastorali con quelli di asceta; trasformo' il palazzo vescovile in monastero.
Frutto dello speciale amore per la vita
monastica, restano di lui la Regola per le
Monache ("Regula sanctarum virginum"), abbastanza lunga e dettagliata, da
cui deriva
l'altra, la Regola per i Monaci ("Regula ad Monachos"), piu'
breve e sunteggiata.

La Regula sanctarum virginum fu seguita non solo dalle monache di Arles, ma


anche dagli altri monasteri femminili della Gallia;
poi man mano fu sostituita dalla
Regola di S.Benedetto.

Cf. G.TURBESSI, o.c., pp.335-341 per l'introduzione e pp.343-366 per il testo.

i) Regole Provenzali del VI secolo

Insieme alle regole di S.Cesario, accenniamo anche a queste altre tre:

- Regula Aureliani ("Regola di Aureliano"). Questi e' il successore di


Cesario come vescovo di Arles (546-551).Scrisse una regola
prima per i monaci, poi per le
vergini, con caratteri di chiarezza ed equilibrio. Dipende dalla Regola di S.Cesario e da
Cassiano,
Basilio, Agostino, la II Regula Patrum, la Regola di Macario e dai sinodi
gallicani.

- Regula Tarnantensis ("Regola di Tarnant"), scritta circa il 551-573.


Anche questa e' contemporanea di S.Benedetto. Dipende
dalla "Regula sanctarum
virginum" di Cesario, probabilmente da quella di Aureliano, e dalla III Regula
Patrum. Notiamo in essa
l'orario diverso per la lettura secondo le stagioni (come in
S.Benedetto).

- Regula Ferreoli ("Regola di S.Ferreolo"). Questi era vescovo di Uzes


(553-581). Anche questa regola e' nata nell'ambiente
monastico di Arles. Non si sa se
Ferreolo abbia conosciuto la Regola di S.Benedetto. Sembra probabile, e cosi' questo
potrebbe
essere la prima testimonianza dell'influsso della RB sulle altre.

l) Cassiodoro

Un altro che probabilmente conobbe la RB e' Cassiodoro. Nato a Squillace in Calabria


nel 485 da nobile famiglia, fu ministro di
Teodorico alla corte di Ravenna e sali' fino al
vertice della scala degli onori.

Disgustato della vita pubblica, la abbandono' nel 540, ritirandosi nelle sue terre,
dove fondo' il celebre monastero di Vivarium di cui
fu abate. Organizzo'
sapientemente la vita nel monastero, divisa tra preghiera e studio (sacro e profano),
trascrizione di codici
(famosa era la biblioteca di Vivarium). L'opera principale
di Cassiodoro e': Institutiones divinarum et saecularium litterarum
("Istituzioni delle lettere sacre e profane"). Mori' nel 583.

5. RELAZIONE CON LA
"REGULA MAGISTRI"

Tra le varie regole monastiche occidentali, la cosiddetta Regola del Maestro


("Regula Magistri") occupa un posto distinto per le

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

sue caratteristiche
interne e specialmente per la sua notevole estensione. Non se ne conosce il nome
dell'autore; l'attuale titolo
non e' originario, venne chiamata "Regola del
Maestro" da S.Benedetto di Aniano (sec.IX) dalla maniera di introdurre l'argomento
dei capitoli:

- Interrogatio discipuli (Domanda del discepolo)

- Respondit Dominus per magistrum (Risponde il Signore per mezzo del maestro).

I manoscritti invece hanno come titolo Regula Sanctorum Patrum (Regola dei Santi
Padri). Tre soli manoscritti ce l'hanno
conservata integralmente. Tra i codici che ne
riportano alcune parti, importantissimo e' il Par.Lat. 12634 (Parisiensis Latinus)
che
viene datato alla fine del secolo VI o inizi del VII, di origine italica, forse
proprio del monastero di Cassiodoro, il su menzionato
Vivarium.

Nessuna regola monastica dell'Oriente e dell'Occidente e' cosi' voluminosa, completa e


particolareggiata come la RM. E' tre volte
piu' lunga della RB, la quale pure viene
considerata come una delle regole antiche piu' completa. La RM e' composta di un
prologo e 95 capitoli.

La RM e la RB presentano una somiglianza tale che fa pensare necessariamente a rapporti


reciproci. Le concordanze verbali
sono piu' evidenti nel prologo e nei capp.1-7 RB = 1-10
RM, in cui le due regole riproducono quasi un identico testo; anche nel
seguito pero'
esistono parallelismi, somiglianze nelle norme o nelle consuetudini. Hanno in comune
grosso modo il piano generale
di composizione; la RM termina con il capitolo sui portinai
del monastero, che corrisponde a RB 66 con cui finiva in origine la
Regola di Benedetto.
La RM si distingue dalla RB per la ampollosita', la descrizione bizzarra e la prolissita'.

Quale fu la patria, l'origine, l'autore, la data della RM e il suo rapporto con la RB?
Era opinione comune che la RB fosse opera
originale, documento autentico ed esclusivo del
genio e della spiritualita' di S.Benedetto, il quale usava, si', svariate fonti
patristiche e monastiche dei secoli precedenti, ma mai parola per parola, come invece si
puo' notare confrontando la RM.
Secondo questa opinione, la RM era un commento alla RB,
risalente al sec.VIII. Altri dicevano che il "Maestro" era lo stesso
S.Benedetto, che poi sunteggio' una prima stesura lunga della Regola; che forse la RM
veniva usata prima a Subiaco, oppure a
Vivarium; altri ancora pensavano che la RM fosse
usata dopo la RB come un commento o istruzione.

Oggi pare quasi certa e accettata dalla maggior parte degli studiosi - anche se
un'argomentazione veramente apodittica e
perentoria non c'e' - l'ipotesi della priorita'
della RM: cioe' che S.Benedetto uso' la RM come fonte letteraria. Questo puo' aiutare
a
capire lo schema della RB, modellato su quello della RM.

La RM e' divisa in due parti:

- I. Dottrina spirituale (Prol. e cc.1-10 = RB Prol. e cc.1-7);

- II. Ordo monasterii (cc.11-95 = RB cc.8-66).

Non deve sorprendere che S.Benedetto abbia trascritto lunghi tratti della RM (quasi
alla lettera nei primi capitoli). Bisogna tener
presente la mentalita' dei tempi: per gli
antichi, uno scritto dottrinale era patrimonio comune e se ne prendeva liberamente il
contenuto senza il bisogno di citarlo. Ma bisogna anche dire che S.Benedetto non
trasferisce di peso la materia di quei capitoli:
egli abbrevia, omette, aggiunge, corregge
secondo un suo pensiero e un suo spirito particolari; sia nella sezione
disciplinare come
in quella dottrinale (RB cc.1-7) ci sono delle differenze molto
interessanti ed importanti, che gli studiosi stanno approfondendo
sempre piu'.

Per alcuni passi della RM, cf. G.TURBESSI, o.c., pp.372-395.

CONFRONTO TRA I PIANI DELLE DUE REGOLE

RB
                  
RM              |
            RB
            RM

Prologo            Thema
         |

1-7
                  
1-10             |
            39-42
        26-30

8-18 (cod.liturgico)    33-46   |


            43-47
        54-55.73

19-20
               
47-48           |
            48
            50

21-22
               11
               |
            49 (Quaresima) 51-53

23
                   
12                |
            55
            81

24
                   
13                |
            56-57
       84-85

26-30
               14
               
|            58
            87-90

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

31-33
              
16-17.82        |
           59
            91

34
                   
-
                 
|            63-64
       92-93

35
                  
18-23.25        |
           65
            -

36
                  
69-70            |
           66
            95

37
                  
-
                 
|            67 (+52)    
67-68

38
                 
24
               
|            68-73
        -

6. LINGUA E STILE DELLA RB

Il latino usato da S.Benedetto non e' classico, libresco o artificiale, come quello di
Cassiodoro o di Boezio, ne' fiorito e ornato
come quello di Cassiano, ma e' la lingua
viva del sec.VI come si parlava in Italia, ricca di vitalita' e facile a capirsi da
tutti, senza
per altro essere una lingua veramente "volgare" (come, per es.,
nelle iscrizioni "volgari" dell'epoca).

L'educazione letteraria dell'autore appare nell'eleganza di molti periodi, nella


proprieta' di vocabolario, con una lingua assai vicina
a quella che si parlava nelle
classi medie e superiori; sopratutto Benedetto si preoccupa della chiarezza.

La cultura spirituale dell'autore appare continuamente: il vocabolario, la


sintassi, la grammatica, lo stile sono in comune con il
latino monastico e
sopratutto con il latino della Bibbia e della liturgia. Notiamo qui soltanto alcune
particolarita':

- inclusione: quando un brano inizia e termina con la stessa parola o con la


stessa frase (es. RB 21,1: 21,7; RB 41,1: 41,7);

- carattere vivace della latinita' e quindi dell'autore Benedetto, che si mostra


uomo libero e appassionato (usa spesso espressioni
popolari);

- ripetizioni: stesse parole o nozioni o frasi intere riappaiono spesso nella


RB; ci dicono qualcosa che e' nel profondo del cuore
dell'autore, a cui egli tiene molto.

La forma letteraria e' varia, a seconda della materia trattata; per es.: nel
prologo abbiamo la forma omiletica, nel codice penale
(RB 23-30 e 43-46) la forma
giuridica. Molti capitoli in cui tratta un argomento nuovo, Benedetto li inizia con un
principio generale
e poi passa a sviluppare la dottrina come conseguenza (es.: RB 5; 19;
24; 30. 36; 42; 48; 72).

Ma ci si puo' domandare se la RB in quanto tale abbia una sua forma letteraria


unitaria. Alcuni autori preferiscono parlare di forma
letteraria sapienziale. Mi
riferisco sopratutto al Wathen, dalle cui dispense (lezioni tenute all'Istituto Monastico
a S.Anselmo)
prendo alcune riflessioni.

7. MODELLO SAPIENZIALE

La "sapientia" (saggezza) e' un tipo di conoscenza che nasce


dall'esperienza ordinaria (quindi capire le cose non in modo
scientifico, astratta,
impersonale, ma in modo intuitivo, personale) e ha lo scopo di guidare l'uomo
dandogli un senso per la vita.
La conoscenza sapienziale viene espressa in forma
poetica (in senso largo, per es.: i detti, i proverbi dei nostri anziani).

Noi moderni forse abbiamo perduto le massime, i proverbi ecc., e cosi' abbiamo perduto
anche la saggezza in essi contenuta.

Nei Libri sapienziali della S.Scrittura ci sono varie forme di questo genere: la
piu' nota e' quella dell'insegnamento del maestro al
discepolo (es. Sir. 2,1-18;
Prov. 1,10; 2,1; 4,1 ecc.).

La stessa forma la ritroviamo nella tradizione monastica, ad esempio nella


"Admonitio Sancti Basilii ad filium spiritualem", che e' la
fonte piu'
diretta del prologo di RM e RB; altro esempio classico si trova nel IV Libro delle Istituzioni
di Cassiano, capp.31-43:
l'esortazione dell'abate Pinufio ai novizi prima della
professione (e nel cap.41 si ritrovano 10 indizi di umilta', la fonte di RM 10 e
RB 7).
Ora, nella RB, il prologo ha chiaramente il carattere di istruzione sapienziale. Ma anche
la Regola intera in quanto tale ha
punti di contatto con la tradizione sapienziale:

- atteggiamento comune riguardo allo scopo, che e' quello di comunicare


sopratutto un sapere strettamente pratico, non teorico:
Benedetto si interessa di piu'
alla disciplina pratica;

- la preoccupazione primaria dei saggi era l'"ordo" - l'ordine


sociale. In Benedetto troviamo la stessa preoccupazione; la parola
"ordo"
ricorre 27 volte: ordine nel coro, ordine nel refettorio, ecc.

- nella letteratura sapienziale ci sono delle parole specifiche (sapienza, via,


cammino, disciplina, ammonizione, stare attento,
meditare, insegnare...); ci sono vari generi
letterari (dialogo, elenco...); anche lo stile e' particolare, ad es.: il parallelismo,
cioe' dire

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

la stessa cosa in due versetti. Tutto questo si trova nella RB;

- ci sono poi nella RB temi sapienziali specifici: la pazienza, il timor di


Dio...

Da tutto cio' possiamo ritenere la RB come appartenente alla letteratura sapienziale.


Quindi non si puo' interpretare con un
eccessivo giuridismo; la RB insegna sopratutto a
raggiungere la saggezza; le leggi mirano ad insegnare al monaco la via
dell'amore.
Ne consegue che la vita monastica e' in primo luogo una vita sapienziale, pero' non
in modo teorico ma concreto ed
esperienziale: il monaco impara a dare concretamente il suo
contributo per la disciplina comunitaria e insieme per la crescita della
persona.

8. L'USO DELLA BIBBIA NELLA REGOLA

Una parola a parte diciamo per l'uso che Benedetto fa della S.Scrittura: egli si nutri'
della letteratura monastica di cui abbiamo
parlato prima, ma sopratutto della Parola di
Dio: "Quale pagina o quale parola di autorita' divina del Vecchio e Nuovo
Testamento
- osserva egli stesso - non e' norma sicura di condotta per la nostra
vita?" (RB 73,3).

La spiritualita' benedettina e' eminentemente biblica e tutta la Regola e' come


impregnata della S.Scrittura; si vede proprio l'uomo
abituato a meditare e a "ruminare"
la Parola di Dio. Difatti la conosce molto bene e puo' citarla quasi spontaneamente; la
grande
familiarita' che egli ha con i sacri testi lo porta spesso a citare a memoria,
sicche' gli succede ogni tanto di riportare un medesimo
testo con qualche variante. Sono
piu' di 100 le citazioni esplicite e piu' di 170 le citazioni implicite o i
richiami. Piu' utilizzati fra tutti
sono i passi dottrinali, in particolare i salmi, i
Proverbi, il Siracide, e del NT Matteo e le epistole paoline. Il linguaggio stresso e'
quello biblico, con vocabolario, stile e certe particolari costruzioni della frase che
sono comuni al latino della Scrittura e della
Liturgia.

9. MANOSCRITTI DELLA REGOLA

Col propagarsi dei monasteri, si moltiplicarono anche le copie del testo della Regola.
Esistono oggi molti manoscritti del testo della
RB (solo nella biblioteca nazionale
di Parigi ne esistono piu' di 30); il problema principale e' stabilire, secondo la
datazione e
l'analisi storica, quale si avvicini al testo originario.

Il manoscritto piu' antico che abbiamo e' il cosiddetto Codice O (i


manoscritti sono indicati con una lettera del nome della biblioteca
in cui sono conservati
e dal numero d'ordine). Si trova nella biblioteca di Oxford e fu redatto nel
sec.VIII in Inghilterra. Pero',
secondo gli storici, contiene un testo interpolato, cioe'
corretto dai copisti preoccupati di migliorarne il latino.

I numerosi manoscritti della RB vengono divisi in categorie secondo il latino


usato. Abbiamo cosi' tre tipi o classi:

A. testo puro

B. testo interpolato o corretto secondo la grammatica classica

C. testo "recepto" (=accettato).

A. TESTO PURO

1. Codice (OMEGA)

Autografo di S.Benedetto scritto a Montecassino. Quando nel 577 i Longobardi


distrussero l'abbazia il prezioso codice fu portato
dai monaci a Roma nella biblioteca
lateranense. Riedificato il monastero nel;; 740-742 dall'abate Petrobace, Papa Zaccaria
restitui' l'autografo. Nell'833 i Saraceni devastarono Cassino e i monaci fuggirono
nuovamente con l'autografo a Teano. Ma qui
nell'896 il codice ando' perduto in un
incendio.

2. Codice (PSI)

Nel 787 due monaci francesi avevano fatto una copia esatta dell'autografo, il codice
omega (quando ancora si trovava a
Montecassino), per ordine di Carlo Magno che voleva il
testo esatto della Regola per introdurla nei monasteri del suo territorio. Il
codice fu
portato ad Aquisgrana. Disgraziatamente anche questo ando' perduto.

3. Codice A: Sangallensis 914.

Nell'817 due monaci svizzeri si recarono ad Aquisgrana per fare una copia della copia;
questa va identificata con il famoso
manoscritto, ancor oggi conservato, il Sangallensis
914, che rappresenterebbe cosi' il piu' fedele testimone dell'autografo.
Avremmo cosi' un
caso eccezionale nella storia della tradizione manoscritta dei testi antichi: un codice
che disterebbe
dall'autografo attraverso un solo intermediario. L'autorita' del codice
A e' confermata anche dall'analisi interna del testo, che
evidenzia un latino del VI
secolo localizzabile nell'Italia meridionale. Il codice A e' chiamato "esemplare
normale", ed e' quello oggi
comunemente usato nelle edizioni della Regola.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Tra gli altri manoscritti derivati dal codice A, ricordiamo:

4. Codice B: Vindobonensis 2232 (Vienna), contemporaneo al codice A


(secolo IX), ma meno corretto e accurato.

5. Codice C: Monacensis 28118, Monaco, secolo IX.

6. Codice T: Monacensis 19408, Monaco, secolo VIII.

7. Codice K: in Italia abbiamo i codici di tradizione cassinese, tutti


indicati con la lettera "K" e conservati a Montecassino. Il piu'
antico e' il K
175 (secolo X), concorda molto spesso con A ed e' uno dei piu' autorevoli. Ricordiamo
ancora il "K 179" e il "K 442"
(secolo XI). Singolare e' il Codice
X (= K 499) del secolo XIII-XIV, portato a Montecassino non si sa quando e da dove,
con un
testo assai guasto e insieme con tante concordanze con A.

B. TESTO INTERPOLATO

Si tratta di una classe di codici che contengono un testo (assai diffuso in Italia,
Gallia, Inghilterra e Germania) con aggiunte e
modifiche dovute o a una difettosa
intelligenza del testo o all'intenzione di adattarlo meglio alle regole grammaticali.
L'archetipo
(cioe' il primo di questo tipo da cui hanno avuto origine gli altri) si fa
risalire fino al se.VI e viene indicato con la lettera (SIGMA): e'
inesistente. Tra
i codici di questa famiglia ricordiamo:

- Codice O: Oxoniensis Hatton 48, il piu' antico degli esistenti (secolo


VIII);

- Codice V: Veronensis LII (secolo VIII);

- Codice S: Sangallensis 916 (secolo IX), notevole per la traduzione


interlineare in tedesco antico.

C. TEXTUS RECEPTUS

C'e' una terza famiglia di testi, sorta dai continui tentativi degli amanuensi di
correggere l'originale e forse anche i testi interpolati e
che gia' si presenta sin
dalla fine del secolo VIII. Tale tipo di testo, frequente gia' nel secolo X, invalse
sempre piu' nell'uso
comune perche' piu' facile a capirsi e piu' corretto
grammaticalmente. E' quello ordinariamente conosciuto e stampato fin verso la
fine del
secolo scorso. E' stato chiamato Textus Receptus = TR (testo accettato).

Nell'archivio del monastero di S.Silvestro in Montefano si conservano due codici della


Regola che seguono la tradizione
cistercense: Codice 1 e Codice 2.(cf.
articolo di L.SENA, Il testo della Regola di S.Benedetto contenuto nei due codici di
Montefano, in "Inter Fratres", 39 (1989), pp.3-64. Il testo del Codice 2 e'
pubblicato nel vol. 9 della "Bibliotheca Montisfani": Alle
fonti della
spiritualita' silvestrina. I Regola e Vita di S.Benedetto, testo latino e versione
italiana, a cura di L.SENA e V.FATTORINI,
Fabriano 1990.

NOTA IMPORTANTE

Nonostante tutti questi codici, il pensiero genuino di S.Benedetto e' stato conservato, perche' le varianti (che non siano mai
interpolazioni) non toccano quasi mai il senso,
sicche' abbiamo la sicurezza di conoscere il pensiero autentico del santo Patriarca.
Le
divergenze interessano specialmente lo studio filologico.

10. EDIZIONI DELLA REGOLA

Furono fatti vari tentativi nel 1600 di ricostruire un testo critico della Regola. Le
edizioni piu' importanti si hanno pero' solo a partire
dal secolo scorso. Ricordiamo:

Schmidt: nel 1880; poi nel 1892 piu' corretta della prima edizione; ha per base il
Codice A.

Traube: famoso studio del 1898, in cui affronto' tutto il problema della
trasmissione del testo dei vari codici ess., stabilendo
saldamente il valore del codice A.

Butler: nel 1912, nel 1927 e nel 1935, sul Codice A.

Edizione del monastero di Cava dei Tirreni: nel 1913 e nel 1929: riporta alla
lettera il testo del Codice A.

Linderbauer: nel 1922 e nel 1928, testo molto studiato e accurato sulla scorta di A
e dei migliori codici.

Schmitz: nel 1946 e una seconda edizione nel 1955.

Negli ultimi anni si sono avuti studi notevoli sotto l'aspetto critico, che hanno
portato ad opere di fondamentale valore. Ricordiamo:

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

G.Penco: nel 1958, riporta le varianti dei codici A (e anche "alfa" =


annotazioni marginali del codice A e O e anche di due
manoscritti della RM, con cui
confronta sempre la RB; aggiunge un acuto e diligente commento.

R.Hanslik: nel 1960 e' uscita la tanto attesa edizione critica. L'illustre studioso
ha consultato piu' di 300 codici sparsi nel mondo e
riporta le varianti di piu' di 70.
Utilissime sono l'introduzione e gli indici: quello della S.Scrittura e di tutti gli
autori citati, quello delle
parole, quello ortografico e quello grammaticale. Nel 1977 e'
uscita la seconda edizione.

J.Neufville - A. de Vogue': Notevole lavoro uscito nel 1972 e anni seguenti. Al


primo e' dovuta l'edizione critica del testo, al
secondo l'introduzione, annotazioni e
commento. L'opera e' inserita nella serie dei volumi del De Vogue' sulla Regola: 7 volumi
di
vastissima erudizione con commento abbondante ed eccellenti indici: delle parole,
grammaticale, ortografico, ecc.

11. COMMENTI DELLA REGOLA

I commentari alla Regola risalgono alla piu' remota antichita' e si susseguono man mano
lungo il corso dei secoli. Ricordiamo:

(a) Commentari antichi (dei secoli precedenti)

Paolo Diacono: scrisse il primo commento alla Regola, secondo un'opinione, a


Montecassino nel 786.

Smaragdo: "Expositio Regulae S.Benedicti", verso l'820.

Card.Giovanni de Torquemada: "Expositio in Regulam S.Benedicti", nel


1441, stampato molte volte.

Ab.Giovanni Tritemio: scrisse il "Commentariu" agli inizi del 1500 sui


soli primi sette capitoli; e' una eccellente esposizione della
dottrina ascetica di
S.Benedetto.

Martene: "Commentarium in Regulam S.Benedicti", nel 1690, opera egregia


sotto l'aspetto storico (riportato nel Migne).

Calmet: eccellente commento con molta soda dottrina, nel 1732 (in francese,
tradotto anche in italiano nel 1751).

NOTA. Dagli studi piu' recenti sembra ormai certo che i tre commenti di: Paolo
Diacono, Ildemaro e del monaco Basilio, non sono
altro che tre recensioni diverse del
commento di Ildemaro, composto quasi certamente a Civate (Como). Quindi cade
l'attribuzione
a Paolo Diacono, e il primo commentario alla RB risulta quello di Smaragdo;
segue a pochissimi anni quello di Ildemaro.

(b) Commentari recenti (di questo secolo, prima del 1980)

P.Delatte: abate di Solesmes, scrisse il "Commentario alla Regola di


S.Benedetto" nel 1913 (tradotto in italiano nel 1951). La
profonda dottrina teologica
e l'amore delle tradizioni monastiche ne fanno un'opera eccellente per lo studio e la
formazione dei
monaci. Forse e' un po' troppo personale.

Butler: scrisse il "Benedictine Monachism". Espone i principi della


Regola e il loro sviluppo nel corso della storia monastica.

Linderbauer: scrisse l'interessantissimo "Sancti Benedicti Regulae


Commentarius", nel 1922. Lavoro ancora fondamentale per
l'esegesi della Regola, per
l'esatta comprensione del pensiero di S.Benedetto.

Card.Ildefonso Schuster: scrisse nel 1942 un commento, frutto della sua esperienza
di governo (era abate di S.Paolo fuori le Mura
a Roma) e dei suoi precedenti studi.

I.Herwegen: abate di Einsiedeln, scrisse nel 1944 un commento che da' rilievo alla
natura carismatica della vita monastica: "Il
senso e lo spirito della Regola
benedettina". Ma non sempre le sue idee appaiono accettabili.

D.Anselmo Lentini: monaco cassinese, scrisse il commento nel 1947; e' stato il primo
che ha diviso i capitoli della RB in versetti,
secondo il ritmo della frase latina,
divisione oggi accettata da tutti, anche dai piu' grandi studiosi, e usata oggi
comunemente in
tutte le nuove edizioni. Il commento del Lentini e' uscito in seconda
edizione nel 1980.

B.Steidle: nel 1952, mette sopratutto in luce i rapporti della Regola col
monachesimo antico.

A. de Vogue': ha scritto negli anni 1972-1977 La Regle de Saint Benoit (gia'


citato sopra tra le edizioni critiche); per vastita',
completezza, minuziosita' di ricerca
e di esame, supera tutti i lavori moderni. L'insigne studioso esamina la Regola sotto
tutti gli
aspetti (ben 7 volumi); anche se in parecchi punti le sue opinioni possono
essere discutibile, l'opera e' senza dubbio una miniera
di osservazioni, di cui ormai
nessuno studioso puo' fare a meno.

G.Colombas: spagnolo, monaco di Montserrat, ha scritto nel 1979 La Regla de San


Benito, un commento sobrio, ma profondo.

(c) Commentari recentissimi (dal 1980 in poi)

Nel 1980, in occasione del XV Centenario della nascita di S.Benedetto, sono usciti
numerosi commenti nuovi e studi sulla Regola

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

o su aspetti di essa, e c'e'


stato un nuovo fervore per l'approfondimento della vita e dello spirito di S.Benedetto. In
genere, in quasi
ogni nazione dove sono presenti i monaci, sono usciti nuovi commentari,
alcuni molto interessanti. Ne segnaliamo i seguenti:

RB 1980 (Ed.T.Fry), Collegeville 1981. E' un importante lavoro fatto dai monaci
degli Stati Uniti e vuole essere non un semplice
commento, ma uno strumento di lavoro
sulla Regola. Dopo una ricca bibliografia, la I.Parte comprende una lunga introduzione
sulla storia del monachesimo; la II.Parte riporta il testo latino della Regola (dalla
edizione di Neufville-DeVogue) con la traduzione
inglese ben fatta e molto fedele; segue
la III.Parte, la piu' lunga, con studi su tematiche particolari: la terminologia, l'abate,
il
codice liturgico, le misure disciplinari, la formazione, il ruolo della S.Scrittura
nella RB, rapporti tra RB e RM. Sopratutto in questa
terza parte si tiene molto conto
degli studi del DeVogue. Una IV.Parte comprende una concordanza latina e gli indici:
tematico,
scritturistico, patristico e delle opere antiche; segue la lista dei monasteri
benedettini in U.S.A.

Regle de Saint Benoit, testo e traduzione francese a cura di H.Rochais,


introduzione e note di E.Manning, Edizioni Cistercensi,
Rochefort 1980. E'
interessante per l'introduzione di Manning, in particolare riguardo al problema della RM,
e anche per le note
che in alcuni casi sono degli "excursus" (sui capp.8-18, sul
codice penitenziale, sul cap.65 che Manning pensa non appartenga
alla redazione originale
della RB, sul cap.72. Una curiosita': in questo libro manca l'indice! Si sono scordati?

S.Benedetto un maestro di tutti i tempi. Dialoghi e Regola, collana "scritti


Monastici di Praglia, n.3, Padova 1981. Contiene la
traduzione italiana del II.Libro dei
Dialoghi e della Regola, traduzione fatta dalla benedettine dell'Isola di S.Giulio
(Novara). La
segnaliamo perche' sembra ben fatta (rispetto ad altre che spesso
indeboliscono la forza delle espressioni di S.Benedetto), fedele
al testo latino e che
tiene conto degli studi e approfondimenti recenti sulla RB. All'inizio c'e' una buona
introduzione di D.Pelagio
Visentin.

A.M.Canopi: Mansuetudine: volto del monaco. Lettura spirituale e comunitaria


della Regola di S.Benedetto in chiave di
mansuetudine, edizioni "La Scala",
Noci 1983. E' una interessante rilettura della RB alla luce della beatitudine del Vabgelo
di
Matteo sulla mansuetudine. Tutti i capitoli della RB sono confrontati con essa. Si
tratta innanzitutto di una lettura spirituale della
RB, frutto della lectio divina,
e suppone come substrato la Lettura comunitaria, cioe' l'ambito vitale di una
comunita' monastica che
si confronta oggi con la RB, cercando di individuare i segni dei
tempi e di essere attenta al soffio dello Spirito.

APPENDICE

Congregazioni Benedettine
(in ordine di fondazione)

1. Congregazione Camaldolese

Fondata da S.Romualdo (907-1027) con intento rigorista (eremo) verso il 980.


L'eremo di Camaldoli (AR) e' del 1022. Monasteri
principali: Camaldoli, Fonte
Avellana, Monte Giove, S.Gregorio al Celio (Roma), Ss.Biagio e Romualdo (Fabriano). Nel
corso dei
secoli ci sono stati altri due rami:

- Camaldolesi di Montecorona: ebbe inizio nel 1520.

- Camaldolesi Cenobiti: nel 1616 ebbe luogo una scissione tra i Camaldolesi. I
cenobiti si divisero dagli eremiti e si organizzarono
in una vera Congregazione molto
fiorente al principio (oggi estinta).

Oggi e' rimasta come Congregazione con il titolo di Monaci Eremiti Camaldolesi,
che comprende eremi e cenobi.

2. Congregazione di Vallombrosa

Fondata da S.Giovanni Gualberto (985-1073) nell'anno 1039. Si distinse nella


lotta contro la simonia. Monasteri principali:
Vallombrosa, S.Maria di Montenero
(LI), Ss.Trinita' di Firenze, S.Prassede in Roma. Fondazione in Brasile.

3. Congregazione Cistercense

Fondata da S.Roberto Abate nel 1098. E' divisa in tante altre congregazioni (21)
secondo la nazionalita' (ricordiamo quella di
Casamari, con la famosa abbazia presso
Frosinone).

Da questa derivarono i: Trappisti (Cistercensi della stretta osservanza), fondati nel


1664 a Trappe (Francia) dal famoso Abbe'
Rance'. Monasteri principali in Italia:
Frattocchie (RM), Tre Fontane (RM).

4. Congregazione di Montevergine

Fondata da S.Guglielmo (1085-1142) nel 1124 con intento di austerita'.


Abbazia-santuario a Montevergine (AV), Santuario
S.Michele Arcangelo sul Monte
Gargano. Oggi estinta come congregazione e associata alla Congregazione Sublacense.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

5. Riforma di Pulsano (Monte Gargano)

Iniziata nel 1130 dal B.Giovanni da Matera (+1139). I monasteri pulsanesi


abbracciarono la regola benedettina e si diffusero
nell'Italia Meridionale e Centrale.
Oggi estinta.

6. Congregazione Silvestrina

All'inizio detta: Ordine di S.Benedetto di Montefano. Fondata da S.Silvestro


Guzzolini (1177-1267) a Fabriano nel 1231. Piu' larga
trattazione sara' data nel corso
dello studio sulla storia della Congregazione.

7. Congregazione Celestina

Fondata da Pietro Morrone (poi Papa Celestino V), eremita sui Monti della
Maiella, nel 1240. Il Papa diede da osservare la Regola
di S.Benedetto nel 1263. Dopo un
periodo di grande floridezza, inizio' la decadenza che continuo' fino alla completa
soppressione
sotto Napoleone.

8. Congregazione di Monte Oliveto

Fondata dal B.Bernardo Tolomei nel 1319. Monasteri principali: Monte Oliveto
Maggiore (SI), S.Miniato di Firenze, Settignano (FI),
Seregno (MI), S.Anastasia in
Roma, S.Maria Nova in Roma.

9. Congregazione Cassinese

Nel 1408 il monaco Ludovico Barbo inizio' un'azione che tendeva a unire varie
abbazie per difenderle dalla peste della
"commenda". Il movimento ebbe inizio a S.Giustina
di Padova col nome "De unitate seu de Observantia Sanctae Justinae de
Padua"
(Unione o Osservanza di S.Giustina di Padova). Monasteri principali: Montecassino,
S.Paolo fuori le Mura in Roma,
Cesena, Cava dei Tirreni, Pontida, S.Martino delle Scale
(PA), Farfa, S.Pietro di Perugia.

10. Congregazione Sublacense

Nel 1842 il monaco cassinese Pier Francesco Casaretto, dopo varie peripezie,
vedendo la decadenza che regnava nelle abbazie
della sua congregazione (fu colpito
specialmente a Subiaco), ideo' una riforma nel senso di un ritorno integrale alla Regola.
Di qui
ebbe origine la Congregazione Sublacense nel 1851, chiamata prima Congregazione
Cassinese della prima osservanza. Il suo
tentativo si realizzo' in Liguria con
l'appoggio di Carlo Alberto a Genova e a Finalpia. Poi questi monaci
riformati furono chiamati
dal Papa anche a Subiaco. Monasteri principali in Italia: Subiaco,
Genova, Finalpia (SV), Parma, Praglia, Noci, S.Giustina di
Padova, Montevergine, S.Giorgio
Maggiore di Venezia, Novalesa (TO). La Congregazione e' divisa in provincie secondo
le
nazioni.

In altre nazioni i monasteri sono uniti in varie Federazioni o Congregazioni. Le


trascriviamo in ordine di erezione come
Congregazione: cio' non significa che i monasteri
sono stati fondati dopo queste date; molti monasteri sono antichi e vivevano
indipendenti;
poi si sono uniti in Federazioni o Congregazioni:

1. Congregazione Inglese (1336)

2. Congregazione Ungherese (1514)

3. Congregazione Svizzera (1602)

4. Congregazione Bavarese (1684)

5. Congregazione Solesmense (1837) succede alla Congr.Cluniacense.

6. Federazione Americano-Cassinese (1855)

7. Congregazione Beuronese (1873)

8. Federazione Svizzero-Americana (1881)

9. Congregazione di S.Ottilia (1884)

10. Congregazione Austriaca (1889)

11. Congregazione dell'Annunciazione della B.V.M. (1920)

12. Congregazione Slava (1845)

13. Congregazione Olandese (1969): monasteri solesmensi in Olanda.

14. Congregazione del Cono-Sur (1973) in Argentina, Cile e Uruguay.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Ci sono poi dei monasteri singoli, non uniti in nessuna Congregazione. Tutte le
Congregazioni sopra nominate (eccetto
Cistercensi e Trappisti) sono unite nella CONFEDERAZIONE
BENEDETTINA, eretta da Leone XIII nel 1893, che e' l'unione
fraterna dei monaci che
vivono sotto la stessa Regola, salva l'autonomia di ciascuna Congregazione o monastero. La
Confederazione Benedettina e' presieduta dall'Abate Primate che risiede a Roma nel
Collegio Internazionale di S.Anselmo
sull'Aventino.

Anche le Monache benedettine sono unite in Congregazioni, Federazioni, Unioni.

Nel 1980 i monaci benedettini confederati erano 9.610 e le monache 11.925.

PROLOGO

Ascolta, o figlio.....

Obsculta, o fili.....

Alla Regola e' preposto un lungo Prologo di 50 vv. (quello della RM e' di 180 vv.), in
cui S.B. prepara l'animo del monaco ad
accogliere con cuore largo e docile gli
insegnamenti in essa contenuti.

Il Prologo della RB - uno dei documenti piu' belli del monachesimo antico - e' una catechesi, una istruzione religiosa in cui si
descrive la vocazione del monaco e le grandi
prospettive del suo itinerario spirituale.

Ha una forma letteraria e un sapore marcatamente sapienziale, con i termini di padre


e figlio, l'invito a seguire attentamente le
esortazioni del maestro, l'uso
dell'imperativo, il tema delle due strade, quello della morte e della
vita.

L'uso dei verbi all'imperativo (ascolta, apri, accogli, chiedi al Signore.....) e'
caratteristico del genere sapienziale; non e' un
imperativo severo o proprio del giudice:
S.B. appare un "ottimista" nei confronti di Dio, come i saggi dell'A.T., vede
sopratutto la
dolcezza della chiamata di Dio e la bellezza dell'ideale che mostra al
discepolo (mentre nella RM prevale il "pessimismo" nei
confronti di Dio, visto
come giudice terrificante).

Tre persone compaiono nel Prologo: Cristo, l'autore, il candidato.


Quest'ultimo ha solo il ruolo dell'ascolto; l'autore si eclissa presto
per riapparire solo
nel finale; e' CRISTO che appare come il vero protagonista, la sua persona domina
tutto il discorso. Cristo e'
l'autentico maestro che va scoprendo al discepolo il
"cammino che conduce alla vita" in un dialogo bellissimo, del quale egli
conserva l'iniziativa.

In tal modo la vocazione monastica appare come l'incontro con una persona, Gesu'
Cristo, sempre vivo, sempre presente, e
l'esistenza del monaco consiste in un dialogo con
Lui: difatti Egli chiama il monaco, lo interroga personalmente, risponde alla sua
preghiera.

Struttura

Il prologo ha una struttura abbastanza nitida: puo' essere diviso in una serie di
pericopi o parti:

vv. 1-13: tema fondamentale: necessita' di ascoltare la parola di Dio e di obbedirgli:

1-3 enunciazione del tema

4-7 necessita' della preghiera e dell'obbedienza

8-13 invito a svegliarsi dal sonno e ad ascoltare;

vv. 14-34: che cosa ci dice il Signore, commento ai salmi 33 e 14:

14-21 Il Signore chiama il suo operaio;

salmo 33 ed esortazione a seguirlo

22-34 salmo 14: 22-27 il salmo

28-32 sviluppo scritturistico

33-34 ratifica mediante brano evangelico;

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

vv. 35-44: il Signore aspetta la nostra risposta:

Necessita' di rispondere con le buone opere.

vv. 44-50: la scuola del servizio divino. Risposta dei monaci all'invito

di Dio per partecipare alla passione e alla gloria di Cristo.

1. - I.PARTE: vv.1-13

1-3: Ascolta...

E' la prima parola della Regola ed e' uno dei temi principali della catechesi e della
spiritualita' monastica: l'ascolto di Dio attraverso
la sua Parola, mediata dal padre
spirituale. L'affettuoso invito ne richiama di simili nella Scrittura, sopratutto nei
Proverbi: "Ascolta,
figlio mio, gli insegnamenti di tuo padre" (Prov.1-8);
"Figlio mio, ascolta le mie parole e inclina l'orecchio a quel che dico"
(Prov.4,20); "Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio" (Sal.44.11). I monaci
antichi sentivano una certa predilezione per queste
forme dirette che creano
immediatamente un clima di intimita' tra maestro e discepolo, propizio al colloquio cuore
a cuore.

Egli dice di essere maestro senza alcuna ostentazione: l'eta', l'esperienza, la


dottrina, tanti insegnamenti per la via della vita,
permettono a S.B. di presentarsi come maestro,
ma non e' un maestro dispotico e severo, bensi' un padre affettuoso che sa
comprendere le difficolta' e che ama; per cui c'e' l'invito "accogli volentieri"
come il terreno buono della parabola evangelica,
seguito da un ordine piu' preciso "e
mettile efficacemente in pratica". Per quale scopo?

2: Per tornare a Dio.

Come per l'obbedienza di Cristo tutta l'umanita' ritorno' a Dio da cui l'aveva staccata
la disobbedienza di Adamo (Rom.5,18-19),
cosi' tutta la perfezione cristiana, e quindi
anche quella monastica che e' un voler vivere piu' radicalmente il proprio battesimo,
viene concepita come un ritorno a Dio, da cui ci aveva allontanato il peccato; vedi la
parabola del "figliol prodigo" (lc 15,11-32).

Il tema del ritorno a Dio e' eminentemente biblico e comune nella tradizione
monastica. La stessa frase di S.B, c'e', quasi uguale,
in S.Cipriano e in S.Agostino.

3: Obbedienza - milizia.

Gia' e' apparsa la parola-chiave dell'ascetismo cenobitico: l'obbedienza. La Regola non


nasconde la sua difficolta', ha parlato di
fatica dell'obbedienza, ma ora lascia il
termine "fatica" (che era molto caro ai monaci antichi per definire il loro
genere di vita) e
richiama ad uno dei temi spirituali piu' virili ed entusiasti che il
monachesimo aveva ereditato dalla chiesa degli apostoli e dei
martiri: la milizia
cristiana.

Il monaco e' soldato di Cristo, allora la Regola gli offre le forti e gloriose armi
dell'obbedienza: forti per l'efficacia che posseggono
nel lavorio della perfezione;
"lucide" o "gloriose" per la nobilta' che conferiscono all'anima
davanti agli occhi di Dio: l'obbedienza
assomma l'intera donazione di se' al Padre celeste
in un perfetto atto di amore. S.B. ce la presenta fin dall'inizio con particolare
accento
di ammirazione e di gioia. Quindi, la vita monastica, vita di obbedienza, e' paragonata ad
una nobile e volontaria milizia
(cf.2Tim. 2,3-4: "lavora come un buon soldato di
Cristo Gesu'. Nessuno che militi per Dio..."), milizia che ha nel cenobio non una
caserma, ma una nobile palestra spirituale.

Chiunque tu sia.

Nel monastero c'e' posto per tutti, chiunque e' ammesso senza distinzione,
purche' sia disposto a questa totale obbedienza e alla
rinuncia alle proprie volonta'.
Il termine al plurale e' molto significativo: non si tratta della volonta' in senso
moderno, nel senso di
energia, ne' nel senso di facolta' spirituale (dell'amore, della
liberta' o del dono della propria persona). La Regola non vuole
trasformare il monaco in
un essere abulico, senza volonta' e senza personalita'. Si tratta qui delle volonta'
nel senso di velleita', di
impulsi peccaminosi, diremmo meglio in italiano
"voglie" che impediscono di ricevere la grazia battesimale. Difatti
l'espressione
"rinunciare alle proprie volonta'" e' propria del linguaggio
ecclesiastico e della liturgia del battesimo.

Cristo Signore, vero Re

Cosi' rinunciando e lottando, si milita nell'esercito di Cristo Signore, vero Re.


Notiamo subito che S.B. non usa mai il nome umano
"GESU'", ma sempre
"CRISTO", contro l'eresia di Ario che negava la divinota' di Gesu' Cristo. Per
S.B. Cristo e' "il Signore, il vero
Re".

4-7: Innanzitutto...

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Iniziando la sua opera di maestro e di legislatore, S.B. sente il dovere di ammonire il


discepolo che nulla di buono si puo'
cominciare ne' portare a termine nell'ordine
soprannaturale senza l'aiuto della grazia, grazia che bisogna quindi chiedere al
Signore con preghiera fervorosa ed insistente (questo e' il senso del superlativo latino
"instantissima").

5: "divina filiazione" o "tristezza di Dio"

Senza la grazia divina e la nostra preghiera per procurarcela, l'opera della nostra
santificazione iniziata in noi da Dio col battesimo
quando ci ha resi suoi figli adottivi,
rimarrebbe frustrata e affliggerebbe il cuore del Signore.

(Da questo versetto comincia la concordanza quasi letterale con RM).

6-7: Dobbiamo mettere a frutto i suoi doni

Allusione alla parabola dei talenti (Mt.25,14-30); nota il contrasto tra "padre
corrucciato" e "padrone terribile".

8-13: Il resto della I.Parte del prologo contiene sviluppi delle idee precedenti con
cinque citazioni esplicite della S.Scrittura, alcune
di grande delicatezza, altre
risuonanti di vigore e di energia. Cosi' l'invito a svegliarci dal sonno, uno dei
moniti paolini che
possiedono l'efficacia di un perenne sprone alle anime; la Chiesa ce lo
fa leggere all'inizio della liturgia dell'Avvento, inizio
dell'anno liturgico.

8: la Scrittura ci sveglia

E' la voce del Signore che ci chiama, e' la luce divina a cui dobbiamo aprire
gli occhi dell'anima e ascoltare con orecchie
attentissime. Nota il parallelo tra
occhi e orecchi: qui S.B. ha in mente la scena degli apostoli che contemplano la gloria di
Cristo
trasfigurato e odono, come portati fuor di se', la voce del Padre.

9-11: adtonitis auribus - lumen vitae - currite

La parola latina adtonitis tradotta con "attente" dice di piu'; si


puo' tradurre anche "stupefatto": vuole esprimere, oltre all'attenzione,
anche
la gioiosa trepidazione di chi attende la rivelazione del pensiero di Dio. La voce divina
si individualizza: Cristo, la Parola di
Dio incarnata che invita gli uomini ad aprire il
cuore, ascoltare lo Spirito e correre mentre splende "la luce della
vita".

La citazione di Giov.12,35 stimola alla corsa in considerazione della brevita' della


vita. Il concetto della corsa e' caro a S.B. che vi
insiste nel prologo; pur tenendo conto
dei vari carismi e diversita' delle anime, egli desidera da tutti l'alacrita' nel fervore
e
nell'amore in chi si mette al servizio di Cristo.

2. - II.PARTE: vv.14-34

14-21: Quaerens Dominus operarium...

"Cercando il Signore il suo operaio tra la folla...". S.B. ha qui presente la


parabola del padrone che va a chiamare gli operai per la
sua vigna (Mt.20,1). Cercando:
la vocazione alla vita monastica e' una ricerca che Dio fa dell'anima, cosi' come tutta
l'ascesi
monastica e' una ricerca che l'anima fa di Dio ("se veramente cerca
Dio" di RB 58,7), e', cioe', la risposta affermativa data alla
grazia; ma in tanto il
monaco puo' cercare Dio, in quanto Dio prima ha cercato lui.

S.B. dice "operaio" perche' ama concepire il monastero come


un'"officina" e il monaco come un "artigiano" intento all'esercizio
dell'arte spirituale, e nel cap.4 gli presenta una lunga lista di "strumenti per le
buone opere". Si noti la dolcezza di quel "suo
operaio" e di quel "tra
la folla": il monaco e' eletto tra molti, e' un privilegiato e ha la certezza e la
gioia di appartenere pienamente
a Dio, di essere particolare oggetto dell'amore di Lui.

15ss.: Salmo 33. Dialogo personale

"Se tu rispondi: 'io', il Signore ti dice...". Di nuovo appare la dottrina


delle due vie e l'assioma fondamentale della conversione: "Sta
lontano dal male e
fa il bene". Tutto il passo e' un commento al salmo 33, citato letteralmente prima
(v.17) e poi parafrasato (v.18)
per mettere le parole sulla bocca stessa di Dio e rendere
il tono piu' caldo e amorevole. Quindi abbiamo la citazione di Isaia:
Eccomi. Tutto
il brano della ricerca dell'operaio da parte di Dio e' un richiamo evidente al commento di
S.Agostino allo stesso
salmo 33.

Composta da testi biblici sapientemente legati, questa scena della chiamata divina pone
in rilievo la gratuita' della vocazione:
l'iniziativa appartiene interamente a Dio,
a Cristo. La Scrittura ci esorta a svegliarci dal sonno, la luce splende, la voce chiama,
il
Signore cerca il suo operaio; all'uomo che apre gli occhi per vedere e gli orecchi del
cuore per ascoltare e compie la volonta' di
Dio e risponde generosamente, il Signore da la
ricompensa avendo i suoi occhi sempre su di lui, ascoltando le sue preghiere, anzi
prevenendo le sue invocazioni con una sollecitudine meravigliosa.

19: Che cosa c'e' di piu' dolce...

Emozionato da quanto ha scritto e contemplato, S.B. non e' capace di contenersi ed


esclama: "C'e' forse per noi, fratelli carissimi,

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

qualcosa di piu' soave di questa


voce del Signore che ci invita?" (v.19).

21: Per ducatum evangelii - sotto la guida del Vangelo

Pero' torna subito ad essere l'uomo pratico che va alla conclusione: se il Signore
stesso nella sua bonta' ci indica il cammino della
vita, cingiamoci i fianchi con la fede
e le buone opere e camminiamo sotto la guida del Vangelo. Questa espressione e'
diventata
proverbiale: la perfezione a cui tende la vita monastica non e', nella sua
essenza, diversa da quella proposta al semplice cristiano
in forza del battesimo, ma ne
costituisce il primo sviluppo e coronamento.

prospettiva escatologica

"... per meritare di vedere colui che ci ha chiamati nel suo regno" (1Tess
2,12): la prospettiva escatologica domina la finale di
questo brano sulla vocazione
personale: siamo chiamati al regno definitivo, situato oltre i confini di questo mondo
visibile.

22-34: Salmo 14

L'ultimo concetto del regno a cui Dio ci ha chiamati da lo spunto per il nuovo brano
sulla tenda del regno di Dio. Nomade tra
nomadi, Jahwe' aveva abitato in una tenda
come i figli di Israele; cosi' si parla della tenda di Jahwe' come dimora del regno.
"Abitare nella tenda del Signore" equivale a penetrare definitivamente nel regno
escatologico. S.B. cita allora il salmo 14,
considerato dalla tradizione patristica come espressione
della vocazione monastica che contiene i concetti di: ricerca di Dio,
cammino che
conduce alla sua dimora, qualita' richieste a chi vuole abitare nella sua tenda, ecc...

22-27: Condizioni per abitare nel regno

Davide chiede al Signore chi sia degno di abitare nel santuario del monte Sion, dove
abita lo stesso Dio; e nei versetti seguenti
S.B. immagina che Dio stesso risponda,
enumerando le doti dell'anima giusta.

28-32: sviluppo scritturistico del samo 14

S.B. continua l'elenco delle qualita' del giusto parlando della lotta contro il
maligno (v.29) e contro le tentazioni di superbia, qualora
si veda il bene nella
propria vita, perche' si riconosce che tutto e' opera della grazia (nuova insistenza sulla
necessita' della grazia,
vv.30-32). L'idea del giusto che spezza le azioni del
tentatore porta S.B. ad introdurre l'altra idea del giusto che stronca contro la
pietra
che e' Cristo (1Cor 10.4) i cattivi pensieri appena nati. E` l'interpretazione
simbolica del salmo 136,9: "beato chi afferrera` i
tuoi piccoli e li sbattera` contro
la pietra" che troviamo in S.Agostino, S.Girolamo, S.Ambrogio ecc.

33-34: ratifica con brano evangelico

Le citazioni del salterio e dell'apostolo vengono concluse con quella del Vangelo: la
parola di Cristo mette il suggello a quanto
detto prima. E' la conclusione del discorso
della montagna (Mt 7,24-25) che viene applicata alla vita monastica: il monaco,
ascoltando
la parola di Cristo e mettendola in pratica, si va costruendo giorno per giorno l'edificio
della santita'; le pioggie, i fiumi, i
venti sono tentazioni, ostacoli, dubbi, avvilimenti
che sopravvengono a minacciare l'opera della santificazione monastica, ma non
le
nuoceranno perche' e` fondata sulla roccia, che e` in definitiva lo stesso Cristo
Gesu` (1Cor 10,4).

3. - III.PARTE: vv.35-44

35: Il Signore aspetta la nostra risposta

Al termine delle sue parole, il Signore aspetta che rispondiamo alle sue esortazioni.
La tregua di questa vita ci vien data per
correggerci dalle nostre infedelta' (v.36); la pazienza
di Dio ci chiama a conversione (vv.37-38); la vocazione a dimorare nella
tenda di Dio
richiede che pratichiamo le condizioni di chi voglia abitarvi (v.39); percio` dobbiamo
disporre corpo e anima a militare
sotto i precetti della santa obbedienza (v.40).
Si ritorna al concetto iniziale del prologo: il monaco e` colui che dedica spirito e
corpo
totalmente al servizio di Dio, militando con le armi dell'obbedienza.

41: necessita' della grazia

S.B. ricorda la necessita' della grazia - si noti l'insistenza con cui insiste su
questa idea, contro l'eresia dei pelagiani - e ricorda le
due vie (inferno - vita eterna, v.42) a cui dobbiamo pensare mentre siamo in questo corpo, mediante questa vita nella luce (v.43).
C'e' l'allusione al testo gia' citato di Gv. 12,35: "questa vita
di luce", che e' dire lo stesso che "questa vita in cui abbiamo ancora la
luce", prima cioe` che "ci colgano le tenebre della morte". Ma si pensi
come, in senso piu` profondo e spirituale, la vita del
monastero e` una vita di luce.

44: correre e operare

S.B. termina col vigoroso incitamento del currendum et agendum, che ci sprona
all'alacrita` dell'azione. L'abbattimento, la sfiducia
e l'inerzia che possono sorprendere
la nostra debolezza svaniscono quando si ricordano queste parole, energiche e insieme
paterne, del santo Patriarca.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

4. - IV.PARTE: vv.45-50

45: schola dominici servitii

"Dobbiamo dunque istituire una "scuola del servizio del Signore".


Abbiamo qui in concetto di monastero come scuola. La frase,
identica nella RM, richiama la
parola di Gesu` in Mt 11,29: "Imparate da me...", che la RM riporta e commenta
in antecedenza. Nel
monastero si e' discepoli dell'unico e vero Maestro che e` Cristo,
come nella grande scuola che e` la Chiesa (parallelo tra
monastero e Chiesa).

Ma il termine scuola ha un significato piu` ampio. La parola nel senso


originario designava un luogo o una condizione di nobile
agio e riposo, dove
si praticava l'otium dei romani. Poi e' passata a significare una sala di
riunione per diversi gruppi: soldati,
studenti, operai, ecc., o ancora l'associazione
stessa e le sue attivita`. Piu' in particolare, il termine stesso designa un corpo
di
militari o di funzionari al servizio dello stato o del re. Questo
significato e` compreso nella frase "una scuola per il servizio del
Signore"; in
quanto alla milizia, abbiamo gia' visto la frase all'inizio del prologo (v.3). Quindi il
termine "schola" comprende tutti e
tre i significati delle tre cose, e cioe`:
luogo

- dove si apprende e si imita;

- dove si serve il padrone;

- dove si milita sotto il sovrano

e qui si tratta di obbedire e di agire, quindi luogo di metodica e disciplinata


esercitazione con incluso il concetto di liberta' da altre
occupazioni.

Inoltre, il servizio del funzionario e soprattutto del soldato non avviene senza lotta,
senza fatica, senza pericoli; militare implica non
solamente l'azione ma
anche la pena e la sofferenza, concetti che saranno espressi poco piu' avanti (v.50) come partecipazione
alle sofferenze di Cristo per mezzo della pazienza. Questo tema della pazienza
avra' poi uno sviluppo meraviglioso nei capitoli
sull'obbedienza (RB 5) e sull'umilta` (RB
7).

Ricchezza del termine "schola"

Ci appare cosi` tutta la ricchezza del termine schola, che e` anche palestra e
corpo militare e officina (RB 4) e ci richiama volta per
volta:

- o la docilita` dell'allievo,

- o l'obbedienza del soldato,

- o l'attivita` e l'impegno dell'operario e del funzionario;

cosi` ci permette di avere sempre presente la persona di Cristo sotto tre aspetti
complementari: il Maestro che insegna, il Sovrano
che comanda, il Redentore
sulla croce.

46-49: Incoraggiamento prima della conclusione

Questi versetti sono propri di S.B. e indicano la delicatezza e il tono paterno nel
disporre l'animo all'accettazione del sacrificio e
nel prevenirlo contro ogni tentazione
di scoraggiamento. L'ordinamento del monastero - milizia, officina, scuola - comporta
necessariamente prescrizioni e divieti; egli si affretta ad avvertire che spera di non
dover fissare nulla di pesante o di aspro: e` il
suo proverbiale senso umano e
cristiano di comprensione e di condiscendenza verso le debolezze che troveremo sempre in
tutta
la Regola.

Ma e` chiaro che la vita di perfezione monastica richiede il lavorio interiore e


quindi, "per correggere i vizi o per conservare la
carita`", si potra`
richiedere qualche prescrizione meno piacevole per la natura umana. Ma si veda con quanta
cautela e
delicatezza S.B. cerca di attenuare la durezza: "se per caso",
ipotetico, "un pochino", diminutivo, "piu` duro", limitativo; tu
-
prosegue S.B. passando dal plurale al singolare, modo piu` diretto, cuore a cuore come
all'inizio del prologo - tu non ti devi
spaventare, non devi abbandonare
"subito", al primo affacciarsi della sofferenza, la via della salvezza che
all'inizio e` dura (v.48).

Abbiamo un nuovo motivo di confronto: le difficolta' si provano e si soffrono al


principio; la rottura col mondo e con l'"uomo
vecchio" e` necessariamente
dolorosa. Ma coraggio, non sara` sempre cosi`. "Si puo` entrare solo per una porta
stretta": e` chiara
l'allusione al testo evangelico di Mt 7,14 ("com'e` angusta
la porta e stretta la via"). S.B. insiste solo sulla strettezza della porta,
eppure
Gesu` non dice che, dopo, la strada si allarga! Ma non importa: cio` che si allarga,
man mano che si va avanti, e' il cuore,
come dice subito dopo nel bellissimo v.49, che
richiama un'idea molto comune presso gli scrittori spirituali: l'amore, man mano che
cresce, facilita il cammino verso Dio, e allora non solo si cammina, ma si corre
per la via dei divini comandamenti, perche' il cuore
si dilata. S.B. si richiama al salmo
118,32: "Corro per la via dei tuoi comandamenti perche' hai dilatato il mio cuore'.
Quanta
larghezza di respiro in questa breve espressione!

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Tuttavia nel salmo il cuore allargato indica aumento di forza e di coraggio; nella
nostra Regola invece e` attribuito all'amore; S.B.
aggiunge: in una ineffabile dolcezza
di amore, ponendo nella frase un accento mistico e soave di chi ha fatto esperienza
personale di Dio e ne ha gustato la dolcezza. Quindi S.B. attribuisce la dilatazione del
cuore all'intensita` dell'amore, quell'amore
che secondo S.Paolo "e` stato riversato
nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci e` stato dato" (Rom 5,5). Il
testo della
Regola piu` simile a questo e` la bella finale del capitolo sull'umilta` (RB
7,67-70), in cui si attribuisce allo Spirito Santo la radicale
trasformazione che
esperimenta il monaco giunto alla sommita` della scala di Giacobbe, cioe` alla carita`
perfetta.

49: Progredendo poi nella vita monastica... [conversatio]

Nel testo c'e` il termine conversatio che puo` derivare o dal verbo intransitivo
"conversari" e significa "modo, tenore di vita,
condotta"; oppure dal
verbo transitivo "conversare" (da "convertire") nel senso di
"rivoltare, rigirare", e allora equivale a
"conversio". Come termine
specifico monastico puo` quindi significare, oltre il semplice "modo di vivere",
anche l'entrata o la
dimora in monastero, l'appartenenza allo stato
monastico, oppure, in senso piu` limitato, la "vita ascetica nello stato
monastico";
infine, come equivalente a "conversio", significa la
conversione, il mutamento di vita. Nella Regola incontriamo ora l'uno ora l'altro
di
questi significati. Qui S.B., come appare dal contesto, intende parlare dell'esercizio
delle virtu` nello stato monastico.

... e nella fede

Si viene al monastero per un atto di fede e piu` si va avanti nella via di Dio, piu` la
fede si radica nell'anima.

50: conclusione

La conclusione del prologo ha la forma di una doppia orazione finale con vari incisi.
Appare per la prima volta la parola
"monastero" non nel significato primitivo di
"dimora di un solitario", ma nel senso che ha assunto abitualmente nel mondo
latino di
"dimora di una comunita' di monaci cenobiti"; e nel monastero - ci si
dice - dobbiamo perseverare fino alla morte. La stabilita' e`
considerata dal santo
Patriarca come elemento essenziale della vita monastica che egli imposta; difatti la
Regola e` scritta solo
per i cenobiti, come dira` espressamente alla fine del capitolo
primo. Quale debba essere la vita dei monaci nel monastero sara` il
tema dei vari
capitoli; qui solamente ci ricorda di non allontanarci mai dagli insegnamenti del Signore
e di mantenerci saldi nella
sua dottrina; e conclude affermando lo scopo della vita
monastica, che e` poi lo stesso di tutta la vita cristiana: partecipare alle
sofferenze
di Cristo per partecipare anche al suo regno glorioso.

Mistero centrale: Cristo crocifisso e risorto

La perfezione monastica come ce la presenta il prologo, e' centrata sulla regalita`


di Cristo: il monaco e` l'uomo che entra in
monastero per militare nell'esercito di
Cristo Signore, vero Re, impugnando le armi dell'obbedienza (v.3); prende questa
decisione
perche' Cristo stesso lo ha chiamato al suo servizio (v.21), e quindi egli
desidera abitare nella sua tenda (v.22); se persevera nel
servizio di Cristo partecipando
alla sua passione per mezzo della pazienza (il tema della pazienza e' prettamente
sapienziale e
ritorna spesso nella RB), sara` ammesso nel suo regno glorioso (v.50).

5. - IL PROLOGO: sguardo d'insieme

L'esposizione appena terminata ha potuto mettere in luce il filo conduttore del


discorso di Benedetto. Risaltano fortemente alcuni
temi che evidenziamo brevemente:

a) Ascolto. E` presente ai vv.1 e 9-12; attraverso i termini


"ascoltare", "udire", "orecchi" come atteggiamento del
monaco nei
confronti dell'appello di Dio che risuona nelle parole del maestro e della
Scrittura. E' l'atteggiamento primo e fondante, ma anche
richiesto in continuazione (cf.RB
4,55; 4,77; 5,6;.15; 6,6).

b) Obbedienza. L'ascolto pero`, in S.B., si traduce immediatamente in


"obbedienza" (latino 'ob-audire'): Prol 2-3.6-7.40. E`
richiesta la
"fatica" dell'obbedienza (v.2); la vita monastica stessa e` un "servizio
militare" che si attua con le armi dell'obbedienza
(v.3) ed anzi al comando, per
cosi` dire, dell'obbedienza stessa "ai precetti della santa obbedienza" (v,40).
L'insistenza continua
sull'obbedienza e` tipica di S.Benedetto.

c) Emendazione dei vizi. L'obbedienza, a sua volta, e` in vista dell'emendazione


dei vizi (vv.33-47), per attuare le buone opere
(vv.17. 21-22. 29. 35) prescritte dalla
legge di Dio (vv.1. 39-40. 49). Questo e` un tema che verra` poi sviluppato nella sezione
spirituale.

d) Dinamica di vita - necessita` della grazia. Queste linee principali


dell'esistenza del monaco sono attuate in una continua
dinamica di vita tipicamente
biblica: scosso dalla voce di Dio, spinto dall'urgenza dell'ora (vv.8-10, con la citazione
di Rom 13,11),
il monaco corre (v.13, cf.vv.2.4.49) sulla via dei comandamenti
(vv.1.49), desideroso di giungere ("pervenire", vv.22.4) al fine
propostogli,
che e` la vita eterna e l'eredita` del regno (vv.2. 7. 13. 21. 42. 50) e conosce gia` oggi
la presenza e la vicinanza di
Dio (la grazia). Sopratutto nella pericope finale, il motivo
del progresso e del cammino e` molto sottolineato.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

e) Carita`, 'dilectio' di e per Cristo. Notiamo ancora la caratteristica di SB


nel porre l'accento sulla caritas o "dilectio", l'amore di
Cristo,
come termine dell'itinerario proposto. La nota di dolcezza e di indulgenza introdotta nei
vv.46-49 alleggerisce e cambia
notevolmente il senso dell'austero finale della RM, in cui
l'accento e` posto sulla necessita` di soffrire e sopportare fino alla morte:
questa
esperienza e` resa possibile e alleggerita dall'ineffabile "dolcezza
dell'amore".

STABILITA` e CORSA

(pensiero di S.Gregorio Nisseno)

Non si tratta soltanto di camminare faticosamente, ma e` possibile correre sulla


via dei precetti divini. Come sottolinea Gregorio
Nisseno, la stabilita'
("perseverando nel monastero fino alla morte"), e` strettamente connessa, per il
crstiano, alla dinamicita` di
vita:

""Il salire si attua restando fermi e c'e` una ragione: piu` uno rimane fermo
e immobile nel bene, piu` corre verso la virtu`. Quando
uno, come dice il salmo (39,3)
ritrae i piedi dalla profondita` dell'abisso e li pone sulla roccia che e` Cristo (cf.1Cor
10,5), allora
quanto piu` e` stabile nel bene, tanto piu` accelera la sua corsa. Come se,
nella stabilita`, egli sia fornito di ali che sollevano al
volo il suo cuore verso gli
spazi celesti"".

(GREGORIO DI NISSA, Vita di Mose`, II,243-244. Nell'edizione francese di SC 1


(Parigi 1968), pp.273-275; nell'edizione italiana
delle E.Paoline (Ancora 1966),
pp.185-186).

Come commento spirituale al prologo, si puo` consultare:

D.BARSOTTI, Ascolta, o figlio... Commento spirituale al Prologo della Regola di


S.Benedetto, Libreria Ed.Fiorentina, Einaudi
1965.

CAPITOLO 73

Che non tutte le norme per la perfezione sono contenute in questa Regola.

De hoc quod non omnis justitiae observatio in hac sit Regula constituta.

Premessa e contenuto

Trattiamo questo capitolo subito dopo il prologo, perche' esso costituisce l'epilogo
della RB e corrisponde percio' al prologo, col
quale presenta molte analogie.

Giunto alla fine della Regola, SB afferma che quanto ha stabilito costituisce soltanto
un modesto inizio di vita monastica per
principianti (v,1); che chi vorra' compiere
ulteriori e piu` sicuri progressi nell'ascesi monastica non avra` che da rivolgersi agli
insegnamenti spirituali contenuti nella S.Scrittura e nei Padri (vv.2-7); e termina con
una esortazione ad osservare la Regola come
base necessaria per arrivare, attraverso le
opere indicate, alla conquista di mete spirituali piu` alte (vv.8-9).

Secondo l'opinione piu` comune, il c.73 seguiva immediatamente il c.66, ed era la


conclusione della RB (difatti c'e` anche il
richiamo nel testo, RB.66.8: "hanc autem
Regulam..." e RB.73,1: "Ragulam autem hanc..."); in seguito, aggiunti i
cc.67-72, esso
sara' stato riportato di nuovo alla fine, nell'attuale collocazione come
epilogo; perche' come conclusione perfetta e compendio di
tutta la Regola, abbiamo gia` il
c.72 che si conclude con una finale solenne molto comune nelle orazioni liturgiche:
"ad vitam
aeternam perducat - ci conduca tutti insieme alla vita eterna". Viene
spontaneo aggiungere "Amen", come si trova, difatti, in alcuni
manoscritti.

1: Abbiamo abbozzato...: natura e scopo della Regola

SB, completata la Regola, la presenta umilmente ai discepoli. Il tono di tutto il


capitolo e` interpretato come espressione
dell'umilta` e modestia di SB. La RM si presenta
come ispirata da Dio e afferma "che fu dettata da Dio", e in genere l'autore si
esprime con autosufficienza. In SB notiamo, al contrario, un eccesso di modestia, vedi
sopratutto il v.8: "hanc minimam
inchoationis Regulam - questa minima Regola per
principianti". E` vero che tale modo di esprimersi e` un espediente retorico
abbastanza comune nei secoli VI-VII, sia dal punto di vista letterario che pedagogico, ma
cio` non toglie che SB sia sincero
nell'esprimersi cosi`; d'altronde nessuno dei Padri che
usano lo stesso modo di dire (Cassiano, Vitae Patrum, S.Agostino...)
appare cosi` severo
con se stesso.

Accenno alla vita eremitica (?)

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

In particolare e` stato osservato che il capitolo va inteso come un accenno alla


vita eremitica a cui SB, se pur ha rinunciato nella
sua vita e nella sua Regola (che
e` fatta per i cenobiti), guarda sempre come all'ideale piu` elevato in fatto di vita
monastica; o
ancora va interpretato nel suo senso letterale e piu` ovvio come una esortazione
ad una vita sempre piu` perfetta: "Diamo una
qualche prova di buoni costumi e un
inizio di vita monastica". Questi sono i modesti risultati dell'osservanza della sua
Regola,
secondo SB.

Honestas morum - onesta` di costumi

Secondo gli antichi romani, honestas morum - onesta` di costumi conteneva il concetto di bonmta`, di giustizia; qui, nel contesto
monastico, come per Cassiano e gli altri Padri del monachesimo, il temine comprende quanto contenuto nella Regola: la vita
religiosa, la preghiera continua, l'umilta`, l'obbedienza, ecc. Ma nonostante questa
ricchezza di contenuto, rappresenta sempre
"un inizio di vita monastica - initium
conversationis" per coloro che vogliono arrivare alla cima della vita spirituale.
(Del resto, la
perfezione e' un dono che Dio concede e opera in ciascuno in modo personale
e irripetibile).

2-7: perfectio conversationis, celsitudo perfectionis

Nel v.2 SB, come nel prologo, sprona anche qui all'alacrita` della corsa; nella
vita dello Spirito egli non vuole solo il progresso, ma
anche la lena generosa. La sua
Regola vuole adattarsi alle debolezze e rendersi accessibile anche ai meno forti; ma
insieme apre
la via alle piu` eccelse vette della santita`. Nel v.1 ha detto:
"initium conversationis - inizio di vita monastica"; qui dice: "ad
perfectionem conversationis - la perfezione della vita monastica" e, per salire alla
perfezione della vita religiosa, altre guide - egli
dice - sono necessarie.

Altre fonti: i santi Padri....

Le altre guide sono: "gli insegnamenti dei santi Padri". SB si riferisce ai


Padri della Chioesa che si sono distinti per solidita` di
dottrina e santita` di vita.

3: ...la S.Scrittura...

Pero`, dopo questo primo accenno ai Padri, SB sente la necessita` di dire una nuova
parola sulla S.Scrittura. Appare qui la sua
venerazione e il suo amore per i libri
sacri: sono la parola di Dio e il monaco, come ogni cristiano, non puo` certo trovare
nutrimento piu` sano e piu` solido per la sua anima. SB rivela in tutto il corso della
Regola come la Scrittura gli sia familiare, e i
suoi figli lungo i secoli hanno fatto
sempre di essa il pascolo preferito. E dobbiamo dire che tante deviazioni "nella
devozione si
sarebbero potute evitare se la parola della S.Scrittura fosse stata il
continuo nutrimento dell'anima dei fedeli!" (A.Stolz). E ci
sarebbe molto piu` di
santita` e anche di pace e di giustizia sociale, se ci fosse nel mondo un po' piu` di
Vangelo!

4-6: ...la Tradizione

Accanto alla Scrittura, ecco l'altra fonte: la Tradizione, di cui sono


interpreti gli scritti dei Padri Cattolici ("cattolici": SB ha cura di
sottolineare la santita` e la retta dottrina dei Padri che si meditano, in polemica contro
gli ariani) e quelli specifici di dottrina
monastica, di cui cita alcuni nomi. SB
chiama S.Basilio "nostro santo padre" per la speciale dimostrazione di stima
verso la Regola
di lui, in quanto S.Basilio era giustamente considerato il piu` grande
legislatore di monaci.

Quindi, tre categorie di fonti

Appare cosi` che le opere raccomandate appartengono a tre categorie: a) la S.Scrittura,


b) gli scritti dei Padri, c) gli scritti di
spiritualita` monastica. Le tre categorie sono
state menzionate nel corso della Regola: nell'ufficio notturno debbono leggersi i libri
dell'AT e del NT, cosi` come i commenti dei Padri cattolici ortodossi e di sicura fama (RB
9,8); prima di compieta, le Collationes di
Cassiano, le Viate Patrum o qualche altra opera
simile (RB 42,3). Nel monastero dunque, le tre serie di opere erano oggetto della
lettura
comune o in coro o in refettorio.

Si noti come in questo capitolo SB assegni a ciascuna categoria uno scopo determinato:
la S.Scrittura e` "norma sicura di
condotta per la nostra vita" (v.3); le opere
dei Padri in generale conducono "al culmine della santita`" (v.2); quelle dei
Padri della
Chiesa ci insegnano "la via diritta per giungere al nostro Creatore"
(v.4); gli autori monastici servono per formare "monaci fervorosi
e obbedienti"
(vv.5-6). Non e` superfluo quindi sottolineare l'eccezionale importanza che SB da alla
lettura, tanto da unirla cosi`
intimamente al progresso morale e spirituale del
monaco; la lectio divina - Bibbia e Padri - offre al monaco le norme superiori e
l'impulso per scalare la cima della perfezione.

7: Per noi invece...

Abbiamo il contrasto tra i precedenti monaci buoni e obbedienti, che ardono dalla brama
di avanzare e attingono percio` a tutte le
fonti indicate, e noi che ci trasciniamo nella
pigrizia. E' un tema caro a S.Benedetto (cf.Rb 18,24;40,6;49,1) che ammira l'esempio
dello
straordinario fervore di preghiera e di mortificazione degli antichi monaci e, mentre con
realismo ammette che non tutti di
fatto sono imitabili al suo tempo e nel suo ambiente,
calca la mano, qui specialmente, sulla distanza spirituale che separa lui e i
suoi da
quelli, per spronare all'alacrita' e all'ardore della virtu`.

8-9: esortazione finale

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

SB, lo sappiamo bene, non e` un idealista, ma un uomo pratico secondo Gesu` Cristo:
indica le vette e mostra i mezzi per
arrivarci. Pero` insiste che la cosa immediata da
fare ora e` mettere in pratica "questa Regola cosi` modesta per principianti,
appena
delineata" (v.8). Anzitutto, cioe`, e` necessario "almeno dar prova di buoni
costumi e di un inizio di vita monastica" (v.1);
poi si potra` e si dovra` correre,
senza fermarsi mai, con l'aiuto delle dottrine menzionate sopra. Tra il principio della
vita
monastica e la sua perfezione si estende uno spazione senza limite.

Prospettiva escatologica

L'epilogo termina presentando al monaco una prospettiva escatologica. In


quest’ultima scena SB riappare come il maestro di
sapienza, il "padre
affettuoso" dell'inizio del prologo, che si rivolge personalmente a ciascuno dei suoi
discepoli con il "tu" familiare
e intimo. Nota il parallelo tra il
"chiunque tu sia che ringraziando..." del v.3 del prologo e il "chiunque tu
sia che ti affretti..." di
questo v.8 del cap.73 (si noti anche il richiamo di parole
nel testo latino tra prol4 e 73,8). SB ignora l'identita` del lettore: e` sempre
qualcuno,
qualunque persona che si affretta verso la patria celeste. Il monaco o l'aspirante
alla vita monastica e` un pellegrino che
ritorna anelante alla sua vera patria situata al
di la` di questo mondo visibile.

Ritorno a Dio

Questa immagine del ritorno anelante che caratterizza il dinamismo della RB richiama
spontaneamente il concetto del ritorno a
Dio che spicca con tanto rilievo nella
prima frase del prologo (v.2). Tuttavia le ultime parole si riferiscono con precisione non
"alla
patria celeste" ma alla anticipazione delle realta` escatologiche che si
realizza, o almeno che si cerca di realizzare, nei monasteri.
Le "eccelse vette di
dottrine e di virtu` (v.9) in effetti si raggiungono in questo mondo presente. Per queste
sante cime passa il
cammino che conduce il monaco alla sua dimora eterna: la patria
celeste. Fino a queste cime intanto si dirige come obiettivo
immediato colui che si mette
al servizio di Cristo Re sotto la Regola di S.Benedetto.

Adiuvante Christo - Deo protegente

Allora, metti in pratica "con l'aiuto di Cristo questa piccola Regola fatta per
principianti - dice il santo Patriarca - e arriverai "con la
protezione di Dio",
alla perfezione della vita monastica. In questa ultima apparizione cosi` emozionata ed
emozionante,
l'affermazione di SB risulta singolarmente ferma e solenne. Due verbi
risaltano nel testo: uno all'imperativo perfice (metti in
pratica), alla fine del
v.8, e un altro al futuro pervenies (giungerai), alla fine del v.9; metti in
pratica la Regola e giungerai alle vette.
"Pervenies - giungerai" e` alla fine
del capitolo, quasi come un traguardo e aggiunge, a ratificare e a dare la
certezza: Amen. Cosi`
finisce la Regola di S.Benedetto.

CAPITOLO 1

Delle varie specie di monaci

De generibus monachorum

Preliminare: il fenomeno monastico

La vita monastica non e` un fatto particolare del cristianesimo, ma e` un fenomeno


universale con caratteristiche simili in tutte le
religioni e in tutti i tempi e luoghi.
Nasce da alcune aspirazioni religiose e morali profondamente radicate nell'animo umano,
aspirazioni a volte vaghe e deboli, ma che in alcuni individui riescono a superare gli
istinti piu` forti della natura e a riempire tutta
l'esistenza. Queste aspirazioni si
possono ridurre a due:

a) ascetismo, che e` la tendenza dell'uomo alla purificazione continua


dei suoi peccati e al dominio delle passioni;

b) misticismo, che e` il desiderio di realizzare in qualche maniera, gia` da


questo mondo, l’unione con la divinati`.

1. Fuori del cristianesimo

Il monachesimo, in definitiva, non e` che la realizzazione pratica di queste


aspirazioni o aneliti in uno stile di vita che permette di
raggiungerli. In questo senso
l'origine del fenomeno monastico si perde nella notte dei tempi. Le manifestazioni
conosciute
presentano una grande varieta`. L'India, paese profondamente sensibile ai
problemi della religione, della santita`, della
purificazione interiore, costituisce un
esempio insigne: si conosce il monachesimo da tempo immemorabile, vere moltitudini di
monaci di religione brahmanista o jainista o buddhista attraversano tutta la storia: il
monachesimo hindu e buddhista e` fiorente in
molti paesi dell'oriente.

2. Nell'Antico Testamento

Nell'AT si trovano dei precursori al monachesimo cristiano: le scoperte archeologiche a


Qumran, vicino al Mar Morto, hanno
suscitato nuovo interesse per la storia del
monachesimo, rivelandoci qualcosa dei monaci esseni.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

3. Presso i filosofi classici

Non mancano elementi "monastici" neppure nella vita e nella dottrina dei
filosofi classici, in particolare i pitagorici.

4. Nel cristianesimo

L'apparizione del fenomeno monastico in seno al cristianesimo non e` cosi` facilmente


databile. Sappiamo che la chiesa
apostolica e quella dei martiri hanno avuto le loro
vergini consacrate e i loro asceti, che si debbono considerare come autentici
predecessori
dei monaci: praticavano il celibato, conducevano vita povera e austera, si andavano
raggruppando a poco a poco.
Nella seconda meta` del secolo III alcuni, particolarmente in
Egitto, si ritirarono nel deserto. S.Antonio Abate (Antonio il Grande),
anche se
non fu il primo a ritirarsi, e` considerato il padre dei monaci (250-356). Cosi` si formo`
praticamente il monachesimo
cristiano, man mano, senza che sia possibile assegnargli un
fondatore, una data precisa, una culla determinata. Nacque un po' in
tutte le parti come
prodotto della santita` e della fecondita` delle diverse chiese locali.

5. Nel IV secolo

Nel IV secolo, terminata l'era delle persecuzioni, all'inizio della liberta` della
chiesa, il movimento monastico assume uno sviluppo
enorme, e cio` senza dubbio fu causato
dall'ondata di profano e di mediocre che era penetrata nella chiesa. Infatti uno dei
luoghi
comuni del monachesimo primitivo era il richiamo continuo e l'entusiasmo ammirato
verso la prima comunita` di Gerusalemme; e
in realta` i monaci si considerarono
come gli eredi e i continuatori di quella comunita` ideale. Cassiano lancio` la teoria che
i
cenobiti erano i discendenti in linea retta, per una successione ininterrotta, di quei
primi credenti, i quali "stavano insieme e
tenevano ogni cosa in comune; chi aveva
proprieta` e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di
ciascuno" (Atti 2,44-45) e "avevano un cuore solo e un'anima sola" (Atti
4,32).

In pieno secolo IV e V i nuovi asceti formavano un vero "maremagnum"


variopinto e a volte un po' caotico; c'erano tutti i tipi r con
le forme di vita le piu`
varie; accanto a persone famose per virtu` e santita` non mancavano persone superbe che
caddero nello
scisma o nell'eresia, ne' i mediocri o i fanatici. A tutta questa schiera,
dopo altri e diversi titoli, si comincio' a dare indistintamente il
nome di monaci.

Il termine "monaco" presso i classici e i Padri Greci...

Il termine "monaco", di origine greca (monakos), deriva dall'aggettivo


"monos", che vuol dire "solo", "unico"; presso gli scrittori
classici significa "in un unico modo", "di un solo posto",
"semplice", "unico nel suo genere", "solitario". Eusebio di
Cesarea e
Atanasio cominciarono ad usarlo per i nuovi asceti col significato tecnico di
persona non sposata, celibe; ma per loro il monaco e`
anzitutto un imitatore di Cristo
e del suoi apostoli in un distacco che separa, ma nello stesso tempo unisce
("separato da tutti e
unito a tutti", secondo l'espressione di Evagrio Pontico).
Comunque, nella letteratura del IV secolo - l'epoca d'oro del
monachesimo - il termine
tecnico "monakos" significa "separato" e "celibe".

... presso i Latini...

Il termine greco "Monakos' fu latinizzato in "monachus" ed esprimeva


essenzialmente la condizione del solitario, del separato dalla
gente del mondo. Nello
stesso tempo si parla anche dell'idea di unita` che il termine racchiude: unita` di
pensiero, unita` di
proposito, unita` di condotta. Cosi` gradualmente il significato di
"monachus" si ando` allargando fino a comprendere praticamente
tutte le classi
di asceti. Il doppio concetto di "solo" e di "uno" era verificato
nell'isolamento dal secolo e nell'unita` fisica o morale in
cui si viveva;
percio` si applico` anche a quelli che vivevano in comune. Il termine "monaco",
assente dalle Regole madri
(Pacomio, IV Padri, 2da dei Padri, Basilio, Agostino) che usano
frater, predomina pero` negli scritti di Cassiano e appare gia' nella
generazione
seguente.

... in S.Benedetto...

S.Benedetto usa frequentemente il termine "monachus" - insieme a quello di


"frater" - fin dal primo capitolo della Regola. Ormai il
termine aveva
acquistato una pienezza di significato ed era una specie di titolo di nobilta` spirituale.
Lo avevano glorificato con la
loro vita personaggi eminenti come Antonio e tanti altri e
lo avevano esaltato con i loro scritti Atanasio, Girolamo, Palladio, Rufino,
Agostino,
Cassiano, ecc. Il monaco non era piu` solamente il "celibe", il
"separato", il "solitario"; era anche il "saggio" per
antonomasia, l'"atleta", il "soldato di Cristo", il nuovo
"martire", il "compagno degli angeli", insomma il tipo dell'uomo
nuovo come
appare agli occhi della fede, l'uomo che aspira a ricopiare sempre piu`
pienamente l'immagine di Cristo morto e risorto. In questo
contesto il termine
"monachus" nella RB ha delle esigenze, e' un titolo che obbliga, un programma di
santita` e costituisce un
rimprovero continuo per chi lo porta indegnamente.

...oggi.

Col sorgere di nuovi istituto religiosi nel medioevo e dopo, il termine


"monaco" e` venuto a restringersi designando, in occidente,
solo i figli di
S.Benedetto e i certosini, per distinguerli dai "frati" (francescani,
domenicani, agostiniani...) e dai membri degli ordini e
congregazioni moderne (gesuiti,
passionisti, redentoristi, salesiani, ecc.).

Per le origini del monachesimo, vedi il piccolo libro di G.TURBESSI, Ascetismo e


monachesimo prebenedettino, Ed.Studium,
Roma 1961.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

IL PRIMO CAPITOLO DELLA RB

1: Le specie dei monaci

S.Benedetto da come cosa risaputa che le specie dei monaci sono quattro , contando
anche quelle dei falsi. Usa cioe` un cliche`
tradizionale gia` definito da oltre un
secolo. S.Girolamo, parlando dei monaci egiziani, enumera tre specie"
cenobiti, anacoreti e
"remnuot" (sarabaiti); Cassiano ne enumera quattro:
cenobiti, anacoreti, sarabaiti e falso anacoreti che erano usciti dai cenobi. SB
e`
d'accordo con ambedue riguardo alle prime tre categorie, ma unisce i falsi anacoreti (di
Cassiano) alla terza categoria (i
sarabaiti) e aggiunge la quarta dei girovaghi,
meno sviluppata ai tempi di Girolamo e di Cassiano, ma ricordata da Agostino.

2: Prima specie: i cenobiti

La prima specie e` quella dei cenobiti, coloro che vivono in monastero, cioe`
insieme. "Cenobita" - in Cassiano "cenobiota" - viene
dal greco
"koinos" = comune e "bios" = vita. E` la prima specia anche per
Cassiano, non tanto forse nella valutazione (Cassiano, e
anche SB, probabilmente, hanno
una stima superiore della vita eremitica), ma sopratutto perche` ritenuta piu` adatta e
piu` sicura
per la maggioranza degli uomini; prima anche cronologicamente perche' - dice
Cassiano - ebbe i suoi inizi nella comunita`
apostolica di Gerusalemme. Quando la maggior
parte dei monaci abbracciarono la vita comune, il termine "cenobita" e
"cenobio"
furono usati piu` raramente e furono sostituiti da "monaco"
e "monastero".

Militando sotto la Regola e l'abate:

Per il verbo "militando", vedi il concetto della vita monastica come milizia
nel commento al prologo (Prol 3,40, 45 incluso nel
concetto di "schola").Il
cenobitisno si basa su due colonne: la Regola e l'abate. La prima, la
Regola, e` una legge scritta costituita
da usanze tradizionali, la "disciplina
coenobiorum" di cui parla Cassiano, tramandata oralmente e poi fissata nello scritto;
ha il
carattere di stabilita` e di autorita`; la mancanza di essa e` un pericolo per gli
eremiti che non siano ben formati e la causa
principale della cattiva condotta dei
sarabaiti e girovaghi. La seconda colonna, l'abate, e` la regola vivente, una
persona costituita
in autorita` che interpreta la legge scritta.

3-5: Seconda specie: gli anacoreti o eremiti

La RB non distingue tra i due nomi. Essi formano, come per S.Girolamo e per Cassiano,
la seconda specie. "Anacoreta" viene dal
greco <ana>, che significa
lontananza e <koreo>, che significa abitare e percio` significa "colui che vive
in disparte"; "eremita"
viene dal greco <eremos>, che significa luogo
deserto. Praticamente i due termini sono sinonimi, anche se anacoreta si riserva
per i
grandi asceti del deserto. SB spiega chi sono questi eremiti. Vissuto da solo per tre anni
nello speco sublacense, egli sa per
esperienza i pericoli di quella vita che in se stessa
e` di alta perfezione.

La vita eremitica

Tanto superiore al normale temperamento degli uomini, la vita eremitica esige


particolarissima chiamata divina e formazione
spirituale per non cadere in illusioni;
percio` SB determina bene i requisite dei veri eremiti. Non si tratta di gente che e` al
primo
fervore della vita spirituale, ma di chi ha fatto un lungo tirocinio in monastero.
Gia` S.Girolamo voleva lo stesso e cosi` Cassiano;
l'idea che gli eremiti debbano prima
formarsi nei cenobi era comunissima nell'antico monachesimo, tanto che a volte il cenobio
era
considerato quasi unicamente come scuola di solitari (non e` questo evidentemente il
caso della RB). Figli legittimi dei cenobiti, gli
eremiti costituiscono quasi un
monachesimo di elite, un'aristocrazia monastica; hanno superato il livello comune e
possono
accedere al combattimento da soli nell'eremo.

L'idea della lotta, il tema della milizia cristiana domina in questo versetti: il
monastero e considerato come una specie di
accademia militare dove si debbono formare le
unita` speciali degli anacoreti. La comunita` dei fratelli e` come un esercito in
combattimento attivo e continuo contro il demonio; i cenobiti si aiutano l'un l'altro come
buoni compagni d'armi. Gli eremiti escono
dalle loro file ben addestrati o equipaggiati o
armati (tali sono i significati attribuibili al termine "instructi") per il
combattimento
individuale nella vita del deserto. Quali nemici speciali dei solitari si
citano i pensieri: e` noto quanto gli eremiti dell'oriente
dovettero lottare contro i
pensieri, ed e` chiaro che questo e` un pericolo molto piu` grave per un eremita privo
com'e`, a differenza
del cenobita, del sostegno dei fratelli e dei superiori. Allettamenti
della carne: altro genere di lotta frequentissima presso i solitari;
si ricordino le
tentazioni di Antonio nel deserto e la lotta di SB a Subiaco (Dial.II, c.2).

Con l'aiuto di Dio

Dopo tanta insistenza sulla ormai acquisita sufficienza a combattere da soli, era
necessaria questa aggiunta contro il pericolo di
presunzione di sapore pelagiano; della
necessita` della grazia SB e` convinto e la richiama ad ogni occasione.

6-9: Terza specie: i sarabaiti

Con i "sarabaiti" irrompono nella RB i falsi monaci, per la degenerazione dei


costumi che li rende una caricatura dei veri monaci.
Secondo Herwegen, i sarabaiti
sarebbero la corruzione del monachesimo di citta', i girovaghi (quarta specie della RB) la
corruzione del monachesimo di campagna. Il termine "sarabaita" deriva
dall'egiziano <sar> = disperso e <abet> = monastero e
significa "uno che
vive per conto proprio". Dice Cassiano: "Dal fatto che si staccavano dalle
comunita` dei cenobi e ognuno per

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

conto suo badava ai propri bisogni, sono stati chiamati,


con termine proprio della lingua egiziana, <sarabaiti>". Secondo altri,
deriverebbe dall'aramaico <sarab> = ribelle.

come oro nella fornace

Concetto biblico comune: cf. Prov.27,21; Sap.3.6; Sir.2,5. "Mostrano di mentire a


Dio", reminiscenza di Atti 5,3-4 "mentire allo
Spirito Santo";
l'espressione ricorre anche nei salmi (17,46; 77,36; 80,16...).

con la tonsura

La tonsura, o taglio dei capelli, fu, fin dai primi secoli, un segno distintivo,
benche` ancora non esclusivo, dei chierici e dei monaci.
Da principio significava solo
portare i capelli corti. Ma almeno fin dal sec.VI, e` in uso anche la "corona"
di capelli lasciata sulla
testa rasata; ma probabilmente i monaci usarono a lungo quella
primitiva e a questa forse pensa SB. I preti diocesani usarono da
molto tempo, fino a poco
fa, la tonsura ridotta a un piccolo cerchio rasato al vertice del capo (volgarmente la
"chierica" perche`
con la prima tonsura si entrava a far parte del clero).
Presso i monaci e gli altri religiosi sono state varie fino ai tempi recentile
fogge della
tonsura; presso i benedettini italiani, per es., essa consisteva in una sottile linea che
incideva i capelli in senso
orizzontale (la "corona"). La tonsura ha voluto
sempre significare una speciale appartenenza a Dio e, specialmente per i monaci,
la
rinuncia alle vanita` del mondo. Cio` spiega ancor meglio l'espressione di SB.

Vivono a gruppi di due o tre

E' la frase di S.Girolamo e di Cassiano; gruppetti quindi molto esigui dove non si
poteva svolgere una vita seriamente regolare e
dove era facile mettersi d'accordo per
seguire i propri comodi.

oppure da soli, senza pastore

E' il caso dei falsi eremiti che SB raggruppa qui, mentre Cassiano ne fa la quarta
specie di monaci. Non solamente sono senza
Regola, ma anche senza un capo, appunto
l'opposto dei cenobiti, che "militano sotto una regola e un abate" (v.2).

SB, pur trattando male questo sarabaiti, usa pero` una certa moderazione nella sua
critica e solo in questa ultima parte mostra il
ridicolo del loro criterio di vita (v.9).
S.Girolamo e Cassiano sono molto piu` duri e si dilungano nel bollare a fuoco e
ridicolizzare
questi monaci.

(Un po' di esagerazione?)

Tuttavia, sia detto tra parentesi, ci si potrebbe porre il dubbio se questa critica non
sia esagerata o ingiusta, per lo meno nel
generalizzare in un modo cosi` assoluto.
Partendo dal cenobitismo ad oltranza, S.Girolamo e Cassiano mettono in ridicolo e
criticano tutti quelli che non vivono secondo quelle leggi. Certamente, il monachesimo
libero e vario che fioriva un po' dappertutto,
poteva dar luogo ad abusi e sicuramente ne
dava; certamente, molti di quei monaci erano ipocriti, Ma condannare in blocco tutta
una
maniera diversa di servire Dio nell'ascetismo, e` un'altra cosa.

In realta' pare che i sarabaiti non erano quelli che Cassiano (e SB) fanno apparire
come cenobiti degenerati e rinnegati, ma la
sopravvivenza, la naturale evoluzione
dell'ascetismo premonastico, come e` provato da molti testi dei secoli IV e V. Non perche`
il
cenobitismo stretto offre maggiori garanzie di andare a Dio, almeno teoricamente, si
debbono disprezzare, in modo generale e
assoluto, le altre specie di monaci (Colombas).

10-11: Quarta specie: i girovaghi

Questa quarta specie e' considerata la peggiore da SB. "Girovaghi" viene dal
greco <ghiros> = giro e dal latino <vagus> = vagare.
S.Agostino li chiama
"cicumcelliones", cioe` vaganti di cella in cella. SB bolla a fuoco questi
vagabondi; l'intera vita la passano
cosi`: sono la scrocconeria e la fannullaggine
divenuta sistema, schiavi dei propri capricci (e` chiaro che non si sarebbero mai
adattati
a vivere sotto un abate!) e della propria golosita` (e` l'aspetto piu` degradante della
loro vita). La RM indugia a lungo (ben
62 versetti) a descrivere i costumi e le arti degli
ingordi girovaghi, ma con tono caricaturale e particolari esagerati, anche se
pittoreschi,
al cui confronto spicca la gravita` e la sobrieta` di SB.

(Un po' di esagerazione?)

E anche qui si potrebbe fare l'osservazione, almeno come dubbio, fatta sopra per i
sarabaiti. In realta` questi monaci chiamati
girovaghi hanno una tradizione degna di tutto
rispetto: il cosiddetto monachesimo itinerante che risale alle origini stesse della
Chiesa. Effettivamente esisteva nella Chiesa primitiva una categoria speciale di cristiani
i quali, senza patria, senza casa,
viaggiava di citta` in citta` compiendo l'ufficio di
predicatori ambulanti. Man mano poi che le comunita` crstiane si consolidarono
intorno ai
vescovi stabili, questa classe di predicatori perse la sua ragion d'essere. Tuttavia
alcuni continuarono questa vita
errabonda non come predicatori del vangelo, ma per motivi
ascetici. Questa pare l'origine dei girovaghi cosi` strapazzati in RM e
RB, monaci che
volevano prendere sul serio l'imitazione di Gesu` Cristo il quale "non aveva dove
posare il capo" (Lc 9,58); soli o
in piccoli gruppi praticavano la piu` stretta
poverta`, vivevano di cio` che davano loro o dei frutti che trovavano nelle campagne,
passavano la notte in rifugi di fortuna o all'addiaccio e ritenevano un titolo di gloria
essere chiamati vagabondi o pazzi. La curiosa
storia di uno di questi monaci antichi si
puo` leggere nella "Storia Lausiaca" di Palladio, c.37. (Colombas).

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

12-13: Conclusione: la Regola e` scritta per i cenobiti

SB si ferma solo alla prima specie. E` chiaro che esclude la terza e la quarta.
Ma che dire degli eremiti? Senza dubbia e` una
categoria legittima; ma SB la considera
superiore o inferiore ai cenobiti? La questione e` dibattuta. Certamente, ispirandosi come
fa a Cassiano, SB dovrebbe ritenere l'opinione comune secondo cui la vita ancoretica
rappresenta la realizzzazione piu` perfetta
dello stato monastico; pero` non la ritiene la
via piu` comune e sopratutto non adatta alla maggior parte degli uomini.

La fortissima specie dei cenobiti

"Fortissima specie" o "la specie migliore". SB e` preso


dall'eccellenza di questa specie, anche di fronte agli eremiti, appunto
perche` la virtu`
che lo stato cenobitico da` modo di esercitare continuamente, sopratutto l'obbedienza, la
carita` fraterna e la
pazienza, lo rendono il piu` adatto di tutti, il piu` umano, il meno
esposto alle illusioni.

"Valoroso" o "fortissimo" esprime la fortezza d'animo che questa


categoria richiede, perche` la pratica quotidiana e perseverante
delle virtu` monastiche,
nella monotonia delle azioni e nella stabilita` di luogo e di confratelli, costituisce
veramente una continua
sofferenza (che fecero paragonare la vita monastica vissuta
integralmente a un lento martirio).

Veniamo ad organizzare con l'aiuto di Dio

Iniziando la grande opera dell'organizzazione della vita del cenobio nei suoi elementi
costitutivi, ascetici e disciplinari, SB si
richiama all'aiuto do Dio, come ha
raccomandato di fare al discepolo prima di iniziare qualunque opera buona (cf.Prol.4)

CAPITOLO 2

Quale debba essere l'abate.

Qualis debeat abbas esse.

Preliminari

Esclusi dalla sua prospettiva eremiti, sarabaiti e girovaghi, SB comincia ad


organizzare il cenobio che, per sua definizione, e` una
societa` con una legge che
lo regola e un capo che ne costituisce l'anima e il fondamento. Ecco allora,
all'inizio della RB, questo
fondamentale capitolo che, dopo il 7^, e` il piu` lungo (a
prate il prologo) e senza dubbio uno dei piu` gravi e solenni.

SB dedica all'abate e alla sua funzione due capitoli: il secondo, dove la


figura del superiore e` esaminata in connessione con la
dottrina spirituale che deve
insegnare; e il 64.mo, che tratta dell'elezione dell'abate e in cui e` ripreso il
tema dei compiti affidatigli.
Per questo motivo esamineremo di seguito i due capitoli.

Tuttavia, dell'abate si parla in quasi tutta la Regola per l'importanza del ruolo come
lo concepisce SB, sopratutto nella "sezione
disciplinare". E` l'abate che
sceglie il priore e il cellerario (RB 65,11; 31,1) e forse anche i decani (RB 21,1); che
si prende cura
degli scomunicati (RB 27-28) ed eventualmente puo` cacciare un monaco
recalcitrante (RB 28,6). All'abate sono affidati la
responsabilita` dell'amministrazione,
gli uffici piu` importanti nella liturgia; egli puo` cambiare l'ordine dei posti e la
misura dei cibi e
delle bevande. A noi interessa sopratutto la figura dell'abate come SB
la propone e come e` vista nella prospettiva di oggi.

Problemi attuali riguardo all'autorita`.

Dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, la questione dell'abate e` stata molto discussa
e studiata, specialmente a causa della crisi
in cui si e` trovata la figura del superiore
nelle comunita` religiose. Le cause sono varie:

- l'esigenza di una maggiore democraticita` nei confronti dei superiori troppo


accentratori e dittatoriali;

- la necessita` di rendere piu` responsabili i membri della comunita`, evitando


i rischi di infantilismo;

- infine la profonda revisione cui e` stata soggetta la comunita` religiosa.

Percio` si e` cercato di riscoprire attraverso molti studi le differenti figure del


superiore nella tradizione monastica.

Le due immagini piu` note

Sono due, in particolare, le immagini piu` note:

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

- La figura dell'anziano di provata esperienza e dotato di carismi personali,


capace di avviare il discepolo alla vita monastica e di
dirigerlo personalmente. Questa
immagine, ben conosciuta sopratutto dagli apoftegmi e dalle collazioni di
Cassiano, vede
l'anziano circondato da discepoli, ma il rapporto non e` stabile e
l'obbedienza, pur ritenuta un valore importante, non e` una virtu`
obbligante ne` stabile.
Cio` che lega anziano e discepolo e` sopratutto la parola e l'esempio del maggiore; e`
cosi` che il discepolo
cresce e puo` diventare a sua volta maestro e padre di altri.

- La figura di superiore nella tradizione pacomiana. La comunita` e` stabile e


numerosa, l'accento e` posto sopratutto sulla
"koinonia" tra i membri di cui il
superiore e` garante, colui che deve consolidarla e renderla fervente. La funzione
abbaziale e`
dunque un servizio reso alla comunita` dei fratelli.

Oltre a queste immagini piu` antiche che possono aver contribuito a formare la figura
dell'abate nella RB, ce ne sono tante altre
formatesi lungo i secoli, per esempio: l'abate-signorotto
del medioevo, l'abate-garante dell'obbedienza in senso strettamente
giuridico e l'abate-padre
della famiglia monastica. Tutto questo ci aiuta ad approfondire il senso dei capitoli
sull'abate.

Un proprio "genere letterario"

RB.2 e RB.64 presentano un proprio "genere letterario" che potremmo definire del
pastore o della esortazione al buon governo e
che si trova in numerosi altri scritti,
ad esempio:

- le lettere pastorali di Paolo (a Timoteo e a Tito),

- la lettera a Policarpo di Ignazio di Antiochia,

- la lettera a Nepoziano di S.Girolamo,

- il "De officiis" di S.Ambrogio,

- il "Dialogo sul sacerdozio" di S.Giovanni Crisostomo,

- l'"Apologia sulla fuga" di S.Gregorio Nazianzeno,

- la "Regola pastorale" di S.Gregorio Magno.

Elementi caratteristici di questo genere letterario sono gli elenchi di qualita` e di


virtu`; i numerosi imperativi e congiuntivi
esortativi; e in particolare
il forte richiamo alle responsabilita` del superiore.

1-3: l'abate fa le veci di Cristo

La prima parte del capitolo 2 attira tutta l'attenzione sul titolo di abate, di
cui RB e RM vogliono dare tutto un programma di vita. Il
nome, quando lo utilizzava SB,
aveva ormai una storia lunga, monastica e premonastica.

1: il termine "abate"

"Abbas-abate" dall'aramaico <abba> = padre, nel NT si applica


solo a Dio, Padre del Signore Nostro Gesu` Cristo e Padre nostro
ed e' Gesu` che lo
pronuncia e lo Spirito Santo lo pone sulle nostre labbra (Rom 8,15). Allora, come e`
possibile applicarlo ad un
uomo? Tanto piu` che Gesu` dice: "Non chiamate nessuno
"padre" sulla terra, perche` uno solo e` il Padre vostro, quello del cielo"
(Mt.23,9). S.Giroloamo si indignava che ci fossero nei monasteri quelli che chiamavano
altri o si facevano chiamare con tale
nome.

In realta`, l'unica giustificazione possibile per attribuire ad un uomo, sul


piano religioso, il nome di "abba`" e` quella di rendere
omaggio all'unica
parternita` di Dio che tale uomo rappresenta.

Evoluzione del significato del termine di abate

Agli inzi del monachesimo si comincio` ad usare tra i monaci la parola abba` (in
Egitto <apa`> in copto) senza alcun riferimento a
potere di governo; si dava a
monaci venerando non come puro titolo onorifico, ma come a veri padri spirituali,
persone attraverso
le quali si esercitava la parternita` di Dio nel deserto;

<apa-abba> non l'uomo che governava in monastero, ma solo il monaco che era
arrivato alla perfezione ed era ripieno dello
Spirito di Dio, che possedeva il discernimento
degli spiriti, la scienza spirituale, era capace di pronunciare parole di
salvezza
ispirate dallo Spirito Santo, capace di generare figli secondo lo Spirito,
fino a formare in loro monaci perfetti e futuri "padri
spirituali". E`
l'immagine piu` comune negli Apoftegmi e in Cassiano, come gia` detto sopra
(nei preliminari di questo capitolo).

Pero`, come si sa, le parole si evolvono con l'uso e cambiano di senso; piano piano
"abba" si trasforma in puro titolo onorifico o
titolo di governo;
il suo significato tecnico, caratteristico e pregnante di "padre spirituale", di
"anziano" che guida le anime ando`
man mano sfumando. In occidente il termine
"abbas-abate" si impose sugli altri - "padre", "preposito",
"maggiore" - con cui si
designava il superiore di una comunita` monastica; nel
secolo VI era la parola maggiormente usata e in tal senso la troviamo in

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

RB e RM.

Responsabilita` dell'abate

SB vuole che l'abate stesso per primo sia consapevole di cio` che comporta il suo
nome e sin dall'inizio si appella al suo senso di
responsabilita`: "deve
realizzare con i fatti il nome di superiore". Se dunque il termine di abate nella RB
non richiama il concetto di
uomo carismatico, anziano, che comunica lo Spirito ai monaci,
tuttavia acquista un nuovo e profondo significato: l'abate fa in
monastero le veci di
Cristo, e di questo ne siamo convinti per fede. E` il grande principio fondamentale -
non si tratta di una
opinione, di una pia credenza, ma e` materia di fede - che e`
divenuto nella RB la definizione dell'abate.

L'abate secondo la RM

Che cosa significa che l'abate fa le veci di Cristo nel monastero? La formula e` una
sintesi della dottrina esposta a lungo nella RM
e di cui restano solo poche tracce in SB.
Il succo della RM e` questo: l'abate esercita una funzione analoga a quella del vescovo
e
appartiene come lui alla categoria dei "dottori", cioe` di quei ministri posti
da Cristo a capo della Chiesa dopo gli "apostoli" e i
"profeti"
(1Cor.12,28); come il vescovo governa la Chiesa, cosi` l'abate governa solamente una
"schola" di Cristo, cioe` il
monastero; come il vescovo e` assistito da
presbiteri, diaconi e chierici, cosi` l'abate si fa coadiuvare da "prepositi" (decani
nella
RB). Questo parallelo tra superiori ecclesiastici e monastici era comune nei testi
del secolo VI (cosi` a proposito delle comunia`
pacomiane, cosi` in Cassiano, ecc.) e si
appoggiava sui medesimi testi scritturistici: "Pasci le mie pecorelle..."
(Gv.21,17); "Chi
ascolta voi, ascolta me" (Lc.10,16).

Il concetto di "dottore" successore degli apostoli da` modo poi alla RM di


inserire l'abbaziato nella gerarchia cristiana a fianco
all'episcopato. (Pare comunque che
il successivo sviluppo dell'abate-pontefice rivestito delle insegne pontificali
tragga origine non
dal testo della RM ma dall'importanza temporale dei monasteri, dal peso
cioe` da essi esercitato sulla societa` in campo giuridico,
economico e culturale).

Abate-dottore

L'abate dunque e` successore degli apostoli, in quanto "dottore";


rappresentante di Cristo in quanto "abate-padre". Questi due
aspetti sono uniti,
dato che "apostoli" e "dottori" sono emissari del Signore. Ci
agganciamo cosi` al concetto di monastero come
"schola": la scuola di Cristo
deve avere il suo "dottore" che fa le veci dell'unico Maestro. Quindi, non
preoccupandosi dell'uso del
termine "abate" presso i monaci di Egitto e di altre
parti (vedi sopra), la RM va subito al NT e si riferisce direttamente a Cristo;
cosi`
abate non significa altro che "dottore": le due nozioni hanno lo stesso
significato, di una autorita` derivante da Cristo.

Questa dunque la concezione dell'abate nella RM. SB, nella sua concisione, conserva
la sostanza di questa dottrina, pur con
modifiche e particolarita` proprie, frutto di
una diretta e sofferta esperienza in questo campo. Ma torniamo al testo.

2: Poiche` e` chiamato con il suo stesso nome

SB, cioe`, prova che il superiore fa le veci di Cristo dal fatto che e` chiamato con il
suo stesso nome: "abba-padre'. Al lettore
moderno suona molto strano il fatto che Cristo
e` chiamato "Padre"; e i commentatori hanno cercato di interpretare questo
passo
che e` uno dei piu` studiati di tutta la Regola (c'e` una bibliografia
abbondantissima): grazie a questi numerosi contributi, si sono
trovati molti testi di
epoca patristica in cui Cristo viene designato come Padre; attraverso Giustino, Clemente
Alessandrino,
Origene, Atanasio, Agostino, Evagrio Pontico, Cesario di Arles e molti
altri, abbiamo la certezza che la dottrina della paternita` di
Cristo e` molto
antica, piuttosto comune, tradizionale e ortodossa.

La dottrina della paternita` di Cristo

Si da` a Cristo il nome di Padre in quanto e` il nuovo Adamo (Rom.5,12-21); Sposo


della Chiesa (Ef.5,23-33; 1Cor.6,16; Ap.21,9);
Maestro dei cristiani (Mt.23,10
ecc.) e il maestro era generalmente considerato come il padre spirituale dei suoi
discepoli. Cristo
puo` chiamarsi Padre in quanto e` la manifestazione della paternita`
di Dio: Egli e` infatti "irradiazione della sua gloria e impronta
della sua
sostanza" (Eb.1,3). In che senso bisogna prendere la paternita` di Cristo di cui
l'abate e` vicario secondo la RB? Si tratta
anzitutto di una paternita` spirituale,
e poi anche di una paternita` adottiva, secondo l'altra affermazione di Prol.3-7 in
cui si dice
che Egli (cioe` Cristo, secondo l'interpretazione piu` comune considerato il
contesto e il parallelo con la RM) ci ha adottato come
figli.

Notiamo che la RB e` piu` cauta che la RM (in cui nel prologo c'e` il lungo commento al
"Padre Nostro" come preghiera diretta a
Cristo), pero` anche qui appare Cristo
come Padre adottivo dei monaci e questa paternita` fonda la sua autorita` su di loro,
come
quella dell'abate suo vicario.

3: Rom.8,15: dicente apostolo...

Tuttavia, l'applicazione del testo paolino di Rom.8,15 non e` molto appropriata


in quanto la frase, nonostante i paralleli nella
letteratura patristica, si riferisce per
Paolo direttamente a Dio Padre, non al Figlio.

Potremmo dire che dando a Cristo il nome di Padre, SB vuole reagire contro la
tendenza ariana di considerare il Figlio come
inferiore al Padre. Nello sforzo di
salvaguardare la divinita` del Signore Gesu`, troviamo la ragione per cui e` messa in
ombra la
considerazione di Cristo come "Fratello", per cui la cristologia di SB
risulta un po` unilaterale, mentre si e` notata la sua devozione

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

alla Trinita`: Dio Padre,


Dio Figlio, Dio Spirito sono chiaramente posti in evidenza nella Regola. Ricordiamo il
riferimento esplicito
all'opera dello Spirito Santo in un momento culminate della Regola:
RB.7,70. E` senza dubbio come fratello, e non come Padre,
che il NT presenta Gesu`. I
testi sono chiari e numerosi: sono suoi fratelli tutti i poveri, gli abbandonati, gli
afflitti (Mt.25,40);
"andate a dire ai miei fratelli" (Mt.28,10); Gesu` parla di
"Padre mio" e "Padre vostro" (Gv.20.17); "primogenito di una
moltitudine di
fratelli", dice Paolo (Rom.8,29)...

La unilateralita` cristologica della RB, se si preme un po', avrebbe delle grosse


conseguenze con il suo presentare l'abate quale
vicario non di Cristo-Fratello, ma di
Cristo-Padre: eleva l'abate da un livello umano e fraterno - che Cristo adotto` nella sua
vita
mortale - a un piano superiore, eccelso, quasi divino. Certo, ci sono molti passi in
cui SB (a differenza della RM) ricorda all'abate
la sua condizione di uomo peccatore,
di luogotenente, ecc., ma nella RB viene quasi canonizzata una distanza, un livello
incolmabile tra l'abate e i monaci. E` difficile immaginare l'abate benedettino come un
S.Pacomio che serve fraternamente la
"koinonia" (= la comunita`) con una
dedizione e una umilta` non solo interna ma esterna e visibile. Percio` quando alcuni
autori (ad
esempio Kleiner) dicono che l'abate paragonato al "paterfamilias"
romano di potere assoluto, o al "signore feudale" spirituale e
nello stesso
tempo guerriero, o a un "principe-prelato" dell'epoca barocca, o al
"padre-abate" idealizzato e romanticamente
sopraelevato dalla restaurazione
monastica, sono soltanto delle evoluzioni diverse, attraverso i tempi, della idea
originale, si deve
riconoscere che, si`, le trasformazioni si devono alle circostanze
socio-politiche cambiate; pero` il fatto di vedere l'abate su un
piano notevolmente
superiore ai monaci, ha il suo fondamento stesso nella RB (e molto piu` nella RM).

4-10: Posizione dell'abate rispetto a Cristo

Posto il principio fondamentale - che l'abate e` il vicario di Cristo-Padre - il resto


del capitolo contiene continue e isistenti
esortazioni dirette all'abate stesso, perche`
compia fedelmente il suo ufficio che si va definendo a poco a poco. In primo luogo
appaiono due immagini, due analogie, corrispondenti a due attributi di
Cristo attestati nel Vangelo e illustrati abbondantemente
nella tradizione letteraria e
dall'arte paleocristiana:

Cristo Maestro e Pastore: cosi` l'abate.

"Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perche` lo sono"


(Giov.13,13), "Io sono il Buon Pastore" (Giov.10,14): sono
parole di Gesu`.
Rappresentante di Cristo in monastero, l'abate di conseguenza esercita l'ufficio di
maestro e di pastore.

Abate - maestro

Come maestro, l'abate "insegna, stabilisce, comanda", allo stesso modo


degli antichi maestri, solo che non insegna una dottrina
propria; non impone una sua
propria volonta`, la sua dottrina e` di Cristo, i suoi precetti debbono conformarsi
costantemente alla
volonta` di Cristo. Il governo e la dottrina di lui dovranno essere fermento
di santita` nell'animo dei monaci; l'idea del fermento e`
un'allusione alla parabola
del Signore (Mt.3,33); si applica, naturalmente, sopratutto all'opera di formazione e di
insegnamento,
che costituisce un essenziale compito dell'abate e distingue il carattere di
lui da quello comune e semplice di capo, di superiore (si
ricordi quanto detto sopra
dell'idea di abate quale uomo con il carisma di "dottore" secondo la letteratura
monastica e sopratutto in
RM).

Come maestro, l'abate dovra` render conto non solo della sua dottrina,
ma anche della condotta dei discepoli. Il che
evidentemente non esime costoro dal
giudizio divino, come invece pretende la RM (per lo meno in tre passi: RM1,87.90-92;
2,35-
38; 7,53-56: con questo ragionamento i monaci non debbono fare altro che obbedire
all'abate e su quest'ultimo ricade tutta la
responsabilita` dei loro atti). Nella RB non
c'e` riferimento alcuno a questa strana teoria che fa dei monaci degli
"irresponsabili"
eterni "minorenni". Tuttavia l'abate e` responsabile
dei monaci.

L'abate - pastore

Come pastore, si imputeranno all'abate le deficienze del gregge, qualora esse


dipendano dalla negligenza del pastore. Il
"paterfamilias", il capo della casa,
ha affidato a lui pastore la custodia e l'incremento del gregge; come i servi della
parabola
evangelica, l'abate dovra` render conto del frutto e sara` ritenuto
responsabile di ogni mancanza dovuta alla sua incuria. Si noti la
forza con cui SB
accentua questa cura pastorale: "tutto lo zelo" [per le anime turbolenti],
"con ogni diligenza" [ogni rimedio per le
loro infermita`]. Solo allora. se il
gregge si mostra ostinatamente ribelle, sara` responsabile in proprio della sua rovina e
l'abate
sara` assolto nel giudizio divino.

11-15: duplice insegnamento: con la parola e con l'esempio

SB ricorda poi un principio di somma importanza che i monaci antichi non cessavano di
inculcare: la dottrina del maestro deve
essere duplice, cioe` teorica e pratica,
l'abate deve insegnare piu` con l'esempio che con la parola (ricordare che di Gesu` Luca
dice: "coepit facere et docere - fece ed insegno`" (Atti 1,1). E subito aggiunge
un chiarimento: per i piu` intelligenti ed evoluti
basteranno anche le sole parole, ma per
i piu` duri e incolti occorre anzitutto l'esempio:

- discepoli capaci: sono quelli che per innata o acquisita finezza di intelletto
e di cuore e per l'energia di volonta` sanno
comprendere e seguire presto l'insegnamento
del maestro.

- duri di cuore: frase biblica (Is.46,12 ecc.) che qui significa "quelli
che stentano a capire e ad eseguire".

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

- anime semplici: con paterna delicatezza SB allude ai piu` rozzi e incolti,


privi di finezza. Si pensi che nella sua stessa comunita`,
accanto ai nobili Mauro e
Placido, c'era anche il "goto" che S.Gregorio dice "pauper spiritu - povero
di spirito" (Dial.II,6).

13: coerenza dell'abate tra quanto insegna e quanto fa

"Affinche` mentre predica agli altri, non sia trovato riprovevole proprio
lui": applicazione del testo paolino di 1Cor.9,27. SB, che
concede all'abate tanto
potere, non esita a ricordargli gravemente che anche lui e` soggetto alla legge di Dio e
alla Regola, e la
discordanza tra l'insegnamento e la vita sarebbe molto grave, e lo
renderebbe oggetto di un piu` severo giudizio da parte di Dio,
come dice nei versetti
seguenti con due citazioni scritturistiche, una del VT (salmo 49,16-17) e una del Vangelo
(Mt.7,3).

16-40: Governo dell'abate:

Dopo gli avvisi sull'insegnamento abbiamo quelli sul governo.

16-22: a) imparzialita`...

L'abate non deve, nei confronti dei suoi monaci, avere o mostrare preferenze personali, basate sulla nascita, sulla posizione
sociale, sulla naturale simpatia, sulla parentela o
su altri motivi umani, perche` in Cristo tutti siamo uguali (Gal.3,28) e non vi e`
preferenza di persone presso Dio (ef.6,8). L'unico criterio per le preferenze di Dio e` la
maggiore bonta` e la maggiore umilta`; e
solo di questo genere e` l'eccezione che puo`
fare l'abate (v.17), non commette ingiustizia preferendo i piu` obbedienti.

Si veda il caso di Marco, discepolo dell'abate Silvano negli "Apophtegmata Patrum


- Detti dei Padri" (Cf. I Padri del Deserto. Detti,
Citta` Nuova Ed. 1972,
pp.254-255). Le raccomandazioni contro il pericolo del favoritismo, che sarebbe
disastroso, erano comuni
nella tradizione monastica. (Cf. ad esempio: S.CESARIO: Lettera
di esortazione alle vergini, citata in LENTINI, p.68).

23-29: b) ... la correzione ...

SB intende trattare di un aspetto molto difficile nell'opera di governo: il dovere


di correggere. Il tema e` diviso in due parti: il primo
(vv.23-25) ha il parallelo in
RM; il secondo (vv.26-29) di una notevole durezza, e` proprio di SB.

23-25: adattamento ai vari caratteri

Il primo insiste sulla necessita` di adattarsi, per la correzione, ai vari caratteri:


gli uomini non sono tutti uguali, le circostanze sono
diverse, non si puo` quindi agire
con i singoli allo stesso modo. SB si rifa` alla sentenza paolina di 2Tim.4,2 (v.23), che
poi
sviluppa nei vv.24-25):

- ammonisci, vale per gli indisciplinati e gli irrequieti, i caratteri


facilmente mobili, agitati;

- esorta, vale per gli obbedienti, i miti, i pazienti, i monaci docili ai quali
basta una leggera parola di approvazione o di conforto
perche` proseguano nella virtu`;

- rimprovera, vale per i negligenti e gli abituali trasgressori, o che


dimostrano aperto disprezzo per la Regola o per gli ordini dei
superiori. Si noti la bella
espressione del v.24 in cui si consiglia all'abate di mostrarsi esigente come un maestro e
tenero come un
padre, secondo le circostanze.

26-29: c) ... correzione tempestiva ed efficace

L'altra parte di questo tema precisa con piu` esattezza il modo della correzione:
questa deve essere immediata ed effettiva; l'abate
non deve chiudere gli occhi sulle
mancanze abituali e sugli abusi dei monaci inosservanti: correrebbe il rischio di cadere
nello
sdegno di Dio come avvenne a Heli sacerdote di Silo (1Sam.2-4 passim) il quale
rimproverava i figli Cofni e Pincas che davano
scandalo, ma non li correggeva
efficacemente: Dio puni` tutti e tre con la morte. Per questo, ai piu` delicati e
comprensivi, bastera`
l'ammonizione a parole, una o piu` volte, ma agli ostinati si
applichera` subito il castigo corporale.

Qualche lettore di oggi potrebbe rimanere colpito da questo ricorso alle battiture.
Ma si pensi che sono passati 14 secoli e i
costumi sono cambiati. A quel tempo la pratica
delle battiture era comune anche per i monaci e chierici, si ricorreva ad essa o per
colpe
molto gravi o quando l'eta` e la rozzezza rendevano inefficaci le pene spirituali. Inoltre
SB pensava anche ai fanciulli che
vivevano nel cenobio: per loro - e per qualche adulto da
considerare come un grosso bambino - egli riteneva, secondo la Scrittura
e la tradizione
romana e monastica, che l'educazione severa comprendente anche sanzioni corporali, fosse
necessaria a
temperare caratteri forti.

30-32 Regere animas - governare anime

Tutta la rimanente parte del capitolo e` dominata da questa idea: il governo


dell'abate e` un governo di anime, e SB gli ricorda la
grande responsabilita`:
"ricordi quel che e` e come viene chiamato" e poi un riferimento alla frase del
Vangelo: "a chiunque fu dato
molto, molto sara` richiesto; a chi fu affidato molto,
sara` richiesto molto di piu`" (Lc.12,48).

Regere animas, governare anime: tre volte (v.31, 34, 37) appare
l'espressione per ricordare che cio` costituisce senza dubbio
l'incarico essenziale, il
piu` delicato e il piu` arduo; "guidare le anime" significa "adattarsi a
temperamenti molto diversi", che nel

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

testo latino e` "multorum servire


moribus" (v.31): e` nel concetto vero e cristiano dell'autorita` che essa e` fatta
per il bene degli
altri, E` un servizio.

Autorita` come servizio: oggi sopratutto, nella Chiesa, su questo si insiste molto.
L'abate deve donarsi tutto a vantaggio della
comunita`, allora si conformera` alla varia
indole dei suoi monaci; questa disponibilita` non solo gli evitera` la perdita di qualche
pecorella (fu anche la preoccupazione di Gesu`, cf.Giov.17,12), ma gli dara` la
soddisfazione di vedere crescere in merito e in
numero il proprio gregge.

33-36: Primato delle anime sugli affari temporali

Pastore di anime, l'abate dedichera` ad esse il meglio delle sue energie e delle
sue qualita` e non si preoccupera` troppo delle
cose transitorie, terrene e caduche
(v.33): si noti l'accumularsi di epiteti per indicare l'inconsistenza e la provvisorieta`
degli
interessi materiali, in confronte del bene delle anime che deve essere al centro dei
pensieri dell'abate (v.34). Che cosa importa la
eventuale scarsezza di beni materiali?
Abbia fede nella Provvidenza: vengono addotte due citazioni, una del Vangelo (Mt.6,33,
"cercate prima...", la notissima sentenza di Gesu` che e' valida per tutti i
cristiani, tanto piu` lo e` per i monaci che cercano
esclusivamente il Regno di Dio), e
una del Salmo 33,11: "nulla manca a chi teme Dio".

37-40: Osservazione escatologica conclusiva

SB termina il capitolo secondo con espressioni - uguali nella RM - che insistono ancora
una volta sul rendiconto che l'abate dara`
a Dio di tutte e singole le anime
affidate alla sua cura, oltre, naturalmente, alla propria. Questo pensiero gli infondera`
un salutare
timor di Dio che servira` anche alla vigilanza su se stesso; e
mentre procurera` che i fratelli si correggano dei loro difetti, si andra`
anche lui
correggendo dei propri.

CAPITOLO 64

L'elezione dell'abate.

De ordinando abbate.

Preliminari

Nulla aveva detto il capitolo 2^ sulla elezione dell'abate. Se ne parla in questo


capitolo 64, il cui titolo corrisponde solo alla prima
parte del testo (vv.1-6), mentre la
seconda parte, molto piu` lunga (vv.7-22) contiene un nuovo direttorio abbaziale
sulle qualita` e
caratteristiche dell'abate, in parte simili, in parte diversi dal
capitolo 2^.

Non e` facile interpretare i vari termini che compaiono nel testo. I verbi-chiave sono:
ordinare, constituere e eligere, che si
possono rendere in italiano
con: scegliere, eleggere, designare, elevare, costituire. La RB non spiega il senso
preciso di queste
parole, ne' come si realizzava cio` che esse significano. Si puo` dire
che per SB l'elezione di un abate e` un avvenimento
sopratutto spirituale che viene
dall'alto, non tanto giuridico; quindi non vuole imporre a Dio delle regole fisse. Cio`
che importa e`
che si nomini una persona degna. Inoltre, si ritiene oggi che quando un
legislatore monastico non e` molto esplicito e chiaro nel
definire qualche punto, lo fa
perche` da` la cosa come scontata, ben conosciuta e rimanda alla norma comune.

Nel secolo VI i modi di designazione erano diversi, se ne conoscevano almeno sei: il


nuovo abate poteva essere nominato dal
predecessore, dagli abati della regione, dal
vescovo locale, dal vescovo metropolita o dal patriarca, dal signore del luogo
(feudatario, conte, duca...) o, a volte, da un gruppo di persone particolarmente
qualificate. In questi casi l'elezione da parte di tutta
la comunita` poteva significare
solo l'accettazione di una designazione gia` fatta da una autorita`. Passiamo al
testo.

PRIMA PARTE: vv.1-6.

1-6: Procedura per l'elezione dell'abate

Secondo la RM, era l'abate prossimo alla morte che sceglieva il successore. SB accetta
invece un modo che rimontava alle origini
del cenobitismo: la comunita` di comune
accordo sceglie un nuovo capo (questa prassi era prevista e approvata dalle leggi
ecclesiastiche e civili); ma comune accordo "secondo il timore di Dio", cioe`
seguendo il criterio unicamente valido per il superiore
(v.2), il quale deve essere persona
degna e con tutte quelle qualita` elencate nel capitolo 2 e nel capitolo 64,7-22.

Importanza del vescovo nell'elezione

SB non offre particolari sul meccanismo elettorale. Nel caso in cui nessuno dei monaci
riceva un suffragio unanime, cioe` nel caso
di una comunita` divisa, l'intenzione di SB e`
che sia preferito il candidato scelto dalla parte piu` sana e spirituale della comunita`,
per quanto piccola di numero possa essere. Ma come si fa a stabilire qual'e` questa
"parte piu sana"? Potevano essere senza

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

dubbio quelli che avevano condiviso


parte di responsabilita` con l'abate precedente: i superiori subalterni, i decani o i
seniori
spirituali. Nel caso anche qui di dubbio (o di discordia), si deve supporre, come
appare in maniera evidente dal contesto seguente,
che era il vescovo, abitualmente
o occasionalmente coadiuvato dagli abati vicini, che doveva giudicare quale fosse la parte
piu`
stimabile della comunita` e preferire il suo candidato.

Due garanzie: vita santa e soda dottrina

Quello che importa per SB e` che l'eletto offra garanzia di una vita irreprensibile
e di una dottrina sicura, anche se fosse l'ultimo
nell'ordine della comunita`
(v.2); una clausola, questa, molto originale per le consuetudini del tempo in cui
le elezioni tenevano
conto, e` vero, del merito personale, ma anche (e a volte
sopratutto!) del rango del candidato. In ogni caso ne' il vescovo
diocesano, negli abati
della regione, ne' i cristiani del luogo dovevano permettere che si designasse un abate
indegno, complice
dei vizi dei monaci, anche se fosse stato eletto all'unanimita` (si
pensi ai monaci di Vicovaro, Dial.II,2).

E` notevole l'energia di SB in questo passo (vv.3-6): non ha paura dell'ingerenza di


estranei al monastero, anzi la sollecita; da qui
possiamo capire che il monastero di
allora non era fuori dal contesto e dall'organizzazione della Chiesa locale:
l'ultima parola,
appare chiaro, spettava al vescovo della diocesi; anche nel caso della
scelta unanime della comunita` essa non costituiva
definitivamente il candidato nel suo
ufficio, equivaleva ad una "presentazione" che poi veniva ratificata dalla
competente autorita`
ecclesiastica; il vescovo, cioe`, decideva se l'eletto era degno di
governare "la casa di Dio" (v.5).

In tutto il capitolo il termine "ordinare" significa l'atto legale con cui


uno viene di fatto immesso in un ufficio. Dalla RM e da alcune
lettere di S.Gregorio, si
puo` arguire che l'atto ufficiale con cui il nuovo abate veniva insediato dal vescovo nel
suo nuovo ufficio, si
compiva in maniera solenne e probabilmente durante la
celebrazione dell'Eucarestia. Non si tratta ovviamente di una ordinazione
sacramentale, ma
solo di una benedizione abbaziale che e` come un sacramentale; ma non si sa bene in
che cosa consistesse;
forse in orazioni da parte del vescovo sopra il nuovo eletto. Il
documento liturgico piu` antico che offre un formulario di ordinazione
o benedizione
dell'abate e` il Sacramentario Gregoriano (sec.VI): consta di una sola orazione,
chiaramente ispirata al capitolo 2^
della RB.

L'elezione dell'abate nel corso dei secoli

Nel corso dei secoli, come si sa, non sono mancati gravi abusi nell'elezione
dell'abate, come all'infelice tempo della commenda
(Cf.DIP <Dizionario degli Istituti
di Perfezione>, I,26-27: voce "abbas",3) o della intromissione di principi o
di altri laici. Le reazioni
a questi abusi portarono a una dottrina canonica in cui
sono precisati dal diritto generale e particolare (dalle Costituzioni delle
singole
congregazioni) le norme per l'elezione, la procedura, la durata in carica, ecc. (Cf.
studio delle nostre Costituzioni).

Durata dell'ufficio abbaziale

Secondo la RB e` chiaro che l'abate e` a vita e, essendo ogni monastero


autonomo, viene eletto nell'ambito della propria
comunita`. Con il raggruppamento di
monasteri in congregazioni o per motivi storici o per la nascita di famiglie monastiche
con
una organizzazione centralizzata (come la nostra congregazione Silvestrina), qualcosa
e cambiato. Anche nei grandi monasteri
"sui iuris" non sempre l'abate e` tratto
dalla stessa comunita` (ma anche da altri monasteri delle stessa congregazione o
federazione); inoltre, con il cambiamento della mentalita` e anche per volonta` della
Chiesa (che invita i vescovi a dimettersi a 75
anni d'eta`) molte congregazioni monastiche
prevedono ora, in occasione della visita canonica, una procedura che invita l'abate a
dimettersi; altre congregazioni preferiscono un abbaziato temporaneo o superiori nominati
per un tempo breve. Anche le grandi
abbazie che conservano ancora l'abate a vita si
pongono oggi il problema.

Tutto questo, naturalmente, ha mutato la figura tradizionale dell'abate come e` nella


Regola di S.Benedetto. (Per la posizione
giuridica dei superiori dei singoli monasteri,
del Priore Conventuale e dell'Abate Generale nella nostra Congregazione, cf. lo studio
delle nostre Costituzioni).

SECONDA PARTE: vv.7-22. Nuovo direttorio abbaziale

I vv.7-22 contengono un'esortazione al nuovo abate che entra nel suo ifficio, non solo
riguardo ai suoi obblighi, ma anche riguardo
a cio` che deve essere - o cerca di essere -
egli stesso. Per la RM l'unico criterio per l'elezione di un abate era la perfezione
personale che uno aveva raggiunto: a chi deve insegnare l'arte spirituale si richiede che
la sappia praticare meglio di tutti. Invece
la RB in questa nuova esortazione parla
all'abate delle qualita` umane, del carisma della direzione delle anime,
delle doti del
pastore. Abbiamo cosi' un nuovo direttorio abbaziale, che e`
un completamento, una aggiunta, una ratifica anche, con il suo
accento piu` affettuoso e
paterno, con il tono di maggiore discrezione e benignita`, frutto senz'altro di esperienza
personale. E'
una stupenda pagina di letteratura cristiana in cui si armonizza la saggezza
di un profondo conoscitore delle anime e l'ispirazione
soprannaturale di prudenza e
carita`; vi aleggia lo stile delle lettere pastorali di S.Paolo e quello delle esortazioni
liturgiche agli
ordinandi.

SCHEMA del cap.64

Lo schema e` abbastanza lineare: alla introduzione (v.7) corrisponde la conclusione


(vv.21-22) che trattano di uno stesso tema:

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

rendiconto a Dio, prospettiva escatologica;


alla breve raccomandazione di quattro qualita` positive (v.9) corrisponde l'avvertenza
contro le sue qualita` negative (v.16).

Si noti che nella RM non si parla mai di eventuali difetti dell'abate, il quale deve
essere piu` avanti di tutti nella perfezione. Al
relativamente lungo commento sulla
correzione dei difetti (vv.12-15) corrisponde il commento sul modo di governare
(vv.17-19); la
raccomandazione di far osservare la Regola (v.20) e' la conseguenza di
tutto quanto precede e annuncia la conclusione. E` quindi
una costruzione ben combinata.
Vediamo il contenuto.

7-8: Coscienza della sua responsabilita`

SB insiste, con la ripetizione di parole simili (pensi, si ricordi, sappia), sulla


coscienza della sua responsabilita` che l'abate deve
avere. E` un tema gia` molto
sviluppato nel primo direttorio abbaziale (vedi RB.2,6-7; 2,34; 2,37-38). Sappia che
deve giovare piu`
che dominare <prodesse magis quam praeesse>: una bella massima
con efficace giuoco di parole prese da S.Agostino (Discorso
340,1 e altrove) che forse era
di uso comune ai tempi di SB.

9-10: Qualita` positive

Delle quattro qualita` positive elencate in questo passo (dottrina, intemeratezza,


sobrieta`, misericordia), la prima e la quarta sono
seguite da un piccolo
commento.

9: Sia dotto nella legge divina.... L'abate sia istruito nella legge di Dio,
perche` il primo elemento della sua opera di bene e`
l'insegnamento delle cose divine. SB
ha gia` insistito nel capitolo 2 su tale compito dell'abate, la cui dottrina deve
infondere nel
cuore dei discepoli un fermento di giustizia divina (RB.2,5; cf. anche
RB.2,11-15); "... perche` sappia da dove trarre insegnamenti
nuovi e antichi"
(l'espressione latina "nova et vetera" e` una citazione di Mt.13,52): sono gli
insegnamentoi che non mutano e le
applicazioni che cambiano ogni giorno, le regole che
sono eterne e gli ammonimenti che si adattano a ciascun individuo.

Sia casto, sobrio, misericordioso: richiamo all'elenco delle qualita` del vescovo
in S.Paolo (cf. per es. 1Tim.3,2). L'ultima qualita`,
la misericordia, e` seguita
da un commento. SB raccomanda all'abate di preferire la misericordia alla giustizia
(citazione di
Giac.2,13), "affinche` egli stesso possa ottenere un trattamento
simile" (chiarissima allusione a due passi del Vangelo: Mt.5,7;
Mt.7,2).

11-15: Indulgenza e amore nella correzione

Nella medesima linea della misericordia, abbiamo un'altra sentenza lapidaria frequente
in S.Agostino (Discorso 49,5 e altrove),
con l'invito a non cessare di amare i fratelli
mentre detesta i vizi: oderit vitia, diligat fratres (detesti i vizi, ami i
fratelli).

12: ne quid nimis

La massima precedente "oderit vitia, diligat fratres" conduce SB a trattare


del modo di agire nella correzione, che e` uno dei temi
capitali del codice monastico, con
l'insistenza sulla moderazione: Ne quid nimis (senza eccedere). La sentenza
classica (era
attribuita a uno dei sette sapienti) ispira il senso del giusto mezzo e
della discrezione. Forse SB la ricordava dalla scuola giovanile;
pero` in seguito il
ricorso alla Scrittura (Is.42,3: che "non si deve spezzare la canna gia`
incrinata" del v.13) eleva la massima dal
semplice piano naturale alla imitazione di
Gesu` stesso (cf.Mt.12,20 dove la citazione di Isaia e` applicata a Gesu`).

In nessun altro testo appare, come qui, il carattere di ritrattazione o di rettifica


del capitolo 64 rispetto al capitolo 2. Abbiamo visto
come nel primo direttorio abbaziale
SB invita l'abate a estirpare dalle radici, appena cominciano a spuntare, i difetti dei
fratelli
(RB.2,26); se coloro che trasgrediscono sono individui "testardi, superbi e
ribelli", dice di non perdere tempo ad ammonirli, ma di
punirli subito con castighi
corporali (RB.2,26-29). Qui raccomanda, si`, di stroncare i vizi, ma il tono e`
interamente diverso: "usi
prudenza e carita`, adattandosi al temperamento di
ciascuno" (v.14). Con tutto il contesto in cui si inculca con insistenza la
misericordia e l'amore, la norma sulla correzione finisce col perdere l'eccessiva durezza,
in un certo contrasto con il capitolo 2.

15: Studeat plus amari quam timeri

(= Miri ad essere amato piuttosto che temuto): altra bellissima sentenza tratta
direttamente dalla Regola di S.Agostino (cap.15) e
sapiente programma di governo.
La norma, in realta`, si trova anche in altri testi, cristiani, monastici e classici; si
puo` dire che
queste brevi ma sostanziose parole convergono la sapienza del deserto,
quella cristiana e quella politica classica. "Miri ad essere
amato piuttosto che
temuto" e` in fondo una variante di "giovare piuttosto che dominare" del
v.8. In ambedue le sentenze
appaiono due gruppi di elementi: autorita`, onore, timore da
una parte; servizio, misericordia, amore dall'altra. Trovare l'equilibrio
tra le due cose
sarebbe l'ideale, ma in realta` - e la RB e` realista - risulta impossibile mantenere
sempre tale equilibrio tra i due
piatti della bilancia.

16-19: Difetti da evitare. Discrezione dell'abate

Nel v.16 abbiamo un elenco di qualita` negative da evitare. Nulla di piu` dannoso per
la tranquillita` dispirito delle tensioni di un
abate turbolento, inquieto, vittima del
sospetto e della gelosia.

- Apprensivo <anxius> significa: in affanno ed eccessiva angustia di


spirito.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

- Esagerato <nimius>. Si intende di uno che, sia pur con le migliori


intenzioni, si rende fastidioso con l'insistere, col pretendere, col
soverchio correggere,
con la troppa cura delle minuzie.

- Ostinato <obstinatus>: deve pur essere convinto che gli altri possano
talvolta pensarla meglio di lui.

- Troppo sospettoso <nimis suspiciosus>: e' il difetto di chi vede ad ogni


passo pericoli, cattive intenzioni, malignita`: un abate
simile non avra` mai pace!

E' stato notato che il non sia turbolento dell'inizio del v.16 evoca la figura
del Servo di Yahwe (Is.42,4), applicata a Cristo in
Mt.12,18-21): "Non contendera`,
ne' gridera`, ne' si udra` sulle piazze la sua voce"; gia` prima, nel v.13, SB ha
ricordato l'altra
caratteristica "non spezzera` la canna incrinata": la
mansuetudine di Cristo deve essere un modello e uno specchio per il suo
vicario.

17-19: La discrezione, madre delle virtu`

Per quanto riguarda il governo, SB raccomanda la previsione, la riflessione, il


discernimento e l'equilibrio (v.17). Alla fine appare
l'equilibrio, la moderazione, la discrezione
(v.19) che domina tutto il direttorio abbaziale: e` quel sapiente giusto mezzo che e`
frutto di grande equilibrio spirituale e che rende la virtu` tanto piu` amabile e
accessibile.

La discrezione era tanto stimata presso i monaci antichi. Anche Cassiano usa
l'espressione: "la discrezione, madre di tutte le
virtu`" come al v.19
(Cf.Collazioni 2,4). E` noto che S.Gregorio Magno la colse come una caratteristica della
RB, definendola
appunto "mirabile per la discrezione" <discretione
praecipuam> (Dial.II,36).

La parola "discrezione" va presa anzitutto nel suo senso preciso e originario


da discernere, cioe` "distinguere" bene i mezzi e le
circostanze per
raggiungere un fine e ordinare gli atti corrispondenti senza eccesso ne' difetto.

19: ut...fortes quod cupiant et infirmi non refugiant

La discrezione sara` che l'abate disponga tutte le cose - tanto le spirituali che le
temporali (v.17) - in modo che "i monaci forti
desiderino di fare di piu` e i deboli
non si scoraggino" <non refugiant> (v.19). L'espressione ci ricorda quella di
Prol.48: "non
refugias", "non abbandonare subito la via della
salvezza". In ambedue i casi SB considera la stessa situazione umana: quella del
monaco pusillanime e di poca forza che di fronte a un'osservanza troppo rigorosa si
sentirebbe tentato di lasciare il monastero.
Nel prologo SB si rivolge a questo monaco
spaventato esortandolo alla perseveranza; qui chiede all'abate che tenga conto di tale
debolezza. Nel prologo promette al fratello tentennante che non si stabilira` nulla di
troppo duro e penoso, qui esige dalla
"discrezione" dell'abate che mantenga la
promessa abbreviando piuttosto che aumentando il peso della Regola che, per altro,
deve
far osservare in tutto (v.20).

20-22: Conclusione: osservanza della Regola e premio eterno

Il primo direttorio abbaziale termina facendo appello al giudizio di Dio e alla


correzione delle colpe proprie dell'abate (RB.2,39-40).
Questa nota di timore e di
severita` e` sostituita in questo secondo direttorio abbaziale da una nota di gioiosa
speranza: SB, per
sollevare il duro lavoro e l'incessante peso dell'abate, gli ricorda
il premio preparato al servo fedele quando verra` il Signore
(Mt.24,47).

Ritratto del pastore ideale, immagine di Cristo

E' stato detto che appare nel capitolo 64 una omogeneita` di pensiero, una unica
visuale ispira l'autore: quella del pastore ideale,
del servitore umile, mansueto e
paziente che e` Cristo. Spirito di servizio, misericordia, amore, prudenza, pace, ecc.,
sono tutti
aspetti di una identica attitudine fondamentale.

"Il Servo di Yahwe di Isaia, il Cristo di S.Matteo, il Pastore di S.Paolo,


l'Anziano misericordioso e "discreto" di Cassiano, tutte
queste immagini ideali
del capo cristiano vengono a fondersi senza sforzo in un ritratto dell'abate che e`
profondamente semplice"
(De Vogue').

Questo ritratto dell'abate del capitolo 64 differisce in alcuni punti non solo dalla
RM, ma anche da quanto detto nel capitolo 2 della
stessa RB. SB ha corretto se stesso in
eta` avanzata alla luce dell'esperienza? Oppure il capitolo 64 e` dovuto a una mano
diversa da quella del capitolo 2? Tutte le ipotesi sono permesse. Comunque, negli ultimi
capitoli della Regola, che sono propri di
SB (di cui si riconosce sempre piu`
l'originalita`) ci si presenta l'abate piuttosto che come un maestro severo, teso ed
inquieto per il
peso della responsabilita`, come un uomo servizievole e misericordioso.

CAPITOLO 3

La convocazione dei fratelli a consiglio.

De adhibendis ad consilium fratribus.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Preliminari

Questo capitolo finisce di determinare la costituzione organica della comunita`,


stabilendo il ruolo che spetta a ciascun membro
nel governo del monastero. Nella RM e` un
tutt'uno col capitolo 2 sull'abate e difatti e` strettamente collegato con esso. Tuttavia
SB se ne distacca e ne fa un capitolo a se' in cui, pur dipendendo dalla RM, notiamo una
sua originalita`. Si tratta praticamente dei
rapporti tra abate e comunita`, su cui ha
scritto uno studio esauriente e fondamentale A.DeVOGUE, La communaute' et l'abbe'
dans
la Regle de Saint Benoit <La comunita` e l'abate nella Regola di S.Benedetto>
Paris 1961.

Precedenti nella tradizione monastica

E` merito del DeVogue', tra l'altro, aver indicato i precedenti storici del consiglio
degli anziani nella tradizione monastica; ricorda le
assemblee degli anacoreti di Scete,
parla delle "Vite" copte di S.Pacomio, secondo cui il superiore generale
riunisce i "grandi" o
"anziani" della "koinonia"; cosi`
ancora riferisce che le Regole di S.Basilio presentano un parallelo perfetto con le
disposizioni della
RB. Tuttavia in questi passi si tratta sempre di un consiglio
ridotto scelto, composto di uomini "capaci di giudicare" e sembra che
essi
non si limitano ad esporre il loro parere, ma danno un voto abbastanza decisivo. In SB
c'e` una impostazione diversa del
cenobio e quindi dei rapporti tra abate e comunita`.

Quanto alla convocazione del consiglio, il capitolo 3 di RB prevede nel monastero due
casi:

1). trattazione di affari di particolare importanza <praecipua>;

2). trattazione di affari di minore importanza <minora>.

Schema del capitolo 3:

a) convocazione di tutta la comunita` (vv.1-3);

b) comportamento dei monaci e dell'abate nel consiglio (vv.4-6);

c) autorita` della Regola (vv.7-11);

d) consiglio degli anziani (vv.12-13).

1-3: Convocazione di tutta la comunita` (per cose di maggiore importanza).

Quando si tratta di affari di grande importanza, deve essere convocata tutta la


comunita`. Si tratta proprio di un consiglio generale.
Esso ha le seguenti
caratteristiche:

- lo convoca l'abate,

- espone il problema lo stesso abate,

- l'abate infine, udito il parere di tutti, riflette sulla cosa

e decide quanto ritiene opportuno.

Si tratta percio' di un consiglio puramente consultivo. Quindi la convocazione


dei fratelli a consiglio non significa una restrizione
dei poteri abbaziali o un voler
dare una forma "democratica" alla direzione del monastero. Per SB l'autorita`
dell'abate e`
intangibile e non ammette opposizione alcuna. Tutto questo appare chiaro e
senza alcun dubbio dal testo della RB: l'abate non
perde assolutamente nulla della sua
autorita`. Bisogna pure notare, pero`, che queste riunioni non possono fare a meno di
stimolare l'interesse di tutti per l'andamento del monastero: sono una vera partecipazione
al governo del cenobio, anche se la
dicisione rimane dell'abate.

Dialogo e spirito di famiglia

I monaci cessano di essere dei minorenni a cui si presenta tutto gia` stabilito e
definitivo; sono persone adulte che pensano con la
loro testa, hanno idee e convinzioni
proprie che l'autorita` deve soppesare e apprezzare. Si instaura cosi` un dialogo generale
in
cui i monaci si manifestano, si conoscono, formano realmente una comunita`. Quindi
questa disposizione di Benedetto di
convocare tutti senza eccezione ha un'importanza
decisiva per l'instaurazione di autentiche relazioni tra monaci e monaci, e tra
monaci e
abate, per la formazione di quello spirito di famiglia, caratteristico dei cenobi
benedettini.

3: Motivazione spirituale di fede

Il motivo ultimo di questa determinazione e` spirituale. SB non si rifa` a una legge


esteriore, come sembra fare la RM (nella RM il
consiglio si riferisce solo ai beni
materiali e si basa sul principio della proprieta` corporativa: "le sostanze del
monastero sono di
tutti e di nessuno" (RM.2,48); ma ad una profonda convinzione
basata sulla fede: "spesso e` al piu` giovane che il Signore rivela la
soluzione
migliore" (v.3). SB qui allude certamente al passo di Mt.11,25: "... hai tenute
nascoste queste cose ai sapienti e agli

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" e


pensa a Samuele e a Daniele che giudicarono gli anziani (cf.!Sam.3 e Dan.13), come dira`
espressamente in un altro capitolo (RB.63,6). Principio spirituale quindi, ma anche - a
pensarci bene - molto umano e psicologico;
si tratta di sapere cio` che chiede il Signore
a una comunita` in una data situazione e il Signore lo puo` rivelare a uno dei membri
meno
qualificati (principio spirituale); ma SB sa pure che i monaci giovani in genere
hanno maggiore entusiasmo e generosita` e
sono liberi da pregiudizi e da interessi
personali (principio umano).

4-6: Comportamento dei monaci e dell'abate

Seguono alcune norme pratiche - ed eccellenti - sulla maniera di manifestare il proprio


parere: e` il galateo monastico delle
riunioni di famiglia. Se SB vuole che l'abate
consulti i fratelli, cio` non dispensa questi ultimi dai doveri di umilta` e di rispetto;
essi
sono chiamati ad esporre il proprio parere e non a farlo prevalere a tutti i costi;
quindi sottomissione, umilta`, obbedienza a cio`
che l'abate decide alla fine. Troviamo
espressioni che richiamano l'atteggiamento da tenersi nell'ufficio divino (RB.20,1) e che
si
rifanno al vocabolario dell'obbedienza; quella dell'obbedienza e della sottomissione e`
in ogni circostanza la strada maestra per i
monaci che hanno scelto di "militare
sotto la Regola e un abate" (RB.1,2).

Ci si potrebbe chiedere: la RB proibisce di "sostenere ostinatamente" il


proprio parere; ma se uno insiste sulla sua idea senza
petulanza, con calma e semplicita`,
e` lecito o no secondo SB? E` impossibile rispondere con sicurezza> Senza dubbio,
l'abate
deve tener conto dei consigli che gli si danno; la convocazione dei fratelli non
puo` ridursi a una pura commedia; certo, la
decisione ultima spetta a lui, ma questa non
puo` essere dettata da arbitrarieta`; SB chiede che egli penda dalla parte piu`
conveniente, piu` opportuna (v.5) e aggiunge, in una frase solenne, che "se e`
doveroso per i discepoli obbedire, altrettanto
doveroso e` per il maestro decidere con
prudenza e giustizia" (v.6). Abbiamo percio` una botta di qua e una di la`, come
appare
molto di piu` nel brano seguente.

7-11: Autorita` della Regola

Si enuncia ora un principio assoluto e di portata generale: "In ogni cosa tutti seguano la Regola come maestra e nessuno ardisca
temerariamente allontanarsene"
(v.7). Qual'e` il significato esatto di un principio cosi` categorico?

Che esso valga sia per i monaci che per l'abate e` indiscutibile. Percio` - ci si
domanda - allontanarsi talvolta dal contenuto
letterale o anche dal senso della Regola
implica necessariamente temerarieta` e bisogna quindi evitarlo ad ogni costo? O non
piuttosto a volte si puo` - e talvolta si deve - date le circostanze, prescindere dai
precetti della Regola?

In tutti i modi, sembra certo che questa frase, grave e maestosa, piu` che per i monaci
(anche per loro, certamente) e` scritta per
porre rimedio ad eventuali capricci
dell'abate, il quale con ogni probabilita` va considerato incluso in quel
"nessuno" del versetto
seguente: "nessuno in monastero segua i capricci del
proprio cuore" (v.8). In compenso, segue nei vv.9-10 una frase per
salvaguardare
l'autorita` dell'abate: non discutere insolentemente o altercare sfacciatamente con lui
(ma naturalmente in riunione
con umilta` e delicatezza si puo` contraddirlo). Poi (v.11)
di nuovo un richiamo per l'abate. Come si vede, e` quasi un tira e molla
tra i due poli
del cenobio: comunita` e abate.

I correttivi dell'autorita` abbaziale sono dunque due: il timore del giudizio divino
(rendiconto a Dio, cf. RB.2 e RB.64 piu` di una
volta) e la Regola cui anche lui
deve sottomettersi.

12-13: Consiglio degli anziani (per cose di minore importanza).

Quando si tratta di minora - "affari di minore importanza, contrapposto a


"praecipua" del v.1), l'abate si limita a consultare gli
anziani. Per
"anziani" non si intende una categoria sociale (cioe` in rapporto all'eta`,
anche se essa poteva avere una certa
importanza), ma una categoria spirituale;
nella RB se ne parla come di coloro che, essendo piu` maturi spiritualmente, piu` formati
nella vita monastica, disimpegnano i vari uffici: decani, maestro dei novizi, portinai...;
SB conclude con una citazione esplicita della
Scrittura (l'unica del capitolo) che in
realta` e` composta di due citazioni: Prov.31,3 e Sir.32,34 (ricordiamo l'uso libero che
SB fa
della Bibbia come uno che ne ha grande familiarita` e cita a memoria): "Fa ogni
cosa con il consiglio...", un principio di saggezza
umana corroborata dalla Parola di
Dio; cosi` il "padre del monastero" utilizza la prudenza e l'esperienza dei
fratelli prima di
prendere una decisione, in modo che tutti collaborino alla ricerca della
volonta` di Dio, che e` l'unica cosa che importa.

Conclusione:

In questo capitolo terzo SB riconosce che l'abate ha - come diremmo oggi - un


carisma particolare come superiore; ma questo
carisma non puo` essere visto al di
fuori del contesto di una comunita` viva e di una Regola. In SB notiamo l'insistenza
tra diritti e
doveri dell'abate (abbiamo visto quasi un tira e molla): non vuole
assolutamente limitare il potere dell'abate, che anzi appare nel
capitolo piuttosto
rinforzato; quanto ai doveri, li propone con una forza nuova; non consistono solo (come
per RM) nell'ascoltare
tutti, ma l'abate e` invitato a "disporre ogni cosa con
prudenza e giustizia" (v.6), ad "agire sempre con timor di Dio e rispetto
della
Regola" (v.11), pensando al giudizio divino. Queste raccomandazioni denotano un
senso nuovo della fallibilita` del superiore. SB
cerca di equilibrare e
sintetizzare questi tre elementi"

- il carisma abbaziale di guida e maestro;

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

- il dono del discernimento che ha la comunita`;

- la sapienza accumulata dalla tradizione e codificata nella Regola.

Tutti sono sotto la Regola

Quest'ultimo e` un punto importante: tutti, abate e monaci, sono sotto la Regola; per
SB essa e` norma suprema. Senza dubbio il
ricorso alla Regola e` in relazione alle
difficolta` del momento; pero` c'e` un elemento permanente: in tutti i tempi, e sopratutto
in
periodi di rilassamento, la comunita` e l'abate non possono avere salvaguardia che il
rispetto religioso di una Regola intangibile;
un abate non e` niente senza una Regola.

Oggi la materia e` regolata dalle norme canoniche della Chiesa

Per SB il consiglio dei fratelli e` consultivo. Pur conservando questo spirito


della costituzione benedettina del monastero, la Chiesa
e` intervenuta nel corso dei
secoli per eliminare o prevenire abusi e ha limitato in qualche punto e in certe
circostanze i poteri
abbaziali; cosi` pure per determinati casi ha imposto e reso deliberativo
il voto dei monaci. Oggi il Codice di Diritto Canonico e le
Costituzioni
delle singole Congregazioni fissano delle norme precise per il capitolo di famiglia.

APPENDICE AI CAPITOLI 2, 3, 64:

Excursus sulla figura dell'abate come appare nella RB, e sua applicazione al superiore
dei nostri giorni in rapporto alla comunita`.

(Questo "excursus" e` stato rifuso e pubblicato in Inter Fratres 35


(1985) 1-29: L.SENA, La figura dell'abate nella RB e problemi
attuali. Applicazione
ai superiori delle comunita` silvestrine

Introduzione ai

CAPITOLI 4-7: Sezione ascetica

La Regola non e` un trattato di teologia ascetico-mistica e quindi in essa non si


possono cercare grandi disquisizioni sulle virtu`,
sui vizi, sulla preghiera e la
contemplazione. S.Benedetto per queste cose rimanda a:

1. Sacra Scrittura

2. Padri della Chiesa

3. Scrittori monastici (RB.73,2-6)

Pero` un "corpus ascetico" propriamente detto, considerato dalla tradizione


come base e fondamento della spiritualita`
benedettina, lo forma un gruppo di quattro
capitoli dedicati interamente a esporre una serie di linee ascetiche e una dottrina
sopra
alcune virtu` considerate come fondamentali per la vita del monaco:

a) Cap. 4: Gli strumenti delle buone opere;

b) Cap. 5: L'obbedienza;

c) Cap. 6: L'amore al silenzio;

d) Cap. 7: L'umilta`.

Il capitolo 4 e` un lungo elenco di massime morali molto brevi; a un esame anche


superficiale appare che buona parte, sia dei
termini che del contenuto dottrinale, si
ritrova nei capitoli 5-6-7, con i quali forma una unita` letteraria, li prepara e in un
certo
senso ne anticipa la dottrina.

Si e` parlato giustamente di "trilogia benedettina", cioe`: Obbedienza,


Taciturnita`, Umilta`. Ma sarebbe errato considerare queste
tre virtu`
basilari dell'ascetismo monastico su uno stesso piano. "L'umilta` - ha scritto
DeVogue` - e` la madre dell'obbedienza e
della taciturnita`; obbedienza e taciturnita`
sono due modalita` di uno stesso comportamento di sottomissione; nei due casi il
superiore
e` considerato sotto due aspetti differenti: l'obbedienza rende omaggio ai suoi ordini, la
taciturnita` ai suoi insegnamenti.
Legando insieme obbedienza e taciturnita` in forza
dell'ascolto che il loro momento comune, ritroviamo l'idea della loro filiazione
dell'umilta` (idea che e` propria di Cassiano): significa dare prova di umilta`
mortificare la propria volonta` e sottomettersi
all'anziano, trattenere la lingua e
moderare la voce."

E difatti nel capitolo 7 della RB, nella scala dell'umilta`, l'obbedienza e` il tema
piu` rilevante dei quattro primi gradini, mentre la
taciturnita`, gia` presente nel quarto
gradino, e` materia propria dei gradini 9, 10 e 11. Possiamo dunque dire che l'obbedienza
e`

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

l'umilta` nell'agire, la taciturnita` e` l'umilta` nel parlare: l'una e` pronta ad


agire, l'altra lenta a parlare.

Abbiamo dunque la trilogia propriamente monastica: Obbedienza - Taciturnita` - Umilta`


(capitoli 5-6-7). dopo il capitolo 4 sulle
buone opere, che ha un carattere piu`
universale.

CAPITOLO 4

Quali sono gli strumenti delle buone opere.

Quae sunt instrumenta bonorum operum.

Preliminari

Il capitolo ha una fisionomia particolare: e` tutta una serie di precetti brevi,


quasi sempre formulati secondo il medesimo schema,
che i monaci potevano imparare a
memoria (procedimento usato anche per i catecumeni quando si preparavano al battesimo,
fino
ai nostri catechismi di qualche anno fa). Questo genere di insegnamento sotto forma
di proverbi fu molto amato dai cristiani e dai
monaci antichi. Si ricordino: i
"Monita" dell'abate Porcario, le "Sentenze' di Evagrio Pontico, talche`
alcuni credono che SB abbia
preso un elenco che andava in giro per i monasteri e lo abbia
tramandato nella Regola.

Dipendenza dalla RM

La fonte piu` immediata e` dunque la RM (il DeVogue` ha individuato una fonte comune
per RM e RB: la Passio Juliani, un
documento del VI secolo o forse anche del IV-V).
La RM tratta della "ars sancta" <arte santa> nei capitoli 3-6 che fanno da
collegamento tra il capitolo 2 sull'abate e i capitoli 7-10 sulle grandi virtu` monastiche
dell'obbedienza, della taciturnita` e
dell'umilta`.

Il capitolo 3 viene presentato come un vademecum personale dell'abate nell'istruire i


suoi discepoli, e contiene un elenco di
strumenti tratti dalla morale cristiana senza
alcun elemento prettamente monastico. RM.4 contiene una lista di virtu`, RM.5 una
lista di
vizi, RM.6 descrive l'officina e il modo di impiegare gli strumenti. La RB consacra un
solo capitolo - RB.4 - alla "arte
spirituale" al posto dei quattro della RM,
praticamente riproduce il capitolo 3 e 6 della RM.

Il titolo del capitolo 4 di RB

SB non parla di "ars sancta", ma di Instrumenta bonorum operum


<Strumenti delle buone opere>, dando a "instrumenta" il
significato comune
di arnese, strumento di lavoro, naturalmente con valore metaforico per l'arte spirituale
che esercita i monaci
nella perfezione. Questi "arnesi" non sono altro che delle
sentenze che indicano le buone opere da compiere per raggiungere la
perfezione della vita
cristiana o, se si vuole, sono le stesse opere buone imposte o consigliate. Alla
fine del capitolo (v.75) sono
chiamati con piu` precisione instrumenta artis spiritalis
<utensili per l'arte spirituale>, arte che deve intendersi nel giusto senso di
un
metodico e specializzato complesso di lavoro e di esercizi per conquistare la carita`
perfetta (come e` detto nella scala
dell'umilta` RB.7,67), cui seguira` la ricompensa
escatologica, qui espressamente richiamata (vv.76-77).

Differenze tra RB e RM

Le differenze tra RB e RM, a prima vista non sono molte. Tuttavia S.Benedetto mostra
una certa tendenza ad abbreviare (gli
strumenti sono 77 in RM, 74 in RB; i versetti
totali del capitolo sono 95 in RM, 78 in RB). Le aggiunte di SB sono poche e per
questo
molto significative; alcune rappresentano una sottolineatura di preoccupazioni tipiche di
SB, cosi` per il 40mo contro la
calunnia e il 69mo sull'importanza dell'umilta`; cosi`
alcuni aggiunti sull'obbedienza. SB ha poi la tendenza a radicalizzare certi
precetti e a
rendere piu` "monastici" certi precetti che in RM hanno un carattere piu`
"laico". Inoltre SB si mostra sensibile al tema
dei rapporti reciproci
(vv.70-73) sottolineando la "dilectio" e l'"amor" come
atteggiamenti da tenere sia reciprocamente sia nei
confronti di Dio. Molto importante e`
notare che in RM tutto il capitolo e` compreso in una inclusione principale:

v. 1: "Primo: credere, confessare e temere Dio;

v.83: "... che e` preparato ai santi e a coloro che temono Dio".

RB sostituisce cosi`:

v. 1: "Primo: amare Dio..."

v.77: "... che Dio ha preparato a coloro che lo amano.

Ne risulta quindi che la "ars" in SB non trova piu` la sua sintesi e il suo
significato fondamentale nel timore verso Dio, ma
nell'amore. Questo era il

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

pensiero di SB, sopratutto se si tiene presente l'altra importante modifica introdotta


al termine del trattato sull'umilta`: la carita`
perfetta come fine dell'ascesi
monastica.

Struttura del capitolo

Il capitolo consta di tre parti, molto asimmetriche:

- contiene anzitutto un catalogo di 74 "strumenti delle buone opere" che,


senza alcun preambolo, inizia con il primo precetto della
carita` e termina con quello di
non disperare mai della misericordia di Dio (vv.1-74);

- segue, a mo' di conseguenza, la presentazione della "paga"


(ricompensa) che ricevera' chi avra` adoperato tali strumenti
incessantemente,
"giorno e notte" (vv.75-77);

- e infine, con una sola frase, si indica in quale "officina" si


debbano adoperare questi "arnesi" (v.78).

Fonti

Moltissimi dei precetti appartengono alla vita morale comune di tutti i cristiani,
perche` la perfezione cercata attraverso i consigli
evangelici suppone quella comune dei
precetti. La maggior parte delle sentenze sono prese dalla S.Scrittura; altre dagli
scritti dei
Padri della Chiesa; altre dagli Autori monastici; altri ancora
dalla Passio Juliani (citata sopra) e qualcuna da autori profani.

Valore diverso

Il valore di queste massime e` il piu` vario, andando da cose essenziali (amore di


Dio e amore del prossimo), ad altri aspetti piu`
secondari della vita
spirituale (es. non essere dormiglione). Tra le piu` alte e le inferiori, c'e`
tutta una gamma di valori intermedi.

E` difficile stabilire un ordine logico: in realta` non esiste alcun ordine. E`


possibile raggrupparle in vari gruppi secondo uno stesso
argomento o una stessa
ispirazione biblica. Vediamo le suddivisioni, che sono comunque approssimative.

PRIMA PARTE: vv.1-74. Gli strumenti.

1-9: il decalogo

Iniziano la lista i due grandi comandamenti: amare Dio e amare il prossimo


(vv.1-2). Seguono gli altri precetti del decalogo con
una importante variante (v.8):
invece di "onorare il padre e la madre", per i monaci che hanno lasciato i
parenti abbiamo: "onorare
tutti gli uomini, ispirata a 1Piet.2,17 che e` un
precetto di ospitalita` richiamato da SB nel capitolo sull'accoglienza degli ospiti
(RB.53,2). Questa prima sezione si chiude con la regola d'oro ("non fare ad
altri..." del v.9) la cui formulazione, in forma positiva,
e` nel Vangelo (Mt.7,12;
Lc.6,31), mentre in forma negativa e` in Tobia 4,16.

10-19: Rinunzia a se stesso e opere di misericordia

Con il 10mo strumento siamo in pieno Vangelo: la rinunzia a tutto per seguire Gesu`
(Mt.16,24; Lc.9,23); forse il richiamo di tale
sentenza dopo il decalogo e` dovuto al
passo di Mt.19,16ss: "va`, vendi ... e seguimi". Poi, dopo l'esplicitazione
della
mortificazione corporale (vv.11-13), si passa alle opere di misericordia,
collegamento molto naturale per gli antichi, dato che il
digiuno era sempre legato
all'elemosina: "ama il prossimo" implica necessariamente "ristorare i
poveri".

20-21: Odiare il mondo, amare Cristo

Questi due versetti (con richiamo al v.10) riassumono tutto il lavoro di ascesi
proposto al monaco: la vita monastica come sequela
di Cristo; quindi estraniarsi in
un certo senso dalle altre cose per mettere Cristo al primo posto. Nel v.20 possiamo
vedere
un'allusione a Giac.1,27 o forse anche a Rom.12,2. Che cosa sono questi acta
saeculi <costumi del mondo>? Forse i gesti
contrari ai comandamenti divini
("mondo" in Giovanni e` tutto un complesso di uomini, cose, mentalita` che si
oppone a Dio) o,
forse, tutto cio` che non e` secondo l'umilta` e l'obbedienza monastica:
l'amore per gli onori, il mettersi in mostra, il parlare troppo,
ecc.

Il v.21 e` molto importante, in quanto ripreso in RB.72,11 (tipico di SB) e a proposito dell'ufficio divino in RB.43,3 (pure proprio di
SB. Cf anche RB.5,2): e` il giudizio di valore che il monaco e` tenuto a dare, in base al quale conformare la propria
esistenza
concreta: nulla vale di piu` dell'amore di Cristo e del suo servizio, percio`
nulla puo` essergli anteposto.

22-23: Mansuetudine e sincerita`

Abbiamo una serie di massime riguardanti la convivenza fraterna per il


mantenimento delle buone relazioni e sopratutto perche` il
monaco conservi la puritas
cordis, la pace, mortificando il proprio appetito irascibile; sono tradizionali nella
dottrina spirituale
monastica. I vv.22-23 significano: "non mettere in esecuzione
quanto si desidera fare al momento dell'ira". S.Girolamo avvertiva:
"Adirarsi e`
dell'uomo, non dare sfogo all'ira e` del cristiano" (Epistola 79,9) e anche:
"Adirarsi e` dell'uomo, porre fine all'iracondia

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

e` del cristiano" (Epistola


130,1).

34-40: Vizi da evitare

Abbiamo una serie di sette sentenze negative ispirate - eccetto il v.37


"non essere sonnolento" - agli ammonimenti di S.Paolo in
1Tim.3,3ss, e Tito
1,7ss (cf.Rom.12,11).

41-43: Retto giudizio di se'

Questi strumenti esprimono sopratutto la capacita` di giudizio su di se' e sul valore


delle proprie opere. Il monaco deve essere
tanto intelligente da saper attribuire a Dio
il merito delle proprie opere buone, con chiarezza e semplicita`: e` una anticipazione
del
giudizio escatologico di cui nei versetti seguenti. La fonte e` S.Agostino (Discorso
96,2).

44-47: Novissimi

Il programma ascetico si realizza ell'esercizio del timor di Dio. Il giudizio


divino (v.44), l'inferno (v.45), la vita eterna (v.46), la morte
(v.47) sono realta`,
verita` eterne che bisognava aver costantemente di fronte agli occhi. Per cui il monaco
deve esercitare
continuamente la vigilanza su se stesso.

48-54: Custodia di se'

La presenza di Dio che ci guarda "in ogni luogo" (v.49) fara` si` che
"in ogni momento" custodiamo la nostra vita (v.48), che
spezziamo contro la
roccia che e` Cristo i cattivi pensieri e li manifestiamo al padre spirituale (v.50). In
tal modo la vita del monaco
acquista una serieta` e una gravita` per cui non solo si
evitano "le parole cattive e scorrette" (v.51), ma si cerca di "non parlare
molto" (v.52), di non dire buffonerie (v.53), di ridere smodatamente (v.54).
Troveremo tutto questo sopratutto nel 1^ gradino
dell'umilta` (RB.7).

50: i cattivi pensieri...: questo versetto, che richiama l'espressione di


Prol.28, riassume magistralmente tutta l'essenza del metodo
del combattimento interiore o
"guerra invisibile" dei Padri del Deserto. Il "padre spirituale" non
e` qui necessariamente l'abate; nel
monastero ci possono essere altri anziani spirituali
adatti e disposti ad aiutare i fratelli (cf.RB.46,5).

55-58: spirito di preghiera e di compunzione

Contro la dissipazione, per la custodia di se`, giova sommamente l'amore alla


preghiera (v.56) - si intende qui quella privata
(Lc.18,1; 1Tess.5,17: "pregate
senza interruzione") - le letture sante (v.55), il costante ricordo dei propri
peccati con lacrime e
gemiti (v.57) con l'impegno di emendarsi (v.58) (cf. Cassiano,
Collazioni 9,36; 20,6-7).

La compunzione del cuore, il sentimento della propria indegnita` di peccatore e`


inculcato da SB come disposizione abituale del
monaco: e` il 12mo grado di umilta`
del capitolo 7.

59-64: Sottomissione della carne e dello spirito

Dopo una citazione di Gal.5,16 che richiama la lotta della carne contro lo spirito
("desideri della carne" sono tutte le tendenze
disordinate, v.59), si torna ad
insistere sulla necessita` di "odiare la propria volonta`" (v.60) per obbedire
in tutto ai precetti
dell'abate, uomo virtuoso senza dubbio, ma sempre uomo e soggetto lui
pure alla legge del peccato, per cui potrebbe essere che
la sua vita non corrisponda alla
sua dottrina; in tal caso bisogna obbedire lo stesso, ricordando la parola del Signore a
proposito
degli scribi e dei farisei (v.61).

Pero` la coerenza tra il dire e il fare non vale solo per l'abate, ma per tutti: ecco
allora il curioso aforisma del v.62 ("non voler
essere ritenuto santo prima di
esserlo, ma prima esserlo perche`...", tratto dalla Passio Juliani 46) per
avvertire che non
diventiamo noi ipocriti come i farisei. La coerenza richiama ancora la
necessita` dei fatti, delle opere nell'adempimento dei
comandamenti di Dio (v.63). Chiude
la serie quel sobrio e modesto Amare la castita` (v.64), unico luogo dove SB fa
esplicita
menzione di tale virtu`; ma questa allusione discreta e` tutto un poema in
quell'amare la castita`.

65-73: Amore fraterno

Si torna ad insistere sull'amore fraterno con cinque precetti negativi


(vv.65-69) e quattro positivi (vv.70-73). Tra questi ricordiamo il
70 e il 71,
raccomandazioni piene di umanita` che ritroveremo di nuovo in RB.63,10 sui rapporti tra le
varie generazioni che
convivono in monastero. Il v.73 dipende chiaramente da Efes.4,26:
"non tramonti il sole sopra la vostra ira".

74: Fiducia nella misericordia del Signore

Il lungo catalogo termina con un atto di fede illimitata nella bonta` divina: solo
nella consapevolezza e speranza della misericordia
di Dio e` possibile intraprendere il
"lavoro" delle buone opere; se il monaco esprimente le difficolta` e forse
l'impossibilita` di
questo lavoro deve essere pero` certo dell'aiuto di Dio. E` notevole
il fatto che mentre RM ha "e non disperare di Dio", Benedetto
preferisce
"e della misericordia di Dio non disperare mai", sottolineando cosi` che
l'aiuto viene dall'amore di Dio.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

II.PARTE: vv.75-77:

75-77: la "paga" per l'uso degli strumenti

Dopo aver, senza alcun preambolo, enumerati tutti gli strumenti, SB conclude offrendoli
come utensili di un'arte: devono essere
maneggiati, usati, adoperati assiduamente,
"notte e giorno": si noti con qual vigore si indica la continuita` del
lavoro ascetico; e` un
lavoro che non ammette riposo ne` ferie, solo la morte temporale vi
pone fine. E allora il monaco, da bravo operaio (Prol.14;
RB.7,70), riconsegna gli
strumenti e riceve il dovuto salario per il lavoro eseguito. E qual'e` la paga? In
realta` non la conosciamo
esattamente, ne` possiamo conoscerla. La RM, secondo il suo
stile eccessivo e un po' barocco, indugia a questo punto su
un'ampollosa descrizione delle
delizie del paradiso (terra risplendente, acque abbondanti, rive ricoperte di fiori e
frutti, suoni e
canti, ecc...), ispirandosi alla apocrifa "Visio Pauli"
(RM.3,84-94). Con sobrieta`, SB si limita a citare il testo paolino di 1Cor.2,9: la
ricompensa e` al di sopra di quanto possiamo concepire ed immaginare.

III.PARTE: v.78

78: la "officina" per l'uso degli strumenti

Al termine del capitolo SB ci dice qual'e` l'"officina" in cui lavorare. La


definizione dell'officina contiene due elementi: il recinto del
monastero e la stabilita`
nella famiglia monastica.

Claustra monasterii non significa qui "chiostri" nel senso


architettonico, ma "recinto", "clausura" del monastero, cioe` tutto lo
spazio della proprieta` del monastero, indica quindi l'ambito materiale dove si esercita
l'arte spirituale. Invece "l'ambito, il clima
umano e religioso, e` dato dall'altra
espressione "stabilitas in congregatione" <stabilita` nella famiglia
monastica>, cioe`
l'appartenenza ad una comunita`, la permanenza e la perseveranza in
essa. Si sa quanto SB tenga alla "stabilita`" (contro
sarabaiti e girovaghi, cf.
capitolo 1).

Questa caratteristica del monastero nella concezione di SB fu colta con precisione da


Dante che nella Divina Commedia fa dire al
santo Patriarca (Paradiso 22,50-51):

""qui son li frati miei che dentro ai chiostri

fermar li piedi e tennero il cor saldo.""

Nella nostra Congregatione, tuttavia (come per altre, sorte nel medioevo), il concetto
di stabilita` e` piu` ampio, anche se si cerca
di conservare stabili le singole comunita`.

CONCLUSIONE: visione della vita monastica

Ecco la visione della vita monastica come appare dal "catechismo" in forma di
massime che e` il capitolo 4 della RB: il monaco e`
l'operaio di Dio (Prol.14; RB.7,49.70)
che, nell'officina del monastero, in compagnia e in comunione con gli altri operai che
formano la sua famiglia religiosa, fatica notte e giorno in un lavoro interamente
spirituale - <l'arte spirituale> del v.75 -
maneggiando strumenti spirituali che
sono le virtu`, sperando e fidando della grazia e della misericordia del suo Signore che,
nel
giorno benedetto in cui riconsegnera` gli attrezzi, possa ricevere la ricompensa delle
sue fatiche: "Cio` che occhio non ha mai
visto, ne` orecchio mai udito, ne` mai
entrato in cuore di uomo: questo, Dio ha preparato per coloro che lo amano"
(1Cor.2,9).

CAPITOLO 5

L'obbedienza.

De oboedientia.

Preliminari

In tutte le lingue il concetto di obbedienza deriva da "audire" e


significa sempre la "disposizione ad ascoltare l'altro e a fare la sua
volonta`": ascoltare e obbedire derivano dalla stessa radice etimologica. In latino
abbiamo ob-audire <ascoltare> e ob-oedire
<obbedire>: vocaboli
vicinissimi che nella letteratura cristiana sono in relazione con la radice ebraica
"shema`", il cui significato e`
primariamente "ascoltare" e in secondo
luogo "obbedire".

La tradizione biblica: nel VT...

La religione ebraica si riassume essenzialmente in questo concetto di obbedienza:


ascoltare Dio e compiere i suoi desideri. Era la
religione dell'obbedienza alla
rivelazione di Dio; il culto di Dio consisteva essenzialmente nell'obbedienza (cf. ad
esempio
!Sam.15-22) e l'essenza del peccato nella disobbedienza alla volonta` di Dio
manifestata nei comandamenti, nella Legge e nei

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Profeti.

...e nel NT

Nel NT appare con grande evidenza il valore essenziale dell'obbedienza. La vita di


Gesu`, come la presentano i Sinottici e come
la interpretano S.Giovanni e S.Paolo, non
e` altro che la storia di un'obbedienza totale alla volonta` del Padre attraverso
il
cammino della passione, della croce, della morte ignominiosa: Gesu` accetta tutto
pienamente per pura obbedienza al Padre.
L'intera esistenza di Gesu` si riduce ad una
totale conformita` alla volonta` del Padre: "Mio cibo e` fare la volonta` di colui
che mi
ha mandato" (Giov.4,34); Gesu` non e` venuto per fare la sua volonta`, ma
quella del Padre (Giov.6,38); Egli non parla per
iniziativa propria, ma il Padre parla in
lui (Giov.3,44); per questo chi vede lui vede il Padre (Giov.14,9-10).

Per il cristiano non basta in effetti accogliere il messaggio di Gesu`, bisogna


conformarsi alla volonta` del Padre, come Gesu` la
manifesta "non chiunque mi
dice: Signore, Signore..., ma chi fa la volonta`..." (Mt.7,21): il vero discepolo di
Gesu` compie la
volonta` del Padre. Il valore cristiano dell'obbedienza e` posto in
rilievo sopratutto da S.Paolo: tutta l'opera salvifica di Gesu` si
riassume, secondo
Filippesi 2, nella sua morte come atto di obbedienza al Padre, in contrapposizione alla
disobbedienza di
Adamo. L'obbedienza di Gesu` e`, per S.Paolo, il fondamento della
salvezza (Rom.1,19); la fede e` l'obbedienza alla predicazione
del messaggio di salvezza
(Rom.10,16; 2Cor.7,15; 2Tess.1,8); il cristiano e` l'uomo che obbedisce al Vangelo di
Nostro Signore
Gesu` Cristo (2Tess.1,18).

La tradizione dei Padri e degli scrittori monastici

L'obbedienza occupa quindi, senza dubbio, una posizione-chiave nella storia divina
della salvezza. I Padri della Chiesa non
cessarono di segnalarlo con grande insistenza. Ma
questa idea incontro` un'eco straordinaria soprattutto tra i monaci a cominciare
dalle
prime generazioni. In effetti i Padri del Deserto, ammaestrati dalla loro esperienza,
erano giunti a due conclusioni: primo, che
senza il rinnegamento di se` non
si giunge a una vera adesione alla volonta` di Dio; secondo, che il rinnegamento consiste
essenzialmente nella rinuncia alla propria volonta`, "muro di bronzo - a dire
dell'abate Poimene - che separa l'uomo da Dio"
(Apophtegmata, Poimene 54). I testi
monastici trattano di continuo questo tema sotto tutti gli aspetti:

- obbedire a Dio;
- obbedire alla Scrittura;
- obbedire ai Padri del monachesimo;

- obbedire ai fratelli e, in particolare,


- obbedire al proprio anziano spirituale, se si vive come anacoreta, o
- obbedire al superiore e alla regola, se si vive come cenobita.

In tal modo si ando` elaborando a poco a poco una teoria e in pratica il concetto
dell'obbedienza religiosa. Si suole distinguere
un'obbedienza ascetica o educativa
(piu` specifica degli eremiti) e un'obbedienza funzionale o sociale al servizio
della comunita`
(propria dei cenobiti). In realta` i due aspetti sono complementari:
l'obbedienza ascetica e` necessaria per realizzare l'obbedienza
funzionale nella maniera
piu` perfetta possibile; l'obbedienza sociale, poi, ha sempre un aspetto ascetico ed
educativo. In ogni
caso, i legislatori monastici del cenobitismo (Pacomio, Basilio, ecc.)
non si mostrano meno esigenti, riguardo all'obbedienza, dei
Padri spirituali degli
eremiti. S.Basilio richiede un'obbedienza universale e senza condizioni.

L'obbedienza nella RB

Quanto detto sopra e` il fondo biblico e monastico in cui situare il concetto di


obbedienza nella RB. SB ne parla nell'ambito della
dottrina ascetica, la dottrina
dell'obbedienza viene cioe` riportata alla scala dell'umilta` nel contesto dell'itinerario
ascetico proposto
ai monaci. Nel capitolo 5 si tratta in senso proprio
dell’obbedienza al superiore; ci sono poi altri due capitoli che trattano
specificamente dell'obbedienza: RB.68 (L'obbedienza nelle cose impossibili) e RB.71
(L'obbedienza reciproca). Ma
dell'obbedienza se ne parla con frequenza, dal principio del
prologo all'epilogo; ricordiamo che per SB l'obbedienza e` il cammino
attraverso cui si
ritorna a Dio (Prol.2). Incontestabilmente nella RB l'obbedienza costituisce l'asse
dell'itinerario monastico.

STRUTTURA del capitolo 5

Il capitolo 5 della RB riassume molto il lungo capitolo 7 della RM, ma non lascia
alcuna delle tre parti costitutive:

- obbedienza pronta e sue motivazioni: RB.5,1-10 (RM.7,1-21);

- descrizione dell'obbedienza e motivazione biblica principale (la "via


stretta" con l'esempio di Cristo): RB.5,10-13 (RM.22-66);

- qualita`, sopratutto interiori, dell'obbedienza: RB.5,14-19 (RM.7,67-74).

1-6: Obbedienza pronta e sue motivazioni

Il v.1 sembrerebbe in contraddizione con il capitolo 7. Ma qui non si parla di gradino


nel senso di una serie come nel capitolo 7,
"primo" qui significa "il
principale" o piu` perfetto, o ancora - come spiega DeVogue` - "primo nel
tempo", "fondamentale" dal punto
di vista della pedagogia monastica. Quindi
la frase "primus humilitatis gradus" del v.1 si puo` tradurre: "Il
principio dell'umilta`", "la
manifestazione piu` evidente dell'umilta`" e
simili. Questa nozione del primato (nel senso spiegato) dell'obbedienza nella

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

formazione
cenobitica e` unanime nella tradizione monastica.

obbedienza senza indugio <sine mora>

E' il carattere piu` evidente della vera obbedienza e SB vi insiste per tutta la prima
parte del capitolo.

2: motivo fondamentale: l'amore di Cristo

L'amore di Cristo balza evidentemente come il motivo fondamentale e il piu` nobile per obbedire. L'idea non e` nuova: il monaco
impugna le gloriose armi dell'obbedienza per militare sotto Gesu` Cristo vero Re (Prol.3). Si ricordino anche gli strumenti 10 e 21
del
capitolo 4. Evidente anche il richiamo nella struttura grammaticale al "Niente
anteporre all'amore di Cristo" di RB.4,21 e al
"Nulla assolutamente antepongano
a Cristo" di RB.72,11.

2-3: altri motivi...

Possono pero` esserci altri motivi meno elevati anche se validi e la RB li enumera: il
servizio santo a cui si sono consacrati, il
timore dell'inferno, il desiderio della vita
eterna; ma in tutti e tre questi motivi e` sempre supposto e incluso il primo, quello
dell'amore integrale a Cristo, da cui il monaco non puo` prescindere.

4-9: prontezza, rapidita`, simultaneita`...

SB descrive, accumulando molte espressioni, l'atteggiamento fedele del monaco e la


prima caratteristica dell'obbedienza:
prontezza come dinanzi a un comando di Dio, rapidita',
quasi simultaneita` tra l'ordine del superiore e l'esecuzione del discepolo.
"Lasciando incompiuto...". Cassiano avverte che al segnale dell'orazione e del
lavoro si interrompeva anche una lettera
dell'alfabeto gia` iniziata (Inst.4,12).

10-13: descrizione dell'obbedienza cenobitica

Bello il v.10: quibus ad vitam aeternam gradiendi amor incumbit: tanta


perfezione d'obbedienza e` un bisogno e una gioia
dell'anima perche' incombe, incalza
(questo e` il senso del verbo latino) l'amore per la vita eterna di cui si diceva
negli strumenti
delle buone opere "desiderarla con tutto l'ardore spirituale"
(RB.4,46).

Segue una descrizione breve ma abbastanza completa e precisa dell'obbedienza


cenobitica. La Regola viene paragonata alla
"strada stretta" (v.11) di cui si
parla nel discorso della montagna (Mt.7,14); poi si definisce l'obbedienza prima al
negativo, poi al
positivo. Negativamente e` rinunciare alla volonta` propria: "non
vivono secondo il proprio capriccio personale" e "non
obbediscono ai desideri e
gusti propri" (v,12). Le espressioni richiamano due strumenti delle buone opere:
RB.4,59 e 60.
Positivamente l'obbedienza e`:

- camminare secondo il giudizio e la volonta` di un altro;

- passare la vita in monastero;

- desiderare di essere sottomessi a un abate;

- si imita in tal modo il Signore che disse di se stesso: "Non sono venuto a fare
la mia volonta`, ma la volonta` di colui che mi ha
mandato (Giov.6,38).

Il primo elemento corrisponde al 61mo strumento delle buone opere e, insieme al secondo
(stabilita` in monastero, RB4,78),
caratterizza i cenobiti che "vivono in monastero
militando sotto una Regola e un abate" (RB.1,2).

Il terzo elemento vuole indicare il carattere libero e volontario


dell'obbedienza su cui si insistera` in seguito; la Regola dice altrove
che l'obbedienza
e` un bene (RB.71,1) e pertanto desiderabile (ma qui SB dice che "desiderano
essere sottomessi"!). Tutto cio`
proviene dal quarto elemento messo sopra, che
riassume, concludendola, questa parte del capitolo: l'imitazione di Cristo.

14-19: altre disposizioni dell'obbedienza

La Regola insiste sulle qualita` che deve avere l'obbedienza cenobitica per essere
veramente gradita a Dio e "dolce agli uomini".
Quest'ultima espressione e` un
tocco sapiente e amorevole di umanita` e finezza psicologica del santo Patriarca. Anche
per il
superiore dare un ordine non e` sempre facile: riesce percio` di conforto per lui
incontrare un'obbedienza sollecita e sorridente.
Dunque si obbedisca senza esitazione
o ritardo - si raccomanda ancora la celerita` - o svogliatezza oppure con
mormorazioni o
proteste (v.14), ma volentieri e serenamente, perche`
"Dio ama chi dona con gioia' (v.16).

Di buon animo: parole importanti che devono penetrare nell'animo del monaco.
"Dio guarda nel profondo del cuore" (v.18);
obbedire esteriormente non basta, se
l'atto non e` accompagnato dalla buona volonta` profonda e sincera di chi obbedisce:
l'obbedienza si deve interiorizzare.

17-19: la mormorazione

Tra tutti i difetti che annullano il valore dell'obbedienza, il peggiore e` il vizio


della mormorazione. SB ne ha un'avversione

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

particolare, sia essa esteriore o solo


interiore, e dice che i mormoratori incorreranno nella pena prevista (v.19). Certo, questa
nota
finale, redatta sullo stile del codice penale, suona un po' strana in questo capitolo
di pura spiritualita`; perche` e` chiaro che qui
non si parla del giudizio di Dio, ma
della disciplina regolare contro la mormorazione. Senza dubbio la clausola stona. Ma SB
era
un "uomo pratico secondo Gesu` Cristo".

CONCLUSIONE

Possiamo individuare nel capitolo due motivazioni principali per l'obbedienza


monastica:

- motivazione ascetica (rinunzia a se stesso, alla propria volonta`, ai propri


gusti);

- motivazione sopratutto teologica (obbedire per amore di Cristo).

Dai testi biblici del capitolo 5 appare la figura di Cristo:

* come colui al quale si obbedisce (Lc.10.16 citato nel v.6 e nel v.15)

* e come colui che si imita nell'obbedire (Giov.6,38 citato nel v.13).

In altre parole: Cristo e` rappresentato

- una volta nell'abate che ordina

- e una volta nel monaco che obbedisce.

Ecco i due aspetti che risultano dai due testi evangelici:

* obbedire come Cristo e

* obbedire come a Cristo.

Ambedue gli aspetti dell'obbedienza - comandare e obbedire - hanno il fondamento ultimo


in Gesu` Cristo.

L'abate non potrebbe esigere un'obbedienza assoluta senza essere autorizzato da Gesu'
(di cui fa le veci in monastero, RB.2,2); e
d'altra parte l'obbedienza e` cristologica in
quanto ispirata dall'amore a Cristo (RB.5,13)

""Cristo, di conseguenza, appare sia come Maestro che come


discepolo, poiche` di fatto egli e` nel medesimo tempo,
inseparabilmente, il Verbo
che legifera e il Servo che si umilia. Cosi` in questa relazione monastica
fondamentale, Cristo e`
rappresentato nella sua esistenza drammatica e nelle sue
dimensioni totali: la sua sovranita` divina e la sua umiliazione fino
all'estremo..., una
cosa non esiste senza l'altra. E la gloria e la genuinita` sublime del monachesimo e della
sua teologia viva sta
proprio in questa rappresentazione drammatica, o meglio
sacramentale, della Persona e della vita di Cristo.""

(H.U. Von Balthasar)

CAPITOLO 68

Se a un fratello vengono comandate cose impossibili.

Si fratri impossibilia iniungantur.

Preliminari

Questo capitolo, uno dei piu` belli di tutta la Regola, fa parte della serie degli
ultimi capitoli (67-73) propri di SB, i quali - secondo
Delatte - possono considerarsi il
testamento spirituale del santo Patriarca e sono interamente immersi nella luce di Dio e
impregnati della sua dolcezza; e - secondo De Vogue`, di altra generazione e di altra
scuola - il capitolo 68 uno dei passi piu`
caratteristici e piu` preziosi della RB;
dopo tanti commenti conviene fermarsi ad ammirare la sua dottrina tanto ferma e insieme
tanto armoniosa, tanto soprannaturale e insieme tanto umana.

SB torna ad occuparsi dell'obbedienza sino alla fine della sua Regola. Non si tratta di
una ritrattazione o rettifica di certe cose,
come potrebbe dirsi in qualche modo del
capitolo 64 rispetto al capitolo 2 per quanto riguarda l'abate (cf.sopra, relativo
commento); si tratta invece di una appendice, di una precisazione molto
interessante.

Diversita` dal capitolo 5

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Ci troviamo di fronte a una caso estremo di obbedienza: come deve reagire in situazioni
difficilissime il monaco desideroso di
obbedire? A risolvere la questione ci si presenta
un autore con un linguaggio e una mentalita` certamente diversi da; capitolo 5; o
non e` la stessa persona o e` talmente maturata in eta`, esperienza, saggezza da non
sembrare la stessa. Si puo` dire,
giustamente, che nel capitolo 5 l'obbedienza e` messa a
fuoco dal punto di vista dell'abate, mentre nel capitolo 68 dal punto di
vista del
discepolo. Tuttavia cio` non e` sufficiente ad eliminare la distanza tra i due capitoli:
nel primo una dottrina austera,
esigente, teorica; nel secondo un insegnamento altrettanto
soprannaturale e in fondo anche piu` esigente, pero` nello stesso
tempo pieno di
umanita`, di comprensione, di finezza psicologica. E` veramente una perla tra le piu`
fini della RB, un capitolo
meraviglioso non solo sotto l'aspetto dottrinale, ma anche
letterario.

Fonti

Non si trovano paralleli del capitolo 68 in quanto tale; niente del sapere e della
mentalita` del capitolo nella RM secondo la quale
l'obiezione del fratello ad accettare ed
eseguire immediatamente un ordine, merita subito la scomunica e la pena (RM.57,14-16).
Si
possono tuttavia considerare i seguenti testi: la Regola di S.Basilio 69; Pseudo-Basilio:
Ammonizione al figlio spirituale 6;
S.Cesario di Arles: Discorso 233,7; e
sopratutto Cassiano: Istituzioni 4,10. Quest'ultimo, a proposito di monaci
obbediente,
aggiunge che essi "non solo ricevono con fede e devozione comandi
umanamente impossibili, ma si sforzano anche di adempierli
senza alcuna esitazione del
cuore, non misurando l'impossibilita` per riverenza e sottomissione al loro seniore".
Probabilmente
questo passo, con il richiamo alle cose impossibili, avra` ispirato SB; ma
in esso manca completamente il processo psicologico-
pedagogico, meravigliosamente
descritto nel capitolo 68 della RB.

STRUTTURA di RB.68

Il capitolo non presenta difficolta` d'interpretazione; basta leggerlo e seguirlo


parola per parola. E` come un piccolo dramma,
piccolo per durata ma grande per
intensita` e profondita`, in tre atti:

I. - il monaco riceve un ordine estremamente difficile e lo accetta con perfetta


docilita` e sottomissione (v.1);

II. - se, soppesato il tutto, vede che sembra superare le sue forze, il monaco e`
autorizzato a presentare le ragioni della sua
impossibilita` (vv.2-3);

III. - se il superiore non cambia parere, il monaco sappia che gli conviene obbedire e
obbedisca (vv.4-5)

1: Il caso difficile

Nonostante la prudenza e la discrezione raccomandata da SB all'abate (specie nel


capitolo 64), nonostante la retta intenzione del
superiore di dare ordini ragionevoli,
puo` anche avvenire che il comando appaia insopportabile.

gravia aut impossibilia: significa qualcosa di difficile o addirittura di


impossibile.

difficile: significa "troppo pesante per le proprie forze".

impossibile: non nel senso in cui allude Cassiano nel testo citato sopra
(Ist.4,10), cioe` di cose che il superiore stesso conosce
impossibili e comanda solo per
provare il monaco e distruggere ogni attaccamento alla propria volonta`, ma nel senso che
paiono
impossibili a chi li riceve. Si puo` notare inoltre che spesso una cosa sembra
impossibile solo finche` non la si fa. SB vuole che
all'inizio, anche in casi cosi` ardui
per la debolezza umana, si riceva l'ordine con perfetta docilita` e sottomissione.

2-3: dialogo filiale con il superiore

Il monaco soppesa l'ordine ricevuto e conclude che veramente e` superiore alle sue
forze. Ed ecco allora il tocco paterno di SB e
la larghezza del suo spirito: non si
irrigidisce subito sulla esecuzione del comando, ma permette che il monaco suggerat
<faccia
presente> la sua difficolta`; la voce del monaco puo` illuminare
anche il superiore e indurlo a modificare o a ritirare il comando.
Pero` SB insiste:
"con sottomissione e a tempo opportuno" - due qualita` positive - "senza
arroganza, puntiglio od opposizione -
tre note negative -. E`
l'atteggiamento proprio dell'umilta`; anche il verbo "suggerat" indica il
parlare sommesso e umile di chi
accenna appena, fa presente con calma.

4-5: Obbedienza eroica per amore

Ma anche dopo l'esposizione delle difficolta`, il superiore puo` avere ancora le sue
valide ragioni per persistere nell'ordine dato. E'
il momento in cui viene messo alla
prova tutto il fondo soprannaturale che ispira l'obbedienza, e` il momento della fede di
Abramo,
dell'obbedienza eroica.

"Sappia..." Con questo verbo SB introduce un'ammonizione di grave importanza.


Ricordi bene il monaco che, nonostante tutto, gli
conviene abbracciare la via
dell'obbedienza: la mente si ribella, il cuore sanguina, ma Dio puo` chiedere questa
testimonianza
d'amore.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

5: Bello il v.5, anche letterariamente, pare quasi ritmato a tre cadenze:

et ex caritate - confidens de adiutorio Dei - oboediat.

"e per amore" - "confidando nell'aiuto di Dio" -


"obbedisca".

per amore: l'amore rende possibile e meritorio tutto. SB ha gia` detto nel capitolo
5 che l'obbedienza e` propria di quelli che non
hanno nulla piu` caro di Cristo, e che
sono incalzati dall'amore per la vita eterna.

confidando nell'aiuto di Dio: allo scoraggiamento viene in soccorso la fiducia che


Dio e` vicino per sorreggere e aiutare.

obbedisca: bellissimo questo "obbedisca", alla fine: sembra un grido di


vittoria.

CONCLUSIONE

Senza togliere nulla alla dottrina dell'obbedienza, SB in questo capitolo l'ha


umanizzata e posta al livello del cuore del discepolo.
Un momento nuovo - il suggerat
<faccia presente> - si e` introdotto nello schema dell'obbedienza e conferisce a
questa un valore
piu` alto, quello dell'atto compiuto in piena luce in cui il superiore e
il suddito agiscono ormai ambedue in piena conoscenza di
causa. La considerazione della
persona del monaco e della impossibilita` soggettiva da lui sperimentata approfondisce e
arricchisce il tema dell'obbedienza, da` luogo a un approfondimento psicologico, a
uno sforzo educativo che prende come punto di
partenza la ripugnanza interiore e la
trasforma in profitto spirituale per il monaco (De Vogue`).

E` facile osservare quanto la prospettiva di SB sia conforme agli insegnamenti del


Vaticano II. Non si nomia Cristo in tutto il
capitolo. Pero` sappiamo che l'obbedienza
perfetta che insegna la RB non vuole essere una prodezza ascetica; tutta la sua forza
proviene dall'esempio di Cristo.

H.U. Von Balthasar fa notare la presenza, invisibile ma certa, di Gesu` Cristo in


questo luogo. "Solo l'esempio di Cristo - ha scritto
- giustifica il mirabile
capitolo 68 di SB. Dato che il Padre chiese al Figlio cose impossibili - che prendesse su
di se` tutto cio` che
presso Dio e` impossibile, esecrabile, cioe` il peccato - il Figlio
muore sulla croce. Pero` prima il Figlio espose al Padre le ragioni
della sua
impossibilita` ad obbedire: 'Padre mio, se e` possibile, passi da me questo calice. Pero`
non come voglio io, ma come
vuoi tu' (Mt,26,39). Se il monaco, secondo la Regola, presenta
al superiore umilmente, senza atteggiamento di contraddizione, i
motivi della sua
ripugnanza all'ordine ricevuto, non fa altro che seguire l'esempio di Cristo nel
Getsemani; e se, nonostante l'abate
mantiene il suo ordine, il monaco obbediente seguira`
Cristo fino alla croce".

(H.U. Von Balthasar)

CAPITOLO 6

L'amore al silenzio.

De taciturnitate.

Preliminari

Non c'e` nella Bibbia una vera e propria dottrina sul silenzio, ne` si puo` parlare del silenzio come virtu` o valore raccomandato; la
Scrittura e` piena di testi che si riferiscono a entrambe le cose: "C'e` un tempo per tacere e un tempo per parlare
(Qoelet 3,7b). La
lingua e` un dono di Dio, attraverso cui gli uomini comunicano fra di
loro ed esprimono a Dio i sentimenti del loro cuore. A volte e`
importante tenerla a
freno, mentre a volte sarebbe vigliaccheria e mancanza di fedelta` tacere. Nei libri
sapienziali, sopratutto i
Proverbi, si insiste sul retto uso della lingua.

Antico Testamento

Nell'AT l'atteggiamento del silenzio e` espressione di vari stati d'animo: lutto o


dolore, atteggiamento di attesa e di ascolto,
sconfitta o confusione, attesa
dell'intervento di Dio. Spesso le azioni salvifiche di Dio sono accompagnate dal silenzio:
si veda il
famoso brano di Sap.18,14-15: "Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte
le cose e la notte era a meta` del suo corso, la tua
parola onnipotente dal
cielo...", oggetto di riflessione da parte dei Padri e di tante generazioni di monaci
che videro in essa
l'annuncio dell'Incarnazione e della Nascita di Cristo (vedi anche
nella liturgia: introito della II domenica dopo Natale); o ancora
l'altro celebre passo
della teofania sull'Oreb di fronte ad Elia in 1Re 19,11-13.

Piu` recentemente si tende ad associare il silenzio con il deserto, che pero` nella
Bibbia significa sopratutto luogo desolato e
selvaggio. Certo la solitudine e`
caratteristica del deserto, cosi` Israele puo` ripensare alla durezza e alla fatica
dell'Esodo
(Deut.8,15) e specialmente alla continua assistenza di Dio
(Deut.29,4-5).L'esperienza del deserto diventa oggetto di nostalgia da
parte di Dio e
viene riproposta dai profeti come mezzo per guarire l'infedelta` di Israele (Osea 2,16;
Ezech.20,35). Tuttavia non si
tratta tanto di silenzio, quanto piuttosto di esperienza
di solitudine, di separazione dal mondo abitato che rende piu` vicini a Dio.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Nuovo Testamento

Nel NT ugualmente l'accento e` posto piu` sulla lode di Dio, sull'annuncio del Regno,
sui doni delle lingue e della profezia in
S.Paolo. Il silenzio e` invece l'atmosfera nella
quale si custodisce e si rivela il mistero (Rom.16,25) o che accompagna l'operarsi
del
giudizio divino (Apoc.8,1).

Questa nota biblica potrebbe sembrare lontana dall'insegnamento della RB, tutto
incentrato sul silenzio come forma di umilta` e di
mortificazione; pero`, anche la
dottrina della taciturnitas non puo` essere rettamente compresa al di fuori di
questo concetto biblico
e cristiano. Per il cristiano il silenzio e` sempre anche
contemplazione e lode di Dio che si manifesta.

La tradizione monastica

Abbiamo detto sopra che i libri sapienziali non cessano di inculcare il buon uso della
lingua. Il saggio, a differenza dello stolto, sa
meditare e pesare le sue parole.
Discepoli e coltivatori di tale saggezza, i monaci cristiani fin dalla piu` remota
antichita`
praticarono e insegnarono la moderazione nell'uso della parola. Tutta la
tradizione (Apoftegmi, storie monastiche, regole
cenobitiche, trattati spirituali, ecc...)
lo testimonia; ma nessuno parla di silenzio assoluto, perche` tacere sempre non e`
umano,
pero` e` necessario moderarsi, perche` la lingua facilmente passa il limite e
arriva a mormorazioni, calunnie, detrazioni,
conversazioni peccaminose: parlare molto,
cioe`, equivale ad esporsi di piu` al peccato. Si tratta quindi di un silenzio ascetico.

Il silenzio poi ha grande importanza per la vita del monaco, in quanto e` in funzione
della quiete in Dio <la "hesychia">, la
tranquillita`; l'accento
veniva posto sopratutto sulla ritiratezza, sul rimanere in cella, "tacendo e
sedendo" dice S.Girolamo. Anche
per Cassiano, che pure dedica al silenzio tre dei
suoi indizi di umilta`, esso e` in funzione della preghiera, aiuta il monaco a
raggiungere
la "preghiera di fuoco" ed e` il segno della raggiunta unita` della persona in
Dio. Cosi` si proibiva ai monaci di parlare
fuori delle celle e di ritrovarsi a parlare in
refettorio; molti monasteri erano famosi per il silenzio che vi regnava, ma sembra piu` un
titolo di gloria che una parte della dottrina di ascesi.

La "taciturnitas"

La nozione di equilibrio fra tacere e parlare, con evidente inclinazione a favore del
silenzio, la lingua latina dei monaci la espresse
con il termine taciturnitas (che
non corrisponde al nostro italiano "taciturnita`", la quale puo` comportare
anche quell'aria di
musoneria che diviene cosi` pesante e fastidiosa nei contatti col
prossimo). Silere e silentium significano astenersi totalmente dal
parlare; taciturnitas
significa l'abitudine a far caso al silenzio, il volontario e virtuoso amore al
silenzio, frutto di umilta` e di
raccoglimento, che concede la facolta` di esprimersi
con moderazione, soltanto se necessario, discretamente. Percio` si potrebbe
tradurre anche
"amore al silenzio" con tutto il significato spiegato sopra (cioe` anche
modo di parlare).

Il silenzio nella RM

Con la RM il silenzio assume un'importanza enorme: se ne parla in due lunghi capitoli


(RM 8 e 9), se ne fa menzione nelle buone
opere (RM.3,57-60) e vi sono dedicati tre
gradini della scala dell'umilta` (RM.10,75-81). Ecco la struttura dei capitoli 8 e 9:

RM.8,1-25: espone la teoria del corpo come prigione dell'anima gli occhi sono le
finestre e la bocca la porta; mediante lo sguardo
e la parola l'anima guarda fuori e ha
occasione di peccato.

RM8,26-30: enumera i tre settori da sorvegliare accuratamente: il pensiero (la


"cogitatio"), la parola e lo sguardo.

RM.8,31-37: l'ultima parte del capitolo (quella utilizzata da RB.6) parla del silenzio
con il commento al salmo 38. In seguito
distingue due specie di taciturnita`: quella che
si guarda dai peccati della lingua e quella che si astiene dalle parole buone per
umilta`.

RM.9,1-26: esposizione della regola del "benedicite", che consiste in questo:


quando l'abate e` presente, non gli si puo` rivolgere
la parola senza aver ottenuto il
permesso; la richiesta si fa con l'inchino e pronunziando la parola
"benedicite". Se l'abate non
risponde, bisogna ripetere la domanda; se continua
a non rispondere, e` inutile insistere: non si puo` parlare.

RM.9.27-51: regolamentazione della parola: contiene una motivazione dottrinale


(vv.27-40) e una casistica (vv.41-51) che
distingue: se i discepoli sono perfetti o no (ai
perfetti non sara` permesso di parlare per niente senza essere interrogati,
diversamente
dagli imperfetti); se c'e` o no l'abate; se si tratta di discorsi sacri o profani.

Quali sono le motivazioni per il silenzio nella RM? Ne potremmo indicare tre: (a) il
silenzio e` da raccomandare per evitare il
peccato, e` la motivazione piu` comune e
ripetuta; (b) il silenzio e` in vista dell'umilta`; (c) il silenzio aiuta a mantenere la
memoria
occupata in Dio e a fuggire la dimenticanza.

Il silenzio nella RB

SB tratta della taciturnita` molto piu` brevemente, in un solo capitolo di soli 8 vv.,
contro i complessivi 88 della RM, e riproduce
solo alcune parti di RM.8 e 9:

- RB.6,1-3 = RM.8,31-33

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

- RB.6,4-5 = RM.8,35b-36

- RB.6,6 = RM.8,37

- RB.6,7 = RM.9,1-50

- RB.6,8 = RM.9,51.

La citazione del salmo 38,2-3, che in RM si deve dire in segreto quando si e` tentati
da collera, per RB diventa un esempio di
taciturnita` da seguire. Il v.7 non riprende la
casistica della RM sulla domanda da fare all'abate ma, secondo il capitolo 3 sul
consiglio
dei fratelli, combatte l'indipendenza di giudizio del discepolo. Quindi RB e` piu`
preoccupata di evitare divergenze
insanabili tra l'abate e il discepolo, che di proibire a
questi di porre liberamente domande.

Nel capitolo 6 SB si mostra a volte piu` severo di RM ("esclusione delle


battiture"), a volte piu` accondiscendente (c'e` piu` liberta`
di rivolgersi
all'abate). Inoltre, mentre RM scende a una casistica spicciola, RB rimane sui principi,
dandoci un capitolo piu`
omogeneo, coerente, anche se molto breve.

Abbiamo nella RB 4 volte la parola taciturnitas e 4 volte la parola silentium.


"Silentium" indica un aspetto disciplinare, funzionale
(silenzio a tavola,
RB.38,5; silenzio notturno, RB.42,1; silenzio durante la siesta, RB48,5; silenzio
nell'oratorio, RB.52,2) e significa
silenzio in senso stretto, cioe` astensione totale dal
parlare. "Taciturnitas" (RB.6 titolo; 6,2-3; 7,56; 42,9) denota, come detto
sopra,
moderazione, sobrieta`, discrezione nell'uso della parola e, come si usa tradurre, amore
al silenzio. Alla "taciturnitas", non al
"silentium" SB dedica un
capitolo della sua sezione ascetica.

STRUTTURA del capitolo 6

Comincia all'improvviso con una citazione dal salterio brevemente commentata,


rafforzata da altre due citazioni dei Proverbi (vv.1-
5); passa all'uso della parola nei
rapporti con i superiori (vv.6-7), condanna solennemente le parole sconvenienti (v.8).
Vediamo il
testo:

1-5: Uso della parola in genere

SB parte da una citazione scritturistica che serve di base e di principio al suo


insegnamento: mettiamo in pratica cio` che dice il
salmista. Nel salmo 38 citato,
il salmista oppresso dai dolori si propone di tacere assolutamente per non dare all'empio
occasione
di bestemmiare (quindi notiamo che il contesto del salmo e` diverso da come
viene applicato in RB e in RM). Il v.3 del salmo nella
nuova traduzione suona cosi`:
"sono rimasto quieto, in silenzio, tacevo privo di bene"; invece nella
Volgata era: "silui a bonis" che
RB (e RM prima) ha inteso: "mi sono
astenuto anche dal dire cose buone", da cui l'argomentazione derivante.

L'atteggiamento del salmista viene indicato come generale disposizione d'animo del
monaco. "Anche dai buoni discorsi ci si deve
"a volte" <interdum>
astenere per amore al silenzio", tanto piu` dalle parole cattive! E nel v.3 SB
insiste: "E` tanta l'importanza del
silenzio - cioe`: tale e` la gravita` e la
serieta` di questa dimensione nella vita monastica - che ecc..."

Come si deve interpretare la frase: perfectis discipulis <ai discepoli


perfetti>? Si deve intendere che a questi soltanto si deve dare
raramente licenza di
parlare, lasciando piu` liberta` ai meno perfetti? Si, se si considera il parallelo con la
RM la quale distingue tra
la categoria dei "perfetti" e quella dei
"tiepidi, imperfetti e meno solleciti" (RM.9,48); secondo altri, invece, qui si
intende
semplicemente i monaci in quanto tali e in quanto devono sforzarsi di
essere, dovendo essi per il loro stesso stato mirare alla
perfezione.

4-5: frenare la lingua per evitare il peccato

Alla citazione del salmo 38 SB aggiunge altri due testi scritturistici del genere
sapienziale, brevi e incisivi: Prov.10,19 e
Prov.18,21. In tutti e tre i
testi biblici citati, la ragione addotta per frenare la lingua e` quella di evitare il
peccato, questo e` nella
generale tradizione ascetica del monachesimo primitivo.

6-7: Uso della parola nelle relazioni con i superiori

I monaci, da perfetti discepoli, devono parlare assai poco, giacche` parlare e`


funzione del maestro, mentre al discepolo tocca
ascoltare. Si torna al concetto
dell'abate come "dottore"; si tace per ascoltare la voce del maestro che e`
l'abate e, attraverso
l'abate, il Maestro per antonomasia: Cristo. E` interessante notare
l'importanza dei vv.6-7 per la relazione del silenzio con
l'obbedienza (capitolo 5)
e con l'umilta` (capitolo 7). Il discepolo ascolta per mettere in pratica cio` che
gli si comanda e in tal modo
torna a Dio attraverso il cammino dell'obbedienza (Prol.1-2).

Il monaco poi tace per umilta` (v.1: "mi sono umiliato") e parla
con umilta` (v.7); tanto il parlare (il modo di parlare) che il tacere
sono in
rapporto con l'umilta`. Si veda l'evidente parallelismo nella struttura della frase tra:

- RB.6,6 e RB.3,6 =

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

= atteggiamento in capitolo di famiglia.

- RB.6,7 e RB.3-4 =

Si tratta di rispondere all'abate quando domanda un parere o si tratti di chiedergli


qualcosa, i fratelli debbono mantenersi sempre
entro i limiti dell'umilta`, docilita` e
riverenza.

8: parole sconvenienti

Infine, con accento severo ed energico, SB condanna i discorsi non convenienti alla
dignita` di monaco, non solo le trivialita` - il
che pare ovvio - ma anche le parole
giocose e non necessarie. Questo ultimo versetto contribuisce a dare un aspetto ancora
piu`
rigoroso e molto forte al capitolo che senza dubbio e` in una linea rigida e severa.
Ma...

CONCLUSIONE

... per fortuna, altri passi della RB che si riferiscono alla "taciturnitas"
(=amore al silenzio e uso corretto, monastico, della parola)
mitigano e umanizzano
l'aspetto serio e un po` duro del capitolo 6. A giudicare dal v.6, il silenzio regna come
norma generale nel
monastero e per parlare ci vuole un permesso speciale che si accorda
solo raramente. Ma da altri testi si deduce che la
proibizione di parlare non era cosi`
assoluta: i monaci non erano soggetti ad una legge che li obbligava a convivere senza
comunicare tra loro. Il silenzio assoluto si osservava in certi luoghi e in certe ore:
durante i pasti (RB.38,5); in dormitorio, tanto
durante il riposo notturno (RB.42,1)
quanto durante la siesta (RB.48,5). In altri luoghi era molto meno rigoroso (o veniva
trasgredito spesso); in RB.26,1-2 si proibisce di parlare con lo scomunicato; in RB.67,5-6
si ordina di non parlare di cio` che si e`
visto fuori del monastero. I monaci quindi
parlavano e ridevano pure! Tra le mortificazioni suggerite in quaresima (RB.49,7) si
dice
di togliere qualcosa alla loquacita` e... alle buffonerie (=scurrilitate", lo
stesso vocabolo che nel capitolo 6 e` condannato
assolutamente, "aeterna clausura in
omnibus locis damnamus"! (v.8)

Nel capitolo 6, dato che si tratta della sezione spirituale, a SB interessa


enunciare il principio e presentare il valore del silenzio,
facendone vedere l'aspetto
austero, essenzialmente ascetico. La dimensione mistica della taciturnita` i monaci la
scopriranno a
poco a poco, avanzando nel cammino dell'unione con Dio, man mano che si
familiarizzano con la S.Scrittura e gli altri testi della
tradizione patristica e
monastica che SB prescrive (RB73,2-6). Cassiano, per esempio, dice che e` impossibile
arrivare
all'"orazione pura" se lo spirito e` disturbato dal ricordo di
conversazioni recenti (Coll.9,13), che l'"orazione di fuoco" consiste in un
gemito inenarrabile che trascende la parola (Coll.9,25), che l'anima giunta alla vetta
della contemplazione penetra in una
meditazione e concentrazione cosi` assoluta che non si
puo` esprimere (Coll.9,27). Pero` SB si mantiene nei limiti della "vita
pratica", che non va oltre l'estirpazione dei vizi e l'acquisto delle virtu`; la
sua "taciturnitas" e` puramente ascetica. Il capitolo 6 e`
un commento e
ampliamento di 4 strumenti delle buone opere:

- 51^: custodire la propria lingua da parole cattive o disoneste;

- 52^: non amare il parlare molto;

- 53^: non dire parole inutili o eccitanti al riso;

- 54^: non amare di ridere molto o in maniera smodata (RB.51-54).

Si noti anche la finalita` educativa e di carita` della RB. A proposito dell'uso


della parola abbiamo tre volte questa espressione:
rationabiliter cum humilitate
<ragionevolmente con umilta`> in:

- RB.31,7 a proposito del cellerario;

- RB.61,4 a proposito dell'ospite;

- RB.65,4 a proposito del priore.

E nel capitolo 7,60 sostituisce "dire poche parole e sante" di RM con: "dire parole poche e ragionevoli (sensate)". A SB interessa
di meno che le conversazioni siano edificanti (come nella RM), quanto piuttosto che abbiano senso, che avvengano nella
ragionevolezza e nella calma. Cosi` in RB.31,7.13-14: come deve rispondere il cellerario a chi gli chiede qualcosa fuori luogo o
quando non puo` concedere qualcosa. Cosi` RB.66,2-4 a proposito del portinaio: che risponda subito, rivolga parole di benvenuto,
con tutta la mansuetudine e umilta`, con fervore di carita`. La pedagogia di SB
tende sopratutto a promuovere il buon uso della
parola nelle relazioni concrete; siamo
indirizzati dunque sul terreno delle relazioni fraterne, un argomento di cui RM non
si occupa
mai, ma che per SB e` di capitale importanza.

Percio` la tradizione monastica ha assegnato pure un tempo per la ricreazione comune:


parteciparvi e portarvi il proprio contributo
di pensiero, di amore e di gioia e` un
atto di obbedienza e di carita`.

APPENDICE

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

La riscoperta del silenzio oggi.

Lo stile e le motivazioni di RB.6 ( e a maggior ragione di RM.8-9) sembrano lontani


dalla sensibilita` di oggi. E di fatto quanto di
quel silenzio viene ancora praticato
oggi?

Eppure negli ultimi tempi e` stato riscoperto, e proprio dai "laici", il


valore del silenzio. Cio` e` dovuto alle condizioni attuali della
vita moderna: si
sente il bisogno di pace (la "quies" latina, la "hesychia" greca
dei Padri) per poter ascoltare veramente la Parola
di Dio come unica, capace di
significato, capace di suscitare vita nuova.

E' anche una reazione alla teologia dotta, legata troppo a sistemi filosofici e
separata dalla vita liturgica e spirituale> Forse proprio
perche` i cristiani hanno
saputo mostrare troppo poco questa unita` di parola e di silenzio, del vuoto dell'uomo e
della pienezza di
Dio che e` scoppiata la corsa verso le religioni asiatiche. Con tutto il
rispetto per esse, e riconoscendo che c'e` stata negli ultimi
anni una riscoperta
reciproca senz'altro positiva, pero` e` indubbio che e` stata una reazione contro la
Chiesa e il cristianesimo
dimentichi della loro tradizione spirituale.

E allora, qual'e` la nostra risposta di monaci? La Regola e il suo discorso sul


silenzio possono aiutarci? La dottrina della RB sul
silenzio, abbiamo visto, non ha
connotazioni mistiche, ma fa parte delle pratiche ascetiche insieme
all'obbedienza, all'umilta`, alle
buone opere, ecc. Quindi c'e` da riprendere tutto il
discorso sulla mortificazione, perche` un discorso sul silenzio solo mistico
rischia
di essere poco realistico e... poco monastico.

(Riassunto da: M.B.BOGGERO: Appunti sulla Regola di S.Benedetto, o.c., capitoli


4-7, pp.70-75)

""Il silenzio e` prima di tutto privazione della propria parola, distacco


dalla propria volonta` e dal proprio modo di percepire le cose,
deserto fatto in se
stessi, perche` la parola di Dio possa risuonare. Questo aspetto di contraddizione, di
vuoto, di aridita` (ecco il
deserto biblico) e` il primo e sempre ripetuto passo verso
l'incontro con Dio, come ci mostrano tutte le teologie monastiche.
Troppo spesso il tema
del silenzio viene sentito come una nostalgia dell'ineffabile, senza prendere coscienza
che e` questa
esperienza quotidiana di negazione di se` che ci viene proposta
continuamente dalla vita in monastero.

Ed e` il silenzio fatto da Dio, dalla sua azione in noi, come si manifesta nella vita
quotidiana concreta, nella liturgia, nella Parola,
nei rapporti fraterni. C'e` il rischio
di considerare il silenzio del monaco un po' come tecnica (affine alle tecniche di
meditazione e di
preghiera orientali (yoga, zen, buddhismo) e non come il lavoro operato
in noi dalla grazia di Dio, dall'azione dello Spirito in noi.
Solo cosi` il silenzio puo`
diventare lode e adorazione, azione di grazie, espressione della risposta fedele dell'uomo
all'eterna
fedelta` di Dio."" (Ibidem pp.70-75)

CAPITOLO 7

L'umilta`.

De humilitate.

Preliminari

Questo lungo capitolo assomma tutta la dottrina ascetica di S.Benedetto, e` il midollo


della sua spiritualita`. Nell'affrontarlo
dobbiamo anzitutto evitare di pensare al
concetto ristretto che la parola UMILTA` ci richiama spontaneamente, per che` in questo
trattato intitolato "L'umilta`" troviamo i temi piu` svariati, come il timor
di Dio, la pazienza, il silenzio, l'obbedienza, la gravita`,
l'imitazione di Cristo, ecc.

Concetto molto ampio di "umilta`"

La RB, con la parola "umilta`", designa tutta una realta` spirituale che e`
molto lontana da quello che si intende comunemente nei
trattati di morale e nei trattati
di teologia in occidente: questi ne hanno un concetto molto ristretto, distante dalla
tradizione biblica e
patristica. Nella Scolastica, con la classificazione delle virtu`,
l'umilta` viene collocata tra le suddivisioni della modestia, la quale a
sua volta
fa parte della virtu` cardinale della temperanza (cf.S.Tommaso, Somma Teologica,
II-II, q.161) e veniva definita per
esempio: "una virtu` dell'appetito irascibile che
frena il desiderio della propria grandezza, facendoci conoscere la nostra pochezza
davanti
a Dio". E notiamo che S.Tommaso non ritiene giustificabile la scala dei 12 gradini di
umilta` di S.Benedetto, proprio
perche` ci sono incluse cose che riguardano altre virtu`!
(cf.ibidem, art.6). In S.Tommaso e nella Scolastica c'era l'intento di una
sistematizzazione di tutta la teologia e quindi della classificazione di tutte le virtu.

Completamente diversa e` la mentalita` di SB (che fra l'altro non intendeva fare alcuna
classificazione sistematica!): in lui la
famosa scala abbraccia la traiettoria completa
della vita umana, comprende tutto il cammino ascetico, comporta elementi
interni
ed esterni, informa tutta la vita dello spirito; il concetto di umilta` e` di una
ampiezza e di una profondita` indescrivibile.

Il termine UMILTA`

Il vocabolo humilitas, traduzione dal greco tapeinos <basso, piccolo,


povero, meschino, insignificante> deriva - come la parola
"homo' e
"humanus" - da "humus" <terra>, e significa
"appartenente alla terra", "formato dalla polvere della terra",
"inclinato alla

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

terra". Nel latino classico "humilitas", riferito alle


persone, e` sinonimo di ignobilita`, afflizione, infermita`, poca importanza, e si usa
sia
per indicare l'oscurita` delle origini o della condizione sociale, sia per i pochi mezzi
economici, sia per la pochezza del
carattere, ecc.; indica cioe` uno stato servile, basso,
volgare, miserabile, disprezzabile. Nella letteratura greca e romana le parole
"tapeinos" e "humilis" designavano in generale uno spirito vile,
sentimenti servili che portavano al timore e all'adulazione; erano il
contrario di
magnanimita`, nobilta`, sentimento della propria capacita`. Per i filosofi pagani,
l'umilta` non e` stata mai un ideale (da
qui pero` non e` esatto dire che essi coltivavano
l'orgoglio, che essi anzi condannavano come vizio; raccomandavano una certa
forma di
modestia che chiamavamo "sophrosyne" <riconoscimento dei propri limiti>.

L'umilta` diventa una parola con significato positivo, come un ideale morale e
religioso, solo nel linguaggio degli autori cristiani,
alla luce di tutta la tradizione
biblica.

L'umilta` nella S.Scrittura:

a) A.T.

L'umilta` occupa un posto centrale nella teologia biblica. Gesu` in persona proclama
l'ideale dell'umilta` nel discorso della
montagna, pero` la dottrina che predicava non era
interamente nuova, ma era preparata da una lunga tradizione dell'AT.

Prima di diventare un ideale morale, l'umilta` e la poverta` (si trovano sempre


unite) indicavano una realta` sociale. Nell'ebraico
abbiamo vari termini,
sopratutto <ani`> e <anawim> (nel greco 'tapeinos') e si intendono tutti
coloro che si trovano in uno stato di
miseria, di abbattimento: poveri, deboli, piccoli,
indifesi (notiamo l'espressione: "il povero, l'orfano e la vedova" che appare
continuamente nella Bibbia). Tutti costoro godono del favore di Dio (cf.Giuditta 9,11) per
la loro stessa necessita` e percio` aprono
il cuore all'esperienza di Dio che li soccorre
(cf.Giobbe 5,11; salmo 9,14; 17,28;106,12, ecc.). Dio esalta il misero e il povero e
abbassa i superbi (cf.1Sam.2,7-8; salmo 145,7-9, ecc.). I testi sono moltissimi. Le leggi
promulgate da Yahwe proteggono i poveri
e gli umili; Dio si fa difensore ("rende
giustizia") di queste categorie; i profeti insistono su questo, i salmi esaltano
questo. E si noti
che nei testi biblici non si fa allusione molto alle virtu` e ai meriti
dei "poveri": puo` darsi che siano giusti e pii, ma non e` questo
l'aspetto
sotto cui vengono considerati; si tratta di gente infelice a favore dei quali Dio si
compiace di far risplendere la sua
misericordia.

Nei testi dell'esilio e del post-esilio va acquistando man mano importanza l'aspetto
piu` interno e spirituale dell'umilta`: si esalta
come ideale religioso l'umile, il
povero, il quale pone tutta la sua speranza non nei beni terreni ma solo in Dio
(cf.Is.57,15; 66,2).
Quindi l'umilta` e` legata intimamente con la poverta`; gli umili per
eccellenza sono gli <anawim>, i "poveri di Yahwe; non si tratta
solo e
sempre di indigenza materiale, ma di una disposizione interiore, tanto che il greco ha
reso spesso il termine con la parola
<praus> = mite, sottomesso, umile, mansueto.

b) nel NT.

Nel NT i "poveri di Yahwe" sono i semplici, gli umili che accettano la


salvezza, il Messia: i pastori, i popolani, i pescatori, Anna,
Simeone e al vertice MARIA,
una figlia del popolo campagnolo della Palestina, cosi` disprezzato, su cui Dio fissa il
suo sguardo:
"ha guardato l'umilta` (=la pochezza) della sua serva" (Lc.1,48 e
si noti nei vv.51-53 del Magnificat il linguaggio dei "poveri di
Yahwe" dell'AT,
sopratutto il parallelo con il cantico di Anna, madre di Samuele: 1Sam.2,1-10).

In tale linea e` stata la vita e l'opera di Gesu`, Figlio di Dio e di Maria di


Nazareth. Gesu` si presenta come il Messia dei poveri,
degli umili, degli
"anawim" (cf.Lc.4,18-19 che cita Isaia 61,1-2) e proclama beati questi tali
(Mt.5,3-6; Lc.6,20-21). Solo coloro che
si sentono piccoli come i bambini entreranno nel
Regno (Mc.10,25; Mt.18,31; Lc.18,16-17); non bisogna occupare i primi posti
(Lc.14,10);
bisogna riconoscersi "servi inutili" (Lc.17,7-10). Gesu` ripete la sentenza
dell'AT che Dio esalta gli umili e abbassa i
superbi: "Chi si esalta sara` umiliato e
chi si umilia sara` esaltato" (Mt.23,12; 18,4; Lc.14,11; 18,14).

GESU` sopratutto insegna cio` in modo mirabile con il suo esempio; egli stesso
si mette tra gli "anawim" e si offre come modello:
"Imparate da me che sono
mite e umile di cuore" (Mt.11,29). L'umilta` di Cristo ha due aspetti:

umilta` radicale davanti a Dio e

umilta` fraterna rispetto agli uomini che si manifesta concretamente nello spirito
di servizio: "Il Figlio dell'Uomo non e` venuto per
essere servito, ma per servire e
dare la sua vita..." (Mt.20,26). Gesu` si identifica con i poveri, con i piu` miseri:
"Cio` che avete
fatto al piu` piccolo..." (Mt.25,40) e, invece di cercare la sua
gloria, (Giov.8,50), si umilia fino a lavare i piedi ai suoi apostoli
(Giov.13,2-17), il
che era un compito caratteristico degli schiavi.

La KENOSIS di Cristo

Cristo, al dire di S.Agostino (Discorso 62,1), "fu maestro di umilta` con la


parola e con l'esempio". E cosi` e` stato inteso dai
discepoli e dalla Chiesa
primitiva. S.Paolo parla della "kenosis" <abbassamento> volontaria di
Cristo nel famoso inno cristologico
di Filippesi 2,5-8, testo di una profondita` e
di una trascendenza incalcolabile. Dovendo esortare i Filippesi alla concordia e
all'amore
reciproco, S.Paolo invita a considerare non solo l'esempio di Cristo, ma ad imitarne la
disposizione di animo radicale
dall'incarnazione al calvario: "abbiate in voi gli
stessi sentimenti...", quindi imitate la sua estrema "kenosis". Cosi`
umilta` e
imitazione di Cristo diventano sinonimi. Essere umili, nel senso proprio,
cristiano della parola, consiste nel seguire Cristo umile,
identificarsi con Cristo umile,
fino al punto che siamo capaci di imitarlo nel sua abbassamento e nella sua umiliazione
fino alla

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

morte di croce, per compiere la volonta` del Padre (I aspetto: umilta` davanti a
Dio) e prestare agli uomini il supremo servizio di
dare la vita per loro (II aspetto:
umilta` fraterna).

L'umilta` presso i Padri

Con i testi dell'epoca patristica si potrebbe formare una bellissima e densa antologia
sull'umilta`, tanto essa appare con frequenza
sia presso i Padri Greci che presso quelli
Latini. Per Atanasio e` un'attitudine interiore; per Basilio il servizio del
prossimo; per
Giovanni Crisostomo madre e guida; per Girolamo guardiana di
tutte le virtu`. E tutti la vedono in relazione all'esempio di Cristo.
Origene
parla con insistenza ed entusiasmo di Cristo quale "maestro di umilta`"; cosi` Clemente
Alessandrino, Basilio, Gregorio di
Nissa, Ambrogio e sopratutto S.Agostino
con testi numerosi ed espressioni commoventi: "Fu crocifisso per te per insegnarti
l'umilta` (Discorsi su Giovanni 2,4); "Gli sembro` poco essersi fatto uomo, ma
volle anche essere condannato dagli uomini; poco,
essere condannato, volle anche essere
disonorato; poco, essere disonorato, volle anche essere ucciso; poco, essere ucciso, volle
anche essere crocifisso..., poiche` non si trattava di una morte qualunque..., scelse la
piu` terribile e dolorosa forma di morte..., si
umilio` talmente che accetto` la
morte in croce" (ibid. 36,4)

L'umilta` nel monachesimo primitivo

S.Agostino si considerava monaco e in realta` lo fu; anche per questo ha saputo


comprendere cosi` bene l'umilta` di Cristo. Difatti
per il monachesimo fin dalle
origini l'umilta` occupa un posto particolare. In tutta la tradizione monastica essa
appare come valore
fondamentale:

- "meta di tutta l'ascesi",

- "la piu` eminente delle virtu` per il monaco",

- "l'umilta` porta a Dio",

- "medicina di tutte le ferite",

sono gli elogi che troviamo in tutta la letteratura del monachesimo primitivo. E
troviamo anche una infinita` di manifestazioni:
vestire poveramente, lavare i piedi
agli ospiti, rifiutare il sacerdozio, obbedire senza limitazioni al padre spirituale o al
superiore del
monastero... Cosi` per la tradizione monastica la parola "umilta`"
acquista un significato straordinariamente ampio che include la
bassa stima di se stesso,
le umiliazioni, l'obbedienza, l'imitazione di Cristo e altri concetti di maggiore e minore
importanza.

L'umilta' in Cassiano

Tutto questo appare chiaramente dalle opere di Cassiano, da cui dipendono RM e RB. E`
significativo che egli non dedica
nessuna delle sue "Collazioni" all'umilta` in
particolare, proprio perche` - come si e` detto - per gli antichi monaci essa non e` una
virtu` particolare, ma piuttosto un atteggiamento, uno spirito che pervade tutte le
virtu`. Nel 12^ libro delle "Istituzioni" dimostra che
l'umilta` e` la
disposizione fondamentale di tutta la perfezione cristiana e, nello stesso tempo, il suo
coronamento. Secondo
Cassiano l'umilta` non solo abbraccia tutto il processo di
purificazione dell'anima, dall'estirpazione dei vizi all'acquisto delle virtu`,
ma anche continua
fino alla carita` perfetta e ai diversi gradi della contemplazione; la sua importanza
e` tale che occupa il posto
centrale nella concezione del monachesimo, in modo che umilta`
potrebbe usarsi per designare la vita monastica (Coll.9,3; 24,9).
L'umilta` insomma
consiste in una disposizione spirituale profonda e sincera che accompagna e da`
autenticita` a tutte le opere, a
tutti gli sforzi e a tutte le virtu` del monaco.

I testi sono numerosi. Ricordiamo solo l'itinerario diventato poi classico (la famosa scala di RM e RB), che parte dal timore del
Signore e dei suoi castighi e conduce, attraverso i gradi intermedi della purificazione dei vizi e del distacco dal mondo, alla
carita`
perfetta. Si trova in: Istit.4,32-43: esortazione dell'abate Pinufio ai
novizi; in particolare nei capitoli 38-39 si parla di dieci "indizi" o
"segni" dell'umilta`, che hanno dato poi lo spunto ai "gradini"
dell'umilta` di RM e RB.

L'umilta` nella RM

La RM tratta dell'umilta` nel capitolo 10 (123 versetti) e dipende chiaramente da


Cassiano. RM introduce l'idea della scala, i cui lati
sono l'anima e il corpo,
cioe` l'uomo nel suo insieme. L'immagine significa che ogni gradino si inserisce
contemporaneamente in
questi due montanti. Ai dieci indizi di Cassiano, la RM
aggiunge il 1^ e il 12^ gradino, i quali si richiamano e presentano una
struttura
bipartita con una faccia interna e una esterna.

Il capitolo 7 di RB

La struttura generale del trattato sull'umilta` di S.Benedetto (RB.7) dipende con


ogni evidenza dal capitolo parallelo RM.10,
sopratutto nella suddivisione e
nell'ordine dei gradini; nella definizione di "gradino dell'umilta`" che non si
trovava in Cassiano e
nell'illustrazione scritturistica.

Tuttavia vi sono importanti differenze: SB abbrevia molto (70 vv. contro i 123
di RM.10); varia l'introduzione ai singoli gradini; usa il
termine "monachus",
mai il termine "discipulus" come in RM dove ogni capitolo ha la forma di una
risposta del maestro alla
domanda del discepolo. Sopratutto e` importante la modifica
nella conclusione: SB sopprime la lunga conclusione della RM con la

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

descrizione della
patria celeste, come del resto abbrevia anche nel preambolo alcuni accenni al cielo; cioe`
per SB l'umilta`
conduce semplicemente alla carita' perfetta; cosi` la sua
conclusione e` piu` semplice e piu` armonica e fa vedere un cammino
preciso nella vita
monastica che dalle strettoie dell'osservanza conduce alla perfezione della carita`, al
cuore dilatato e alle vette
della virtu`. Difatti bisogna confrontare la finale del
capitolo 7 (RB.7,67-70) con Prol.49-50 e con RB.73,8-9, cioe` con
l'inizio e la
fine della Regola (testi propri di SB).

STRUTTURA del capitolo 7 della RB

Il capitolo 7 di S.Benedetto ha questa struttura:

- necessita` dell'umilta` (vv.1-4);

- la scala di Giacobbe (vv.5-9);

- i 12 gradini dell'umilta` (vv.10-66);

- epilogo (vv.67-70).

Rapporto tra Cassiano e RM-RB

Riguardo alla scala dell'umilta`, esaminiamo in questo specchietto la corrispondenza


tra gli "indizi" di Cassiano e i "gradini" di RM
e RB:

CASSIANO RM - RB | CASSIANO RM - RB

(indizi) (gradini) | (indizi) (gradini)

12|68

25|76

3 cf.3 | 8 7

4 cf.3 | 9 9 e 11

5 4 | 10 10

Il primo gradino di RM-RB, il piu` lungo, non si ritrova in Cassiano, cosi` anche per
il 12^; inoltre gli indizi 3^ e 4^ di Cassiano sono
uniti in un solo gradino, mentre il 9^
di Cassiano viene diviso in due differenti (9 e 11) da RM e RB; anche la sequenza e`
differente. Esaminiamo ora il testo di RB.7

1-4: Necessita` dell'umilta`

SB pone come pietra fondamentale del suo trattato sull'umilta` una massima del Signore
e la pone con particolare enfasi e
solennita`: "Fratelli, la divina Scrittura ci
grida..." <clamat, e` la prima parola del capitolo!>.

Il termine "esaltazione - ascoltare" compare ben 8 volte nei primi 10 vv. e


poi nei gradini 7^ e 10^. Dal testo del Vangelo SB
deduce che atto di superbia e`
"ogni esaltazione": di pensiero, di parole, di azioni, e introduce la citazione
del salmo 130,1-2. Nel
v.4, citando il v.2 del salmo, SB riporta la versione della
Volgata, che ha un senso diverso; nella nuova traduzione il v.2 del salmo
suona
cosi`: "Io sono tranquillo e sereno, come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come
un bimbo svezzato e` l'anima mia":
il salmista cioe` ha dominato i movimenti di
superbia e ha reso la sua anima simile a un bambino che, gia` divezzato, sta
fiducioso,
tranquillo, in braccio a sua madre. Invece, seguendo la versione antica, SB legge:
"Se non nutro..., tu mi tratti come un
bambino divezzato dal seno di sua madre".
Qui la posizione del bambino e` diversa, e` quella di un rigettato che soffre;
quindi SB,
dopo il proposito del salmista di evitare lo spirito di superbia, vuole
rivelare la punizione a cui si esporrebbe l'orgoglioso: sarebbe
discacciato da Dio come il
bimbo dal seno materno.

5-9: La SCALA di Giacobbe

SB giunge a una conclusione: i nostri atti di abbassamento nell'umilta` sono veri atti
di ascensione verso la perfezione. Tale
ascensione conduce all'idea della scala.
Cassiano, abbiamo visto, a proposito dell'umilta`, parla di "indizi", di
"segni", da cui il
padre spirituale puo` conoscere l'umilta` del discepolo;
pero` in altri luoghi, trattando del cammino verso la perfezione, parla di
"gradi" (Istit.4,39); cosi` anche di "gradini discendenti della
superbia" (Inst.4,29-30), di "gradini della giustizia" (Coll.12,7) ecc.
Comunque, l'allegoria della scala e` antichissima e costituisce un tema spirituale
frequente nella letteratura monastica e patristica
per indicare l'ascensione dell'anima
verso Dio e il progresso nella vita spirituale. Basti ricordare che S.Giovanni Climaco,
contemporaneo di SB, deve il suo nome appunto a un trattato sulla "Scala (in
greco <climax>) del Paradiso", dove la vita spirituale
e` paragonata ad
una salita per 30 gradini. SB aggiunge un'applicazione allegorica della celebre scala di
Giacobbe (Gen.28,12) a
cui spesso si richiamavamo gli antichi scrittori, come S.Basilio,
Cassiodoro, e specialmente S.Girolamo: "... il patriarca Giacobbe

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

vede nel sonno una


scala..., per la quale con diversi gradini di virtu` si sale in alto" (Epistola
98,3).

7: gli angeli che salgono e scendono: senso accomodatizio

E` singolare il senso accomodato che SB da` agli angeli. Gli angeli che salgono
e scendono, comunemente sono visti come
intermediari tra Dio e gli uomini: alcuni scendono
a portare i doni di Dio, altri salgono a portare le preghiere e le azioni degli
uomini. Per
SB significano umilta` e superbia; e si noti con che forza si ferma su questa insolita
interpretazione: "senza dubbio...
significa solo questo..."!

8-9: la scala simbolizza la nostra vita terrena:

ed e` Dio che la erige (si noti bene l'iniziativa di Dio, come nel v.9 e` Dio
che chiama a salire la scala). I lati (SB pensa a una scala
a pioli - quindi le due
fiancate, gli stazzi - sono il corpo e l'anima, cioe` i due principi costitutii
della natura umana, perche` l'umilta`
deve essere interiore ed esteriore; difatti
ha citato prima (v.3) il salmo 130,1: "il mio cuore non si inorgoglisce e il mio
sguardo non
si leva in superbia: il cuore = l'interno, lo sguardo = l'esterno.

10-16: I DODICI GRADINI DELL'UMILTA`

SB (e RM prima) enumera i 12 gradini di umilta`. Dodici e` un numero sacro e simbolico.


La RB presenta semplicemente un
itinerario che va dal timore all'amore perfetto,
attraverso varie manifestazioni dell'umilta`. Notiamo che SB, riproducendo gli
"indizi"
di Cassiano, li rielabora e li arricchisce sempre alla luce della
Scrittura: e` la Parola di Dio che si dirige al monaco ed e` il Signore,
per messo dello
Spirito Santo, che trasformera` man mano il "suo operaio" (v.70). Abbiamo cosi`
nella scala un significato
profondamente religioso:

- e` la chiamata di Dio che ci invita a salirla (v.9),

- si comincia con una relazione diretta con Dio (riverenza e sottomissione

a Dio, 1^ gradino),

- si termina con una relazione diretta a Dio (carita` perfetta),

- e tutto questo lo opera Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo (v.70)

Possiamo quindi presentare questo aspetto della scala dell'umilta`: dal timor di Dio
all'amore perfetto attraverso:

- il medesimo timor di Dio (1^ gradino)

- l'obbedienza (2^, 3^, 4^ gradino)

- l'abbassamento totale di se` (5^, 6^, 7^ gradino)

- annullamento tra gli altri (8^ gradino)

- taciturnita` (9^, 10^, 11^ gradino)

- tutto il comportamento esterno (12^ gradino).

I sette primi gradini hanno per oggetto la condotta interna del monaco umile; gli
ultimi cinque la sua condotta esterna.

10-30: 1^ GRADINO: timor di Dio

Il primo gradino invita alla vigilanza su di se` e sulle proprie azioni a causa
della presenza di Dio che domina la vita dell'uomo,
secondo una mentalita`
tipicamente biblica. Dopo un enunziato generale e la descrizione del timor di Dio per
evitare i peccati col
pensiero, con la volonta` propria, con i desideri (vv.10-12),
fornisce le prove scritturistiche per le singole parti: pensieri (vv.13-18),
volonta`
(vv.19-22), desideri (vv.23-25); e conclude con una esortazione riassuntiva
(vv.26-30).

10-12: enunziato generale

Il gradino ha un carattere fortemente escatologico, sia per la presenza di temi come il


giudizio, la morte, l'inferno, sia per il
vocabolario. La dottrina del timor Domini
<timore del Signore> e` frequente nella Scrittura. Cassiano l'ha posto fuori della
serie,
quale base dei suoi "indizi", dato che esso e` il "principio della
nostra salute e sua custodia", citando la celebre definizione biblica:
"principio della salvezza e` il timore del Signore" (Prov.9,10; salmo 110,10).
Anche SB ritiene la riverenza a Dio come radice di
tutta l'umilta`. Nella RB e` Dio
che chiama, cerca, scruta l'uomo, aspetta che si converta (Prol.14,34-37); la custodia
di se` e` la
consapevolezza dell'azione di Dio.

Si noti il parallelismo tra Prol.40 e RB.7,10-11 con il verbo "fuggire" e il


ricordo dell'inferno e della vita eterna. La custodia di se` si
sintetizza nella famosa
frase del v.10 "oblivionem omnino fugiat" <fugga completamente la
dimenticanza>, cioe` quella condizione
di leggerezza e di dissipazione
che ci fa vivere dimentichi della grande realta` che Dio e` presente. Quindi timor di
Dio significa (e

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

si puo` tradurre) senso della presenza di Dio, con la


riverenza suscitata dalla contemplazione delle sue infinite perfezioni, dinanzi
a cui
l'uomo, che e` nulla e peccato, necessariamente adora e si umilia; e` fondato ancora sul
motivo della pena e della
ricompensa, ma dara` luogo alla fine della scala (vv.67-70) al timore
fifliale, cioe` alla carita` perfetta.

13-18: applicazione ai peccati di pensiero

La presenza di Dio sui pensieri buoni e cattivi e` confermata dalla S.Scrittura


(vv.13-17), percio` stiamo in guardia da quelli cattivi
(v.18). SB riporta cinque
citazioni bibliche. Notiamo sulla quarta (v.17) del salmo 75,11 che il senso originale e`
diverso. La nuova
traduzione dice: "l'uomo colpito dal tuo furore ti da gloria".
SB cita la Volgata e prende la parola "confitebitur non nel senso attivo
di
"lodare", ma nel senso passivo di "essere confessato, svelato".
Notiamo ancora nel v.13, e in seguito nel v.28, la menzione
degli angeli come
messaggeri di Dio (e all'inizio del capitolo, nel v.6, gli angeli sulla scala di
Giacobbe): e` uno dei temi
escatologici cari e comuni nella tradizione e nella letteratura
monastica.

19-22: applicazione all volonta` propria

Qui manca il ricordo della presenza di Dio perche` SB concepisce la volonta` propria
sempre come cattiva (di qui il suo pallino
dell'obbedienza!); tutto il brano si limita
quindi a richiamare il divieto di seguire la propria volonta`. Abbiamo anche qui quattro
citazioni bibliche (una implicita). Per indicare il Padre Nostro, nel testo latino c'e`
solo la parola "oratione", cioe` la preghiera per
eccellenza, quella insegnata
da Gesu`.

23-25: applicazione ai desideri cattivi

Dio e` presente a tutti i nostri desideri, quindi dobbiamo astenerci da quelli cattivi.
Si noti nel v.22 la frase: "la morte sta in agguato
proprio all'inizio del piacere
peccaminoso", presa letteralmente dagli "Atti di S.Sebastiano" falsamente
attribuiti a S.Ambrogio, ma
certo molto antichi; si vede che SB e i monaci li leggevano
spesso insieme agli altri Atti dei Martiri.

26-30: ricapitolazione del 1^ gradino. Esortazione conclusiva

Abbiamo in questi vv. un riepilogo generale sulla presenza di Dio e la messa in


guardia da ogni peccato. Si tratta della memoria di
Dio, termine tecnico della
teologia spirituale antica: la "mneme Theou`" <memoria Dei>; la fonte
principale di questo primo gradino
e` S,Basilio il quale ne tratta nelle sue Regole in
molte questioni in risposta a domande di monaci. L'atteggiamento di "memoria" e
di custodia deve essere costante, come e` espresso dagli avverbi: semper (vv.10,
11, 13, 23, 27); omni hora (vv.12,13,29); omni
loco (v.13). E` poi una
"memoria" in senso totale: memoria del giudizio di Dio, del premio e del castigo
futuri; memoria dell'amore
di Dio, della sua opera di salvezza, della sua chiamata. Tutto
cio` e` indispensabile per compiere l'opera di purificazione e
giungere alla "purezza
del cuore".

Dunque il 1^ gradino evoca questa "memoria Dei", o ricordo del Dio


santo, giudice dei nostri atti, per indurci a rinunciare alla
nostra volonta`, alle nostre
"vie", per seguire le "vie" di Dio che ci precede, ci conosce e ci
giudica. Quindi: 1^ gradino di umilta` =
timor di Dio, senso della presenza
di Dio, nel significato spiegato sopra.

31-33: 2^ GRADINO: obbedienza alla volonta` di Dio

34: 3^ GRADINO: obbedienza al superiore

35-43: 4^ GRADINO: obbedienza fino all'eroismo

Facciamo prima qualche osservazione riguardo alle citazioni. Nel v.33 (2^
gradino) SB riporta una sentenza citandola
inesattamente come dalla Scrittura; la
spiegazione deve trovarsi nel fatto che egli cita a memoria e la frase, che gli sara`
stata
familiare, per svista la ritiene biblica, simile per esempio a qualcuna dei
Proverbi.

Nel v.37 (4^ gradino), nella citazione del salmo 26,14 e` piu` probabile che SB
intenda "sustine" nel senso di "sopporta"; questo
appare dal contesto:
c'e` immediatamente prima e immediatamente dopo lo stesso vocabolo "sustinere"
nel senso di sopportare. Il
significato sarebbe: sostenere (=sopportare) con
fede e pazienza l'ora di Dio il quale, per vie talvolta durissime alla natura umana,
ci guida alla santita`. Nel v.40 (4^ gradino), nella citazione del salmo 65,10-11,
il salmista allude alle gravi sciagure cui soggiacque
il popolo per permissione di Dio che
lo voleva purificare; SB applica il testo alle sofferenze che Dio puo` permettere
che il monaco
incontri nell'obbedienza. Cosi`, continuando nel v.41 la citazione
del salmo 65,12, SB continua nel senso accomodatizio: il
salmista allude all'uso dei
vincitori di calpestare i vinti; SB dice che i monaci devono sottomettersi volentieri ai
superiori, perche`
Dio stesso li ha posti sopra di noi!

In questi gradini dell'umilta` che riguardano l'obbedienza, appare Gesu` Cristo. Non
stiamo soltanto davanti a Dio tre volte santo,
terribile, giudice. Al momento di fare il
passo definitivo, di rinunciare alla propria volonta` e abbracciare l'obbedienza sino alle
ultime conseguenze, Cristo e` unito a noi.

Tra i primi quattro gradini esiste un perfetto crescendo: anzitutto il monaco si fa permeare dal timor di Dio e dalla necessita` di
rinunciare alla volonta` e ai desideri propri (1^ gradino); poi rinunzia a soddisfare i suoi desideri per realizzare il piano di Dio (2^
gradino); quindi decide di sottomettersi agli ordini di un superiore, il che e` gia` piu` difficile (3^ gradino); infine accetta ogni forma
di obbedienza, per quanto dura e penosa possa essere (4^ gradino). Ebbene, e` Cristo che lo trascina in questo
abbassamento
che e` il contrario dell'orgoglio di Adamo che voleva innalzarsi fino a Dio.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

L'imitazione di Cristo ha un'importanza fondamentale nella RB. Si e` notato che il


verbo "imitare" (Gesu` Cristo) si riferisce quasi
sempre alla sua obbedienza.
L'imitazione dell'obbedienza di Cristo ha la sua espressione piu` perfetta in questi
gradini di umilta`:

- il 2^ e` l'obbedienza "ad imitazione" di Cristo che disse: "Non sono


venuto... (v.32, cit.Giov.6,38);

- il 3^ consiste nell'obbedire fino alla morte "ad imitazione" di Cristo di


cui l'Apostolo dice: "Si e` fatto obbediente..." (v.34,
cit.Fil.2,8)

- il 4^ gradino, anche se non menziona espressamente l'esempio e l'imitazione di


Cristo, equivale realmente alla morte in croce.
Che cosa e` infatti il 4^ gradino
dell'umilta` se non la piena realizzazione della frase di Prol.50: "Partecipiamo con
la pazienza ai
patimenti di Cristo"? Ecco che il monaco il quale incontra
nell'obbedienza grandi contrarieta`, o addirittura ingiurie, le accetta in
silenzio.

Nel v.35 e` l'unica volta che SB usa il termine "conscientia" ad


indicare quel silenzio interiore di pazienza e pone in rilievo
l'interiorita`
dell'obbedienza. Il monaco pienamente umile abbraccia la pazienza nell'intimo del suo
cuore in unione a Cristo
silenzioso durante la passione; e` realmente il martirio
dell'obbedienza, e` il martirio spirituale che succede al martirio di sangue, di
cui parlano i Padri del monachesimo: il monaco diventa il nuovo martire (i monaci furono
sempre considerati come i successori dei
martiri cristiani), l'imitatore di Cristo per
eccellenza. Siamo veramente al fondo dell'umilta`, alla partecipazione alla
"kenosis" di
Cristo fino alla morte di croce.

44-48: 5^ GRADINO: apertura di coscienza

Col 4^ gradino abbiamo gia` toccato il fondo dell'umilta`. I tre gradini seguenti
tuttavia conducono il monaco all'umile
riconoscimento della sua indigenza spirituale:

5^ - la confessione delle sue colpe;

6^ - la confessione della radicale fragilita` della sua natura umana;

7^ - la confessione sincera e profonda, cioe` la convinzione interiore,


che e` l'ultimo e che e` bene essere umiliato e sottomesso.

Cosi` abbiamo la sequenza dei primi sette gradini che riguardano l'aspetto interiore
dell'umilta`:

* umilta` - timor di Dio (1^)

* umilta` - obbedienza (2^,3^.4^)

* umilta` - umiliazione (5^,6^,7^).

E' dunque umiliazione, e non piccola, rivelare sinceramente all'abate i peccati segreti
o anche i pensieri cattivi che vengono in
mente. Si tratta di un gradino impegnativo: il
cuore del monaco viene svelato, portato alla luce, egli accetta di essere rivelato a se
stesso. La manifestazione dei pensieri fa parte del nucleo piu` antico della spiritualita`
monastica; i "pensieri" (=pensieri, impulsi,
passioni, <loghismoi> in
greco) formavano la preoccupazione maggiore dei primi monaci, sopratutto per chi era
eremita
(cf.RB.1,5) e nel saperli svelare e combattere consisteva la saggezza del deserto;
pero` solo i Padri che possedevano il carisma
del discernimento potevano giudicare
rettamente circa questi "pensieri". Cassiano ha trasmesso tutta questa
spiritualita`
all'occidente: questo gradino corrisponde al 2^ "indizio" di
Cassiano (vedi piu` sopra la tabella).

Notiamo che cio` avveniva quando il superiore non era del tutto istituzionalizzato, era
ancora il "padre spirituale". La successiva
evoluzione ha dato all'abate altre
connotazioni meno carismatiche. Si e` cosi` operata una divisione tra l'abate e il
cosiddetto
"padre spirituale". Come dobbiamo interpretare questo gradino? Come
riferito all'abate (in SB e` cosi`, sopratutto qui; cf.pero`
anche RB.4,50; 46,5), oppure
a un'altra figura? E` un punto da discutere. Resta comunque la necessita` per il monaco di
una
capacita` di autoriconoscimento, di fronte all'abate e ai fratelli, della propria
miseria.

Delle tre citazioni bibliche che commentano il 5^ gradino, notiamo che nella seconda
del salmo 105,1 SB ha preso la parola
"confitemini" nel senso di
"confessatevi", "rivelatevi", mentre nel salmo significa
"lodate".

49-50: 6^ GRADINO: essere contento delle cose piu` vili e di essere umiliato

Il 6^ gradino riproduce il 7^ "indizio" di Cassiano e consiste in cio`: il


monaco non solo si contenta delle cose piu` vili e spregevoli,
ma si considera un operaio
cattivo e indegno (allusione, anche se non c'e` la citazione esplicita, a Lc.17,10).
Notiamo che la
citazione del salmo 72,22-23 non e` molto appropriata: la` il salmista si
accusa di essere stato stolto nel giudicare la felicita` degli
empi; SB applica il passo
al suo contesto, nel senso di una sincera confessione dinanzi a Dio e di una volontaria
accettazione
dello stato di abiezione; bello in questo senso (anche se applicato) il v.23:
"ma io sono sempre con te"!

51-54: 7^ GRADINO: coscienza della propria miseria, di essere l'ultimo di tutti

Il 7^ gradino corrisponde all'8^ "indizio" di Cassiano ed e` collegato


strutturalmente al precedente: e` il culmine della umiliazione,
dell'abbassamento di se
stesso; il monaco si riconosce piu` indegno e spregevole di tutti. Il progresso, rispetto
al gradino

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

precedente, e` sopratutto nel fatto che e` piu` facile il riconoscimento della


propria pochezza nei confronti di Dio, molto meno nei
confronti degli altri. Nelle Vitae
Patrum (3,206) si legge: "Crediti inferiore a tutti gli uomini""; nella
Regola di Macario (3): "Ciascuno
si disprezzi come inferiore a tutti"; in
S.Basilio (Regola 62): "L'umilta` sta nel riputare tutti gli uomini superiori
a noi". Del resto, il
consiglio risale a S.Paolo: "Ciascuno di voi consideri, in
tutta umilta`, gli altri superiori a se stesso" (Fil.2,3 e poi prosegue con il
famoso
inno sulla "kenosis" di Cristo).

Delle tre citazioni bibliche notiamo che nella seconda del salmo 87,16 il salmista
(secondo la Volgata) rileva che dopo essere
stato esaltato, e` stato umiliato e oppresso.
SB cita il testo nel senso che Dio umilia e confonde come castigo dell'orgoglio; la
nuova
traduzione dice: "sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori". La citazione del
salmo 118,71 e` precisa ed e` molto importante per
lo sfondo teologico di questi gradini:
l'umilta` e` vista come il risultato di un cammino di fede; dentro la propria umiliazione
si
riconosce la presenza di Dio, l'azione educativa di Dio che ci purifica: "Bene per
me se sono stato umiliato... Commovente poi la
citazione del salmo 21,7: "Io sono un
verme..."; cosi` il monaco si appropria della parola di Cristo sofferente e diventa
simile a lui.

(Conviene avvertire che poche anime arrivano a questa cima e ci vivono abitualmente: e`
certamente un dono di Dio" (Marmion).

55: 8^ GRADINO: evitare la singolarita`

Finora l'umilta` si e` mantenuta sopratutto all'interno: la Regola ha cercato di


radicare l'umilta` nel cuore del monaco. Ora si passa
alle manifestazioni esteriori.
Questo 8^ gradino e` contro ogni tendenza alla singolarita`, alla distinzione in cui si
annida lo spirito di
orgoglio, la vanita`. Corrisponde al 6^ "indizio" di
Cassiano con una aggiunta molto importante. Cassiano dice communis regula
<la
regola comune> e non si riferisce a nessun codice monastico, ma alla dottrina comune,
alla disciplina tradizionale vigente nei
cenobi dell'Egitto; SB aggiunge communis
monasterii regula <la regola comune del monastero> e allude alla Regola scritta
(questa Regola) vigente nel monastero. I "maggiori" (o anziani) sono certamente
i superiori, ma anche gli altri anziani piu`
edificanti, forti della loro esperienza.

56-58: 9^ GRADINO: spirito di silenzio

59: 10^ GRADINO: moderazione nel ridere

60-61: 11^ GRADINO: gravita` nel parlare

Questi tre gradini si ricollegano alla dottrina del silenzio, gia` vista nel
capitolo 6 e in un gruppo di strumenti delle buone opere
(RB.4,51-54); sono cioe` alcuni
aspetti della "taciturnitas". Il nono invita a frenare la lingua, il decimo a
non ridere facilmente,
l'undicesimo come deve parlare un vero monaco.

La citazione di Prov.10,19 nel 9^ gradino gia` l'abbiamo incontrata in RB.6,4.


Nell'altra citazione del salmo 139,12 il senso e` che
l'uomo di cattiva lingua, il
calunniatore, non prosperera` sulla terra (nuova traduzione: "il maldicente non duri
sulla terra"). SB
applica il versetto nel senso che l'uomo di molte parole, il
chiacchierone, cammina sbandato e dissipato sulla terra, senza pensieri
seri che lo
guidino.

Il 9^ e l'11^ gradino in Cassiano sono uniti in un unico "indizio", il nono;


sopratutto si raccomanda una norma molto comune tra i
monaci antichi: non parlare senza
essere interrogati. In quanto al riso, esso non godeva buona fama tra i monaci
primitivi, ma non
si proibisce il riso in senso assoluto, bensi` la facilita` al ridere, la
leggerezza, il ridere in ogni luogo e ad ogni futile occasione,
sgangheratamente.

Al v.60 SB sostituisce rationabilia <parole sensate> a sancta


<parole edificanti> della RM: non chiede ai monaci la capacita` di
edificare il
prossimo, ma semplicemente ragionevolezza e autocontrollo.

Nell'undicesimo gradino al v.61 SB introduce la citazione con le parole


"come sta scritto" che in genere si riferiscono alla
S.Scrittura; non e` escluso
che egli citi a orecchio pensando che si tratti di una frase biblica dei libri sapienziali
(come gli e` gia`
successo in RB.7,33); invece la sentenza, sapiente e bella, si trova in
una raccolta di massime di Sesto, un filosofo pitagorico,
tradotte da Rufino nel IV
secolo.

62-66: 12^ GRADINO: umilta` in tutto l'atteggiamento esteriore della persona

In questo gradino il monaco e` investito in tutta la persona, fino alla corporeita`,


dall'atteggiamento di umilta` che nasce dalla
coscienza della presenza di Dio,
raggiungendo un tale grado di custodia di se`, da cambiare anche gli atteggiamenti piu`
irriflessivi.

Appare chiara la relazione di questo ultimo gradino con il primo. Dobbiamo notare
specialmente che il giudizio di Dio che nel 1^
gradino appare come un orizzonte lontano
anche se terribile (v.11, nel 12^ gradino e` presente: il monaco umile "si
vede gia`
davanti al tremendo giudizio di Dio" (v.64), perche` la sua fede e
il ricordo continuo dei suoi peccati ha operato questa specie di
anticipazione di una
realta` escatologica. Tema comune ad ambedue gli estremi gradini della scala, il peccato
stabilisce fra loro
una sequenza paradossale: mentre nel primo si raccomanda al
monaco di guardarsi costantemente dal peccato e dai vizi (v.12), il
monaco arrivato
all'ultimo gradino "si sente in ogni istante colpevole dei propri peccati" (v.64).
Progresso sorprendente: uno si
guarda costantemente dal peccato per sentirsi alla fine
piu` peccatore che mai! Ma il paradosso si spiega con l'esperienza dei
santi e la logica
propria della scala dell'umilta` in cui non si sale se non abbassandosi.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Notiamo al v.65 che la citazione riguardo al pubblicano (Lc.18,13) e` fatta a


mente e composta quasi come un mosaico della
descrizione che Luca fa del pubblicano e
delle parole che questi dice.

67-70: Epilogo

Come la scala di Giacobbe, la scala dell'umilta` non termina in questo mondo, conduce
"all'esaltazione celeste" (v.5). Per questo
la RM, alla "carita`
perfetta" che corona la scala come in Cassiano, aggiunge con logica una lunga
descrizione del cielo
(RM.10,92-122), presa dall'apocrifa "Passione di
S.Sebastiano". SB, eliminando la conclusione escatologica della RM, restituisce
importanza alla conclusione di Cassiano, secondo cui al timore succede l'amore gia` su
questa terra e mantiene la scala
dell'umilta` nei limiti del progresso spirituale in
questa vita, anche se cosi` in RB c'e` un'incongruenza tra il preambolo, che parla di
una
scala levata verso il cielo, e l'epilogo in cui non c'e` piu` la prospettiva escatologica.

La RB in effetti adotta la teoria di Cassiano sullo scopo e l'obiettivo a cui deve


tendere la vita monastica, che e` il "Regno di Dio".
Attraverso il timor di Dio,
la rinuncia al mondo e alla propria volonta`, l'obbedienza, il cammino nell'umilta` -
considerata
specialmente come imitazione e sequela di Cristo nella sua "kenosis"
- che riassume tutto il laborioso processo di estirpazione dei
vizi e acquisto delle
virtu`, la Regola cerca di portare il monaco alla purezza del cuore (v.70:
"nel suo operaio ormai purificato dai
vizi e dai peccati"), alla perfezione
delle virtu` (v.68: "senza alcuna fatica, quasi spontaneamente in forza della
consuetudine" e
v.69: "per la stessa buona abitudine e per il gusto della
virtu`"), alla carita` (v.67: quella carita` che divenuta perfetta scaccia via
il
timore") che e` l'ultimo scopo della vita monastica.

Notiamo al v.69 un'interessante aggiunta di SB al testo di Cassiano e della RM:


"amore Christi" <per amore di Cristo>. Si noti in
tutto il brano
dei vv.67-69 l'abbondanza degli incisi che definiscono la condizione di chi e`
ormai ispirato e condotto solo
dall'amore; e` lo stesso tono incoraggiante della finale
del Prologo, quando alla visione delle asprezze e delle difficolta` segue
quella
dell'indicibile dolcezza con cui si corre per le vie di Dio con il cuore dilatato
dall'amore (Prol.49, proprio di SB). "Tutto questo
il Signore operera` nel "suo
operaio" (Prol.14) per mezzo dello Spirito Santo" (v.70).

CONCLUSIONE

L'umilta`, nella RB come nella tradizione patristica e monastica anteriore, esprime un concetto
completo con molti e diversi
elementi, un compendio di cammino ascetico; ma una
ascesi che non solo sbocca alla contemplazione, ma include gia` in se
stessa una levatura
mistica di grande efficacia. Perche` umilta` significa anzitutto imitazione di Cristo
secondo la prospettiva
paolina; cioe` non solo l'imitazione esterna dell'esempio di Gesu`
storico, ma la comunione intima con i suoi sentimenti, la
partecipazione alla
"kenosis" di Colui che "non considero` un tesoro geloso la sua uguaglianza
con Dio", ma preferi` la nostra
pochezza e miseria, e nel suo amore arrivo` a dare la
vita per noi sulla croce.

Lungo tutta la salita dell'umilta` avanza Cristo con il monaco, o meglio il


monaco accompagna Cristo fino al profondo del suo
annichilimento. I momenti piu`
dolorosi di questo cammino di croce, tanto difficile per la nostra natura umana,
rappresentano
altrettante modalita` dell'imitazione di Cristo. Cosi` nel 2^ gradino il
monaco ripete: "Non sono venuto a fare la mia volonta`, ma la
volonta' di
colui..." (Giov.6,38); nel 3^ obbedisce con Cristo "fattosi obbediente sino alla
morte..."

(Fil.2,8); nel 4^ - il gradino del martirio dell'obbedienza - ripete: "Per te


siamo messi a morte ogni giorno, siamo considerati come
pecore da macello" (salmo
43,22). Altre frasi tremende mette SB sulla bocca del monaco umile nel 6^ e 7^ gradino,
fino a "Io sono
verme e non uomo" (salmo 21,7) di Cristo sulla croce. Siamo
proprio alla piu` alta vetta dell'umilta` (RB.7,5). E allora precisamente
il monaco arriva
a quel grado di "amore di Dio che, divenuto perfetto, scaccia via il timore"
(RB7.67) e si realizza la grande
trasformazione interiore per opera dello Spirito Santo;
come si verifico` in Cristo quando, giunto al fondo della sua "kenosis",
"proprio per questo Dio lo esalto` e gli diede un nome che e` al di sopra di ogni
altro nome" (Fil.2,9).

Ecco dunque la scala dell'umilta`. Siamo partiti con il timor di Dio, siamo condotti lungo il cammino da Cristo e procediamo con
Cristo e, al termine di questa pedagogia arriva lo Spirito Santo e si comincia ad operare con quella carita` perfetta che scaccia il
timore e si va avanti senza sforzo, naturalmente. Cosi`, lungo la scala dell'umilta`, operano nel monaco Padre, Figlio e Spirito
Santo.

CAPITOLI 8-11

Introduzione alla sezione sull'Opus Dei.

Nei testi piu` antichi, per "OPUS DEI" <Opera di Dio> si intende
tutta la vita spirituale del monaco o, semplicemente, la vita
monastica. Poi a poco a poco
il significato si restrinse a designare la vita di orazione organizzata intorno
alla lettura della Parola di
Dio, alla salmodia e alla preghiera silenziosa. Questo e' il
senso di "Opus Dei" nella RB, con particolare riferimento alla Preghiera
liturgica comune, l'Ufficio Divino, o come diciamo oggi, la Liturgia delle
Ore.

Tratteremo di seguito in questa sezione i capitoli della RB che riguardano


l'ordinamento dell'Ufficio Divino (cc.8-18), il modo di

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

pregare (cc.19-20) e, come


appendice, le norme per il segnale dell'ora dell'Ufficio Divino e per la disciplina in
coro (c.47) e
l'oratorio del monastero (c.52).

ORDINAMENTO DELL'UFFICIO DIVINO (cc.8-18)

Importanza dell'Ufficio Divino nella RB

Al gruppo dei capitoli relativi alla dottrina ascetica segue un blocco di capitoli
relativi alla preghiera. E' da notarsi la loro posizione,
quasi a dire che l'Opus Dei
e' l'occupazione principale della vita cenobitica. Nella RM, invece, il direttorio
dell'Ufficio si trova nei
cc.33-45, dopo l'argomento sul dormitorio e la levata.

E' senza dubbio errato considerare i Benedettini come "fondati per il coro";
ma e` anche certo che nella mente del S.Legislatore,
interpretata poi da tutta la
tradizione benedettina, la liturgia costituisce l'occupazione conventuale essenziale e
primaria a cui nulla
deve anteporsi: "Nihil Operi Dei praeponatur"
<Nulla si anteponga all'Opera di Dio> (RB.43,3).

Capitoli 8-18: un blocco omogeneo

La sezione sull'Ufficio Divino e` molto omogenea sia dal punto di vista dell'argomento
che del vocabolario e dello stile. Vi
abbondano, sotto questo aspetto, anormalita`
linguistiche, vocaboli e modi di dire del latino volgare, della lingua corrente del
sec.VI. E` probabile che tutto il blocco dei cc.8-18 formasse un fascicolo a se` che
conteneva il "corpus liturgico" dei monaci prima
della redazione della RB; fu
poi inserito da SB nel corpo della sua Regola con alcune modifiche.

Prescindiamo dalla divisione e dal titolo dei singoli capitoli, cose che sembrano
abbastanza fittizie, e rileviamo l'importanza di
questa sezione che risulta dal fatto
stesso della quantita`, della minuziosita` con cui viene stabilita ogni parte dell'Ufficio
Divino e
dal posto preminente che occupa nella Regola, subito dopo la sezione dottrinale e
prima della parte legislativa propriamente detta.

Origine del "cursus" benedettino

Si era parlato e si era scritto per molto tempo sull'influsso dell'Ufficio benedettino
su quello romano. In seguito, dopo una notevole
serie di studi, si e` dimostrato (e oggi
e` pacifico) tutto il contrario, cioe` che l'ufficio benedettino segue passo passo
l'ufficio
romano classico. La Regola, in un punto preciso (RB.13,10) a proposito dei
cantici, fa riferimento alla salmodia della chiesa
romana; pero` questo influsso si rivela
altrove, sopratutto per le ore principali, Lodi e Vespri, e talvolta l'ufficio della
vigilia; per il
resto la RB si ispira al "cursus" dei monasteri romani,
quindi con struttura tipicamente monastica. Inoltre e` facile scoprire contatti
innegabili
con altre tradizioni liturgiche, come l'ufficio bizantino, milanese, spagnolo, e piu`
particolarmente l'ufficio dell'ambiente di
Lerins - Arles e quello descritto nelle
Istituzioni di Cassiano.

Quindi l'Ufficio Divino di SB e` eclettico, cioe` prende di qua e di la`, come


del resto tutta la Regola. RB 8-18 ha come fonti
principali RM e l'ufficio romano
classico; come fonti secondarie le tradizioni liturgiche citate sopra; in un quadro molto
stabile
accoglie una grande varieta` di suggeriemnti di origine diversa.

Caratteristiche e varianti rispetto alle fonti

Una prima caratteristica che si nota nel cursus benedettino e` l'interesse per la
precisione, per la massima regolamentazione di
tutti i particolari. Se in SB appare
sempre il senso, quasi il pallino, dell'ordine, cio` e` molto piu` evidente nel caso
dell'Ufficio
Divino. Altra caratteristica: rispetto alle due fonti principali (RM e
ufficio romano classico), SB abbrevia nettamente. Nel caso delle
vigilie, SB
abbrevia per dare ai monaci un tempo piu` lungo di sonno continuo, nel caso delle ore
diurne abbrevia in favore del
lavoro: cio` sembra dovuto al fatto che il monastero
previsto da SB sta in campagna e ci si trova in un periodo di difficolta`
economiche
dovute alla guerra tra Goti e Bizantini. Si deve dire anche che SB mitiga la durata
dell'Opus Dei in virtu` di tendenze
gia` presenti nelle sue fonti. RB e` piu` mitigata
anche nei raduni e nelle sanzioni per i ritardatari.

In compenso SB aggiunge alcune particolarita` molto espressive e di grande valore


teologico. Cosi' il "Deus in adiutorium" all'inizio
delle ore diurne
(RB.18,1) con cui si invoca l'aiuto di Dio (probabilemnte SB l'ha preso sotto l'influsso
di Cassiano, Coll.10,10, che
ne fa grande elogio come formula per mantenere sempre vivo il
ricordo, la presenza di Dio); il salmo 3 di attesa alle vigilie
(RB.9,2) e il salmo 66 di
attesa alle lodi (RB.12,1); gli inni a tutte le ore (RB.12,4; 13,11; 17,8); il "Te
Deum" (RB.11,8); il "Te decet
laus" (RB.11,10), inno trinitario greco preso
dalle "Costituzioni Apostoliche". Cosi` RB ha meno salmi di RM e dell'ufficio
romano
classico, ma piu` elementi accessori; cio` dona al suo cursus maggiore ricchezza e
varieta`.

Un'altra nota caratteristica di SB e` una maggiore flessibilita`; egli sente


un'infinita venerazione per l'Opera di Dio ma, sempre
"uomo pratico come Gesu`
Cristo", non esita a togliere e modificare qualcosa secondo le circostanze e le
necessita` contingenti:
le altre attivita` del monaco hanno pure il loro peso, il lavoro
e` necessario per il sostentamento, la lectio divina rappresenta un
elemento
insostituibile per il monaco. Percio` non si puo` tendere l'arco fino a spezzarlo. Lodare
Dio continuamente in diversi
tempi della giornata e` un dovere e un onore per i cenobiti;
pero` mentre per RM l'osservanza liturgica e` piu` stretta ed esigente
come comunita` (e
intanto abbondano le dispense individuali), SB mitiga la norma comune, e` piu` flessibile,
pero` esige la sua
osservanza e concede meno facilmente dispense individuali.

Tre principi intangibili

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Tre principi sono posti in grande rilievo e come intangibili da SB:

1) La recita del salterio intero in una settimana. C'era negli ambienti


monastici della regione la tendenza ad accorciare e SB e` su
questa linea e prevede anche
che si possano distribuire i salmi diversamente (RB.18,23), purche` pero` si mantenga la
recita
integrale del salterio in una settimana secondo la tradizione romana e
probabilmente anche bizantina che SB giustifica ricorrendo
alle "Vitae Patrum"
egiziane (RB.18,24).

2) Le ore dell'Ufficio diurno debbono essere sette, senza cioe` contare le


Vigilie (l'Ufficio notturno), e per far questo SB aggiunge
l'ora di Prima e giustifica il
tutto con due citazioni del salmo 118: "Nel cuore della notte mi alzavo a renderti
lode", v.62, e questo
vale per l'ufficio notturno; e "Sette volte al giorno io
ti do lode", v.164, e questo vale per le ore diurne, cioe`: lodi. prima, terza,
sesta, nona, vespro e compieta (RB.16,1-2). Con questa ingegnosa esegesi SB giustifica il
cursus liturgico. In mancanza di
argomenti migliori...!

3) All'Ufficio notturno si debbono recitare dodici salmi, sia d'estate che


d'inverno, sia di domenica che nei giorni feriali. Questa
usanza si appoggiava a una
tradizione monastica antica che si credeva di origine soprannaturale: la famosa
"regola dell'angelo",
la cui diffusione e` dovuta sopratutto a Palladio (Storia
Lausiaca 32) trasmessa ai monaci occidentali da Cassiano (Inst.12,5):
secondo essa fu un
angelo a rivelare ai monaci la volonta` divina che si cantassero dodici salmi, ne' uno
piu` ne` uno meno,
all'ufficio divino della notte.

Con questi tre principi fondamentali, SB si mostra fortemente collegato alla tradizione
del monachesimo romano. Eclettico e
innovatore sotto certi aspetti, SB e` tuttavia
solidamente radicato in un preciso ambiente geografico e storico: "e` innovatore, ma
e` anzitutto l'uomo della tradizione" (DeVogue`).

Modo di dire l'Ufficio Divino

L'ufficio monastico antico era fondamentalmente composto dagli stessi elementi di oggi,
ma aveva un aspetto abbastanza diverso.
La Parola di Dio - canto dei salmi e lettura dei
brani da altri libri della Sacra Scrittura - era, allora come oggi, la base principale. Ma
il modo di salmodiare era diverso da oggi. Per esempio, i cenobiti di Pacomio celebravano
cosi` la preghiera comunitaria: un
solista recitava la Scrittura - non necessariamente il
salterio - e quando aveva terminato una parte, i fratelli che avevano ascoltato
in
silenzio, si alzavano, facevano il segno della croce e, a braccia levate, recitavano il
Padre Nostro, poi si prostravano a "piangere
in silenzio" i loro peccati;
quindi, a un nuovo segnale, si alzavano di nuovo e pregavano in silenzio, finche` un
ultimo segnale li
invitava a sedere ancora e ad ascoltare altri brani della Parola di Dio
da un solista. Ugualmente in Cassiano (Inst.2).

Doppio elemento costante

Questo modo di preghiera comunitaria si ando` evolvendo, com'era naturale, ma


certamente si mantenne questo doppio elemento
importante, cioe` l'alternarsi tra:

- la recita della Parola di Dio e

- l'orazione silenziosa.

Al tempo di SB la recita dei salmi da parte di tutta la comunita` divisa in due cori
era sconosciuta o praticata molto raramente.
Cantavano i salmi uno o due solisti con la
partecipazione degli altri monaci quando la salmodia fosse responsoriale. I salmi
interrotti ripetutamente da un'antifona costituivano la maggior parte dell'Ufficio Divino;
grazie al ritornello cantato da tutti,
l'attenzione si manteneva viva. Dopo ogni salmo si
faceva un periodo di orazione silenziosa. Si deve tener presente questo se si
vuole
rettamente giudicare il cursus di SB.

Dato che SB faceva recitare i salmi secondo un criterio di ordine continuo (per esempio
alle vigilie dal 20 al 108, ai vespri dal 109
al 147), si puo` obiettare che si
succedevano salmi di temi completamente diversi. L'obiezione si risolve pensando appunto
alla
preghiera silenziosa dopo ogni salmo e alla colletta salmica. A proposito di questa,
che cosa si deduce dalla RB? SB conosceva o
no l'orazione salmica? C'e` un indizio
contrario in RB.43,4.10: "Chi non giunge al gloria del primo salmo..." sembra
indicare la
mancanza di colletta salmica. Pero` ci sono anche indizi positivi: RB.20,5
"L'orazione che si fa in comune" e` un richiamo a
Cassiano (Inst.2,7) che parla
appunto dell'orazione salmica; RB.50,3 "celebrino l'Opera di Dio dove lavorano
inginocchiandosi con
santo timore" corrisponde a RM.55,4.18 la quale prevede la
genuflessione dopo il salmo per l'orazione salmica; RB.67,2 "l'ultima
orazione
dell'Ufficio Divino...", essendo l'ultima, suppone una serie di orazioni scaglionate
lungo l'intero ufficio. Pare quindi giusto
dedurre l'uso della colletta salmica in RB,
anche se RM e` piu` esplicita in proposito.

Anche per l'orazione silenziosa dopo ogni salmo, abbiamo tutta la tradizione monastica:
tale orazione silenziosa era conclusa dal
sacerdote che presiedeva. Tra il V e il VI
secolo, appaiono serie di collette salmiche dette come conclusione della pausa
silenziosa.
Nella RM la pausa durava almeno un minuto e mezzo, altrove piu', altrove meno. La cosa
comincia poi ad entrare in
crisi sia perche` il gesto che l'accompagnava, cioe` la
genuflessione, e` scomodo, sia perche` spesso non si sa come passare il
tempo di silenzio
(vedi quanto e` attuale il problema!). "Cosi` l'orazione salmica era presente sia al
corpo che all'anima per la
fatica fisica della prostrazione e per lo sforzo spirituale
dell'orazione silenziosa. A partire da queste due difficolta` bisogna spiegare
senza
dubbio la sua scomparsa. E` un fatto compiuto gia` nell'ambiente di SB? La poverta` della
documentazione sull'Italia non ci
permette di affermarlo" (DeVogue`). Pur
nell'incertezza e divergenza di opinioni, riteniamo comunque che nella salmodia secondo

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

la
RB l'orazione silenziosa dopo ogni salmo e la colletta salmica erano due elementi di
grande importanza.

Nota sull'orario in SB

Per capire bene tutte le indicazioni di orario dei capitoli seguenti, si pensi al modo
di computare di SB. Ogni ora non consta di 60
minuti, ma varia secondo le stagioni,
perche` il giorno, dal sorgere del sole al suo tramonto, e` diviso in dodici parti uguali
e cosi`
anche la notte; sicche` al solstizio di giugno l'ora del giorno vale 75 minuti,
mentre al solstizio di dicembre 45 minuti. L'inverso
avviene per la notte. Solo agli
equinozi l'ora sia del giorno che della notte e` di 60 minuti.

Inoltre SB divide l'anno in varie tappe segnate da queste date fondamentali:

1) Inizio di Quaresima

2) Pasqua

3) Pentecoste

4) 14 Settembre

5) Principio di Ottobre

6) Principio di Novembre.

Struttura della sezione liturgica della RB

La struttura dei capitoli sull'Ufficio Divino (RB.8-18) e` la seguente:

- cc. 8-11: Ufficio della notte

- c. 14: Ufficio della notte nelle feste dei santi

- cc. 12-13: Ufficio del mattino (lodi)

- c. 15: Uso dell'alleluia

- cc. 16-18: Ufficio del giorno

Si noti che nell'attuale disposizione dell'ufficiatura monastica, il cursus della RB


corrisponde allo schema "A" del "Thesaurus
Liturgiae Horarum" e quindi
si abbia sott'occhio tale schema per capire i cc.8-18 della Regola.

CAPITOLO 8

L'Ufficio Divino della notte.

De officiis divinis in noctibus.

Preliminari ai cc.8-11.14 sull'Ufficio della notte

Passare in veglia buona parte della notte era una pratica molto comune nella Chiesa
primitiva, secondo la mistica dell'"attesa dello
Sposo" (cf. anche Dante,
Paradiso X, 140-141: "Nell'ora che la Sposa di Dio surge a mattinar lo Sposo perche`
l'ami"). La vigilia
domenicale, iniziata con la grande veglia pasquale, risale
ai tempi apostolici. Le altre vigilie notturne cominciarono a celebrarsi in
occasione
delle maggiori solennita` liturgiche e delle feste dei martiri locali.

Pero`, se i chierici e il popolo cristiano passavano in orazione alcune notti (o parte


di esse), i monaci si alzavano tutte le notti sia
per recarsi comunitariamente alla
salmodia sia per l'orazione privata. Pericio` la giornata del monaco comincia con
l'ufficio
notturno e da esso logicamente SB inizia le sue prescrizioni. Finora lo si e`
chiamato, ma impropriamente, "Mattutino"; dopo la
riforma liturgica,
"Ufficio delle Letture".

1-2: Levata durante l'inverno

L'Ufficio Divino - e` chiaro - non poteva abbracciare tutta la notte; il corpo e lo


spirito hanno necessita` di riposo. E` certo che le
prime generazioni di monaci dominarono
il sonno fino all'inverosimile. Si pensi, in occidente stesso, a S.Colombano il quale
voleva
che il monaco "venisse stanco al giaciglio, dormisse gia` mentre camminava e
fosse costretto a levarsi prima ancora che
cessasse il sonno". Con il suo buon senso
e con la sua discrezione, SB vuole che, "secondo una ragionevole valutazione"
(v.1), i
monaci si alzino riposati e a digestione compiuta. Per cui si alzavano d'inverno
all'ottava ora della notte (si ricordi quanto detto
sopra sull'orario di SB, cioe` che
tutto il tempo diurno e notturno veniva diviso in

dodici parti uguali). Da RB.41,9 risulta che vespro e cena dovevano aver luogo con la
luce del giorno: al massimo quindi i monaci

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andavano a letto circa un'ora dopo il


tramonto, cioe' verso la fine della prima ora notturna; e poiche` si alzavano all'ottava
ora della
notte, il riposo durava sette buone ore notturne; a Natale, quando ogni ora
notturna era di circa 75 minuti, il riposo raggiungeva le
nostre nove ore, poi man mano si
scendeva fino a un minimo di ore 6,15 nostre (quando Pasqua capitava verso il 20 aprile),
ma
allora forse si regolavano andando a letto un po' prima. Per tutto l'inverno, dunque,
la durata del sonno oscillava tra le otto ore e
mezzo e le sette ore.

3: Intervallo tra l'Ufficio notturno e quello del mattino

Il sonno piu` che sufficiente gia` concesso esclude che si ritorni a letto dopo
l'Ufficio notturno. SB ritarda di quasi due ore la levata
rispetto a RM, ma sopprime il
"secondo sonno" concesso da RM dopo l'Ufficio notturno in inverno e dopo le lodi
mattutine d'estate.
In questo SB dipende da Cassiano (Inst.2,13; 3,5) che criticava l'uso
del "secondo sonno" allora assai diffuso. Percio` dopo
l'Ufficio notturno, i
monaci di SB disponevano di un tempo piu' o meno lungo. I fratelli che ne avevano bisogno
impiegavano tale
tempo nello studio del salterio e delle lezioni (sono le "letture
brevi" che si recitavano a memoria come viene detto in RB.9,10 e
12,4.

Nel testo originale c'e` la parola "meditationi" che non si deve


intendere nel senso odierno di meditazione, ma nel senso di
"esercizio-esercitarsi", che comporta insieme l'imparare a memoria e
l'esercitarsi nella salmodia. E i fratelli che gia` sapevano il
salterio a memoria, e che
quindi non avevano bisogno di tale studio, cosa facevano? Certo non tornavano a letto;
avranno
impiegato tale tempo nella lettura o nella preghiera personale.

4: Levata d'estate

Per il periodo estivo non e' fissata un'ora precisa per la levata. Essa doveva essere
regolata in modo tale che, tra l'Ufficio notturno
e quello del mattino, ci fosse solo un
piccolo intervallo. Nei mesi aprile-maggio e settembre-ottobre si hanno in media dalle 8
alle 7
ore di sonno continuo; a giugno di meno, fino a un minimo di 5 ore; ma forse si
andava un po' piu` tardi all'Ufficio notturno (il quale
d'estate e' piu` corto non
essendoci le letture come si vedra` al c.10); la siesta prevista da SB (RB.48,5) serviva
appunto a
compensare il difetto del sonno notturno, specialmente nel periodo centrale.

CAPITOLO 9

Quanti salmi debbano dirsi nell'Ufficio notturno.

Quanti psalmi dicendi sunt nocturnis horis.

1-8: Prima parte dell'Ufficio (Primo Notturno)

Questo capitolo parla soltanto dell'Ufficio notturno feriale, del tempo ordinario, nel
periodo invernale. Si inizia con il versetto
"Signore, apri le mie labbra..."
(salmo 50,17), che viene ripetuto tre volte in coro, nel silenzio della notte. SB mostra
una certa
predilezione per queste formule ternarie sia in onore della SS.ma Trinita`, sia
per far penetrare piu` profondamente nel cuore dei
monaci i concetti espressi dalle
labbra. Il salmo 3 (aggiunto da SB, come detto sopra, forse e` scelto a motivo del v.5:
"Io mi corico
e mi addormento, mi sveglio perche` il Signore mi sostiene". Il
Gloria Patri, breve e popolare dossologia, molto comune al tempo
della controversia
ariana, e` usato frequentemente da SB nel suo cursus liturgico; qui l'adopera, come alla
fine di ogni salmo,
secondo l'uso romano. Il salmo 94, "accompagnato dall'antifona,
oppure cantato lentamente" (v.3), e` quello chiamato invitatorio,
molto adatto al
momento sia per l'inizio "Venite, applaudiamo al Signore...", che per il
contenuto; era intercalato normalmente da
un'antifona, cioe` un versetto con cui il coro
si univa al canto del solista o dei solisti.

Per la parola "inno" (v.4), il testo ha ambrosianum, cioe` inni


composti o attribuiti a S.Ambrogio. SB li introdusse sotto l'influsso
della liturgia
lerinese o milanese, mentre la chiesa romana li introdusse solo nel sec.XII.

Seguono i primi sei salmi con le antifone e poi un versetto. Quindi il lettore chiedeva
la benedizione all'abate per leggere le letture.
Si dice nel v.5 che a questo punto i
fratelli si siedono: quindi bisogna dedurre che i salmi erano recitati tutti in piedi;
cio` e`
confermato dal fatto che SB per il Gloria dei salmi non ordina, come per i
responsori (v.7), di alzarsi. E possiamo da qui notare la
discrezione di SB che colloca le
letture con i responsori dopo i primi sei salmi, mentre nell'Ufficio romano e in Cassiano
(Inst.2,4-6)
erano alla fine dei dodici salmi: percio` le letture, durante le quali i
fratelli stavano seduti, costituivano un vero riposo fisico e
spirituale, a meta` di un
Ufficio lungo e pesante.

I responsori erano una forma di salmodia, responsoriale appunto, una specie di


dialogo tra solista e coro. Si tratta qui del
responsorio prolisso, abbastanza sviluppato
nel testo e nella melodia (si vedano ad esempio i responsori della Settimana Santa),
come
si deduce dalla prescrizione di abbreviarli, insieme alle lezioni, qualora i monaci si
fossero alzati tardi (RB.11,12); esistono
poi anche i responsori brevi, a lodi e a vespro.

9-11: Seconda parte dell'Ufficio (Secondo Notturno)

Si parla ora del secondo notturno, con altri sei salmi; essi hanno per antifona
l'alleluia per ricordare che la vita del monaco e` una
vita pasquale in unione con
Cristo risorto. Si intercalava l'alleluia, ma non sappiamo come e quante volte. Seguiva
una lettura

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

breve sia all'Ufficio notturno che a quello diurno.

La litania conclusiva e` la "supplicatio" di origine greca introdotta


a Roma sotto Gelasio I (fine del sec.V): era una serie di
invocazioni a cui il popolo
rispondeva sempre "Kyrie eleison": corrispondono oggi alle invocazioni mattutine
e intercessioni
vespertine introdotte nella Liturgia delle Ore. Alcuni pensano che SB
riservi la forma lunga con le intenzioni alle lodi e al vespro
("litania"
RB,12,4; 13,11; 17,8), mentre alle Ore Minori e all'Ufficio notturno la riducesse solo
all'elemento popolare Kyrie eleison.

CAPITOLO 10

Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno in estate.

Qualiter aestatis tempore agatur nocturna laus.

1-3: D'estate Ufficio notturno piu` breve

Il capitolo precedente parlava della preghiera notturna d'inverno. Nel semestre estivo
- da Pasqua a novembre - le notti sono
corte; per poter celebrare le lodi mattutine
all'alba, si deve anticipare la sveglia e sopprimere il tempo per lo studio dopo l'Ufficio
notturno (RB.8,4). Il sonno e` accorciato di parecchio; per non restringerlo troppo, si
abbrevia un po` anche l'Ufficio notturno; ma si
deve mantenere il sacrosanto numero di
dodici salmi: allora si sopprimono le lezioni, riducendole a una sola. a memoria, quindi
breve, e seguita da un responsorio breve.

CAPITOLO 11

Come si debba svolgere l'Ufficio notturno nelle domeniche.

Qualiter diebus dominicis vigiliae agantur.

1: Ora della levata di domenica

L'insieme del monachesimo occidentale nel V e VI secolo ha praticato la vera vigilia


(le grandi "vigiliae" con salmi e letture che
duravano quasi tutta la
notte ) ogni settimana. In RB e nell'ufficio romano questa vigilia lunga e` scomparsa e al
suo posto rimane
l'ufficio notturno allungato. Si puo` vedere in questo fatto una
mitigazione della RB, ma anche la soluzione di alcune difficolta` di
orario incontrate da
altre regole che ritenevano le vigilie complete (in Francia il sabato e la domenica, in
Italia solo la domenica);
infatti molte regole parlano di espedienti contro i sonnolenti,
S.Cesario, ad esempio, obbliga i monaci a rimanere in piedi o a fare
qualche lavoro
durante le letture per vincere il sonno, ecc. Allora, la riforma radicale di SB
(l'abolizione della veglia completa) non
e` un rilassamento ma un modo pratico per
risolvere il problema: e` meglio, cioe`, dormire e riposare la prima parte della notte e
vegliare poi nella preghiera e nella meditazione della Parola di Dio; si perde quindi di
durata, ma si guadagna di intensita`; e
anche la lectio divina del giorno di domenica a
cui SB da` molto piu` tempo (RB.48,22) ne risultera` avvantaggiata. Abbiamo qui
un esempio
in piu` del primato spirituale sopra l'ascesi solo materiale.

Nonostante sia stata abolita la pratica della vigilia nel senso originale, il nome e`
restato (25 volte in RB, come nel titolo di questo
capitolo), ma ormai solo nel senso di
Ufficio notturno, come appunto quello di "notturno".

2-10: Composizione dei tre "notturni" dell'Ufficio domenicale

L'Ufficio notturno domenicale e` un ampliamento di quello feriale; rimane invariato il


numero dei dodici salmi, ma ci sono dodici
lezioni con altrettanti responsori prolissi; il
terzo notturno ha una struttura particolare, essendo composto di tre cantici dell'AT con
alcuni elementi nuovi: "Te Deum", "Amen" dopo il Vangelo, "Te
decet laus". De Vogue` pensa , non senza fondamento, che il
vangelo proclamato
dall'abate alla vigilia domenicale era sempre uno riguardante la risurrezione del Signore.

Un Ufficio cosi` ricco e vario occupava evidentemente buona parte della notte e
comportava non poca fatica. Per celebrarlo con
dignita` la comunita` doveva alzarsi molto
prima degli altri giorni e d'estate il sono era ridotto veramente a poco. Quindi,
nonostante l'abolizione della vigilia in quanto tale, abbiamo un ufficio notturno con una
ampiezza e una solennita` degne della
commemorazione settimanale della risurrezione del
Signore.

11-13: Prescrizioni in caso di ritardo

Alzarsi tardi poteva piu` facilmente capitare in quei tempi, perche` mancavano gli
orologi a suoneria. Mentre per il giorno avevano
la clessidra, la meridiana, l'orologio
idraulico e altri strumenti, la difficolta` era grandissima per la notte. Usavano vari
espedienti,
come per esempio il consumo di una candela, ma piu` spesso dovevano affidarsi
al corso delle stelle o al canto del gallo; per tutti
era necessaria una speciale
attitudine a vegliare. Ma la negligenza, la distrazione, la sonnolenza entravano a volte
in causa: SB
ribadisce che tale disordine deve assolutamente evitarsi; troppa riverenza
merita l'Opera di Dio perche` si debba abbreviare a
causa di un ritardo nella sveglia. Si
noti che l'abbreviazione, in caso, riguardera` letture e responsori, mai il
"sacro" numero dei
dodici salmi!

CAPITOLO 14

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno nelle feste dei santi.

In nataliciis sanctorum qualiter agantur vigiliae.

1-2: Nelle solennita`, Ufficio con tre Notturni come la domenica.

Nel titolo si parla solo delle feste dei santi, ma nel corpo del capitolo si tratta di
tutte le altre solennita`, ossia le feste dei misteri del
Signore: Pasqua, Natale,
Epifania, Pentecoste, ecc. Per questo il calendario monastico si era adattato subito alla
chiesa romana.
Oltre alla B.Vergine Maria, al Battista e ad alcuni Apostoli, a
Montecassino si saranno celebrati S.Martino e pochi altri: le feste dei
santi erano molto
rare.

In questi giorni la struttura dell'Ufficio notturno era quella domenicale, cioe` con il
terzo notturno, con dodici lezioni e dodici
responsori, soltanto che salmi, lezioni e
responsori saranno stati propri di quel giorno festivo.

CAPITOLO 12

Come si celebra l'Ufficio delle Lodi.

Quomodo matutinorum sollemnitas agatur.

Preliminari: LODI, Ufficio del Mattino

L'Ufficio che SB chiama "matutini" o "matutinorum sollemnitas"


(la parola "sollemnitas" sta al posto di "sinassi", "riunione
liturgica",
"Ufficio" come in Cassiano Inst.3,10 ecc.) e` poi rimasto con
il nome di LAUDI ("Lodi mattutine" oggi) a causa dei salmi 148, 149 e
150
che conteneva e che la stessa Regola chiama Laudes (RB.12,4). Si dovevano celebrare
sempre allo spuntar dell'alba
(RB.8,4), era l'Ufficio del nuovo giorno che spuntava.

L'Ufficio delle Lodi e` antichissimo; ai cristiani era particolarmente caro perche`


ricordava la risurrezione del Signore Gesu`, il
trionfo della luce della grazia
sulle tenebre dell'errore. Lo schema di SB dipende dall'Ufficio romano classico,
eccetto il responsorio
e l'inno. Nel c.12 si parla delle Lodi della domenica; nel c.13
delle Lodi dei giorni feriali.

1-4: Le Lodi domenicali

Il salmo 66 fa da introduzione; si eseguiva lentamente, per i ritardatari, come


all'Ufficio notturno l'invitatorio. Poi c'era, con le
antifone, il salmo 50 (fisso per
tutti i giorni secondo una tradizione gia` antica), affinche` con il "Miserere"
ci si purificasse prima di
passare a cantare le lodi di Dio. Anche S.Basilio dice che nel
far del giorno si soleva cantare "psalmum confessionis" <il salmo di
confessione>. Poi veniva il salmo 117, che e` per eccellenza il salmo pasquale, il
canto della risurrezione; quindi il salmo 62 che
e` il piu` caratteristico come canto del
mattino: "O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco...". Seguono le
"Benedictiones", cioe` il
"Benedicite", il canto dei tre fanciulli
nella fornace, e le "Laudes", cioe` i salmi 148.149.150 che chiudono il salterio
e sono tutta
una serie di inviti a lodare il Signore (sono considerati da SB un tutt'uno e
sono fissi per tutti i giorni).

L'inno, aggiunto da SB, e` quello che piu` evidenzia il tema di Cristo-Luce.


Il cantico del Vangelo (Benedictus) sta magnificamente
al termine delle lodi
mattutine, specialmente per i versetti: "verra` a visitarci dall'alto un sole che
sorge, per rischiarare quelli che
stanno nelle tenebre e nell'ombra della
morte", versetti cosi` appropriati nel momento in cui sta per sorgere il sole.

Nella conclusione la prece litanica probabilmente era completa, cioe` con le varie
intenzioni cui si rispondeva: "Kyrie eleison..."

4: e cosi` si finisce... ,

ma vedremo al c.33 che bisognera` concludere con il Padre Nostro.

CAPITOLO 13

Come si celebrano le Lodi nei giorni feriali

Privatis diebus qualiter agantur matutini

1-11: Schema delle Lodi feriali

Nei giorni feriali rimangono fissi il salmo 66 come introduzione (recitato lentamente
perche` tutti possano giungere), il salmo 50 e
le "laudes", cioe` i salmi
148.149.150. Cambiano ogni giorno i due salmi dopo il 50 e il cantico dell'AT
(corrispondente al
"Benedicite" della domenica), come usa la chiesa romana
(v.10).

12-14: L'orazione del Signore

Il Padre Nostro insegnato da Gesu` ebbe fin dagli inizi della chiesa il posto
d'onore nella preghiera pubblica e privata. In Spagna si
recitava solennemente
nell'Ufficio divino e cosi` prescrive SB. In tutte le Ore il Padre Nostro si recitava al
termine, ma sottovoce,

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

fino al "E non ci indurre..."; ma per le Lodi e i Vespri,


cioe` all'inizio e al termine del giorno, SB vuole che si reciti in maniera
solenne, a
voce alta, da parte del superiore, perche` i monaci si sentano obbligati dalla pubblica
promessa di "rimettere i debiti" e
si perdonino a vicenda le scandalorum
spinae <le spine degli scandali>, cioe` le piccole ferite di ogni giorno, piccoli screzi o
incomprensioni che anche in un'ottima comunita` ci sono sempre. Ricordiamo che nei primi secoli il Pater era considerato il mezzo
ordinario per
rimettere i peccati veniali: "I peccati - dice S.Agostino - anche se sono quotidiani,
almeno non siano mortali; prima di
avvicinarvi all'altare, badate a dire: dimitte
nobis..." (Discorsi su Giovanni 26,11).

Speriamo che non avvenga dei monaci quello che racconta Cassiano (Coll.9,22) di certi
cristiani che, arrivati a quel punto del
Pater, passavano sotto silenzio il "dimitte
nobis", naturalmente per non credersi obbligati al perdono...!

CAPITOLO 15

In quali tempi debba dirsi l'alleluia

Alleluia quibus temporibus dicatur

L'alleluia

Tra i capitoli sull'Ufficio notturno e mattutinale e quelli sull'Ufficio diurno, SB


intercala un breve capitolo sull'uso dell'alleluia, parola
ebraica che significa lodate
Yahwe, che si trova al principio e alla fine di parecchi salmi ed era diventata una
formula di giubilo.
L'uso dell'alleluia differiva da chiesa a chiesa. Il rito romano
classico riservava l'alleluia al tempo pasquale e, nelle domeniche, dal
terzo notturno
all'Ora di Nona.

L'uso dell'alleluia nella RM

Per la RM l'alleluia significa la speciale appartenenza dei "servi di Dio" al


loro Signore (nell'Apocalisse 19,1ss i Santi sono
presentati a cantare eternamente
l'alleluia). Secondo la RM il monastero come "casa di Dio" rappresenta il cielo;
vivere nel
monastero equivale a vivere continuamente "con il Signore" in un
eterno tempo pasquale, in una anticipazione della vita eterna
(RM.13,72; 88,14; 95,23).
Percio` la RM usa l'alleluia con singolare abbondanza rispetto al rito romano e alla
tradizione lerinese
(Lerins-Arles), assegnandolo a tutte le Ore dell'Ufficio feriale.

1-4: L'uso dell'alleluia nella RB

RB si conforma all'uso romano per le domeniche, cioe` l'alleluia dal terzo Notturno
fino a Nona; invece, diversamente dall'Ufficio
romano, prescrive l'alleluia nei giorni
feriali al secondo Notturno. Naturalmente in Quaresima non si dira` mai l'alleluia, mentre
da
Pasqua a Pentecoste si dira` sempre, cioe` a tutte le Ore, anche nei responsori.

CAPITOLO 16

Quali siano i divini Uffici durante il giorno

Qualiter divina opera per diem agantur

1-5: Sette volte al giorno e una volta di notte

SB fissa le Ore canoniche per il giorno: sono sette senza contare l'Ufficio notturno e
includendo l'Ora di Prima. Il numero sette,
gia` considerato sacro nell'AT, lo e`
per l'Ufficio divino in forza del citato v.164 del salmo 118 (certo, il salmista intende
dire "sette
volte" nel senso di "molte volte", ma la tradizione
monastica vi ha visto indicato un numero preciso). SB non include l'Ufficio
notturno, per
il quale trova una giustificazione nell'altro versetto citato, il 62, del salmo 118.
Quindi: "sette volte al giorno" (Lodi,
Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro,
Compieta) e "una volta la notte" (l'Ufficio vigiliare o notturno).

L'Ora di Prima...

L'Ora di Prima fu istituita, come narra Cassiano (Inst.3,4), nel monastero di


Bethlehem, dove i monaci, dopo le Lodi, tornavano a
letto; perche` alcuni pigri ne
abusavano restandovi fino a Terza, fu introdotto un nuovo Ufficio al levar del sole per
dare a tutti lo
stimolo di alzarsi e recarsi al lavoro. Poi si diffuse pian piano anche in
occidente fin dagli inizi del secolo VI.A Roma era in uso e
da qui la derivo` SB (c'e`
anche nella RM, manca in Cassiodoro e nell'Italia del Nord). Cassiano parla della
resistenza che
incontro` la nuova ora, la quale somiglia alle Lodi, ma piu` tardi prese
sempre piu` il carattere di preparazione al lavoro. Ad essa
SB da` una considerazione
speciale, le assegna salmi particolari ogni giorno (mentre per Terza, Sesta e Nona ogni
giorno fa
ripetere gli stessi salmi).

Nel corso dei secoli l'Ora di Prima era diventata l'Ora di preparazione al lavoro anche
nel senso di organizzazione della giornata:
si recitava nella sala del

capitolo, si leggeva la Regola, il martirologio del giorno, gli anniversari di morte,


l'abate dava gli avvisi o distribuiva incarichi
particolari per quel giorno.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

... Terza, Sesta e Nona, ...

Terza, Sesta e Nona risalgono a remotissima antichita` nella Chiesa. Ne parlano molti
Padri. Furono scelte perche` salisse a Dio
la lode nelle tre principali divisioni del
giorno, ma fu loro assegnato anche un senso mistico: Terza ricorda la discesa dello
Spirito
Santo (vedi gli inni); Sesta ricorda la crocifissione di Gesu`; Nona e` l'ora in
cui Gesu` discese agli inferi, in cui Pietro e Giovanni
salivano al tempio a pregare (Atti
3,1), il centurione Cornelio ebbe la visione (Atti 10,3).

... Vespro, ...

Vespro corrisponde al sacrificio serale dell'AT, come le Lodi corrispondono a quello


del mattino. Lodi e Vespro erano considerate
le Ore piu` solenni; ad esse SB assegna i
cantici evangelici Benedictus e Magnificat e il Pater recitato per
intero dall'Abate
"propter scandalorum spinas" <per le spine degli
scandali> (RB.13,12-14). Il Vespro si celebrava al cominciare della notte. SB ne
anticipa un po' l'ora per dar posto alla Compieta. Altri autori coevi e la RM usano anche
il termine Lucernaria; SB solo la parola
Vespera e non presenta traccia di
rito lucernare: vuol dire che si attiene alla piu` pura tradizione romana, l'altro termine
rimanda
ad influssi liturgici non romani.

... Compieta.

Sulle origini e lo sviluppo di Compieta i liturgisti non sono d'accordo. E` conosciuta


gia` da S.Basilio (il quale attesta anche l'uso in
essa del salmo 90) e c'e` nell'Ufficio
romano classico. Certo, la sua diffusione deve molto all'ordinamento di SB. La parola
Completorium
significa Ufficio che complet <conclude> l'Opus Dei e la giornata del monaco.

CAPITOLO 17

Quanti salmi debbano dirsi in queste Ore

Quot psalmi per easdem horas canendi sunt

1-10: Il numero dei salmi delle Ore diurne

Il numero di tre salmi per ogni Ora e` tradizionale (dall'oriente, all'Ufficio


romano, alla RB) e si raggiunge cosi` il sacro numero di
12 (= 3 salmi x 4 Ore, cioe` 12
al giorno come 12 alla notte!). RM mette l'antifona a tutti e tre i salmi delle Ore
minori, RB solo se la
comunita` e` grande (v.6). A Compieta sempre i salmi senza antifona.

Cantare i salmi con l'antifona comportava piu` tempo e maggiore solennita`, le piccole
comunita` non sempre potevano farlo.
Tuttavia SB vuole che i salmi delle Ore minori siano
recitati singillatim et non sub una Gloria <distinti e non sotto un solo
Gloria>
(v.2) forse perche` altrove accadeva che i salmi detti senza antifona perdevano
anche il Gloria. SB vuole che le Ore minori
possano avere salmi non antifonati, se la
comunita` e` piccola, ma sempre ognuno con il proprio Gloria.

Le parole missae, missas (vv.4.5.8.10) significano semplicemente la fine


dell'Ufficio, che a Compieta termina con la benedizione,
alle altre Ore con il Pater.
Non pare quindi che ci fosse la colletta conclusiva; e` certo che al Laterano fino al
sec.XII il Pater
sostituiva la colletta.

CAPITOLO 18

Con quale ordine debbano dirsi i salmi

Quo ordine ipsi psalmi dicendi sunt

1-21: Distribuzione del salterio

Delineato lo schema di tutte le Ore, SB ne designa i rispettivi salmi; finora li ha


assegnati solo per le Lodi (cc.12-13), mettendo
salmi particolarmente appropriati a
quell'Ora; e cosi` fara` per Compieta (v.19: ogni giorno i salmi 4.90.133).

Per il resto, divide il salterio in vari gruppi, disposti sommariamente cosi`:

- salmi 1-19 a Prima (vv.2-6)

- salmi 20-108 all'Ufficio notturno (vv.20-21)

- salmi 109-117 e 128-147 a Vespro (vv.12-18)

- salmi 118-127 alle Ore minori (vv.7-11).

A differenza degli orientali, presso i quali il salterio era recitato solo nelle
vigilie e nei vespri (i salmi erano raggruppati in sezioni

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

stabili e inseparabili -
carismi - che si seguivano senza interruzione), RB e il rito romano includono nella
ripartizione settimanale
tutte le Ore. Tuttavia anche in SB (e nel rito romano) abbiamo
una lectio continua dei salmi (vedi schema sopra). La linea
evolutiva della
distribuzione del salterio e`: Bisanzio-Roma-RB. RB e` meno semplice, meno coerente, meno
omogenea. Si pensi
al caso di Prima che inizia il salterio dal lunedi` (v.3), mentre nel
rito bizantino e romano il salterio comincia la domenica. Tutto fa
ritenere che il
salterio benedettino e` un'opera secondaria, su rimaneggiamenti del romano. Con questo, SB
ha ottenuto due
risultati: l'abbreviazione e la varieta`.

Avendo meno salmi da assegnare alle Opre primitive (Vigilie e Vespri), ha dovuto
dividere quelli piu` lunghi, ridurre da cinque a
quattro quelli del Vespro; ugualmente,
tre strofe del salmo 118 (invece di sei come nel rito romano) alle Ore

minori. SB abbrevia anzitutto a causa del lavoro. L'Ufficio romano era per comunita`
urbane; adattandolo a monasteri rurali ha
dovuto abbreviare specialmente le Ore minori che
interrompevano il lavoro giornaliero. Come gia` si e` detto, lo schema della RB
corrisponde allo schema "A" del "Thesaurus" della Liturgia delle Ore
nel rito monastico.

22-25: L'intero salterio in una settimana

Terminata l'esposizione del suo cursus liturgico, SB avverte che non intende imporre
categoricamente la sua disposizione.
Possiamo qui notare la liberta` lasciata dal santo
all'iniziativa di altri, o anche la sua umilta` che non pretende di aver creato una
struttura perfetta. Lascia quindi liberta`, ma a una condizione: che si salvaguardi la
recita settimanale dell'intero salterio. E lo fa
appellandosi ai Padri della vita
monastica, evidenziando il contrasto tra "i nostri santi padri... alacremente... in
un sol giorno" e "noi
tiepidi... in una settimana". Pare che si alluda
all'episodio delle Viate Patrum (3,6; 5,4.57): un egiziano ando` a visitare un altro,
che
lo volle ossequiare con una buona cena - un piatto di lenticchie! - ma prima lo invito` a
pregare dicendo: Facciamo l'Opera di
Dio (Opus Dei), e poi mangeremo". Ambedue erano
tanto fervorosi che uno recito` l'intero salterio e l'altro (sempre a memoria,
s’intende) due Profeti maggiori!

Insomma SB vuole stimolare l'ardore dei monaci (vedi fine cap.73), far vincere la
tiepidezza e la negligenza, incitarli alla corsa
continua, al fervore nella via della
preghiera, per arrivare a quella preghiera senza interruzione ("Pregate
incessantemente"
1Tess.5,17; Ef.6,18; cf.Rom.12,12; Fil.4,6; Col.4,2) di cui la
preghiera a ore fisse in comune e` solo un mezzo e una tappa.

CAPITOLO 19

Atteggiamento durante l'Ufficio divino

De disciplina psallendi

Preliminari a RB.19-20: lo spirito dell'OPUS DEI

La sezione liturgica di SB si chiude con due brevi capitoli di contenuto diverso dai
precedenti. RB.8-18 ha un aspetto - possiamo
dire - piu` tecnico: si tratta di organizzare
i vari uffici, precisarne le rubriche ecc...; RB.19-20 ha un aspetto piu` spirituale,
precisa
sopratutto le disposizioni interiori della preghiera.

I due capitoli: "Modo di celebrare il divino Ufficio" (RB.19) e


"Riverenza nella preghiera" (RB.20) sono strettamente collegati,
perche`
salmodia e orazione silenziosa non sono altro che due aspetti di una medesima realta`, due
momenti dell'aspirazione
dell'anima verso Dio. La distinzione netta e rigorosa tra orazione
comunitaria e orazione privata, tra orazione mentale e orazione
vocale e` una cosa relativamente moderna. Il problema della relazione tra liturgia e
contemplazione non si poneva affatto per la
mentalita` degli antichi cristiani. Per gli
antichi monaci, come per tutti i cristiani, non esisteva che una sola orazione, camminando
o lavorando, nei campi o in monastero: colloquio personale con il Signore, colloquio
fondamentalmente basato e mantenuto nella
Scrittura e attraverso la Scrittura.

Quindi tutto l'ordinamento scrupoloso sull'Ufficio divino di RB.8-18 non deve trarre in
inganno, quasi si vogliano escludere altre
forme di orazione, quella che oggi siamo soliti
chiamare personale o privata. Non e` cosi`:

Primo, perche` - come abbiamo visto - l'orazione segreta e interna costituiva una
parte dell'Ufficio divino da intercalarsi, secondo
l'uso monastico, alla recita dei salmi
(orazione silenziosa dopo ogni salmo).

Secondo, perche` secondo la RB si chiama orazione tanto l'Ufficio divino, quanto


l'orazione privata dentro o fuori del medesimo
Ufficio; ambedue, cosi`, non sono che due
aspetti di una medesima realta`.

Terzo, perche` per SB, come per tutto il monachesimo primitivo, tutta la vita del
monaco senza eccezione era, alla fine dei conti,
"Opus Dei" <Opera di
Dio>. Tutta la vita del monaco era concepita come strettamente legata alla sua
preghiera.

I capitoli 19-20 della RB dipendono da RM.47-48 che presuppongono una fonte comune che
non e` facile determinare, con
evidenti allusioni a Cassiano (Coll.23,6; Inst.2,10).

1-5: Citazioni scritturistiche

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Il c.19, in cui si dice al monaco quale atteggiamento interiore deve avere


durante la celebrazione dell'Ufficio divino, e` pieno del
concetto della memoria Dei
<ricordo di Dio>. La prima citazione, da Prov.15,3, l'abbiamo gia` incontrata in
RB.7,26 nel primo
gradino dell'umilta` che qui viene in pratica richiamato: e` la
coscienza permanente della presenza di Dio, l'atteggiamento radicale
di fede in cui Dio e`
continuamente presente alla sua creatura. Ebbene, questa "memoria Dei" non deve
abbandonare un istante il
monaco sopratutto quando compie l'Opera di Dio per eccellenza,
la preghiera comunitaria. Seguono tre citazioni dai salmi, frasi
che tante volte ripetiamo
all'Ufficio divino.

La prima, (v,3 - salmo 2,11) inculca il "timore di Dio", e` il rispetto


profondissimo, unico, che costituisce il fondo di tutto
l'atteggiamento religioso, che qui
SB applica allo speciale servizio d'onore prestato a Dio nella lode pubblica.

La seconda citazione (v.4 - salmo 46,8) si riferisce alla "sapientia" con cui
si deve salmodiare. "Psallite sapienter - cantate inni con
arte": che cosa
significa precisamente? Scienza, abilita`, arte, perfezione, accuratezza, precisione,
attenzione? E` difficile
precisarlo. Tutte queste cose insieme. Comunque, non c'e` dubbio
che "sapienter" si riferisce anzitutto alle disposizioni spirituali
dei
monaci che celebrano l'Ufficio; non si tratta qui di rubriche o di cerimoniale (che pure
hanno la loro importanza), qui si parla
della disciplina dell'"uomo interiore".

La terza citazione (v.5 - salmo 137,1) ci trasferisce in una prospettiva molto ampia. Qui c'e` tutta la tradizione monastica sugli
angeli e sulla relazione tra vita monastica e vita angelica, in ultima analisi tutta la prospettiva escatologica della vita monastica (e
della vita cristiana in quanto tale). La RB vuol dire probabilmente che l'Ufficio divino dei monaci non e` solo anticipazione della
liturgia celeste, ma anche una partecipazione del culto che gli angeli tributano a Dio. SB, cioe`, sente vivamente l'unione del cielo
con la terra durante la celebrazione dell'Ufficio divino. Inoltre per lui l'Opus Dei non e` soltanto imitare cio` che gli angeli fanno in
cielo; ma questi si rendono realmente
presenti nella liturgia monastica e i monaci realizzano il servizio divino anche alla loro
presenza, come dice espressamente il v.6.

6-9: Conclusione

Dopo le citazioni della S.Scrittura, SB tira le conclusioni: "Ergo -


dunque...", e riassume tutta la spiritualita` dell'Ufficio divino con
una brevissima
ma scultorea frase: Mens nostra concordet voci nostrae <il nostro spirito
concordi con la nostra voce>. SB ha
presente l'insegnamento dei Padri; si veda
sopratutto S.Agostino: "Quando pregate il Signore con salmi e inni, si volga nel
cuore
cio` che si esprime con le parole" (Epistola 211,7); o quest'altro bellissimo
brano: "Se il salmo prega, pregate; se sospira,
sospirate; se gioisce, gioite; se
spera, sperate; se teme, temete" (Commento ai salmi, II sul salmo 30, discorso 3). La
RM espone
con molta prolissita` la stessa idea (RM.47,9-20), La brevissima frase di SB e`
ancora piu` efficace.

CAPITOLO 20

La riverenza nella preghiera

De reverentia orationis

1-5: Qualita` dell'orazione

SB non definisce la preghiera; da` per scontato che i monaci per cui scrive sappiano
bene che cosa sia. Il titolo stesso del capitolo
risulta estremamente sobrio.
"Riverenza" denota un atteggiamento generale della presenza di Dio, di timore
nel senso biblico, che
include umilta` e amore.

SB inizia con un argomento "a fortiori": "Se con i potenti..., tanto


piu` con Dio..." (vv.1-2). Se la parola "rispetto" <reverentia, come
nel
titolo> richiama sopratutto l'atteggiamento dell'inferiore nei confronti del superiore,
le parole "umilta`" e "purezza di devozione"
del v.2 completano la
disposizione dell'animo nella preghiera. "Devozione" ha il senso proprio di
"dono di se` medesimo",
abbandono, adesione piena e senza condizioni.

3: sobrieta` delle parole, purezza del cuore, compunzione:

Sono altre due qualita` che fanno parte della saggezza tradizionale del monachesimo.
Alla "riverenza" formata di umilta` e di puro
abbandono (= purezza di devozione,
dei vv.1-2), si aggiungono ora la "sobrieta' delle parole", la "purezza del
cuore" (cioe` quella
coscienza monda dai vizi e dai peccati cui SB ha accennato
sopratutto nel capitolo sull'umilta`, RB.7,12.18.29.70; vedi piu` sotto il
significato
della "puritas cordis") e la "compunzione" (anche negli strumenti
delle buone opere (RB.4,57) e riguardo all'oratorio
(RB.52,4) SB parla delle lacrime che
accompagnano la preghiera). Poi SB conclude dicendo che la preghiera sia "breve"
e "pura"
(di nuovo!), a meno che non si prolunghi per ispirazione di Dio (v.4) e
che comunque in comunita` sia breve (v.5).

Due problemi riguardo al c.20

A questo punto vediamo due problemi che sorgono spontaneamente da questo breve testo
della Regola.

Primo problema. Che il c.20 parli della preghiera personale e` evidente; ma SB si


riferisce si riferisce all'orazione privata fuori
dell'Ufficio divino o anche - e forse in
primo luogo - all'orazione salmica, cioe` alla preghiera silenziosa che i fratelli
facevano
prostrati a terra, dopo ogni salmo? Una risposta precisa non e` facile, perche`
il testo non e` abbastanza chiaro. Tuttavia ci sono
ragioni piu` valide per ritenere che
SB in questo capitolo si riferisca anzitutto alla preghiera personale nell'ambito
dell'Ufficio divino.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

La posizione stessa del capitolo, come termine finale della sezione


dell'Ufficio divino e dopo il capitolo 19 sul modo di salmodiare,
induce a credere che SB,
mentre redigeva il testo, stesse pensando all'orazione silenziosa dopo i salmi in coro;
poi all'improvviso,
nel v.4, annoto` un'osservazione che gli venne in mente riguardo alla
preghiera privata fuori dell'Ufficio (quando la si puo` protrarre
per ispirazione divina);
e difatti con la frase successiva posta in contrapposizione "ma in comune" del
v.5, ritorna al tema originale,
cioe` alla preghiera privata dopo ogni salmo, che doveva
durare fino a quando il superiore dava il segnale (v.5) e tutti si levavano
per cominciare
la salmodia. La frase riecheggia le espressioni di Cassiano e di Pacomio sull'argomento
(vedi quanto detto sopra
sul modo di salmodiare degli antichi nell'introduzione a tutta la
sezione liturgica). Si noti ancora che i passi paralleli della RM si
riferiscono alla
preghiera silenziosa dopo ogni salmo (RM.48,10-11). Tuttavia - ripetiamo - la questione
non e` chiara. E forse e`
meglio superarla pensando all'unita` della preghiera (comune e
personale) presso i monaci (cf.sopra, preliminare al c.19)

Secondo problema. L'altra questione importante e` il significato preciso di certi


termini con i quali SB descrive le qualita` della
preghiera.

Balza agli occhi in questo c.20 la mancanza di citazioni bibliche, in contrasto con il
c.19 che ne e` pieno (Tuttavia c'e` nel v.3
chiara l'allusione alle parole di Gesu` sulla
preghiera in Matteo 6,7 e a tutto l'insegnamento della parabola del fariseo e del
pubblicano in Luca 18,9-14).

In compenso, il capitolo intero e` pieno delle idee del monachesimo precedente sulla
preghiera, e non solo le idee, ma il
linguaggio, lo stile, i termini sono caratteristici
della scuola sopratutto di Evagrio Pontico e di Cassiano. Cosi` la parola purezza
appare in tre versetti consecutivi: "purezza di devozione" (v.2), "purezza
del cuore" (v.3), "preghiera breve e pura" (v.4): ebbene, si
tratta di
espressioni tecniche di Cassiano e della sua spiritualita`.

puritas cordis, oratio pura

"Puritas" o piu` spesso "puritas cordis" indica la cima


dell'itinerario ascetico-spirituale, cioe` la totale liberazione dalle passioni, la
carita`, la perfetta armonia dell'uomo paradisiaco (Coll.10,7). Alla "puritas
cordis" corrisponde la "oratio pura". Ci troviamo proprio
alle vette della
vita spirituale. i fatto, per Evagrio e per Cassiano "oratio pura" e`
l'espressione tecnica per indicare l'orazione
perfetta, la contemplazione suprema
(Coll.9,8).

Che cosa rimane di tutto cio` in RB.20? Cioe`, come intende SB questa "puritas
cordis", questa "oratio pura"? Certamente, SB e`
influenzato da Cassiano; i
termini che usa: devozione, compunzione, lacrime, si trovano tali e
quali in Cassiano (Inst.5,17;
Coll.3,71; 19,1 ecc...), come anche per la brevita'
(Inst.2,10; Coll.9,36). Quindi si puo` dire che SB, con i vocaboli che utilizza,
suggerisce l'ideale dell'orazione pura nel suo grado piu` elevato.

Pero`, ... suggerisce soltanto! Uomo pratico secondo Gesu` Cristo, non puo` con poche
qualita` esposte sulla preghiera, proporre
a semplici principianti le vette dell'orazione.
La Regola, in effetti, non parla delle cime dell'orazione come le insegnano Evagrio e
Cassiano, ma dell'orazione di tutti i giorni. Che SB voglia lanciare anche i suoi
discepoli verso le "cime" e che lo desideri, non c'e`
dubbio. Pero` le sue
istruzioni, i suoi principi fondamentali si riferiscono all'immediato:

ora e qui la preghiera deve essere riverente, umile, piena di abbandono, breve e pura
(cioe` intensa, senza distrazioni) e deve
sgorgare da un cuore puro (cioe` sincero, senza
macchia di peccato) e contrito. Tutto cio` SB lo ha espresso con quattro coppie
consecutive di vocaboli:

- con umilta` e rispetto (v.1),

- con tutta umilta` e purezza di devozione (v.2),

- nella purezza del cuore e la compunzione delle lacrime (v.3),

- breve e pura (v.4)

Questo e` il senso del c.20 della Regola.

CAPITOLO 47

Il segnale per l'Ufficio divino

De significanda hora Operis Dei

Preliminari:
complementi alla sezione liturgica (RB.47; 50; 52)

Fuori della sezione propriamente liturgica, SB parla altre volte dell'Opus Dei, per
esempio a proposito delle scomuniche (RB,23-
30), dei ritardatari (RB.43-46), a proposito
del dormitorio e del silenzio notturno (RB.22 e 42), a proposito dell'orario (RB.48) e
altrove parlando della giornata e della vita del monaco, perche` l'Opus Dei e` nel
monastero la cosa piu` importante a cui nulla si
deve anteporre <nihil Operi Dei
praeponatur, RB.43,3>.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Trattiamo cominque subito, in questa sezione, il capitolo sul segnale dell'Ufficio


divino e le norme di recitazione (RB.47),
sull'Ufficio divino fuori dell'oratorio (RB.50),
sull'oratorio del monastero (RB.52).

1: Il segnale per l'Ufficio divino

Il titolo si riferisce solo alla prima parte del testo (v.1). SB aggiunge poi altre
precisazioni che riguardano la disciplina in coro
durante la celebrazione. Si dice
anzitutto che la responsabilita` della puntuale celebrazione liturgica, di notte e
di giorno, ricade
sopratutto sull'abate, il quale o prende l'incarico lui stesso o lo
affida a qualche fratello "molto attento". In un'epoca in cui le ore
variavano
da un giorno all'altro e in cui i procedimenti per calcolare il tempo erano piuttosto
rudimentali, tale incarico era piu'
difficile di quanto sembri a prima vista.

Il modo di dare il segnale era vario presso gli antichi monaci. Nei monasteri pacomiani
si chiamava con la voce o si batteva uno
strumento qualsiasi; le vergini di Santa Paola
erano chiamate al canto dell'alleluia (S.Girolamo, Eistola 108,19); Cassiano riferisce
che
si bussava alle porte (Inst.4,12). Puo` darsi che SB pensi alla percussione di lamine di
metallo o di tavolette. Il fascetto di
verghe posto da qualche pittore in mano al santo,
piu` che uno strumento penale, indica forse uno strumento destinato alla
sveglia; nel
caso, sarebbe stato il patriarca stesso - come dice qui il testo - a svegliare i monaci.

2-4: Disciplina del coro

Spetta ugualmente all'abate designare chi deve cantare o leggere. Il buon ordine della
celebrazione e l'edificazione
dell'assemblea esigono che facciano i solisti solo coloro
che sono in grado di farlo, e cio` si riferisce tanto alla precisione materiale
quanto
alle disposizioni spirituali: umilta`, gravita` e grande riverenza (v.4).

Notiamo che il verbo imponere (v.2), piu` che "intonare" un salmo,


significa qui recitarlo integralmente. Tuttavia cio` risulta piu`
facile che
"leggere" (v.3) per il fatto che i salmi si recitavano a memoria, mentre leggere
nei manoscritti dell'epoca era un'impresa
piu` complicata e certamente non erano molti i
monaci che potevano farlo con competenza e soddisfazione di tutti.

CAPITOLO 50

Dei fratelli che lavorano lontano dall'oratorio o sono in viaggio

De fratribus qui longe ab oratorio laborant aut in via sunt

La veritas horarum delle celebrazioni liturgiche

L'Ufficio divino si celebrava normalmente nell'oratorio e alle ore stabilite, aderendo


al senso storico e mistico che ogni ora
possiede (quello che dopo la riforma liturgica si
chiama la "verita' delle ore liturgiche"). Ora, poteva succedere a volte - o
forse con
frequenza - che alcuni monaci non potevano per lontananza trovarsi in coro tutte
le volte che la comunita` si radunava.

1-3: I fratelli che lavorano lontano

Il primo caso che la RB contempla e` quello del lavoro. E` vero che SB vuole che
abitualmente i lavori dei monaci si svolgano
dentro la cinta del monastero (RB.66,6-7), ma
a volte per vari motivi - sopratutto si pensi al lavoro dei campi - si poteva essere
abbastanza distanti per accorrere alle varie Ore canoniche. Secondo la RM bastavano 50
passi di distanza per essere dispensati
dall'andare in coro (RM.55,2), il che pare un po`
ridicolo. SB lascia all'abate di giudicare se i monaci possono o no venire in coro.

In caso negativo, questi "celebrino l'Opera di Dio dove lavorano, inginocchiandosi


con santo timore" (v.3). Che cosa significa
quest'ultima frase? Vuole forse dire che
il fatto di celebrare l'Ufficio fuori dell'oratorio non dispensa dal prostrarsi per
l'orazione
silenziosa che c'era dopo il canto di ogni salmo? Il luogo parallelo della
RM.55,4 potrebbe far propendere per tale interpretazione.
Oppure significa semplicemente
di seguire le stesse rubriche che si seguono in coro; o ancora un avvertimento ai monaci
di non
prendersela alla leggera e alla sbrigativa, ma fare tutto con precisione e
riverenza? Notiamo che SB da` per scontato che ogni
monaco - non esisteva la distinzione
tra chierico e non-chierico, tra professo semplice e professo solenne - ha l'obbligo
dell'Ufficio
divino.

4: I monaci in viaggio

Il secondo caso di assenza riguarda i fratelli in viaggio. Per questi SB dimostra


un'assennata mitigazione e riserva: quando si
viaggia, non sempre le circostanze
permettono di seguire il completo cerimoniale o il perfetto orario; percio` i fratelli
facciano come
meglio possono.

Nell'ultima frase c'e` l'espressione servitutis pensum <debito del loro


servizio, v.4.> per indicare la preghiera liturgica; in RB.49,5
la stessa espressione
indica le varie osservanze del monaco. E` la stessa idea di tutta la vita del monaco come
"servizio", "milizia
di servizio" (RB.2,20) e di questo servizio
l'espressione piu` alta e` appunto la lode di Dio. Ne` deve meravigliare l'idea di
"debito":
a volte la preghiera comune puo` essere pesante e costituire un vero
sacrificio!

Notiamo che oggi, nelle odierne condizioni del lavoro monastico puo` essere piu`
frequente l'assenza di qualcuno. E in piu` si
permette (nello spirito anche di mitigazione
che SB mette in questo capitolo: "come meglio possono", v.4) la congiunzione di

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

alcune Ore canoniche. Dobbiamo pero` tendere con ogni sforzo alla "verita` delle
Ore" e al ritmo della lode di Dio nei vari momenti
della giornata.

CAPITOLO 52

L'oratorio del monastero

De oratorio monasterii

Questo capitoletto apporta un prezioso completamento alla sezione liturgica, perche`


lascia intravedere dei prolungamenti alla
preghiera comune nel corso della giornata. RB.52
corrisponde a RM 68, che pero` tratta soltanto del silenzio da osservarsi
uscendo
dall'oratorio: i monaci non debbono seguitare a canticchiare i salmi.

1: L'oratorio del monastero

Per comprendere la prima frase di SB (v.1), bisogna tener presente che era abbastanza
normale per gli antichi fare qualche
piccolo lavoro manuale mentre ascoltavano la salmodia
del solista o le letture. Cosi` per i monaci egiziani, probabilmente anche
nelle comunita`
pacomiane. S.Cesario di Arles proibisce alle monache di lavorare durante l'Ufficio (Regula
virginum, 10), pero`
vuole qualche lavoretto durante l'Ufficio notturno per vincere il
sonno (Ibid.15). In questo contesto si comprende la concisa ed
energica frase di SB:
"L'oratorio deve essere cio' che il suo nome significa" (v.1): la casa della
preghiera non sara` mai per SB un
laboratorio, ne` servira` talvolta a consumare i cibi,
ne` fungera` mai da parlatorio, ne` diventera` un luogo, anche provvisorio, per
deporre
strumenti di lavoro o altri oggetti non destinati al culto.

2-3: Silenzio terminato l'Ufficio divino

Che nell'oratorio si celebra l'Opus Dei, si sa. SB ricorda qui (vv.2-3) che, terminato
l'Ufficio divino, "tutti escano in silenzio"; e
passa poi al tema che gli
interessa particolarmente: l'orazione privata di ciascun monaco. Si deve mantenere
nell'oratorio il
massimo silenzio, perche` chi vuole possa continuare a pregare;

nell'oratorio in particolare Dio da` udienza ininterrottamente, la porta e` sempre


aperta. SB vuole invitare velatamente a pregare
con frequenza, come si deduce anche
dal seguente v.4.

4-5: Preghiera privata anche in altri momenti

Non solo dopo l'Opus Dei, ma anche in altri momenti un fratello puo` sentirsi spinto
alla preghiera. Cosi` veniamo a conoscere che
durante la giornata ogni monaco puo` trovare
l'opportunita` di qualche momento libero da dedicare alla sua preghiera privata,
probabilmente durante il periodo della lettura. SB poi aggiunge delle condizioni sulla
maniera di pregare : entri semplicemente e
preghi, espressione nuda e semplice che
non include alcun particolare metodo o schema di orazione; preghi e basta, cioe`
massima
liberta` e semplicita` nel procedimento secondo l'ispirazione di Dio.

Non a voce alta, cioe` senza alzare la voce, senza emettere gemiti e sospiri
sonori, come si usava a volte presso gli antichi, ma
con lacrime e fervore di cuore;
richiama la "purezza di cuore" e la "compunzione delle lacrime" di RB
20,3 (Per preghiera e
lacrime, cf. anche RB.4,57, uno strumento delle buone opere).

Lacrime e cuore sono come indizi dell'autenticita` della preghiera del


monaco. Chi non vuole pregare in questo modo, non e`
autorizzato a rimanere nell'oratorio
(v.5), perche` l'oratorio deve essere solo luogo di preghiera e di incontro con Dio.

EXCURSUS SULLA PREGHIERA MONASTICA

Appendice alla sezione liturgica della RB

Abbiamo gia` avuto modo nel commento a questa sezione della RB di notare le
caratteristiche e lo spirito della preghiera del
monaco (vedi sopratutto l'introduzione a
tutta la sezione cc.8-11 sull'Opus Dei e "lo spirito dell'Opera di Dio", sezione
cc.19-20 nel
Preliminare al c.19).

Vogliamo ora riflettere in maniera un po' piu` sistematica sulla preghiera, sul monaco
come uomo di preghiera, su alcune
caratteristiche della preghiera monastica.

SOMMARIO: Introduzione - I: Il monaco uomo di preghiera. II: Condizioni della


preghiera. III: Alcune dimensioni della preghiera
monastica 1) Si fonda
sull'evento-Cristo; 2)Preghiera come memoria-presenza-attesa; 3) Preghiera liturgica
(dimensione
dell'ascolto; 4) Unione con la lectio divina; 5)Aspetto conoscitivo e
comunionale; 6) Preghiera umile; 7) Accento sulla preghiera di
lode e di ringraziamento.
IV: Elementi classici della tecnica cristiana della preghiera 1) Celibato; 2) Solitudine e
silenzio; 3) Veglia;
4) Digiuno. - Conclusione.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

INTRODUZIONE

Parlare della Preghiera ("la" Preghiera, con la "P" maiuscola) e`


una cosa estremamente difficile, anche se non mancano trattati
eccellenti e studi
teologici al riguardo, perche` si rimane sempre in superficie, in quanto la preghiera
e` esperienza e nessuno la
puo` comprendere se non la riceve, se non l'ha provata, se
non la vive. E` stato detto, e giustamente, che per se` la preghiera non
si puo`
insegnare: primo, per un motivo psicologico, perche` la preghiera e` un rapporto d'amore
con Dio e chi ama veramente sa
come esprimerlo; e poi sopratutto per un motivo teologico,
perche` la preghiera cristiana e` data dallo Spirito che prega in noi.
Questa convinzione
e` il primo passo verso la preghiera, altrimenti essa diventa un vuoto moltiplicarsi di
parole (Mt.6,7). E` lo
Spirito che scende nel nostro cuore per spingerci verso Dio e farci
pregare; la preghiera del cristiano e` il gemito inesprimibile
(Rom.8,26) dello
Spirito Santo che abita in noi, e qui non esistono formule, ne` orari, ne` tecniche, ne`
tempi, ne` luoghi: lo Spirito
viene quando e come vuole (Giov.3,8), nella tempesta
(Sofonia 1,15) come nella brezza leggera (1Re 19,12). E` chiaro che in
questo senso la
preghiera non si puo` insegnare.

Tuttavia l'atto della preghiera ha delle condizioni, delle dimensioni che possono
essere oggetto di studio, di formazione e quindi
d'insegnamento; in tal senso tentiamo
questa esposizione sistematica.

I: IL MONACO UOMO DI PREGHIERA

Il monastero e` una "scuola del servizio divino" (RB.Prol.45) e di questo


"servizio santo" (RB.5,3) la preghiera e` il momento
centrale assolutamente
primario: Nihil Operi Dei praeponatur <Nulla si anteponga all'Opera di Dio>
(RB.43,3). SB vuole che i suoi
monaci siano uomini di preghiera; non puo` essere
altrimenti; il monaco, per definizione, e` un uomo di preghiera; il 'monaco
autentico -
dice S.Epifanio (Verba seniorum 12,6) - deve avere nel suo cuore continuamente l'orazione
e la salmodia".

La RB sopratutto per la preghiera e` impregnata dell'ideale monastico divulgato da Cassiano


(cf.commento al c.20); ebbene, nella
prima (e fondamentale) delle sue "Collazioni"
leggiamo: "Questo deve essere il nostro impegno principale, questo l'orientamento
perpetuo del nostro cuore: che la nostra mente rimanga sempre unita a Dio e alle cose
divine" (Coll.1,6). E nella nona: "Tutto il
fine del monaco e la perfezione del
cuore consiste nel perseverare in una orazione continua e ininterrotta e in quanto e`
possibile
all'umana fragilita`, si sforza di giungere a una immutabile tranquillita` di
spirito e a una pureza perpetua"

(Coll.9,2). E ancora: "Il fine del monaco e la sua piu` alta perfezione consiste
nell'orazione perfetta" (Coll.9,7).

E Rufino di Aquileia: "Il compito principale del monaco consiste nell'offrire a


Dio un'orazione pura" (Per il concetto di "oratio pura",
cf. commento al
c.20). I monaci quindi, sulla scia di Cassiano, tendono a far si` che "tutta la vita
e tutti i movimenti del cuore
divengano una unica e ininterrotta preghiera"
(Coll.10,7). I testi sono tantissimi; appare proprio che gli antichi monaci erano quasi
ossessionati dall'ideale della "preghiera continua".

In questa preghiera continua si arriva man mano sempre piu` al bisogno di semplicita`,
come la preghiera dello Spirito in noi che si
limita ad un solo grido, ma indefinitamente
balbettato : "abba - Padre" (Rom.8,15). E` la preghiera semplice
che i Padri
chiamavamo "monologia", cioe` costituita da poche parole o
addirittura da una sola parola. Questa tradizione e` costante sia in
Oriente che in
Occidente; cosi` sono nate le cosiddette "giaculatorie". Numerose invocazioni
molto brevi che la Bibbia ha
conservato possono fornire sempre la nostra preghiera; il
Vangelo e i Salmi ne sono una miniera. Per ciascuna situazione si puo`
trovare la
giaculatoria adatta, ascoltando lo Spirito Santo che ci tocca dal di dentro: "Signore
Gesu', io credo; aiuta la mia
incredulita`"; "Signore Gesu', che io veda";
"Signore Gesu`, tu lo sai che io ti amo"; "Signore Gesu`, non la mia ma la
tua volonta`".
La serie e` senza fine.

Cio` che la tradizione bizantina conosce sotto il nome di "Preghiera di Gesu`"


(vedi ad esempio: "Racconti di un pellegrino russo")
non e` che una forma di
questa preghiera monologica, semplice, attorno al nome di Gesu` e ad una frase del
Vangelo, quella del
pubblicano: "Abbi pieta` di me peccatore". L'incessante
invocazione del nome di Gesu`, il ricordo dolcissimo del suo nome
tengono il posto della
presenza stessa di Gesu`.

Tale tradizione la si incontra anche in Occidente; si pensi a S.Bernardo, per cui il


nome di Gesu`, secondo il testo del Cantico
(1,3), e` un "olio diffuso". Le
principali di queste idee sono confluite in forma poetica nel noto inno medioevale "Jesu
dulcis
memoria" <Il ricordo dolcissimo di Gesu`> (vedi nel salterio, alla
festa della Trasfigurazione e del S.Cuore).

Come si vede, tutta questa tradizione interpretava alla lettera i passi del NT "pregare
sempre senza stancarsi" (Lc.18,1) e "pregate
incessantemente"
(1Tess.5,17; Efes.6,18; cf.Rom.12,12; Filip.4,6; Coloss.4,2).

SB e` in questa linea; tutto il suo ordinamento della preghiera intende stimolare


l'ardore dei monaci (cf.fine c.18), lanciarli in una
corsa continua, nel fervore sulla via
della preghiera per arrivare a quella "preghiera senza interruzione" di cui la
preghiera a ore
fisse in comune e` solo un mezzo e una tappa. (DeVogue`).

Ebbene, noi monaci di oggi ci dobbiamo interrogare seriamente su come incarniamo questo
ideale dei nostri Padri. Paolo VI disse
una volta all'abate Braso` che spetta ad altri
nella Chiesa penetrare nelle masse, proclamare il messaggio evangelico in un mondo
secolarizzato; il monaco invece deve sforzarsi di vivere nel monastero la forma piu`
elevata del contatto con Dio e della carita`
fraterna: sono le due grandi dimensioni della
vita monastica. Questo e` il nostro modo di proclamare il Vangelo. Siamo monaci
sopratutto
per questo: per creare un intimo, personale, profondo contatto con Dio. Tutto dovrebbe
essere organizzato in funzione
di questo scopo: la vita di preghiera; questa finalizza
tutte le nostre attivita`: "siamo totalmente per questo - <in hoc toti positi

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

sumus> - dice un antico commentario cistercense della Regola, e l'accento va messo su


quel "toti". Senza di cio` manca la nostra
testimonianza piu` specifica.

Naturalmente cio` non significa che dobbiamo stare tutto il giorno in coro a fare delle
liturgie solennissime o prolisse; una cosa e`
dire che siamo nati per il coro, una cosa e`
dire che siamo nati per la preghiera. Bisogna fare cioe` della vita una preghiera e
della
preghiera una vita, bisogna vivere di preghiera come si vive di aria. E perche`
la preghiera diventi una vita, bisogna abbattere quel
muro di separazione che spesso c'e`
tra il nostro pregare e le nostre attivita`; si tratta di superare in qualche modo la
molteplicita`
delle cose e attraverso le molte cose che facciamo, farne una sola.

Per chi e` convinto di questo, la preghiera non impedisce di essere attenti alle
persone e alle cose; lavoro e preghiera si
intrecciano per formare un tutt'uno,
perche` lo Spirito prega in lui senza fine, la preghiera in lui non e` piu` legata a un
tempo
determinato, e` ininterrotta, e` tutta la vita. Notiamo questo bellissimo testo di
S.Agostino: "Se ti metti a cantare con la voce, verra`
un momento in cui dovrai
tacere" <cum voce cantaveris, silebis aliquando>; ma: "vita sic canta, ut
numquam sileas" <canta con la
tua vita, in modo da non tacere mai> (Esposizione
sul salmo 146,2).

Ma questo non si improvvisa, e` frutto di tutta un'esistenza.

II. CONDIZIONI DELLA PREGHIERA

Notiamo qui solo alcune condizioni che sono primordiali per la preghiera.
Potremmo esprimerle cosi` schematicamente:

1) Nel mondo della fretta, la preghiera esige tempo e calma.

2) Nel mondo dei rumori, la preghiera domanda silenzio.

3) Nel mondo della distrazione, la preghiera domanda capacita` di raccoglimento.

III. ALCUNE DIMENSIONI DELLA PREGHIERA

1. Si fonda sull'evento-Cristo

La preghiera come atmosfera di vita nasce, si fonda e si alimenta continuamente


sull'evento-Cristo, cioe` sul fatto di Cristo
incarnato, morte e risorto. No si
puo' parlare di preghiera al di fuori di questo evento fondamentale. Se pensiamo alla
preghiera
come un gesto, un "fare" dell'uomo, andiamo fuori strada. La preghiera
altro non e` che essere coscientemente, umilmente inseriti
nel fatto-Cristo. E questo gia`
ci e` stato dato nel battesimo. Si tratta di riscoprirlo: infatti lo Spirito di Gesu` per
primo balbetta in
noi la nostra preghiera; allora dobbiamo rientrare in noi stessi,
tornare al centro vero della nostra persona, liberare il cuore dalle
sue scorie, e ascoltare
lo Spirito che gia' prega in noi, lui che dal battesimo abita nei nostri cuori. Un
monaco del nostro tempo,
profondamente riempito e occupato dalla preghiera, ha detto:
"Ho l'impressione che gia` da anni portavo la preghiera nel mio
cuore senza saperlo.
Era come una sorgente ricoperta da una pietra. Allora la sorgente si e` messa a sgorgare e
da allora essa
continua a sgorgare" (riportato da A.LOUF, Signore, insegnaci a
pregare, p.23).

Con questa mentalita` si evita il rischio di pensare la preghiera come un fatto nostro,
ma lo si fonda sull'evento-Cristo, sul fatto
battesimale, si riconosce che e` lo Spirito
che prega in noi con gemiti inesprimibili (Rom.8,26).

2. La preghiera come memoria-presenza-attesa

Rifacendosi al pensiero dei Padri, la teologia post-conciliare afferma che la vita


cristiana nella sua natura profonda, nell'oggi della
Chiesa e del singolo cristiano, e' la
continuazione e il compimento della "historia salutis" <storia della
salvezza>, dal momento
dell'annuncio profetico e tipico dell'AT fino al momento
culminante di piena realizzazione del Cristo pasquale.

Ora questo si deve vedere sopratutto nella preghiera. Preghiera come memoria dei
"mirabilia Dei" <meraviglie operate da Dio>
che per gli ebrei era la
liberazione dall'Egitto, ma per noi e` la memoria della vita, morte e risurrezione di
Cristo e diventa la trama
di tutta la nostra esistenza quotidiana (le meraviglie di Dio in
me, nella mia piccola storia della salvezza). Non si tratta di ricordare
un fatto passato,
"il Sacrificio di Cristo e`, oggettivamente, il significato e la consistenza di tutta
la nostra vita, del cosmo e della
storia, ieri, oggi e sempre. Percio` la memoria diventa
senso della presenza (RB.19-20) di questo "Logos" misteriosamente e
realmente presente ed efficace in noi e nelle cose. E allora questa coscienza
continuamente rinnovata non puo` non trasformarsi
in attesa del suo ritorno, in
desiderio della manifestazione definitiva di Cristo. Mi pare che l'essenziale della nostra
preghiera sia
espresso dall'acclamazione che ripetiamo tutti i giorni durante la Messa:
"Annunziamo la tua morte, Signore,, proclamiamo la tua
risurrezione, nell'attesa
della tua venuta". (M.B.BOGGERO, Appunti sulla Regola di S.Benedetto,
capp.4-7, p.136).

3. Preghiera liturgica

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

A questo punto appare evidente l'importanza di vivere la liturgia: la nostra preghiera


sia o liturgica o agganciata alla liturgia. La
liturgia, essendo proclamazione
attualizzante della Parola e sacramento del mistero di Cristo e percio` sacramento della
storia
della salvezza in atto nella vita della Chiesa, come e` fons et culmen
<fonte e culmine> della vita cristiana (SC.10), lo e` anche
nella vita monastica.
Nella liturgia si trovano unite in una sintesi vivente le varie forme del corpo di Cristo:
il "Corpo Mistico" che e`
la Chiesa; il "Corpo Verbale" che e` la
Bibbia; il "Corpo carnale" che e` l'Eucarestia. Nella liturgia il Corpo Mistico
che e` la Chiesa
si unisce al Corpo glorioso presente nel sacramento e quindi anche al
Corpo Verbale, la Parola di Dio (Magrassi).

In ogni atto liturgico il cristiano - il monaco - per rendere autentica la sua


preghiera deve vivere in piena coscienza il suo "essere in
Cristo" per mezzo
dello Spirito, deve essere convinto che fare liturgia e` esercizio del nostro sacerdozio
battesimale. Dovremmo
educarci a rendere piu` viva, palpitante la nostra Eucarestia e la
nostra preghiera corale, per evitare il rischio della routine, del
formalismo, della
"recita".

Di qui la necessita` assoluta per noi di approfondire la Parola di Dio (cf. piu`
avanti, n.4), in particolare il salterio per la nostra
preghiera comunitaria. Nelle
scuole monastiche del medioevo l'istruzione cominciava sulle pagine del salterio, sul
salterio si
imparava a leggere, a cantare: era come la grammatica di tutto; letti,
meditati, "ruminati", trascritti come esercizio, i salmi erano il
testo su cui
si espletava qualsiasi esercizio scolastico. Dobbiamo oggi rieducarci a questo, dobbiamo
convincerci dell'importanza
dei salmi per la nostra preghiera.

Tutte le meraviglie operate da Dio nella creazione, tutti i suoi comandamenti, tutti i benefici di Dio a Israele, tutto il messaggio
profetico sfociano nei salmi come per capillarita` e diventano preghiera: nei salmi confluisce come preghiera tutta la storia della
salvezza. Appare in essi il dialogo dell'alleanza tra Dio e il suo popolo, un popolo
anche in cammino, in attesa, da cui doveva
uscire, come segno massimo della ricerca di Dio
e della risposta di Lui, Cristo Gesu`. In Cristo infatti i salmi dovevano adempiersi
assieme alla legge e ai profeti (cf.Lc.24,44). E Gesu` prego` i salmi e li assunse come
testimonianza della sua missione. E la
Chiesa legge i salmi alla luce dell'evento-Cristo;
noi usiamo i salmi nella coscienza che il Dio che preghiamo e` il Dio Padre, Padre
del
Signore Nostro Gesu` Cristo che prega i salmi, Padre per tutti noi in cui lo Spirito
grida: "Abba`-Padre" (Gal.4,6). (E.BIANCHI,
Il corvo di Elia, pp.53-55).

Ad evitare che la nostra salmodia sia vuota e arida, dobbiamo dedicare molto tempo allo
studio e alla conoscenza del salterio.

Un altro mezzo (non si parla qui solo della salmodia, ma di tutta la preghiera
liturgica) dobbiamo ricordare per insistervi, mezzo
suggerito dalle norme liturgiche:
quello delle pause di silenzio conosciute dall'antica tradizione monastica (vedi
introduzione alla
sezione liturgica), perche` vogliono essere il momento dell'approfondimento
personale, della necessaria interiorizzazione di
quanto comunitariamente viene
celebrato nell'azione liturgica. Forse e` il momento psicologicamente piu` importante in
una liturgia
che voglia essere autentica preghiera. Infatti la preghiera liturgica,
essendo intessuta di Parola di Dio, e` eminentemente
dialogica: Dio parla - io anzitutto
ascolto.

Per il monaco e` molto importante questa dimensione. La prima parola della RB e`


"Ascolta, figlio" (Prol.1): un'anima monastica
non puo` essere che un'anima in
ascolto; ma ascoltare col desiderio intimo di accogliere la parola e di racchiuderla nel
cuore
perche` possa portare il suo frutto. Dio parla attraverso i testi, la sua Parola
esige un risposta non solo da parte di tutta
l'assemblea che e` in ascolto, ma anche da
parte di ogni singolo, una risposta quindi strettamente personale, individuale. Le
pause
di silenzio, appunto, sono il momento di questa silenziosa risposta di ognuno. Inoltre il
clima contemplativo della liturgia in
genere e di quella monastica in specie, in gran
parte, sara` dato proprio da questi silenzi, dal loro spessore di preghiera. A livello
di
formazione e` importante insistere su questo aspetto, educando a comprendere e a
utilizzare questi spazi di silenzio (I.Sutto).

4. Unione con la lectio divina

Normalmente i momenti di silenzio nella preghiera sono brevi, come con saggia
discrezione vuole la Regola (RB.20,5), proprio
perche` momenti comunitari. Ecco perche`
l'esigenza di un ulteriore tempo per l'approfondimento e l'assimilazione personale della
Parola di Dio che e` stata l'oggetto dell'annuncio, del dialogo e del sacramento durante
la celebrazione liturgica. A questo vuole
provvedere la lectio divina.

La LECTIO DIVINA e` veramente la dottrina monastica sulla preghiera. Si intuisce la sua


importanza nella formazione del
monaco. La Parola di Dio scritta nei libri sacri - lo
sappiamo - non e` stata detta da Dio soltanto nel momento in cui Egli parlo` al
suo
"portavoce", ma e` detta, nel senso piu` forte del termine, da Dio
stesso ogni volta che il testo sacro viene proclamato in
qualunque forma in una
celebrazione liturgica (cf.SC.7; DV.21), perche` "la parola di Dio e` viva, efficace
e piu` tagliente di ogni
spada a doppio taglio; essa penetra..." (Ebr.4,12).

Dunque Dio parla a me, qui, io lo ascolto e gli rispondo: dialogo,


quindi, con una persona viva che mi interpella e mi coinvolge in
una comunione di vita
(cioe` non e` solo un fatto conoscitivo, o uno studio esegetico). L'attualizzazione della
Parola di Dio per me,
hic et nunc, e` il perno della lectio divina: "Oggi si
compie in voi questa Scrittura" (Lc.4,21): il passaggio del Mar Rosso, come la
manna
nel deserto, il vino miracoloso a Cana, come la guarigione del sordomuto... "oggi si
compie in voi". Questa e` la suprema
esegesi.

E' importante questa teologia nella formazione alla lectio e alla preghiera monastica.
(Cf. piu` avanti: Excursus sulla Lectio Divina
in appendice a RB.48).

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

5. Aspetto conoscitivo e comunionale

Possiamo a questo punto comprendere due caratteristiche tradizionali della preghiera


monastica: quella gnostica <conoscitiva> e
quella comunionale.
"Gnosi" in greco significa "conoscenza" ed e` importante nel NT,
sopratutto in Giovanni e Paolo: "... perche`
siate in grado di comprendere quale sia
l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondita` e conoscere l'amore di Cristo
che
sorpassa ogni conoscenza" (Efes.3,17; cf.1,17); "... giungano a penetrare
nella pefetta conoscenza del mistero di Dio, cioe` Cristo,
nel quale sono nascosti tutti i
tesori della sapienza e della scienza" (Colos.2,2-3). Teologia, gnosi, e` la
conoscenza del mistero di
Cristo, dentro le cose, nel mondo e nelle persone. Si tratta
prima di tutto di un atto di fede: il culmine e` saper vedere le persone e
le cose intorno
(prima di tutto in monastero!) come parti del mistero di Cristo che vive nella storia
(BOGGERO, pp.138-139).

Arriviamo cosi` all'altro punto fondamentale, tradizionale della preghiera monastica:


la preghiera come comunione con tutto e con
tutti. Pensiamo sopratutto alla nostra
preghiera comunitaria. Si capisce come per SB non esista una chiara divisione tra
preghiera
liturgica comunitaria e preghiera cosiddetta "privata" (cf. quanto
detto sopra, nei preliminari ai cc.19-20), proprio perche`
quest'ultima (la RB la prevede
esplicitamente in 52,4-5) sara` preghiera fatta in privato, ma sempre preghiera comune in
quanto
inserimento nel mistero di Cristo che, unico, unisce tutti gli uomini.

Si tratta qui di verificarci continuamente. Siamo coscienti che la preghiera e` fattore


di comunione? Riesce essa a informare di se`
tutta la vita comune, il lavoro, i rapporti,
l'aiuto fraterno? La nostra preghiera comunitaria e` liturgia, propria della
"ecclesia", popolo
di Dio "adunato nell'unita` del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo" (S.Cipriano), per celebrare i "magnalia Dei".

Per questo non si fa liturgia vera se non si fa "Koinonia", comunione vera;


la celebrazione liturgica e` il momento in cui la
comunione si crea e si cementa, come
anche il momento in cui se ne fa la verifica. Ricordiamo quanta importanza SB
(diversamente da Cassiano e da RM) da` al fatto comunitario, seguendo in questo la
tradizione di Basilio e di Agostino: la
comunita` monastica ad immagine della prima
comunita` cristiana di Gerusalemme. E questo si "sente" se esiste in una
comunita`
orante. Rendiamoci conto che non puo` esserci autentica preghiera, anche
"privata", se non arriviamo ad essa impegnati
seriamente in uno sforzo di
costruzione comunitaria, cioe` vivendo rapporti di vera carita`.

6. Preghiera umile

Mettiamo ancora un'altra caratteristica fondamentale della preghiera monastica: l'umilta'.


Sappiamo l'importanza che da` SB a
tutto il cammino dell'umilta`, vista proprio come
itinerario spirituale del monaco (cf.RB.7). La preghiera ci e` donata in Cristo, non
viene
da noi, in fondo anche quel poco di coscienza che ne abbiamo viene da Dio; quindi
sottolineiamo questa gratuita` dal parte
del Signore.

Ma la preghiera del monaco e` umile sopratutto perche` siamo poveri, perche` siamo
peccatori; nonostante tutta la ricchezza di
Parola, di Sacramento, di comunione che ci e`
data, continuamente cadiamo in infedelta`, nella incoerenza piu` grossolana, e ci
adagiamo
in una meschina mediocrita`. Come appare da SB (RB.20,3), la preghiera del monaco ha come
modello la preghiera
del pubblicano (Lc.18,9-14), cosciente della maesta` e della
grandezza del dono di Dio; ma appunto per questo, e tanto piu`,
cosciente della propria
miseria e indegnita`. Senza coscienza della propria miseria, non puo` esserci
approfondimento del mistero
di Cristo; e la lode, il ringraziamento non possono scaturire
che da una preghiera umile, da un cuore contrito. Ricordiamo che SB
parla ripetutamente di
compunzione e di lacrime nella preghiera (RB.4,57; 20,2-3; 52,4).

7. Accento sulla preghiera di lode e di ringraziamento

Un'attitudine ritengo debba essere posta in evidenza nella nostra preghiera monastica.
Si sa che la preghiera e` anche petizione;
Gesu` lo ha insegnato chiaramente nel
Vangelo (Mt.7,7; Lc.11,5-11; si veda sulla preghiera di domanda un interessantissimo
capitolo in E.BIANCI, Il corvo di Elia, pp.105-117).

Pero` dobbiamo porre l'accento maggiormente sulla preghiera di adorazione e di lode,


che e` la forma piu` alta della preghiera di
amicizia, intessuta di un dialogo di amore.
Si sa che per molta gente pregare significa solo chiedere (anzi spesso ci si ricorda di
pregare solo nel bisogno).

Ebbene, noi abbiamo conosciuto che Dio ci ha amati per primo. Ed e` qui allora che
viene spontanea anzitutto la preghiera di
ringraziamento, "eterno e` il suo
amore per noi" (salmo 135), grido di stupore, di meraviglia. I cristiani sembrano
aver dimenticato
questo sentimento di fronte a Dio; invece dovrebbe essere proprio
l'inizio del nostro guardare a lui: Meravigliarsi di Dio, 'Egli solo
ha compiuto
meraviglie" (salmo 135,4). La componente dell'ammirazione era molto presente nella
nostra spiritualita` medioevale:
"stupor et admiratio" <stupore e
meraviglia>, quante volte ricorrono questi termini nei testi monastici!. Questo
incontrarsi davanti al
panorama meraviglioso della grandezza di Dio e della storia sacra!
Ecco perche` cantiamo al Signore: "Perche` sprecate tanto
tempo a cantare?" ci
dicono a volte. Il canto e` proprio questa esigenza fondamentale della lode, e` dire a Dio
tutta la gioia che
proviamo davanti alla sua bellezza. E notiamo che e` un passo ancora
piu` avanti lodare Iddio non solo per i suoi benefici, ma per

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

se stesso, per la sua


grandezza e la sua bellezza: "Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa,
<propter magnam gloriam
tuam>, diciamo nel Gloria della Messa.

La liturgia e` piena di questa dimensione, sopratutto i salmi e i cantici


biblici che usiamo nel nostro Opus Dei; l'atteggiamento
prevalente nei salmi e` proprio
quello della lode: "Sognore, nostro Dio, quanto e` grande il tuo nome su tutta la
terra!" (salmo 8,2);
"I cieli narrano la gloria di Dio e l'opera delle sue mani
annunzia il firmamento" (salmo 18,2); "Lodate il Signore con la cetra, con
l'arpa a dieci corde a lui cantate; cantate al Signore un canto nuovo, suonate la cetra
con arte e acclamate" (salmo 32,2-3);
"Cantate al Signore, benedite il suo
nome..., in mezzo ai popoli raccontate la sua gloria..., grande e` il Signore e degno di
ogni
lode" (salmo 95,2.3.4); "Esaltate il Signore nostro Dio, perche` e`
santo" (salmo 98,3.5.9); "Grande e` il Signore e degno di ogni
lode, la sua
grandezza non si puo` misurare... Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i
tuoi fedeli" (salmo 144,3.10).
Cosi` tutti i salmi alleluiatici, in particolare il piccolo
Hallel, cioe` i salmi 145-150 che iniziano tutti con la parola "Lodate..."
("Lodate
il Signore, e` bello cantare al nostro Dio, dolce e` lodarlo come a lui
conviene", salmo 146,1), fino al grande inno universale di
lode, grandiosa dossologia
finale del salterio, il salmo 150, in cui ogni emistichio comincia con la parola
"lodate..., lodatelo...".
Cosi` ancora in cantico dei tre fanciulli nella
fornace: Dan.3,52-90.

Impossibile fare un elenco di tutti i testi della Scrittura. Insomma, questa della lode
e` la piu` alta forma di preghiera (anche
perche` la piu` disinteressata e gratuita) e su
questa dovremmo educarci, in modo da offrire al Signore nei nostri cori monastici
sopratutto questo "sacrificium laudis" <sacrificio di lode> (salmo
49,14).

IV. ELEMENTI CLASSICI DELLA TECNICA CRISTIANA DELLA PREGHIERA

Come utile complemento a questo excursus sulla preghiera, diamo un cenno su alcuni
elementi classici della tecnica cristiana
della preghiera, riassumendoli dall'opera di
A.LOUF, Signore, insegnaci a pregare, pp.83-120. Tali elementi si ritrovano nella
maggior parte delle varie esperienza di preghiera, sia nei testo del NT, sia nei mistici
moderni; si incontrano anche nella mistica
non cristiana. Si potrebbe supporre allora che
questi elementi formino una specie di base naturale umana, su cui e` piu` facile che
si
sviluppi la preghiera. Naturalmente tutte queste "tecniche" sono al servizio e
dipendono dall'azione dello Spirito Santo e devono
diventare segno ed espressione della
nostra morte e della nostra risurrezione con Cristo.

Questi elementi sono: Celibato, solitudine e silenzio, veglia, digiuno,


sull'esempio di Gesu` il quale non era sposato, aveva una
preferenza per la solitudine,
passava molte notti in preghiera, digiuno` per quaranta giorni nel deserto.

1. Celibato

Il celibato e la verginita` sono al servizio della preghiera (1Cor.6,17; 7,32-34),


cosi` pure l'astinenza periodica dalle relazioni
sessuali nel matrimonio "... di
comune accordo e temporaneamente per attendere alla preghiera" (1Cor.7,5). Infatti
anche nella
vita sessuale vi e` una dinamica che deve essere liberata a vantaggio dello
spirito e della preghiera.

L'uomo e la donna secondo la Bibbia sono creati ad immagine di Dio (Gen.1,27) e nei
loro dati specifici di mascolinita` e
femminilita` rappresentano l'amore di Dio; la
pienezza dell'amore di Dio e` normalmente resa e vissuta nell'unione dei due: nel
Signore
- dice S.Paolo - ne` la donna e` senza l'uomo, ne` l'uomo senza la donna (1Cor.11,11). In
via generale l'uomo trova
equilibrio e pace nel legame con l'altro sesso, che per lui e`
la sua seconda "meta`' dell'immagine di Dio. Ora, ogni forma di
astinenza sessuale
rende disponibili le forze interiori mobilitate in una vita sessuale normale. Allorche`
poi uno sceglie
volontariamente il celibato per amore di Cristo e della preghiera, avviene
qualcosa nel suo corpo e nella sua dinamica sessuale
che tende a ristrutturare tutta la
sua persona e a favorire la sua preghiera e l'unione con Cristo Gesu`.

Se cosi` non fosse, il celibato avrebbe il grande rischio di una immaturita` affettiva
(e puo` succedere in molti); invece anche il
celibato fa appello alla dinamica sessuale
dell'uomo o della donna: deve essere la prova vissuta che l'amore di Dio appaga tutto.
E
diviene una vera tecnica di preghiera nella grazia dello Spirito Santo; perche` il
rinunciare ad esprimere con il matrimonio
l'attrazione verso l'altro polo della propria
personalita`, attrazione voluta dal creatore, libera nel piu` profondo del nostro essere
il
valore spirituale di cui l'altro polo e` il segno. Il celibato puo` aprire cosi` la via
verso la preghiera. S.Paolo lo sottolinea
vigorosamente in 1Cor.7,35, quando consiglia il
celibato perche` da` la possibilita` di (traducendo letteralmente) "intrattenersi
lungamente con il Signore senza essere frastornati da Lui". E` forse questa la
migliore descrizione di cio` che la preghiera e`
chiamata a divenire.

L'espressione paolina rievoca l'immagine di Maria seduta ai piedi di Gesu` per


ascoltare la parola senza lasciarsi distogliere dalle
varie faccende domestiche
(Lc.10,39). "L'uomo e la donna attraverso il celibato e la preghiera ritrovano cosi`
l'altra loro "meta`" in
Dio..., finche` Dio sia tutto in tutti
(1Cor.15,28) nell'uomo come nella donna; finche` il loro corpo non sia spirito, pur senza
mai
cessare di essere corpo, ma divenuto ormai tempio dello Spirito e casa di
preghiera" (A.LOUF, p.91; ma si legga tutto il paragrafo,
che e` bellissimo, su
celibato e preghiera, pp.84-92).

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

2. Solitudine e silenzio

Quando Gesu` voleva pregare, spesso si separava dagli altri e si appartava in luoghi
solitari, montagna o deserto (Mc.1,35; 1,45;
6,31; Mt.14,13; Lc.4,1; 4,42; 6,12); pare che
egli veda un certo nesso tra solitudine e preghiera.

Vediamo oggi che l'uomo di citta` desidera, a fine settimana o almeno una volta l'anno,
appartarsi un po` dal mondo, dal quale si
sente sempre assediato. Vi sono poi certe
categorie di persone o certe situazioni che esigono una particolare solitudine, ad
esempio
l'artista, il pensatore, gli innamorati. Molto piu` profonda e` la visuale di colui o di
colei che cerca la solitudine in vista
della preghiera; la solitudine e il silenzio
costituiscono l'ambiente in cui la parola di Dio trova la sua piena risonanza. Ci si
ritira per
attendere a Dio, "vacare Deo". Pensiamo ai termini dei primi eremiti:
"anakoresis" = ritiro; "esykia" = quiete (da cui il termine
'esicasmo'); "shelyo" in siriaco = inazione; "quies" = riposo.

Ogni genere di solitudine ci fa riflettere su noi stessi e su Dio, sulla nostra estrema
poverta` e sulla misericordia di Dio. E` risaputa
tutta la teologia e il simbolismo del
deserto presso i Padri e gli antichi monaci (aspetto che oggi si molto riscoprendo).
Come il
popolo di Dio fu provato e formato nel deserto durante quarant'anni, cosi` anche
Gesu` fu condotto nel deserto per esservi tentato
e per imparare e insegnare a non vivere
solamente di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Chiunque cerca la
solitudine in vista della preghiera partecipa di questa grazia.

Il deserto e` proprio un itinerario spirituale: e` il luogo della tentazione e della


prova per eccellenza (vedi per il popolo ebraico, per
Antonio il Grande e gli altri
anacoreti); il luogo in cui l'uomo esperimenta la propria pochezza e nullita`, la
temporaneita` e la
provvisorieta` delle cose create e di questo mondo; il luogo in cui
l'uomo scopre la propria verita`, in cui e` messo a confronto con
la tentazione della
noia, della depressione, del desiderio di evasione (la tentazione classica della
"acedia" <accidia>; e allora
l'uomo si abbandona a Dio: ecco quindi il
deserto come luogo di purificazione della fede, e come manifestazione di Dio, (vedi
Abramo, Mose`, Elia...), come luogo di incontro particolare e intimo col Signore:
"Ecco, la attirero` a me, la condurro` nel deserto e
parlero` al suo cuore"
(Osea 2,16-17).

La Chiesa fa ancora in molti modi l'esperienza della solitudine nella sua situazione di
diaspora in mezzo al mondo; pellegrina sulla
terra, deve imparare ad andare avanti solo
per fede, a fondarsi solo sulla Parola di Dio, sui suoi segni (i sacramenti). Cosi` ogni
cristiano, sopratutto alcuni per una vocazione speciale nella Chiesa, devono lasciar posto
nella loro vita spirituale al deserto. In
questo senso solitudine e silenzio sono
luoghi privilegiati dell'incontro con Dio nella preghiera. (Vedi tutto l'argomento
"il deserto
come terra spirituale" in E.BIANCHI, Il corvo di Elia,
pp.153-171).

3. Veglia

Quando Gesu` si apparta per pregare, lo fa preferibilmente di notte (Lc.6,12;


9,18; 22,45) ed esorta i discepoli a "vegliare e
pregare" (Mt.25,41). Il suo

esempio e` stato seguito dai cristiani; la veglia notturna e` un dato universale nel
cristianesimo, sia praticata in comune nella
liturgia, sia in privato nell'ascesi
personale. Qual'e` il significato della veglia per la preghiera?

Prescindiamo da certe risposte che sono pur valide, ma non attingono al mistero
cristiano della veglia, per esempio che la notte
porta maggiore calma per pregare, che il
silenzio notturno della natura aiuta a rientrare in se stessi, che l'oscurita` aiuta a non
distrarsi... Ma piu` profondamente bisogna inserire la tecnica della veglia nella dinamica
del mistero di Cristo. La Chiesa e` tutta
tesa verso il ritorno di Cristo e la venuta
del suo Regno; Gesu` viene chiamato "Colui che era, che e` e che viene"
(Apoc.1,4),
abbraccia i tre momenti del tempo: passato, presente e futuro. Ma poiche`
Gesu` e` sempre in procinto di venire, la Chiesa deve
vegliare senza interruzione; essa e`
vigile per attendere il suo Signore e Sposo: "Vegliate, dunque,..."
(Mc.13,35-37). Sappiamo
che la sua venuta coincidera` con una grande prova; ecco perche`
la preghiera si accompagna alla vigilanza "per non cadere in
tentazione"
(Mt.26,41).

La preghiera di veglia e` dunque orientata verso la duplice realta` della fine dei
tempi: il ritorno di Gesu` e la grande prova che la
precede. La forza della
veglia risiede nella forza della preghiera che lo Spirito ci insegna e pronuncia in noi
"Maranatha" <vieni,
Signore Gesu`> (Apoc.22,20): e` la preghiera
della sposa che attende lo Sposo (Mt.25,10).

Ogni cristiano ha la vocazione particolare di consacrare alla preghiera una certa parte
della notte; per i monaci, poi, cio` e` stato
sempre una tradizione e una esigenza. La
durata ha poca importanza; anche una veglia brevissima - che consistera` nell'andare a
riposo un po` piu` tardi o alzarsi un po` piu` presto - e` opera dello Spirito Santo in
noi e puo` produrre frutti di preghiera.

4. Digiuno

L'assenza di Gesu` e la nostra perseveranza nell'attesa della sua venuta si esprimono


anche in un altro modo nella nostra vita: il
digiuno. "... Lo Sposo verra`
loro tolto e allora digiuneranno" (Mt.9,14-15). Il digiuno del cristiano e` il segno
che Gesu` viene e che
la grande prova e` gia` alle porte.

Anche per Gesu` la grande prova nel deserto e` andata di pari passo col digiuno, e
supero` la tentazione solo armato della Parola
si Dop (Mt.4,1-11); la solitudine, la
veglia, il digiuno furono per lui, uomo di questo mondo, la scuola dove apprese a pregare.
Cosi` per il cristiano: il digiuno e` in rapporto con la preghiera; colui che digiuna
vuole significare nel suo corpo come l'uomo non
viva solamente di pane, ma di ogni parola
che esce dalla bocca di Dio (Deut.8,3; Mt.4,4); viene il giorno poi in cui lo Spirito fa

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

nascere la fame e la sete del Dio vivente, dominando la nutrizione materiale:


"L'anima mia ha sete di te..."(salmo 41,2; 62,2) e
solo Gesu` sazia: "Chi
ha sete venga a me e beva..." (Giov.7,37-39).

Ecco come vanno visti questi elementi classici della tecnica cristiana della preghiera
applicati al monaco: il celibato lo rende
"libero per il Signore"; nella solitudine
e nel silenzio egli esperimenta tutto l'itinerario di fede, dalla sua pochezza e
nudita` alla
misericordia di Dio che lo chiama a un colloquio intimo con lui, cuore a
cuore; con la veglia quasi supera il tempo e assomiglia agli
angeli che giorno e
notte contemplano il volto di Dio; con il digiuno e` messo in grado di vivere nel
suo proprio essere la fame
profonda di tutta la creazione in attesa (Rom.8,19), fame che
non puo` mai essere appagata in un corpo, fame che lo Spirito solo
puo` saziare.

CONCLUSIONE

Gli antichi monaci hanno avuto il continuo pensiero della preghiera, erano quasi
"ossessionati" - potremmo dire - dall'ideale della
preghiera continua. SB parla
di "oratio pura" e di "puritas cordis" (RB.20,1.3.4) e, come gia`
detto nel commento, dipende in cio`
da Cassiano. Cassiano chiama "pura"
l'orazione di chi ha raggiunto la "puritas cordis", cioe` la perfetta purezza
del cuore
attraverso un cammino di ascesi, di purificazione da ogni peccato. Questa
purificazione e` la condizione perche` lo Spirito Santo
possa infondere nel cuore la
carita` perfetta, come dice anche SB al termine della scala dell'umilta` (RB.7,67-70). E
la carita`
perfetta si esprime nell'"oratio pura" che ha varie forme, secondo
Cassiano, sempre piu` alte fino alla famosa oratio ignita
<preghiera di
fuoco> (Coll.9,25) o quella ancora piu` perfetta secondo Antonio, del monaco che non
ha piu` coscienza di pregare
(Coll.9,31). Tale preghiera e` una risposta alla
Parola di Dio sperimentata come "propria" perche` attualizzata nella propria
vita,
come dice espressamente Cassiano in testi molto belli (Coll.14,9-10; 10,11).

Non si tratta quindi di contemplazione di tipo platonico, ma di autentica esperienza di


Dio a cui SB vuole condurre il suo monaco
"cercato da Dio" tra la folla
(Prol.14) e quindi "cercatore di Dio" lui stesso (RB.58,7), come risposta a
quella chiamata.
Commentando il salmo 14, SB invita il monaco a meritare di entrare nella
"tenda del Regno" (Prol.21.23.24.39). Ricordiamo che
c'e` l'allusione alla
"tenda del convegno" dove Mose` si intratteneva con Dio "bocca a
bocca" (Deut,34,10); inoltre in tutta la
tradizione patristica il salmo 14 era visto
come espressione della vocazione monastica: il monaco quindi e` chiamato ad arrivare a
quella esperienza forte di Dio, come Mose`.

Per il NT pero` la "vera" tenda del convegno (di cui quella dell'Esodo era
figura) e` l'umanita` assunta dal Verbo nell'Incarnazione
perche` egli "ha posto la
sua tenda in mezzo a noi" (Giov.1,14). "Nel Verbo fatto carne, cioe`, e`
avvenuto l'incontro definitivo
dell'uomo con Dio, e il Lui soltanto ormai ogni uomo puo`
incontrarlo. Il monaco, chiamato in modo singolare a questo incontro,
anzi a fare della
ricerca di quest'incontro il suo unico interesse, l'unico scopo della sua vita, e`
invitato ad entrare in questa tenda,
a "dimorarvi" (Prol.39) per mezzo
dell'ascolto orante della Parola, nella sequela dell'obbedienza della fede, sino alla
partecipazione piena al mistero della Pasqua (Prol.50), nel momento sacramentale della
liturgia e poi nella vita, che in tal modo si
va facendo "nuova",
"cristiforme" per opera dello Spirito donatogli da Cristo Signore.

Nel vangelo di Giovanni Cristo stesso promette l'esperienza di Dio, quando parla di un
suo "manifestarsi" a colui che, traducendo
il proprio amore in obbedienza ai
suoi precetti, diviene dimora del Padre e del Figlio (Giov.14,21.23); e quando
solennemente
afferma: "Questa e la vita eterna, che conoscano te, l'unico vero
Dio e colui che hai mandato Gesu` Cristo" (Giov.17,3). In quel
verbo "conoscere"
sappiamo che e` sottesa tutta la ricchezza e la profondita` dell'ebraico "jada",
intraducibile nelle nostre lingue:
un conoscere, frutto di amore, un penetrare
vitale, un mutuo possedersi come quello degli sposi (infatti e` il verbo usato dalla
Scrittura anche per il mutuo donarsi sponsale). E` quel conoscere sapienziale di cui
parlano tanto spesso le lettere di Paolo
(Efes.3,19; Filp.3,10; Coloss.1,10; 2,2-3; 3,10
ecc.), oggetto dell'appassionata preghiera dell'Apostolo per i suoi cristiani,
conoscenza
che si identifica chiaramente con la fede adulta di ogni fedele, non privilegio di anime
di eccezione.

Questa e` la sostanza dell'"oratio pura" additata dalla Regola al monaco come


la "sua" preghiera. Questa e` la "contemplatio",
ultimo momento della
lectio divina (I.Sutto).

***

NOTA BIBLIOGRAFICA
(testi usati per questo excursus sulla preghiera monastica)

BIANCHI, E. Il corvo di Elia, Gribaudi, 5.ed., Torino 1977.

BOGGERO, M.B. Appunti sulla Regola di San Benedetto (capitoli 4-7), pro
manuscripto, Fabriano 1979, pp.135-143.

CABITZA, I. L'ascolto del monaco Rosano 1979, pp.129-140.

COLOMBAS, G. La Regla de San Benito, Madrid 1979, pp.345-362.

DE VOGUE, A. La Regle de Saint Benoit, vol.II, Parigi 1977, pp.184-189.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

LOUF, A. Signore, insegnaci a pregare, Marietti, Casale 1976.

MAGRASSI, M. Preghiera, liturgia, lectio divina, Faenza 1970.

MARMION, C. Cristo ideale del monaco, conferenze XIV-XV-XVI.

PENCO, G. - VAGAGGINI, C. La preghiera...", Ed.Paoline, Roma 1964.

SUTTO, I. La comunita` monastica, scuola di preghiera. Formazione dei suoi membri,


Relazione al Convegno monastico di
Collevalenza, Luglio 1981, in: AA.VV. Monastero:
scuola di preghiera, Parma 1983, pp.25-46.

CAPITOLO 21

I decani del monastero

De decanis monasterii

RB.21; 31; 65: I collaboratori dell'abate

Dopo la sezione spirituale (RB.4-7) e il codice liturgico (RB.8-20), passiamo a


considerare la terza parte della Regola (RB.21-72)
come sezione disciplinare, anche se non
possiamo pretendere una divisione e uno schema troppo precisi (cf. Introduzione
generale:
3. Struttura e divisione).

Abbiamo gia` visto come nella mente di SB la costituzione organica del cenobio poggia
sul carisma abbaziale: all'abate SB affida
la direzione ultima di tutte le cose del
monastero, principali e secondarie, materiali e spirituali (RB.2 e 64), anche se egli
viene
esortato a servirsi del consiglio dei fratelli (RB.3).

Ora, senza rinunciare alla responsabilita` ultima e principale di quanto accade nel
monastero, proprio per la complessita` del suo
ufficio, l'abate della RB deve
necessariamente dividere i suoi pesi con vari collaboratori.

Trattiamo, qui di seguito, dei decani (RB.21), del cellerario (RB.31) e


del preposito o priore (RB.65).

Preliminari al capitolo 21

Decanus <decano> o decurio <decurione> era chiamato


nell'esercito romano chi era a capo di una "decuria" o "contubernium",
cioe` un gruppo di dieci soldati; cosi` era divisa la "centuria" (=100 soldati),
con a capo un "centurione". Pero` i monaci antichi, per
l'organizzazione in
decanie non si rifanno all'esercito romano, ma sopratutto alla Scrittura (Esodo). La fonte
a cui attinge SB e` la
tradizione monastica egiziana ampiamente attestata da S.Girolamo
(Epistola 22,35), S.Agostino (Costumi della Chiesa cattolica
1,67) e sopratutto da
Cassiano (Inst.4,7.10.17): i cenobiti egiziani erano ordinati a gruppi di dieci sottoposti
ciascuno a un decano;
il complesso di dieci decurie stava alle dipendenze di un capo
superiore ("centesimus"). Cassiano non usa mai la parola "decano",
ma
"praepositus" <preposito> (come fara` la RM) o "senior"
<seniore>.

Secondo la RM (c.11) i prepositi (= i decani della RB) sono dei guardiani perpetui e
minuziosi (difatti ne vengono prescritti due per
ogni decania, mentre cio` non appare
nella RB) il cui primo dovere consiste nello stare sempre con i fratelli e vegliare su
ogni loro
difetto e riprenderli immediatamente con avvertenze appropriate citando la
Scrittura. Certo, al lettore moderno desta meraviglia il
vedere applicato ad adulti un
sistema di vigilanza che oggi non si concepisce nemmeno per i fanciulli! (DeVogue).

Nella RB l'incarico di un decano e` di piu` largo respiro, piu` pedagogico e piu`


spirituale, come appare dalle qualita` richieste
(vv.1-4).

1-4: Nomina, qualita` e ufficio dei decani

La necessita` di ricorrere a decani si avvera solo quando la comunita` e` alquanto


numerosa (cioe` - considerando che SB parla
sempre di decanie al plurale - non al di sotto
di una ventina di membri). SB in questo capitolo ha certo presente, come Cassiano
(Inst.4,7), l'episodio di Ietro che consiglia a Mose` di procurarsi degli uomini di buona
fama e timorati di Dio che lo aiutassero nel
giudicare il popolo (Esodo 18,21 e parallelo
Deut.1,13), ma piu` ancora l'elezione dei primi diaconi (Atti 6,1-3).

Abbiamo nel testo tre volte la parola "elegantur" e una volta la parola
"constituentur". Da chi erano scelti i decani? Certo non si
puo` pensare
ad una elezione da parte della comunita` con valore deliberativo anche contro il volere
dell'abate; e` troppo chiaro
da tutta la Regola che, per conservare la pace e l'unione,
l'organizzazione dipende dall'abate. Dunque era certamente lui a
costituire i decani; ma
non puo` escludersi da testo e dal contesto che nella scelta entrassero anche altri membri
della comunita`;
o i monaci presentavano i candidati, oppure l'abate consultava alcuni
fratelli "timorati di Dio" (RB.65,15).

Come si diceva sopra, l'incarico di decano in RB, a differenza di RM, e` piu` pedagogico e spirituale. Si esige anzitutto che siano
"stimati", letteralmente "di buona riputazione" <boni testimonii fratres>, espressione tratta da Atti 6,3 a proposito dei diaconi;

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inoltre che siano di "santa vita monastica" <sanctae conversationis>. Piu` sotto, al v.4, abbiamo una coppia di qualita`
richieste per
chi deve essere ordinato abate (RB.64,2): vitae meritum et sapientiae
doctrinam <santita` di vita e dottrina spirituale>. Il significato
e` evidente:
che l'abate "possa condividere con loro tutti i pesi suoi" (v,3), (l'espressione
richiama Esodo 18,22), compresa la
responsabilita` spirituale: insegnare le vie di Dio ai
fratelli loro affidati.

5-7: Provvedimenti in caso di decani indegni .....

Abbiamo anche un'anticipazione del codice penale (che inizia al c.23), per il caso dei
decani indegni che montassero in superbia;
per i monaci l'ammonizione era duplice
(RB.23,2), per i decani e` triplice.

7: ..... o di priore indegno.

Improvvisamente appare la menzione del "presposito", quello che oggi si


chiama priore. SB, influenzato dalla mentalita`
pacomiana, preferisce certo
l'organizzazione del monastero in decanie (RB.65,12); e` probabile che quando scriveva il
presente
capitolo non pensava ancora all'istituzione del priore; costretto poi
dall'esperienza e dall'uso, lo avra` permesso; e allora avra`
aggiunto questa postilla
(v.7) al c.21. Piu` tardi ancora, meglio ammaestrato dall'esperienza, sara` stato inditto
a scrivere il c.65; si
osservi infatti che li' prescrivera` quattro (e non tre)
ammonizioni per il priore (RB.65,18).

Oggi .....

Oggi alcune mansioni degli antichi decani sono raccolte nel priore (o vice-priore);
altre sono ripartite tra gli officiali del monastero,
sopratutto economo, maestro dei
novizi, ecc. Il senso della corresponsabilita` poi e` inculcato dalla mentalita` nuova
della Chiesa
e dall'importanza del capitolo di famiglia. (Talvolta i decani si usano
soltanto per i gruppi di novizi o di giovani monaci nel periodo
di formazione).

CAPITOLO 31

Quale debba essere il cellerario del monastero

De cellarario monasterii qualis sit

Preliminari

"Cellerarius" viene da "cella", termine che nella RB ha


molti significati, secondo il contesto e il genitivo che lo accompagna; puo`
essere: il
"dormitorio" (RB.22,4), l'"infermeria" (RB.36,7), la
"foresteria" (RB.53,21), il "noviziato" (RB.58,5), l'"abitazione
del
portinaio" (RB.66,2). Nella parola "cellerario" la radice
"cella" allude al magazzini delle provviste, alla dispensa (chiamata
"cellario"
solo in RB.46,1).

Presso gli antichi, si chiamava "cellario" il servo di fiducia che custodiva


i viveri e li distribuiva agli altri conservi (a cio` si allude in
Mt.24,45 e Lc.12,42).
Piu` tardi nelle famiglie principesche ci sara` il "maggiordomo".

In SB il "cellararius" (nei monasteri si dice oggi "cellerario",


"camerlengo" o "economo") e` il monaco a cui e` affidata la cura dei
beni materiali del monastero e che pensa a distribuirli ai fratelli e a quanti altri
beneficiano del patrimonio del monastero: ospiti e
poveri.

Al tempo di SB era senza dubbio un personaggio importante. Ricordiamo che la Regola


vuole che l'abate non si preoccupi troppo
dei beni materiali (RB.2,33-36), ma pensi
sopratutto al suo ufficio spirituale. Percio` alle cose temporali ci deve pensare il
cellerario. Ma lo deve fare in modo religioso e spirituale: il suo modo di agire in questo
campo influisce molto sulla pace e
sull'armonia della comunita` intera. Questo appare
chiaro dal c.31, che e` uno dei piu` belli di tutta la Regola (completamente
diverso dallo
stile della RM); piu` che un elenco di obblighi derivanti dall'ufficio, vi troviamo
delineata l'immagine ideale del monaco
che ha questo incarico; e` un piccolo trattato di
spiritualita` in cui l'interesse psicologico e morale domina e anima tutte le
prescrizioni
di carattere pratico.

1-2: Doti del cellerario

Abbiamo anzitutto un elenco di qualita` che il cellerario deve coltivare e di vizi che
deve evitare. L'espressione non tardus, che
alcuni traducono "non indolente,
non pigro", forse si interpreta meglio - sopratutto per la vicinanza con
"prodigo" - nel senso della
lentezza di chi da` a stento, di malavoglia, quindi:
non avaro, non gretto.

"Sia come un padre": il cellerario e` il braccio destro dell'abate per cio`


che riguarda sopratutto gli interessi e i bisogni temporali.
Percio` SB vuole uno che
sappia avere cuore e volonta` di padre, come vuole per l'abate; difatti molte cose di
questo "direttorio"
del cellerario riecheggiano quello dell'abate descritto nel
c.64; e vi arieggia in genere lo stile della Prima Lettera a Timoteo (specie
c.3) e della
Lettera a Tito.

"Si nomini". Da parte dell'abate; ma anche qui, come per i decani, non si
puo` escludere un qualche intervento da parte della
comunita` (o un consiglio o la
presentazione di alcuni candidati).

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3-16: Ufficio del cellerario: rapporti con abate, fratelli, cose

Il cellerario deve essere come un padre per tutta la comunita`, quindi deve
preoccuparsi di tutto e di tutti (v.3), sopratutto avere
una cura speciale per i piu`
deboli: malati, fanciulli, ospiti, poveri (v.9). Una virtu` che gli viene molto
raccomandata e` l'umilta`
(vv.7.13.16), che dimostrera` nel non contristare i
fratelli (v.6): la sentenza e` l'eco di una massima degli antichi Padri: "non
contristare il tuo fratello, giacche` sei monaco" (Vitae Patrum, 3,170); nel non
disprezzarli nel caso che debba negare loro
qualcosa (v.7): l'espressione e` presa da
S.Agostino: "A chi non puoi dare cio` che ti chiede, non mostrare disprezzo; se puoi
dare, da`; se non puoi, dimostrati affabile (Esposizione sul salmo 103,1.19); non potendo
concedere la cosa richiesta, risponda
con una buona parola, secondo il libro del Siracide
18,17 (v.14); la razione di cibo che deve dare, la dia senza arroganza ne`
indugio (v.16),
cioe` senza farla piovere dall'alto, dandosi l'aria di padrone che, bonta` sua, "si
degna" di dare agli altri.

SB giunge a ricordare al cellerario la minaccia di Gesu` contro chi provoca scandalo:


non e` poca cosa far soffrire i fratelli per il
cibo e metterli nella condizione di
adirarsi o di lamentarsi. Come all'abate, poi, SB ricorda al cellerario il giudizio di Dio
(v.9) e la
ricompensa che lo aspetta, citando da 1Tim.3,13 (v.8).

Riguardo alle cose del monastero, le consideri come "vasi sacri dell'altare"
(v.10): e` un'idea molto viva nella tradizione monastica
(S.Basilio, Reg.103-104;

Cassiano, Inst.4,19-20; Regula IV Patrum 3.28-29): se il monastero e` la "casa di


Dio" (RB.31,19; 53,22; 64,5), tutto cio` che
contiene e` dedicato al servizio di Dio,
e` sacro; alla luce di questo spirito di fede, il cellerario compie quasi un ministero
sacro, in
tal modo il suo ufficio acquista nobilta` inimmaginata.

17-19: Disposizioni in aiuto del cellerario

Se il cellerario ha tanti pesi, e` bene che gli si procuri un po` di respiro.


Anzitutto, se la comunita` e` numeroso, abbia degli aiuti
(v.17) e poi i fratelli devono
ridurre al minimo i fastidi, non importunandolo a tutte le ore, ma in orari stabiliti
(v.18), di modo che
"nessuno - ne` i fratelli ne` il cellerario - si turbi
o si rattristi nella casa di Dio" (v.19): "conclusione mirabile e
giustamente celebre di
un capitolo consacrato alla piu` materiale delle mansioni!"
(DeVogue).

SB ha in odio la tristezza (si ricordi il detto al Goto, in II.Dial.6: "Ecco,


lavora e non rattristarti!"): essa era annoverata dagli antichi
monaci tra i vizi
capitali. Si tratta, evidentemente, di quella tristezza che nasce dallo scontento,
dall'insoddisfazione, dal rancore.
Se il monastero e` l'Eden riconquistato, se e` la
dimora di coloro che, chiamati da Dio, volontariamente hanno scelto Cristo come
unico
scopo dell'esistenza e vivono quindi nella vita nuova dello Spirito, non c'e` posto per
l'acidita`, la scontentezza,
l'insoddisfazione.

E' questo il senso della "PAX" benedettina (lo scriviamo sui nostri
ingressi), termine molto denso che racchiude tanti significati:
essa deve essere
l'atmosfera abituale del monastero.

CAPITOLO 65

Il priore del monastero

De praeposito monasterii

Preliminari

Certo, trattare del priore (RB.65) subito dopo il capitolo sul cellerario (RB.31)
significa notare un cambiamento brusco e totale di
clima spirituale: cambia la
prospettiva, lo stile, il tono. Possiamo dire che SB ha messo tutto il suo cuore a
delineare con cura la
figura del cellerario ideale, il piu` prezioso collaboratore
dell'abate, che pensa alle necessita` materiali - ma come ufficio spirituale -
dei monaci,
degli ospiti, dei poveri.

Parlando del preposito, di questo altro stretto collaboratore dell'abate, SB diventa


veemente e duro; non solo perche` deve
denunciare gravi disordini a tale riguardo nel
monachesimo del tempo, ma proprio perche` non sente - e` chiaro - nessuna
simpatia per
tale ufficio; nella RB il preposito e`, insomma, un collaboratore dell'abate poco
desiderabile e nulla affatto desiderato.

La parola "praepositus" <=posto prima... degli altri) designava il


capo - supremo o subalterno - il primo del gruppo. Nella tradizione
monastica era talvolta
chiamato cosi` l'abate stesso (S.Basilio, Cassiano Inst.6,27; Coll.20,1). Nel secolo VI
era chiamato
preposito il "secondo" (veniva usato anche il termine "secundus"),
il luogotenente dell'abate, il cui ufficio, anche se con nomi
diversi, era tradizionale
nel cenobitismo (Pacomio, Basilio, Cesario, ecc.). In II.Dial.22 Gregorio narra, a
proposito del nuovo
costruendo monastero di Terracina, che SB nomino` "il padre"
(l'abate) e "chi gli doveva fare da secondo".

L'organizzazione del cenobio prevista da SB e` quella di tipo pacomiano con i decani


(come in RB.21): in seguito SB si sara`
dovuto adattare alla tradizione forse piu`
corrente nell'ambiente italiano; ma e` chiaro che lo fa di malavoglia, costretto dalle
circostanze e scrive questa pagina che irrompe nella Regola violenta e inaspettata, subito
dopo il c.64 sull'elezione dell'abate,
cosi` carico di umanita` e di delicatezza. La
comunita` e` gia` stata organizzata in decanie; il nome stesso di preposito appare solo
di
sfuggita in 21,7 - che e` chiaramente un'aggiunta - e in 62,7 (anche qui pare
un'aggiunta). Invece ora dedica al preposito un

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

capitolo intero abbastanza lungo.

1-10: Disordini nell'elezione del priore

La prima parte del capitolo presenta uno stile cosi` vivace e un tono di si` vigorosa
indignazione da far pensare a un'esperienza
che piu` di una volta avra` amareggiato
l'animo di SB. Abbiamo un quadro molto fosco: gravi e frequenti scandali nei monasteri
(v.1); prepositi gonfi di superbia, tirannici (v.2); invidie, liti, divisioni in partiti
(vv.2.7.9)..... Da dove provengono queste disgrazie?
SB ne segnala senza esitazione la
fonte: l'assurdita` che commettevano certi vescovi o abati, ordinando il preposito nello
stesso
tempo in cui ordinavano l'abate. Si sente al v.4 che l'espressione e` forte e
nervosa. Si noti al v.6 il brusco passaggio di discorso
diretto (non sempre reso,
purtroppo, nelle traduzioni) che da` vivacita` alla trattazione: e` l'orgoglio che
suggerisce al priore questo
pensiero: "anche tu sei stato stabilito in carica da
quegli stessi che hanno stabilito l'abate!".

11-15: Disposizioni sulla nomina del priore

Per evitare percio` abusi e per l'unita` del monastero, SB da` all'abate il diritto di
organizzare il cenobio come meglio crede. Si noti
la frase, che e` caratteristica della
Regola benedettina: "tutta l'organizzazione del monastero dipende dall'abate"
(v.11). (Si pensi
anche a tutte le restrizioni apportate oggi dalla Chiesa e dalla
mentalita` nuova, con poteri al capitolo di famiglia, la
corresponsabilita`, ecc...).

SB preferisce il sistema dei decani (vv.12-13); pero` deve ammettere anche la nomina
del priore, ma lo fa con una serie di
condizioni restrittive: "se le condizioni
locali lo richiedono, se la comunita` ne fa umilmente richiesta e se l'abate lo giudica
utile"
(v.14) e sopratutto e` lui, l'abate, che, sia pur consigliandosi, sceglie
liberamente il suo priore (v.15).

16-22: Ammonizioni al priore

Si enumerano quindi pochi doveri del nuovo funzionario. In realta` SB si limita ad


inculcargli con energia la riverenza e l'assoluta
obbedienza all'abate (v.16) e
l'osservanza piu` esatta della Regola (v.17).

Passa invece a descrivere minuziosamente il processo di riprensione nel caso di un


priore superbo, fino alla sospensione
dall'ufficio, dopo quattro ammonizioni, e
addirittura fino all'espulsione dal monastero (vv.18-21). Leggendo queste righe cosi`
insolitamente severe, si ha l'impressione che SB prevede che tali casi possono succedere
con frequenza. Al v.22 c'e` pero` una
clausola per

l'abate: la lite e le passioni di parte potrebbero offuscare anche il giudizio


dell'abate; SB che vuole cosi` alto e retto il padre del
monastero, non ignora che anche
lui e` un uomo; e gli ricorda - al solito - il rendiconto a Dio.

E cosi` il capitolo 65 non parla tanto del priore - come gli altri capitoli che
trattano dell'abate e degli altri officiali del monastero - ma
parla piuttosto contro il
priore; cioe` SB denigra talmente questo ufficio, quasi per scoraggiare dal metterlo in
atto, preferendo
sempre l'organizzazione per decani.

Evoluzione storica

Storicamente il sistema priorale - malgrado questo capitolo di SB - fini` col prevalere


su quello decanale! Nel medioevo fu detto
"praepositus" anche il monaco che
presiedeva all'amministrazione temporale; "prior" invece l'addetto alla
disciplina conventuale.
Oggi il "praepositus della RB si suole chiamarlo
"priore", e piu` precisamente "priore claustrale" (dove c'e` l'abate),
perche` a lui e`
affidata la disciplina interna del monastero; e` chiamato cosi` per
distinguerlo dal "priore conventuale" che e` capo di un
monastero sui
iuris senza avere la dignita` abbaziale.

Nella nostra Congregazione Silvestrina

Nella nostra Congregazione (come in altre, per esempio i Camaldolesi) 'Priore"


e` il superiore, cioe` "prior" sostituisce il titolo di
abate; per cui quanto
detto in questo capitolo si deve intendere del vice-priore.

Conclusione sui collaboratori dell'abate

Secondo la RB i principali collaboratori dell'abate sono dunque i decani (c.21), il


cellerario (c.31), il priore (c.65) con cui l'abate
possa condividere i suoi pesi (ma
naturalmente ci sono anche altri officiali nel monastero: maestro dei novizi, portinaio,
foresterario, ecc...). La piu` grande importanza per la pace e la tranquillita` del
cenobio SB la annette al cellerario, la cui figura
morale tratteggia con singolare
predilezione: un buon economo, fidato, prudente, caritatevole, umile, liberera` l'abate da
una parte
particolarmente dura delle sue responsabilita` (quella materiale ed economica),
in modo che egli possa dedicarsi pienamente al
servizio spirituale dei fratelli.

CAPITOLO 22

Come dormano i monaci

Quomodo dormiant monachi

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Preliminari

Nella RM si parla del dormitorio nel capitolo sui decani nell'ambito della
sorveglianza che essi dovevano esercitare (RM.11,109-
120) e se ne parla anche nel c.29 a
proposito dell'orario e del luogo per dormire. SB ne fa un capitolo a parte (RB.22) subito
dopo
quello sui decani (RB.21), come gia` aveva separato il consiglio dei fratelli dal
capitolo sull'abate (RB.2-3) che in RM sono trattati
insieme.

SB stabilisce tre cose: un letto per ogni monaco, rifare bene il letto alla levata, dormire vestiti e cinti e quest'ultima cosa per tre
ragioni: essere pronti per l'Ufficio
divino alla sveglia; evitare i pensieri impuri e la polluzione, non essere in ritardo
all'Ufficio divino.
SB conserva queste norme modificando qualcosa e abbreviando.

Evoluzione dalla cella al dormitorio, alla stanza singola

RM prescrive un dormitorio unico per tutti; RB una o piu` sale e inoltre luoghi
separati per i novizi (RB.58), i malati (RB.36) e gli
ospiti (RB.53). In tutte e due le
Regole e` scomparso comunque l'uso delle celle separate, uso comune nel cenobitismo
del secolo
precedente (per il significato della cella, cf.Cassiano, Instit.10; Coll.24).

La sostituzione della cella a favore del dormitorio comune avviene alla fine del secolo
V in Gallia (per evitare i vizi della proprieta`
privata, della gola, dell'incontinenza),
e la cosa si nota anche a Costantinopoli. I motivi iniziali dell'abbandono della cella
sono il
lavoro manuale e l'Ufficio divino in comune. In questo cambiamento dalla cella al
dormitorio si deve vedere il fatto piu` importante
della storia del monachesimo antico. La
cella dava al monaco un carattere solitario e contemplativo; il suo abbandono significa
che si lascia questo alto ideale per assicurare la pratica di certe virtu` elementari;
salvare la poverta` e i buoni costumi sembra piu`
urgente che l'orazione incessante.

La scelta per il dormitorio non e` un progresso, ma un palliativo; la vita comune non


e` vista come un ideale superiore, ma come
un rimedio richiesto dalla debolezza dei
costumi. Del resto il sonno preso in comune non e` che un ulteriore atto di una evoluzione
verso una piu` stretta vita comunitaria (si inizio` con la preghiera e il lavoro).
"Tale cambiamento rispetto alla tradizione e` segno di
vitalita` e di robustezza...;
dobbiamo ammirare la liberta` che ci si prende di fronte alla materialita` della
tradizione" (DeVogue).

Quando SB scriveva la Regola (secolo VI), il dormitorio comune era una cosa scontata.
Con l'evoluzione poi nel corso dei secoli,
specialmente per lo sviluppo preso dal lavoro
intellettuale e per le mutate condizioni dei tempi, al dormitorio comune si vennero
man
mano sostituendo le stanze singole, dove ogni monaco non solo dorme, ma prega o
lavora fuori dei tempi e dei luoghi stabiliti
per gli atti comuni.

1-4: Letti e dormitorio

Non ci si meravigli del v.1: la disposizione che oggi sarebbe superflua, e` comune
nelle regole antiche; la rozzezza e la semplicita`
dei costumi esigeva l'esplicita
proibizione che in un solo letto dormissero piu` persone. Qualche regola fissava anche la
distanza
tra un letto e l'altro. L'abate da` l'occorrente per il letto - un pagliericcio,
una coperta leggera, una pesante e un cuscino; lo
sappiamo da un altro passo della Regola
(RB.55,15 - "pro modo conversationis", v.2).Che cosa significa precisamente? La
traduzione piu` comune e`: "secondo il loro genere di vita, secondo le usanze
monastiche", cioe` che l'arredamento del letto non
disdica alla semplicita` e
poverta` della professione monastica.

Pero`, considerando sopratutto un testo parallelo della "Vita Pachomii" 22


(in cui si nota la diversita` di condotta individuale in
seno alla stessa comunita`
monastica), si potrebbe anche intendere: "secondo il grado di fervore della vita
monastica". La
"conversatio" (il modo di condurre la vita monastica) puo`
essere , secondo la Regola, "miserabile" (RB.1,21), puo` essere all'inizio
o
alla perfezione (RB.73,1-2), e` capace di un progresso (RB.Prol.49).A ciascuno di questi
gradi corrisponde una maniera diversa
di usare i beni materiali. Riguardo al letto, il
tenore stabilito dalla Regola (RB.55,15) e` il massimo; ognuno puo` avere bisogno di
meno,
secondo il grado di ascesi raggiunto. "Questa diversita` di osservanza in seno alla
comunita` puo` sembrare estrema al
nostro gusto di uniformita`, ma non per questo e` in
disaccordo con lo spirito del cenobitismo antico, dalle origini all'epoca stessa
di
SB" (DeVogue).

3-4: La lampada accesa di notte, in RM e RB

RM prevedeva che i letti fossero a cerchio intorno al letto dell'abate (RM.29,2-4) e


che la lampada fosse spenta subito dopo che
tutti si erano messi a letto (RM.29,6); per
non sprecare olio, si dice!) e quindi se c'era bisogno di alzarsi di notte, si doveva
parlare.
RB divide la comunita` nel caso fosse troppo numerosa, in vari dormitori secondo
le decanie e vuole che una lampada arda
sempre nel dormitorio; e quindi che sia conservato
il silenzio.

5-8: Modo di dormire e di levarsi

Gli antichi dormivano nudi; pero` i monaci devono dormire vestiti, Come risulta da
RB.55,10 i monaci indossavano di notte una
"tunica" corrispondente quasi alla
nostra camicia e la "cuculla", che non aveva la forma attuale, ma somigliava
piuttosto a
un'ampia tonaca e arrivava al ginocchio o ai piedi. Di questi indumenti se ne
prevedono due per "cambiarsi di notte e per lavarle"
(RB.55,10).

Portavano poi ai fianchi una cintura o corda, richiamandosi anche di notte al precetto
del Signore: "Siano cinti i vostri fianchi..."

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

(Lc.12,35). Per capire tutto il;


v.5, bisogna ricordare che di giorno i monaci portavano una cintura larga di cuoio, detta
"bracile"
(RB.55,19), a cui si appendevano utensili da lavoro. SB avverte che i
fratelli devono, si`, essere cinti anche di notte, ma non di
bracile, bensi` di cinture
semplici, di cordicelle, per evitare il pericolo di portare a letto anche i coltelli e le
roncole, che sono
abitualmente appesi al bracile. Tale pericolo e` descritto nei
particolari da RM.11,112.

(v.6). Stando a letto vestiti e cinti, i monaci erano gia` in ordine per poter
accorrere all'Ufficio notturno. Un po` di pulizia e il
necessario cambiamento degli
indumenti per il giorno, si faceva dopo, forse prima di andare al lavoro. "Cosi` i
monaci siano
sempre pronti...": c'e` in questa frase tutta la spiritualita` della
veglia e dell'attesa del Signore; il tema della vigilanza (Mt.24,42-51;
25,1-13;
Mc.13,33-37; Lc.12,35-48) era cosi` caro al monachesimo antico; tutta la vita monastica
deve essere una vigilia orante,
una perenne attesa del Signore, che e` sempre vicino, ma
che viene sempre, finche` tornera` definitivamente (cf. quanto detto sul
senso della
veglia in vista della preghiera, nell'Excursus sulla preghiera).

(v.7). I letti dei giovani sono alternati a quelli degli anziani (seniori = adulti, o
piu` probabilmente i decani): RB non pensa tanto ai
pericoli per la castita`, piuttosto
alla dissipazione e alla pigrizia.

(v.8). Alla levata i monaci si esortino vicendevolmente. SB e` condotto da due


principi: la carita` fraterna (relazioni orizzontali che
mancano in RM) e il ritegno nel
parlare. I monaci vengono consigliati non solo ad emularsi nell'accorrere all'Ufficio, sia
pur sempre
con gravita` (v.6), ma anche a dirsi parole di incoraggiamento sia pure con
moderazione (v.8), per togliere ogni scusa ai
sonnolenti.

Nonostante quindi la gravita` del silenzio notturno (cf.RB.42 trattato subito


appresso), SB mette le relazioni fraterne al di sopra,
mostrando fino a qual punto egli
consideri vitale l'educazione reciproca, il rapporto dei fratelli, di cui trattera`
esplicitamente negli
ultimi capitoli della Regola.

CAPITOLO 42

Che dopo compieta nessuno parli

Ut post completorium nemo loquatur

Preliminari

RB.42 corrisponde a RM.30. Ambedue le Regole stabiliscono un legame tra i pasti e il


silenzio notturno (in RB.41 si parla
dell'orario dei pasti). Il titolo accenna solo al
silenzio, ma il capitolo parla piu` a lungo della lettura che precede compieta.

1: Osservanza del silenzio

Il capitolo inizia con una massima generale cara a SB (come il c.19 e il c.49). La
Regola ha gia` parlato dell'amore al silenzio (la
"tacitirnitas") nel c.6; ora
ribadisce il principio: il monaco deve aver cura del silenzio in tutti i tempi, ma una
posizione di privilegio
va riservata al tempo della notte. Si noti che qui c'e` la parola
"silentium" (non "taciturnitas"), che ha un senso piu` energico e
assoluto.

2-7: Lettura prima di compieta e riunione di tutta la comunita`

Dopo il v.1 viene lasciato il tema del silenzio per trattare di due cosa legate fra
loro: la lettura prima di compieta e la riunione di
tutta la comunita`. RM 30,1-11 prevede
a questo punto la lavanda dei piedi e la comunicazio0ne tra i fratelli di cose necessarie,
prima del silenzio rigoroso. RB insiste di piu` sulla riunione di tutta la comunita` che
sul silenzio a cui prepara compieta. Questa
insistenza sembra giustificata dal fatto che
SB introduce l'uso della lettura prima di compieta, uso sconosciuto a RM.

A volte si e` interpretata la lettura in comune solo come un modo di approfittare del


tempo mentre i fratelli erano occupati in
qualche ufficio (cosi` anche il Lentini); ma non
sembra troppo esatto vedere la cosa solo cosi`. SB da` un'importanza evidente a
questa
lettura vespertina fatta in comune. Indica alcune opere: le "Collazioni" di
Cassiano e le "Vitae Patrum" (cf. introduzione
generale), testi tipicamente
monastici o "altre opere di edificazione" (v.3).Lettura pubblica ed edificazione
di chi ascolta vanno
sempre di pari passo nella Regola (RB.38,12; 47,3; 53,9), tanto che
SB si preoccupa di non far leggere in quell'ora piu` propizia
alla tentazione niente meno
che alcuni libri della S.Scrittura: l'Eptateuco (i primi sette libri della Bibbia:
Pentateuco + Giosue` +
Giudici) e il libri dei Re (1-2 Samuele e 1-2 Re); non si considera
dannosa la lettura dei libri sacri (difatti bisogna leggerli in altri
momenti (v.4)
perche` sono parola di Dio), ma si pensa che alcune storie scabrose li` riferite potevano
suscitare a 1uell'ora
immagini sconvenienti alla fantasia delle "menti deboli"
(v.4).

SB pensa quindi alla parte spiritualmente debole della comunita`. Anche Cassiano notava
che tali letture dell'AT non erano adatte
agli "spiriti deboli e infermi"
(Coll.19,16).

Significato della lettura

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

La lettura vespertina ha un valore proprio, di preparazione non tanto per compieta


quanto per la notte. La notte da una parte e`
segno del male, delle tenebre spirituali e
piena di misteriosi pericoli per lo spirito; dall'altra parte e` propizia, come nessun
altro
tempo, alla riflessione e alla preghiera. SB dice di leggere "quattro o cinque
fogli" (v.6) - era molto, sopratutto in quell'epoca - e nel
frattempo devono arrivare
tutti i fratelli.

Importanza della presenza di tutti i fratelli

Che tutti si ritrovino sembra molto importante per SB; tre volte in questo capitolo si
trovano espressioni che richiamano questo
fatto: "seggano tutti insieme" (v.3);
"si radunino tutti" (v.7); "tutti insieme" (v.8). Perche` questo far
arrivare tutti? per assicurare
l'osservanza del silenzio notturno? perche` tutti ascoltino
(almeno un po`) la lettura preparatoria per la notte? per concludere tutti
insieme la
giornata al canto di compieta? Impossibile determinarlo con certezza. Certo e` che SB
vuole tutti insieme i membri del
monastero nel momento conclusivo della giornata.

8: Compieta e silenzio notturno

Quando tutti i monaci sono presenti si dice compieta e poi "a nessuno sia permesso
proferire parola" (v.8). La comunita` intera si
immerge nel gran silenzio della
notte. Disciplina cenobitica antichissima: risale a Pacomio ("Nessuno parli a un
altro di notte",
Reg.Pachomii 94) e da lui passa in tutte le altre Regole (Cassiano
ha: "Nessuno dei monaci ardisca di attardarsi per un po` a
scambiare parola con un
altro", Inst.2,15); oltre alla salvaguardia del silenzio, si tende a premunire la
castita` (si suppone la
dormizione in celle separate). Comunque RM e RB sembrano
indipendenti da Pacomio, almeno nella motivazione. RM porta una
motivazione liturgica:
difatti il silenzio rigoroso iniziava con il versetto: "Poni, Signore una custodia
alla mia bocca..." (salmo 140,3)
e terminava con il versetto: "Signore, apri le
mie labbra..." (salmo 50,17) (RM.30,12-16).

RB (e anche RM) tende a favorire il riposo di tutti. E questo si spiega con il


passaggio dalla cella al dormitorio comune (cf.pagine
precedenti RB.22): stando insieme i
monaci debbono stare attenti a non disturbarsi nel sonno (cf.RB.48,5) e nella preghiera
(cf.RB.52,2-3), cose che prima i monaci compivano nella loro cella. Quindi il silenzio
notturno ormai ha una caratteristica di
sensibilita` fraterna piu` che di protezione
contro i pericoli della castita`.

9-11: Penalita` ed eccezioni

Conclude il capitolo una prescrizione severa contro i trasgressori del silenzio


notturno (v.9) e il caso di due eccezioni: l'arrivo di
ospiti e un eventuale ordine
dell'abate (v.10), per terminare con un'osservazione circa la gravita` e la delicatezza
nell'uso della
parola in tali occasioni eccezionali.

Nota per noi monaci di oggi

Forse noi, monaci di oggi, dobbiamo rieducarci a riscoprire il "grande


silenzio" della notte. Certo, SB vede quanto sia necessario il
silenzio notturno per
salvaguardare il riposo di dieci o venti monaci che dormivano nello stesso luogo. Ma e`
anche certo che
pensa alla "spiritualita`" - per cosi` dire - della notte.

La notte e`, infatti il tempo delle grandi rivelazioni di Dio nell'antica e nella nuova
alleanza: nel silenzio della notte il Verbo
incarnato e` apparso per la prima volta tra
noi (cf. la liturgia del Natale); nel silenzio della notte il nostro Redentore e` risorto
dal
sepolcro; nel silenzio della notte, Cristo si intratteneva a colloquio col Padre. Il
monaco dovrebbe, in questo grande silenzio,
prolungare la sua preghiera personale che
nasce dalla liturgia e delle liturgia e` luce e alimento (cf. di nuovo quanto detto sulla
notte e la veglia in vista della preghiera, nell'Excursus sulla preghiera).

Nei nostri monasteri, forse, dovremmo tornare a riflettere con maggiore scrupolosita`
su questo capitolo e su questo aspetto della
spiritualita` monastica. In tal senso, forse,
va riconsiderato l'uso della televisione.

Codice Penitenziale

CAPITOLO 23

La scomunica per le colpe

De excommunicatione culparum

Preliminari su RB.23-30 e 43-46:


Il "codice penitenziale"

Con il nome di "codice penitenziale" o "codice penale" della RB si


indicano i cc.23-30 che trattano della scomunica e delle
questioni ad essa collegate. A
questi si aggiungono in genere i cc.43-46 che trattano della soddisfazione (RB.44) delle
pene per i
ritardatari (RB.43), per gli sbagli nell'oratorio (RB.45) e per danni provocati
ad oggetti vari (RB.46. Ma nella Regola sono frequenti,
anche al di fuori di questi
capitoli, le menzioni di pene per colpe o mancanze lievi o gravi: vedi ad esempio
RB.2,26-29; 11,13;

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

21,5; 34,7; 42,9; 48,19-20; ecc. Secondo DeVogue` le varie penalita`


sparse nella RB sono 27.

La disciplina regularis

I capitoli 23-30 e 43-46 probabilmente formavano in origine un fascicolo a parte per


uso dei decani e costituivano la "disciplina
regularis" <disciplina
regolare>. Che cosa significa precisamente? Vuol dire: punizione secondo la Regola,
secondo le norme
stabilite dalla Regola, cioe` tutta la procedura ben organizzata nei
cc.23-30 e 43-46, che comprende le varie tappe stabilite in
RB.23:

- ammonizioni private

- ammonizione pubblica

- scomunica

- oppure battiture.

La frase "sia punito secondo la (oppure: sia sottoposto alla) disciplina regolare" torna altre volte nella Regola, al di fuori del codice
penale (vedi ad esempio: RB.3,10; 32,5; ecc.). Nonostante l'apparente aridita` dell'argomento, l'esame di questa sezione e`
interessante perche` ci rivela la mentalita` propria di SB e la sua concezione della vita di comunita` con i suoi regolamenti interni e
i momenti difficili,
di infrazioni, di punizioni, di soddisfazioni, ecc.

Differenze dalla RM

Il codice penitenziale e` una delle sezioni in cui maggiormente appare il lavoro di


rielaborazione compiuto da SB rispetto alla RM.
In RM il codice penale e` contenuto nei
cc.12-15; 64; 73 e qualche altro elemento sparso qua e la`. La diversa posizione delle due
Regole e` dovuta soprattutto al fatto che nella RB il codice penitenziale sta dopo il
codice liturgico (cioe` RB.8-20), invece in RM
sta prima di esso (che e` in RM.33-49). SB
organizza e sistema il materiale della RM.

Fonti

Per le fonti, dobbiamo ricordare anzitutto la S.Scrittura. La RM usa largamente la


Scrittura come le e` abituale; RB ha delle
citazioni proprie, indipendentemente dalla RM,
anche nei testi paralleli, soprattutto S.Paolo (1Cor., 2Cor., Gal.); RB e` piu` ricca di
citazioni scritturistiche della RM, anche se questa ha due grandi discorsi di estrema
ricchezza biblica al c.14. Altra fonte per
ambedue le Regole e` Cassiano.

Spirito e caratteristiche della RB nel codice penitenziale

Lo spirito del codice penitenziale nelle due Regole e` molto diverso. RM e` preoccupata
dell'ordine e della giustizia: a ciascuno il
suo e ciascuno al suo posto; RB, al
contrario, si interessa alla salute della persona. Tipica di SB e` difatti la distinzione
tra colpe
gravi e colpe leggere, tra scomunica maggiore (RB.25) e scomunica minore
(RB.24); mettendo ordine alla materia disordinata
della RM, SB e` molto legato alla
proporzionalita` tra la punizione e la persona a cui e` diretta, cioe` tiene conto dei
diversi tipi di
persona (cf. anche le osservazioni che a questo proposito SB fa all'abate:
RB.2,23-25). Il fine cui SB mira e` esplicitamente il
ravvedimento del colpevole; difatti
il primo gruppo di capitoli organizza il triplo salvataggio delle anime: scomunicato
(RB.27);
recidivi (RB.28); apostati (RB.29). Il secondo gruppo di capitoli (RB.43-46) si
sviluppa intorno alla soddisfazione degli scomunicati.
"Guarire",
"educare" sono dunque le parole-chiavi della nuova legislazione penale; mentre
la RM si preoccupa soprattutto di
esercitare la giustizia e di ristabilire l'ordine, RB e`
assillato dalla preoccupazione di correggere e di salvare le anime.

In RB appare chiaramente la cura che l'abate deve prendersi per gli scomunicati
(soprattutto RB.27): prima e dopo l'espulsione
egli si interessa della salvezza del
peccatore. Si vede sempre il senso pedagogico che porta a considerare l'aspetto medicinale
della pena. Bisogna pero' anche dire che il numero accresciuto delle pene (in proporzione
alla RM) indica una tendenza a punire e
a minacciare. Se SB crea una pastorale inedita per
la salvezza dei cuori duri, egli ha anche sviluppato la penalizzazione e ha dato
alla sua
Regola un volto spesso severo. La cosa appare anche dal c.46, dove RB indurisce la pratica
di RM, di Cassiano e di
Agostino. Almeno questo e` il giudizio di un esperto, come
DeVogue`: "l'inchiesta si chiude con questa immagine complessa. RB
si stacca dalle
sue fonti sia per una tenera e instancabile tenerezza verso i peccatori, sia per un certo
rigorismo che tende a
moltiplicare le esigenze e le punizioni".

Schema del codice penitenziale

I capitoli del codice penitenziale possono essere cosi` divisi:

RB.23-26: vari casi a proposito della scomunica;

RB.27 : esortazione all'abate sui doveri verso gli scomunicati;

RB.28-29: gli incorreggibili e coloro che escono dal monastero;

RB.30 : come debbono essere trattati i fanciulli;

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

RB.43 : pene per i ritardatari all'Ufficio e alla mensa;

RB.44 : la soddisfazione che debbono dare gli scomunicati;

RB.45 : pene per chi sbaglia nell'oratorio;

RB.46 : pene per altre mancanze.

Il capitolo 23

Il presente capitolo serve da introduzione. Determina le colpe degne della scomunica e


stabilisce la procedura di questa. In che
cosa consiste la scomunica monastica lo
spieghera` dopo.

Dobbiamo dire che raramente si comprende appieno il significato della scomunica, di cui
non viene sufficientemente valutata
l'importanza. Eppure e` difficile dire di conoscere
bene la comunita`, se non si riconosce il suo contrario, cioe` la "s-comunica":
la
conoscenza umana procede spesso anche per contrasti (Wathen). Dobbiamo quindi dedurre
che nell'antica Chiesa e nell'antico
monachesimo si sentiva il valore della scomunica
perche` si aveva un forte concetto di Chiesa e di comunita` monastica.

1-5: Colpe e castigo

SB enumera le colpe: si tratta - cio` e` chiaro - di mancanze gravi esterne. La


procedura e` ispirata al Vangelo: Mt.18,15-17 (la
correzione fraterna), procedura che nel
monastero ha la seguente modalita`:

- due ammonizioni private da parte dei seniori (che sono i decani e in genere i
superiori, includendovi certamente l'abate) (v.2);

- una terza ammonizione, pubblica, per correggere il colpevole con l'umiliazione


davanti a tutti (v.3);

- in caso di pertinacia, si passa alla scomunica, che e` pena piu` morale che fisica;
quindi si richiede un animo che comprenda il
suo valore (v.4);

- se invece e` un animo cosi` rozzo, una "testa dura" che sarebbe insensibile
alla scomunica, si usa la verga o altri castighi
corporali.

Per SB le battiture sono per quelli che non comprendono la scomunica, quindi ha un
criterio soggettivo, mentre in RM le battiture
sono determinate da un criterio oggettivo:
colpe enormi commesse. Cio` mette ancora una volta in risalto la cura del soggetto
propria
di SB.

Le pene corporali non erano novita` propria di SB: basta confrontare le Regole di
Pacomio, Macario, le Vitae Patrum, Cassiano e
in occidente la Regola di Cesario e la RM.
In questo, come detto sopra, SB e` molto severo; ma non pare giustificata l'immagine
trasmessa da qualche pittore di un SB con un fascio di verghe in mano, quasi stesse sempre
a frustare. Potrebbe interpretarsi di
un santo che mortifica se stesso con la
"disciplina": concezione facile specialmente dopo S.Pier Damiano; oppure il
fascetto di
verghe potrebbe rappresentare uno strumento per la sveglia, un qualcosa di
simile alla nostra "traccola" (cf. quanto detto alla fine
del c.47). Del resto,
la discrezione di SB anche in questo appare manifesta, se si pensa alle terribili
disposizioni penitenziali di
S.Colombano.

CAPITOLO 24

Quale debba essere il grado della scomunica

Qualis debet esse modus excommunicationis

Il titolo non abbraccia il contenuto del capitolo in cui, dopo un principio generale,
si parla solo delle colpe meno gravi.

1-2: Criterio per la misura della pena

Si enuncia con chiarezza il principio generale: la scomunica (o la pena corporale) deve


essere proporzionata alla colpa (v.1); il
giudizio di cio` spetta all'abate (v.2). SB
stabilisce due forme di scomunica:

- scomunica minore: esclusione solo dalla mensa comune (c.24);

- scomunica maggiore: esclusione dalla preghiera e dalla mensa comune (c.25).

Naturalmente, in tutti e due i casi, non si tratta di scomunica ecclesiastica, ma solo


"regolare", cioe` nell'ambito della comunita`,
pena inflitta dal superiore di
una comunita` monastica.

3-7: Scomunica minore per le colpe meno gravi

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

La scomunica minore consiste principalmente nella privazione della mensa comunitaria.


Molto piu` che dai pagani, il pasto
comune era considerato come qualcosa di sacro dai
cristiani, che vi scorgevano una relazione e una richiamo con il banchetto
eucaristico e
con quello escatologico. L'esclusione era sentita percio` vivamente come pena. Il fratello
reo di colpe relativamente
leggere, dopo - s'intende - la trafila delle ammonizioni,
private e pubblica (cf.c.23), mangera`, si`, come gli altri fratelli, pero` piu`
tardi, da
solo, non con loro, in quanto si e` reso indegno della loro comunione.

Tale privazione della mensa comportava anche una limitazione in coro: cioe` il reo
prendeva parte all'Ufficio divino, ma non poteva
fare la parte di solista (recitare a solo
o intonare salmi, antifone o lezioni), fino a quando non avesse fatto la dovuta
soddisfazione
e ottenuto il perdono (queste cose saranno descritte in RB.44,9-10).

CAPITOLO 25

Le colpe piu` gravi

De gravioribus culpis

1-6: La scomunica maggiore per le colpe piu` gravi

La posizione del monaco colpito dalla scomunica maggiore impressiona veramente: il


colpevole di colpe gravi e` condannato al
piu` completo isolamento, tanto piu` brutto in
quanto si tratta soprattutto di isolamento morale: sta in comunita` ma nessuno gli
parla
(v.2); lavora da solo (v.3); nessuno lo benedice nell'incontrarlo ne` viene benedetto il
suo cibo (v.6); deve "perseverare nel
pianto della penitenza riflettendo sulle
terribili parole di S.Paolo" (v.3) che applichera` a se stesso. Il versetto di
1Cor.5,5 si
riferisce al famoso incestuoso di Corinto di cui S.Paolo dice: "Sia dato
in balia di Satana per la rovina della sua carne", cioe`
separato dal regno di Cristo
che e` la Chiesa, sicche` ricada nel regno di Satana dove sara` esposto senza difesa
spirituale al suo
potere ostile, anche ai tormenti del corpo che Satana gli potrebbe
procurare. SB dipende qui da Cassiano (Inst.2,16), ma
intenzionalmente ha soppresso la
parola "Satana", non solo per mitigare l'espressione, ma per dichiarare che il
fratello viene
abbandonato non a Satana ma alle sue pene afflittive del corpo e di tutte
le passioni, purche` si salvi lo spirito. Comunque, anche
ammettendo con alcuni codici la
presenza della parola "Satana", non pare si possa interpretare questa scomunica
nel senso di
una censura ecclesiastica, cioe` esclusione dal corpo della Chiesa, ma solo
"scomunica regolare", cioe` separazione della
comunita` monastica.

Per chi comprende bene il profondo senso della vita in comune, tale pena era veramente
terribile: il monaco nelle condizioni
descritte in questo capitolo, per poco sensibile che
fosse, era veramente distrutto. In confronto a tale isolamento, l'eventuale
restrizione
del cibo (v.5) appare ben poca cosa.

E' chiaro che il fine, come in S.Paolo, e` medicinale: la correzione e la salvezza del
reo. Infatti poco dopo (c.27) SB ricordera` la
sollecitudine particolare dell'abate verso
questi fratelli colpevoli e dalla vita sappiamo che, appena si fosse riconosciuto
umilmente
l'errore, egli era pronto a perdonare (cf.II.Dial.12).

CAPITOLO 26

Quelli che senza autorizzazione trattano con gli scomunicati

De his qui sine iussione iungunt se excommunicatis

1-2: Senso del capitolo

Un brevissimo capitolo, secco e deciso (di nuovo appare il verbo "praesumere"


<ardire, osare>, due soli versetti, una sola severa
proposizione che giunge
velocemente alla conclusione dopo l'enunciazione della colpa: se un fratello, senza ordine
dell'abate (cf.
il seguente c.27,2-3, in cui si dice che l'abate deve far arrivare, quasi
senza darlo a vedere, dei fratelli prudenti che sostengano e
consolino il fratello
scomunicato), osasse unirsi con lo scomunicato, parlare con lui o mandargli
messaggi, soggiaccia alla stessa
pena della scomunica (vv.1-2).

Sembrerebbe a prima vista una sanzione esagerata e senza fondamento. Ma cosi` non e` se
si tengono presenti alcune
considerazioni: la vita di comunita` e la comunione fraterna,
come e' stato rilevato al c.precedente, sono realta` molto importanti
nella vita
monastica; la pena della scomunica consiste proprio nel privare il monaco reo di questa
realta` spirituale; colui che di
iniziativa sua si unisce allo scomunicato, rende vana la
pena medicinale applicata dall'autorita` pastorale dell'abate. Egli si
contrappone
all'abate con grave colpa di insubordinazione, ritenendo ingiusta la decisione di lui. E
come succede spesso in questi
casi, il monaco che cosi` agisce, non e` mosso dal desiderio
di aiutare il reo, ma da una passione di connivenza, di scontentezza,
di critica verso
l'abate; il suo contatto col monaco reo, fatto magari di nascosto e con sotterfugio, si
riduce spesso a colloqui di
mormorazione, con ulteriore detrimento spirituale del reo e
dell'intera comunita`. Alla luce di queste riflessioni, si comprende la
drastica decisione
del santo Legislator.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

CAPITOLO 27

Come l'abate debba essere premuroso verso gli scomunicati

Qualiter debeat abbas sollicitus esse circa excommunicatis

Quanto sia dovuto pesare a SB sentirsi obbligato a elaborare un codice penale cosi`
severo, appare chiaramente da questo c.27,
uno dei piu` belli della Regola. Il testo,
quasi senza parallelo nella RM, tutto pervaso di pieta` e misericordia, tratta degli
scomunicati, ma e` interamente dedicato all'abate, e` un direttorio abbaziale per un caso
concreto, a cui SB da` la massima
importanza. Basta far caso al vocabolario: vediamo che
abbondano i termini che rivelano una costante preoccupazione, un
enorme interesse con la
ricerca di tutti i rimedi fino a qualche stratagemma: ogni cura (v.1), "tutti i
rimedi" (v.2), "estrema
sollecitudine" (v.5), "con ogni mezzo e saggia
accortezza" (v.5).

1-4: L'abate sollecito come un medico

All'inizio l'abate e` visto come un medico (la metafora risale a Origene,


Ambrogio, Cassiano) che si occupa dei malati, secondo la
frase di Gesu` in Mt.9,12. Ora,
questo medico saggio, esperto, usera` ogni industria perche` la "medicina" della
scomunica abbia il
migliore effetto. E SB ne indica una che, mentre salva l'autorita`
dell'abate, esercita anche lo spirito di carita` fraterna: mandera`
dei monaci anziani ed
assennato i quali "quasi di nascosto" (dagli altri confratelli) lo consolino
nell'afflizione e lo spingano a
riconciliarsi umilmente dando la dovuta soddisfazione.

Al v.2 c'e` l'espressione inmittere senpectas <far arrivare delle


senpecte> che, secondo l'etimologia piu` accertata, deriva da
"senape" e
indicherebbe un impiastro di senape o "senapismo" che ha proprieta` medicinali,
refrigeranti e calmanti. Appare cosi`
piu` chiaramente il paragone con il medico: questo
cataplasma che deve calmare il dolore sono i fratelli anziani inviati "quasi di
nascosto" a consolare il reo, perche` "non sia sommerso da eccessiva
tristezza". Bella questa preoccupazione presa da S.Paolo
(2Cor.2,7) che donota la
tenerezza che deve avere l'abate; e` bello anche il v.4 che allarga questa preoccupazione
a tutta la
comunita`: "si dia prova a suo riguardo di maggiore carita` (citata da
2Cor.2,8) e tutti preghino per lui."

5-9: L'abate sollecito come un pastore

SB ritorna alla raccomandazione dell'inizio quasi con le stesse parole e presenta ora
l'abate come pastore: un pastore che non
deve "perdere nessuna delle pecore a lui affidate" (v.5). E` notevole la forza con cui la RB sottolinea l'aspetto realistico,
autenticamente umano della missione dell'abate. Non c'e` da farsi illusioni: nella comunita` ci sono a volte alcuni monaci santi, la
maggior parte vive certamente una vita degna della propria vocazione; pero` l'abate sta li` soprattutto per essere attento a quelli
moralmente infermi perche` ha preso "la cura delle anime deboli e non la tirannia su quelle sane" (v.6). Il monastero non e` una
societa` chiusa di anime perfette, Dio ci guardi (soprattutto i superiori) dal pretendere una tal cosa! SB ricorda all'abate il
rimprovero di Dio ai pastori d'Israele per mezzo di Ez.34,3-4, citato un po' a senso, quasi a dire: ti compiacevi (ti era facile e
comodo) governare i sani, cioe` i
piu` docili e virtuosi e trascuravi i deboli che cadono o stentano nella via di Dio.
Decisamente la
RB sta dalla parte dei piu` deboli, di quelli piu` bisognosi di
comprensione, di aiuto.

Questo atteggiamento di SB contrasta con quello di RM nelle stesse circostanze: al


monaco scomunicato che si mantiene nella
sua ostinazione e ricusa la soddisfazione dovuta,
la RM da` tre giorni di tempo; poi passa a una buona dose di frustate e
all'espulsione dal
monastero (RM.13,68-73). SB non ci dice come va a finire se lo scomunicato persevera sino
in fondo nella sua
ostinazione (in questo senso il c.27 potrebbe sembrare incompleto): SB
ha fiducia che il peccatore sia vinto dalla grazia di Dio,
dalla sollecitudine dell'abate
e dalla carita` di tutti i fratelli. L'immagine del buon Pastore che riporta all'ovile la
pecorella smarrita
"sulle sue sacre spalle", con cui si chiude il capitolo, pare
insinuare soltanto una conclusione felice di questo piccolo dramma.

CAPITOLO 28

Quelli che, puniti piu` volte, non vogliono correggersi

De his qui, saepius correcti, emendare noluerint

1-8: Provvedimenti per i recidivi

Il c.27 presentava il caso dei fratelli scomunicati; il c.28 presenta il "secondo


atto" - diciamo cosi` - del dramma: i recidivi, mentre
nel c.29 avremo il "terzo
atto": gli apostati.

Ci possono essere dunque dei monaci recidivi: li si corregge, li si scomunica. Se non


si ottiene nulla, si venga a severi colpi di
verga: il castigo corporale difatti si
riserva per i duri di testa o di cuore, a cui non giovano le pene spirituali (cf.RB.23,5;
30,2). E...,
se nonostante questo, non si correggono, ma anzi volessero difendere la loro
condotta?

Ritorna qui l'immagine dell'abate come medico, immagine che viene piu` sviluppata: ha
applicato i lenitivi (unguenti) delle
esortazioni, i farmaci della S.Scrittura, il ferro
rovente della scomunica e delle frustate (v.3). Tutto e` stato vano. Allora viene
suggerito "un rimedio ancora piu` efficace": chiedere un particolare aiuto della
grazia di Dio mediante la preghiera dell'abate e di

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

tutta la comunita` (vv.4-5).

Esauriti tutti i mezzi naturali e soprannaturali, il medico si trasforma in chirurgo:


"l'abate ricorra ormai al ferro dell'amputazione" e,
per giustificare questa
estrema e sgradita decisione, ricorre a due testi di S.Paolo: il primo (1Cor.5,13) si
riferisce all'incestuoso di
Corinto ed e` ben applicato; il secondo (1Cor.7,15) non calza
troppo bene, e` in un senso molto accomodatizio: la` S.Paolo parla
del matrimonio tra un
cristiano e un non cristiano e dice che, se il coniuge non credente (pagano) si vuole
separare, si separi pure.
SB gioca sulla parola "infidelis" che li` significa
"non credente" e la applica nel senso di "non fedele" alla sua
professione
monastica.

Si noti la radice profonda di questa drastica decisione: "perche` una pecora


infetta non contagi il gregge intero" (v.8). Il concetto e`
comune nei Padri:
cf.Cipriano: Epistola 59,15; S.Agostino: Epistola 211,11; Regula Orientalis 35; spesso in
S.Girolamo: Epistola
2,1; 16,1; 130,19). SB non caccia dal monastero per castigare
l'orgoglio e l'ostinazione; in tutto il codice penale la sua
preoccupazione e` curare; le
pene sono sempre medicinali. Qui pero` si sente frustrato e impotente in quanto la cura a
oltranza
dell'ostinato comporta dei rischi per la salvezza di tutti gli altri. Nel c.27 si
trattava di salvare una pecora smarrita, nel c.28 si tratta
di salvare l'intero gregge;
l'obiettivo distingue i due capitoli, pero` lo spirito, l'ispirazione, le immagini, la
costruzione letteraria e lo
stesso vocabolario sono identici.

CAPITOLO 29

Se i fratelli usciti dal monastero debbano essere di nuovo accettati

Si debeant fratres, exeuntes de monasterio, iterum recipi

1-3: Riammissione degli apostati pentiti

Il dramma puo` prolungarsi in un "terzo atto": chi di propria iniziativa


abbandona il monastero. La RB prevede ed ha fiducia che
costui si converta e riprenda il
retto sentiero; se sollecitasse la sua riammissione, gli si apriranno le porte del
monastero, a due
condizioni (sconosciute nel parallelo di RM.64): a) che prometta
seriamente di correggersi di quei vizi per cui se ne ando` via; b)
che sia messo
all'ultimo posto nella comunita` per provare la sua umilta` e, in ultima analisi, la
sincerita` della sua conversione. Lo
stesso stabilisce la Regola di Pacomio. (Reg.136).

Se tornera` ad uscire, potra` essere riammesso fino a tre volte, secondo il


procedimento evangelico delle tre ammonizioni
(cf.Mt.18,15-17), ma poi basta: seguitare ad
uscire ed entrare sarebbe poco serio e, in certo modo, burlarsi di Dio e dei confratelli.
Colui che abusa di questa triplice possibilita` di riabilitarsi, sara` escluso
definitivamente dalla societa` cenobitica. S.Basilio non
permetteva piu` l'ingresso al
disertore, nemmeno come ospite di passaggio (Reg.fus.14).

Possiamo notare che questa linea di condotta seguita per chi se ne usciva dal
monastero, doveva valere probabilmente anche per
gli espulsi del capitolo precedente.

CAPITOLO 30

Come debbano punirsi i fanciulli di tenera eta`

De pueris moniri aetate qualiter corripiantur

1-3: Correzione dei ragazzi o di adulti di scarsa intelligenza

Il titolo non abbraccia tutto il contenuto del capitolo perche`, oltre ai fanciulli di
minore eta`, include anche gli adolescenti e gli
adulti di scarsa intelligenza, insomma
tutti coloro che "non comprendono il valore della scomunica "(v.2): in questi
casi la
scomunica sarebbe non solo inutile, ma dannosa; allora si usano digiuni o
battiture "perche` si correggano" (v.3): si noti sempre il
fine medicinale della
pena.

Nella RM viene indicata l'eta` dei 15 anni quale limite per le battiture (RM.14,79-87);
negli adulti le battiture sono previste solo per
motivo oggettivo: colpe enormi commesse.
Invece in RB le battiture inflitte agli adulti sono determinate da un motivo soggettivo:
il
colpevole non comprende la scomunica.

Il principio generale di sapiente governo e di sana pedagogia posto al v.1 giustifica


il capitolo e le deduzioni pratiche e semplici
che ne derivano. Notiamo che la pena delle
battiture era, a quei tempi, un fatto comune tra i monaci e i chierici (come anche tra gli
alunni in genere).

CAPITOLO 43

Quelli che giungono tradi all'Ufficio divino o alla mensa

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

De his qui ad Opus Dei vel ad mensam tarde occurrunt

Il significato della soddisfazione per le colpe commesse

Come gia` detto nell'introduzione al "codice penitenziale" (RB.23-30 e 43-46:


vedi sopra, Preliminari al c.23), i cc.43-46 formano il
trattato della soddisfazione.
Cerchiamo di capirne lo spirito.

Come e` proprio dell'uomo sbagliare, cosi` e` proprio del monaco riconoscere umilmente
i suoi errori e le sue deficienze davanti a
Dio e davanti ai fratelli. Percio` il
significato della soddisfazione e` quello di riparare pubblicamente le colpe, gravi o
leggere,
commesse pubblicamente a detrimento della pace, della concordia, dell'ordine
della comunita`; chiedere perdono a Dio delle
irriverenze commesse contro di lui o contro
le cose a lui consacrate. Il c.43 parla della soddisfazione di chi arriva tardi alla
preghiera comune o alla mensa. Ha il parallelo in RM.73.

1-3: Sollecitudine ad intervenire all'Ufficio divino

La puntualita` costituisce un elemento fondamentale per l'ordine. Essa va usata


soprattutto per la preghiera. Qualunque sia
l'occupazione del monaco, al segnale
dell'Ufficio divino, bisogna lasciarla subito perche` la dignita` della preghiera comune
e`
superiore a tutte le altre cose. Per inculcare la piu` scrupolosa puntualita`, SB dice
di "correre con somma sollecitudine" (v,1), ma
sempre con la gravita`
caratteristica del monaco, ricordata molte volte nella Regola (cf.RB.6,3; 7,60; 22,6;
42,11; 47,4).

Nulla percio` si anteponga all'Opera di Dio <Ergo nihil Operi Dei


praeponatur> (v.3): la celebre massima benedettina si trova in
questo capitolo. Per il
monaco la preghiera liturgica comunitaria ha un primato indiscutibile e il monaco e`, e
deve tendere ad
essere, essezialmente uin uomo di preghiera (cf. tutta la sezione
"L'Opera di Dio" con l'Excursus sulla preghiera monastica).

L'espressione "Nihil Operi Dei...", e soprattutto il concetto stesso, erano


tradizionali nel monachesimo. Nella II.Reg.Patrum,31 si
legge: "Niente si deve
anteporre all'orazione"; l'orazione qui denota l'Ufficio divino. "Non anteporre
nulla all'orazione in tutto il
giorno" e` una massima dell'abate Porcario di Lerins.

4-9: I ritardatari all'Ufficio notturno

Nonostante tutte le avvertenze e la solidita` del principio generale, e` inevitabile


per la natura umana che ci siano delle mancanze.
SB si mostra comprensivo e indulgente e
vuole anche all'Ufficio notturno il salmo 94 (l'Invitatorio) si reciti molto lentamente
per dar
modo ai sonnolenti di giungere prima del Gloria. Chi arriva piu` tardi si mettera`
all'ultimo posto o in un luogo speciale a cio`
destinato dall'abate e dia soddisfazione al
termine dell'Ufficio (vv.5-6). SB si mostra qui innovatore: secondo l'uso di molti
monasteri attestato da Cassiano (Inst.3,7), i ritardatari (dopo il secondo salmo) erano
costretti a rimanere fuori e a unirsi solo da
lontano alla preghiera e a prostrarsi ai
piedi di tutti quando uscivano. SB li pone in un posto particolare perche` per la vergogna
di
vedersi cosi` notati siano portati a correggersi (v,7); altrimenti, se rimangono fuori,
ci sara` chi se ne torna beatamente a letto,
oppure si sdraia li` per terra godendosi,
d'estate, il fresco della notte o chiacchierando con qualche altro del suo stampo (v.8).

Il S.Patriarca e` veramente un pittore arguto in questa scenetta: conosce l'uomo; la


sua esperienza, la sua fine penetrazione
psicologica gli hanno insegnato molte cose:
"Che entrino, invece, perche` non perdano tutto" (v.9).

10-12: I ritardatari all'Ufficio diurno

Per gli Uffici diurni SB e` piu` severo, perche` i monaci sono allora meno scusabili,
essendo gia` tutti in piedi; non solo si riduce il
margine per il ritardo (il Gloria del
primo salmo), mentre di notte c'era il salmo 3 di attesa e il salmo 94 cantato
lentamente), ma si
proibisce ai ritardatari di associarsi al coro dei fratelli salmodianti
(v.11), a meno che l'abate, per ragioni particolari, non lo
concede; rimane comunque
l'obbligo della soddisfazione (v.12).

13-17: I ritardatari alla mensa

Anche la mensa comune e` uno degli atti piu` importanti per la societa` cenobitica. Chi
arriva tardi, dopo la preghiera, o esce
prima della preghiera di ringraziamento, mangera`
da solo e senza vino; pero` tale punizione si applica soltanto dopo due
ammonizioni
(v.14).

18-19: Disciplina nel prendere il cibo

Approfittando dell'occasione, SB aggiunge una nota (per se` non c'entra con il tema del
capitolo): che nessuno ardisca mangiare o
bere fuori dagli orai regolari. Anche Cassiano
parla di monaci che osservavano cosi` rigorosamente tale norma da non toccare
neppure i
frutti caduti a terra (Inst.4,18). S.Basilio dice: "Attento a non incorrere nel
peccato di mangiare clandestinamente:
(Reg.15). Fa eccezione il caso in cui il superiore
offre qualcosa, per esempio per un lavoro straordinario o per altro motivo:
sarebbe allora
orgoglio e superbia non accettare e si sarebbe passibili di punizione.

CAPITOLO 44

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Come debbono fare la soddisfazione gli scomunicati

De his qui excommunicantur quomodo satisfaciant

Il capitolo parla della soddisfazione e riconciliazione dei monaci scomunicati.


Cassiano prevede un rito molto semplice: una
semplice prostrazione alla fine dell'Ufficio
e l'ordine dell'abate di alzarsi (Inst.4,16). RM.14 e` piu` complicata: prostrazione alla
porta durante l'Ufficio, preghiera della comunita` all'abate, rimprovero al penitente e
sua promessa di correggersi, preghiera della
comunita`, versetto
"Confitemini..." <Confessatevi...>, lunga preghiera, nuovo avvertimento,
versetto "Erravi..." <Ho peccato...>.
RB in parte ritorna alla semplicita`
di Cassiano, in parte conserva il cerimoniale di RM.

1-8: Soddisfazione degli scomunicati: scomunica maggiore

I colpiti da scomunica maggiore (RB.25) devono seguire questa procedura in quattro


fasi: anzitutto la prostrazione alla porta
dell'oratorio "in silenzio, con la faccia
rivolta a terra, ai piedi di tutti i fratelli man mano che escono"; e non una volta
sola, ma fino a
quando lo giudica l'abate (vv.1-3). Potremmo qui notare la falsariga della
procedura della Chiesa per i penitenti pubblici i quali
aspettavano davanti alla porta
della basilica). Poi, chiamati dall'abate, si prostrano davanti a lui e a tutti per
chiedere preghiere: e`
un rito silenzioso, non si pronuncia nessuna orazione a voce alta
(a differenza della lunga orazione di RM.14,25-73). Quindi, se
l'abate lo concede, tornano
al loro posto in coro. Pero` non potranno recitare salmo o lettura come solista in coro e
alla fine di ogni
ora canonica si prostrano a terra al loro posto.

Questa soddisfazione durera` fin quando l'abate lo giudichera` opportuno. Cosi` la


procedura potra` essere piu` o meno lunga; e`
da notarsi l'insistenza di S.Benedetto sul
giudizio personale e la responsabilita` pastorale dell'abate, il quale deve essere spinto
solo dal desiderio di provare la sincerita` e la perseveranza del monaco penitente e
assicurare meglio la sua conversione. SB si
ispira alla medesima carita` e al realismo dei
cc.27-29; e` piu` pedagogico rispetto a RM, perche` conosce meglio la psicologia e
ha
esperienza diretta.

9-10: Soddisfazione degli scomunicati: scomunica minore

Gli scomunicati solo dalla mensa (scomunica minore: RB.24) fanno la soddisfazione
nell'oratorio fino a quando l'abate con la sua
benedizione dice che basta. Consisteva
nella prostrazione alla fine dell'Ufficio e probabilmente nel non intonare salmi e
antifone,
come nella terza e quarta fase del rituale sopra descritto (vv.6-7).

CAPITOLO 45.

Quelli che sbagliano nell'oratorio

De his qui falluntur in oratorio

1-3: Sbagli durante la preghiera comune

Non si tratta piu` di mancanze provocate da cattiva disposizione, ma da disattenzione o


negligenza. Secondo Cassiano
(Inst.4,16), costituivano una colpa lieve da ripararsi subito
mediante pubblica penitenza. Anche SB esige una riparazione pubblica
per quegli
"sbagli commessi per negligenza" (v.2), ma non dice in che cosa essa consista;
probabilmente in una prostrazione a
terra. Ancor oggi nei monasteri si conserva l'uso di
questo atto di umilta` per gli errori durante l'Ufficio: si porta la mano al petto o
si
genuflette al proprio posto... Sono, oltre che espressioni di umilta`, atti di riverenza
verso la santita` di Dio (cf.RB.19 e 20). Chi
non voleva sottoporsi a questa umiliazione e
riparazione veniva punito piu` severamente, a giudizio dell'abate (forse con la
soddisfazione degli scomunicati).

3: I fanciulli, per mancanze di questo genere, siano battuti

Bisogna intendere per gli sbagli in coro, oppure per non essersi umiliati dopo gli
sbagli? Sembrerebbe piu` probabile la seconda
ipotesi: anche i ragazzi hanno il loro amor
proprio. Ma bisogna anche ammettere che SB possa aver inteso infliggere le battiture ai
ragazzi per gli sbagli durante la recitazione. Si pensi che l'uso della verga era normale
per gli alunni, e` rimasta celebre la verga
con cui S.Gregorio correggeva gli irrequieti
fanciulli che formava al canto sacro (cf. anche la famosa esperienza di S.Romualdo).
E,
del resto, fino a non molti anni fa`, sulla cattedra del maestro elementare faceva bella
mostra la bacchetta e qualcuno degli
ancora viventi potra` ricordare di aver imparato le
declinazioni latine a forza di bacchettate!

CAPITOLO 46

Quelli che sbagliano in una qualsiasi altra cosa

De his qui in aliis quibuslibet rebus delinquunt

1-4: Colpe esterne in qualunque luogo del monastero

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Quest'ultimo capitolo della sezione disciplinare considera tutte le altre colpe e


negligenze che possano commettersi in qualunque
parte del monastero. Il castigo per i
falli esterni qui previsti - rompere qualche oggetto o perderlo - non costituisce nessuna
novita`
per la legislazione monastica: Pacomio (Reg.13-17,131) e Cassiano Inst.4,16) lo
menzionano. Cio` che e` nuovo e` l'esigenza di
spontaneita` e l'immediatezza della
soddisfazione (non previste in Cassiano e in RM). SB prevede due gradi: il primo e` la
soddisfazione immediata; il secondo, nel caso della non soddisfazione, e` la scomunica.

SB si ispira a S.Agostino (Epistola 211,11) che prevede, per il monaco che riceve
regali di nascosto, tutti e due i casi: se lo
confessa spontaneamente, verra` perdonato;
se si viene a sapere da altri (per esempio da un decano o da qualche altro fratello,
sara`
punito piu` severamente. Tuttavia, mentre Agostino parla di una colpa abbastanza grave
(doni ricevuti di nascosto da una
donna), SB applica la norma a casi piu` banali ed
estende il suo campo di applicazione. Ricordiamo che nella vita del S.Patriarca,
abbiamo
un esempio di ambedue i casi: la confessione spontanea del buon goto, che venne subito
confortato da SN (II.Dial.6) e il
monaco che aveva ricevuto dei fazzoletti e non disse
nulla e ne ebbe una solenne lavata di capo (II.Dial.19).

5-6: Colpe interne o peccati occulti

Il monaco deve dunque confessare spontaneamente le proprie mancanze, anche le piu`


materiali, e soddisfare per esse. Se
invece si tratta di "peccati occulti"
commessi nel segreto della propria coscienza, non devono essere pubblicati. Bisogna, si`,
confessarli, ma solo all'abate o ai "padri spirituali".

Non e` facile stabilire precisamente cio` che si intende per "peccati


occulti". Si puo` fare riferimento a RM.15 (pensieri cattivi) e a
Cassiano
(Coll.2,11.13: furto, pensieri impuri). In RM la confessione si fa all'abate, ed e`
preparata dai preposti (decani); in RB si
fa all'abate e ai "seniori
spirituali": questi possono essere i decani, ma non solo loro. "Anziani
spirituali" nella tradizione monastica
(trasmessa soprattutto da Cassiano), sono quei
monaci molto avanti nella vita spirituale, alla fine del cammino della scala
dell'umilta`,
quindi oggetto di una particolare ispirazione dello Spirito Santo. Non si tratta dei
sacerdoti del monastero (RB.62), ne`
si parla qui della confessione sacramentale, ma di
vera direzione spirituale che, secondo La Regola, non e` solo monopolio
dell'abate. La
manifestazione dei pensieri cattivi e dei peccati occulti e` ricordata altre volte nella
RB: in uno strumento delle buone
opere (RB.4,50) e nel 5^ gradino dell'umilta`
(RB.7,44-45).

Tutta questa finale del c.46 si ispira in qualche modo a RM.15 (e a S.Agostino,
soprattutto per la spontaneita` dell'accusa), ma e`
originale nella distinzione netta tra
la confessione pubblica per le mancanze esterne e la confessione privata per i peccati
interni.
Quando SB dice: "sappia curare le piaghe proprie e altrui", include in
tale scienza la nozione della Scrittura (come RM), ma
soprattutto la capacita` di tacere
sulla confessione ricevuta, e in piu` ricorda all'abate e al seniore spirituale la propria
fragilita`:
anche loro sono peccatori come gli altri.

(segue Conclusione sul Codice Penitenziale (RB.23-30 e 43-46)

CONCLUSIONE SUL CODICE PENITENZIALE

Concludendo, richiamiamo alcuni valori fondamentali del codice penitenziale


benedettino:

*** Importanza della persona. Piu` volte nel codice penale - come anche nel
capitolo sull'abate (cf.RB.2,23-25.27.28-31) - SB
ritorna sul fatto che la punizione deve
essere adeguata all'indole di ciascuno, proprio perche` non si tratta di vendetta, ma di
un
modo per aiutare e curare il fratello che sbaglia. Percio` SB, a malincuore e dopo
numerosi tentativi, si decide ad espellere il
monaco colpevole e solo per timore che altri
si perdano a causa sua (RB.28,6-8); e in seguito, se quegli si pente, e` disposto a
riprenderlo in comunita` anche piu` volte. (RB.29,1-3).

*** Dimensione comunitaria. Un fatto emerge dal codice penitenziale, al di la`


delle forme e delle consuetudini dovute alla societa`
del tempo: ogni trasgressione alla
Regola, ogni mancanza grande o piccola commessa in monastero, e` un attentato alla vita
della
comunita` e come tale deve essere corretta e riparata; e` sulle condizioni e sui
modi di appartenenza alla comunita` che scatta la
scomunica, la cui pena e` proprio
l'esclusione dalla vita di comunione nei suoi gesti principali: preghiera e mensa.

Che cosa rimane oggi?.

Che cosa possiamo e dobbiamo ritenere oggi di tutto il codice penitenziale della RB?
Certo, la presenza stessa di un codice
penale nella Regola puo` risultare sgradevole alla
nostra mentalita` odierna; e di fatto l'accentuazione dell'aspetto giuridico e
casuistico
ha portato ad immagini di monastero troppo distanti dallo spirito del Vangelo e del
monachesimo: monasteri quasi
caserme o scuole nel senso peggiore (la storia ce ne fornisce
degli esempi) e non comunita` di volontari, aggregazione libera per
seguire Cristo.

Tuttavia ci sono alcuni valori nel codice penitenziale che non dovrebbero andare
perduti. Poniamo delle riflessioni in forma di
questioni:

1. La pratica della scomunica implicava delle regole molto strette e precise di


appartenenza alla comunita`. Il fatto di aver abolito

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

ogni penalita` non potrebbe indicare


che questi criteri di appartenenza sono divenuti molto labili? che, cioe`, si tende a
vivere in
modo individualistico?

2. Con le punizioni e le penitenze, la Regola intende dare soprattutto un aiuto al


monaco perche` egli possa prendere coscienza
dei propri difetti e correggersi (aspetto
medicinale della pena). Abbiamo trovato, oggi, altri modi concreti di aiuto? O ciascuno e`
lasciato "libero" (cioe` solo) con i propri limiti e il desiderio di superarli?

3. Nella RB pena e penitenza hanno un carattere pubblico, come detto sopra. Abolite,
per la mentalita` dei tempi, tutte le pratiche
della Regola, non c'e` pericolo che vi sia
una mancanza di sensibilita` riguardo al confronto e alla correzione fraterna? O, peggio,
dato che ci si conosce molto bene, non ci riduciamo forse soltanto a fare mormorazione e
critica "privata"? Dobbiamo - credo -
educarci di piu` al senso della
responsabilita` reciproca: la comunita` intera come organismo deve salvare i suoi membri
deboli e
infermi, non con un malinteso senso di pieta` o peggio con una colpevole
solidarieta` con i vizi, ma con una carita` genuina che
comprende la correzione fraterna -
la "verita` nella carita`", cf.Efes.4,15) - con una preghiera insistente e con
un supplemento di
santita`. Dio ci ha riuniti insieme perche` lo cerchiamo nella
preghiera, nel lavoro, nella vita comune. Ognuno deve sentirsi ormai
inseparabile dai suoi
confratelli e solidale con essi per sempre. Bisogna dunque che egli lavori, preghi, si
sacrifichi non solo per
raggiungere la propria santificazione personale, ma anche per
aiutare quella degli altri.

Possiamo ritenere almeno queste riflessioni dall'esame dei dodici capitoli del codice
penitenziale della RB.

CAPITOLO 32

Gli arnesi e gli oggetti del monastero

De ferramentis vel rebus monasterii

Preliminari: I beni materiali e La poverta`


individuale

Questa sezione comprende i capitoli: 32-34; 54-55; 57. La vita


monastica, pur essendo soprannaturale nelle sue motivazioni e nel
suo fine, e` una vita
incarnata. I monaci non sono angeli, hanno un corpo, hanno bisogno di cibo per nutrirsi,
di vestiti per coprirsi,
di strumenti per lavorare. Per cui nel monastero ci sono molte
cose di cui non si puo` fare a meno.

Ma nei capitoli che trattiamo in questa sezione appare l'importanza che SB da` allo
spogliamento individuale, alla
disappropriazione. Per SB la poverta` individuale e`
considerata anzitutto come dipendenza dall'abate: la rinunzia alla proprieta`
proviene
dalla rinunzia alla propria volonta`, idea collegata con quella, soprattutto di Agostino,
della comunione fraterna dei beni,
secondo il modello degli Atti degli Apostoli.

Fonti

Le fonti di RB per questi capitoli sono RM, Cassiano e S.Agostino. La tendenza di RB e`


quella di abbreviare, oppure di
riassumere in una formula generale molteplici norme e
dettagli. Inoltre RB e` piu` dura rispetto ai testi precedenti, con frequenti
riferimenti
alle pene (ce ne sono in tutti questi capitoli, anzi RB.32.33.34 terminano sempre con la
mensione delle pene).

Lo spogliamento individuale e` inculcato con grande forza e vasto e` il ruolo


dell'abate in questa materia. Sotto l'influsso di
Agostino, poi, SB ha uno spiccato senso
della diversita` delle persone (gia` visto anche nella sezione penale e in molti altri
punti
della Regola) e una cura delle relazioni fraterne che mancano in RM.

1-5: Gli oggetti del monastero

Vediamo aleggiare in questo breve capitolo la preoccupazione e la scrupolosita` per


l'ordine e lo spirito di fede. Niente nel
monastero e` "profano": l'ordine, la
pulizia, la buona amministrazione devono regnare nel monastero, che e` "casa di
Dio"
(RB.31,19) e in cui tutte le cose debbono essere viste, nella fede, come cose
sacre (RB.31,10). Percio` ogni strumento deve stare
al suo posto e ci debbono essere degli
addetti che se ne occupano. L'abate stesso e` il responsabile ultimo e tiene l'inventario
di
tutto. RM.17 prevede un solo custode al quale l'abate consegna gli oggetti; SB ha in
mente una comunita` piu` grande.

Lo spirito di fede e di poverta` esigono che gli oggetti del monastero non siano
lasciati sporchi e fuori posto (la RM ha una frase
plastica quando dice che "gli
attrezzi di ferro si arrugginiscono se non si rimettono a posto puliti", RM.17,9);
per cui chi manca,
dopo essere stato ammonito come al solito, sia punito secondo le
sanzioni previste dalla Regola (letteralmente: "sia sottoposto
alla disciplina
regolare", v.5).

CAPITOLO 33

Se i monaci debbano avere qualcosa di proprio

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Si quid debeant monachi proprium habere

1-4: Il vizio della proprieta`

E' uno dei capitoli piu` duri della Regola, una pagina energica, radicale, in cui SB
porta a conseguenze estreme l'insegnamento di
Cassiano: il monaco non deve possedere nulla
di proprio, ed e` in totale dipendenza dalla volonta` dell'abate. Senza mezze
misure SB
esordisce all'inizio del capitolo con una frase secca: "Nel monastero bisogna
soprattutto strappare fin dalle radici
questo vizio" (v.1).

Gia` la tradizione monastica anteriore riconosceva concordemente la poverta` come


elemento essenziale dello stato monastico; e
la condanna della proprieta` privata e` uno
dei temi piu` comuni nelle Regole monastiche e nei trattati di spiritualita`: cosi`
Pcomio,
Basilio, Agostino, Cassiano. Pero` le espressioni cosi` forti di SB hanno un
parallelo solo in alcune frasi virulente di S.Girolamo.

Notiamo in questo capitolo: nessuno ardisca (v.2); nulla nel modo piu`
assoluto; nulla insomma (v.3). La ragione di cio` e` detta
nel v.4: poiche` il
monaco si e` dato integralmente a Dio, ormai a lui non appartengono piu` ne` la sua
volonta` ne` il suo corpo,
tanto meno quindi i beni esterni e materiali. Nel testo
originale latino c'e` un gioco di parole (forse un po` troppo sottile);
letteralemente
sarebbe: perche` i monaci non hanno sotto la loro volonta` ne` i propri corpi, ne` le
proprie volonta` (cioe` i propri
desideri).

5-6: Il vero senso della poverta` monastica

La poverta` monastica si esprime in termini di dipendenza dall'abate. Si notino le due


espressioni del v.5: "tutto sperare" e ""dal
padre del monastero"
(= l'abate; pero` non e` fuori luogo ricordare in questo contesto che anche del cellerario
viene detto: "sia
come un padre per tutta la comunita`", RB.31,2). L'altro
aspetto della poverta`: cio` che si ha, reputarlo come bene comune del
monastero, non come
proprio (v.6); e viene citato l'ideale della comunione dei beni della Chiesa di
Gerusalemme (Atti 4,32: la
citazione e` con qualche adattamento).

7-8: Penalita` per i trasgressori

Un capitolo cosi` deciso e radicale non poteva non terminare con le sanzioni contro chi
"va dietro a questo pessivo vizio" (vv.7-8).

Oggi.....

Oggi si deve intendere che il monaco abbia molte cose a suo uso personale con il
permesso implicito del superiore; cioe` anche
se il superiore non ha dato direttamente un
libro o un capo di vestiario o la macchina da scrivere, si suppone il suo benestare e la
sua benedizione per un certo spazio in cui il monaco responsabilmente usa le sue cose.

Tuttavia, commentando questo capitolo della Regola, non e` male interrogarci, noi
monaci del XX secolo, sullo spirito di distacco e
di poverta`. Ricordiamoci che la
vocazione di Antonio il Grande comincio` con la pratica letterale delle parole di Gesu`:
"Va, vendi
quello che hai..." (Mt.19m21); ricordiamoci che una delle note
qualificanti del monachesimo era lo spogliamento totale, per vivere
nella semplicita` e
nel distacco piu` assoluto; pensiamo che ancora oggi per il monachesimo hindu e buddhista
farsi monaci
significa spogliarsi veramente di tutto, non avere assolutamente nulla. Le
notre camere non sono rifornite un po` troppo? Non
diventiamo forse troppo esigenti o alla
ricerca di tante piccole cose, anche non strettamente necessarie? La nostra poverta` - di
cui facciamo ora un voto esplicito - a che cosa veramente si riduce? Nonostante tutti i
cambiamenti dei tempi, lo spirito del voto di
poverta` rimane sempre lo stesso: il
distacco reale e sincero da tutti i beni temporali ed esterni, anche minimi, per avere
libero il
cuore ed aderire esclusivamente a Dio.

Oggi, poi, siamo chiamati, molto piu` che una volta, a una testimonianza anche collettiva di poverta`. A questo, il mondo di oggi e`
molto sensibile (fanno problema le grandi proprieta` e le vistose costruzioni dei seminari e degli istituti religiosi...). E` bene che non
solo il singolo monaco nella semplicita` della sua stanza, nel vestito, negli oggetti di suo uso, ma anche tutta la comunita` dia
conventualmente testimonianza dello spirito e della pratica della poverta`, tenendo conto del luogo in cui e` situato il monastero.
Cosi` e` bene che superiori, singoli monaci, comunita` tengano in considerazione che due terzi dell'umanita` non hanno di che
procurarsi il necessario sostentamento, anzi vivono in condizioni sub-umane; di fronte alla poverta`, non sono che
inezie che
dovrebbero diventare motivo - per dirla con SB, c.40,8 - "di benedire Dio
e non mormorare", perche` ci danno modo, in forza del
Corpo Mistico, di condividere
piu` intimamente le sofferenze dei fratelli piu` poveri.

CAPITOLO 34

Se tutti debbano ricevere il necessario in uguale misura

Si omnes aequaliter debenat necessaria accipere

1-5: Si deve dare secondo il bisogno

Il capitolo inizia con la risposta alla domanda posta dal titolo (v.1); l'ideale della
prima comunita` cristiana di Gerusalemme (Atti
4,35) diventa per SB un criterio. Il
cammino monastico non e` anarchico ne` livellatore; i monaci non sono fatti in serie o con
lo

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

stampo. L'abate, che deve dare ai monaci il necessario (RB.33,5), deve considerare le
varie personalita`; non che deve fare
preferenze (v.2), ma tener conto delle debolezze
(v.3). Ancora una volta SB e` dalla parte dei piu` deboli (cf. anche RB.37,2-3;
55,21;
ecc.): piu` che esigere molto o il massimo da tutta la comunita`, nella legislazione si
parte dalla necessita` dei meno dotati.

Nei versetti seguenti appare se lo spirito di poverta` e di distacco si pratica in nome


dell'amore verso il Signore che non guarda i
suoi interessi o se si pratica per un motivo
esterno, meschino e invidioso; cioe`: chi necessita di meno, ringrazi Dio e non si
lamenti
credendosi non considerato o disprezzato e sentendosi invidioso per le delicatezze verso
gli altri (v.3); chi necessita di
piu`, non si insuperbisca credendo di essere il
preferito o il piu` meritevole, ma si umili perche` le speciali attenzioni sono un segno
della sua debolezza e della carita` del monastero nei suoi riguardi.

In tutto il brano e` evidente l'influsso di S.Agostino (Reg.9,54-55). La Regola di


Agostino non si occupa solamente della
distribuzione del necessario, ma soprattutto delle
relazioni tra i fratelli che potevano provenire dalla casta dei ricchi (la minima
parte) o
dai ceti inferiori (la maggior parte). Tutto il capitolo

risente delle idee, del vocabolario, della fine psicologia del grande spirito di
Agostino.

5: e cosi` tutte le membra saranno in pace.

Bellissima frase, di evidente parallelo con RB.31,19: "affinche` nessuno si turbi


o si rattristi nella casa di Dio". E` il richiamo alla
PAX benedettina.

6-7: Condanna della mormorazione

Nonostante le cosi` nobili e ragionevoli osservazioni, SB sa che i monaci rimangono


uomini e, come tali, sono portati ad essere
invidiosi. Per questo, a proposito della
disuguale - pero` giusta! - distribuzione del necessario, cioe` delle cose in dotazione al
singolo monaco, - cose quindi diverse e in misura diversa -, introduce una severa condanna
del vizio della mormorazione. SB
insistera` altrove (cf.RB.40,8-9) contro la mormorazione,
"cancro delle comunita`". Si notino le forti espressioni con l'accumulo di
termini: "ante omnia" <soprattutto>; "pro qualiscumque causa"
<per qualsiasi ragione>; "in aliquo qualicumque verbo vel
significatione"
<in qualsiasi parola o altro gesto>. Le rivendicazioni, il malcontento, l'acidita`
nel monastero sono veramente
l'antitesi della PAX che invece deve regnare. La carita`
insomma, e solo la carita`, rende possibile "l'utopia" di avere tutto in
comune,
secondo il meraviglioso - e purtroppo di breve durata - esempio della prima Chiesa di
Gerusalemme.

CAPITOLO 54

Se il monaco possa ricevere lettere o altre cose

Si debeat monachus litteras vel aliquid suscipere

1-5: Non ricevere nulla senza permesso

Questo breve capitolo non e` che l'applicazione di quanto prescritto in RB.33,2:


"Nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza
il permesso dell'abate". Si e`
gia` detto quanto SB sia severo in materia di poverta`, per lo spogliamento e il distacco
del monaco.
La fonte e` soprattutto S.Agostino (ma anche Pacomio, Cassiano, Cesario);
tuttavia, mentre Agostino parla della castita` (ricevere
alcunche` da qualcuna, cioe` da
una donna) e della clausura, RB si riferisce alla poverta` (e all'obbedienza: non disporre
di nulla
senza il permesso dell'abate).

Per il monaco destinatario si aggiunge la raccomandazione di non lamentarsi (cfr.


RB.34,3) nel caso che l'abate dia il permesso di
accettare il regalo e poi lo dia a un
altro fratello che forse ne ha piu` bisogno, secondo lo spirito del c.34: e` un caso
concreto di
distribuzione delle cose in comune. Pertanto quel monaco a cui era inviato il
regalo non deve rattristarsi, "per non dare occasione
al diavolo" (cf. Ef.4,27;
1Tim.5,14), cioe` per non cedere alla tentazione del malcontento, dell'agitazione, della
mormorazione.

2: eulogia

Il termine "eulogia" (letteralmente: "buona parola",


"benedizione") ha tanti significati: designava anzitutto l'Eucarestia e il pane
benedetto durante la messa che si inviavano vicendevolmente vescovi e presbiteri, in segno
di comunione e di amicizia. S.Paolino
da Nola ne mandava ai suoi amici, come S.Agostino.
Anche quel briccone di Fiorenzo, quando incio` a SB il pane avvelenato,
simulo` di mandare
un'eulogia (II.Dial.8). Designava ancora il pane offerto dai fedeli che non veniva
consacrato per l'Eucarestia e
veniva distribuito al termine della liturgia. Il vocabolo
servi` poi ad indicare ogni pio dono, come reliquie, medaglie, immagini e
anche frutta e
piccoli doni tra i piu` vari. In questo testo, dunque, significa piccoli regali,
magari con incluso il carattere quasi sacro
di regalo tra ecclesiastici e persone
consacrate a Dio (SB pensa probabilmente ai regaletti fatti ai monaci dalle monache o pie
donne, cf.II.Dial.19).

CAPITOLO 55

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Vesti e calzature dei fratelli

De vestiario vel calciario fratrum

1-8: I vestiti dei monaci

Anche S.Agostino, subito dopo le norme sull'accettazione di lettere o regali, parla del
vestiario dei monaci: un punto su cui e` piu`
facile che si insinui il vizio della
proprieta`. Questo capitolo della RB si ricollega a RM.81 e, nella seconda parte, a RM.82.

Che cosa deve avere dunque ciascun monaco per uso suo personale? Vestiti, calzature e
pochi utensili: lo stretto necessario.
RB.55 intende precisarlo, ma solo fino a un certo
punto. Perche` SB ha troppa esperienza, prudenza e sensatezza per imporre un
vestito
uniforme, un "abito religioso" nel senso moderno della parola, valido e
obbligatorio per tutti i luoghi e per tutte le persone.
SB vuole che si tenga conto del
clima (vv.1-3), e cio` fa capire che egli ha una prospettiva ampia (non pensa solo al
monastero di
Montecassino o di Terracina); esprime la sua opinione su cio` che basta in un
clima temperato (vv.4-6); non gli interessano il
colore e la qualita`, e vuole che i
monaci non se ne curino (vv.7-8). Cio` che gli interessa e` la poverta`, o meglio la
semplicita`:
che ci si accontenti del necessario; difatti SB insiste sulla sobrieta` (sufficit
<basta> dei vv.4 e 10) e sul ruolo dell'abate nel fornire
il vestiario (v.8).

L'elenco del vestiario fornito dalla Regola e` abbastanza ridotto: una cocolla
di lana per l'inverno e un'altra piu` leggera o
consumata per l'estate, la tunica,
lo scapolare "per il lavoro" <propter opera>, scarpe e calze
(vv.4-6). Tutto sembrerebbe chiaro, e
invece non lo e` affatto, perche` nessuno dei capi
di vestiario menzionati corrisponde a quelli in uso oggi nei monasteri; anche se i
nomi
sono rimasti, il significato e` mutato. Vediamo in breve:

L'evoluzione dell'abito monastico

(Queste note sono desunte da G.M.Colombas: "L'abito monastico", in D.I.P.


I,50-56).Gli storici disputano sul senso degli antichi
testi relativi all'abito dei
monaci. Alcuni dicono che esso era certamente riconoscibile e che, sin dai testi
pacomiani, "prendere
l'abito", o riceverlo dalle mani di un altro monaco
equivaleva a impegnarsi nello stato monastico. Altri dicono che l'abito monastico
non
aveva nulla di specifico, in quanto cio` non era ammissibile per gli usi del tempo. La
cosa e` discutibile e i testi sono
interpretati nell'uno o nell'altro senso. Certo e` che
l'abito monastico doveva mettere in risalto la poverta`, l'umilta`: ora il problema
e`
sapere se facevano questo prendendo un abito particolare, oppure scegliendo l'abito comune
della gente piu` povera e piu`
semplice.

In oriente

In oriente gli anacoreti usavano la massima liberta`. Forse il primo abito monastico
distintivo fu la "melota": una specie di zimarra
larga, fatta di pelli di
capra o di altro animale, stretta al corpo da una cintura di cuoio; ricordava - e senza
dubbio voleva pure
imitare - il vestito di Elia (cf.2Re 1,8) e di Giovanni Battista
(cf.Mt.3,4), i due precursori dei monaci cristiani. I monaci d'Egitto
continuarono per
molto tempo a usare la melota, pero`, in genere, solo come difesa dal freddo. Abitualmente
invece indossavano
una tunica con o senza maniche, una cintura di cuoio e un
cappuccio <"Koukoullion"> che copriva il capo e il collo. Cosi` la
maggior parte degli eremiti e cenobiti di S.Pacomio. S.Basilio non prescrive un abito
tipico, ma un vestito povero, semplice,
simbolo della rinunzia alla vanita` del mondo.

In occidente

In occidente l'abito monastico e` stato il piu` vario. S.Girolamo descrive - esagerando


un po` - le bizzarrie e le stravaganze nel
vestire dei vari monaci che giravano per Roma.
S.Martino di Tours e i suoi monaci indossavano una tunica tessuta con pelle di
cammello e
un "pallium" o mantello nero. Il pallium era a quel tempo il contrassegno
piu` comune del monaco in Gallia e nell'Africa
romana. CASSIANO attribuisce grande
importanza all'abito monastico, cui dedica tutto il primo libro delle Institutiones. In
occidente comunque fini` per imporsi il cappuccio, tanto che i monaci furono
conosciuti come gens cucullata <persone
incappucciate>, e si conservava anche
la melota: S.Benedetto eremita a Subiaco andava vestito di pelli (II.Dial.1) e da abate
continuo` a portarla (II.Dial.7). La RM (90,82-86) usa le espressioni "vestiti
santi", "abiti sacri", "abito di Cristo", abito del santo
proposito", cioe` per il Maestro esiste un abito distintivo.

La RB

Al contrario, la RB non ha nulla di esplicito: probabilmente ne` la cuculla, ne`


la tunica, ne` lo scapulare che i primi monaci di
S.Benedetto indossavano ,
erano abiti specificamente monastici. La "tunica" di lana era l'indumento piu`
importante, insostituibile;
tutti i romani l'avevano; gia` fin dal secolo III d.C. si
usava un cinturone di cuoio: "bracile"; in RB.22,5 si parla di corde o
tunicelle:
"cingulis aut funibus"). La "cuculla"
consisteva originariamente in un semplice cappuccio che copriva la testa, il collo e parte
delle
spalle; piu` tardi si modifico`. La cocolla di SB era forse un mantello
semicircolare chiuso (molto simile alle ampie casule);
costituiva il vestito esteriore del
monaco, come lo prova il fatto di averne due, una per l'inverno e ?una per l'estate.
Probabilmente
se la toglievano per lavorare, sostituendola con lo scapolare. Lo "scapulare"
e` il pezzo piu` discusso: alcuni lo identificano con lo
"analabos" di cui parla
Evagrio Pontico, cioe` la cinta di lana che girava intorno al corpo per aggiustare e
adattare il vestito alla
persona; altri pensano a un modello piu` ridotto di cocolla, piu`
adatto per il lavoro manuale, una cocolla particolarmente corta da
coprire poco piu` che
le spalle ("scapulare", appunto). Quest'ultima opinione e` la piu` probabile.
Per i piedi si parla di pedules et
caligae <calze e scarpe>, ma non si e`
affatto d'accordo sul significato dei termini usati da SB. Secondo alcuni, i
"pedules"

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

sarebbero una specie di sandali legati al collo del piede con lacci
(come le "ciocie" usate nella zona di Cassino I(che e` la
"Ciociaria"); le "caligae" invece erano stivaletti da viaggio He da
campagna. Sembra piu` probabile che "pedules" fossero un
indumento di stoffa che
avevano l'ufficio delle nostre calze, e "caligae" fossero le scarpe simili alle
calzature militari, stivaletti che
coprivano interamente il piede H Comunque, a parte
queste considerazioni archeologiche di importanza relativa, certo e` che SB
lascia una
grande liberta` per quanto riguarda la qualita`, il colore, la foggia dei vestiti
(v.7). Da questo e da altri indizi, pare che
nessuno dei capi di vestiario citati Din
questo capitolo appartenga esclusivamente ai monaci: l'abito dei primi benedettini non
differiva essenzialmente da quello dei contadini, dei poveri e degli schiavi, cioe` delle
classi inferiori della societa`. E` sintomatico
che SB non parla mai dell'abito monastico,
se non nel momento della professione (RB.58,26), il che e` tanto piu` strano in quanto
Cassiano, il suo autore preferito, e la RM trattano di esso lungamente ed esaltano il
valore religioso e il simbolismo dell'abito
monastico come segno distintivo (cf. Inst.1:
tutta la descrizione dell'abito e il suo simbolismo; RM.81; 90,82-85; 95,21; ecc...) M
Per
SB il distintivo del monaco e` la tonsura (RB.1,7; vedi commento). Se nella
professione il monaco viene spogliato del suo
abito De ne riceve un altro completo (e
notiamo che li` non si dice "abito monastico" o "abito santo" o
simili, ma semplicemente
"vestiti" - anzi "rebus" <le robe> -
del monastero, RB.58,26), cio` vuol significare direttamente che egli ha perduto il
diritto di
proprieta`. Insomma, SB non da` importanza a queste cose. Fare una storia
dell'evoluzione dell'abito monastico lungo i secoli e`
pressoche impossibile. Certamente
nel sec.VI non era usato il colore nero, che era ritenuto un lusso (S.Cesario lo
proibisce
spressamente). Oggi quasi tutti i benedettini usano il nero; i Camaldolesi, gli
Olivetani e i monaci di Montevergine usano il bianco;
i cisterciensi e i Trappisti usano
tonaca bianca e scapolare nero . L'abito nella Congregazione Silvestrina K Nella
Congregazione
Silvestrina, all'inizio l'abito era de gattinello, cioe` di un panno di
lana di colore misto risutante dalla combinazione del grigio o
cenerino con il lionato.
Per questo nel Emedioevo i Silvestrini furono chiamati, come i Vallombrosani, monaci
="grisei" <grigi>. Col
passare del tempo il lionato prese il w sopravvento
sul grigio, fino a diventare tane`, come si puo` vedere da numerose pitture
esistenti. Nel 1663, al tempo dell'unione con i Vallombrosani, fu adottato il colore
nero. Le Costituzioni del 1690 stabiliscono l'abito
di colore tane` o lionato che
pieghi allo scuro. In seguito, non sappiamo precisamente quando, si adotto` il colore
bleu fino al
1933. Attualmente, a partire da quella data, l'abito e` nero e la cocolla
(abito corale) e` di colore turchino tendente al nero. In India
e Sri Lanka, viene usato
il bianco. In Australia, da qualche anno, usano, opzionale d'estate, anche il colore
bianco.

9-14: Disciplina per rilevare e consegnare i vestiti

SB vuole evitare che i monaci accrescano il guardaroba. "Bastano due tuniche e due
cocolle". Sappiamo che i monaci dormivano
vestiti, per essere pronti a recarsi
all'Ufficio notturno (RB.22), e quindi avevano la tunica e forse anche la
"cuculla"... Notiamo il
vigoroso sufficit <basta> all'inizio del
v.10 e tutto il v.11: quel che e` in piu` e` superfluo e si deve eliminare (cosi`
anche in
Pacomio, Reg.81). Al v.13 si parla di femoralia <femorali>: corrispondono pressappoco alle odierne "mutande". Ordinariamente
non erano usati, ma solo in viaggio, soprattutto per cavalcare. Nei monasteri il loro uso fu pero` assai vario: in alcuni luoghi li
portavano abitualmente tutti (come a Cluny); in altri chi
li voleva, in altri era addirittura proibito. Notiamo anche la delicatezza e la
signorilita` di SB nel prescrivere vestiti migliori per chi viaggia (v.14).

15-19: Fornitura del letto e precauzioni contro il vizio della proprieta`

La stessa semplicita` che distingue l'abito del monaco, deve contrassegnare il suo
letto: sufficiant <bastano>, (di nuovo, per la
terza volta, appare questo
verbo!), un pagliericcio, una coperta leggera, un cuscino (v.15). Il letto era allora
l'unico mobilio
personale del monaco, e pare che servisse da nascondiglio per le piccole
cose che i monaci sottraevano all'uso comune. La RB,
come tutti i documenti monastici
antichi, invita l'abate a ispezionare con frequenza e a punire

severamente i colpevoli di un vizio cosi` odioso, cioe` la proprieta` (vv.16-17). Sono


rimasti famosi alcuni fatti di monaci trovati in
possesso di denaro dopo la morte e
trattati molto rudemente per tale motivo (privati della sepoltura ecclesiastica!):
cf.S.Girolamo
in Epist.22,23 e il fatto di S.Gregorio Magno quando era abate al Celio.
L'ispezione "opus peculiare" del v.16, si ispira a Cassiano
(Inst.4,14), dove
significa: guadagno procurato con lavori particolari. In RB, invece, ha il senso di
"cose ritenute senza il permesso
dell'abate".

20-22: L'abate deve provedere ai singoli

Pero`, per estirpare dalle radici il "vizio della proprieta`" (di nuovo
appare l'espressione usata in RB.33,1), l'abate deve dare a tutti i
fratelli il
necessario. Osservazione molto pertinente: altrimenti se lo procurano di nascosto! e`
stato sempre cosi`!. In tal modo
invece, non hanno alcun pretesto per compiere atti di
proprieta`. Le disposizioni precedenti ricordano l'energico c.33; solo che,
invece di
dirigersi ai monaci, qui la Regola parla all'abate: dia egli tutto il necessario, secondo
la frase di Atti 4,35 gia` citata nel
c.34: "veniva distribuito a ciascuno secondo il
bisogno". E di nuovo la Regola parla a favore dei deboli che necessitano di piu`. A
queste necessita` deve badare l'abate nel dare le cose, e "non alla cattiva volonta`
degli invidiosi" (v.21); cioe` non deve omettere
di soddisfare le necessita` dei
monaci piu` deboli per dare retta a quelli che, mossi da invidia, non tollerano eccezioni
o
agevolazioni. Cosi` il trattato sulla proprieta` (spogliamento di se`) costituito dai
cc.33-34 riceve nel c.55 un complemento
indispensabile, che potrebbe intitolarsi "la
responsabilita` dell'abate nel mantenimento della vita comune" (DeVogue`).

CAPITOLO 57

Gli artigiani del monastero

De artificibus monasterii

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Trattiamo in questa sezione anche del c.57, a prima vista difficile da classificare. La
poverta` individuale del monaco, lo
spogliamento di se` acquista qui un aspetto piu`
spirituale che materiale: il monaco deve essere distaccato dalla proprieta` privata
anche
nei suoi pensieri.

1-3: Gli artigiani del monastero

La base di sussistenza del monastero, secondo la RB e` la terra lavorata da operai a


pagamento o dai monaci stessi (cf.RB.48).
Tra i fratelli potrebbero trovarsi alcuni che o
gia` nel mondo o in monastero si sono resi abili in un'arte. SB non specifica nulla;
pare
gli interessi poco; cio` che a lui interessa e` il bene spirituale, quindi evitare il
rischio della mancanza di umilta`: cose che
sono al di sopra di ogni considerazione di
guadagno per il monastero. Percio` potranno questi monaci esercitare la loro arte, ma
solo
con il consenso dell'abate (v.1) e senza ritenersi indispensabili, vantandosi di
portare un utile al monastero.

Forse SB si ispira a S.Agostino, il quale parla di monaci che hanno portato delle
sostanze al monastero e che potrebbero
insuperbirsi di cio`. Potrebbe ispirarsi anche a
Cassiano (Inst.4,14) che parla del lavoro dei monaci egiziani. Per SB, se gli artigiani
non sono capaci di disinteresse e di distacco, deve proibirsi loro di esercitare la loro
arte (v.3).

4-9: Vendita dei prodotti del lavoro

Per la vendita dei prodotti del monastero sono due i vizi da evitare: la frode e
l'avarizia. La frode potevano commetterla o gli
artigiani stessi o altri monaci o
altri intermediari. L'avarizia, sotto il pretesto di maggiori introiti per il monastero,
sarebbe una cosa
grave sia per i monaci singoli che per il buon nome del monastero stesso.
Per evitare cio`, si vendera` aliquantulum <un pochino>
di meno di quanto
vendono i secolari. S.Girolamo (Epist.22,34) parla con ironia dei monaci sarabaiti, i
quali, "come se fosse santo
il loro lavoro, e non la vita, vendevano a prezzi
maggiori"!

9: Ut in omnibus glorificetur Deus ...

... <affinche` in tutto sia glorificato Dio>. Anche nel trattare interessi cosi`
secondari e temporali, il fine e l'ispirazione devono
essere di carattere soprannaturale.
La bella sentenza, presa da S.Pietro (1Petr.4,11), ricordata quasi incidentalmente in un
passo
secondario della Regola e a proposito di un argomento cosi` poco spirituale, esprime
bene lo spirito di fede del S.Patriarca, ed e`
divenuta un programma e un motto dei
nostri monasteri, dove si trova spesso anche abbreviata in sigla: U. I. O. G. D.

ALIMENTAZIONE DEI MONACI

CAPITOLO 35

I settimanari di cucina

De septimanariis coquinae

Preliminari alla sezione RB.35-41: L'alimentazione dei monaci

Sette capitoli consecutivi, dal 35 al 41, hanno come denominatore comune la trattazione
del tema dell'alimentazione dei monaci. I
padri del monachesimo antico danno
all'alimentazione grande importanza: sia nel senso che tale necessita` corporale serviva
loro
come palestra per esercitarsi nella mortificazione e nella penitenza; sia nel senso
che compresero il ruolo che una giusta
alimentazione ha per le attivita` spirituali del
monaco. Cassiano, con la sua esperienza dei diversi ambienti monastici, riassume
nelle sue
Institutiones alcune norme; in un capitolo pone espressamente la questione: come debba
essere il pasto del monaco. E
risponde che si deve scegliere una alimentazione: a) che
mortifichi gli ardori della concupiscenza; b) che possa prepararsi
facilmente; c) che sia
la piu` economica... (Inst.5,23).Riassumendo il suo insegnamento, possiamo dire che il
regime alimentare
dei monaci deve avere tre obiettivi: a) dominare direttamente la
passione della gola e, indirettamente, quella della lussuria, cosi`
collegata con la gola;
2) essere in coerenza con la poverta` che si e` professata; 3) favorire l'orazione e in
generale tutta l'attivita`
spirituale del monaco.

Schema della trattazione in RB

SB dipende da Cassiano e dalla RM, la quale in questa sezione e` molto


particolareggiata e lunga (RM.cc.18-28 e 69-70). La RB
contiene comunque abbastanza
elementi per capire l'importanza che anche il S.Patriarca dava a una alimentazione adatta
per i
monaci e, in generale, alla cura del corpo. Lo schema: il c.35 parla dei settimanari
di cucina, cui logicamente segue il c.38 sul
lettore di mensa; SB ha inserito
il c.36 sugli infermi e il c.37 sui vecchi e i fanciulli, cioe` coloro per
cui bisogna fare eccezioni al
regime alimentare comune. Dell'alimentazione propriamente
detta si parla nel c.39: la misura del cibo, cui segue il c.40 sulla
misura del
bere, e conclude il c.41 sull'orario dei pasti conventuali.

Introduzione al c.35

Il sistema settimanale per il servizio della cucina e della mensa era comune tra
i monaci d'oriente e d'occidente. A questo capitolo
corrispondono in RM almeno sette
capitoli, in cui con ogni minuziosita` e` descritto il modo di entrare a tavola, il cesto
dei pani che

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

scende dall'alto con una fune, la distribuzione del pane e delle bevande,
quando sedersi, ecc., con tutti i significati simbolici e
spirituali: la mensa comune e`
vista proprio in spirito di fede, come una grande liturgia. SB dipende chiaramente da RM
(e da
Cassiano), ma e` molto piu` breve, con dei punti in comune e altri punti diversi.

1-6: Servizio di cucina

SB afferma il principio generale: e` importante che i fratelli si servano a vicenda


(v.1) e si servano in spirito di carita` (v.6).
Chiaramente non si poneva neppure
l'ipotesi che il lavoro di cucina potesse essere affidato ad estranei. Per lungo tempo la
tradizione benedettina e` stata costante su questa linea, anche se le contingenze dei
luoghi e la scarsezza numerica hanno
ammesso l'aiuto di domestici laici. In tempi piu`
recenti, si e` affidata tale opera ai laici, uomini e anche donne: inoltre tale servizio,
che richiede speciale competenza - anche nei monasteri dove si continua a svolgere dai
monaci - in genere non e` piu`
settimanale, pur rimanendo settimanale il servizio a tavola
o il lavaggio dei piatti.

Notiamo subito, come in tanti altri passi della Regola, la sollecitudine verso i
piu` deboli. Ci sono coloro che possono essere
dispensati: i malati (v.1) - oltre al
cellerario (v.5) - e ai piu` deboli si diano comunque aiuti perche` non siano oppressi

dalla tristezza o siano tentati di mormorazione. Evitare la tristezza, l'eccessiva


fatica, la mormorazione: SB mette sempre un
motivo valido e ragionevole e soprannaturale a
fondamento delle varie mitigazioni che introduce nell'osservanza monastica. (Si
noti che
il v.2 si puo` interpretare o riferito al principio generale del servizio di tutti i
fratelli o anche alla eccezione che si ammette).

7-11: Norme per chi termina il turno

Chi termina il turno settimanale, il sabato fa le pulizie generali e la lavanda dei


piedi (insieme a chi entra). Il singolare che c'e` nel
testo fa supporre come condizione
ordinaria quella di un solo settimanario titolare; gli altri sono considerati aiutanti.
Nella RM il
turno settimanale e` organizzato per decanie: tutta la decania e` coinvolta,
anche se due soli vi si dedicano abitualmente e in caso
di necessita` il decano mandava
qualche aiuto sempre della stessa decania.

12-14: Provvedimenti di indulgenza a favore dei settimanari

Questi versetti sul supplemento ai settimanari sono qui fuori luogo e andrebbero meglio
o prima dei vv.7-11 o dopo i vv.15-18;
sono stati aggiunti dopo (come fa spia anche il
plurale, mentre nei vv.7-11 si parla del settimanario al singolare). La motivazione
del
supplemento si ispira a S.Agostino (Reg.13,160-162). Il lavoro di cucina e` gia` pesante
di per se`; inoltre i settimanari devono
lavorare in cucina e servire a tavola mentre i
fratelli mangiano; il pasto era al piu` presto a mezzogiorno, spesso assai piu` tardi, o
anche verso sera (la colazione mattutina non si conosceva): cio` spiega perche` SB conceda
uno spuntino: un po` piu` di pane e
un bicchiere di vino, oltre la misura fissata per
tutti. Cosi` anche in Cesario (Reg.Virg.14). RM non accorda il supplemento, perche`
i
settimanari mangiano assieme ai fratelli.

14: "missas", diverse interpretazioni ...

Il v.14 e` di interpretazione discussa. Il problema e` la parola "missas",


che spesso anche nella RB significa: la fine, le orazioni
finali, l'azione di grazie; e
qui

sarebbero le preghiere di ringraziamento dopo il pranzo. In tal caso il v.14 si


traduce: "nei giorni festivi, invece, aspettino fino alla
fine del pranzo"
(cosi` DeVogue`, Colombas e altri). Ma non si vede allora che senso abbia la concessione;
altri traducono: "fino
alla Messa", "fino alla comunione della Messa",
interpretando "missas" come le orazioni che precedono la comunione (cosi`
Penco,
Steidle, Lentini, e altri). Da questo passo, in tal caso, ma anche da altri indizi, si
rileverebbe che al tempo di SB non c'era
nel monastero la Messa conventuale quotidiana
(ne` tanto meno si parlava allora di Messe private); nei giorni festivi ce n'era una
sola,
solenne, per tutti, in cui ci si accostava alla Comunione (la RM descrive in maniera
particolareggiata come fare per la
comunione dei servitori).

15-18: Rito liturgico per i settimanari

Il servizio di cucina e di mensa, pur cosi` modesto, deve essere visto con spirito di
fede, e quindi riceve l'impronta di sacro e viene
benedetto da Dio. Al rito SB (come
Cassiano, RM e tutta la tradizione monastica) da` un carattere ufficiale e liturgico.
Nella RB
tale rito si svolge dopo le lodi domenicali. RM lo divide: sabato sera, l'uscita;
domenica, dopo Prima, l'entrata. Anche i versetti
scritturistici usati sono diversi.

Concludendo: il trattato sui servitori di RB e` molto povero di dettagli rispetto a


RM. Per SB "non si tratta di regolare l'uso del
tempo dei settimanari, come fa il
Maestro, ma di stabilire il principio di mutuo servizio nella carita`. Questa visione
principalmente
spirituale obbliga a tener conto delle intime disposizioni dei servitori,
dunque delle condizioni concrete del loro lavoro. Da cio` la
concessione di dispense,
l'aiuto e i supplementi, al fine di evitare la tristezza e la mormorazione. Il trattato
benedettino prende
cosi` un volto piu` spirituale e piu` umano del minuzioso e pittoresco
regolamento del Maestro" (DeVogue`).

CAPITOLO 36

I fratelli infermi

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

De infirmis fratribus

Preliminari

I capitoli RB.36 e 37 sarebbero dovuti venire dopo il 41, perche` prevedono deroghe
alla legge dei digiuni; e inoltre separano due
capitoli (il 35 e il 38) che dovrebbero
essere uniti. RB ha anticipato perche` in essi ci sono temi affini a quelli del c.35: il
servizio, la
ricompensa, la fuga della tristezza; c'e` la solita preoccupazione per la
cura soggettiva e per il servizio vicendevole tra i fratelli.

1-6: Principi generali per la cura degli infermi

Il capitolo si apre con due solenni principi fondati su due frasi del Signore: bisogna
aver cura dei malati prima di tutto e soprattutto
- espressione assoluta ed
energica - e servire a loro come a Cristo in persona (v.1); seguono le due
citazioni di Mt.25,36 e 40. I
monaci opereranno di conseguenza, ma SB aggiunge una frase,
grave, ma pacata, anche per gli infermi a non essere petulanti e
troppo pretenziosi o
addirittura capricciosi. Comunque, anche ammesso che i fratelli malati diventino cosi`
strani - come puo`
succedere a causa del male - gli altri devono sopportarli in ogni caso.
La prima parte del capitolo si chiude con una ammonizione
categorica all'abate affinche`
si prenda "somma cura" degli infermi (v.6).

7-10: Disposizioni pratiche per i malati

SB scende ad alcuni particolari concreti e stabilisce: primo, che nel monastero ci sia
una infermeria affidata a un infermiere
"timorato di Dio, diligente e
premuroso" (v.7); secondo, l'uso dei bagni ai malati ogni volta che e`
necessario (v.8); terzo, che si
permetta di mangiare carne, anche se soltanto a
quelli molto deboli (v.9). Tanto l'uso dei bagni che il mangiare carne sono una
concessione: costituivano infatti un'eccezione allo stato di monaci. Una parola su tutte e
due le cose.

L'uso dei bagni

Fin dalle origini del monachesimo, notiamo una esplicita avversione per l'uso dei bagni. Non dobbiamo dimenticare che per gli
antichi, i bagni, piu` che una pratica igienica, erano un passatempo, un lusso e un piacere (sappiamo che cosa erano le terme dei
romani). Per mortificarsi e per non cadere nella sensualita`, i monaci esclusero per principio i bagni dal loro genere di vita,
riservandoli solo ai malati. La tradizione cenobitica e` unanime (Vita di Antonio, Pacomio, Agostino, Reg.Masch., Cesario,
Fulgenzio,
Leandro, Isidoro); un'unica eccezione, la Regola femminile di Agostino (Epist.211,13) che
concede alle monache il
bagno una volta al mese. SB si trova su questa linea e autorizza
il bagno a tutti, anche se "piu` di rado, soprattutto ai giovani"
(v.8). Non
possiamo stabilire la frequenza di questi bagni per i sani, ma certo, considerando il
tempo e l'ambiente, SB e`
eccezionalmente liberale, quasi rivoluzionario.

L'uso delle carni

Per lo stesso motivo che dai bagni, i monaci si astenevano dalle carni (perche` i bagni
e le carni riscaldano il corpo e solleticano la
sensualita`: "il bagno scalda la
carne, il digiuno la raffredda", scrive S.Girolamo). Anche su questo punto SB si
mostra molto
liberale verso gli infermi. Il brano, considerando soprattutto il parallelo
con RB.39,11, si deve interpretare nel senso della
proibizione assoluta solo per le
"carni dei quadrupedi", cioe` non riguarda il pollame e i pesci. La distinzione
tra carne di
quadrupedi e carne di uccelli era gia` antica nella dietetica monastica: la
seconda si considerava piu` leggera, e quindi meno
pericolosa per la virtu`; si equiparava
praticamente ai pesci, ricordando la Scrittura secondo cui pesci e uccelli furono creati
insieme (Gen.1,20-21). Il capitolo termina inculcando di nuovo all'abate la "massima
cura" che si deve avere per gli infermi,
vigilando anche perche` gli incaricati
adempiano bene il loro dovere, secondo il principio generale che sul maestro ricade la
responsabilita` ultima di tutto (v.10).

Conclusione

Il c.36 sui malati e` uno dei meglio riusciti della RB, sotto l'aspetto letterario e
contenutistico. Molti esempi ci sono nella
legislazione monastica della sollecitudine per
i malati, pero` nessuna Regola riunisce in cosi` mirabile sintesi il trattato sugli
infermi
come RB, che elimina anche ogni nota negativa rispetto ai fratelli malati (RM
prevede soprattutto il caso delle... finzioni e non
parla ne` di infermeria, ne` di
infermieri). "Questo trattato mostra in modo chiaro che RB nella sua brevita`
possiede delle
istituzioni piu` evolute di quelle di RM. E siamo portati a pensare che
questo sviluppo istituzionale e spirituale sia il riflesso di una
conoscenza piu` ampia
della letteratura cenobitica anteriore e contemporanea" (DeVogue`).

CAPITOLO 37

I vecchi e i fanciulli

De senibus vel infantibus

1-3: Condiscendenza per i vecchi e i fanciulli

E` evidente la connessione col capitolo precedente: i vecchi e i fanciulli, per la


debolezza insita nella loro stessa eta`, sono da
avvicinarsi molto ai malati. SB ricorda
un principio generale, cioe` la naturale tendenza dell'uomo a compatire i vecchi e i
fanciulli.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Pero` vuole che intervenga anche l'autorita` della Regola perche` -


l'esperienza glielo avra` insegnato - in una comunita`
monastica ci puo` essere sempre chi
vede di malanimo le eccezioni e certi temperamenti rigidi vogliono che la Regola si
applichi
fedelmente e scrupolosamente in tutto e a tutti. SB con la sua grande discrezione
e la considerazione della soggettivita`, vuole
che si tenga conto sempre dei piu` deboli e
si usi un'affettuosa condiscendenza (v.3).

SB fa` poi una sola applicazione pratica riguardo al vitto: anticipino le ore stabilite
per il pasto comune. Per i vecchi e i fanciulli
sarebbe stato troppo grave sostenere il
digiuno fino al tardo pomeriggio o rifocillarsi con un forte pasto verso sera o anche solo
aspettare fino a mezzogiorno (ricordiamo che non esisteva la colazione). SB si ispira a
S.Girolamo (Epist.22,35) ed e` molto largo
nell'eccezione concessa, senza scendere in
particolari (RM.28.19-26 fissa l'eta` e limita le eccezioni); rimane volutamente poco
esplicito, confidando nella discrezione di coloro che guidano la comunita` monastica, in
cui ci sono sempre anime "forti" e anime
"deboli", come infermi,
vecchi e fanciulli.

CAPITOLO 38

Il lettore di settimana

De hebdomadario lectore

1-9: Ufficio del lettore e silenzio a tavola

Un altro ufficio connesso con la refezione dei fratelli e` quello del lettore di mensa.
Anche questo ufficio e` settimanale, come
quello dei servitori. La lettura a tavola era
sconosciuta in Egitto (Pacomio). Secondo Cassiano, l'uso di leggere a tavola lo
avrebbero
introdotto i monaci di Cappadocia per evitare le discussioni frivole e le dispute
(Inst.4,17). S.Basilio (Reg.Brev.180) si
appella al motivo spirituale, seguito poi da
tutta la tradizione monastica: cioe` di rifocillare anche lo spirito insieme al corpo
(vedi la
scritta nel nostro refettorio del monastero di S.Silvestro: "Dum corpus
reficitur, mens ieiuna non maneat" <mentre si rifocilla il
corpo, lo spirito non
rimanga digiuno>; cosi` S.Agostino, S.Cesario, ecc.

SB inizia il capitolo con una norma generale presa da RM.24, la quale aggiunge il
famoso principio della doppia mensa (come
detto sopra), citando Mt.4,4 (Lc.4,4): "Non
di solo pane...". Il lettore di mensa prende servizio la domenica con un rito
liturgico
sobrio che si svolge in chiesa dopo la Messa (in RM si svolge in refettoio), in
cui si chiede di vincere lo spirito di superbia e di
vanagloria. Perche`, essere scelto
per la lettura pubblica era - soprattutto a quei tempi - di pochi, in quanto non potevano
farlo
tutti, ma solo chi era in grado di farlo in maniera degna: SB lo dira` espressamente
alla fine del capitolo (v.12) e lo dice anche
altrove (RB.47,3).

RM.24 dice espressamente che si doveva leggere sempre la Regola molto lentamente, in
modo che i fratelli su ogni brano
potevano domandare spiegazioni all'abate; l'abate
inoltre poteva interrogare sulla lettura. Quando invece vi erano ospiti che non
avrebbero
potuto capire i "secreta Dei" e quindi deridere forse il monastero, si leggeva
altro. SB sopprime tutte queste
prescrizioni, non dice cosa si deve leggere (della lettura
della Regola parlera` in RB.66,8) e introduce la prescrizione del silenzio
assoluto,
rifacendosi a Pacomio e a Cassiano; solo l'abate puo` - se vuole - intervenire con qualche
esortazione (sulla lettura
anzitutto, s'intende, o su altro), ma molto brevemente (v.9).
Bisogna dire che tutta la tradizione monastica e` concorde nel
prescrivere il silenzio al
refettorio comune; e la tradizione benedettina e` stata fedele alla disposizione del
S.Patriarca. Solo negli
ultimi tempi in alcuni monasteri si usa dispensare dal silenzio
(da noi Silvestrini piu` frequentemente); pero` anche in questi casi
non manca la lettura
all'inizio e alla fine.

10-11: Benevola concessione al lettore

Abbiamo qui ancora un tratto di umanita` di SB, che concede al lettore - come gia` ai
servitori - un piccolo favore: un bicchiere di
"mixtum" <acqua e vino>
"sia per la santa comunione sia per poter sopportare il digiuno" (v.10).
RM.24,14 dice espressamente
"propter sputum sacramenti" <per lo sputo del
sacramento>, per paura, cioe`, che durante la lettura a voce alta, fra le stille di
saliva che potevano emettere, uscissero anche particelle della sacra specie rimaste
eventualmente in bocca. SB corregge
l'espressione brutale di RM e porta una motivazione
piu` completa aggiungendo il motivo del digiuno e della fatica.

12: Criterio per la scelta del lettore

Il v.12 e` una postilla sul criterio per la scelta del lettore di mensa (e, per
estensione, di tutti i lettori e i cantori in chiesa e in
refettorio), parallelo a
RM.47,3: legga e canti come solista solo chi puo` farlo con utilita` ed edificazione degli
uditori.

CAPITOLO 39

La misura del cibo

De mensura cibi

1-5: Razione quotidiana del cibo

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

SB prova disagio e ritegno nel determinare la misura del vitto (lo dira` espressamente
all'inizio del capitolo seguente, RB.40,1-2).
Percio` inizia con un modesto sufficere
credimus <pensiamo che bastino>. Identico inizio in RM.26,1, con la differenza
che RB e`
un po` piu` restrittiva mettendo come occasionale il terzo piatto che in RM e`
sempre previsto. Caso strano: poi: RB e` piu` lunga
di RM. Al v.1 la frase omnibus
mensis e`, per l'interpretazione, tra le piu` tormentate della Regola. Puo`
significare (piu`
letteralmente prendendo "mensis" come ablativo regolare da
"mensa, mensae"): a tutte le mense, cioe` a quella della comunita`, a
quella dei servitori e del lettore che mangiavano dopo (RB.38,11), e a quella dell'abate e
degli ospiti (RB.56,1); come anche, e piu`
probabilmente, a tutte le tavole, dove
erano seduti i fratelli per gruppi (soprattutto considerando il parallelo con la RM
secondo la
quale i monaci stavano a tavola in tavoli diversi secondo le decanie). Cosi`
DeVogue`, Colombas e altri. Altri invece (come Penco,
Lentini, ecc...) intendono
"mensis" come ablativo volgare al posto del regolare "mensibus" (da
"mensis, mensis") e interpretano: in
tutti i mesi, cioe` sia d'estate che
d'inverno. (Per l'orario dei pasti che poteva essere a sesta, a nona e anche dopo, cf.
RB.41).

SB vuole due pietanze cotte, per assicurare il necessario ai fratelli malati (v.2), ma
chi aveva stomaco forte poteva senza dubbio
fare onore ad ambedue. L'eventuale terzo
piatto era di legumi teneri che in Italia del Sud il popolo soleva mangiare anche crudi:
fave, ceci, lupini, ed anche carote, cipolle, ravanelli, ecc. Per il pane si parla di una
"libbra", peso tradizionale presso tutti i monaci
(cf.Cassiano, Coll.2,19;
RM.26,2). La libbra romana equivaleva a un terzo di chilogrammo, ma variava secondo i
tempi e i luoghi.
Pare che la misura di SB sia molto piu` grande: il pane costituiva il
cibo principale per i monaci di allora, dediti quasi tutti a lavori
manuali. A
Montecassino si conserva ancora un peso di bronzo, di cui un'antica e seria tradizione
attestata gia` da Paolo Diacono
(sec.VIII) dice adoperato fin dai tempi di SB, portato a
Roma nella prima distruzione dell'abbazia (577) e restituito da Papa
Zaccaria. Tale peso
corrisponde a kg.1,055: esso valeva per il pane crudo; per il cotto, l'equivalente si puo`
calcolare intorno agli
800 grammi. SB ricorda al cellerario di conservare la terza parte
della razione di pane a testa per i giorni in cui c'era anche la cena
(ma non si dice in
che cosa questa consistesse).

6-10: Eventuale aggiunta e quantita` per i fanciulli

Questo era il regime normale. Ma ci potevano essere dei supplementi per qualche motivo:
SB cita solo il caso di un lavoro
eccessivo, RM.26,11-13 anche un motivo gioioso
(domenica, giorni di festa, ospiti particolari; e parla anche del "dolce" (!)
ricordando un episodio di "Vitae Patrum"); purche`, osserva SB, non si esageri
fino all'eccesso o all'indigestione (vv.7-9).

I fanciulli seguono un regime particolare (v.10): si sa che essi hanno bisogno piu` di
cibo frequente, che di cibo abbondante. SB
ha gia` provveduto in loro favore (RB.37).

11: Astinenza dalle carni

Come gia` detto in RB.36,9, l'astinenza dalle carni era normale per i monaci; si
intende "carni di quadrupedi" (v.11). Il divieto delle
carni si e` andato nel
corso dei secoli piu` o meno attenuando, a causa della crescente debolezza generale
dell'organismo, e oggi
di fatto e` quasi annullato nella legge ecclesiastica. Le
Costituzioni delle singole Congregazioni fissano le norme per l'astinenza
nei monasteri.

CAPITOLO 40

La misura del bere

De mensura potus

1-7: Il vino per i monaci

Il capitolo e` legato al precedente. Inizia con la citazione di 1Cor.7,7 a dimostrare


la titubanza di SB a legiferare su questi
argomenti. S.Paolo, nel brano, si riferisce
direttamente alla sessualita`. SB l'applica al vitto: come la verginita`, cosi` anche
l'astinenza dal vino e` un dono che proviene dall'alto; percio` non si puo` imporre come
obbligo, ma solo proporre come sacrificio
meritorio davanti a Dio (v.4). Per la comunita`,
considerando le varie esigenze, SB fissa (ma si noti l'espressione di ritegno come
al c.39
"sufficere credimus" <pensiamo che basti>) una emina di vino al
giorno, misura incerta c he i commentatori calcolano
intorno ai 3/4 di litro. Secondo
l'uso, vi si mesceva l'acqua, generalmente calda.

Nei vv.5-7 SB prevede un supplemento in caso di lavoro e di calore eccessivi, ma sempre


con l'invito a fuggire l'eccesso e
l'ubriachezza. Qualcosa di simile in RM.27,43-46, dove
tuttavia il supplemento e` dato per motivi gioiosi e l'ebbrezza e` posta in
relazione con
l'impossibilita` di stare attenti alla preghiera e con la libidine. (Notiamo qui che RM e`
molto particolareggiata nell'uso
del vino: stabilisce quanti bicchieri si danno a ciascuno
e il modo di darli, quanti pezzi di pane vi si possono intingere prima
dell'arrivo delle
vivande, il numero delle bevute dopo nona per il lavoro, e tanti altre particolarita`). Al
v.6 SB fa un'osservazione
riguardo all'uso del vino per i monaci, manifestando i suoi
scrupoli e facendo il confronto tra monachesimo antico e monachesimo
del suo tempo (cosi`
anche in RB.18,24-25 a proposito della perfezione).

Il vino nella tradizione monastica

Sull'uso del vino nella tradizione monastica, si va dalla totale proibizione (Vita di
Antonio, Pacomio, Basilio - solo per i malati -,
Giovanni Crisostomo...), alla progressiva
(Agostino, Ilario di Arles...) e pacifica ammissione (Cesario, Aurichiano, Isidoro,

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Fruttuoso...). Nelle "Vitae Patrum" (V, IV,31) si legge la sentenza dell'abate


Pastore che "vinum monachorum omnino non est" <il
vino non conviene affatto
ai monaci>, e SB la ricorda con un certo disagio; tuttavia accetta le cose come sono e
vi si adatta, pur
ricordando e lodando l'austerita` antica. E aggiunge la norma di Basilio
(Reg.9) di non bere almeno fino alla sazieta`, citando la
frase del Siracide 19,2 che,
presa integralmente, suona cosi`: "vino e donne fanno traviare anche i saggi". A
SB, in questo punto, il
secondo termine (le donne) non e` pertinente!

8-9: Casi di scarsezza o di mancanza di vino

SB aggiunge un piccolo paragrafo per il caso di scarsezza di vino a causa della


situazione del luogo o anche della poverta` del
monastero. Qui interviene la fede:
benedicano Dio che presta loro l'occasione di un po` di penitenza (v.8); doversi
affliggere per
cosi` poco! Tanto meno mormorare! (v.9).

CAPITOLO 41

In quali ore i fratelli debbano prendere cibo

Quibus horis oportet reficere fratres

Preliminari

La sezione dell'alimentazione si chiude con un capitolo sull'orario dei pasti e sui


tempi del digiuno. E` parallelo a RM.28, ma con
notevoli varianti: SB mitiga molto la
legge dei digiuni. Per l'orario dei pasti, RB segue un ordine cronologico, distinguendo quattro
periodi:

1: Primo periodo: da Pasqua a Pentecoste

Il tempo pasquale, per il carattere di particolare letizia, esclude il digiuno; percio` SB prescrive il pasto principale a sesta e la cena
alla sera. Per i romani il pasto principale era la sera; ma i monaci subito dopo la refezione serale, avevano la lettura e compieta, e
quindi il riposo; percio` l'inversione dei due pasti era anche una buona norma igienica. Riguardo ai monaci primitivi (Egitto),
S.Girolamo dice che "da Pasqua a Pentecoste le cene si cambino in pranzi", cioe` l'ora veniva anticipata da nona a sesta
(Epist.22); cosi` anche Cassiano (Coll.21,23). Anche RM prevede il pranzo a sesta
nel tempo pasquale e concede la cena, ma
solo giovedi` e domenica (RM.28,37-40). SB e`
piu` largo: pranzo e cena per tutto il tempo pasquale.

2-5: Secondo Periodo: da Pentecoste al 13 (o 14) settembre (estate)

Il periodo estivo ha il pranzo a sesta ed ha, in via ordinaria, il digiuno che anche i
semplici fedeli osservavano ogni settimana,
cioe` il mercoledi` e il venerdi`, digiuno che
consisteva nel fare il pasto a nona e non avere la cena. Mentre i giudei digiunavano il
lunedi` e il giovedi`, i cristiani, fin dai primi tempi, digiunavano il mercoledi` e il
venerdi`, e questa usanza fu tenuta in grande onore
presso i monaci;

per la chiesa romana e alcune altre anche il sabato (cosi` anche RM). Ma anche questo
digiuno mitigato ha per SB delle deroghe:
mercoledi` e venerdi` si digiuni (nel senso
detto sopra), purche` i lavori campestri e la calura estiva non richiedano una dispensa;
l'abate consideri la cosa. Si noti il v.5 che intende dire: se e` vero che i monaci non
devono mai mormorare (RB.34,6; 40,8-9), e`
anche bene che l'abate disponga le cose in modo
da evitare ogni motivo fondato di mormorazione.

6: Terso Periodo: dal 13 (o 14) settembre a quaresima (inverno)

In inverno RB prevede il digiuno continuo (cioe` pranzo a nona e senza la cena),


esclusa la domenica (in RM anche il giovedi`).
Questo periodo si suole chiamare
"quaresima monastica". Nel testo, le "idi di settembre" possono
intendersi il "13 settembre",
come e` piu` ovvio, ma anche considerare le
"idi chiuse", cioe` terminate, e quindi supporre l'inizio di tale periodo di
digiuno il "14
settembre", pratica comunissima nei monasteri, anche perche`
legata alla festa della S.Croce.

7-9: Quarto periodo: Quaresima

In quaresima l'unico pasto si prendeva dopo vespro. Era l'ora comune per tutti i
cristiani: si tratta della "quaresima ecclesiastica",
in cui si celebrava il
sacrificio eucaristico nel tardo pomeriggio, e quindi si faceva a vespro l'unica refezione
del giorno. SB
aggiunge che la cena si faccia con la luce del sole e che il vespro,
percio`, venga anticipato (v.8); anzi mette come norma
generale che tutto si faccia con
la luce del giorno <luce fiant omnia>. E` una disposizione che eccita la nostra
curiosita`. Perche`?
Anche se non si escludono ragioni di ordine economico (risparmiare
olio) o anche il motivo di abbreviare un po` il tempo del
digiuno che doveva essere
pesante per gente che faceva lavori manuali, pare che il motivo principale sia di tipo
morale: la
convinzione che la notte non e` un tempo adatto per mangiare, come per parlare
(RB.42,8-11); SB ha in mente probabilmente
molte frasi di S.Paolo (cf. Rom.13,12-13;
Ef.5,8-14; 1Tess.5,5-8) sulla notte come simbolo di tutti i peccati: in particolare di
quelli
della bocca.

Riassumendo: i monaci avevano:

- 1) giorni senza digiuno con pranzo e cena: in tutte le domeniche e le feste;


nel periodo pasquale; in tutta l'estate (cioe` da

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Pentecoste al 13 o 14 settembre, eccetto


il mercoledi` e il venerdi`.

- 2) giorni di digiuno moderato con un'unica refezione a nona: nei mercoledi` e


venerdi` da Pentecoste al 13 o 14 settembre
(purche` non ci fosse lavoro eccezionale nei
campi o molta calura); in tutti i giorni feriali dal 13 o 14 settembre fino a quaresima.

- 3) giorni di digiuno stretto con unica refezione a vespro, in tutte le ferie


di quaresima.

Conclusione sulla sezione dell'alimentazione dei monaci

Nell'insieme dobbiamo dire che il sistema dei digiuni in RB e` molto attenuato rispetto
a RM, mentre e` piu` severo per cibi e
bevande. Nei tre capitoli sui pasti, troviamo tre
volte l'accenno a dispense: RB.39,6-9 (aggiunta di cibo); 40,5-7 (aggiunta di
vino);
41,4-5 (dispensa dal digiuno in estate). Il motivo della dispensa e` il lavoro,
perche` RB prevede il lavoro di agricoltura (mentre RM
limita il lavoro dei monaci
all'artigianato o al giardinaggio). RB.41,4-5 raccomanda all'abate molta discrezione
(cf. anche RB.64,17-
19), perche` i monaci evitino la mormorazione e perche` i deboli non
si scoraggino.

Certo, cio` che SB concede al cibo e alla bevanda avrebbe scandalizzato i Padri del
deserto. L'ideale del S.Patriarca, pero`, non
e` una santita` riservata a pochi, ma
accessibile anche agli infermi di corpo e ai deboli di animo. Nel suo programma di
perfezione
ascetica non entrano di proposito rigorose macerazioni del corpo ed eroici
digiuni. I suoi monaci devono poter attendere alla
preghiera corale, alla lettura e al
lavoro senza eccessivo peso. Certo, il prolungamento del digiuno fino a nona per parecchi
mesi
dell'anno e la qualita` stessa dei cibi differenziavano abbastanza i monaci dai
laici; ma per la quantita` del vitto come del sonno,
SB in definitiva non richiede molto
di piu` di quanto si esigeva allora dai buoni cristiani.

E noi monaci di oggi?

Il regime di SB potra` forse apparire severo oggi; ma si pensi che l'astensione


perpetua dalle carni, come l'unico pasto a nona (e i
quaresima a vespro) non erano allora
ritenuti cosi` duri come adesso. La tendenza di SB a concedere attenuazioni ed eccezioni
indica il sapiente adattamento alle condizioni fisiche e morali dell'occidente. La
discrezione consigliata gia` da Basilio (Reg.19) e
dall'abate Mose` in Cassiano
(Coll.2,16) fa` in SB un ulteriore passo in avanti. Nello stesso spirito. noi monaci di
oggi dobbiamo
anche per il vitto tener conto del regime alimentare medio del luogo in cui
si vive, delle mutate condizioni di tempra fisica, delle
necessita` dei fratelli piu`
deboli, ecc., in modo da non avere una visione angelicata o manicheista della vita
monastica. Ma forse
non e` nemmeno inopportuno richiamarci a una certa austerita`,
evitando di indulgere a una continua e ordinaria sovrabbondanza,
o peggio ad uno spreco di
evidente matrice consumistica moderna, per serbare sempre fede alla temperanza e alla
frugalita` dello
stato monastico, pensando anche a quanti nel mondo soffrono oggi la fame.
La riflessione su questi capitoli della Regola puo`
essere una sfida per il nostro
quotidiano.

----------

N.B.: il c.42 e` stato trattato dopo il c.22; i cc.43-46 sono stati trattati dopo i
cc.23-30 nel codice penitenziale; il c.46 e` stato
trattado dopo il c.20, nella sezione
dell'Opus Dei.

LA GIORNATA IN MONASTERO

CAPITOLO 48

Il lavoro manuale quotidiano

De opera manuum cotidiana

Preliminari

L'Opus Dei e` l'occupazione principale del monaco, pero` non e` l'unica. Il rimanente
tempo va distribuito tra lavoro manuale e
lectio divina. Quindi il titolo non abbraccia
tutto il contenuto del capitolo. In realta` in queste pagine abbiamo tutto l'orario
della
giornata, con la saggia distribuzione del tempo tra OPUS DEI, LECTIO DIVINA,
LAVORO MANUALE, i tre grandi cardini della vita
monastica.

RB.48 corrisponde a RM.50. In quest'ultima l'orario e` visto soprattutto alla luce


dell'Ufficio divino: si tratta di occupare il tempo tra
un ufficio e l'altro; nella RB ha
uno scopo eminentemente pratico: interessandogli l'ordinamento delle occupazioni dei
monaci tra
lavoro e lectio, SB non teme neanche di spostare alcune ore dell'Ufficio divino
(terza, sesta e nona), cosa che altrove era soltanto
eccezionale. RB considera piuttosto
il ritmo della vita umana con le sue alternanze di sforzo e di riposo, di lavoro
spirituale e di
lavoro materiale.

Schema

La struttura del capitolo e` logica:

- un principio generale (v.1);

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

- orario da Pasqua a ottobre (vv.2-6) e norme in caso di lavori eccezionali (vv.7-9);

- orario da ottobre a quaresima (vv.10-13);

- orario di quaresima )vv.14-16);

- la lectio quaresimale, che riveste particolare importanza, fa aggiungere a

SB delle norme per la scrupolosa osservanza del tempo ad essa dedicato

(vv.17-21);

- chiudono il capitolo alcune direttive sul lavoro e la lettura in casi speciali:

uno temporale (la domenica, vv.22-23), l'altro personale (infermi vv.24-25).

1: Principio generale: necessita` del lavoro;

Apre il capitolo un assioma fondamentale: la necessita` e l'obbligo del lavoro. La


sentenza "l'ozio e` nemico dell'anima" si trova
nella Regola di S.Basilio
stampata nella versione latina di Rufino (Reg.192) e viene citata come un detto di
Salomone, ma non si
trova nella Scrittura e non si legge nell'opera originale in greco di
S.Basilio (Reg.37). La Bibbia ha frasi simili: "l'ozio insegna molte
cattiverie"
(Sir.32,21; cf. Prov.26,13-14; Sir.22,1-2). Si noti che nel testo della RB, per
"ozio" c'e` la parola latina otiositas e non
otium, perche`
l'"otium" latino non corrisponde al nostro "ozio", ma significa
"essere libero per dedicarsi ad attivita` di carattere
spirituale" (quali lo
studio, la contemplazione, ecc.; da qui l'espressione "otia monastica" <ozi
monastici> come tempo per la lectio
divina, la riflessione, ecc.). Attenzione quindi a
non equivocare.

"Percio` i fratelli in determinate ore...": la frase richiama un passo di


Agostino (De opere monachorum, 37). SB vuole distribuire
bene il tempo: tutte le ore non
impiegate nell'Ufficio divino devono avere un ben determinato uso: o lavoro manuale o
lectio divina.
Senza parlare qui di queste due componenti dell'orario monastico,
rimandiamo alle riflessioni in: Appendice I: "Excursus sulla
lectio divina" e
Appendice II: "Excursus sul lavoro monastico". Ambedue questi excursus si
trovano alla fine di questi appunti, con
numerazione propria.

2-6: Orario estivo : da Pasqua a Ottobre.

Scendendo al concreto, SB stabilisce l'orario per i vari tempi dell'anno. Nei mesi di
primavera estate, dopo Pasqua (verso le 5) i
monaci andavano al lavoro. Non si fa menzione
dell'Ufficio di Terza, che probabilmente veniva celebrato sul luogo stesso del
lavoro
(cf.RB.50), oppure si celebrava al termine del lavoro verso le 10. (Sara` bene ricordare,
a proposito di ore e di orario, che si
tratta di computo romano, con l'ora variabile
secondo le stagioni in funzione della luce solare (cf. Introduzione generale alla
sezione
sull'Opus Dei, posta prima dei cc.8-11).

Dall'ora quarta (verso le 10) fino a sesta (verso mezzogiorno) i monaci si dedicavano
alla lectio. Si noti la discrezione di SB che
d'estate fa lavorare i monaci nelle prime
ore del giorno quando non e` troppo caldo. Dopo sesta, i monaci mangiavano e poi
avevano
la siesta, per compensare qualcosa alle meno ore di sonno durante le brevi notti
dell'estate (cf. commento al c.8). SB
non tiene conto qui del mercoledi` e venerdi`, in
cui non si mangiava fino a nona (RB.41,2-4) per ragione del digiuno; sembra
pero` che la
siesta nel periodo estivo ci fosse tutti i giorni, digiuno o non digiuno, come appare dal
parallelo RM.50,56-60. Quelli a
cui non piaceva dormire o che amavano astenersene per
ascetismo, erano autorizzati a leggere presso il proprio letto, ma non a
voce alta: la
raccomandazione non e` superflua, perche` gli antichi erano soliti leggere, anche
privatamente, pronunziando le
parole. Da questo testo deduciamo che tutti i monaci,
dormissero o leggessero, dovevano rimanere nel dormitorio comune (come
appare anche da
RM.44,12-19). La siesta durava fino a nona, ma detta ora canonica si anticipava un po` e
poi i monaci tornavano
al lavoro fino a vespro.

7-9: Norme in caso di lavori eccezionali

SB aggiounge una parentesi di singolare importanza: contempla il caso di lavoro


eccezionale, come la raccolta delle messi e dei
frutti. I monaci di quel tempo non si
occupavano direttamente dei lavori dei campi, che invece affidavano ad operai prezzolati
(i
monaci si limitavano al lavoro dell'orto, del giardino, ...). Ora, le circostanze in
cui si trovava l'Italia - la guerra tra Goti e Bizantini,
la poverta`, la mancanza di mano
d'opera o l'impossibilita` di pagarla - potevano costringere i monaci a fare da se stessi
la
mietitura, la trebbiatura, la vendemmia, ecc. Quindi, malgrado le riserve dell'ambiente
monastico italiano, SB si vede costretto a
introdurre il lavoro agricolo (come ha
dimostrato DeVogue`), e riscopre nel suo tempo la grande legge del monachesimo primitivo
di sostenersi con il proprio lavoro: allora sono veri monaci, quando... (v.8). La
necessita` del lavoro inculcata prima come una
massima negativa - evitare l'ozio, nemico
dell'anima (v.1) - si basa ora su un principio positivo: attendere alla propria
sussistenza,
conforme all'esempio dei "nostri Padri e degli Apostoli (v.8).

Quindi il lavoro manuale dei monaci non consistera` solo nelle diverse occupazioni
domestiche (in cucina, nel forno, nel mulino); o
nei diversi incarichi in monastero
(ospiti, ammalati); o nella semplice coltivazione dell'orto sufficiente per le verdure per
la mensa
comune; o ancora nell'esercizio di un'arte: tutti lavori, questi, che non davano
un'entrata al monastero (anche gli stessi artigiani,
cf.RB.57,4-7); si tratta anche di
coprire le necessita` del monastero con il prodotto del proprio lavoro, di provvedere al
proprio

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

sostentamento con fatica, secondo la grande legge del lavoro. In tal caso, dice
SB, i monaci si dedichino a tali lavori pesanti non
soltanto senza mormorare, ma
col santo orgoglio di sentirsi veri monaci (vv.7-8); pero` non si ecceda, e si pensi ai
meno dotati di
vigore fisico o morale (v.9).

10-13: Orario invernale: da ottobre a quaresima

In autunno-inverno si ha un altro ordinamento. I monaci dedicavano le prime ore della


mattinata alla lettura, dalle lodi fino alla fine
dell'ora seconda, che, calcolando il
solstizio invernale con la levata del sole molto piu` tardi, dovrebbe corrispondere alle
nostre
ore 8,30-9. Poi si celebrava terza e quindi c'era un lungo orario di lavoro fino a
nona, verso le 14,30-15.

Si parla solo qui di due segnali per l'Ufficio divino, pero` si puo` supporre che erano
sempre due i segnali per chiamare alla
preghiera i monaci quando stavano lavorando. Come
gia` si e` visto, (RB.41,6), in questo periodo i monaci mangiavano solo dopo
nona, e non
c'era la siesta; percio` dopo il pasto si riprendeva la lettura o lo studio dei salmi: vacent
psalmis significa "mandare a
memoria il salterio" a forza di recitarlo (SB a
questo scopo ha gia` stabilito il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi in inverno,
cf.RB.8,3). La lettura durava certamente fino a vespro; dopo vespro, breve intervallo,
quindi riunione dei monaci con la lettura
delle Collazioni e compieta (cf.RB.42,5).

14-16: Orario durante la quaresima

Come si vede, l'orario invernale era piu` austero che quello estivo. In quaresima
questo carattere severo si accentua: la
quaresima e` un tempo penitenziale. La refezione
era dopo il vespro, che pero` veniva un po` anticipato (cf.RB.41,7-8). L'orario
cosi` e`
meno spezzettato: lettura tutta di seguito fin verso le 9; poi lavoro continuo fino alle
16 (interrotto solo dagli Uffici di sesta
e nona recitati probabilmente sul posto di
lavoro); seguiva il vespro, la refezione, quindi la lettura comune e compieta. Ciascuno
dei giorni di penitenza preparatori alla Pasqua (eccettuata la domenica) costituiva una
dura giornata di lettura e di lavoro
sopportata a digiuno fino a vespro.

Bibliotheca: interpretazione controversa

I vv.15-16 hanno un'interpretazione controversa. "All'inizio della


quaresima - dice la RB - ciascuno riceva un libro della biblioteca
da leggere di seguito e
per intero". Il testo e` perfettamente chiaro. La disputa e` intorno alla parola biblioteca.
Si e` interpretato
fino a qualche anno fa sul senso originario e comune di biblioteca del
monastero. Recenti studi (A.Mundo` "Bibliotheca" Bible et
lecture d'apres
S.Benoit in "Revue Benedictine" 60 (1950) 65-92; A.Mundo` Las Reglas
monasticas latinas del siglo VI y la "lectio
divina" in SM 9 (1967) 247-249
(articolo pp.230-255); A.Olivar in Revue de Archiv.Bibl y M. (1949) 513-522) fanno pendere
per
un'altra interpretazione. Si dice che se la parola "bibliotheca" nella
letteratura classica indica la biblioteca nel senso nostro, cioe`
deposito di libri, nella
letteratura cristiana significa l'insieme dei libri sacri, cioe` la Bibbia.
Nei testi cristiani dal VI al IX secolo, cioe`
durante il periodo patristico e il primo
medio evo, questo significato e` piu` frequente che non l'altro. In tutta la Regola non si
parla
mai di biblioteca del monastero, quasi sicuramente perche` non esisteva (al tempo do
SB i monasteri piu` grandi avevano in
genere un centinaio di codici. Si pensi pero` a
Cassiodoro e alla sua fondazione). Inoltre i cataloghi medioevale di libri non
chiamano
quasi mai "bibliotheca" l'insieme dei codici che elencano, mentre usano la
parola nel senso di Bibbia e citano difatti
Bibliotheca integra <=l'intera
Bibbia>, Bibliotheca II <=il secondo volume>, ecc. Si dice ancora che
interpretare in questa frase
della RB la parola "bibliotheca" come deposito di
libri non ha senso, in quanto risulta evidente da tutta la tradizione cenobitica
(Pacomio,
Agostino, Ordo Monasterii, Isidoro...), che i libri venivano distribuiti tutti i giorni,
perche` i monaci leggevano sempre;
che significato ha una sola distribuzione all'inizio di
quaresima? E negli altri periodo dove leggevano? Invece con la nuova
interpretazione di Bibliotheca
= Bibbia, tutto apparirebbe piu` logico. Prima e dopo SB, la Scrittura soleva
dividersi in nove codici
(SB ne cita alcuni: "Eptaticum" = i 7 primi libri;
"Regum" = 1Re; cf.RB.42,4, oltre al "Psalterium"). Orbene se ne dava
uno a
ciascun monaco all'inizio di quaresima, perche` la Scrittura costituiva il suo
alimento spirituale piu` che negli altri tempi dell'anno; e
cosi` in capo a nove anni si
era letta la Bibbia completa, un "codice" per quaresima, seguendo un certo
ordine, come e` indicato
dalle parole per ordine e per intero del v.16. Anche
S.Cesario invitava a leggere la Scrittura specialmente durante la quaresima.
Tuttavia
l'interpretazione della parola rimane discutibile.

17-21: Vigilanza durante la lettura

Dedicarsi per tre ore al giorno (e in quaresima per tre ore di seguito) alla lectio
divina implicava un certo sforzo per molti monaci,
specialmente in quei tempi in cui la
cultura e la lettura non erano alla portata di tutti. SB delega uno o piu` anziani a
vigilare
perche` i monaci facciano la lectio (forse... bisognerebbe rimettere questa norma
nei nostri monasteri!!!). La disposizione - che
vale evidentemente per tutto l'anno e non
solo per la quaresima - prova che non si leggeva in un luogo comune, ma ciascuno
prendeva
il suo libro e si ritirava dove voleva. Nei secoli posteriori, poi, si uso` studiare e
leggere insieme nel chiostro o in una
sala apposita. Al tempo di SB sarebbe stato
impossibile, anche perche` si usava in genere pronuncuare a voce alta le parole che
si
leggevano: ecco perche` era piu` facile che uno approfittasse dell'occasione e si metteva
bellamente a chiacchierare.

Il fratello accidioso

SB qualifica un tale fratello come accidioso, cioe` vittima dell'accidia. E`


l'unica volta che tale parola appare nella Regola; ed e`
strano, dato l'enorme uso della
parola e del concetto negli ambienti monastici. La parola "accidia"
(<akedia> in greco, <acedia> in
latino) letteralmente significa "mancanza
di cura", "incuria", e divenne un termine tecnico presso i monaci. Si trova
nella famosa
classificazione di Evagrio Pontico, trasmessa da Cassiano sotto il titolo
"Gli otto vizi principali o capitali", ed ha un posto di molto
rilievo: si
tratta di una passione o infermita` dello spirito composta di inquietudine, tedio, vuoto
interiore, instabilita`, torpore, ecc.;

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

si potrebbe pensare alla moderna "noia"


(quando uno non ha voglia di fare nulla, e` arido e vuoto spiritualmente). Evagrio e
Cassiano la analizzano con precisione clinica. Per gli antichi era la tentazione per
eccellenza degli anacoreti, il cosiddetto
"demonio meridiano". Ai cenobiti
poteva (e puo`) venire soprattutto durante la lectio, quando essi sono piu` soli con se
stessi, piu`
simili agli anacoreti. Cassiano ugualmente nota che la "acedia" non
permette di dedicarsi alla lettura (Inst.10,2). SB vuole che un
tale fratello,
"inutile a se stesso e dannoso agli altri" (un "frate-mosca" lo
chiamava S.Francesco), sia punito in modo esemplare,
si` "da far timore amche agli
altri" (v.20); l'espressione ricorda 1Tim.5,20.

21: parlare in ore non competenti

Al v.21 segue un principio generale: che i monaci non comunichino tra di loro in ore
non competenti, tanto meno durante il tempo
della lettura, che deve essere dedicato a
parlare con Dio, ad ascoltare e approfondire la sua parola.

22-25: Lavoro e lettura in casi particolari

Due casi particolari, al termine del capitolo. La domenica e` dedicata


interamente al Signore. S.Girolamo scriveva ai monaci
d'Egitto: "Nei giorni di
domenica attendono solo all'orazione e alla lettura" (Epist.22,35). SB segue questa
pratica; naturalmente
alcuni dei fratelli dovevano attendere ad uffici necessari:
cellerario, infermiere, cuoco, ecc. Pero`, nel caso di qualche fratello molto
svogliato o
anche poco incline a leggere per disposizione naturale (pensiamo che forse alcuni sapevano
appena appena leggere),
SB prescrive un lavoretto qualsiasi, anche di domenica, tanta era
la paura della "otiositas". Ricordiamo che "meditare" (v.23) non
significa tanto meditare nel senso nostro, ma piuttosto "esercitarsi nello studio dei
salmi", "ripetere per imparare a memoria". Tale
e` il senso del v.23 e
probabilmente di RB.58,5 a proposito dei novizi (cf. anche l'excursus sulla lectio divina,
in appendice).
Quanto agli infermi e ai fratelli di salute fragile, bisogna
provvedere un lavoro che mentre fa evitare l'ozio (di nuovo la paura della
"otiositas"!), non li opprima o schiacci (v.24). Il capitolo termina con una
nota di umanita`: l'abate deve considerare la loro
debolezza (v.25).

Conclusione

Se si paragona ad altre Regole monastiche, l'orario di SB appare molto piu` complicato;


ma questo non e` un difetto, rivela una
grande discrezione nell'autore, che fissa tanti
particolari, anche minuziosi, tenendo conto dei tempi e delle circostanze. Per SB
vale il
principio "Nulla si anteponga all'Opera di Dio" (RB.43,3); pero` non teme di
spostare alcune ore dell'Ufficio (terza, sesta,
nona e anche vespro) per meglio inquadrare
le altre due occupazioni principali del monaco, secondo tutta la tradizione monastica:
lectio
e lavoro.

RB si preoccupa molto della lectio divina. Ad essa assegna il tempo migliore in


durata e qualita`; d'inverno le sono dedicate le
prime ore della giornata (senza contare
il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi, cf.RB.8,3) e un'altra ora circa tra nona e
vespro;
d'estate le ultime ore della mattinata e, chi vuole, il tempo della siesta.
Complessivamente sono tre ore al giorno (in quaresima di
piu` e la domenica tutto il tempo
libero). SB vuole evitare una durata eccessiva in continuita` e quindi fa in modo che la
lectio sia
spezzettata. Sarebbe inutile cercare nella RB una dottrina sulla lectio divina:
era una cosa naturale conosciuta da tutti i monaci (e
dai cristiani), era la maniera della
Chiesa di accostarsi al testo sacro in vista non tanto dell'intelletto, quanto piuttosto
della
preghiera (cf. in appendice l'Excursus sulla lectio).

RB, poi, si preoccupa che i monaci lavorino: il lavoro dura circa sette ore in
inverno e in quaresima, sei ore e mezzo in estate ed
e` piu` intervallato a causa del
clima estivo. Non si specifica quale era il lavoro manuale che i monaci facevano. SB non
ne
assegna uno esclusivo: oltre a quello necessario per i servizi del monastero (forno,
cucina, ecc.), poteva essere quello dei vari
artefici (cf.RB.57) e certamente - in certe
occasioni o per circostanze storiche - quello dei campi.; e` considerato comunque
eccezionale quello estivo della raccolta. Nel corso dei secoli i monaci hanno intrapreso i
piu` vari generi di lavoro manuale e
intellettuale (cf. in appendice l'Excursus sul lavoro
monastico).

Nell'orario fissato con tanti particolari da SB non figura la messa quotidiana


nei giorni feriali, nemmeno in quaresima. Nel
monastero al tempo di SB la messa
conventuale e solenne si celebrava solo la domenica e le feste. Questo non deve
sorprendere. Solo posteriormente a SB si ando` estendendo l'uso della messa quotidiana
(cominciando dall'Africa e dalla
Spagna). Naturalmente, oggi la messa conventuale e` il
centro della giornata monastica.

Nell'orario di SB manca pure ogni accenno ad un tempo per la cosiddetta ricreazione


per allentare un po` l'arco teso di preghiera-
lectio-lavoro e per aumentare i rapporti
fraterni. Certamente non esisteva di orario. Pero` sara` bene ricordare che SB non
interdice affatto l'uso della parola, ma ammonisce solo per l'uso saggio, discreto e
assennato della parola (cf.RB.6; 4,51-54; 7,56-
61 e relativo commento). Inoltre le
"ore non competenti" di RB.48,21 fanno spia che dovevano esserci anche delle
"ore
competenti" in cui i monaci potevano avvicinarsi, parlare, trattare
insieme. Con l'andare del tempo, la tradizione monastica ha
fissato un particolare
"tempo competente" scritto anche nei nostri orari come "tempo libero"
o "sollievo", per scaricare un po` la
tensione della preghiera e del lavoro e
per trascorrere qualche momento in fraterna conversazione.

Per la ricostruzione di una giornata monastica nel monastero benedettino del medioevo,
si puo` vedere il libro (molto breve e di
facile lettura) di: L.MOULIN, La vita
quotidiana secondo S,Benedetto, Jaca Book, Milano 1980.

CAPITOLO 49

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

L'osservanza della quaresima

De quadragesimae observatione

Preliminari

Nel determinare l'orario, SB ha tenuto conto del particolare carattere della quaresima
(RB.48,14-16; 41,6-7). L'importanza data a
tale periodo lo induce a scrivere un capitolo a
parte sulla quaresima, quale tempo forte dell'anno liturgico per il quale senza dubbio
egli aveva particolare devozione e che considerava come molto adatto per il rinnovamento
spirituale dei monaci.

Cassiano, da idealista impenitente, applicando la sua esegesi allegorica, dice che la


quaresima e` come la "decima", il tributo che
i cristiani nel mondo debbono
pagare annualmente al Signore; immischiati come sono nelle cose della terra, negli affari
e nei
piaceri, si fa loro obbligo di consacrare al servizio di Dio almeno questi giorni. I
monaci sono esenti dal pagare tale decima,
perche` hanno fatto a Dio donazione della loro
vita intera con tutto quanto possiedono, e vivono tutto l'anno con il regime che i
laici
conducono in quaresima, obbligati dalla legge. La quaresima fu istituita solo per gli
imperfetti: difatti non esisteva fin quando
si mantenne la perfezione della Chiesa
primitiva degli Atti. Cosi` Cassiano, in Coll.21,24-30.

Uomo pratico secondo Gesu` Cristo, SB pensa che anche per i monaci - uomini che
aspirano alla santita`, ma sempre uomini
dalla testa ai piedi! - capita molto a proposito
questo periodo di rinnovamento e di intensificazione della vita cristiana che ogni
anno
prepara i catecumeni al battesimo e tutti i fedeli a una degna celebrazione della Pasqua.
E` stato notato che, ad eccezione
dei vv.8-10 che sono come una appendice e di carattere
chiaramente cenobitico, il capitolo dipende, tanto nelle idee quanto nelle
espressioni,
dai "Discorsi sulla quaresima" di S.Leone Magno, soprattutto i primi quattro
(sono dodici).Cosi` il contrasto iniziale tra
la vita da tenersi in quaresima e quella
piu` leggera da tenersi nel resto dell'anno; cosi` il "tale virtu` e` di pochi"
(v.2) a proposito di
una vita sempre a un livello spirituale molto alto; soprattutto
l'idea della "purezza di vita", di purificazione, di espiazione in
quaresima
delle colpe di tutto l'anno sono il 'leit-motiv' della predicazione di S.Leone. Appare
chiaro che SB ha assimilato la
dottrina quaresimale del vescovo di Roma, e` impregnato del
suo vocabolario e ripete spontaneamente le sue espressioni senza
che si preoccupi di
citarle letteralmente. Quello che S.Leone predicava a tutti i cristiani, SB lo scrive per
i monaci; e` una ulteriore
prova che la vita monastica e` un modo di realizzare la vita
cristiana e che la dottrina della perfezione evangelica predicata dai
Padri della Chiesa
e` ugualmente valida per il cristiano che vive nel mondo e per quello che, seguendo la sua
vocazione, vive in
monastero.

SB quindi in questo capitolo e` piu` preoccupato di sottolineare l'importanza della


quaresima e lo spirito che deve animare la vita
in tale periodo, che di fare precise
pratiche penitenziali alla comunita` o determinare in che cosa deve consistere
l'intensificarsi
della vita di preghiera, come invece fa la RM (cf.RM.51 e 53). Dobbiamo
percio` classificare il capitolo 49 della RB piu` tra la parte
ascetica e spirituale che
tra la parte propriamente legislativa e disciplinare.

1-3: Lo spirito che deve animare la quaresima

"La vita del monaco dovrebbe essere una continua quaresima", quasi a dire:
tale sarebbe l'ideale, magari fosse cosi`! Qual'e` il
significato esatto di queste parole?
Non dobbiamo credere che SB pensi a un carattere eccessivamente severo e melanconico
della
vita monastica; per lui la quaresima - come appare in seguito - non ha un volto triste, ma
significa anzitutto un tempo in cui si
vive con purezza (v.2) e integrita` la vita
cristiana, o per lo meno si cerca. Uomo pratico e realista, SB sa che sono pochi quelli
dotati di tanta virtu` e fortezza di spirito da mantenersi completamente fedeli al Vangelo
durante tutto l'anno. Allora durante la
quaresima sforziamoci non solo di vivere come
monaci autentici, ma anche di fare qualcosa in piu`, quasi a compensare e
cancellare le
negligenze degli altri periodi. Questo e` insomma l'ideale quaresimale per i monaci:
vivere perfettamente come tali e
riparare con pratiche supererogatorie alle infedelta`
della "quaresima" precedente. (Per i paralleli con S.Leone Magno, cf.
"Discorsi sulla quaresima", I,2; IV,1; V,2.6).

2: Custodire la propria vita con somma purezza

"Puritas" qui e` nel senso piu` ampio: la mondezza di mente e di cuore, per
cui si e` spogli da ogni attacco che distragga da Dio.
La bellissima sentenza richiama il
48.mo strumento delle buone opere: Actus vitae suae omni hora custodire
<vigilare
continuamente sulle azioni della propria vita>, RB.4,48; e` la vigilanza
assidua di chi ama seriamente Dio e vuole che nessuno dei
suoi atti possa ostacolare
l'unione con Lui; e` praticamente il primo gradino dell'umilta`, con la famosa
"memoria Dei" (cf. RB.7,10-
30, vedi commento).

4-7: Pratiche quaresimali

SN scende al particolare. Anzitutto astenersi da ogni peccato: e` la prima e piu`


necessaria astinenza (cf. S.Leone M., Discorso
IV,6); la lotta contro i vizi -
estirpandoli dalle radici, se e` possibile - e` uno dei fini dell'ascetismo cristiano. Poi
dedicarsi con
speciale impegno a certe pratiche. SB ne segnala quattro: tre di carattere
spirituale, una di carattere corporale.

- 1) Preghiere con lacrime, si tratta dell'orazione privata, in unione alle


lacrime e alla compunzione del cuore, suggerita spesso da
SB (cf. RB.4,56-57; 20,3; 52,4);

- 2) Lettura (divina), appunto percio` ha prescritto la consegna di un libro a


ciascun monaco all'inizio della quaresima (RB.48,15-
16) e ha unificato le ore di
"lectio", circa tre ore di seguito: "dal mattino fino a tutta l'ora
terza" (RB.48,14).

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

- 3) compunzione del cuore, e` lo spirito di compunzione, cioe` il chiedere perdono a Dio dei propri peccati con lacrime e gemiti,
come ha gia` detto nel 57.mo
strumento delle buone opere (RB.4,57), evidentemente con maggiore frequenza e intensita`
che
negli altri periodi.

- 4) astinenza, e` l'astinenza corporale, come specifichera` meglio nei versetti


seguenti:

5: Aggiungiamo qualcosa...

"Aggiungiamo qualcosa al consueto debito del nostro servizio" (v.5). C'e` un


debito, una "tassa" stabilita, delle prestazioni normali
- diciamo cosi` - nel
servizio di Cristo, che e` la vita monastica; durante la quaresima, aggiungiamo qualcosa
alla tariffa ordinaria.
E abbiamo qui altri due elenchi (oltre a quello del v.4) nel v.5 e
nel v.7. L'idea di aggiungere qualcosa e` continua pure in S>Leone
Magno (cf. Discorsi,
II,1). Tutte le cose elencate si ritrovano negli strumenti delle buone opere (RB.4).

7: Sottraiamo qualcosa...

Nel terzo elenco (v.7) si parla di sottrarre qualcosa alla loquacita` e alla
scurrilita` o leggerezza. Ma non aveva SB completamente
condannato queste cose nel c.6
sull'amore al silenzio? (RB.6,8, vedi commento). Come mai ora si suggerisce di reprimerle
"un
poco" <aliquid> durante la quaresima? Una cosa e` la teoria, un'altra
e` la pratica. Qui pare affacciarsi sorridente il volto paterno di
SB. La vita dovette
insegnare al santo - sempre grave e solenne, ma anche molto umano - che ci sono dei tipi
per natura leggeri e
portati allo scherzo e alla buffoneria, e privarli del tutto di
queste cose equivarrebbe a reprimerli. Basta che si moderino un po`,
almeno in quaresima!

Due caratteristiche appaiono in questi versetti:

- a) il senso della gioia nell'impegno quaresimale e nell'attesa della Pasqua.


"Col gaudio dello Spirito Santo" (v.6): citazione da
1Tess.1,6. Anche a
proposito dell'obbedienza SB ha ricordato (RB.5,16) che "Dio ama chi dona con
gioia" (2Cor.9,7). Questa nota
di letizia, frutto della sincera generosita` ispirata
dallo Spirito Santo, rende piu` profumato l'atto di offerta. Si ricordi, poi, a
proposito
del digiuno, l'insegnamento di Gesu`: "Tu invece, quando digiuni,, profumati..."
(Mt.6.17). Al v.7 la frase "con gioia di
soprannaturale desiderio aspetti la santa
Pasqua" ricorda alcune espressioni liturgiche. L'attesa della Risurrezione di Cristo
dona
a tutta l'osservanza quaresimale l'abito della gioia; preparato dall'impegno e dalle
osservanze della quaresima, il monaco
giungera` maturo a godere pienamente la S.Pasqua.

- b) carattere individuale e volontario: e` l'altra caratteristica di questi


versetti. Le pratiche quaresimali non sono imposte
obbligatoriamente a tutti i monaci
dall'autorita` della Regola o dall'abate. A differenza dalla RM, in cui si prescrivono
orazioni e
astinenze comunitarie, la RB non ha un programma preciso e obbligatorio per la
comunita` intera (a parte quanto detto nell'orario,
RB.48,14-16). Si tratta di opere
supererogatorie che ciascuno <unusquisque> offre a Dio volontariamente
<propria voluntate> e
col gaudio dello Spirito Santo <cum gaudio Sancti
Spiritus>; non sono un peso supplementare imposto dalla legge, ma un segno
della
generosita` con cui ciascun monaco, con cuore largo e gioioso, intende darsi a Cristo
Signore a compensazione delle
deficienze nel servizio santo che ha professato.

8-10: Appendice sul ruolo dell'abate

"Cum spiritalis desiderii gaudio sanctum Pascha expectet" <aspetti la


santa Pasqua nella gioia del desiderio spirituale> (v.7). Con
queste magnifiche parole
si chiudeva probabimente il capitolo nella sua prima redazione. SB in seguito vi aggiunse
un'appendice.
Chissa`, forse alcuni monaci, approfittando della liberta` di scelta, si
davano a delle pratiche ascetiche o a penitenze eccessive.
(Ricordiamo quello che vide
Macario tra i monaci di Tabennisi durante la quaresima, cf. Palladio, Storia Lausiaca,
c.18,14-15). La
Regola, pur lasciando quella liberta` individuale di cui sopra, guida il
monaco per i sentieri dell'obbedienza: le piccole mortificazioni
individuali siano
sottoposte al permesso e alla benedizione dell'abate (si evita cosi` il pericolo di
illusione e di esagerazione) e
siano accompagnate dalla sua preghiera. E` questa un'idea
propria del monachesimo antico: il discepolo attribuiva alla preghiera
del "padre
spirituale", richiesta al medesimo prima di iniziare qualche opera, la riuscita
dell'opera stessa. SB si mantiene nella
linea della tradizione autentica. E termina con un
principio di carattere generale: tutto deve compiersi con il consenso dell'abate
(v.10;
cf. anche RB.67,7).

----------------

Nota: I cc.50 e 52 sono stati trattati nella sezione sull'Opera di Dio.

CAPITOLO 66

I portinai del monastero

De ostiariis monasterii

Relazioni con l'esterno: clausura,


viaggi, ospiti

Preliminari

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Il monastero nella primitiva tradizione era considerato come un luogo chiuso, separato
dal mondo, costituito - secondo la RM - da
"santi", da "fratelli
spirituali" che non si debbono mescolare ai secolari. I fratelli percio` vivevano
tutta la loro vita nei "recinti" del
monastero, ai margini della vita del mondo.
Cosi` per anacoreti e cenobiti, cominciando dai pacomiani. Tuttavia anche per il
monastero
di RM e di RB, alcune relazioni con l'esterno sono inevitabili: accogliere poveri e
pellegrini, quindi l'importanza
dell'ufficio del portinaio (RB.66), ricevere tutti gli
ospiti (RB.53 e 56), uscire per breve tempo per qualche commissione (RB.51) o
anche per
viaggi piu` lunghi (RB.67).Tutto cio` trattiamo in questa sezione; e iniziamo proprio
dall'organizzazione autosufficiente
del monastero, quale ci appare dal c.66, prevista
appunto per ridurre al minimo le uscite.

Il capitolo sui portinai

Il capitolo sui portinai del monastero ci testimonia - come si e` detto - di tutta una
mentalita` sulla concezione del monastero come
unita` auto-sufficiente, separato dal
mondo, ecc. Difatti non si limita a tracciare le qualita` del portiere (vv.1-5), ma
ricorda che il
cenobio deve essere organizzato con ogni cosa all'interno (vv.6-7); una
nota finale prescrive la lettura frequente della Regola in
comunita` (v.8).

1-5: Persone e ufficio del portinaio

L'ufficio del portinaio, secondo la Regola, e` molto importante e delicato: il


portinaio e` intermediario tra il monastero e il mondo, e`
il guardiano della pace dei
monaci e, nello stesso tempo, il rappresentante della comunita`; il primo contatto della
gente col
monastero avviene attraverso il portinaio, anzi a volte (almeno nelle brevi
visite, non in caso di ospitalita`), egli e` il solo monaco
avvicinato e conosciuto;
spesso dal suo modo di rispondere e di trattare dipende l'edificazione degli estranei e il
buon nome del
monastero. Gli antichi davano grande importanza a tale ufficio e sceglievano
per esso i migliori monaci. A Montecassino SB
spesso fu trovato a leggere presso la porta
(II.Dial.31); e li` pure S.Willebaldo (sec.VIII) fu per parecchi anni portinaio.

La Regola enumera alcune qualita`: saggezza, assennatezza, prontezza e sollecitudine


nel rispondere "con tutta gentilezza e
fervore di carita`". Si parla di
"saggio" come per l'abate (RB.27,2; 28,2), per il celleraio (RB.31,1), per il
foresterario e in generale
per quanti amministrano la "casa di Dio" che e` il
monastero (RB.53,22). Notiamo che alla fine del v.1 alcuni codici danno vagari,
altri vacari, e il senso sarebbe: "la cui eta` non gli permetta di rimanere
ozioso" ('vacari': Penco, Colombas); oppure: "la cui eta`
matura non gli
permetta di andare gironzolando" ('vagari': Lentini e altri). De Vogue` legge
"vacari", ma solo come variante
ortografica di "vagari".

Nota per l'oggi

Oggi molti monasteri per l'ufficio di portinaio viene assunto un laico; pero` nella
riscoperta che oggi si sta facendo del monastero
come luogo di accoglienza, non sarebbe
male ripensare la cosa e rifare all'ufficio del portinaio quel posto delicato e importante
che gli da` la Regola. Cosi` pure sara` bene rieducare tutti alla disponibilita` e
gentilezza nel rispondere alla porta e al telefono;
anche rispondere subito e con
delicatezza al telefono puo` essere oggi un'ottima forma di accoglienza.

6-7: Clausura

Gia` alla fine del c.4 SB ha ricordato che tutti gli strumenti dell'arte spirituale
enumerati vanno usati nell'"officina" che e` il recinto
del monastero e la
stabilita`. Percio` ora aggiunge che il cenobio deve essere provvisto di tutto il
necessario - enumera difatti
alcune cose principali - per ridurre al minimo le uscite,
"cosa questa che non giova affatto alle loro anime" (v.7). (La frase
riecheggia
alcune espressioni della "Historia Monachorum in Aegypto"). Ricordiamo anche
come SB ha parlato male dei monaci
girovaghi (RB.1,10-11). Gia` Antonio il Grande diceva
che "un monaco fuori del monastero e` come un pesce fuor d'acqua" (Vita,
85;
Apoftegmi, Antonio, 10).

Nota per l'oggi

Certamente l'evoluzione storica, le circostanze, il ritmo di vita diverso, i segni dei


tempi, ecc., inducono a una rilettura di questo
brano e a una concezione diversa dei
contatti con l'esterno. Oggi non e` piu` possibile, e neanche opportuno, organizzarsi in
un
sistema economico chiuso e in una vita completamente avulsa dal contesto sociale ed
ecclesiale. Pero` non e` fuori di luogo
richiamare a noi il principio generale che i
monaci devono abitualmente stare in monastero. E questo non come indizio di una
mentalita`
ristretta e meschina (che potrebbe affiorare in noi) che il "mondo" e` la
sentina di tutti i vizi e il monastero il luogo dei
santi, dei puri, cosa che non e` nello
spirito di SB e della genuina tradizione monastica. Nei Detti dei Padri, spesso si trova
il fatto
del santo eremita, vissuto per lungo tempo nella solitudine, a cui viene rivelato
che in citta` c'era un semplice e comune artigiano
che era piu` santo di lui; e Gregorio
ci presenta SB avere dei rapporti semplici e liberi con le persone di fuori. Si tratta
semplicemente di coerenza con il proprio stato di vita: una certa separazione dal mondo
puo` considerarsi come una componente
essenziale della professione monastica, ma
naturalmente la cosiddetta "fuga-mundi" deve essere rettamente intesa. Per
quanto
possa sembrare paradossale, questo modo di essere tutto di Dio senza alcun pensiero
in cuore al di fuori di quello della sua
presenza e` il modo piu` pieno e assoluto di
essere tutto dei fratelli. "Monaco e` colui che e` separato da tutti e unito a
tutti", dice
Evagrio. E per irradiare genuinamente Cristo (anche nel lavoro
pastorale, per alcuni monasteri) il modo migliore e` questa fedelta`
a un certo distacco,
a una certa separazione, a una vita "piu` nascosta in Dio".

8: Prescrizione di leggere la Regola in comunita`

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Questa nota finale prescrive la lettura frequente della Regola in pubblico, anche se
non specifica i modi e i tempi. Secondo la RM
(RM.24,15), tale lettura si faceva a
refettorio durante il pasto. Da questa finale si deduce che qui terminava la prima stesura
della
RB: difatti RB.66 corrisponde a RM.95, sempre sui portinai, che e` l'ultimo capitolo
della RM.

CAPITOLO 67

I fratelli inviati in viaggio

De fratribus in viam directis

1-7: Norme per i fratelli in viaggio

I viaggi senza dubbio sono inevitabili. E` curioso notare che proprio immediatamente
dopo il c.66 che insiste rigorosamente nulla
necessita` di rimanere in monastero, il primo
dei capitoli aggiunti (ricordiamo che i cc.67-73 sono stati aggiunti dopo la prima
redazione della Regola che terminava al c.66) parla dei fratelli mandati in viaggio.
Necessita` di apostolato, di carita`, di interessi
del monastero e anche di famiglia
possono esigere che i fratelli viaggino. RB.67 si limitava comunque a far notare i
pericoli
spirituali a cui puo` andare incontro il monaco fuori del suo ambiente piu`
naturale, e SB richiama continuamente l'aiuto
soprannaturale. I partenti si raccomandano
alla preghiera della comunita` (v.1); essi poi durante l'assenza vengono ricordati alla
fine dell'ufficio (v.2: questo si fa ancor oggi con il "Divinum auxilium...); al
ritorno chiedono perdono delle eventuali colpe
commesse fuori (vv.3-4).In questo contesto
si comprende la prescrizione seguente (vv.5-6), di non riferire le cose viste o udite
fuori ai fratelli rimasti dentro, sempre per evitare il pericolo di far entrare la
mentalita` del mondo nel monastero. Il v.7 aggiunge la
pena regolare per chi esce dal
monastero senza il permesso dell'abate, o per chi compie qualsiasi cosa (l'interpretazione
secondo
il contesto sembra essere: qualsiasi cosa fuori dal monastero), senza il permesso
dell'abate. Il santo Patriarca non perde
occasione per riaffermare l'autorita` del
"padre del monastero". Tuttavia SB non prescrive niente di straordinario: i
Regolamenti di
Pacomio hanno disposizioni molto simili. Anche per questo brano va tenuto
conto, oggi, della nostra situazione diversa; va
interpretato secondo quanto gia` detto al
capitolo precedente.

CAPITOLO 51

I fratelli che vanno fuori non molto lontano

De fratribus qui non longe satis proficiscuntur

1-3: Viaggi brevi

Questo capitoletto parla di viaggi meno importanti e, senza dubbio, piu` frequenti, per
piccole commissioni. In pratica si limita a
proibire di fermarsi a mangiare fuori, qualora
si pensi di rientrare in giornata, senza espressa licenza dell'abate. Nel testo c'e`: il
suo
abate, ad escludere l'invito proveniente anche da un altro abate, nel caso il monaco sia
andato a fare una commissione in un
altro monastero. Ricordiamo l'episodio dei fratelli
che accolsero l'invito di una pia donna e furono rimproverati (ma poi subito
perdonati!)
da SB. E S.Gregorio inizia quel capitolo proprio ricordando che "era consuetudine del
monastero che ogni volta che i
fratelli uscivano per qualche commissione, non prendere ne`
cibo ne` bevanda fuori del monastero" (II.Dial.12).

Notiamo che questo capitolo si trova dopo il c.50, con cui appare la connessione,
perche` li` si diceva come si devono comportare
riguardo all'Ufficio divino i fratelli che
lavorano non molto lontano o sono in viaggio. Notiamo ancora che nel testo del presente
capitolo si parla di monaco, al singolare, mentre al c.67 sempre al plurale:
probabilmente nei viaggi piu` lunghi e importanti i
monaci non andavano mai da soli, ma
almeno in due.

CAPITOLO 53

Come debbano essere accolti gli ospiti

De hospitibus suscipiendis

Preliminari

Il c.53 sull'ospitalita` e` in linea con tutta la tradizione monastica. La S.Scrittura parla dell'accoglienza degli ospiti come di un
esercizio fondamentale della carita` fraterna (cf. Rom.12,13; 13,8; ecc.) e Gesu` dice che nelle persone di ospiti e pellegrini si
riceve lui stesso (Mt.25,35-43). Fin dalle origini del monachesimo, ricevere poveri, pellegrini e ospiti fu ritenuta una pratica
sacrosanta della vita quotidiana: cosi` presso i Padri del Deserto (abbiamo tanti esempi e aneddoti nei "Detti"), presso anacoreti,
presso i cenobiti pacomiani. SB si mostra degno erede di questa tradizione. Per il c.53 della RB abbiamo nella RM vari capitoli
(RM.65; 71-72; 78-79), in cui da una parte notiamo grande comprensione e carita` (addirittura il Maestro fa anticipare il pasto dei
fratelli a sesta, se l'ospite si trattiene); d'altra parte notiamo differenza nei confronti di ospiti che si fermano piu` giorni: in essi
potrebbero nascondersi parassiti e
ladri. SB ha soppresso tanta casistica e parla dell'ospitalita` in un solo capitolo
unitario e ben
compatto, tutto pieno di un profondo spirito di fede, di calore
umano e di carita` fraterna.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Struttura del capitolo

RB.53 si divide in due parti: a) la prima (vv.1-15) descrive l'accoglienza con una
piccola teologia dell'ospitalita` (e` ispirata
soprattutto alla "Historia
Monachorum in Aegypto" tradotta da Rufino); b) la seconda (vv.16-24) parla
dell'organizzazione
dell'ospitalita` nel monastero, con le ripercussioni per la vita
interna del cenobio e la pace dei fratelli.

Appare, anche dalla struttura e dal vocabolario, che questa seconda parte dovette
essere composta in un secondo tempo da SB;
in seguito alla pratica continua
dell'ospitalita`, alle varie esperienze, agli inconvenienti notati, il santo Patriarca
dovette aggiungere
alcune precisazioni. Le campagne italiane non erano certo il deserto
dell'Egitto, gli ospiti a Montecassino affluivano
incessantemente e a volte in buon
numero; tale afflusso avra` pregiudicato il clima di preghiera e il silenzio in cui
vivevano i
monaci. Da qui alcune restrizioni aggiunte alla prima stesura, per armonizzare
le irrinunciabili tradizioni dell'ospitalita` monastica
con le esigenze della vocazione
cenobitica.

1-15: Accoglienza degli ospiti: teologia dell'ospitalita`

Esaminiamo ora il testo "Ero pellegrino e mi avete ospitato"


(Mt.25,35). La frase di Matteo domina tutta la prima parte del capitolo
e costituisce la
base per il principio generale che tutti gli ospiti che giungono al monastero siano
accolti come Cristo in persona
(v.1). Mettiamo l'accento su quel "tutti" con
cui si apre il capitolo. SB intende bandire ogni distinzione di grado sociale. Ognuno poi
sia ricevuto con l'onore dovuto, "soprattutto i nostri fratelli nella fede e i
pellegrini" (v.2). Domestici fidei <fratelli nella fede> sembra
si debba
interpretare nel senso di monaci o anche chierici e in genere quelli che
fanno professione di speciale servizio a Dio (cio`
sarebbe confermato anche da passi di
Pacopmio, Cassiano, Girolamo). Pellegrini: quelli che vengono da lontano a scopo di
pieta`
e di devozione. I pellegrinaggi ai luoghi santi della Palestina e di Roma erano
allora frequenti e i monasteri erano il naturale rifugio
nelle soste dei pii viaggiatori.
Dunque i "domestici fidei", per la loro professione sacra, e i
"peregrini", per il loro sacro scopo di
viaggio, meritano particolare cura ed
onore. A questi SB aggiunge i "poveri" (v.15), specificando che specialmente nei
poveri e nei
pellegrini si riceve Cristo.

Posto il principio, SB passa a descrivere il rito dell'accoglienza, i cui vari atti


erano nella tradizione della Chiesa primitiva e del
monachesimo: accorrere a
ricevere l'ospite, umilta` nel riceverlo, preghiera, bacio di pace, lettura
della S.Scrittura, lavanda dei
piedi... (vv.3-14).A proposito della lavanda dei
piedi (vv.12-14), ricordiamo che essa era anticamente assai comune ed era
necessaria a
causa del viaggiare a piedi. Praticamente dobbiamo ritenere che non ad ogni ne-venuto
tutta la comunita` andasse a
compiere questo atto, ma che per tutti insieme i nuovi venuti
si eseguisse la lavanda in un solo tempo della giornata, e che i fratelli
la facevano a
turno, in modo che "tutta la comunita`" adempisse questo atto di servizio e di
umilta`. A tal riguardo gli usi nei
monasteri furono i piu` vari. Bello lo spirito di fede
che aleggia nel v.14: i monaci vedono nell'ospite arrivato una manifestazione
della grazia
e della benevolenza di Dio: "Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia
<=grazia>..." (salmo 47,10).

16-24: Organizzazione dell'ospitalita`

Dato che nel monastero bisogna accogliere tutti coloro che chiedono ospitalita` -
(ricordiamo l'8.vo strumento delle buone opere:
"onorare tutti gli uomini"
(RB.4,8) che si riferisce senz'altro all'ospitalita`, come ha dimostrato DeVogue`) -
potrebbero derivare
inconvenienti per la vita comune, poiche` gli ospiti, "che non
mancano mai in monastero" (v.16), arrivano alle ore piu` impensate.
Ecco allora la
necessita` di una certa organizzazione, per compiere bene l'esercizio dell'ospitalita`.
Abbiamo quindi la cucina a
parte con un personale specializzato, la foresteria e il
foresteriario, con eventuali aiutanti: ambedue le cose sono creazioni di
S.Benedetto
rispetto alla RM. Il santo patriarca vuole che la casa di Dio sia amministrata da saggi
e saggiamente (v.22).
Sappiamo che nel mandare alcuni monaci a fondare il monastero di
Terracina, SB parlo` di posto per l'"oratorio, il refettorio per gli
ospiti, la
foresteria..." (II.Dial.22); e ancor oggi non si concepisce monastero benedettino
senza una parte riservata a foresteria.

Il capitolo si chiude con la proibizione ai monaci di parlare con l'ospite, e sembra


una nota un po` negativa in un testo iniziato con
tanto slancio spirituale. SB e` guidato
dall'intenzione di salvaguardare l'osservanza regolare; non si tratta solo del silenzio,
ma
anche di evitare il contatto col mondo esterno, come gia' visto in RB.66,7 e 67,4-5.
Pero` l'osservanza della Regola non significa
mancanza di educazione: incontrando
l'ospite, il monaco non omettera` di salutare gentilmente e di domandare umilmente la
benedizione, secondo l'uso del tempo.

Conclusione e applicazione oggi

Il bel capitolo sull'ospitalita` ha generato la gloriosa tradizione dell'ospitalita`


benedettina, una delle manifestazioni caratteristiche
dello spirito e dello stile
benedettino, che ha svolto anche un'opera di altissimo valore sociale nella storia
d'Europa. Oggi, certo, la
situazione e` cambiata: rapidissimi mezzi di comunicazione,
organizzazioni turistiche e alberghiere... Eppure, anche oggi si viene
al monastero. Che
cosa vengono a cercare gli uomini del XX secolo nelle nostre foresterie? Quella dimensione
spirituale che non
puo` trovarsi in un albergo. Il problema dell'accoglienza va ripensato,
e seriamente, nelle nostre comunita`. E notiamo che gli
ultimi versetti del c.53 non sono
in contraddizione con il concetto di "comunita` aperta". Aprirsi significa
soprattutto donare quanto
di meglio si possiede, in uno scambio fraterno di carita`.
Questo tuttavia e` possibile solo se l'accoglienza degli ospiti si svolge in
modo da
salvaguardare la pace e il raccoglimento della comunita`, altrimenti non si offre altro
che il vuoto della propria
dissipazione. La foresteria poggia sulla interiorita` dei
monaci; una foresteria monastica non puo` essere tale se dietro di essa non
c'e` la
presenza silenziosa e irradiante di una comunita` riunita nel nome di Cristo; una
comunita` che sappia, in uno spirito di
fede, essere disponibile, sappia accogliere tutti
come Cristo in persona (cf.v.1), e mettere a parte coloro che vengono al
monastero, in
semplicita` e umilta`, della propria vita di preghiera, di meditazione, di lavoro.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

CAPITOLO 56

La mensa dell'abate

De mensa abbatis

1-3: Senso del capitolo

Il breve capitolo va considerato come complemento del capitolo dell'ospitalita`: c'e`


una cucina e una mensa propria per i forestieri
e per l'abate. Questi mangia sempre con
gli ospiti e, nel caso questi fossero pochi, l'abate puo` invitare alcuni dei fratelli,
purche`
rimangano sempre uno o due seniori a tutelare la disciplina nel refettorio comune.

Il capitolo, uno dei piu` brevi di tutta la Regola, e` stato il tormento dei
commentatori, antichi e moderni. Alcuni hanno ritenuto
inammissibile che SB faccia
mancare abitualmente l'abate dalla mensa comunitaria, che e` uno dei segni maggiori della
vita
fraterna e della comunita` radunata nel nome di Cristo. DeVogue` ha interpretato che
gli ospiti fossero introdotti nel refettorio
monastico e mangiassero alla
"tavola" ("mensa" = nel senso di tavola) dell'abate, in giorno di
digiuno con orario diverso (in modo
che l'abate - solo lui - interrompesse il digiuno),
negli altri giorni insieme alla comunita`. Ma questa ipotesi renderebbe
incomprensibile il
v.3 e non risponderebbe alla "mens" di SB, il quale vuole che gli ospiti non
disturbino con la loro presenza la vita
regolare dei monaci.

Dobbiamo dire che separare l'abate dai fratelli in un momento cosi` significativo della
vita della comunita` come la refezione
comune, costituisce il prezzo che SB si considero`
obbligato a pagare affinche` l'esercizio dell'ospitalita` non intralciasse lo
svolgimento
normale del ritmo della giornata monastica. Certo, la cosa genero`, nel corso dei secoli,
abusi e inconvenienti: si
pensi alla grande stortura che piu` tardi si verifico` dando
alla "mensa abbatis" il senso di "beneficio ecclesiastico",
con patrimonio
proprio, distinto da quello della comunita`; fu il pretesto per una lunga
serie di gravi abusi che influirono molto negativamente sullo
spirito monastico,
specialmente nel periodo dei cosiddetti "abati commendatari".

Naturalmente, oggi, tutto cio` e` sorpassato e l'abate presiede abitualmente ai pasti


comuni; gli ospiti o mangiano a parte o sono
ammessi al refettorio monastico assieme alla
comunita`.

-----------  

Nota: I cc.54-55 e 57 sono stati trattati dopo i cc.32-34 nella sezione della
poverta`.

CAPITOLO 58

Procedura per l'ammissione dei fratelli

De disciplina suscipiendorum fratrum

Introduzione: L'AGGREGAZIONE AL MONASTERO


(RB.58-61+62)

Abbiamo visto nella sezione precedente la paura che i monaci antichi avevano dei
rapporti con l'estrno, per il pericolo che si
infiltrasse nel monastero una mentalita`
mondana (vedi soprattutto RB.66,7 e 67,5). Per questo motivo i Padri del cenobitismo
erano
portati a provare duramente i postulanti, a saggiarne lo spirito e la consistenza dei
propositi, a negare loro ripetutamente
l'ingresso e, una volta ammessi, obbligarli a
restare come in quarantena per un periodo piu` o meno lungo perche` riflettessero
sulla
serieta` della propria vocazione e si abituassero al nuovo genere di vita.

Cassiano descrive in questo modo l'ammissione dei postulanti nei monasteri d'Egitto:
prima si facevano aspettare almeno dieci
giorni alle porte del cenobio, provandone la
pazienza con ogni sorta di ingiurie; poi si facevano entrare e venivano spogliati di tutto
il denaro e dei loro abiti, sostituendovi quelli del monastero; pero` con tale
"vestizione" non erano ancora incorporati alla
comunita`, ma venivano affidati
all'"anziano" che sovrintendeva alla foresteria, e per un anno intero aiutavano
a servire gli ospiti,
esercitandosi nell'umilta` e nella pazienza; infine passavano a far
parte di una decania ed erano candidati ormai membri della
comunita` cenobitica e
ricevevano una formazione specifica (Inst.4,3-7). SB adotto` piu` o meno questo schema, ma
con molte
modifiche, o sue originali o attingendo ad altri autori, come la RM, che in
questa sezione e` lunghissima e particolareggiata.

Trattiamo qui dell'ammissione piu` comune e ordinaria (RB.58), e poi alcuni casi
speciali di ingresso in comunita`: l'oblazione dei
fanciulli (RB.59),

l'ammissione dei sacerdoti e chierici (RB.60) e di monaci di altri monasteri (RB.61);


per associazione di idee, si parla poi dei
sacerdoti del monastero (RB.62).

Preliminari al c.58

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

E` uno dei piu` importanti capitoli della Regola, perche` non parla solo della procedura
per l'accettazione, ma del contenuto stesso
della vita monastica, con le idee
fondamentali secondo SB: il QUAERERE DEUM, la STABILITAS, la CONVERSATIO
MORUM, la
OBOEDIENTIA. A questo capitolo corrispondono RM.87-88 e 89-90, molto
lunghi, con tutti i dialoghi tra postulante e abate e le
esortazioni di quest'ultimo,
soprattutto il c.90, in cui quasi tutti i 95 versetti (!) sono occupati da un'omelia
dell'abate. SB ha
modificato molte cose, ha abbreviato moltissimo, ha soppresso la
distinzione tra i postulanti iam conversi <gia` conversi, cioe`
coloro che
vivevano nel mondo alla maniera dei monaci con una vita penitente, semplice e nel
celibato) e i postulanti ancora laici.

1-4: L'ingresso

Non bisogna essere facili all'accettazione: la sincerita` e la solidita` di una


vocazione devono essere provate, come suggerisce
l'Apostolo (che in questo caso non e`
S.Paolo, ma S.Giovanni, 1Giov.4,1; il testo si riferisce direttamente ai falsi profeti).
Al v.1 per
"vita monastica" c'e` il termine "conversatio" che
e` termine tecnico: per il senso preciso, vedi piu` avanti (commento al v.17). Il
nuovo
venuto, dunque, comincia a trovare difficolta` davanti alla porta. SB pero` e` piu`
discreto: i "pochi giorni" di cui parla
Pacopmio (Reg,49) e che erano diventati
"una settimana" secondo la Reg.IV.Patrum 2,25 e "dieci giorni" secondo
Cassiano
(Inst.4,3), diventano quattro o cinque giorni (v.3). Non e` verosimile che
in tali giorni restasse sempre all'aperto e allo scoperto,
forse veniva ricoverato presso
la "cella" del portinaio. Dopo una prima fase davanti alla porta, un'altra breve
fase nella foresteria
(v.4).

5-16: Il noviziato

Comincia quindi un periodo di prova piu` definito e specifico, che si svolge in un


locale apposito, cella novitiorum <noviziato> per
un anno intero, sotto la
guida di un "anziano" (che col tempo si chiamera` maestro dei novizi): tutte
queste cose sono innovazioni
proprie di SB. Nel locale a parte, i novizi passano tutto il
tempo libero dall'Ufficio divino e dal lavoro: li` mangiano, dormono e
"meditano": un termine tecnico, quest'ultimo, che comprende sia la lectio
divina, sia l'imparare a memoria i testi (la "exercitatio"),
l'apprendere,
quindi tutto il lavoro di studio e di formazione (vedi commento a RB.48,23 e nell'Excursus
sulla lectio divina).

6: ... un anziano capace di guadagnare le anime

L'espressione di questo v.6 e` di origine biblica (Mt.18,15; 1Cor.9,20) e richiama un


passo analogo della "Vita Pachomii",25. Il
metodo da seguirsi nel noviziato
consta di due parti: da un lato il candidato stesso deve verificare (e il maestro deve
osservare
questo) se e` disposto a cercare Dio attraverso un cammino spirituale
specifico; dall'altro il maestro gli deve porre davanti le
difficolta` che tale cammino
comporta.

7-8: Punti fondamentali di verifica

I vv.7-8 sono molto importanti: abbiamo alcune linee fondamentali della vita monastica.

- Si revera Deum quaerit <se veramente cerca Dio>: e` colta qui tutta
l'essenza e il programma della vita monastica. Si viene al
monastero non per uno scopo
particolare o per una missione specifica di bene (predicazione, insegnamento, ecc...), ma
solo per
la ricerca di Dio: e` un atteggiamento generale di fondo, un'attitudine religiosa
essenziale. Per i monaci, l'assidua ricerca di Dio,
dopo che essi sono stati cercati da
Lui (cf.Prol.14), diventa la loro ultima ragion d'essere. L'espressione ha moltissime
sfumature
nella letteratura biblica, ellenistica e patristica. Vedi, per citare alcune
opere: G.Turbessi, Quaerere Deum. Il tema della ricerca di
Dio nella S.Scrittura,
Rivista Biblica (1962) 282-296; G.Turbessi, Cercare Dio, Ed.Studium, Roma 1980; E.
De Sainte-Marie, Si
revera Deum quaerit, Vita Monastica 10 (1956) 173-177.

- Se e` pronto all'Opus Dei, all'obbedienza, alle umiliazioni: tre


esplicitazioni della sincera ricerca di Dio che il novizio deve
verificare; il maestro,
poi, dovra` non nascondere le difficolta` del cammino: omnia dura et aspera per quae
itur ad Deum <tutte le
difficolta` e le asprezze attraverso le quali si va a
Dio> (v.8): anche questa frase e` rimasta proverbiale e programmatica nell'iter di
formazione del monaco.

SB divide l'anno di noviziato in tre periodi disuguali: primi due mesi (v.9), i
successivi sei mesi (v.12), gli ultimi quattro mesi (v.13).
Alla fine di ciascun periodo
si legge al novizio l'intera Regola, "perche` conosca bene che cosa affronta
entrando" (v.12). Oggi si
usa leggere la Regola durante tutto il noviziato,
accompagnata dalla spiegazione particolareggiata del maestro; gli antichi, anzi,
raccomandavano di impararla a memoria, e l'uso e` rimasto presso alcuni monasteri. Cosi`
il novizio va maturando la sua
esperienza "in ogni pazienza" (v.11), ascolta la
triplice lettura della Regola (vv.9.12.13), delibera (v.14) di osservare tutte le
prescrizioni della vita comune, della legge sotto la quale intende militare (v.10).
Allora, al termine del noviziato, lo si ritiene degno
di essere aggregato alla comunita`
monastica (vv.14-16).

17-29: La professione monastica

Il suscipiendus <colui che deve essere ammesso> (v.17) fara` ufficialmente


professione di vita monastica. Al tempo di SB e per
molti secoli non esisteva che una
unica professione. La Chiesa e` intervenuta, per vari motivi, ad obbligare un periodo di
voti
temporanei, della durata di almeno tre anni. Quanto e` ordinato e descritto qui da SB
vale oggi pienamente solo della professione
"solenne", che si usa chiamare anche
consacrazione monastica.

17: Contenuto della professione

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

SB fa promettere al candidato tre cose, che impropriamente furono definiti "i tre
voti monastici". In realta` SB non intende qui
stabilire tre voti distinti, ma solo
indicare l'oggetto della promessa del monaco. Nei pacomiani non si parla mai di voti,
anche se
c'era la pratica dei consigli evangelici; Basilio parla di consacrazione al
Signore fatta per voto (Reg.14), ma non menziona "voti"
espliciti. Certamente la
disposizione di SB ha avuto il merito di polarizzare la pratica dei voti monastici (castita`
e poverta` erano
inclusi nel fatto stesso di farsi monaco, nella "conversatio")
ed ha influito sulla organizzazione posteriore della vita religiosa. E
passiamo al
contenuto. Il novizio promette: "de stabilitate sua et conversatione morum suorum
et oboedientia" <stabilita`,
conversione dei costumi, obbedienza>.

Stabilitas

Che cosa e` veramente la "stabilita`"? Senza dubbio e` anzitutto la


perseveranza (cf.v.9), cioe` stabilita`, costanza, fermezza,
permanenza in uno stato
determinato. La cosa e` piu` complicata (e controversa) quando si vuol determinare con
precisione
l'oggetto della perseveranza. Tenendo presente il contesto, risulta abbastanza
chiaro che si tratta di perseverare nel monastero
come monaco sotto la Regola che si
accetta di professare, praticamente e` il "compromettersi totalmente nella vita
monastica",
perseverando fino alla morte, in una comunita`, in una permanenza
abituale nei recinti del monastero, con l'accettazione della vita
comune e l'osservanza
regolare. Ricordiamo la finale del Prologo: "perseverando nel monastero fino alla
morte, parteciperanno
con la pazienza ai patimenti di Cristo" (Prol.50). Ricordiamo
ancora il 4.to grado di umilta`: "conservare la pazienza... chi
perseverera` sino
alla fine..." (RB.7,36). Ricordiamo ancora la finale del c.4: "... stabilitas in
congregatione" <la stabilita` nei recinti
del monastero>, che e`
l'"officina" dove si adoperano gli strumenti dell'arte spirituale (RB.4,78).
Contro il disordine dei monaci
girovaghi (RB.1,10-11), contro la "in-stabilitas"
lamentata da Cassiano (Inst.7,9), SB vuole come una delle sue caratteristiche una
stabilita` di luogo e di famiglia che aiuta a superare la instabilita` del cuore.

Il concetto di stabilita` ha oggi un significato piu` allargato, secondo le diverse


Congregazioni monastiche, e ammette delle
eccezioni anche dove si e` legati ad un singolo
monastero. Rimane comunque il senso primordiale e fondamentale della
perseveranza, con la
pazienza, sull'esempio di Cristo: "In ultima analisi, promettere la stabilita` e`
compromettersi nel partecipare
alla pazienza, nella obbedienza, nella perseveranza di
Cristo che furono totali, assolute, senza limiti..." (J.Leclerq). "E`
l'incarnazione, la cristallizzazione di un'attitudine, e di un'attitudine puramente
spirituale...; la vita religiosa e` un compromettersi
per tutta la vita...; si entra in
uno stato cristiforme...; si rimane in monastero perche` si rimane in Cristo"
(H.U.Von Balthasar).

La conversatio morum

Prima si leggeva conversio monastica, cioe` il novizio prometteva di cambiar


vita, lasciare i costumi del mondo per acquistare
quelli di un vero monaco. I recenti
studi critici fanno ritenere genuina la lezione conversatio, piuttosto che conversio.
Il termine
"conversatio" puo` derivare dall'intransitivo "conversari"
e significa: modo, tenore di vita, condotta; oppure dal transitivo
"conversare",
da "convertere", nel senso di rivoltare, rigirare, e allora equivale a
"conversio", sia in senso proprio che figurato.
Come termine specifico monastico
puo` quindi significare, oltre il semplice "modo di vivere", anche l'entrata, la
dimora in
monastero, l'appartenenza allo stato monastico, oppure, in senso piu` limitato,
la vita ascetica nello stato monastico; infine, come
equivalente di "conversio",
significa la conversione, il mutamento di vita. Nella RB queste sfumature ci sono; nei
passi in cui
appare il termine, puo` valere in genere "vita monastica": Prol.49;
RB.1.3; 1,12; 2,18; 21,1; 22,2; 58,1; 63,1; 63,7; 73,1-2. Pero`
qui, in RB.58,17,
l'aggiunta morum suorum <dei propri costumi> crea difficolta`.

Secondo Steidle, la "conversatio" designa qui ugualmente la vita


monastica stessa (secondo un gran numero di testi antichi) e
"morum suorum" non
e` che un "genitivo di ridondanza", cioe` una forma letteraria in cui nome e
genitivo non sono realta` diverse,
ma due sinonimi che si rafforzano reciprocamente. Il
novizio cosi` promette di osservare quella "conversatio" che aveva voluto
abbracciare bussando la prima volta alla porta del monastero (v.1). D'altronde la Mohrman
ha dimostrato egregiamente lo
scambio avvenuto tra i due termini e l'uso di
"conversatio" anche nel significato di "conversio". Tra
"conversione dei costumi" come
condotta virtuosa, oppure come stile di vita,
applicati ambedue all'esistenza del monaco, non c'e` dunque grande differenza, ma
vogliono
in fondo significare la medesima cosa. Potremmo vedere nel termine due prospettive secondo
le due etimologie: la prima
indicherebbe l'aspetto statico (cioe` uno
"stile" da monaci secondo la Regola); l'altra indicherebbe l'aspetto dinamico
(la promessa
di andare dal male verso il bene, e dal bene verso il meglio, l'impegno nel
continuo superamento, nel rifiuto di fermarsi o di
stagnarsi nella "corsa
spirituale").

Ricapitolando, all'origine del termine c'e` l'idea del genere di vita, la vita in
comune, la maniera di vivere ("conversari"); ma questa
maniera di vivere suppone
e implica un cambiamento della condotta ("conversare", da cui
"convertere"), per cui il monaco e`
cosciente sempre di dover tendere ad
perfectionem conversationis. Cosi` "conversatio morum" non indica solamente
il passaggio
dal mondo alla vita monastica, ma la vita monastica stessa in ogni momento
della sua tensione dinamica (e include e trascende i
tre voti di poverta`, castita` e
obbedienza). La vita monastica deve essere una corsa continua, un progresso nella
"conversatio" e
nella fede, come dice Prol.49; la "conversatio morum"
assicura l'"allargamento del cuore" <il "dilatato corde"> di cui
parla ancora
Prol.49: per correre nella ineffabile dolcezza dell'amore di Cristo
(cf.RB.7,68-70 con Prol.49), nel cammino del ritorno verso il
Padre (Prol.2).

La Oboedientia

Dei tre voti essenziali ad ogni stato religioso e gia` inclusi nella precedente
"conversatio", e` espressamente nominata
l'obbedienza, perche` e` il dono
piu` elevato, perche` indispensabile alla interna organizzazione del cenobio, perche`
per SB e` la
cosa piu` importante; praticamente ne ha parafrasato la materia nei
vv.14-16. Il novizio allora, al termine di un anno di prova e di

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matura riflessione,
promette solennemente di perseverare nel recinto del monastero e nella comunita`, a cui da
allora in poi
appartiene (stabilitas), in un costante progresso nelle virtu` monastiche
(conversatio) e nella docilita` ai precetti della Regola e ai
comandi dell'abate
(oboedientia). Oggi la professione si emette "secondo la Regola di S.Benedetto e le
Costituzioni della
Congregazione ... " cui si appartiene, perche` le Dichiarazioni e
le Costituzioni approvate dalla S.Sede integrano e interpretano la
Regola secondo le
particolari esigenze di tempo e di luogo e le tradizioni proprie di ciascuna
Congregazione.

17-29: Rito della professione

Dopo la riflessione sopra il contenuto della professione monastica, esaminiamone


brevemente il rito come descritto da SB. Il
novizio fara` la sua professione davanti a
tutti (v.17) e soprattutto davanti a Dio e ai suoi Santi (v.18). Deve redigere
un
documento giuridico, la "petitio" <oggi diciamo "la carta di
professione"> scritta possibilmente di suo pugno, da lui firmata e che
poi egli
stesso portera` sull'altare (vv.19-20). Benche` la Regola non lo dica espressamente,,
da questo e da altri indizi (soprattutto
da RB.59,2 e 8 in cui si dice di unire la
"petitio" alla "oblatio", cioe` il pane e il vino per l'Eucarestia),
si deduce che la professione
avveniva durante la Messa, al momento della
presentazione dei doni: la tradizione benedettina e` unanime su questo punto. In tal
modo
la professione monastica acquista la sua dimensione teologica piena: nel contesto
eucaristico viene espresso pienamente il
dono di se stesso che il monaco fa a Cristo e in
unione al sacrificio di Cristo.

Dopo la deposizione del documento sull'altare vicino alle offerte, il triplice canto
del Suscipe (salmo 118,116) intonato dal novizio e
ripetuto dalla comunita` intera
(vv.21-22), e` molto significativo: Accoglimi, Signore, secondo la tua parola...,
canta il monaco al
momento supremo della sua consacrazione a Dio, in risposta alla
chiamata che il Signore gli ha diretto (cf.Prol.14-20). Non c'e`
monaco che non senta
riempirsi l'anima di commozione e di dolcezza al ricordo del suo "Suscipe". La
rubrica seguente (v.23)
contiene ugualmente un significato profondo: il neo professo si
prostra ai piedi dei fratelli chiedendo preghiere; quanto piu` arduo
e` il cammino, tanto
piu` c'e` bisogno della Grazia, e la preghiera fraterna costituisce il primo
aiuto che riceve dalla comunita` di
cui ormai fa parte. Nei vv.24-25 si parla della disappropriazione
che deve essere fatta o distribuendo i beni ai poveri (prima della
professione) o
cedendoli al monastero con una donazione legale, dato che "da quel giorno non sara`
piu` padrone nemmeno del
proprio corpo" (v.25).

Poi si parla della "vestizione" in maniera alquanto sorprendente e


diversa da come aspetteremmo noi oggi e anche da quanto
appare in Cassiano e in RM. SB non
parla di "abito monastico" (l'espressione non appare mai nella Regola), ma solo
che "sia
svestito dei propri abiti e rivestito con quelli del monastero" (v.26):
e` solo un segno e una conseguenza della totale
disappropriazione; a lui non resta di
proprio assolutamente nulla, neanche i vestiti con cui giunse al monastero; SB insomma non
da` importanza all'abito monastico (vedi a questo proposito quanto detto nel commento a
RB.55). Il capitolo si conclude alludendo
al caso di abbandono e, incidentalmente,
sappiamo che l'abate prende dall'altare la "petitio" e la fa conservare nel
monastero per
sempre, anche nel caso di infedelta` del monaco. Tale prescrizione ha un
senso giuridico ed economico: siccome nella petitio era
inserita la "donatio"
dei beni, la carta non veniva restituita per evitare reclami da parte dell'uscito.

CAPITOLO 59

I figli dei ricchi o dei poveri che vengono offerti

De filiis nobilium aut pauperum qui offeruntur

Introduzione: grosso problema alla nostra mentalita` di oggi

Il capitolo risulta incomprensibile, se prescindiamo dal contesto storico in cui e`


nato. Alla nostra mentalita` sembra assurdo, anzi
inumano e crudele, che si possa decidere
cosi` della sorte di una creatura umana prima che questa sia in grado di compiere
responsabilmente un certo passo. Il c.59 della RB e` sembrato tanto duro che si e` cercato
di attenuarlo dicendo che il fanciullo,
una volta giunto all'eta` della discrezione,
poteva ratificare la sua oblazione monastica, oppure ritornare nel mondo (che in certi
casi conosceva appena). Ma questa tesi non e` sostenibile. Nella tradizione orientale
sappiamo da S.Basilio (Reg.7) che
nell'oblazione dei fanciulli erano sempre richiesti i
testimoni e che inoltre essi non facevano promessa di verginita`; quindi la loro
donazione
non era definitiva. In occidente invece c'erano varie correnti: da quella che richiedeva
il loro assenso (ad esempio in
S.Leone Magno), fino a quella che riteneva perpetuo e
irrevocabile il vincolo dell'oblazione fatta dai genitori. A meta` del sec.VI si
nota una
presa di posizione a favore dell'irrevocabilita`; nel IV Concilio di Lione (633) si
stabili` il principio poi divenuto classico in
occidente: "Monachum aut paterna
devotio aut propria professio facit" <si diventa monaci o per la devozione del
padrfe o per la
propria professione>. Mentre l'oriente quindi resto` fedele in genere
al principio di Basilio secondo cui la promessa di verginita`
non puo` essere che un atto
libero e personale, l'occidente ando` nella direzione opposta: "si e` sacrificata la
libera scelta della
verginita` a una nozione troppo materiale della consacrazione unita ai
diritti dell'autorita` paterna" (DeVogue`).

RB sembra addirittura in anticipo sui tempi, nello stabilire con tanta chiarezza la
prassi dell'oblazione dei fanciulli. E` inutile
cercare attenuazioni: niente fa supporre
che SB prevede una ratifica cosciente e libera della involontaria consacrazione fatta da
piccoli; anzi, le precauzioni riguardo ai beni sono proprio per scoraggiare eventuali
tentazioni di uscire dal monastero. Il paragone
tra il c.58 e il c.59 fa vedere una reale
corrispondenza tra la professione degli adulti e l'oblazione dei fanciulli, e che quindi
l'oblazione fatta dai genitori obbligava in perpetuo l'oblato alla vita monastica. Cio`
del resto e` confermato da altri passi della RB: i
ragazzi appaiono sempre come veri
monaci (e non come una categoria a parte) e vengono trattati come gli altri tenendo conto
naturalmente della loro eta` debolezza (cf.RB.22,7; 30; 37; 45,3; 70,4-5; ecc.). L'unica
ragione della incredibile durezza di questo
capitolo e` la mentalita` dell'epoca,
mentalita` che oggi non possiamo accettare. Per la validita` della professione, la Chiesa

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

prescrive oggi almeno 18 anni di eta`, piena consapevolezza e liberta`, mancanza assoluta
di ogni tipo di violenza, timore grave o
inganno (CIC.656). Una volta non era cosi`, e SB
si e` adattato alla mentalita` dell'epoca in ambiente occidentale. D'altra parte,
per
aiutarci a comprendere, e` noto che in alcuni popoli, ancor oggi, i matrimoni dei figli
vengono arrangiati dai genitori fin da
quando i figli stessi sono in tenera eta`! E oggi
c'e` anche chi protesta, in nome della liberta` e dell'autodecisione, contro il
battesimo
dei bambini!

1-8: Oblazione dei fanciulli

SB distingue tra i figli dei nobili (vv.1-6), quelli dei meno ricchi (v.7) e quelli dei poveri (v.8). In tutti i casi, i genitori, offrendo i loro
figli in tenera eta`, scrivevano la "petitio" e la avvolgevano nella tovaglia dell'altare insieme alla
mano del piccolo (vv.1-2.8): "il
fanciullo - e` stato detto con ragione - e` offerto
passivamente con il pane e il vino. Non lo si tratta come persona, ma come
oggetto"
(DeVogue`).

Dove SB appare alla mentalita` odierna di una insensibilita` sconcertante per la


liberta` umana, e` nelle prescrizioni relative alla
disappropriazione del fanciullo,
prescrizioni di carattere giuridico che occupano quasi tutto il testo del capitolo
(vv.3-6). I padri dei
piu` ricchi e dei meno ricchi potranno fare qualche donazione al
monastero, ma si obbligheranno formalmente a non lasciare nulla
ai figli, ne` per il
presente ne` per l'avvenire. In questa assoluta e definitiva carenza di beni materiali, la
RB vedeva una garanzia di
perseveranza per l'oblato (v.6).

Evoluzione del termine "oblato"

Quindi per molti secoli quasi tutti i monasteri ebbero i "monaci oblati",
cioe` offerti da piccoli e cresciuti nel cenobio; molti di essi
divennero illustri per
fama e santita`: S.Beda il Venerabile, S.Bonifacio apostolo della Germania, Santa Geltrude
la Grande, ecc.
Coloro invece che entravano da grandi nel monastero, si chiamavano conversi
(non nel senso che il termine assunse poi, a partire
dal sec .XI per distinguerli dai
"chierici").

Fin dai piu` remoti secoli benedettini, accanto agli oblati, si trovavano nei monasteri
i fanciulli che ricevevano la loro istruzione
letteraria e la loro educazione morale. E`
la gloriosa tradizione delle scuole monastiche che, insieme a quelle episcopali,
tennero
alto nel medioevo il culto del sapere e delle arti. OGGI, con il nome di
"oblati", si intendono due categorie di persone: "oblati
regolari"
o "claustrali" (cioe` coloro che, senza essere monaci, vivono
volontariamente in monastero per motivi spirituali) e "oblati
secolari"
(cioe` coloro che, sia sacerdoti che laici, uomini e donne, vivono nel mondo ispirando la
propria vita cristiana alle norme
e alla spiritualita` benedettina).

CAPITOLO 60

I sacerdoti che volessero eventualmente entrare in monastero

De sacerdotibus qui forte voluerint in monasterio habitare

1-9: Sacerdoti e chierici che domandano di diventare monaci

SB passa a un'altra classe di candidati: sacerdoti e chierici ("de ordine


sacerdotali" del v.1 comprende vescovi, sacerdoti e
diaconi; i "clerici"
del v.8 sono invece i chierici di grado inferiore). L'espressione del titolo in
monasterio habitare non significa
starvi per qualche tempo, ma ha il senso di
"incorporazione alla comunita` monastica, cioe` diventare monaci. Per capire bene
questo capitolo, bisogna vederlo alla luce della storia e della tradizione benedettina.
Nel piu` antico cenobitismo, mentre si
prestava al sacerdozio ogni segno di rispetto, si
nutriva anche una certa diffidenza, o almeno si usava molta cautela per
l'ammissione di
sacerdoti allo stato monastico, a causa dei problemi che la sua dignita` poteva creare col
superiore e coi fratelli,
specialmente per il fatto che tutti, abate compreso, erano in
genere laici. Cosi` si spiega perche` i casi di tali passaggi fossero
abbastanza rari,
come potrebbe dedursi anche dalla parola forte <eventualmente> nel titolo.

La RM (c.83) ammette i sacerdoti solo come ospiti e pellegrini (non come monaci) e li
obbliga a lavorare; dei chierici non parla
affatto. SB e` piu` aperto: sa che la presenza
di sacerdoti e chierici puo` causare problemi, ma li ammette come veri monaci, sia
pure
con cautela per evitare inconveniente. RB ordina quindi di non riceverli troppo presto
(v.1), ma solo se insistono omnino
<assolutamente> nella domanda (v.2),
facendo loro capire subito che il carattere sacro non comporta alcuna mitigazione
nell'osservanza della Regola (vv.2-3). L'espressione "Amice, ad quid venisti?"
la rivolse Gesu` a Giuda nell'atto del tradimento
(Mt.26,50). SB la cita senza il
carattere di amarezza e di rimprovero che ha nel Vangelo, ma solo per ricordare al
sacerdote che e`
venuto di sua spontanea volonta` in monastero. Anche S.Arsenio nel
deserto si domandava spesso: "Propter quid venisti?"
<perche` seri
venuto?>. E` noto l'uso efficace che di questa frase fece S.Bernardo per ammonire se
stesso ripetendo: "Bernarde,
ad quid venisti?". Cosi` i sacerdoti sono
equiparati a tutti gli altri fratelli nel tenore di vita. Non e` detto pero` che bevono
essere
provati per un anno intero, come stabilito nel c.58; comunque dovevano fare una
promessa formale (cioe` la professione) di
osservare la Regola e di perseverare nel
monastero, come si deduce dal confronto con il v.9: "anche questi...".

Per onorare il sacerdozio, l'abate potra` loro concedere alcuni privilegi. Al v.4
"missas tenere" e` discutibile se significhi "celebrare
la
messa", oppure "dire le orazioni finali" <"missas">
dell'Ufficio divino. Allora il senso generale del versetto sarebbe che il
sacerdote occupa
il secondo posto, subito dopo l'abate e, in assenza di questi, compie l'ufficio di
benedire e di recitare le formule
finali. Pero` questo non deve essere causa di
presunzione, ma anzi "dia a tutti esempio di umilta`" (v.5) e quando si tratta
di
decisioni nella comunita` o di nomine, deve stare al posto che gli compete secondo la
professione monastica (vv.6-7) come tutti gli

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

altri (cf.RB.63). Lo stesso dicasi per i


chierici di grado inferiore, solo che, invece del primo posto subito dopo l'abate, vengono
messi in un luogo intermedio, cioe` si ha per loro un certo riguardo (vv.8-9).

CAPITOLO 61

Come debbono accogliersi i monaci pellegrini

De monachis peregrinis qualiter suscipiantur

Monaci pellegrini

Questo capitolo presenta un'ultima categoria di candidati: i monaci venuti da fuori. La


parola "pellegrini", suscettibile di varie
interpretazioni, qui significa
soprattutto "monaci stranieri, forestieri" (non monaci sarabaiti e girovaghi
tanto detestati da SB,
cf.RB.1,6-11). RB.61 dice semplicemente: "monaco proveniente
da paesi lontani" (v.1), non si specifica il motivo del viaggio, ne` la
categoria a
cui il monaco appartiene.

1-4: Il monaco pellegrino ricevuto come ospite

A differenza del sacerdote o chierico del capitolo precedente, il monaco pellegrino non
intende entrare a far parte della comunita`,
ma solo essere accolto in foresteria come
ospite. Per SB non c'e` nessun problema: sia accolto "per tutto il tempo che
vuole",
purche` abbia due atteggiamenti fondamentali: si accontenti di quello che
trova e non turbi la pace della famiglia monastica con
pretese, critiche, pettegolezzi,
ecc. (vv.1-3). Questo non esclude che egli possa fare delle giuste osservazioni "con
motivi validi e
con umile carita`" (v.4). Pieno di spirito di fede, SB suggerisce
all'abate che forse il Signore ha inviato il monaco forestiero "proprio
per tale
motivo" (v.4): c'e` sempre da correggere e da migliorare e la volonta` del Signore si
puo` manifestare attraverso un ospite,
come attraverso le osservazioni dei fratelli piu`
giovani (SB lo ha gia` detto in RB.3,3).

5-10: Aggregazione del monaco ospite alla comunita`

Se il monaco forestiero si trova bene nel monastero che lo ospita, potra` in seguito
chiedere di essere ammesso nella comunita`:
dato che si e` potuto conoscere la sua
condotta, ci si regoli di conseguenza. SB e` preoccupato soprattutto del profitto
spirituale
dei suoi monaci; l'ospite puo` contagiare la comunita` con i suoi vizi, come
puo` edificarla con la sua virtu`: nel primo caso gli si
dica "con urbanita`"
- non con insulti e violenza - di andar via; nel secondo caso non solo lo si accolga in
comunita`, se lo chiede,
ma anzi sia invitato a entrarvi perche` gli altri ne abbiano
edificazione e perche` "in ogni luogo si serve un solo Signore e si milita
sotto un
unico Re" <in omni loco uni Domino servitur, uni Regi militatur>: la
bella sentenza era forse comune nell'uso cristiano.

11-14: Due osservazioni

Il capitolo si chiude con due osservazioni. L'abate avra` l'autorita` di assegnare al


nuovo fratello un posto piu` elevato, se lo ritiene
degno (v.11); e lo stesso potra` fare
per i sacerdoti e i chierici (v.12) di cui ha parlato al capitolo precedente. Si noti che
non si
tratta di una ripetizione, perche` prima aveva previsto la promozione per onorare
il sacerdozio (RB.60,4.8), mentre qui vuole
onorare la virtu` personale. La seconda
osservazione e` ispirata al desiderio di conservare la pace tra i monasteri vicini; quindi
per
accogliere un monaco di un monastero noto sara` necessaria l'autorizzazione del suo
abate e le "lettere commendatizie". Cosi`
prescrivevano vari Concili e le regole
monastiche del sec.V e VI.

Il c.61 ci appare cosi` una pagina di discrezione veramente soprannaturale: accoglie il


monaco forestiero, ma accetta le eventuali
osservazioni come provenienti dal Signore, si
preoccupa dell'avanzamento spirituale della comunita` per cui, in caso di un ospite
virtuoso, insiste per farlo rimanere, in modo da costituire uno sprone per gli altri: ma
con prudenza e delicatezza, senza far torto a
un monastero vicino. Ancora una volta SB ci
appare non un legislatore minuzioso e legalista, ma un uomo spirituale e sollecito
pastore
di anime.

CAPITOLO 62

I sacerdoti del monastero

De sacerdotibus monasterii

Preliminari:

Per associazione, si parla qui dei sacerdoti del monastero, cioe` dei fratelli
che nel monastero vengono elevati al sacerdozio (non
gia` dei sacerdoti che chiedono di
diventare monaci, come nel c.60): la loro posizione di privilegio si aggiunge a quella
contemplata nei cc.60-61. RB.62 non ha un parallelo nella RM, la quale non prevede
l'elevazione dei monaci al sacerdozio, anche
se prevede la comunione giornaliera. Per la
Messa si andava alla chiesa del villaggio, come del resto facevano gli antichi monaci
ed
eremiti (ma talvolta gli eremiti si ritenevano dispensati dalla partecipazione esterna al
culto. Pensiamo a SB che, eremita, a
Subiaco, ignorava che fosse il giorno di Pasqua:
II.Dial.1). S.Pacomio ed altri preferivano chiamare nei loro cenobi qualche

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

sacerdote per
celebrare i sacri riti.

Monachesimo e sacerdozio

Tutto cio` manifesta la posizione generale, se non unanime, del monachesimo antico
riguardo al sacerdozio. Gli anacoreti copti si
mostravano restii all'ordinazione; i
pacomiani la rifiutavano in assoluto; in Sitia i migliori monaci si opponevano a che i
vescovi
imponessero loro le mani. Sacerdozio e monachesimo sono realta` distinte: uno e`
per il servizio ministeriale del popolo di Dio
attraverso la Parola e i Sacramenti,
l'altro e` per lo sforzo di realizzare nella solitudine la perfezione dell'unione con
Cristo.
Desiderare il sacerdozio per i monaci antichi era segno di superbia; i monaci
avevano paura del sacerdozio; sacerdozio e orgoglio
vanagloria sono termini spesso
associati nei loro scritti (per esempio Cassiano, Inst.11,14-18; Coll.4,20; 5,12). Avevano
paura che
a motivo del sacerdozio dovessero lasciare la loro vita isolata per il
ministero: "il monaco deve fuggire allo stesso modo i vescovi e
le donne",
secondo il celebre detto di Cassiano (Inst.11,18).

L'ordinazione di alcuni monaci per il servizio della comunita` poteva dare origine a
dispute, invidie, divisioni, problemi di autorita` e
di precedenza. Era un rischio. In
questo contesto si comprende il c.62 di SB. Oggi, evidentemente, la situazione e la
mentalita`
sono mutate, la teologia ha aperto una nuova visione. Oggi sarebbe a dir poco
ridicolo accettare con la odierna mentalita`
l'espressione di Cassiano cosi` come
suona...; ma non e` che Cassiano avesse torto: se anche noi oggi avessimo, del
"vescovo e
della donna", l'immagine pratica ed esterna che queste categorie
immediatamente evocavano, non c'e` dubbio che dovremmo
avere la stessa reazione. La
realta` spirituale (la teologia) e` la stessa, l'immagine e la situazione esterna e
contingente sono
mutate. Ma anche oggi, del resto, non mancano aspetti di conflitto
esteriore tra "vescovi e gerarchia" e religiosi; non per nulla e`
stato
necessario il documento pontificio "Mutuae Relationes"...

1: Elevazione di un monaco al sacerdozio

SB con tutto il monachesimo di allora dimostra una certa sfiducia di dover avere
dei sacerdoti in monastero (appare abbastanza
chiaro da questo capitolo e dal c.60), ma
preferisce correre questo rischio per il vantaggio di avere in casa un sacerdote per la
liturgia monastica. Tanto l'iniziativa che la scelta della persona spettano all'abate, il
quale dovra` vedere chi sia degno, cioe` un
monaco sensato, maturo e di "santa
conversazione". Sacerdotio fungi <"esercitare l'ufficio
sacerdotale", in senso largo: sacerdote
e diacono) e` frase biblica da Sir.45,19.

2-7: Posizione e obblighi dell'ordinato

"Honores mutant mores", dice un proverbio: "Gli onori cambiano i


costumi". Una volta elevato alla dignita` sacerdotale, il monaco
che ne era degno
(v.1) puo` cessare di esserlo e lasciarsi prendere dallo spirito di alterigia e di
superbia (v.2).

SB gli ricorda l'obbligo di sottomissione alla Regola e all'abate; anzi, gli ricorda
che si deve sentire piu` obbligato degli altri alla
disciplina regolare e sforzarsi
di "avanzare sempre piu` nel Signore" <"magis ac magis in Deum
proficiat", v.4>. La frase
riecheggia S.Cipriano, Epist.13,16. Insomma,
"noblesse oblige", la nobilta` impone dei doveri! Il monaco ordinato sacerdote o
diacono conservera` il suo posto in comunita` (v.5), anche se potra` essere trattato con
piu` riguardo ed avanzare grado (come
gia` previsto per i sacerdoti secolari che si fanno
monaci: RB.60,4.8 e per i monaci forestieri: RB.61,11-12).

8-11: Penalita` per il sacerdote indegno

La finale del capitolo e` nello stesso tempo molto triste ed energica. Se il sacerdote
cessa per la sua cattiva condotta di essere
monaco, non lo si riterra` piu` neanche
sacerdote, ma ribelle (v.8). Certo, lo si riprendera` piu` volte, "saepe monitus,
chiamando a
testimoniare anche il vescovo che lo ha ordinato (questo corrisponderebbe
all'ammonizione pubblica di RB.23,3). In seguito si
puo` arrivare addirittura
all'espulsione dal monastero (v.10), ma naturalmente solo in casi estremi (v.11).E`
presumibile che le
disposizioni dei vv.7-11 si applicassero anche ai monaci che erano gia`
sacerdoti prima di entrare in monastero (RB.60); ma il
pericolo dell'insubordinazione
sara` stato piu` facile - e forse SB lo apprese dall'esperienza - in coloro che, prima
semplici monaci,
si vedevano poi elevati alla dignita` sacerdotale o diaconale e preferiti
ad altri loro fratelli.

Conclusione del capitolo

Concludendo, la RB "non considera il sacerdozio dei monaci che in due casi:


quando vengono alla vita monastica gia` rivestiti del
sacerdozio e quando si fa sentire la
necessita` della presenza di un sacerdote nella comunita`, per assicurare il servizio
dell'altare.
In altre parole, il sacerdozio non e` stato previsto se non nei casi di vera
necessita`. Il monaco sacerdote, lungi dall'essere un
ideale, e` concepito come una
pericolosa, benche` inevitabile, anomalia, i cui inconvenienti si cerca di ridurre con
severi
avvertimenti" (DeVogue`). Sono parole un po` forti, ma storicamente vere.
Sappiamo che nel corso dei secoli, il numero dei
monaci sacerdoti e` aumentato, il che ha
cambiato la prospettiva della Regola (e tutta la visuale di questo capitolo), che e`
quella
di una comunita` laicale. Negli ultimi tempi, in alcuni luoghi, si notano dei
movimenti di ritorno (almeno come ipotesi) ad un
monachesimo laicale.

Conclusione di tutta la sezione

Come conclusione di tutta la sezione "Aggregazione dei nuovi membri"


(RB.cc.58-61+62), riassumiamo quanto segue da: Lentini,
pp.568-569. Riepilogando, SB ha
distinto nella comunita` queste categorie:

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

1). monaci venuti come postulanti da adulti (c.58);

2). monaci offerti da fanciulli (oblati) (c.59);

3). monaci venuti gia` sacerdoti o chierici (c.60);

4). monaci venuti da altri monasteri (c.61);

5). monaci elevati al sacerdozio (c.62).

Origine dei "Fratelli Conversi"

I fanciulli naturalmente avevano piu` tempo e possibilita` di essere curati e istruiti;


difatti, quando aumentarono i monaci elevati
agli ordini sacri, furono presi soprattutto
dagli "oblati", appunto per la loro preparazione. Percio` il termine
"conversus", che
designava il monaco entrato da adulto, comincio` a
significare anche monaco illetterato. Nel sec.XI, quando ci furono tante
vocazioni di
uomini semplici e illetterati, S.Giovanni Gualberto in Italia, e altri fuori d'Italia, li
accolsero assegnando loro i lavori
manuali e preghiere semplici; essi facevano la
professione, erano quindi monaci, ma non passavano mai nella categoria dei
monaci
sacerdoti e facevano vita a parte: refettorio e dormitorio separati, non partecipavano ai
capitoli, portavano la barba (percio`
erano detti anche "barbuti") e un abito
speciale. Cosi` ebbero origine i "fratelli conversi", nel senso che hanno avuto
fino a pochi
anni fa. Essi si svilupparono tra cluniacensi e cisterciensi e poi
dappertutto, anche nelle comunita` femminili. Oggi si e` tornati alla
costituzione delle
comunita` con una unica categoria di monaci, sacerdoti e non, con uguali diritti e doveri,
salvo quelli connessi
col carattere sacerdotale (PC.15).

SEZIONE sulle RELAZIONI FRATERNE

RB. 63; 69-72

Preliminari

Quest'ultima sezione della Regola che esaminiamo non rivela in SB il desiderio di


imprimere un orientamento particolare alla vita
della sua comunita`. Parliamo dei cc.69-72
aggiunti in secondo tempo da SB (dal c.67 in poi) e che sono originali suoi (non hanno
alcun parallelo nella RM); nella stessa sezione parliamo del c.63, che tratta dell'ordine
di precedenza nel monastero, ma la
seconda parte presenta analogie nel tono e nel
linguaggio con il c.72 (anche del c.63 non abbiamo un vero parallelo nella RM).

Le "relazioni orizzontali" - diciamo cosi`, anche se l'espressione e`


troppo moderna - acquistano in RB.63 e 69-72 un'importanza di
primi piano: si nota
un'atmosfera piu` umana, la cura di rispettare le diverse personalita` dei fratelli, una
squisita carita`, che
modifica in un certo senso e arricchisce sostanzialmente la
concezione della vita spirituale quale appare nella prima sezione
(cc.1-7) del codice
benedettino.

In RB.63,10-17 e RB.69-72 si insiste dunque di continuo sulla carita`, sotto il


doppio aspetto di amore di Dio e amore del
prossimo. Questi testi
riecheggiano soprattutto la dottrina di Basilio e di Agostino, indiscutibili maestri della
carita` fraterna fra i
cenobiti. Ma dobbiamo citare anche Cassiano; egli che nelle
Institutiones parla del monastero come di una scuola in cui contano
soprattutto - se non
esclusivamente - le "relazioni verticali", cioe` tra maestro e discepolo,
tra monaco e abate, nella Coll.16 sulla
"amicizia spirituale" da` alla carita`
fraterna tanta importanza e giustifica le virtu` cenobitiche non solo in rapporto al
profitto
spirituale del monaco, ma anche in rapporto alla pace e all'amore tra i fratelli.
"Passare dalle Institutiones alla Coll.16 di Cassiano
e` un tragitto analogo a quello
che va dal primo agli ultimi capitoli della RB" (DeVogue`).

Dobbiamo pero` dire che, oltre l'influsso di Basilio, Agostino e Cassiano, cio` che
piu` appare e` la maturita` spirituale di SB, la sua
esperienza e la sua riflessione che
gli hanno fatto comprendere la necessita` di dare molto piu` rilievo, nella sua concezione
della
vita spirituale, alle relazioni interpersonali dei fratelli, alla carita` fraterna
nelle sue molteplici manifestazioni.

CAPITOLO 63

L'ordine della comunita`

De ordine congregationis

1-9: L'ordine della comunita`

Abbiamo avuto modo di notare spesso la preoccupazione di SB per l'ordine e la


precisione, che sono una salvaguardia per la
pace e la tranquillita` della vita
monastica. Uno spinoso problema che ha tormentato e tormenta gli uomini di tutti i tempi e
di tutti i
luoghi, trascinandoli spesso in contese, a volte assurde e ridicole, e` quello
della precedenza, del rango, del posto occupato
rispetto agli altri (ricordiamo l'episodio
dei figli di Zebedeo: Mc.10,34-35).

SB da` tre criteri: quello normale e` l'anzianita` monastica, cioe` la data


d'ingresso in monastero (vv.1.7-8); un'eccezione puo`
essere data da particolari meriti
di un monaco (come nei casi riscontrati in RB.60,4; 61,11-12; 62,6); oppure la volonta`
dell'abate,

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

il quale e` autorizzato a promuovere e a degradare, ma solo per ragioni


superiori e per motivi validi (vv.2-3); SB gli ricorda di
fuggire il dispotismo e di
pensare al giudizio di Dio, secondo lo stile e le espressioni gia` riscontrate in RB.2,64
e RB.65.
Comunque, l'eta` fisica e l'estrazione sociale dell'individuo non conteranno
nulla (vv.5-8.18). Pertanto anche i fanciulli oblati
staranno al posto che corrisponde
alla data della loro consacrazione a Dio, anche se sotto la tutela di monaci adulti (v.9 e
l'argomento sara` ripreso nei vv.18-19).

10-17: Deferenza e amore tra i fratelli

Fissato l'ordine materiale dei posti, SB passa a un teme di grande originalita` (come
si e` detto sopra, nell'introduzione alla
sezione): le manifestazioni di reciproco
rispetto e cortesia. Comincia con un principio generale (v.10), gia` annunciato negli
strumenti delle buone opere (n.70 e 71): "Venerare i piu` anziani, amare i
piu` giovani" (RB.4,70-71). Le norme seguenti (vv.11-17)
sono applicazioni del
principio generale sull'onore e l'amore. Tali forme di deferenza non sono soltanto
manifestazioni di
educazione, sensibilita`, delicatezza e buon gusto naturali, ma sono
ispirate soprattutto dalla S.Scrittura (Rom.12,10): "Prevenitevi
a vicenda nel
rendervi onore" (v.17). Notiamo che il termine "nonno" e` di origine
egiziana e si divulgo` in oriente; in seguito fu
latinizzato e piu` tardi nel linguaggio
ecclesiastico si applico`, con un senso familiare e affettuoso, alle persone che senza
appartenere alla gerarchia, erano considerate degne di particolare venerazione: monaci,
asceti, vergini consacrate a Dio, vedove
e anziani; ancor oggi in francese
"nonne", in inglese "nun", in tedesco "nonne" significa
monaca. Anche i titoli per l'abate "dominus
et abbas" <signore e
abate> non sono nuovi, ma gia` attestati nella tradizione monastica:
"dominus" esprimerebbe l'onore dovuto
all'abate come vicario di Cristo;
"abbas" esprimerebbe l'amore.

18-19: Posizione dei fanciulli

Gli ultimi versetti riguardano la prima parte del c.63, non la seconda. E` una specie
di appendice sulla posizione dei fanciulli (v.9).
I piccoli oblati in qualita` di persone
consacrate a Dio come gli altri monaci professi, mantenevano il loro posto negli atti
ufficiali
della comunita` (coro e refettorio, v.18). Essendo pero` nel periodo della
formazione, debbono essere curati con la vigilanza e
mantenuti sotto disciplina "fino
alla maggiore eta`" (v.19), che era considerata verso i 15 anni (cf.RB.70,4).

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NOTA:

Il c.64 e` stato trattato subito dopo il c.2.

Il c.65 e` stato trattato subito dopo il c.31.

I cc.66-67 sono stati trattati nella sezione "Relazioni con l'esterno".

Il c.68 e` stato trattato subito dopo il c.5.

CAPITOLO 69

In monastero nessuno ardisca difendere un altro

Ut in monasterio non praesumat alter alterum defendere.

Preliminari

Questo e il capitolo seguente sono un tutt'uno: parlano di due atteggiamenti opposti


che possono gravemente disturbare le
relazioni fraterne ed offendere la carita`. Ci sono
infatti nei monasteri dei temperamenti istintivi portati per natura ad assumersi il
ruolo
di "avvocato difensore" e di giustiziere; seguendo la propria indole, costoro si
arrogano delle funzioni che non sono di loro
competenza e possono turbare l'armonia della
comunita` con interventi senza discrezione. Il c.69 condanna percio` con fermezza
qualsiasi intervento di un monaco in difesa di un altro; il c.70 stabilisce in modo deciso
che la riprensione (grave e pubblica) e il
castigo compete solo all'abate e a pochi altri
autorizzati da lui. Dal punto di vista delle relazioni fraterne, potremmo dire che il c.69
mette in guardia i monaci da comportamenti fuori luogo dettati da simpatia, il c.70
da eccessi a cui puo` condurre l'antipatia e
anche lo zelo immoderato. Su SB ci
saranno stati, si`, degli influssi letterari della tradizione pacomiana, ma e` stato detto
-
giustamente - che sono dettati soprattutto dall'esperienza. Il tono di
particolare severita`, l'asprezza delle espressioni, il citare il
caso particolare della
consanguineita` in RB.69,2, fanno capire che SB ha in mente fatti concreti che gli erano
capitati e che lo
spinsero ad aggiungere questi due capitoli. Solo poche parole di
commento.

1-4: Non difendere un altro

Notiamo tre volte (titolo, v.1, v.3) il verbo praesumere <ardire, osare>
che c'e` spesso nella Regola per indicare l'usurpazione di un
potere altrui (in questo
caso il compito dei superiori). Il v.3: "Possono nascere gravissime occasioni di
scandali". Notiamo la
gravita` delle parole "gravissime" e
"scandali". Dall'appoggio di un "avvocato" fuori posto, il monaco si
sente incoraggiato a
respingere un'obbedienza, a resistere contro l'abate e altri
confratelli, ed ecco simpatie, antipatie, pettegolezzi, gelosie, discordie...
Il v.4:
"Sia punito molto severamente". Anche S.Pacomio in questi casi prescrive una
riprensione severissima (Reg.176) e
S.Basilio e` molto rigido, perche` il fratello difeso
indebitamente si confermava nella colpa.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

CAPITOLO 70

Nessuno osi arbitrariamente percuotere un altro

Ut non praesumat passim aliquis caedere

1-3: Non punire arbitrariamente i fratelli

Il capitolo comincia col ribadire l'assoluta inammissibilita` di un potere indebito, di


atti arbitrari, di arroganza (c'e` nel testo la
famosa parola praesumptio). SB, in
RB.23,4-5, ha parlato espressamente delle due pene: scomunica e battiture; qui ribadisce
che
puo` infliggerle solo che ne ha l'autorita`. Certo, a noi appare un po` strano che un
semplice monaco potesse cosi` semplicemente
scomunicare un altro!

4-5: Disciplina dei fanciulli

SB torna ad occuparsi dei fanciulli. Nel monastero c'era una perfetta comunione di vita
tra vecchi, adulti, adolescenti e fanciulli, i
quali pregavano, mangiavano lavoravano,
dormivano tutti insieme. Certamente la natura stessa porta a delle differenze di cui si
tiene conto, com'e` logico; anche la Regola fa oggetto di particolare attenzione vecchi e
fanciulli (RB.37; cf. anche 22,7; 30; 45,3)
e ha ordinato che i fanciulli siano sotto la
vigilanza e la disciplina (RB.63,18-19) e che questa sia un'incombenza di tutti i monaci
adulti (RB.63,9). In questo capitolo SB specifica ancora questa disposizione (vv.4-5): per
i fanciulli fino ai 15 anni, tutti i monaci si
devono sentire educatori; si stabilisce
cosi` un'altra dimensione nelle relazioni fraterne: i monaci adulti siano educatori dei
loro
fratelli piu` piccoli. E si noti che SB raccomanda in cio` "mensura et ratio"
<equilibrio e moderazione>, qualita` raccomandate
all'abate nel suo esercizio di
correzione (cf.RB.64).

6-7: Pene per i trasgressori

Chi usa senza discrezione, senza misura, la correzione nei confronti dei fanciulli, o
chi si arroga il diritto nei confronti di altri
monaci adulti, sia punito; e la
motivazione SB la prende dall'assioma chiamato la "regola d'oro", che in
Mt.7,12 e in Lc.6,31 e` in
forma positiva (come in Tobia 4,15): "Non fare agli
altri..."; la troviamo per la terza volta nella RB (qui, 4,9 e 16,4): cioe`
castigare i
fratelli senza autorizzazione e i fanciulli senza discrezione sono mancanze
contro la carita` fraterna.

CAPITOLO 71

Che i fratelli si obbediscano a vicenda

Ut obeodientes sibi sint invicem

1-5: Obbedienza reciproca tra i fratelli

Quante volte e in quanti modi SB ha parlato gia` dell'obbedienza! Soprattutto nel


Prologo, nei cc.5, 7 e 68 ne ha trattato e vi ha
insistito in mille maniere: veramente in
essa egli assomma praticamente tutta l'ascesi monastica. Sembrerebbe che non ci sia
nulla
da aggiungere. Ed invece ecco qui un altro capitolo, con un taglio in parte diverso. E`
stato notato che i monaci lungo la
Regola appaiono come semplici discepoli sotto la
direzione e il magistero dell'abate e dei suoi collaboratori. Dal c.63 in poi
possiamo
notare un'atmosfera diversa: tutti sono responsabili dell'educazione dei fanciulli oblati
(RB.63,9; 70,4); nel c.71 si parla
poi di obbedienza reciproca. Praticamente si
nota un'evoluzione della figura del monaco nella mente di SB: i monaci non sono
semplici
scolari, ma persone adulte, mature e che debbono essere considerate come tali.

Ancora un'altra osservazione: si apre un altro aspetto dell'obbedienza. All'abate,


vicario di Cristo, si obbedisce perche` manifesta
la volonta` di Dio, quindi il monaco e`
sicuro cosi` di realizzare cio` che Dio gli chiede; nel c.71 l'obbedienza reciproca che si
inculca prescinde dal contenuto oggettivo: e` un bene comune, il cammino per andare
a Dio. La frase e` diventata una delle
sentenze piu` sintetiche e luminose della Regola: scientes
per hanc oboedientiae viam se ituros ad Deum <persuasi che per
questa via
dell'obbedienza andranno a Dio, v.2>. Anche S.Basilio (Reg.13; 64) e Cassiano parlano
di obbedienza reciproca. Anzi
Cassiano dedica la Coll.16 all'obbedienza reciproca senza
distinzione di gradi.

Questa obbedienza ha pertanto un valore in se stessa, in quanto implica l'imitazione di


Cristo (cf. tutta la dottrine sull'obbedienza
nella RB, soprattutto nel c.7 sull'umilta`);
ma al tempo stesso e` una manifestazione di carita`, di amore fraterno, un vincolo nuovo
tra i monaci, i quali debbono obbedirsi con ogni carita` e sollecitudine (v.4),
cercare non quello che e` il proprio tornaconto, ma
quello degli altri. Tale genere di
obbedienza potrebbe causare confusione nella comunita` e SB, sempre preoccupato della pace
e
dell'ordine del cenobio stabilisce una certa gerarchia in questa obbedienza reciproca
(vv.3-5): obbedienza ai comandi dell'abate e
dei suoi collaboratori, quindi obbedienza dei
fratelli l'un l'altro, tenendo conto dell'ingresso in monastero (questo e` il senso di
"anziano"; vedremo poi che nel capitolo seguente si pralera` di gara
nell'obbedirsi a vicenda, senza piu` distinzione tra anziani e
giovani (cf.RB.72,6).

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

In senso generale, come riflessione per noi oggi su questo capitolo della
Regola, sara` bene richiamarci tutti a cio` che si direbbe
oggi rispetto reciproco
della personalita` di ciascuno, aiuto vicendevole, disponibilita` l'uno verso l'altro: e` una legge ineludibile del
cenobitismo benedettino, un modo di vivere sempre e
comunque l'oboedientae bonum <il bene dell'obbedienza>!

6-9: Contegno dinanzi alle riprensioni

SB passa a parlare dell'atteggiamento di fronte alla riprensione. Per conservare la


pace e l'armonia nella comunita`, il S.Patriarca
da` ai piu` anziani il
'diritto-dovere" di correggere gli altri fratelli verbalmente (la scomunica e le
altre pene sono riservate all'abate,
cf.RB.70,2) e vuole nei monaci tanta umilta` e
docilita` che sappiano accettare e chiedere scusa (vv.6-8); anzi appare fin troppo
severo
per chi fosse cosi` pieno di orgoglio da rifiutare un atto di sottomissione e di umilta`
(v.9). E` senza dubbio un rimedio
drastico per mantenere la pace e l'armonia in comunita`
di uomini rudi e violenti, quali erano gli immediati destinatari della Regola.

Cio` che deve essere valido per noi oggi e` questo senso dell'importanza
della comunione fraterna che appare in SB: malintesi,
rivalita`, dispute, certe
"guerre fredde", quel vivere quasi da estranei in comunita`..., sono cose
che possono succedere nei
monasteri: chiarisi l'un l'atro i motivi di certe tensioni,
chiedersi scusa per ristabilire la serenita`, sono valori perenni che vanno
conservati a
costo di qualunque sacrificio.

CAPITOLO 72

Lo zelo buono che i monaci debbono avere

De zelo bono quod debent monachi habere

Il TESTAMENTO SPIRITUALE di S.Benedetto

Con ragione il c.72 e` stato considerato sempre come una delle pagine piu` preziose
della Regola. E` certamente il capitolo piu`
soave del codice monastico, sintesi del suo
contenuto, compendio della perfezione monastica. Chiudendo la Regola il S.Patriarca
non sa
meglio sintetizzare il suo insegnamento se non nella parola con cui Gesu` compendia e
corona la sua dottrina: la
CARITA`.

RB.72 e` stato chiamato il "testamento spirituale" di S.Benedetto. Si


presenta in effetti con le caratteristiche di un capitolo
conclusivo: esortazione, sentenze
spirituali, frase finale in forma di augurio e di preghiera; vermanete appare
chiaro che ci
troviamo di fronte alle "ultime parole" <ultima
verba> del Santo Padre. D'altronde e` abbastanza evidente che il c.73 era stato
composto prima e si trovava subito dopo il c.66, e fu posto dopo il c.72 nella redazione
definitiva della Regola, a guisa di epilogo,
quale e` in realta` (cf. commento al c.73).

Quindi le ultime frasi che uscirono dalla penna di SB possiamo ritenerle queste sullo
"zelo buono". E` stato scritto: "La cosa piu`
importante di questo
capitolo e` il fatto di offrire la prospettiva in cui si deve leggere la Regola. Appare
come SB, dopo essere
vissuto per lungo tempo con i suoi monaci in una vita di preghiera e
di osservanze monastiche, sia giunto a questa convinzione: la
dimensione della carita`,
lo zelo buono; che ne e` il segno e il risultato, e` la cosa piu` importante per il
monaco" (J.E.Bamberger).

Il testamento spirituale di SB costituisce la canonizzazione - per cosi` dire -


delle relazioni interpersonali: i fratelli che vivono in uno
stesso monastero e
formano una sola famiglia spirituale, debbono stimare sopra ogni altra cosa e coltivare
con zelo queste
relazioni interpersonali. Questa pagina cosi` densa e soave, non puo`
essere frutto solo di teoria, di letture, di fonti che possono
avere influito; si tratta
soprattutto dell'esperienza personale di SB, uomo di Dio e padre spirituale: veramente
egli parla "ex
abundantia cordis" <dalla sovrabbondanza del cuore>.
Tuttavia possiamo notare in generale l'influsso di Agostino e reminiscenze
soprattutto di
S.Paolo, nonche` della meravigliosa Collazione 16 di Cassiano sulla "amicizia
spirituale".

Schema del capitolo

Come altri legislatori, SB stende il suo testamento spirituale in forma concisa, con massime
brevi e precise. Definisce prima lo
"zelo buono" (vv.1-2); esorta ad
esercitarlo (v.3); enumera otto massime in cui esso deve manifestarsi (vv.4-11);
conclude con un
augurio e una preghiera (v.12).

1-2: Lo zelo buono

La parola "ZELO" viene dal greco, da una radice che significa


"essere caldo", in ebollizione; quindi si tratta di una "passione", e
comprende ira, invidia, gelosia, ecc. In latino "zelum" significa gelosia,
sentimenti di rivalita`, che opera da agente disgregatore
della comunita`, S.Paolo lo
include tra le opere delle tenebre (Gal.5,20-21; cf.Giac.3,14 "zelum amarum").
Anche SB usa il termine
nel senso di invidia, gelosia: RB.4,66; 65,22. Tutto questo e` uno
zelo cattivo, amaro (v.1). Ma la Scrittura conosce un altro genere
di gelosia, qualle
che si applica a Dio, quando dice che "Yahwe` si chiama Geloso; egli e` un Dio
Geloso" (Esodo 34,14), che non
tollera rivali nell'onore e nell'amore a Lui dovuti.
Da questa gelosia divina deriva lo zelo che animava gli uomini di Dio; "lo zelo
della
tua casa mi divora" (salmo 68,10) venne in mente agli apostoli quando videro Gesu`
scacciare i venditori dal tempio
(Giov.2,17); nello stesso senso S.Paolo scriveva ai
Corinzi: "Io sono geloso di voi, della gelosia di Dio, avendovi promesso a un
unico
sposo per presentarvi quale vergine casta a Cristo" (2Cor.11,2). E` questo lo "zelo
buono che allontana dai vizi e conduce a
Dio e alla vita eterna" (v.2).

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

In questo senso la parola ha il signofocato di ardore, fervore, come in


RB.64,6; anche a proposito del pertinaio si parla di fervor
caritatis <fervore
di carita`, RB.66,4). Il doppio zelo richiama la dottrina delle due vie, come
spesso nell'AT e nel discorso della
montagna, Mt.7,13-14. E` interessante notare che
questo zelo buono che conduce a Dio e alla vita eterna si esplicita, come
vedremo subito,
nelle manifestazioni della carita` fraterna; cioe`: quella purificazione dei vizi e
raggiungimento della vita eterna
che SB aveva prima attribuito a tutto il cammino
dell'umilta` (RB.7,67-70), qui e` attribuito all'amore fraterno, quindi l'unione
dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo.

Ha scritto DeVogue`: "(...) l'ascetismo monastico (...) si arricchisce qui di una


nuova dimensione. L'itinerario del monaco, dal timor
di Dio fino alla carita` perfetta,
attraverso l'obbedienza, la pazienza, l'apertura della propria coscienza, l'umilta`, il
silenzio, la
compunzione - per non citare che le prime tappe -, nelle quali il discepolo
camminava sempre solo dietro le orme del suo maestro,
si allarga e completa con un nuovo
tracciato, finora poco indicato. All'ascetismo individuale praticato sotto la direzione di
un
superiore, si aggiunge un elemento nuovo: le relazioni fraterne".

3-11: Le massime dello zelo buono

SB raccomanda dunque che "a questo zelo buono debbono darsi i monaci", cioe`
agire ferventissimo amore <con ardore di
carita`, con intenso amore, v.3>. E
passa ad enunciare alcune manifestazioni. Le otto massime, concise, sono enunziate
quasi
tutte col medesimo schema: all'inizio il termine principale, alla fine il verbo in
forma esortativa. Le prime cinque massime si
riferiscono all'amore fraterno, con varie
modalita`; le ultime tre all'amore a Dio, all'abate, a Cristo. Sono una specie di apoftegmi
meravigliosamente espressivi.

1.ma massima (v.4)

E` il testo di S.Paolo (Rom.12,10) gia` citato in RB.63,17; pero` qui non si allude
affatto all'ordine di precedenza, si onora il fratello
senza guardare se e` superiore o un
inferiore: il fervore di carita` non fa caso a queste distinzioni.

2.da massima (v.5)

Norma quanto mai necessaria per una vera convivenza nella carita`. Chi e` cosi`
perfetto da non avere qualcosa da far sopportare
al vicino? In ogni comunita` la massima
e` di costante applicazione. (L'espressione ricorda Cassiano, Coll.19,9).

3.za massima (v.6)

Su questo tema dell'obbedienza reciproca SB ha parlato nel c.71 (cf. commento). Ma qui
non si allude all'ordine di precedenza; e
c'e` anche l'avverbio "certatim"
<a gara>, cioe` si deve proprio sentire il gusto, il compiacimento di obbedirsi a
vicenda.

4.ta massima (v.7)

E` di chiaro sapore paolino: cf.1Cor.10,24.33; 13,5; Filip.2,4. Si tratta della


sollecitudine dettata dalla vera carita`, e nel monastero
ci sono tante occasioni di
sacrificare i propri interessi, riposo, piccole comodita`, ritagli di tempo, ecc. Tale
pratica costante
richiede una continua abnegazione e puo` significare spesso un vero
eroismo, nascosto, ma genuino.

5.ta massima (v.8)

Anche questa e` ispirata a S.Paolo: cf.Rom.12,10; 1Tess.4,9; cf. anche Ebr.13,1 e


1Piet.1,22. L'avverbio "caste" <con amore
puro, castamente>,
significa l'amore soprannaturale, gratuito, disinteressato, non cioe` l'affetto sensibile
e naturale. I monaci
devono sapersi voler bene di quell'amore che scaturisce dall'amore di
Cristo. Come commento ai vv.7-8, si legga tutto il brano di
S.Paolo ai Filippesi 2,1-5
(prima dell'inno cristologico sulla "kenosis" di Gesu`).

6.ta massima (v.9)

Da questo versetto di lascia un po` la dimensione orizzontale per elevarsi, da questa


piattaforma dell'amore fraterno, verso l'alto,
all'amore di Dio, dell'abate, di Cristo.
"Temeranno Dio con amore": comunemente amore e timore si interpretano
come due termini
antitetici. Gli antichi la pensavano diversamente (nella Scrittura il
"timore di Dio" e` una realta` molto complessa che significa tutto
il fenomeno
religioso, tutta l'esperienza di Dio, fino all'amore). S.Cipriano ha "amore e
timore" nella stessa frase (preghiera del
Signore, 15); nel Sacramentario Leoniano
(XXX,1104) abbiamo la medesima espressione di SB: amore te timeant <ti temano
con
amore>; secondo Cassiano, il timore amoroso di Dio, "timore di amore", e`
il grado piu` alto e sublime a cui possono arrivare i
perfetti (Coll.11,15).

7.ma massima (v.10)

E` un precetto formale, anche se non del tutto nuovo; SB ha parlato dell'amore per
l'abate per amore di Cristo (RB.63,13);
all'abate raccomanda di farsi piu` amare che
temere (RB.64,15); l'abate deve amare tutti i fratelli (RB.2,17). Ora chiaramente si
dice
che i fratelli devono amare l'abate con sincerita`. Nella RM questa idea manca del tutto,
lo schema e` molto piu` verticale: per
il loro maestro i discepoli non possono nutrire se
non fede e obbedienza. La RB pone l'amore reciproco tra monaci e abate, nella
stessa
corrente di carita` verso Dio: "misura del cenobitismo e` la relazione mutua che
unisce i fratelli all'abate in Cristo"
(DeVogue`).

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

8.va massima (v.11)

Il nome di Cristo non era ancora apparso nel testamento spirituale di SB; e` stato
lasciato alla fine come coronamento.
L'espressione e` presa da S.Cipriano: "Non
antepongano assolutamente nulla a Cristo, perche` Egli non antepose nulla a noi" (La
Preghiera del Signore, 15); anche S.Agostino ha: "Nihil praeponant Christo"
(Espos. sul salmo 29,9). SB ha gia` posto una simile
massima tra gli strumenti delle buone
opere: "Niente anteporre all'amore di Cristo" (RB.4,91). Qui la rafforza con un
energico
"omnino" <assolutamente>. Il monaco ha posto l'amore di
Cristo al di sopra di ogni altro amore; "Christo omnino nihil praeponant"
e` l'anima e l'anelito di tutta la Regola come di tutta la vita di S.Benedetto.

12: Orazione conclusiva

La frase che esprime un desiderio, un augurio, un voto, una speranza, non solo chiude
il capitolo, ma, nella mente del legislatore,
tutta l'appendice (cc.67-72) e quindi tutta
la Regola. SB ha parlato di tante cose, ha dato tante disposizioni, consigli, esortazioni:
certo, tutto si deve cercare di fare, e il monaco puo` attraversare tanti momenti di
scoraggiamento, puo` sperimentare la difficolta`
del cammino. E allora il S.Padre termina
con una orazione breve, intensa, significativa, in prospettiva escatologica. Si tratta di
arrivare alla "vita eterna", alla patria celeste tante volte intravista e
sospirata nel corso della Regola (cf.Prol.17,41; RB.4,46;
5,3.10; 7,11; 72,2): a Cristo e
solo a Cristo il monaco affida la capacita` di poter trionfare definitivamente nella sua
"ricerca di Dio"
(Rb.58,7); ed Egli solo ci potra` condurre alla vita
eterna, "pariter" <tutti insieme>. E notiamo questo "tutti
insieme": non si tratta di
un'impresa solitaria, di un cammino desertico, ma insieme:
i cenobiti camminano alla pari, formando una carovana con Cristo in
testa che guida e ci conduce
alla vita eterna.

Conclusione

Tale e` il testamento spirituale di SB; un capitolo in cui scompaiono - diciamo cosi` -


le precedenze, la disciplina regolare, le
difficolta` del cammino ascetico; un capitolo
ridondante tutto di amore, amore a Dio, a Cristo, all'abate, in particolare dell'amore
reciproco tra i fratelli: una nuova dimensione che completa, arricchisce, e in un certo
senso modifica l'ascetismo monastico
descritto nei primi capitoli della Regola. SB ha
scoperto (nella linea di Agostino) tutto il valore umano e cristiano della comunita`;
e` giunto alla ferma convinzione che i monaci cenobiti non vivono insieme in monastero
solo per essere discepoli di uno stesso
maestro, l'abate, ma che la stessa vita di
comunita`, la comunione di spirito costituisce un fine in se`, nello stesso tempo che e`
il
mezzo proprio di questo genere di monaci, per correre verso la vita eterna. Percio` al
termine della Regola SB da` tanta
importanza alle relazioni interpersonali, alla comunione
dei fratelli tra loro, con l'abate e con Cristo in Dio. Ecco allora lo zelo
buono, la
"gelosia" buona: "una emulazione per amore nelle diverse manifestazioni
dell'amore' (DeVogue`).

Concludiamo con una citazione del grande maestro della vita comune, il "Dottore
della carita`", S.Agostino. Parlando delle
comunita` di Roma e di Milano, egli
scrive: "Vi si osserva principalmente la carita`. Alla carita` si ispira e si adatta
il loro cibo, la
loro conversazione, il loro vestito, il loro ambiente. Tutto e`
indirizzato e coordinato verso la carita`. Sanno che Cristo e gli Apostoli
la
raccomandarono tanto che, se essa manca, nulla conta, e, se essa e` presente, tutto
acquista la sua pienezza". (De Moribus
Ecclesiae Catholicae 33,73). Non ci sono
parole piu` belle per esprimere l'ideale comunitario di S.Benedetto.

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Il c.73 e` stato trattato subito dopo il Prologo.

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APPENDICE GENERALE ALLA REGOLA

I valori fondamentali della RB per la vita del monaco

A questo punto, una panoramica a volo di uccello ci aiutera` a puntualizzare alcuni


valori fondamentali che ci sono apparsi piu`
evidenti dallo studio della RB.

1. RICERCA DI DIO

In una famosa espressione dello Pseudo-Dionigi, la parola "monaco", dalla


etimologia 'monos', viene interpretata come 'uomo di
una cosa sola. SB, per il
postulante, vuole che si veda "Si revera Deum quaerit" <se veramente cerca
Dio> (Rb.58,7). Forse
siamo di fronte a quel valore monastico cosi` importante e
fondamentale da poter essere qualificato come l'"unum" veramente
necessario <"revera" = veramente>, quel valore che, se vissuto seriamente, da solo basta (vedi commento a RB 58,7 e
bibliografia indicata). Concretamente significa che Dio diventa il centro di interesse, per cui tutte le realta` sono polarizzate
continuamente da Lui. Questo e` il senso della famosa visione che ebbe SB quando contemplo` tutto il mondo raccolto in un solo

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

raggio di luce che lo univa a Dio (II.Dial.35), a significare che nel rapporto con Dio, sono assunte e trasfigurate tutte le
realta`
create. Dunque la ricerca di Dio e` quello che definisce il monaco, e` l'asse
portante della vita monastica.

Evidentemente, alla base di tale ricerca, c'e` l'iniziativa di Dio stesso: e` Lui che
prima viene a cercare; Dio cerca l'uomo (Gen.3,9:
"Dove sei?") e l'incarnazione
di Cristo e` proprio questo annuncio definitivo dell'amore preveniente di Dio: "Il
Figlio dell'Uomo e`
venuto a cercare..." (Lc.19,10; cf.Lc.15,1-7; Giov.10,10-16).
Questo tema biblico e` continuamente presente nella tradizione
patristica e monastica: il
monaco cerca Dio come uno che sa di essere gia` stato cercato e "afferrato" per
primo (Filip.3,12), sa
che Dio cerca il suo operaio tra la folla (Prol.14). Non si puo`
andare alla ricerca di Dio se non ci si e` accorti e non si e` convinti
che Lui per primo
e` venuto alla nostra ricerca.

2. CENTRALITA' DI CRISTO

Nella RB questa ricerca di Dio passa attraverso un rapporto tutto particolare con Gesu`
Cristo. E` il cosiddetto Cristocentrismo
della Regola: Cristo posto al di sopra e
nel cuore di tutte le realta`: "niente anteporre all'amore di Cristo"
(RB.4,21); "Nulla,
assolutamente nulla, antepongano all'amore di Cristo"
(RB.72,2); "per loro, non considerano nulla piu` caro di Cristo (RB.5,2).
Questo forte rapporto personale con Cristo da` tutto il vero senso della vita monastica;
persone e cose diventano segno della
presenza di Lui: "l'abate tiene le veci di
Cristo" (RB.2,2); ai fratellimalati "si serva proprio come a Cristo in
persona" (RB.36,1);
negli ospiti "si adori Cristo stesso che in essi viene
accolto" (RB.53,1.7), e se sono poveri e pellegrini "si accoglie Cristo ancora
di
piu`" (RB.53,15). Veramente il monaco deve tendere ad essere un cristiano che non
sa altro se non Gesu` Cristo (cf. 1Cor.2,2), in
cui vede racchiusi tutto il senso della
vita e della storia.

3. PREGHIERA

Il monaco dedica alla preghiera la parte migliore della sua giornata e deve tendere a
diventare uomo di preghiera. Appare nella
Regola la posizione importante che SB
assegna alla preghiera liturgica comunitaria, che egli chiama "Opus Dei",
opera di Dio per
eccellenza. "Nulla anteporre all'Opera di Dio"
(RB.43,3), e "Nulla anteporre all'amore di Cristo" (RB.4,21) sono due
espressioni
parallele di un'unica convinzione; la liturgia e` infatti lo spazio
privilegiato dell'incontro con Cristo. La giornata monastica e`
scandita dai vari momenti
della lode divina che ritmano il fluire del tempo (deve essere veramente "Liturgia
delle Ore"). Cf.
introduzione alla sezione "LOpera di Dio" e "excursus
sulla preghiera monastica").

4. ASCOLTO

La dimensione preghiera in modo molto biblico e` espressa anche dalla categoria dell'ascolto,
che e` un momento molto
importante nella RB. Il monaco e` l'uomo dell'ascolto in maniera
molto accentuata ("Ascolta, o figlio"..., Prol.1): cercato da Dio
(Prol.14) e
cercatore di Dio (RB.58,7), il monaco ascolta con orecchio attentissimo e meravigliato
(Prol.9) la voce del Signore che
risuona soprattutto nella S.Scrittura (Prol.8-13). La
preghiera liturgica e` tutta intessuta di Parola di Dio. Preparazione e
proseguimento
della preghiera liturgica e nutrimento della preghiera personale e` la lettura amorosa
e pregata della Bibbia, quale
avviene nella "lectio divina", alla quale SB
da` molta importanza (RB.48; cf. Excursus sulla Lectio Divina).

5. SILENZIO

L'ascolto di Dio ha come condizione il silenzio, sia esteriore, sia del cuore e della
mente. Il silenzio ha due aspetti: quello ascetico,
cioe` astenersi dal parlare per
mortificazione (RB.6; 4,5-54; 7,56-61; 9^,10^ e 11^ gradino di umilta`), e quello mistico,
cioe` il
clima di silenzio per far risuonare la Parola di Dio: e` il "deserto del
cuore", quel deserto dove Dio vuol riportare il suo popolo
(Osea 2,14) per parlargli
e convertirlo a Se`. E` diventato un tema comune nella tradizione monastica: solitudine e
silenzio sono
elementi essenziali per una autentica vita di preghiera (vedi introduzione e
conclusione nel commento a RB.6).

6. SPOGLIAMENTO DI SE` (umilta`)

Il monaco e` chiamato a un cammino di sequela che e` essenzialmente un cammino di


spogliamento di se`. Il capitolo piu` lungo
della Regola, il 7.mo., e` dedicato
all'umilta`, che non significa una virtu` particolare, ma tutta una realta` spirituale
molto ampia e
profonda, tutto il cammino ascetico rappresentato come una scala da
ascendere faticosamente. Nella letteratura monastica, la
figura del monaco e` sempre
rappresentata come umilissima, con un'anima da povero, sempre cosciente del proprio
peccato,
chiamato a sentirsi sinceramente ultimo di tutti (RB.7,51), chiamato ad essere
critico verso i suoi gusti personali, verso la
"voluntas propria", sull'esempio
di Cristo che venne non per fare la volonta` propria, ma quella del Padre (Giov.6,38). Il
fondamento dell'umilta` e del cammino di spogliamento di se` che il monaco intraprende, e`
la "kenosis" di Cristo (Filip.2,5-8). Cf.
Introduzione a RB.7).

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

7. OBBEDIENZA

Questo cammino di umilta` ha una delle sue modalita` privilegiate nell'obbedienza a


persone concrete; ben tre gradini di umilta` (il
2^, 3^ e 4^: RB.7,31-43) parlano
dell'obbedienza. Per il monaco, questo e` un fattore fondamentale, perche` lo assimila a
Cristo, la
cui vita e` stata un'obbedienza totale alla volonta` del Pdre: l'esempio di
Cristo e l'amore di Cristo (RB.2,2): quindi obbedire come
Cristo (RB.5,13) e obbedire
come a Cristo (RB.5,6.15). SB parla tante volte e in tanti modi dell'obbedienza,
soprattutto nel Prologo
e nei primi tre capitoli; ma poi continuamente, qua e la` nella
Regola, senza nasconderne le difficolta`: la "fatica dell'obbedienza"
(Prol.2),
obbedienza tra asprezze e contrarieta` e addirittura ingiurie (RB.7,35), obbedienza anche
nelle cose impossibili (RB.68).
Verso la fine della Regola, appare ancora un altro
aspetto: l'obbedienza reciproca (RB.71; 72,6), perche` l'obbedienza e`
senz'altro un
"bene" (RB.71,1) e i monaci devono essere "convinti che attraverso questa
via dell'obbedienza essi andranno a Dio"
(RB.71,2).

Certo, oggi l'obbedienza - e` inutile nasconderselo - sta attraversando una certa


crisi, ed esiste nelle nuove generazioni
l'insofferenza per l'autorita` in genere (anche
se c'e` un recupero negli ultimi tempi). Tuttavia nella concezione monastica non
possiamo
prescindere da questo punto fondamentale. Possiamo notare di positivo la riscoperta oggi
della tradizionale figura del
padre spirituale, e quindi dell'accentuazione del
superiore come mediatore della Parola di Dio e della di Lui volonta`, e come
animatore spirituale della comunita` (cf. ultima parte dell'Excursus sull'abate,
articolo di L.SENA, in Inter Fratres 35 (1985) 20-25,
e commento a RB.5 e RB.68).

8. ASCESI

Sara` bene oggi richiamarci anche ai valori dell'ascesi concreta nei suoi aspetti piu`
tradizionali, quali il digiuno, la veglia, la fatica,
la poverta`, ecc. Sappiamo che SB
non ama i grandi atletismi ascetici, che anzi una delle sue caratteristiche e` la
moderazione, la
considerazione per i deboli, la famosa "discretio". Pero`
sappiamo anche quanto e` esigente per cio` che riguarda il distacco
personale del
monaco, il quale deve sradicare in se` il vizio della proprieta` (RB.33; 54; 55; il c.33
e` uno dei piu` duri di tutta la
Regola), mettere tutto in comune, evitare ogni forma di
autoaffermazione attraverso le cose, addirittura non deve essere attaccato
nemmeno al suo
lavoro e alle sue eventuali capacita` (RB.57).

D'altronde, nella piu` genuina tradizione monastica, il monaco e` caratterizzato da una


vita semplice, distaccata, povera. Anche
per noi va riscoperta l'importanza e il valore di
una vita austera, di una certa mortificazione fisica (ricordiamo ad esempio l'aspetto
ascetico del silenzio).

9. SEPARAZIONE DAL MONDO

Il monastero, nella primitiva tradizione, era considerato come un luogo chiuso,


rigidamente separato dal mondo; la cosiddetta
"fuga mundi" era la prima e
fondamentale condizione del monaco. Nella concezione di SB il monastero e` autosufficiente
proprio
per ridurre al minimo le uscite (RB.66,6-7); il monaco e` uno che si e` fatto
estraneo ai costumi del mondo (RB.4,20). Tuttavia,
anche per SB ci sono relazioni con
l'esterno, soprattutto attraverso l'esercizio dell'ospitalita` (RB.53); sono inoltre
contemplati
anche i viaggi (RB.51; 67).

Oggi abbiamo certamente una concezione diversa dei contatti con l'esterno e
l'inserimento del monastero nella comunita`
ecclesiale e civile e` un fatto positivo.

Tuttavia, una certa separazione, anche materiale, dal mondo, deve considerarsi come una
componente essenziale della
professione monastica. La fedelta` a un certo distacco, a una
certa separazione (ma la cosiddetta "fuga mundi" deve essere
rettamente intesa;
cf. commento a RB.66), a una vita piu` nascosta in Dio secondo l'affermazione escatologica
di S.Paolo
(Col.3,3-4), puo` essere la forma principale di testimonianza dei monaci oggi:
"Si`, ancor oggi la Chiesa e il mondo, per differenti
ma convergenti ragioni, hanno
bisogno che SB esca dalla comunita` ecclesiale e sociale e si circondi del suo recinto di
solitudine
e di silenzio, e di li` ci faccia ascoltare l'incantevole accento della sua
pacata ed assorta preghiera" (Paolo VI a Montecassino, 24
Ottobre 1964).

10. LAVORO

SB accentua molto il valore e l'importanza del lavoro, facendone uno dei punti
principali della sua concezione monastica (e la
tradizione ne ha ben colto il senso,
coniando il motto "ORA ET LABORA"). Il monaco deve sentirsi soggetto alla comune
legge del
lavoro, e vi si dedica sia per fuggire l'oziosita` (RB.48,1), sia come forma
di poverta` (RB.48,7-8), sia come servizio scambievole
nella carita` (RB.35,6).
SB vuole che il lavoro si faccia con umilta` e distacco (RB.57), ma anche con impegno e
competenza
(RB.31; 32; 53,22, ecc.), e sempre nella serenita`, nella liberta`
(RB.31,17.19; 35,12-13; 48,9-24; 53,18-20). Naturalmente, il
lavoro va armonizzato con le
altre componenti della giornata monastica: preghiera e lectio divina (RB.48; cf. commento
a RB.48

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

ed Excursus sul lavoro).

11. COMUNIONE FRATERNA

SB accentua fortemente l'aspetto comunitario della vita monastica, soprattutto sotto


l'influsso di S.Agostino, il "Dottore della
carita`", in modo che la comunita`
cenobitica appaia come erede della prima comunita` di Gerusalemme, che era "un cuore
solo e
un'anima sola" (Atti 4,32). Relazioni "verticali" (ascolto,
Opus Dei, obbedienza all'abate...) e relazioni "orizzontali" si
incontrano e si
armonizzano in SB in un equilibrio ammirevole e forse insuperabile. Tante
volte ricorre nella Regola l'espressione "a vicenda"
<"sibi
invicem"> e "nella carita`" <"sub caritate">: i fratelli
si servano a vicenda nella carita` (RB.35,1-6; 36,4-5; 38,6); siano pronti
a prestarsi
aiuto vicendevole nei vari lavori in cui sono impegnati (RB.31,17; 35,3; 53,18-20; 66,5);
in via ordinaria si esortino a
vicenda (RB.22,8); si sopportino vicendevolmente
(RB.4,22-30; 72,5); si perdonino e si riconcilino prima del tramonto del sole
(RB.4,73;
13,12-13); si onorino l'un l'altro (RB.4,70-71; 63,17; 72,3) e si obbediscano a vicenda
(RB.71; 72,6). Sappiamo che la
"magna charta delle relazioni interpersonali e` il
mirabile c.72, in cui e` inculcato l'amore vero tra i fratelli (v.8) con tante
manifestazioni (cf. commento); il capitolo ci da` anche la chiave per leggere tutta la RB:
il cammino del monaco cenobita passa
necessariamente attraverso la carita` fraterna;
la vita comunitaria e` il modo principale di esercitare il rinnegamento di se`; ci sono
tanti aspetti duri e dolorosi, ma attraverso di essi e` possibile una crescita e un
arricchimento di vita. Ed e` dalla capacita` di
accoglienza reciproca e di perdono
reciproco che si misura la "maturita`" di una comunita` monastica. Cf. L.SENA, Fondamenti
e
prospettive..., in: "Inter Fratres" 1983/II, pp.198-221.

12. LA PAX BENEDICTINA

SB ha una visione serena dell'uomo; con la sua discrezione (II.Dial.36; RB.64,19)


considera la personalita` e la debolezza della
natura umana. Egli va diritto alle
disposizioni interiori, in cui e` molto esigente: in fatto di obbedienza, di distacco, di
preghiera,
ecc., vuole un impegno totale, senza incrinature, e lancia ai suoi figli verso
mete sempre piu` alte (RB.73); ma, uomo pratico
secondo Gesu` Cristo, mitiga in genere le
osservanze esterne, vuole che la sua Regola sia accessibile a tutti, ed ha come criterio
"che i forti desiderino fare di piu`, e i deboli non si scoraggino" (RB.64,19).
A questo scopo l'abate "deve adattare il suo servizio
all'indole di ciascuno"
(RB.2,31).

Tutta questa larghezza, realismo e grande umanita` di SB contribuisce a far si` che il
monaco, pur impegnato seriamente,
conduca la sua ricerca di Dio nella serenita`, nella
pace; in coloro che hanno volontariamente scelto Cristo nella vita monastica,
non ci deve
essere posto per l'acidita`, la scontentezza, l'insoddisfazione. "Ecco, lavora e non
ti rattristare" disse SB al goto
(II.Dial.6); e tutto deve essere organizzato in modo
tale che nella casa di Dio nessuno si turbi e si rattristi (RB.31,19). E` questo il
senso della "Paz Benedictina", che deve essere abituale atmosfera nei nostri
monasteri.

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Altri aspetti ancora potevano essere messi in risalto nella RB, ad esempio quello
dell'ospitalita`, dello spirito di fede, della
stabilita`, dell'equilibrio, della
discrezione, ecc. Sono stati qui puntualizzati soprattutto i valori fondamentali per la
vita del monaco;
egli, impegnato nel cammino di ritorno verso Dio (Prol.2), e` convinto
dell'amore di Dio che lo ha scelto (Prol.14); e` convinto
anche della propria umanita` e
fragilita` e quindi di essere sempre bisognoso di conversione. Ma in questo cammino e`
aiutato
dalla comunita` dei fratelli, ed e` spinto dall'amore di Cristo, a cui nulla
assolutamente anteporre (RB.72,11) e da cui spera che ci
conduca tutti insieme alla
vita eterna (RB.72,12). AMEN

EXCURSUS sul LAVORO MONASTICO


(Appendice al c.48 di RB)

SOMMARIO: Introduzione - I: Il lavoro nel monachesimo primitivo - II. Il lavoro


nella RB - III. Evoluzione nel corso dei secoli - IV. Il
lavoro nella Congregazione
Silvestrina - V. Problemi attuali - Conclusione.

INTRODUZIONE

Il problema del lavoro non e` stato mai risolto facilmente e definitivamente nel
monachesimo, per la bipolarita` che esso presenta
in se stesso e per la complessita` degli
aspetti che contiene. Da una parte, le piu` grandi autorita` spirituali hanno sempre visto
nel
lavoro serio e faticoso un elemento di perfezione spirituale, basandosi su molti testi
biblici; d'altra parte, l'idea di una vita spirituale
espressa in termini di vita
contemplativa con l'assenza di ogni interesse e di ogni preoccupazione materiale, ha
spinto altri a
ridurre al minimo il tempo dedicato al lavoro e a combattere i motivi che
spingono l'uomo a lavorare, richiamandosi ad altrettanti
testi biblici.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

D'altronde, una vera teologia del lavoro e` qualcosa di molto recente; certo non possiamo trovarla in epoca patristica; la
valorizzazione positiva del lavoro e` una "scoperta" (possiamo dire, ma parlando con riserva) della societa` industriale, in cui il
lavoro si e` potuto considerare sotto l'aspetto di creativita`, piu` che come necessita` di sussistenza o come una maledizione.
Tracciare una evoluzione della tradizione del lavoro con le sue modalita` e le sue motivazioni, non e` possibile. Tuttavia, per
approfondire un po` il complesso argomento, vediamo il lavoro dalla
tradizione monastica antica a SB, e poi nel corso dei secoli,
per illuminare i problemi
attuali del lavoro monastico.

I. IL LAVORO NEL MONACHESIMO PRIMITIVO

Il monachesimo primitivo scopri` subito il valore spirituale del lavoro. Per gli
antichi monaci si trattava solo di lavoro manuale, non
esisteva altra forma di lavoro
propriamente detto; erano esclusi positivamente sia il lavoro intellettuale, perche` la
maggioranza dei
monaci erano incolti, sia il lavoro apostolico o ministeriale, perche`
quasi tutti i monaci erano laici e perche` tale attivita` diventava
incompatibile con la
solitudine e la contemplazione. Quindi, lavoro significava per i monaci solo lavoro
manuale, ed esso, grazie ai
solitari e ai cenobiti, divento` un valore positivo.
Per l'antichita` pagana il fatto di lavorare non fu mai un fatto positivo, era ritenuto
una punizione degli dei e compito esclusivo degli schiavi; spiriti elevati come Cicerone
consideravano disonorevole il lavoro
retribuito e interessato. Perfino tra i cristiani, il
lavoro manuale distingueva i monaci dagli uomini liberi del tempo. Cassiano dice:
"Gli uomini liberi fanno ricorso alla fatica altrui, mentre i monaci vivono secondo
il precetto dell'Apostolo, lavorando con le proprie
man i" (Coll.24,12).

Nel monachesimo antico, quindi, il lavoro e` legato al fatto della poverta`: i


monaci, come i piu` poveri, gli ultimi della societa`, gli
schiavi, vivono del lavoro
delle proprie mani. Schematicamente, possiamo presentare cosi` le motivazioni del lavoro
nel
monachesimo primitivo:

- il lavoro e` un elemento essenziale della vita monastica;

- ha lo scopo di:

* provvedere al proprio sostentamento

* fare l'elemosina ai poveri

* evitare il "tedio" (la famosa 'acedia' o 'accidia')

* mantenere il corpo in soggezione.

Il lavoro manuale e` quindi caratteristico della vita monastica, specialmente in


Egitto: abbiamo un'eneorme quantita` di
testimonianze nel "Detti" dei Padri. Si
diffuse come norma di vita l'esempio di Antonio il Grande, padre di tutte le forme
di
monachesimo. Nella celebre Vita scritta da Atanasio, si dice che si ritiro` nella
solitudine "per arrivare alla perfezione della vita
ascetica e lavorare con le sue
mani, perche` aveva sentito dire: chi non lavora non mangi (2Tess.3,10). Una parte di
quello che
guadagnava lo spendeva per comprare il pane, il resto per soccorrere i
poveri" (Vita, c.3). Negli Apophtegmata si racconta che
egli imparo` da
un angelo che la vita di un monaco e` una successione di preghiera e lavoro. Un giorno,
preso dall'accidia,
supplicava il Signore di mostrargli la via della perfezione. Vede
allora un altro Antonio che sta seduto e lavora, poi interrompe il
lavoro, si alza in
piedi e prega. Era un angelo del Signore mandato per correggere Antonio e dargli forza. E
udi` l'angelo che
diceva: "Fa` cosi` e sarai salvo" (Detti, Antonio
VII,1).

Dall'esempio e dall'insegnamento - trasmesso, questo, da Cassiano (Coll.24,12) - del


grande maestro, presero lo spunto tutti gli
altri monaci e le Regole monastiche. Gli anacoreti
copti solevano dedicare tutto il giorno e parte della notte alla confezione di
ceste,
corde e stuoie, mentre recitavano o meditavano la Parola di Dio e facevano frequenti
orazioni; molti aiutavano i contadini
nella raccolta delle messi, facendosi dare come
compenso una certa quantita` di grano che bastava loro per tutto l'anno. (avevano
bisogno
di poco). I monaci di Pacomio erano dei grandi lavoratori: coltivavano i campi,
esercitavano dei mestieri; tutti, compresi i
superiori, dovevano guadagnare il pane per
se` e per i poveri. Anzi, dobbiamo dire che i Pacomiani rischiavano di peccare per
eccesso
di lavoro.

S.Basilio e` il piu` insistente e profondo legislatore a proposito del lavoro;


ritiene piu` adatti alla vita monastica il lavoro di tessitore,
di fabbro e altri, senza
nascondere la sua preferenza per l'agricoltura che, oltre a garantire la permanenza nei
recinti del
monastero, copre le necessita` della comunita` monastica e dei poveri. Ma
oltre a Basilio, tanti altri Padri e scrittori monastici
trattano l'argomento: S.Giovanni
Crisostomo, Cassiano, S.Girolamo, S.Agostino, ecc.. Negli Apoftegmi si hanno
numerosi accenni
al lavoro spesso in forma di fatterelli o aneddoti. Si parte dalla
convinzione che il lavoro e` una legge della condizione umana: il
monaco, uomo come gli
altri, deve lavorare: sarebbe una incongruenza farsi mantenere dai secolari (espressamente
lo nota
Teodorito di Cipro, Storia religiosa, 10). Ma le argomentazioni piu` forti
erano prese dalla Scrittura. Si citava con preferenza il detto
di S.Paolo: "Chi
non lavora non mangi (2Tess.3,10) e ancora: "Chi e` avvezzo a rubare non rubi
piu`, anzi si dia da fare lavorando
onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi
si trova nella necessita`" (Efes.4,28). L'esempio poi di Paolo che lavorava
con le
sue mani (Atti 18,3) e se ne gloriava (Atti 20,34; 1Cor.4,12; 2Tess.3,7-5), era ricordato
continuamente e veniva applicato
agli Apostoli in generale (come fara` poi S.Benedetto in
RB.48,8).

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Non mancano pero` tendenze contrarie (soprattutto in Siria e in Medio Oriente) che
ritengono il lavoro manuale come indegno
dell'uomo spirituale e incompatibile con la vita
monastica; vivere della provvidenza, cioe` di elemosine, appare segno di
perfezione. E
naturalmente anche questi monaci conoscevano altrettanto bene la Scrittura e si
appoggiavano ad altri testi: "Non
affannatevi per la vostra vita, di quello che
mangerete o berrete..." (Mt.6,25-34); "Procuratevi non il cibo che perisce, ma
quello
che dura per la vita eterna" (Giov.6,27); "Maria ha scelto la parte
migliore" (Lc. 10,42); "Pregate senza interruzione" (1Tess.5,17).
Bisogna
dire, ad onor del vero, che questi monaci, riducendo al minimo le loro necessita`, sentono
appena il bisogno di lavorare;
spesso il lavoro per loro e` solo una pura occupazione
(fare e disfare i canestri, tanto per tenere occupate le mani); spesso il
lavoro appare
per se` privo di importanza, fatto solo per obbedienza, senza interesse alcuno per la
qualita` dell'opera prodotta. Le
diverse tendenze si possono vedere analizzando i
"Detti" e le "Collazioni" di Cassiano; appare, ad esempio, che la
tradizione che
fa capo a Poemen sia contraria al lavoro dei campi perche` svolto all'aria
aperta, il che fa distrarre!.

L'ala piu` estrema delle correnti angelistiche e` rappresentata dai Messaliani,


i quali insistono anche sull'obbligo dei fedeli di
soccorrere i bisogni dei solitari e dei
monaci che si dedicano unicamente a pregare notte e giorno per il mondo e per gli uomini.
Contro di essi Agostino scrisse il famoso "De opere monachorum <Il
lavoro dei monaci>, confutando con ironia e humour le
conseguenze dei loro principi, e
ribadendo che sacerdoti e chierici hanno diritto a vivere del Vangelo, ma non i monaci che
devono lavorare (cf.1,2; 21,24). S.Basilio ha meglio armonizzato , in maniera
magistrale, i testi del NT citati in contrapposizione
dalle correnti opposte; il nocciolo
della sua argomentazione e` questo: 'dobbiamo non affannarci, non preoccuparci del cibo
che
perisce, ma di quello spirituale che e` fare la volonta` del Padre (Giov.4,34); ma la
volonta` del Padre e` soccorrere i deboli e i
bisognosi; dobbiamo dunque lavorare, non per
noi, ma per i poveri in cui riconosciamo Cristo' (ma si veda tutto il testo, che e`
molto
bello: Regola,127).

In conclusione, il monachesimo antico insegno` e pratico` la legge del lavoro,


fondandola soprattutto sui testi della Scrittura; ma
noto` subito anche il pericolo che il
lavoro comporta, se non e` inserito nella giusta gerarchia dei valori monastici: deve
essere
subordinato alla preghiera, in modo da trovare l'equilibrio tra lavoro e
preghiera con la preminenza per l'uomo interiore; deve
essere visto in rapporto
all'obbedienza e alla carita` (altrimenti il rischio dell'attaccamento,
dell'eccessiva preoccupazione, del
guadagno che si accumula, ecc.).Fin dalle origini,
praticamente, il monachesimo ha dovuto guardarsi dai due eccessi:

- troppo lavoro, e quindi grande attivita`, dissipazione, ricchezza...;

- poco lavoro, e quindi vita di rendita, oziosita`...

Questo puo` dire qualcosa al monachesimo di tutti i tempi.

II. IL LAVORO NELLA REGOLA DI S.BENEDETTO

Quando S.Benedetto scriveva la Regola, la situazione del lavoro dei monaci era cambiata
rispetto al monachesimo primitivo. Non
risulta che i primi monaci in Occidente, quelli di Martino,
lavorassero; della sua comunita` si dice che "non si esercitava alcun
mestiere se non
quello di scrivano, a cui inoltre venivano adibiti in piu` giovani; gli anziani si
dedicavano all'orazione" (Vita Martini,
X.6). Cassiano si lamenta che i
monaci in Occidente non lavorino molto (Inst.10,23). Pare che all'origine del
monachesimo latino
ci siano delle tendenze affini al messalianismo. Tutte le Regole
monastiche occidentali sembrano supporre che il lavoro costituiva
- se non altro - un
problema per i monaci; difatti polemizzano contro l'ozio (si noti come S.Benedetto
ha la fobia della "otiositas",
tre volte nello stesso RB.48,1. 23. 24). Gli
ostacoli sembrano essere stati una certa sicurezza economica, stanchezza prodotta
dall'osservanza, specialmente del digiuno, inabilita` risultante da debolezza corporale o
da cattive condizioni di salute. Queste
ultime, S.Agostino le metteva in relazione
con l'estrazione sociale dei monaci: gli ex-ricchi erano incapaci di dedicarsi al lavoro
manuale, e quindi ne erano dispensati, ma dovevano comunque fare qualcosa.

L'incapacita` di lavorare per motivi di salute e` presa generalmente in considerazione


in tutte le Regole (cosi` S.Benedetto molte
volte). La RB e` in linea con la situazione di
allora riguardo al lavoro, ma nello stesso tempo sembra dare una svolta. Al suo tempo
i
monaci non avevano generalmente necessita` stretta di lavorare per sostentarsi:
possedevano un'azienda, dei campi avuti al
momento della fondazione del monastero o in
seguito da altri benefattori, e la cui coltivazione affidavano a dei contadini secolari,
vivevano con tali entrate. Questo non vuol dire che non facevano lavoro manuale, ma non
erano lavori redditizi: si limitavano cioe`
ai lavori di casa, esercitavano qualche
"arte", coltivavano l'orto; spesso si trattava solo di tenersi occupati, proprio
perche` "l'ozio
e` nemico dell'anima" (motivazione negativa). La Regula
Magistri (=RM) e` illuminante a questo proposito: vuole il lavoro manuale,
sembra per
evitare l'ozio (RM.50,1-2), ma non quello dei campi assolutamente, per paura che poi si
debba dispensare dalla legge
del digiuno; i possedimenti del monastero devono essere
affidati ai secolari: "e` meglio conservarli lasciando la preoccupazione ad
altri e
percepire con sicurezza le rendite annuali, senza pensare ad altro che all'anima. Difatti,
se facessimo coltivare i campi ai
fratelli spirituali imponendo loro lavori pesanti, essi
perderebbero l'abitudine di digiunare...; percio` come lavoro del monastero ci
sia solo
qualche mestiere e l'orto" (RM.86,24-27). Anzi, per il Maestro, anche l'orto e` un
compito ingrato da lasciare a quei fratelli
che non hanno potuto o voluto imparare un
mestiere (RM.50,72). Tutto il c.86 merita di essere analizzato; rivela la mentalita`
monastica dell'epoca: affidare ai secolari la coltivazione dei campi, occuparsi di lavori
manuali si`, ma meno pesanti, in modo da
non dover lasciare, come buoni monaci, la regola
dei digiuni e pensare solo alla propria anima.

S.Benedetto risente certamente di questa linea e di questa mentalita`. Il lavoro


manuale da lui considerato (prescindendo per ora
dai campi), non e` certo sufficiente per
il sostentamento dei monaci: l'orto poteva bastare a procurare gli ortaggi per la mensa

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

comune; in quanto ai mestieri, il c.57 ne parla sempre con molte condizioni e con
distacco: "se per caso ci sono degli artigiani...,
se l'abate lo permette..., se c'e`
da vendere qualche prodotto del lavoro degli artigiani..., si venda a prezzo minore di
quanto lo
vendono i secolari": e` evidente che i monaci non vivevano degli eventuali
prodotti dei vari mestieri.

Quindi la RB, da una parte, si trova nella linea del monachesimo del suo tempo;
dall'altra, notiamo una certa svolta. E partiamo
proprio dalla paura di non poter piu`
digiunare, qualora si facessero lavori pesanti, cosa che preoccupa tanto la RM. E' proprio
qui
che S.Benedetto cambia. Nei capitoli sulla misura del mangiare (RB.39) e del bere
(RB.40) e sull'orario dei pasti (RB.41),
S.Benedetto parla di concessioni, di eccezioni
alla regola generale; di questi eventuali supplementi alla quantita` del vitto ne parla
anche la RM, ma mentre qui la motivazione e` un senso di gioia, di festa o la venuta di
ospiti, per S.Benedetto l'unica motivazione
e` il caso di lavoro eccessivo o piu`
faticoso. Vale la pena rileggere i testi. A proposito del cibo si ha: "Se per caso si
fosse
compiuto un lavoro piu` gravoso del solito, l'abate avra` piena facolta`, se gli
sembrera` opportuno, di aggiungere ancora qualche
cosa" (RB.39,6; vedi invece
RM.26,11-12); a proposito del bere: "Se poi la condizione del luogo o il lavoro
speciale o il calore
dell'estate richiedesse un supplemento, il superiore abbia la
facolta` di darlo (RB.40,5); vedi invece RM.27,43-45); per i digiuni:
"Da Pentecoste
e per tutta l'estate, se i monaci non hanno forti lavori campestri e l'eccessivo calore
non lo impedisce, il mercoledi`
e il venerdi` digiunino fino a nona; negli altri giorni
pranzino a sesta. Ma se avranno lavori nei campi o se il caldo dell'estate sara`
soverchio, anche i quei due giorni il pranzo sara` a sesta..." (RB.41,2-4; invece,
per il Maestro, il digiuno si puo` rompere in
qualche caso per gli ospiti: RM.72,1-7;
S.Benedetto, per gli ospiti, dispensa dal digiuno solo l'abate, che mangia con lo, i
fratelli
no! RB.53,10-11). Quindi per S.Benedetto si puo` dare il caso che i monaci
facciano lavori pesanti e i lavori dei campi.

E arriviamo al famoso passo del c.48 che ci illumina al riguardo. Intanto, tutto il
c.48 ha un'impostazione diversa dalla RM; in
questa l'orario e` visto alla luce
dell'Ufficio divino; in RB l'orario ha uno scopo piu` pratico: ripartire bene lavoro e
lectio divina.
S.Benedetto considera piuttosto il ritmo della vita umana con l'alternarsi
di riposo e di sforzo, di lavoro spirituale e di lavoro
manuale; RB si preoccupa molto che
i monaci lavorino. Orben, a un certo punto del c.48, abbiamo una parentesi di singolare
importanza: "Se poi - in latino "si") le condizioni del luogo
o la poverta` richiedessero che gli stessi monaci si occupino nel
raccogliere le messi,
non ne siano malcontenti, perche` allora sono veri monaci quando (in latino "si")
vivono del lavoro delle loro
mani, come i nostri Padri e gli Apostoli"(RB.48,7-8).

I monaci del suo tempo non erano abituati al duro lavoro dei campi. Pero` le
circostanze (pensiamo alla guerra che c'era allora tra
Goti e Bizantini, quindi alla
mancanza di mano d'opera o alla impossibilita` di pagarla, pensiamo alla poverta del
monastero)
potevano costringere i monaci a fare da se stessi tali lavori, il che causava
un certo malcontento. Ebbene, S.Benedetto li consola
riportandoli a una motivazione
soprannaturale: "allora sono veramente monaci, quando...". Notiamo la
struttura grammaticale della
frase: il primo "si" <se = quando) regge
un verbo al condizionale, indica quindi una semplice eventualita`: "Se le circostanze
lo
richiedessero"; il secondo "si" <se = quando> regge un verbo all'indicativo e non indica una eventualita`, ma un principio generale.
Il testo e` stato analizzato alla perfezione da Olivier du Roy: "La prima condizione e` chiaramente accidentale, locale; la seconda
e` di ordine essenziale, ideale. La prima riguarda il "lavoro agricolo", la seconda riguarda "il lavoro" (manuale) per vivere
(...).Partendo da alcune circostanze particolari, S.Benedetto ha l'occasione di inculcare un principio fondamentale della vita
cristiana e, a fortiori,
della vita monastica: vive del proprio lavoro manuale" (O.DuROY, Moines
aujourd'hui. Une experience de
reforme institutionnelle, Paris 1972, p.271).

Malgrado le reticenze degli ambienti monastici italiani del suo tempo (testimoniato
dalla RM), S.Benedetto si vede costretto dalle
circostanze a introdurre il lavoro
agricolo (ecco perche` nella Regola parla piu` volte di lavori pesanti, per cui
ammette supplementi
alimentari); riscopre cosi` nel suo tempo la grande legge del
monachesimo primitivo: mantenersi con il proprio lavoro manuale
("Se la necessita`
(...), allora sono veri monaci, quando..." RB.48,7-8). Si e` notato che
l'argomento addotto da S.Benedetto
convince solo a meta`, perche` il richiamo a "come
i nostri Padri e gli Apostoli" non prova nulla a favore del lavoro dei campi, ma
solo
l'obbligo del lavoro manuale in generale. La tradizione monastica fondata sull'esempio di
Paolo prova solo questo, tant'e`
vero che la RM, espressamente contraria al lavoro
agricolo, non manca di riferirsi ugualmente ai testi paolini. Ma l'obiezione non
regge.
S.Benedetto vuole provare tanto la necessita` di lavorare nei campi (che puo` dipendere
dalle circostanze), quanto
piuttosto di guadagnarsi la vita con il proprio lavoro. Se e`
vero che S.Paolo non era agricoltore, ma tessitore di lana, se e` vero
che i monaci
antichi non lavoravano necessariamente nei campi - anzi alcuni, come si e` detto, erano
contrari perche` ritenevano
che dissipasse lo spirito - e` altrettanto vero che sia
l'Apostolo che i primi monaci lavoravano per attendere alle proprie necessita`
e,
possibilmente, a quelle degli altri, ospiti e poveri.

Questo e` il punto, questo e` l'ideale antico che riscopre e ripropone S.Benedetto: non
solo occuparsi nei lavori piu` o meno utili,
perche` "l'oziosita` e` nemica
dell'anima" (RB.48,1, motivazione negativa), ma vivere veramente del proprio lavoro
come i Padri e
gli Apostoli (motivazione positiva).Ora, vivere del proprio lavoro nelle
circostanze concrete di allora (poverta`, guerre...) equivaleva
in pratica ad accettare il
lavoro agricolo con quanto esso comportava di pesante. Di fatto, i monasteri si reggevano,
grazie ai
terreni che possedevano, gli altri introiti non potevano bastare alle varie
necessita`. Se dunque si affidava la coltivazione dei
campi ai secolari, come vuole la RM,
i monaci vivevano di rendita; se invece li coltivavano personalmente, allora - e solo
allora -
praticavano la legge apostolica e monastica di vivere del proprio lavoro.
Inquadrando la famosa frase di RN.48,7-8 nel contesto
storico di allora, l'argomentazione
di S.Benedetto risulta molto profonda e pienamente convincente. E` la piu` bella
dimostrazione:
e conferma ci puo` venire da Gregorio Magno quando ci presenta il santo
Patriarca nel momento di ritornare dai campi con gli
strumenti di lavoro sulle spalle
(II.Dial.32).

A questo punto possiamo chiederci se c'e` una spiritualita` del lavoro in


S.Benedetto. Posta in maniera cosi` precisa e specifica, la
domanda e` anacronistica; il
lavoro va inquadrato in tutta la spiritualita` monastica: per S.Benedetto non ci sono
"azioni profane",
ma nella "casa di Dio" (RB.31,19; 53,22; 64,5),
tutto acquista il valore di un'azione sacra, perche` il monaco ha consacrato a Dio

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

non
solo tutto cio` che ha, ma anche tutto cio` che e` (RB.33,4). S.Benedetto
raccomanda addirittura che gli oggetti del monastero
siano trattati "come vasi sacri
dell'altare" (RB.31,10).

Considerando il c.48 sul lavoro quotidiano, il c.57 sugli artigiani, il c.66


sull'organizzazione del monastero (a proposito del
portinaio), possiamo ricavare dalla
Regola tre orientamenti in merito al lavoro (riassumiamo dall'interessantissimo
articolo di
J.LECLERCQ, Economia monastica occidentale in "Dizionario degli
Istituto di Perfezione (1976) 1021-1022):

- (a) - Bisogna lavorare. S.Benedetto fa del lavoro quotidiano uno dei punti
principali della sua concezione monastica, ne fissa
l'orario, ne indica il senso, ne
determina il valore. Certi asceti del deserto si sarebbero certo meravigliati nel vedere
attribuiti al
lavoro piu` ore che all'Ufficio divino, e nel notare che quest'ultimo sia
talora condizionato dalle occupazioni (cf.RB.48, passim). Ma
gia` si e` detto che anche il
lavoro acquista il carattere di azione sacra nella mente di S.Benedetto; il suo valore e`
in rapporto
all'ascesi e alla vita mistica: e` un rimedio all'ozio che e` nemico
dell'anima (RB.48,1), ma esige anche sforzo e fatica, ed e` quindi
per il monaco uno
strumento di perfezione, un mezzo per dominarsi; non si lavora soltanto per tenersi
occupati, ma per ascesi: si
tratta di un atto di obbedienza (cf.RB.48,11.14; RB.57). Il
carattere penoso del lavoro provoca la tendenza a non lavorare o a
lavorare il meno
possibile. Di fatto, al tramonto dell'Impero Romano, il lavoro si era ridotto a un obbligo
degli schiavi. Facendone
una legge per tutti i monaci, S.Benedetto ne mise in rilievo la
dignita`.

Pero` il lavoro monastico deve conciliarsi con un certo "ozio",


necessario per dedicarsi in pace alla preghiera e alla
contemplazione. Di qui l'insistenza
di S.Benedetto sulla tranquillita` che l'animo deve conservare, quindi sulla misura, sulla
considerazione delle persone (RB.31,17; 35,3-4; 48,9.24-25). "L'ozio monastico <otium
latino) quale e` caratterizzato dalla
tradizione, e` dunque qualcosa di intermedio tra
l'oziosita` <otiositas> e cio` che e` la negazione stessa dello 'otium',
cioe` il
'negotium', ossia il tumulto e il chiasso degli 'affari'".

- (b) - Inoltre il lavoro, secondo S.Benedetto, deve essere disinteressato, esso


e` a base di rinuncia. Cio` e` chiarissimo dal c.57
sugli artigiani: non solo notiamo la
continua insistenza sull'obbedienza e sull'umilta`, ma S.Benedetto inculca che il monaco
deve
essere distaccato dall'opera e dal suo risultato. Il risultato ha un suo valore, ma
non e` determinante; non si misura da rendimento
e dall'arricchimento (si viveva poi cosi`
di poco nell'Italia meridionale al tempo di S.Benedetto!). S.Benedetto prescrive che si
vendano a minor prezzo gli eventuali prodotti, non per fare concorrenza ai laici (il che
sarebbe sleale soprattutto oggi), ma per
mettere in risalto che il lavoro non si considera
come un mezzo per far soldi.

- (c) - Infine, secondo S.Benedetto, il lavoro monastico tende alla "autarchia",


cioe` all'autosufficienza: e` evidente dal c.66,6-7.
L'attivita` monastica e` condizionata
dalla clausura e dalla stabilita`. Questo fatto, da una parte limita le attivita`,
dall'altra e` causa
di fecondita` e comporto` grandi vantaggi, anche sociali. Ad esempio,
un monastero nel medioevo diventava quasi sempre la
cellula madre di un insediamento
umano, che a poco a poco dava origine a borgate e villaggi.

Se chiediamo alla storia come nel medioevo siano state messe in pratica le idee
contenute nella RB, abbiamo in risposta una
serie di paradossi: non si cercava il
rendimento, ma lo si otteneva; non si cercava di operare lontano dal monastero, ma lo si
faceva; non ci si voleva immischiare nel traffico e nel commercio, ma di fatto con il
ruotare di tanti "famuli", ospiti e poveri intorno
ai monasteri, si
organizzavano trasporti (quindi le vie di comunicazione), si organizzavano le fiere, che
erano insieme solennita`
religiose e occasioni di scambi economici. Certamente molte ombre
e molti errori (a volte cose che per noi oggi sarebbero di
grave scandalo), si trovano
nell'economia monastica. Ma dobbiamo sottolineare un elemento essenziale: all'origine e
nei risultati
di tale economia monastica, si trova un fatto religioso; alla base degli
stessi benefici materiali c'e` paradossalmente l'ispirazione
soprannaturale di distacco,
di lavoro fatto per obbedienza e per ascesi.

III. EVOLUZIONE NEL CORSO DEI SECOLI

Nella RB e nella tradizione monastica, il lavoro ha dunque un valore spirituale


che va sottolineato: da una parte si tratta di evitare
l'ozio con tutti i suoi
inconvenienti per l'anima; dall'altra, guadagnare di che vivere e anche soccorrere il
prossimo con l'elemosina
e l'ospitalita`. Oltre a queste due finalita` - ascetica e
caritativa - gli storici hanno attribuito con compiacenza agli antichi monaci
altre
finalita` sociali, culturali, civilizzatrici, che nella Regola, di per se`, non ci sono;
se essa ha effettivamente dato un contributo
alla civilizzazione europea, cio` si deve
alla sua immensa diffusione, che ha portato ovunque lo stile di vita dei monaci, con la
giornata ben divisa tra preghiera, lectio e lavoro.

Le circostanze storiche, l'evoluzione dei tempi, la stessa apertura prevista dalla


Regola con la considerazione per la persona
(lavoro piu` leggero per i piu` deboli, ecc.),
hanno portato i monaci ad abbracciare molti generi di attivita` che dobbiamo giudicare
per
se` pienamente legittime. Da quanto detto prima, non dobbiamo arrivare alla esagerazione
di ritenere essenziale ed esclusivo
per i monaci il lavoro manuale, sarebbe un forzare il
testo della Regola di S.Benedetto. E difatti, la storia ci mostra una gamma
vastissima di
lavoro monastico. E` impossibile tracciare anche soltanto rapidamente una linea della
evoluzione del lavoro
monastico lungo i secoli (cf. voce "lavoro" sul Dizionario
degli Istituti di Perfezione e, per il lavoro nelle diverse tradizioni
monastiche,
articoli vari su "Yermo" 13 (1975). Teologo del lavoro puo` essere considerato
per il medioevo, il cistercense Isacco
della Stella, che ne parla in diversi
sermoni (cf. studio su di lui di J.Leclercq, citato nella Bibliogafia).

Ma tutto questo non e` avvenuto senza difficolta`, controversie, polemiche; la


storia cioe` ci dimostra come il problema del lavoro
dei monaci rimane nella sua
sostanziale ambiguita`: quale lavoro? come conciliarlo con le esigenze della
clausura, della stabilita`,
delle osservanze monastiche? come evitare gli eccessi da una
parte e dall'altra?

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Nella prospettiva cluniacense, ad esempio, si altero` l'equilibrio tra preghiera


e lavoro; si tolse a quest'ultimo il suo valore
santificante, per l'idea che la vita del
monaco e` quasi esclusivamente consacrata all'Ufficio divino. Cosi` di fatto avveniva a
Cluny:
il lavoro manuale era ridotto a qualche piccola attivita` interna; Pietro il
Venerabile dice espressamente che i monaci hanno altro
da fare che non la coltivazione
della terra o il lavoro artigianale. Ormai il lavoro della terra era lasciato ai laici.

Uno degli elementi decisivi per l'evoluzione del lavoro monastico fu la clericalizzazione
della vita religiosa. Alle origini e nell'alto
medioevo, il monachesimo si presentava
chiaramente come una forma non clericale di consacrazione a Dio; man mano
aumentarono
nelle file dei monaci coloro che diventavano sacerdoti, soprattutto - a detta degli
storici - per lo sviluppo della liturgia
nei monasteri, che esigeva una preparazione
culturale, e quindi tempo e studio per l'apprendimento. Nel secolo XI assistiamo
alla
nascita della categoria dei "conversi" <=convertiti, cioe`
fattisi monaci tardi>, i quali, non avendo, ne` volendo, una preparazione
culturale,
erano meno adatti al servizio del coro; avevano percio` mansioni piu` modeste e si
accollavano il lavoro agricolo e
l'esercizio dei vari mestieri.

La riforma cisterciense pose al centro il problema del lavoro, per un ritorno a


una interpretazione piu` fedele della Regola:
ristabilire l'equilibrio tra preghiera e
lavoro, riabilitare il lavoro manuale (che era per loro esclusivamente quello agricolo).
Citeaux
e` l'ultimo rappresentante di un'economia puramente agricola, e cio` spiega
la partecipazione cisterciense al progresso economico
dell'Europa, anche se l'importanza
dei monaci "dissodatori" e` stata un po` esagerata. Con la istituzione dei
conversi, appare
presso i cisterciensi un nuovo tipo di coltura, la "grangia"
<letteralmente: luogo dove si conserva il grano, capannone), cioe`
un'azienda agricola
dipendente dal monastero e distante da esso, dove i monaci lavoravano senza dover tornare
ogni giorno
all'abbazia.

Rimane comunque l'ambiguita` del lavoro e la difficolta` di trovare l'equilibrio tra


lavoro e contemplazione, tra il mantenersi col
lavoro delle proprie mani e la proprieta`.
Tutto questo appare in maniera chiara nelle polemiche del secolo XII sulla vita
religiosa.
Certo, secondo la tradizione, il monastero benedettino ha il diritto di
possedere beni mobili e immobili; ma il successo della
Regola, le donazioni e le
fondazioni, avevano introdotto, insieme alla proprieta`, anche l'agiatezza, e talvolta
anche il lusso; i
monasteri avevano raggiunto un'opulenza straordinaria. Contro questa
eccessiva ricchezza insorsero le nuove tendenze
monastiche (S.Guglielmo di
Montevergine, S.Pier Damiano, S.Giovanni Gualberto, S.Silvestro Guzzolini...): questi
tentativi
desideravano testimoniare una poverta` non solo individuale, ma anche
collettiva, richiamandosi alle origini della vita monastica,
con il rinunciare alle
rendite, per puntare tutto sul lavoro manuale dei monaci stessi. Ci fu la polemica del secolo
XII, se i monaci
avessero o no diritto alle decime (cioe` ad essere mantenuti dai
fedeli).

Dobbiamo dire, qualunque sia la direzione delle varie tendenze, che anche i nuovi
movimenti - dopo un primo periodo di fervore
che rappresento` una bella testimonianza -
finirono per accettare decime e rendite varie ("spirituali") di ogni
tipo. Anche i
cisterciensi ben presto (gia` alla fine del secolo XII), abbandonarono il
lavoro manuale per vivere sempre piu` di redditi, con il
lavoro dei conversi e dei
salariati. Forse il motivo principale va ricercato nella impossibilita` di vivere con una
economia naturale
basata sul lavoro manuale, in un'epoca in cui l'economia monetaria stava
avendo un grande sviluppo. Inoltre,

l'ideale dei riformatori si spostava verso una forma di vita non piu` fuori del mondo,
ma a servizio del popolo cristiano e in varie
forme nel mondo (il monachesimo urbano); si
tendeva sempre piu` a unire l'ideale monastico e l'ideale clericale.

Aumento` quindi nei monasteri il lavoro intellettuale, i monaci divennero uomini


di cultura, fiorirono le scuole monastiche, di cui
c'era una tradizione gia`
dall'alto medioevo; moltissimi monasteri gestivano non solo una scuola interna ("schola
claustri") per
l'istruzione e la formazione dei futuri monaci, ma anche una
scuola esterna ("schola canonica" o "externa") separata
dalla prima.
Dobbiamo dire che le scuole monastiche portarono il maggior peso della
pubblica istruzione. L'amore dei libri e dello studio e`
stata una realta` dei monasteri
benedettini, tanto che si e` creato il tipo tradizionale del benedettino studioso, e si
era formata la
concezione che "monasterium sine armario quasi castrum sine
armamentario" <un monastero senza libri e` come un castello
senza armi>. E
a questa organizzazione del cenobio si deve la mole di opere prodotte da questo tipo di
lavoro monastico, dalle
opere di Beda, Alcuino, Paolo Diacono, S.Pier Damiano, S.Anselmo,
S.Bernardo, ecc., fino a quelle moderne dei Maurini
(Mabillon, ecc.) e a quelle attuali di
centri benedettini di cultura e di studio.

A questo proposito, come non ricordare l'apporto dei monaci nella trasmissione
materiale - diciamo cosi` - della cultura? Tra i
lavori proposti ai monaci fin
dai tempi piu` antichi si trova la trascrizione dei testi. Questa attivita` dei
monaci scrivani e` accennata
da RM.54,1; sembra supporla S.Benedetta (si deduce da alcuni
dettagli in RB.33,3; 55,19); e` riferita dalle monache di S.Cesario
di Arles; la nota per
inciso anche S.Gregorio Magno (Dial.1,4); assunse grande importanza soprattutto a Vivarium,
dove
Cassiodoro la raccomandava con insistenza. Lavoro, questo, che divenne man
mano passione e "sacro" more dei libri (anche qui
non senza polemiche), e che
diede vita ai famosi "scriptoria" medioevali, officine di milioni di
codici che hanno conservato e
trasmesso non solo il pensiero cristiano, ma anche le opere
del genio greco e romano. Tra le mansioni di ogni genere che hanno
svolto i monaci nel
corso dei secoli, poche lasciarono una traccia cosi` duratura come questa produzione
manoscritta che si puo`
collocare al limite tra lavoro manuale e lavoro intellettuale,
senza dimenticare il grande elemento dell'ascesi (pazienza, assiduita`,
meticolosita`) che
esso comportava.

IV. IL LAVORO NELLA CONGREGAZIONE SILVESTRINA

Una parola per la Congregazione Silvestrina (cf., per gli inizi, G.FATTORINI, La
spiritualita` nell'ordine di S.Benedetto di

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Montefano, pp.237-256; per il sec.XVII,


U.PAOLI, L'unione della Congregazione Vallombrosana e Silvestrina, pp.106-108).
Nelle
primitive Costituzioni della Congregazione, si parla del lavoro nella II
"Distinctio", ai cc.5-6-7. Per lavoro all'inizio si intende
soprattutto lavoro
manuale <opus manuum>. I primi monasteri silvestrini furono fondati da
S.Silvestro in luoghi piuttosto isolati, e
per la loro fondazione S.Silvestro accettava
donazioni e lasciti consistenti soprattutto in appezzamenti di terreno coltivabili o
boschivi, in modo che con una adeguata proprieta` terriera, i monaci avessero una certa
tranquillita` economica e potessero
salvaguardare la solitudine e la preminena del culto
divino. I campi venivano coltivati dai monaci stessi, eccetto "quelli ammalati e
occupati nelle diverse officine" (c.7). Anche tutte le altre occupazioni manuali
erano svolte dai monaci, e tutte dentro l'area del
monastero, essendo le proprieta`
adiacenti alla casa e non molto estese. Il lavoro in genere veniva svolto in silenzio, ma
e`
previsto che il superiore "per un po` di sollievo potra dare il permesso di
parlare di cose necessarfie e decenti, ma senza
schiamazzo" (c.7).

Nel lavoro agricolo era compreso lo sfruttamento dei boschi (i primi monasteri erano
"nelle selve" <in silvis> e delle colture
spontanee, come ad
esempio lo scotano (per la concia delle pelli). Ricordiamo a questo proposito l'apporto
dei primi silvestrini
all'industria cartaria di Fabriano, avendo essi installato
nei loro terreni delle "gualchiere' in proprio.

Dobbiamo pero` credere che il lavoro non fosse uguale per tutti i monaci. I conversi
certamente facevano i lavori piu` pesanti, e
forse potevano esercitare un'arte specifica
(ma non sappiamo con certezza quale; le Costituzioni parlano di diverse officine nel
monastero, ma cio` non e` una prova di per se` apodittica, potrebbero essere formule
stereotipate). L'attivita` artistica merita
comunque di essere ricordata; pensiamo al caso
di Fra Bevignate, ideatore della Fontana Maggiore di Perugia, del primo disegno
del
Duomo di Orvieto e di altre opere; egli nei suoi lavori era coadiuvato da altri
confratelli. Alcuni monaci ebbero incarichi delicati
dai Comuni, come quelli di economi,
sovrintendenti ai lavori pubblici, ecc.

I monaci corali, pero`, si dedicavano di piu` allo studio; anzi pare che il lavoro
intellettuale man mano acquisto` sempre piu`
importanza, come e` testimoniato dalle prime
Costituzioni (c.5 della V "Distinctio"), e in seguito da vari decreti dei
Capitoli Generali
(in cui non si accenna quasi piu` al lavoro manuale, ma allo studio e al
lavoro apostolico). Ci si teneva molto, nella
Congregazione, alla formazione
intellettuale dei monaci, e per questo non si badava a spese; nei decreti di un
capitolo generale
(del 1318?), si parla anche di istituire degli scriptoria in
determinati monasteri per la traduzione dei libri teologici (sono rimasti,
quale
testimonianza, alcuni codici nell'archivio di Montefano, contenenti opere teologiche e
filosofiche).

Nel corso dei secoli questa linea si e` mantenuta e ci sono stati nella Congregazione uomini
di cultura che acquistarono discreta
fama come eruditi e scrittori; molti monaci si
dedicarono all'insegnamento non solo nelle scuole interne del monastero per i
novizi
e per i professi, ma anche aprendo scuole pubbliche (all'inizio del sec.XVII presso
S.Benedetto di Fabriano e S.Benedetto di
Cingoli, cf. U.PAOLI, p.107, nota 63); altri
monaci insegnavano nei seminari.

Oltre il lavoro intellettuale e manuale, i monaci silvestrini si orientarono verso l'attivita`


apostolica, a partire dalla fine del sec.XVIII,
sotto l'influsso delle circostanze che
portarono tutti i monaci, in quel secolo, in tale prospettiva. I silvestrini si dedicarono
alla
predicazione molto presto, cominciando dallo stesso Fondatore; in quanto alla
cura d'anime sistematica e vincolante, non pare si
possa risalire a S.Silvestro, il quale
forse in questo fu molto cauto; una evoluzione lenta e ancora contenuta si registra sotto
il
B.Bartolo e poi con il Ven. Andrea; la prima parrocchia affidata ai monaci
silvestrini sembra essere stata quella di S.Maria Nuova
di Perugia (1296), poi S.Marco di
Firenze (1300). In seguito, il lavoro parrocchiale diventa normale; ad esempio, nel
sec.XVII, dei
quindici monasteri silvestrini esistenti, almeno la meta` avevano annessa la
parrocchia.

In tale evoluzione del lavoro dei Silvestrini (e di altri Benedettini), i lavori


manuali e piu` pesanti rimangono affidati ai conversi, i
quali si occupano della cucina,
della portineria, del lavoro dei campi, delle pulizie. Le Costituzioni del 1618 parlano,
si`, di lavoro
manuale per tutti, ma ammettono le eccezioni e in realta` i monaci
sacerdoti, compiuti gli studi, si dedicavano alla predicazione,
all'insegnamento nelle
scuole interne di filosofia e teologia e anche nelle scuole pubbliche, e alla cura d'anime
nelle parrocchie.
Nel secolo scorso (1845), fu intrapreso dalla Congregazione il lavoro
missionario nell'isola di Ceylon (ora Sri Lanka).In Italia, nel
secondo dopoguerra, fu
iniziata l'attivita` assistenziale dei collegi, attivita` che e` durata fino ai
nostri giorni.

Concludendo, la Congregazione Silvestrina, sorta nel sec.XII, prese, ritenendole


pienamente attuali, le direttive della Regola
benedettina riguardo al lavoro, soprattutto
sotto l'influsso di Citeaux, che ne aveva fatto un punto programmatico, nello sforzo di
ritornare alle fonti e per una pratica piu` coerente della poverta`. Pero`, proprio in
quel secolo, entravano nella prospettiva del
lavoro monastico anche altre occupazioni
(oltre a quelle manuali); una comunita` a carattere clericale deve rispondere ad
esigenze
che S.Benedetto non poteva prevedere del tutto; per i monaci del '200-'300, il lavoro
intellettuale, lo studio e l'apostolato
non erano voci indifferenti, ed essi furono
indotti dalle circostanze storiche e dagli orientamenti dei Pontefici ad un piu` esplicito
impegno ecclesiale.

Quindi, l'attivita` dei monaci silvestrini si sviluppo` su queste tre linee direttrici:
lavoro manuale - lavoro intellettuale - lavoro
apostolico. Certamente
all'inizio fu privilegiata la dimensione contemplativa e di vita ritirata; e sempre furono
messi in primo piano i
valori monastici della preghiera comune e delle meditazione, che
devono armonizzarsi con il lavoro. Ma questo e` un problema di
sempre, di allora e di
oggi, e che riguarda tutto il mondo monastico, e di cui trattiamo nel punto seguente.

V. PROBLEMI ATTUALI

Gia` si e` detto della complessita` del problema del lavoro per i monaci, gia`
all'inizio del monachesimo, e poi lungo i secoli. Lo

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

stesso vale per oggi, e forse in


maniera piu` accentuata. Nell'affrontare l'argomento, oggi va tenuto conto anzitutto della
mentalita`
diversa riguardo alla concezione del lavoro: non si tratta piu` soltanto
del lavoro come ascesi o esercizio di penitenza (cioe`
aspetto negativo del lavoro, ma
anche e soprattutto della sua valorizzazione positiva come creativita`. Una
spiritualita` del lavoro
secondo una mentalita` nuova l'abbiamo nella "Gaudium et
Spes" <GS> nn.33-39, ripresa da Giovanni Paolo II nella enciclica
Laborem
exercens del 1981, nn.24-27. Gli elementi essenziali di questa spiritualita` si
possono cosi` schematizzare:

- l'uomo con il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore e realizza se


stesso;

- il lavoro trova la sua piena spiegazione alla luce del mistero pasquale di
morte e risurrezione: quindi lavoro nella sua parte
negativa di sofferenza e fatica e
nella sua parte positiva di elevazione, partecipazione creativa, ecc.;

- Cristo e` l'uomo del lavoro, che sperimenta il lavoro e dal mondo del lavoro
prende immagini e linguaggio per il suo
insegnamento;

- il lavoro ha anche un'altra dimensione: e` un esercizio della carita`; ogni


lavoro fatto con rettitudine di intenzione, con serieta` e
responsabilita`, va a beneficio
del prossimo;

- il cristiano sa che il suo lavoro serve non solo al progresso terreno, ma anche allo sviluppo
del Regno di Dio (GS.39; LE.27).

A questa visuale del lavoro aggiungiamo ancora il superamento - almeno in teoria


- del dualismo tra lavoro manuale e ogni altro
genere di lavoro. Di fatto, per gli
antichi, solo il lavoro manuale era considerato lavoro ed era retribuito (lo studio, la
cultura, l'arte,
appartenevano piuttosto alla categoria degli "otia", a cui si
dedicavano gli uomini "liberi"). Oggi, per lavoro, si intende qualsiasi
attivita` dell'uomo (cf.LE.5-7, passim) o manuale o intellettuale o nel settore dei
servizi o nella ricerca scientifica, pura e applicata.

Tutto questo e` importante per inquadrare il lavoro monastico oggi. Tentiamo ora
qualche riflessione, anche sotto forma di
questione o di difficolta`.

1. - Il monaco non e` un uomo astorico, e` un uomo del suo tempo, e come tale
deve agire. Ebbene, oggi c'e` una nuova
coscienza del lavoro e dei lavoratori, i quali, a
tutti i livelli, dal tecnico al semplice contadino, sanno che la loro attivita` serve al
bene di tutti, e il fatto del lavoro si sente molto di piu` come un titolo di gloria e di
autorealizzazione. Di qui la reazione violenta
contro i parassiti della societa`;
tra questi, spesso sono considerati tutti coloro che si consacrano al Signore, e c'e`
nella gente
l'idea che la vita religiosa e` una vita comoda e senza problemi sotto
l'aspetto economico. Forse questo ha provocato negli ultimi
tempi una certa crisi in
religiosi e sacerdoti, con il conseguente impegno in compiti assistenziali, culturali e
lavorativi a tempo
pieno (vedi per esempio i "preti operai").

Anche qui appare subito la doppia faccia del problema. Non si nega che forse
alcune accuse sono fondate, non si nega che il
monaco deve tener conto di questa realta`
sociale e adattarvisi, cercando di offrire una testimonianza di un lavoro (di
qualsiasi
genere) serio e impegnato. D'altra parte, pero`, il monaco non puo`
contentarsi solo di non essere un "parassita" della societa`:
deve essere un testimone
vivo della presenza di Cristo nel lavoro.

Oggi la societa` corre il rischio di essere vittima delle sue stesse conquiste; il
desiderio di possedere sempre di piu`, puo` portare
a una idolatria del lavoro,
fino a rendere l'uomo schiavo e abbrutito. Il monaco deve dimostrare di saper lavorare
seriamente e con
impegno, ma nella pace, nella liberta` di spirito, facendo del lavoro non
uno strumento di dominio, ma di servizio.

Illuminante potrebbe essere il n.20 dell'esortazione apostolica di Paolo VI sulla vita


religiosa Evangelica Testificatio: ""Un aspetto
essenziale della vostra
poverta` sara` quello di attestare il senso umano del lavoro, svolto in liberta` di
spirito, e restituito alla sua
natura di mezzo di sostentamento e di servizio. Non ha
messo il Concilio, molto a proposito, l'accento sulla vostra necessaria
sottomissione alla
"legge comune del lavoro"? Guadagnare la vostra vita e quella dei vostri
fratelli o delle vostre sorelle, aiutare i
poveri con il vostro lavoro: ecco i doveri che
incombono su di voi. Ma le vostre attivita` non possono derogare alla vocazione dei
vostri
diversi istituti, ne` comportare abitualmente lavori che siano tali da sostituirsi ai loro
compiti specifici. Esse non dovrebbero
neppure trascinarvi in alcuna maniera verso la
secolarizzazione, con detrimento della vita religiosa.""

2. - Ma quale lavoro per i monaci, oggi? I monaci cenobiti, per essere


autentici, devono vivere del proprio lavoro. Tale principio e,
per il momento storico
attuale, di grande importanza. Cio` non significa che il lavoro prettamente monastico sia
o debba essere
quello "manuale"; ogni volta che si cerca di stabilire lo
"specifico" del monaco si rischia di fallire. In teoria il monaco puo` dedicarsi
a qualsiasi attivita`; la storia e` molto eloquente riguardo a questo fatto: la vita
monastica ci presenta un meraviglioso pluralismo di
attivita` e di opere compiute
dai monaci.

Il principio di fondo e` che ogni lavoro, per essere autenticamente monastico, deve
permettere al monaco di essere sempre fedele
alla sua vocazione. Ora, come nel monachesimo
antico, si puo` cadere nei due eccessi: da una parte, sotto l'influsso della
mentalita` efficientista ed economicista di oggi, si puo` correre il rischio del troppo
lavoro, del lavoro affannoso che assorbe
completamente le forze dei monaci,
cosi` da non lasciare tempo e spazio (psicologico) per la lettura, lo studio, le riunioni
di
famiglia, l'aggiornamento, ecc...

Non possiamo fare il paragone tra la nostra attivita` e l'orario di fabbrica! Se un


monaco fa otto ore di lavoro pesante (di qualsiasi
tipo, anche apostolico), non si puo`
pretendere che possa dedicarsi poi con impegno alla preghiera comune, alla lettura divina
e a
un po` di studio per la sua formazione permanente. E' un'illusione! In questo, non
dobbiamo essere influenzati dalle pressioni

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

dell'ambiente, dalla mentalita` corrente, dal


giudizio - o pregiudizio - della gente: il "mondo" non potra` mai capire che il
monaco
deve dedicare il tempo migliore della sua giornata alla preghiera comune:
difficilmente la gente potra` valutare ore e ore passate
in coro.

Non dimentichiamo che chi viene al monastero, come postulante o come ospite, spera di
trovarvi un clima di pace, di serenita`, di
uomini centrati in Dio, e non un clima da
grande azienda piu` o meno prospera o da societa` per azioni. Non si puo` organizzare il
monastero partendo dalla efficienza economica, ma, al contrario, dal criterio della schola
dominici servitii, luogo dove soprattutto si
cerca Dio.

D'altra parte, si puo` correre l'altro rischio - come fu ugualmente nel monachesimo
antico - di una mancanza di lavoro, il rischio
che l'"otium cum
dignitate" per "vacare Deo" si trasformi in un "dolce far niente"
di gente che vive di rendita. La pace degli individui
e delle comunita` si ottiene quando
si giunge all'equilibrio con una armonica combinazione tra Opus Dei, lectio
divina e lavoro,
come sapientemente aveva previsto S.Benedetto.

Le condizioni di oggi, la societa` attuale, l'ambiente particolare in cui si vive, le


istanze della Chiesa locale ai monaci, le
suggestioni dello Spirito, l'attenzione ai segni
dei tempi, richiederanno dei cambiamenti: ristrutturazione dell'attivita` economica,
nuova
disposizione dell'orario giornaliero, in considerazione specialmente del "fenomeno
urbano"; ma bisogna salvaguardare
comunque quell'equilibrio tra i tre cardini della
giornata monastica, cosi` come essa e` concepita nella nostra vita benedettina.
Allora la
comunita` cenobita potra` esprimere in maniera piu` leggibile cio` che il monachesimo e`
realmente, e cio` in cui crede
con fermezza.

3. - Quando si scende al concreto, e` molto piu` difficile - se non


impossibile - stabilire quali lavori siano piu` confacenti allo stato
monastico. Il
monaco e` un uomo alla ricerca continua dell'incontro con Dio; ora, questo avviene
attraverso la preghiera liturgica,
comunitaria, la meditazione assidua della Parola di
Dio, l'incessante orazione personale, la carita` fraterna nella vita comune e il
lavoro.
Ebbene, quale lavoro puo` salvaguardare questo ideale? Tralasciamo in questa sede
il problema del lavoro apostolico
sistematico: "parrocchia si` - parrocchia
no", Non credo ci sia una soluzione come stanno oggi le cose. C'e` in questo
campo un
pluralismo monastico molto vasto. La nuova linea evolutiva del monachesimo, cioe`
la storia futura, potra` dire qualche parola in
piu`.

Ma consideriamo anche un'attivita` di lavoro manuale o aziendale. Oggi essa richiede,


per la complessita` della vita moderna, un
contatto frequente con i mezzi di produzione,
di commercializzazione, di distribuzione, con grattacapi, preoccupazioni,
dispersivita`,
dato che entrano in gioco direttamente componenti di tipo economico, la competitivita`, il
rendimento, ecc... Non
credo sia molto semplice dare una risposta; e tuttavia un ritorno a
una linea piu` contemplativa del monachesimo deve
necessariamente misurarsi col problema
del lavoro nel monastero.

E allora, quali potrebbero essere i lavori piu` appropriati per i monaci? (Riassumiamo
l'ultima parte dell'articolo di PASCUAL in
"Yermo" 13 (1975) nn.1-2, pp.349-351;
il volume raccoglie gli Atti della XII Settimana di studi monastici del 1971 nel monastero
di
Leyra in Navarra, incentrata tutta sul lavoro monastico).

Il principio generale e` che, salvi i diritti primordiali dell'Opus Dei, della lettura
e degli esercizi regolari, il tempo restante si dedichi
al lavoro, lavoro compatibile con
la vita monastica. Bisogna tener conto che il giovane che entra in monastero oggi,
desidera una
vita di maggior raccoglimento, di unione con Dio in maggiore silenzio e si
mostra piu` perplesso di fronte a cose che forse una
volta entravano, come elementi
accessori, in molte vocazioni, ad esempio la grandiosita` e la fama del monastero, le
investigazioni scientifiche, ecc., e si sente deluso qualora dovesse ritrovarsi nel
monastero con lo stesso ritmo agitato, frenetico,
con tensioni, ansie, che ha lasciato nel
mondo. Non si vuol dire con questo che desidera una vita comoda (la vita in monastero
con
l'orario e la vita comune, se si segue con impegno, non e` affatto una vita comoda), ma
solo che ci sia una gerarchia di valori
in persone e in ambiente che si dicono votati al
servizio di Dio.

4. - Lavoro intellettuale, o lavoro manuale? L'uno e l'altro possono


essere pienamente monastici se sono fatti seriamente e nelle
condizioni di un'autentica
famiglia monastica; l'uno e l'altro possono essere incompatibili se si praticano come
semplice
passatempo e hobby, oppure si trasformano in fine. Il lavoro intellettuale, fatto
con responsabilita` e serieta`, e` un lavoro duro,
sufficiente a realizzare l'aspetto
penitenziale del lavoro in una persona normale. In questo senso non e` un lavoro di tutti.
Tuttavia
e` un tipo di attivita` che non dovrebbe mai mancare in nessun monastero,
ne` si deve minimizzare per principio. Sarebbe funesto:
il livello culturale, e anche
quello spirituale, dei nostri monasteri scadrebbe immediatamente. Una comunita` che non e`
capace di
dare spazio a coloro che hanno avuto da Dio la vocazione del lavoro
intellettuale - e lo stesso si puo` dire dell'arte - dimostrerebbe
una carita` molto
gretta. Nelle comunita` esiste una specie di osmosi, uno scambio di idee: la cultura dei
monaci dedicati allo
studio, la vita comune con essi apportera` insensibilmente una
elevazione culturale, morale, spirituale di tutta la comunita`.

Il lavoro manuale sara`, senza dubbio, l'occupazione della maggioranza (eccetto,


e` ovvio, i monasteri che hanno parrocchie o
scuole). In tal caso , quale tipo di
lavoro manuale? Il lavoro dei campi ha avuto una certa predilezione nella tradizione
monastica.
Ora, se si tratta di orti p di campi vicino al monastero che siano redditizi e
sufficienti per il monastero senza un'eccessiva
meccanizzazione e industrializzazione, lo
possono fare agevolmente i monaci da se stessi. Ma nel caso di una grande azienda
con
investimenti colossali in macchinari e strutture (altrimenti non sarebbe redditizio non
essendo competitivo), ci possono essere
reali perplessita`; si corre il rischio che i
monaci siano assorbiti eccessivamente, e inoltre che ci sia una controtestimonianza della
poverta`.

http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Lo stesso dicasi per i lavori di tipo industriale, a livello di gramde


industria. Dice Maritain: "Mi pare che l'industrializzazione dei
grandi monasteri, i
quali nella vendita dei loro prodotti sul mercato si trasformano in competitori delle
grandi ditte moderne, sia una
via pericolosa e contraria allo spirito di poverta`. Cio`
pone i monasteri sullo stesso piano delle grandi industrie, che sono uno dei
maggiori
centri di ricchezza e di potere". (In: AA.VV., Visioni attuali sulla vita
monastica, Montserrat 1966, p.200).

Diverso e` il caso quando si vendono i prodotti artigianali del monastero. Alcune


comunita`, poi, soprattutto femminili, hanno
trovato una soluzione facendo dei lavori per
conto di alcune ditte: queste forniscono la materia prima e si incaricano di tutto il
settore della distribuzione e commercializzazione, la comunita` percepisce uno stipendio
per il lavoro svolto (ma anche in questo
caso ci sono molti problemi). Si potrebbero fare
altre esemplificazioni, ma bastano quelle accennate; del resto ogni comunita`
deve
vedere concretamente il tipo di lavoro ad essa piu` adatto.

5. - Lavoro e spirito di famiglia. Accenniamo ora ad un altro aspetto molto


importante del lavoro monastico: lavoro e spirito di
famiglia. Puo` accadere che si
stabiliscano anche nelle comunita` monastiche delle divisioni a causa del lavoro; o
dualismo (come
nella societa`) tra coloro che fanno lavoro manuale e coloro che
fanno lavoro intellettuale; o ancora lo spettacolo di monaci
sovraccarichi di lavoro
da una parte e, dall'altra parte, di monaci che si sentono vuoti e inutili per mancanza
di attivita`. Si tratta di
peccati contro la carita`. Nella famiglia monastica si deve
avere una totale comunione in tutto. Questo non significa livellamento.
Ci vuole spirito
di famiglia: il lavoro produttivo di alcuni puo` permettere ad altri di dedicarsi a lavori
molto importanti, ma non
lucrativi. Certi lavori scientifici o di erudizione sono un
servizio che i monaci fanno a tutta la chiesa, e contribuiscono anche al
buon nome del
monastero: ma normalmente non producono benefici economici, anzi gravano sulle finanze
della casa.

La forma migliore per lo spirito di famiglia in questo campo, e` la cogestione,


nel senso che tutta la comunita` intervenga nello
scegliere e programmare il lavoro;
se solo i superiori o alcuni monaci organizzano un lavoro, e` facile che la maggior parte
si
senta non responsabile, quindi si disinteressa e non partecipa a quell'attivita`. La
carita` fraterna e lo spirito di famiglia vanno
verificati anche in questo fatto del
lavoro.

CONCLUSIONE

Non crediamo di aver esaurito in questa esposizione tutti gli aspetti del lavoro in
rapporto alla vita monastica. Il problema e` molto
complesso e ha mille facce, che vanno
tenute presenti. Al di la` delle varie questioni e difficolta`, rimane il fatto per il
monaco di
inserire la sua attivita` - qualunque essa sia - in una visuale di
fede (alla luce del "Vangelo del lavoro" ultimamente messo in risalto
dalla
enciclica Laborem Exercens, soprattutto nn.24-27), ricondurla al mistero pasquale
di morte e risurrezione di Cristo, con
l'aspetto di fatica-sacrificio e di creativita`-
realizzazione, impegnandosi seriamente, ma sempre proiettato in una dimensione
ultraterrena.

Il monaco deve sentire che il lavoro e` una componente essenziale della giornata
monastica e diventa lavoro orante, perche` le
ore dell'Ufficio divino santificano tutto
cio` che il monaco fa: "Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore
e non
per gli uomini" (Coloss.3,23) e "In omnibus glorificetur Deus"
(1Piet.4,11 citato in RB.57,9).

****

NOTA BIBLIOGRAFICA

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nel mondo contemporaneo <=GS), 1965,
specialmente nn.33-35.

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AA.VV., "Yermo" (artt.vari) 13 (2975) nn.1-2: ma tutto il fasc. e` sul


lavoro monastico.

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EXCURSUS sulla LECTIO DIVINA


(Appendice al c.48 di RB)

SOMMARIO: Introduzione - I: Concetto generale. Il metodo dei Padri. L'esegesi


spirituale. - II: Disposizioni fondamentali per la
lectio divina. - III: I vari momenti
della lectio divina: 1) lectio; 2) meditatio; 3) oratio; 4) contemplatio. - IV: Alcune
difficolta`. -
Conclusione.

INTRODUZIONE

Il motto divenuto tradizionale per i Benedettini (ma non c'e` nella Regola, ne` e`
stato coniato dai monaci, ma applicato ad essi da
altri), cioe` "ORA et LABORA",
passa sotto silenzio la "LECTIO DIVINA" (=l.d.), alla quale la Regola di
S.Benedetto (=RB) e tutta
la tradizione monastica accordano una particolare attenzione.
San Benedetto (=SB), stabilendo nel c.48 l'orario del monaco,
distribuisce tra il lavoro e
la l.d. il tempo rimasto libero dalla preghiera. Per molto tempo, durante il periodo
patristico e l'alto
medioevo, la pratica della l.d.fu continua e molto sentita tra i
monaci e fuori; man mano, a partire dal sec.XII, divenne piu` rara e
scomparve del tutto
all'epoca del massimo sviluppo della "devotio moderna" (sec.XV), quando
la spiritualita` trovo` una forma di
preghiera nuova e l'orazione mentale divenne un
esercizio di pieta` che non si alimentava piu` principalmente alla Bibbia. Tutto
questo e`
durato fino al movimento biblico del sec.XX con il ritorno alla S.Scrittura; tra il 1940 e
il 1950, con lo sviluppo del
movimento liturgico francese, la formula si diffuse di nuovo
largamente tra i monaci e fuori.

Il nostro tempo ha dunque riscoperto l'importanza almeno - se non ancora la pratica


abituale e sapienziale - della l.d., soprattutto
dopo la Costituzione dogmatica
"Dei Verbum" (=DV) sulla divina rivelazione del Concilio Ecumenico

Vaticano II, che e` tutta nutrita di termini e di idee fornite dalla tradizione della
l.d. nelle diverse epoche; si puo` dire che tutta la
parte finale della DV ne raccomandi
la pratica. Nelle "Proposte" approvate dal Congresso degli Abati del 1967
("La vita
benedettina"), la l.d. e` presentata come una delle attivita`
principali del monaco, insieme alla preghiera e al lavoro. Cosi` si e`
tornati -
almeno a livello di convinzione - alla triplice articolazione della giornata monastica:
PREGHIERA - LECTIO - LAVORO.

I. CONCETTO GENERALE. IL METODO DEI PADRI. L'ESEGESI SPIRITUALE.

Che cos'e` dunque la l.d.? E` un modo particolare di accostarsi alla Parola di Dio, in
vista soprattutto della preghiera, e l'ascolto-
risposta di (quindi colloquio con) Dio
attraverso la parola scritta: "Nei libri sacri il Padre (...) viene incontro ai suoi
figli e discorre
con loro" (DV.21). Per i Padri della Chiesa e del monachesimo era
una cosa familiare e normale: il contatto continuo, amoroso con
la parola di Dio, fino ad
assimilarla e a farsene assimilare. Per questo nella Regola non si puo` trovare una
dottrina sistematica
della l.d., perche` questa e` data per scontata; si dice soltanto
ripetutamente (RB.48,1. 4. 10. 13. 14. 17. 18. 22) "vacare lectioni"
<dedicarsi alla lettura>, oppure "in lectione divina" <nella
lettura divina>. In senso proprio e stretto, denotava la lettura della

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

S.Scrittura.

Fin dalle origini del monachesimo, la Bibbia e` stata il libro dei monaci
anacoreti e cenobiti; i grandi maestri inculcarono la
necessita` della lettura frequente e
assidua; chiamata "alimento celestiale", "pane caduto dal cielo",
"pane e sangue di Cristo", la
Scrittura costituiva lo strumento imprescindibile
- e spesso unico - della formazione del monaco, e del suo itinerario spirituale fino
all'incontro con Dio. Divinae vacare lectioni <dedicarsi alla (o "essere
libero" per la) lettura divina> era la formula con cui si
indicava questa lettura
approfondita del monaco, questa assimilazione della parola di Dio attraverso la lettura.

S.Pacomio aveva stabilito che tutti nel monastero sapessero a memoria alcuni passi
della S.Scrittura e, come minimo, il NT e il
salterio; questo era il programma comune, e
generalmente venne rispettato in seguito da tutti i monaci.

La Bibbia costituiva la lettura essenziale, frequente, assidua dei monaci e della


Chiesa tutta. Nel medioevo non abbiamo che una
esegesi molto imperfetta, se la paragoniamo
a quella di oggi, resa possibile dai progressi della filologia e delle altre scienze
moderne. Eppure allora la Scrittura alimentava abbondantemente la vita dei monaci e della
Chiesa in genere, soprattutto
attraverso una esegesi spirituale. Per i monaci
dell'antichita` e del medioevo, la Bibbia non puo` essere separata dai commentari
che ne
hanno fatto i Padri della Chiesa; i loro scritti sono spesso designati semplicemente come
"expositiones" <esposizioni> dei
libri sacri, perche` qualunque sia
il genere letterario da essi adottato, non hanno fatto altro che spiegare versetti della
Scrittura.

In pratica i monaci avevano una familiarita` tale con la Scrittura, da esserne


veramente "impastati": indubbiamente la Bibbia era il
libro del monaco, e
il monaco l'uomo della Bibbia; la sua preghiera consisteva spesso nel ripetere lentamente,
"gustandoli",
versetti della Scrittura (la cosiddetta "ruminatio",
come piu` avanti vedremo). Alla base di questo interesse primordiale e quasi
esclusivo
verso la Bibbia, c'e` la convinzione che esiste un legame stretto tra vita monastica e
parola di Dio; e in particolare la
convinzione dell'unita` tra le varie fasi
dell'economia divina: dall'AT in su`, e` la stessa storia della salvezza, che ha il
suo culmine
nel mistero pasquale di Cristo, al quale ogni monaco, ogni cristiano,
partecipa, facendo suoi i misteri di cui parlano le Scritture; in
un certo modo lo stesso
Spirito di Dio, che ha ispirato gli autori dei libri sacri, continua ad agire in coloro
che li leggono e che
cercano di ripetere quella esperienza di cui parlano i sacri testi.

I monaci soprattutto vedevano la loro vita in questa linea: vita monastica come "Historia
Salutis" <Storia della Salvezza>. (Si veda,
su questo, lo studio
fondamentale e bellissimo di B.CALATI, Historia salutis, in: Vita Monastica 12
(1959), n.56, pp.3-48, l'intero
fascicolo). Tutta la Scrittura, quindi, va vista
nell'unita` dell'AT e del NT, alla luce del mistero di Cristo e della Chiesa: l'AT va
letto
come preparazione al Nuovo, come una grande storia profetica, unica grande profezia
che annuncia Cristo, la Chiesa e noi, cioe`
che Cristo, la Chiesa e noi esprimeremo in
tutta la pienezza di fede, nella speranza del compimento glorioso. Cristo e` la chiave
dei
Testamenti, perche` Egli e` la Parola definitiva di Dio, la Parola <il Verbo>
fatta carne nella pienezza dei tempi, in cui tutte le
promesse di Dio e le parole
precedenti hanno avuto il loro compimento: "Lui che cerco nei libri", diceva
S.Agostino.

Ma il mistero di Cristo continua nel mistero della Chiesa e nella vita di ogni singolo
credente, che sono la continuazione-
attualizzazione del mistero della salvezza. Quindi
tutta la Scrittura viene letta come annuncio-profezia di Cristo, della Chiesa, del
cristiano. Questo e` il metodo dei Padri, dalla cui riflessione e` scaturita la dottrina
dei diversi "sensi biblici": la tradizione
medioevale ne conosce quattro:

- senso letterale ("littera gesta docet" <la lettera insegna i


fatti>);

- senso allegorico ("quid credas, allegoria" <l'allegoria insegna


cio` che devi credere>);

- senso morale ("moralis quid agas" <il senso morale ti insegna


come comportarti>);

- senso anagogico, cioe` escatologico o contemplativo ("quo tendas,


anagogia" <l'anagogia ti insegna a cosa devi tendere>).

Il senso letterale e` la "corteccia", gli altri tre costituiscono l'approfondimento,


il senso spirituale. Caratteristico della tradizione
monastica e` l'accentuazione
dell'aspetto esperienziale e dell'aspetto escatologico. Maestro per eccellenza di questo
senso
spirituale della S.Scrittura e` stato S,Gregorio Magno (cf. B.CALATI, S.Gregorio
Magno e la Bibbia, in AA.VV., Bibbia e
spiritualita`, Ed. Paoline, Roma 1967,
pp.121-178); i suoi commentari biblici ci dimostrano il senso profondo che egli scopre
nella
Scrittura, intendendo la vita spirituale come compimento della storia sacra in ogni
fedele. Alcuni testi: "Queste cose che crediamo
avvenute storicamente, speriamo anche
che si realizzeranno misticamente" (Moralia, libro 35, c.XV, n.35);
"(...) oltre il senso
letterale, tutte le cose scritte, per disposizione dello
Spirito Santo <dispensatione Sancti Spiritus!>. E Beda il Venerabile
commentava cosi` il brano di Gregorio: "egli ha spiegato il libro (di Giobbe) secondo
il senso letterale, e come va riferito ai misteri
di Cristo e della Chiesa e come va
applicato a ciascun fedele" (Storia di Inghilterra, libro II, cap.1).

Ecco: e` il mistero di Cristo, della Chiesa e ci ciascuno di noi. A questo criterio


deve ridursi il valore teologico della l.d. nel senso di
lettura "oggettiva",
cioe` adattare se stesso a cio` che dice la Bibbia, rivivere tutte le avventure del
popolo eletto, tutto il Vangelo, la
vita degli Apostoli, ecc.; cioe` la Scrittura ci da`
il mezzo per passare attraverso le esperienze religiose dei personaggi di cui parla,
e
queste sono le piu` varie, possono quindi rispondere ai bisogni di tutti, di tutte le eta`
e di tutte le situazioni spirituali. L'anima
deve provare gli stati d'animo interiori dei
santi dell'Antico e del NT, realizzare i loro atti, riprodurre le loro virtu`, imitare le
loro
penitenze.

Un esempio tipico di questo senso spirituale a cui e` diretta la l.d., l'abbiamo nel II
Libro dei Dialoghi. E` il "vir Dei Benedictus",
specialmente, che Gregorio
ci presenta, come la formula piu` viva del senso spirituale e del senso pieno della
Scrittura. Benedetto

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

e` l'uomo e l'esperienza viva della "unita` dei


Testamenti". Nuovo Mose`, nuovo Eliseo, nuovo Elia, nuovo David, nuovo Pietro,
"questo uomo fu davvero ripieno dello spirito di tutti i giusti", ma ripieno
specialmente delle Spirito di Gesu`, nel quale si
unificarono i due Testamenti:

"L'uomo di Dio Benedetto ebbe un unico Spirito: quello di Colui che mediante la
grazia della redenzione, riempi` i cuori di tutti gli
eletti (...), di lui e` scritto:
'dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto'" (II.Dial.c,8).

Cosi` i Padri intendevano questa unione intima con la Scrittura. Bisogna vivere tutta
la Bibbia, partecipare interamente a cio` che
si legge. Si veda ancora questo testo
meraviglioso di Cassiano: "Fortificato da questo cibo, (il monaco) penetra a tal
punto nei
sentimenti espressi dai salmi, che egli li recita ormai non come composti dal
profeta, ma come se fosse lui stesso l'autore, come
un'opera personale nella piu` profonda
compunzione; o almeno pensa che i salmi sono stati composti apposta per lui, e capisce
che
cio` che i salmi esprimono, non si e` avverato solo in tempi lontani nella persona del
profeta, ma trova anche in lui al momento
presente il suo compimento" (Coll.X,11). Se
tutto cio` e` vero dell'AT, a piu` forte ragione vale per il NT, per Cristo; il Vangelo ci
offre l'occasione di penetrare il consiglio di Paolo: "Abbiate in voi gli stessi
sentimenti di Cristo" (Filip.2,5). Ecco come tutta la
Bibbia si legge come un unico
filo conduttore, con l'occhio cioe` illuminato dal carisma profetico, come mistero di
storia sacra,
storia della salvezza, che dovra` compiersi fino al ritorno glorioso di
Gesu`.

II. DISPOSIZIONI FONDAMENTALI PER LA LECTIO DIVINA

Con questa mentalita` dobbiamo accostarci anche oggi al sacro testo. Il Concilio
ricorda che la S.Scrittura deve "essere letta e
interpretata con l'aiuto dello stesso
Spirito, mediante il quale e` stata scritta" (DV.12). E` la disposizione fondamentale
davanti alla
parola di Dio: va letta nella fede, va penetrata attraverso l'intervento
dello Spirito Santo, come parola che viene da Dio e a Dio
conduce. Il monaco, che deve
essere soprattutto l'uomo dell'ascolto, e` attento alla parola di Dio per accoglierla,
custodirla,
metterla in pratica, produrre frutti (Mt.13,23). "Scopo della lectio
divina e` la ricerca di Dio nella parola scritta.

Percio` la lectio in tutta la tradizione monastica e` ritenuta uno dei mezzi piu`
comuni e caratteristici della vita dei monaci" (La Vita
Benedettina, Congresso
degli Abati 1967, n.19 c). Riportiamo anche quest'altra recente descrizione della l.d.:
"Si tratta di una
lettura meditata, soprattutto della Bibbia, e prolungata in
preghiera contemplativa. Questo tipo di lettura sapienziale ha occupato in
ogni tempo un
posto importante, per non dire essenziale, nella vita spirituale, in particolare nella
vita dei monaci" (J.M.DELVAUX,
Lectio divina, in Collectanea Cisterciensia 33
(1971) 104).

Notiamo quindi che la l.d. non e` solamente la lettura o lo studio della Scrittura: e`
la ricerca di Dio nella sua parola scritta. Una
lettura, sia pur spirituale, che ha per
scopo la preparazione di una conferenza, di un articolo o dell'omelia, oppure la
curiosita`
erudita o estetica, non risponde alla definizione della l.d. Essa vale non
per quello che ci fa acquisire (avere), ma per quello che ci
fa diventare (essere).
Ecco perche` si parla di lettura "sapienziale" (e la 'Sapientia' e` gusto
delle cose di Dio, un dono dello Spirito
Santo), e` una contemplazione delle Scritture,
una lettura in vista della preghiera. Allora e` una lettura sacra e divina. Tradotta in
italiano, l'espressione perde un po` della sua forza: "lettura", per noi, e` un
termine troppo superficiale; "studio" e` troppo
intellettuale;
"meditazione" forse sa troppo di psicologistico e di pietistico> E`
preferibile lasciare l'espressione "lectio divina" (che
include e trascende
queste tappe, come vedremo), oppure tradurre: "pregare la Parola" (come
nel titolo del libro di E.BIANCHI).

Evidentemente la Bibbia e` l'oggetto "primordiale", nel senso di


principale e fondamentale della l.d.; ma l'orizzonte si puo`
allargare: "la l.d. deve
avere per principale oggetto la S.Scrittura; tuttavia abbraccia anche con molta larghezza
i Padri, la
tradizione, gli esempi e la dottrina dei santi, la riflessione sempre viva
della Chiesa nel corso dei secoli" (La Vita Benedettina,
o.cit., n.19 d).
Perche`, in fondo, la lectio non e` divina in ragione del testo letto, ma in ragione del modo
con cui il testo viene letto.
Leggere la Bibbia per semplice curiosita` intellettuale
o per spirito polemico, non e` l.d.; leggere il giornale per discernere,
attraverso gli
elementi politici e i vari avvenimenti, i "segni di Dio" nella storia, puo`
essere l.d.; in questo caso si tratterebbe di
leggere la storia quotidiana al modo dei
profeti d'Israele!.

Alcuni testi ci aiuteranno a comprendere meglio alcuni aspetti della l.d.

- In Neemia 8,1-12 possiamo notare una specie di teologia della liturgia della
parola. Dopo il ritorno dall'esilio, inizia una nuova
fase storica per tutto Israele, e
questo avviene con una solenne liturgia a cui tutto il popolo e` invitato (vv.1-2). Dopo
una
benedizione di lode al Signore, si legge la parola di Dio per una intera giornata,
brano per brano, traducendo le parole ebraiche al
popolo che conosceva solo l'aramaico,
con spiegazione e commento a cura di Esdra e dei leviti. E il popolo, pensando alla sua
infedelta` all'alleanza, e` mosso a pentimento e piange. Ecco una caratteristica della
l.d.: nella sua parola, Dio si fa presente,
tocca e penetra i cuori; allora l'uomo e`
disarmato di fronte alla parola di Dio, l'uomo si arrende, immediatamente appare la
contraddizione tra l'iniziativa da parte di Dio e l'infedelta` da parte dell'uomo; ed ecco
il pentimento; ma e` un pianto salutare per la
salvezza; quindi viene la parola di
consolazione: "Non piangete..." (v.9).

- In Luca 4,21, Gesu` ci da` un approfondimento del metodo della l.d.: primo,
perche` Egli realizza in se` quello che le Scritture
dicevano; secondo, perche` Egli
riferisce all'"oggi" la parola di Dio. Il brano di Isaia 61,1-2 trova il suo
"oggi" nella proclamazione
di Gesu`: "Oggi si compie...". Ebbene, la
parola di Dio scritta nei libri sacri non e` stata detta - lo sappiamo - solo nel momento
in
cui Egli parlo` al suo portavoce, ma e` detta (nel senso piu` forte) ogni volta che il
testo viene proclamato, in qualunque forma,
nella celebrazione liturgica (cf. SC.7; DV.21)
o anche nella lettura privata, perche` sempre "la Parola di Dio e` viva,
efficace..."
(Ebr.4,12; cf. Is.55,10-11).

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Dunque Dio parla a me, qui, in questo momento. L'attualizzazione della Parola di Dio
per me, "hic et nunc", e` il perno della l.d.
"Oggi si compie in voi questa
Scrittura": e` il passaggio del Mar Rosso, come la manna del deserto, il vino
miracoloso di Cana, la
guarigione del sordomuto: "Oggi si compie...". Ecco
perche` si parla di lettura personale, di un confronto continuo con la Scrittura.
Secondo una definizione assai diffusa nel medioevo attraverso Gregorio Magno, ma la cui
partenita` spetta a S.Agostino, la Bibbia
e` come uno specchio in cui si deve veder
riprodotta l'immagine da seguire e, se da questa si discosta la propria condotta, e`
dovere del singolo ridurre o eliminare lo scarto che rende l'uomo difforme dal modello
biblico. Il Maestro interiore rivolge a
ciascuno un messaggio personale e unico, ma cio`
attraverso un messaggio universale, anteriore a noi, che nella Bibbia e`
proposto a tutti;
tocca quindi a ciascuno farlo individuale, interiorizzarlo, attualizzarlo per se`. Nei
racconti e nei libri storici, il lettore
confrontera` la sua esperienza con quella dei
personaggi biblici, vedra` l'iniziativa di Dio e la risposta dell'uomo: tutto servira`
come simbolo della realta` della vita cristiana.

Fra le tante parti cosi` diverse che compongono la Bibbia, ciascuno avra` delle
legittime preferenze: chi si nutre molto bene
dell'AT, chi del NT, a qualcuno piace
particolarmente S.Paolo, a qualcun altro piacciono i Vangeli, chi preferisce i Sinottici,
chi
Giovanni, qualcuno si ritrova meglio nei libri sapienziali o nei salmi, qualcun altro
nei Profeti. Perche` nella Bibbia si trova tutto, ci
si puo` riferire a tutti i casi: che
ciascuno ponga davanti al sacro testo le questioni e i problemi suoi, e Dio dara` la
risposta a lui
adatta. Perche` la l.d. e` un dialogo d'amore, il cuore si lascia toccare
da cio` che Dio dice; Dio parla e io rispondo: e` una
conversazione con una Persona Viva
che mi interpella e mi coinvolge in una comunione di vita. Questa e` la grande, suprema
esegesi. Questo e` il succo della l.d.

III. I VARI MOMENTI DELLA LECTIO DIVINA

Illustriamo ora i vari atti in cui si articola la l.d., come sono stati consacrati
dalla tradizione monastica, in quanto si tratta di una
lettura meditata e orante della
parola di Dio. Nel sec.XII, Guigo II il Certosino ha cosi` sintetizzato le tappe di
questo ascoltare-
rispondere, che e` poi l'arco di tutta la vita spirituale: 1. Lectio
- 2. Meditatio - 3. Oratio - 4. Contemplatio. (Una traduzione
italiana
della lettera di Guigo, "Scala claustralium" <La Scala dei
monaci>, si trova in appendice al libro di E.BIANCHI, Pregare la Parola,
pp.75-91).

1. Lettura <Lectio>.

E` il punto di partenza. Per giungere a quella intimita` con la sacra pagina, intimita`
di cui si e` parlato sopra, e` necessaria una
lettura continua e organica. Tutti gli
autori monastici insistono su questo punto, perche` esso e` la condizione preliminare per
stabilire col testo un rapporto personale e proficuo. Allora bisogna applicarsi al testo
con attenzione, con calma, e soprattutto
accostarsi nello spirito. Prima di iniziare la
lettura, bisogna mettersi in una disposizione particolare e invocare lo Spirito Santo che
venga ad illuminarci. Un autore moderno dice che la parola di Dio ha bisogno di una
"epiclesi" (come il pane e il vino). Nella l.d. il
credente deve fare questa
epiclesi in unione con la grande epiclesi eucaristica. Ci vuole poi fedelta`, continuita`,
assiduita`.
Bisogna dedicare alla l.d. un tempo, e un tempo adatto, non i ritagli
di tempo, nella fretta e nella distrazione. E questo non e` facile
oggi; puo` diventare un
vero esercizio di ascesi. Deve essere una lettura assidua: e` una condizione
indispensabile per la l.d.

Bisogna leggere la Bibbia, soprattutto la Bibbia, leggerla spesso e leggerla


interamente. (sfogliare a caso qua e la forse non e`
cosa utile), senza trascurare quelle
parti dell'AT che forse possono sembrare poco utilizzabili nella vita spirituale. Alle
volte
saremo tentati di scegliere testi molto densi, ma e` meglio seguire tutte le parti,
perche` in tal modo si introduce nella vita interiore
un elemento di varieta`; lo spirito
umano e` facile ad abituarsi a tutto! Non dimentichiamo poi che la parola di Dio ha la
qualita` di
essere cibo quotidiano e, come ogni nostro pasto, non sempre ci puo` dare
quella soddisfazione e quell'appagamento di cui
soltanto in rari momenti ci e` dato di
godere. Il caso di aridita` diventa il momento dell'ascolto di Dio nella fede, nel
buio della fede;
questi "silenzi" di Dio sono salutare, perche` ci fanno
comprendere la nostra incapacita` a pregare e ci aiutano a fissare lo sguardo
in Dio solo.

Ci vuole dunque assiduita`: leggere e rileggere, perche` la parola di Dio penetri. (Concretamente, si potrebbero scegliere due
strade: o seguire il lezionario
quotidiano, cosi` si ha anche l'aggancio con la liturgia del giorno; oppure fare la
lettura continuativa
dei singoli libri della Scrittura; ma anche qui ognuno ha la sua
esperienza, lo Spirito soffia dove vuole!). Come risultato di questo
contatto continuo
con la parola di Dio, si finisce per subire una sorta di condizionamento psicologico con
le idee, le immagini, le
frasi stesse della S.Scrittura, fino a farci acquistare cio` che
si puo` chiamare una "mentalita` biblica", che influisce continuamente
sulle
nostre scelte.

2. MEDITAZIONE <Meditatio>

Secondo momento, che per altro non si distingue chiaramente dal primo: si passa
insensibilmente dalla lettura
all'approfondimento. Per gli antichi, la
"meditatio" non era quello che noi intendiamo oggi per "meditazione",
ma era un esercizio di
lettura, di ripetizione, anche pronunziata, delle parole fino a
imparare il testo a memoria; "meditatio" nel senso di "exercitatio",
ed
era un esercizio in cui interveniva la persona intera: il corpo, perche` la bocca
pronunziava il testo; la memoria che lo riteneva;
l'intelligenza che si sforzava di
penetrarne il significato; la volonta` che si proponeva di metterlo in atto nella vita
pratica. I Padri
parlavano anche di "masticare" la Parola, per essi c'era
la famosa "ruminatio" della S.Scrittura, cioe` ritornare sul testo,
richiamarne le parole, ritrovare il tema centrale e imprimerlo profondamente nel cuore. Le
testimonianze sono numerosissime:
Atanasio a proposito di Antonio il Grande, Girolamo,
Ambrogio, Agostino, Isidoro,... su su fino al medioevo (nei libri elencati in

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

bibliografia
si possono trovare molti testi): cercavano il "sapore" della Scrittura,
non la scienza. Giovanni di Fecamp (sec.XI) parla
di "gustarla in ore cordis"
<'nella bocca del cuore', ma l'espressione e` intraducibile>. Tutte le testimonianze
dei Padri vanno viste
alla luce del salmo 118: "Nel silenzio della notte medito la
tua parola..., nel cuore della notte mi alzo per leggere la tua parola...,
medito la tua
parola..., desidero la tua parola..., la tua parola e` la mia gioia..., giorno e notte
medito la tua parola..., la tua parola
mi fa vivere..." (salmo 118, passim).

Come non richiamare qui, quale modello singolare, l'atteggiamento meraviglioso di Maria
SS.ma? Lei, l'umile ancella del Signore
(Lc.1,38), che ha creduto alla Parola
(Lc.1,45), se ne stava in silenzio, ascoltando, meditando e custodendo nel suo cuore cio`
che
faceva e diceva Gesu` (Lc2,19.51; 11,27-28).

Poiche` si tratta di un lavoro paziente di approfondimento, di "gustare" la


parola di Dio, ci serviamo anche degli strumenti culturali
e scientifici che abbiamo, e
dei commenti patristici e spirituali. Ricordiamoci che il fine e` la meditazione del testo
stesso; la
comprensione del testo che e` richiesta dalla l.d., dipende dall'intelligenza
dell'intera Bibbia, dalla conoscenza della "Scrittura
attraverso la Scrittura"
(e` il metodo dei Padri), dalla capacita` di lettura mediante concordanze, accostamenti,
richiami di testi
paralleli. Si provi ad esempio con un brano sulla Bibbia di Gerusalemme,
andando a cercare tutti i richiami indicati in margine; si
vedra` come l'orizzonte si
allarga e pian piano si estra nell'atmosfera della parola di Dio; si crea cosi` uno spazio
di risonanza, che
illumina e accresce il messaggio e provoca, sotto l'azione dello Spirito
Santo, l'intelligenza estensiva e spirituale. S.Gregorio
Magno, grande maestro della
lettura spirituale della Scrittura,, ha un'espressione bellissima: "Scriptura
crescit cum legente" <'la
Scrittura cresce con chi legge', Omelia VII su
Ezechiele, libro I, n.8>, cioe` le Scritture sante si sviluppano e accrescono nel loro
senso e negli annunci profetici di salvezza, a seconda della fede e dell'amore di chi
legge.

3. PREGHIERA <Oratio>

I momenti precedenti quasi conducono alla preghiera. In realta` gia` quanto detto
finora e` una forma di preghiera; si tratta di
prenderne coscienza, ed e` la risposta
alla lettura, si entra in conversazione con Dio; la parola e` venuta in noi ed ora
torna a Dio
sotto forma di preghiera. Ed e` questa la vera preghiera cristiana, quella che
sgorga dal cuore al tocco della divina parola. "Cerca
di non dire niente senza di
Lui" - dice S.Agostino - "ed Egli non dira` nulla senza di te" (Esposizione
sul salmo 85,1); cioe`, prega
con la parola di Dio ed Egli allora non mandera` a vuoto in
te la sua Parola. Si tratta di fare nostre le parole della Scrittura, farle
entrare nel
cuore, e poi restituirle a Dio dopo averle segnate con la nostra adesione. Ascoltiamo
ancora S.Agostino: "Se il salmo
e` preghiera, pregate; se e` gemito, gemete; se e`
riconoscente, siate nella gioia; se e` un testo di speranza, sperate; se ispira il
timore,
temete" (Esposizione sul salmo 33). E` una risposta nell'umilta`, nella piccolezza,
ma anche nella franchezza che e`
possibile proprio quando si parla a Dio con le sue
parole. Lo ha ben compreso l'intelligenza liturgica della Chiesa che ci mette
sulle labbra
sempre parole ispirate. (Penso sia superfluo - tanto appare scontato da quanto detto -
ricordare l'aggancio tra l.d. e
liturgia: la l.d. e` preparazione e, nello stesso
tempo, prolungamento della liturgia della parola. (Vedi soprattutto: AA.VV. L'oggi
della Parola di Dio nella Liturgia, Torino, 1969).

Abituiamoci dunque a nutrire la nostra preghiera di tutto quel ricco deposito che la
Parola di Dio, letta nel silenzio, o ascoltata nella
proclamazione liturgica, ha lasciato
in noi.

4. CONTEMPLAZIONE <Contemplatio>

Non e` qualcosa a cui arriviamo noi, con sforzi personali, e` un dono dello Spirito
Santo che germoglia sulla nostra lettura pregata.
Non e` estasi, ne` esperienza
straordinaria, o stato mistico, o visione, ma e` esperienza viva di fede, e` Cristo che si
manifesta
nelle Scritture. Egli e` cosi` entrato nella parte piu` intima del nostro
essere: non ci resta che guardarlo e contemplarlo, come
Maria la Madre di Gesu` a
Betlemme, e come Maria di Betania seduta ai suoi piedi (Lc.10,39). Ogni pagina della
Scrittura ci svela
questo Cristo e ce lo fa emergere nella l.d.

Gesu`, nel Vangelo di Giovanni, promette l'esperienza di Dio a chi lo ama veramente e
accoglie la sua parola, quando parla di un
"manifestarsi" a lui (Giov.14,21.23);
e ancora dice: "Questa e` la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui
che hai
mandato, Gesu` Cristo" (Giov.17,3). Sappiamo tutta la forza di quel verbo
"conoscere" <ebraico "jada`, intraducibile nelle nostre
lingue), un 'conoscere' frutto di amore, entrare in profonda comunione, creare un rapporto
di intimita` con Lui, un 'conoscere
sapienziale', quella conoscenza di Cristo di
cui tanto spesso parla S.Paolo (Efes.3,10; Filip.3,10; Colos.1,10; 2,2-3; 3,10; ecc.) e
che si identifica con la fede adulta di ogni cristiano; essa e` l'oggetto della preghiera
dell'Apostolo per i fedeli: "(...) potentemente
rafforzati dal suo Spirito nell'uomo
interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e (...) siate in grado di conoscere
l'amore
di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perche` siate ricolmi di tutta la pienezza
di Dio" (Ef.3,16-19). Questa e` la sostanza di
cio` che Cassiano e la tradizione
monastica chiamano la "oratio pura", questa e` la contemplatio
nell'ultima tappa della l.d.

IV. ALCUNE DIFFICOLTA`

Non vogliamo, al termine di questa esposizione, dissimulare alcune difficolta`. Se si


dice - e giustamente - che la pieta` monastica
e` fondata sulla Bibbia, non bisogna
dimenticare che il soggetto di tale lettura e` l'uomo concreto, l'uomo del nostro
tempo, con il
suo bagaglio psicologico e ambientale.

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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)

Una prima difficolta` deriva dal fatto stesso della lettura, di come si serve della
lettura l'uomo d'oggi. L'uomo moderno legge
velocemente; la civilta` moderna esige
velocita` nella stessa lettura, la quale e` soprattutto "informativa", tende a
far sapere il
maggior numero di cose nel minor tempo possibile: la l.d., invece, deve
essere lenta. La lettura che cerca di acquistare nuove
conoscenze lo vuole fare nella
maniera piu` veloce: la l.d., al contrario, e` a base di "ruminazione",
cioe` della lenta assimilazione
del testo letto. L'uomo moderno, poi, legge per agire,
si documenta in vista dell'azione, la sua lettura guarda all'efficacia,
all'efficienza: la
l.d., invece, deve essere disinteressata. L'uomo moderno, inoltre, legge per
distrarsi: di qui la moda (anche nei
films e in TV) dei romanzi d'evasione, dei gialli
intricati, della fantascienza, per uscire appunto dal quotidiano, dalla vita di sempre:
la
l.d. e` una lettura impegnata, in cui uno si sente realmente e direttamente
coinvolto. E ancora l'uomo moderno si informa e si
distrae collettivamente: fino a
pochi anni fa` c'era la civilta` del libro che sviluppa un'informazione individuale, ora,
con i mass-
media, la civilta` attuale produce un tipo di informazione collettiva: la l.d.,
invece, e` una lettura solitaria, un rapporto
personalissimo tra pagina sacra e
lettore.

Altra difficolta`: non dimentichiamo che la S.Scrittura non sempre e` cosi` facile o
immediata; richiede una certa preparazione,
studio, e quindi tempo. Un'altra difficolta`
e` data dal fatto che i testi dei Padri non sono cosi` facilmente gustabili, se non si ha
una
determinata formazione, se non si entra in una certa mentalita`. Alcune
interpretazioni allegoriche sembrano a noi un po` ricercate
e forzate, non ci danno il
senso dell'immediato, dell'attualizzazione ovvia ed evidente; siamo abituati poi a un
linguaggio diverso,
ecc. Tuttavia, non dobbiamo lasciare (anzi dobbiamo riscoprire) i
Padri: il loro metodo e` il migliore per una lettura orante della
Bibbia; e` un
cibo duro, ma solido e nutriente.

Aggiungiamo tutte le difficolta` dell'uomo di oggi per raccogliersi, per concentrarsi.


Per riuscire in questo, ci vuole sforzo continuo,
fatica, allenamento. Bisogna proprio
riconsiderare il rapporto tra preghiera, lectio e ascesi. C'e` tutto il problema di una
certa
preparazione alla preghiera e alla l.d.: una preparazione remota, che comprende
tutta la vita, uno sforzo di coerenza alla propria
vocazione, l'evitare una eccessiva
agitazione e dissipazione nel lavoro o nel ministero; una preparazione prossima, per
stabilire
pace e silenzio in noi stessi, oltre che all'esterno... Tutte queste cose non
sono sempre cosi` facili e soprattutto non sono affatto
scontate: dobbiamo fare i conti
con le situazioni concrete della vita e della persona umana!.

E pensiamo quindi al problema di fondo, cioe` a una dimensione maggiormente


contemplativa della vita monastica. Per arrivare a
quell'atmosfera in cui sia
possibile una proficua l.d., bisogna recuperare il valore della solitudine, del silenzio,
di una vita nascosta
in Dio, valori che forse davanti al mondo d'oggi il
monachesimo e` chiamato a incarnare e testimoniare.

CONCLUSIONE

Davanti alle difficolta` accennate, davanti forse a tutta l'esposizione precedente, si


potrebbe avere l'impressione di un apparato
complesso, complicato, e ci si potrebbe
chiedere se la l.d. non sia un "esercizio monastico" divenuto anacronistico,
resto di una
civilta` passata. Ma se si prova a dare spazio allo Spirito del Signore, se
ci si mette con semplicita` e poverta` davanti a Lui, tutto
appare molto piu` semplice.
Bisogna fare l'esperienza, sia pure nello sforzo, nell'aridita`. Dobbiamo tornare alla
l.d., tornare a fare
il vero "metodo" di vita spirituale.

S.Gregorio Magno rimproverava dolcemente Teodoro, il caro amico medico, perche` non
trovava piu` il tempo di attendere
quotidianamente alla l.d. come si era impegnato:
"ogni giorno medita le parole del tuo Creatore. Conosci il cuore di Dio nelle
parole
di Dio" <disce cor Dei in verbis Dei, Epistola 31,54>. Quel povero
Servolo, paralitico e analfabeta, che con grande sacrificio
si era procurato il codice
della Scrittura e se la faceva leggere dai suoi visitatori, e` proposto da Gregorio come
esempio
(IV.Dial.15; Omelie sui Vangeli 15,5). All'abate Giovanni raccomanda che attenda
"ad lectionem atque orationem" <alla lettura e
all'orazione>; e ai suoi
monaci rivolge lo stesso invito, lamentandosi che non li vede "ad lectionem vacare"
(Epistola 3,3). Il santo
abate Equizio, che ha tanti punti in comune con S.Benedetto, e`
presentato da Gregorio nella sua predicazione peregrinante con
l'immancabile codice della
S.Scrittura (I.Dial.4). E c'e` l'esempio fulgido di Gregorio stesso, Pontefice, ma fedele
come un monaco
alla l.d.; nella predicazione, commentando Ezechiele, fa un umile e
commovente esame di coscienza personale di fronte alla
parola di Dio: "Tacere non
posso )...; parlero`, parlero` affinche` la spada della parola di Dio (...) arrivi a
trafiggere (...); parlero`,
parlero` affinche la parola di Dio risuoni anche contro di me
per mezzo mio" (Omelia XI su Ezechiele, libro I, n.5).

Venendo poi a noi monaci silvestrini, troviamo splendidi esempi di l.d. nella Vita
Silvestri e nelle Vite dei suoi primi discepoli. La
ruminatio verbi sia anche per
noi nutrimento e consolidamento spirituale. Se non ne comprendiamo l'utilita`, il Signore
ci faccia la
grazia di sentire, come Agostino in una serata d'agosto del 386 in un
giardino a Milano: "Tolle, lege" <prendi e leggi>! (Confes.VIII,
12,29).
Alcune indicazioni pratiche per "pregare la Parola" si possono trovare in
E.BIANCHI, Pregare la Parola, pp.67-69).

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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