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APPUNTI
SULLA
REGOLA DI
S.BENEDETTO
di
D.Lorenzo
Sena, OSB.Silv.
sansilvestro@pasadena.it
INDICE GENERALE
INTRODUZIONE GENERALE
1. L'autore
2. Il libro
3. Struttura e divisione
5. Relazione con la
Regula Magistri
7. Modello sapienziale
Appendice: le Congregazioni
Benedettine
COMMENTO AL TESTO
Prologo
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAP. 5 - L'obbedienza
CAP. 7 - L'umilta`
I COLLABORATORI DELL'ABATE
(capitoli 21; 31; 65)
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Prologo
CAP. 5 - L'obbedienza
CAP. 7 - L'umilta`
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAP. 14 - Come debba celebrarsi l'Uff. nott. nelle feste dei Santi
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAP. 73 - Non tutte le norme della perf. sono contenute in questa Reg. 43
Testi usati per la compilazione di questi appunti (affinche' non si creda che
sia "farina del mio sacco"!):
BOGGERO, M.B. Appunti sulla Regola di S.Benedetto, pro man., Fabriano 1979.
WATHEN, A. Introduzione allo studio della Regula S.Benedicti, pro man., Roma
1977-78.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
INTRODUZIONE GENERALE
1. L'AUTORE
Benedetto nacque a Norcia verso il 480. Mandato a studiare a Roma, a 20 anni circa,
verso il 500, fuggi' la corruzione e la miseria
del mondo e si rifugio' dapprima in un
piccolo borgo, Affile, a 50 km da Roma, ove pensava di vivere con altre pie persone in
forma ascetica. Cerca poi la solitudine nella valle dell'Aniene, sui monti Simbruini, desiderando
di piacere solo a Dio.
Inizia cosi' in una grotta l'esperienza eremitica nella sua forma piu' pura, tra
incredibili asperita' e penitenze per vari anni: lotta
contro il demonio, lotta con se
stesso, preghiera, macerazioni. Cosi' egli pensa di vivere per sempre.
Ma il Signore ha altri disegni: molti, attirati dalla sua santita', vogliono mettersi
sotto la sua guida, e allora l'anacoreta inizia la sua
esperienza di cenobita e di padre
di monaci. Costruisce a Subiaco o meglio nella valle sublacense 12 piccoli monasteri, con
dodici
monaci ciascuno, retti ognuno da un proprio capo, ma tutti dipendenti da Benedetto
stesso.
Nel corso degli anni si matura nel santo un altro ideale di organizazione e di vita
cenobitica. Verso il 529 si reca a Montecassino,
dove fonda il grandioso monastero. Qui,
nella piena maturita' degli anni e del pensiero, egli scrive la Regola con una
organizzazione che consenta a tutti di vivere e lavorare nel recinto della clausura, con
una costituzione che poggi sulla stabilita'
dei monaci. Dalla Regola, che e' il reflesso
fedele della sua vita - come dice S.Gregorio Magno - appare che l'autore:
- e' convinto che nella vita quotidiana in seno alla comunita' si puo' trovare
Dio, oggetto della sua ricerca, poiche' nella comunita'
stessa si realizza il mistero
pasquale di Cristo morto e risorto.
2. IL LIBRO
Benedetto scrive con un suo disegno preciso: un testo chiaro e fisso che non solo
intende impedire il disordine di falsi monaci
(sarabaiti e girovaghi), ma vuol dare ai
cenobiti un corpo di dottrina ascetica sobrio e insieme abbastanza completo, un
equilibrato
ordinamento liturgico per l'Opus Dei e un codice di norme per
tutta l'organizzazione del cenobio. La Regola e insieme un testo
legislativo e
spirituale.
egli intende trarre un nuovo testo che sintetizza, ordina e perfeziona gli elementi
precedenti.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Si spiega cosi' il posto centrale che Benedetto assegna alla liturgia, chiama
"Opera di Dio" - Opus Dei. "Nulla preporre all'Opera di
Dio"
(RB 43,3) e "Nulla preporre all'amore di Cristo" (RB 4,21) sono due
espressioni di una unica convinzione: la liturgia infatti e' lo
spazio privilegiato
dell'incontro con Cristo, percio' il santo pone al centro e al culmine della giornata
monastica il momento della
lode divina che ritma il fluire del tempo.
Ecco quindi lo spirito nuovo che Benedetto immette nella Regola; per questo fu
tanto stimata nell'Occidente e col tempo ritenuta
degna di imporsi su tutte le precedenti,
proprio per il suo valore intrinseco.
Per chi scrisse S.Benedetto? Dall'esame interno della Regola appare che egli non
pensava solo a Montecassino, perche' si
presuppongono piu' monasteri, grandi e piccoli,
situati in regioni di clima diverso (RB 40,5-8; 48,7; 55,1; ecc.). Sembra piu'
verosimile
l'ipotesi che egli abbia voluto fissare nello scritto delle norme per i suoi monaci di
Montecassino, di Terracina e forse
anche di Roma e Subiaco, e che poi altri abati
d'Italia, attratti dalla fama di santita' dell'abate cassinese, lo abbiano spinto a
scrivere o abbiano adottato il suo scritto.
agli inizi del sec.VII, la Regola era conosciuta nelle Gallie. Lo stesso vale
per l'Inghilterra, dove probabilmente fu portata da
Agostino e dagli altri
missionari inviati da Gregorio Magno. Da li' penetro' nella Frisia e nella Germania;
si diffondeva
contemporaneamente in Belgio, in Svizzera e in tutte le
regioni dell'Europa Centrale.
Questo non significa che le altre regole erano sparite, specialmente quella di
S.Colombano; solo che alla fine quella di
S.Benedetto fini' col prevalere, persino a Bobbio
stessa, fondazione di Colombano.
Al tempo di Carlo Magno (sec.IX), ormai la Regola dominava. Carlo Magno e poi
Ludovico il Pio, con l'opera di riforma di
S.Benedetto di Aniane, contribuirono
molto alla diffusione e all'affermazione del codice monastico cassinese.
Infine, tutte le nuove istituzioni di vita religiosa e regolare che sono fiorite nel
corso dei secoli, si sono ispirate ai principi essenziali
e alle norme fondamentali,
ascetiche e disciplinari, del codice del Patriarca di Montecassino.
3. STRUTTURA E DIVISIONE
Abbiamo gia' detto che Benedetto non compose la Regola di getto, ma durante la sua
vita, un po' per volta, aggiungeva un nuovo
pensiero che modificava o precisava il
pensiero precedente; questa elaborazione continua duro' fino al
termine della sua vita, perche' cambiavano le circostanze e maturava le sue esperienze
di vita monastica.
Possiamo trovare nella Regola delle sezioni piu' o meno integrali (per es., codice
liturgico: capp.8-20; codice penitenziale:
capp.23-30 e 43-46) che forse all'inizio erano
dei fascicoli a parte e poi furono inseriti nel testo. E' evidente poi che i capp.67-73
sono un'appendice aggiunta dopo; in una prima stesura, la Regola terminava al cap.66,
come appare chiaro dalla frase di
cap.66,8.
Cio' che ancora fa pensare a una stesura prolungata nel tempo e' il fatto che alcuni
argomenti sono trattati piu' volte:
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
- la dottrina dell'obbedienza e' disseminata in tutta la Regola (capp.5; 68; 71; ecc.).
Non possiamo dunque pretendere uno schema troppo preciso. Possiamo tuttavia
tentare una divisione secondo un certo ordine:
- oratorio (52)
- ospitalita' (53)
S.Benedetto, come qualsiasi altro autore monastico del VI secolo, non aveva la
pretesa di fare un'opera nuova e originale; le
regole cenobitiche si proponevano di
codificare dottrine ascetiche e usi-tradizioni per i monasteri. Benedetto, attraverso uno
studio
profondo ed assiduo, aveva familiare oltre la Bibbia (vedi piu' sotto al n.8
di questa Introduzione Generale), la precedente
letteratura patristica e monastica.
a) San Pacomio.
Nato in Egitto verso il 290 (morto verso il 346), era soldato pagano. Si converti' e si
ritiro' nei deserti d'Egitto a condurre una vita
aspra di penitenza e di preghiera.
Pacomio e' giustamente celebre nella storia del monachesimo cristiano per essere stato il primo
organizzatore della vita ascetica comunitaria: e' veramente il padre del cenobitismo.
La regola che da lui prende nome e' la prima
regola monastica scritta (fu tradotta
in latino da S.Girolamo nel 404) e ad essa si sono riferiti in qualche modo tutti i
legislatori
venuti dopo. La vita monastica dei pacomiani era derivata direttamente
dalla Scrittura, sopratutto NT e in particolare i Vangeli.
Altra caratteristica era imitare
gli esempi dei Padri (Antonio il Grande, Pacomio stesso e cc.). La nota dominante e'
l'organizzazione: si trattava di una specie di villaggio diviso in tante case o
famiglie.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Le osservanze principali sono quelle che poi diverranno comuni a tutti i monaci:
ufficio divino, celebrazioni liturgiche, letture
bibliche, conferenze spirituali, lavoro
di vario tipo secondo le varie "case". Inutile dire che in questi grandi
agglomerati monastici
c'era posto per tutti, c'era possibilita' di vari mestieri e di
varie occupazioni.
b) San Basilio
In RB 73,5 S.Benedetto parla di "Regola del nostro santo padre Basilio'. Per dire
cosi', e' evidente che questi era conosciuto bene
in Occidente ai tempi di S.Benedetto.
S.Basilio, detto "Magno", e' uno dei piu' grandi Padri della Chiesa
Orientale. Nacque in Cappadocia nel 329 e fu presto affascinato
dall'ideale monastico;
percio' ando' a vedere la vita degli asceti, in Cappadocia e fuori. Dono' gran parte dei
suoi beni ai poveri e si
ritiro' presso Neocesarea. Presto si trovo' circondato da
discepoli, sopratutto per l'equilibrio della sua vita e per l'impostazione
evangelica
del suo insegnamento. Fu consigliere e maestro di tutti i monaci della Cappadocia e
con somma prudenza e carita'
seppe dare un nuovo volto alla spiritualita' di questi
austeri abitanti delle solitudini, i quali erano di una rigidezza a volte strana e
quasi
selvaggia, quindi mancante di carita', ed erano criticati aspramente da pagani e cristiani
e mal visti dal clero.
E' merito di Basilio aver avvicinato il monachesimo alla cristianita' aver dimostrato a tutti i battezzati l’ideale della perfezione nella
vita degli asceti. La sua influenza divenne maggiore allorche' venne ordinato prete verso il 362 e sopratutto quando
venne
consacrato vescovo nel 370.
Al centro dell'ascesi e della mistica del santo c'e' l'amore di Dio e l'amore
del prossimo; siccome l'ideale di Basilio sgorga
direttamente dai due precetti della
carita', esso e' nello stesso tempo attivo e contemplativo. Non bisogna
certo esagerare circa
l'influsso sociale del monachesimo basiliano, ma e' vero che c'e'
stato, anche se quello del santo e' derivato specialmente dalla
sua qualita' di vescovo.
S.Basilio mori', appena cinquantenne, nel 379. E' uno dei piu' grandi Padri e Dottori
della Chiesa.
c) Sant'Agostino
Agostino e' uno dei piu' grandi geni dell'umanita'. Immenso e' stato il suo influsso
nel pensiero e nell'azione della Chiesa
d'Occidente. Tutti conoscono i suoi meriti nel
campo della teologia, della filosofia e della letteratura; invece il suo influsso in campo
monastico e' stato riscoperto solo negli ultimi anni; eppure il monachesimo latino deve
molto a lui.
La risoluzione di farsi cristiano coincise con quella di farsi monaco (era stato
colpito dalla vita di Antonio, il grande eremita); tutta
la sua esistenza fu tesa nel
realizzare in se' (e intorno a se') i punti essenziali dell'ascesi monastica, vista
non come realta' statica
ma dinamica, da realizzare in una continua ricerca di Dio,
resa possibile dalla grazia, in uno studio appassionato e costante della
Quando ritorno' in Africa, verso il 388, Agostino si spoglio' dei beni che aveva e si
ritiro' fuori della citta', in compagnia di alcuni
amici per una vita di perfezione, nella
preghiera, nello studio e nell'austerita'.
L'ascesi monastica agostiniana e' contenuta nella Regola per i servi di Dio
("Regula ad servos Dei"), molto breve ma piena di
sapienza e di
equilibrio. Le grandi linee sono:
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
d) Giovanni Cassiano
Nessuno meglio di Giovanni Cassiano puo' farci comprendere la vita monastica come la
vivevano i Padri del Deserto; nelle sue
opere: De Institutis coenobiorum
(Istituzione dei cenobi, 12 libri) e Collationes (Conferenze o Collazioni, 24
libri) egli ci fornisce un
materiale completo e insieme indispensabile per la comprensione
della vita monastica primitiva; la vita ascetico-mistica realizzata
e vissuta dai Padri
appare come il fondamento per chi voglia seguire i consigli evangelici.
Nato verso il 360, originario probabilmente della Scizia, Cassiano era vissuto a lungo
come monaco prima in Palestina e poi in
Egitto e conobbe, essendo loro discepolo o amico, i
piu' grandi Padri del Deserto, sia dell'Oriente che dell'Occidente. Come frutto
dei
suoi viaggi e delle sue conoscenze, inizio' gli occidentali alla vita spirituale dei
monaci dell'Oriente con le due opere di cui
sopra. Ordinato prete ad Antiochia intorno al
413, lascio' l'Oriente verso il 415 per recarsi a Marsiglia, dove fondo' due
monasteri,
uno per uomini e uno per donne. Mori' verso il 435.
Cassiano e' molto importante per capire la Regola benedettina, perche' costituisce una
delle fonti piu' importanti; moltissimi passi
della RB trovano riscontro nelle opere di
Cassiano; S.Benedetto lo cita spesso e ne raccomanda
e) Le "Vitae Patrum"
Altra fonte della RB e libro raccomandato ai monaci per il loro cammino spirituale (RB
73,5) sono le Vite dei Padri ("Vitae
Patrum"). Si tratta di una
collezione di documenti biografici antichi, chiamata cosi' genericamente. Sono giunte a
noi attraverso
una trascrizione del sec.XVII, riunita in 10 Libri che contengono
svariati argomenti:
f) Le "Regulae Patrum"
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Si ritiene che siano resoconti di sinodi di abati della Gallia del V secolo. La Regula
IV Patrum, da cui sono nate le altre tre,
costituisce veramente un documento molto
importante: si puo' affermare che e' il primo testo legislativo del monachesimo
occidentale, il primo nucleo di regola che e' servita realmente a governare una
comunita' in Occidente, i cui elementi sono stati di
base per le regole posteriori.
Contiene difatti tutti gli elementi essenziali di una regola: insistenza sulla vita
comune, ruolo del
superiore, obbedienza dei fratelli, accoglienza dei postulantigrande
insistenza sullo spogliamento di se' (beni personali), condanna
della mormorazione e
correzione delle colpe; parla del digiuno, della lettura, del lavoro, del servizio
vicendevole del cellerario,
della cura degli attrezzi, dell'accoglienza dei monaci
forestieri e percio' del rapporto con gli altri monasteri. Tutte cose che troviamo
poi in
maniera chiara nelle regole posteriori, soprattutto nella RM ("Regula Magistri")
e nella RB. E' poi tutta intessuta (come le
altre regole) di citazioni della S.Scrittura
che fanno da fondamento alle prescrizioni.
g) La "Regula Magistri"
Per i rapporti particolari che presenta con la RB esige una speciale menzione e una
trattazione a parte (vedi appresso, n.5 di
questa Introd.Gen.).
Da qui in poi non si tratta propriamente di Fonti della RB, ma di regole e persone
contemporanei di S.Benedetto.
Resta incerto se S.Benedetto abbia conosciuto l'opera del suo contemporaneo S.Cesario
(470-542). Egli, fattosi monaco a Lerins
fin dalla piu' tenera giovinezza, volle rimanere
tale anche da vescovo (come S.Agostino che aveva preso a modello), cercando di
unire i
doveri pastorali con quelli di asceta; trasformo' il palazzo vescovile in monastero.
Frutto dello speciale amore per la vita
monastica, restano di lui la Regola per le
Monache ("Regula sanctarum virginum"), abbastanza lunga e dettagliata, da
cui deriva
l'altra, la Regola per i Monaci ("Regula ad Monachos"), piu'
breve e sunteggiata.
l) Cassiodoro
Disgustato della vita pubblica, la abbandono' nel 540, ritirandosi nelle sue terre,
dove fondo' il celebre monastero di Vivarium di cui
fu abate. Organizzo'
sapientemente la vita nel monastero, divisa tra preghiera e studio (sacro e profano),
trascrizione di codici
(famosa era la biblioteca di Vivarium). L'opera principale
di Cassiodoro e': Institutiones divinarum et saecularium litterarum
("Istituzioni delle lettere sacre e profane"). Mori' nel 583.
5. RELAZIONE CON LA
"REGULA MAGISTRI"
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
sue caratteristiche
interne e specialmente per la sua notevole estensione. Non se ne conosce il nome
dell'autore; l'attuale titolo
non e' originario, venne chiamata "Regola del
Maestro" da S.Benedetto di Aniano (sec.IX) dalla maniera di introdurre l'argomento
dei capitoli:
- Respondit Dominus per magistrum (Risponde il Signore per mezzo del maestro).
I manoscritti invece hanno come titolo Regula Sanctorum Patrum (Regola dei Santi
Padri). Tre soli manoscritti ce l'hanno
conservata integralmente. Tra i codici che ne
riportano alcune parti, importantissimo e' il Par.Lat. 12634 (Parisiensis Latinus)
che
viene datato alla fine del secolo VI o inizi del VII, di origine italica, forse
proprio del monastero di Cassiodoro, il su menzionato
Vivarium.
Quale fu la patria, l'origine, l'autore, la data della RM e il suo rapporto con la RB?
Era opinione comune che la RB fosse opera
originale, documento autentico ed esclusivo del
genio e della spiritualita' di S.Benedetto, il quale usava, si', svariate fonti
patristiche e monastiche dei secoli precedenti, ma mai parola per parola, come invece si
puo' notare confrontando la RM.
Secondo questa opinione, la RM era un commento alla RB,
risalente al sec.VIII. Altri dicevano che il "Maestro" era lo stesso
S.Benedetto, che poi sunteggio' una prima stesura lunga della Regola; che forse la RM
veniva usata prima a Subiaco, oppure a
Vivarium; altri ancora pensavano che la RM fosse
usata dopo la RB come un commento o istruzione.
Oggi pare quasi certa e accettata dalla maggior parte degli studiosi - anche se
un'argomentazione veramente apodittica e
perentoria non c'e' - l'ipotesi della priorita'
della RM: cioe' che S.Benedetto uso' la RM come fonte letteraria. Questo puo' aiutare
a
capire lo schema della RB, modellato su quello della RM.
Non deve sorprendere che S.Benedetto abbia trascritto lunghi tratti della RM (quasi
alla lettera nei primi capitoli). Bisogna tener
presente la mentalita' dei tempi: per gli
antichi, uno scritto dottrinale era patrimonio comune e se ne prendeva liberamente il
contenuto senza il bisogno di citarlo. Ma bisogna anche dire che S.Benedetto non
trasferisce di peso la materia di quei capitoli:
egli abbrevia, omette, aggiunge, corregge
secondo un suo pensiero e un suo spirito particolari; sia nella sezione
disciplinare come
in quella dottrinale (RB cc.1-7) ci sono delle differenze molto
interessanti ed importanti, che gli studiosi stanno approfondendo
sempre piu'.
RB
RM |
RB
RM
Prologo Thema
|
1-7
1-10 |
39-42
26-30
19-20
47-48 |
48
50
21-22
11
|
49 (Quaresima) 51-53
23
12 |
55
81
24
13 |
56-57
84-85
26-30
14
| 58
87-90
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
31-33
16-17.82 |
59
91
34
-
| 63-64
92-93
35
18-23.25 |
65
-
36
69-70 |
66
95
37
-
| 67 (+52)
67-68
38
24
| 68-73
-
Il latino usato da S.Benedetto non e' classico, libresco o artificiale, come quello di
Cassiodoro o di Boezio, ne' fiorito e ornato
come quello di Cassiano, ma e' la lingua
viva del sec.VI come si parlava in Italia, ricca di vitalita' e facile a capirsi da
tutti, senza
per altro essere una lingua veramente "volgare" (come, per es.,
nelle iscrizioni "volgari" dell'epoca).
La forma letteraria e' varia, a seconda della materia trattata; per es.: nel
prologo abbiamo la forma omiletica, nel codice penale
(RB 23-30 e 43-46) la forma
giuridica. Molti capitoli in cui tratta un argomento nuovo, Benedetto li inizia con un
principio generale
e poi passa a sviluppare la dottrina come conseguenza (es.: RB 5; 19;
24; 30. 36; 42; 48; 72).
7. MODELLO SAPIENZIALE
Noi moderni forse abbiamo perduto le massime, i proverbi ecc., e cosi' abbiamo perduto
anche la saggezza in essi contenuta.
Nei Libri sapienziali della S.Scrittura ci sono varie forme di questo genere: la
piu' nota e' quella dell'insegnamento del maestro al
discepolo (es. Sir. 2,1-18;
Prov. 1,10; 2,1; 4,1 ecc.).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Una parola a parte diciamo per l'uso che Benedetto fa della S.Scrittura: egli si nutri'
della letteratura monastica di cui abbiamo
parlato prima, ma sopratutto della Parola di
Dio: "Quale pagina o quale parola di autorita' divina del Vecchio e Nuovo
Testamento
- osserva egli stesso - non e' norma sicura di condotta per la nostra
vita?" (RB 73,3).
Col propagarsi dei monasteri, si moltiplicarono anche le copie del testo della Regola.
Esistono oggi molti manoscritti del testo della
RB (solo nella biblioteca nazionale
di Parigi ne esistono piu' di 30); il problema principale e' stabilire, secondo la
datazione e
l'analisi storica, quale si avvicini al testo originario.
A. testo puro
A. TESTO PURO
1. Codice (OMEGA)
2. Codice (PSI)
Nel 787 due monaci francesi avevano fatto una copia esatta dell'autografo, il codice
omega (quando ancora si trovava a
Montecassino), per ordine di Carlo Magno che voleva il
testo esatto della Regola per introdurla nei monasteri del suo territorio. Il
codice fu
portato ad Aquisgrana. Disgraziatamente anche questo ando' perduto.
Nell'817 due monaci svizzeri si recarono ad Aquisgrana per fare una copia della copia;
questa va identificata con il famoso
manoscritto, ancor oggi conservato, il Sangallensis
914, che rappresenterebbe cosi' il piu' fedele testimone dell'autografo.
Avremmo cosi' un
caso eccezionale nella storia della tradizione manoscritta dei testi antichi: un codice
che disterebbe
dall'autografo attraverso un solo intermediario. L'autorita' del codice
A e' confermata anche dall'analisi interna del testo, che
evidenzia un latino del VI
secolo localizzabile nell'Italia meridionale. Il codice A e' chiamato "esemplare
normale", ed e' quello oggi
comunemente usato nelle edizioni della Regola.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
B. TESTO INTERPOLATO
Si tratta di una classe di codici che contengono un testo (assai diffuso in Italia,
Gallia, Inghilterra e Germania) con aggiunte e
modifiche dovute o a una difettosa
intelligenza del testo o all'intenzione di adattarlo meglio alle regole grammaticali.
L'archetipo
(cioe' il primo di questo tipo da cui hanno avuto origine gli altri) si fa
risalire fino al se.VI e viene indicato con la lettera (SIGMA): e'
inesistente. Tra
i codici di questa famiglia ricordiamo:
C. TEXTUS RECEPTUS
C'e' una terza famiglia di testi, sorta dai continui tentativi degli amanuensi di
correggere l'originale e forse anche i testi interpolati e
che gia' si presenta sin
dalla fine del secolo VIII. Tale tipo di testo, frequente gia' nel secolo X, invalse
sempre piu' nell'uso
comune perche' piu' facile a capirsi e piu' corretto
grammaticalmente. E' quello ordinariamente conosciuto e stampato fin verso la
fine del
secolo scorso. E' stato chiamato Textus Receptus = TR (testo accettato).
NOTA IMPORTANTE
Nonostante tutti questi codici, il pensiero genuino di S.Benedetto e' stato conservato, perche' le varianti (che non siano mai
interpolazioni) non toccano quasi mai il senso,
sicche' abbiamo la sicurezza di conoscere il pensiero autentico del santo Patriarca.
Le
divergenze interessano specialmente lo studio filologico.
Furono fatti vari tentativi nel 1600 di ricostruire un testo critico della Regola. Le
edizioni piu' importanti si hanno pero' solo a partire
dal secolo scorso. Ricordiamo:
Schmidt: nel 1880; poi nel 1892 piu' corretta della prima edizione; ha per base il
Codice A.
Traube: famoso studio del 1898, in cui affronto' tutto il problema della
trasmissione del testo dei vari codici ess., stabilendo
saldamente il valore del codice A.
Edizione del monastero di Cava dei Tirreni: nel 1913 e nel 1929: riporta alla
lettera il testo del Codice A.
Linderbauer: nel 1922 e nel 1928, testo molto studiato e accurato sulla scorta di A
e dei migliori codici.
Negli ultimi anni si sono avuti studi notevoli sotto l'aspetto critico, che hanno
portato ad opere di fondamentale valore. Ricordiamo:
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
R.Hanslik: nel 1960 e' uscita la tanto attesa edizione critica. L'illustre studioso
ha consultato piu' di 300 codici sparsi nel mondo e
riporta le varianti di piu' di 70.
Utilissime sono l'introduzione e gli indici: quello della S.Scrittura e di tutti gli
autori citati, quello delle
parole, quello ortografico e quello grammaticale. Nel 1977 e'
uscita la seconda edizione.
I commentari alla Regola risalgono alla piu' remota antichita' e si susseguono man mano
lungo il corso dei secoli. Ricordiamo:
Calmet: eccellente commento con molta soda dottrina, nel 1732 (in francese,
tradotto anche in italiano nel 1751).
NOTA. Dagli studi piu' recenti sembra ormai certo che i tre commenti di: Paolo
Diacono, Ildemaro e del monaco Basilio, non sono
altro che tre recensioni diverse del
commento di Ildemaro, composto quasi certamente a Civate (Como). Quindi cade
l'attribuzione
a Paolo Diacono, e il primo commentario alla RB risulta quello di Smaragdo;
segue a pochissimi anni quello di Ildemaro.
Card.Ildefonso Schuster: scrisse nel 1942 un commento, frutto della sua esperienza
di governo (era abate di S.Paolo fuori le Mura
a Roma) e dei suoi precedenti studi.
I.Herwegen: abate di Einsiedeln, scrisse nel 1944 un commento che da' rilievo alla
natura carismatica della vita monastica: "Il
senso e lo spirito della Regola
benedettina". Ma non sempre le sue idee appaiono accettabili.
D.Anselmo Lentini: monaco cassinese, scrisse il commento nel 1947; e' stato il primo
che ha diviso i capitoli della RB in versetti,
secondo il ritmo della frase latina,
divisione oggi accettata da tutti, anche dai piu' grandi studiosi, e usata oggi
comunemente in
tutte le nuove edizioni. Il commento del Lentini e' uscito in seconda
edizione nel 1980.
B.Steidle: nel 1952, mette sopratutto in luce i rapporti della Regola col
monachesimo antico.
Nel 1980, in occasione del XV Centenario della nascita di S.Benedetto, sono usciti
numerosi commenti nuovi e studi sulla Regola
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
RB 1980 (Ed.T.Fry), Collegeville 1981. E' un importante lavoro fatto dai monaci
degli Stati Uniti e vuole essere non un semplice
commento, ma uno strumento di lavoro
sulla Regola. Dopo una ricca bibliografia, la I.Parte comprende una lunga introduzione
sulla storia del monachesimo; la II.Parte riporta il testo latino della Regola (dalla
edizione di Neufville-DeVogue) con la traduzione
inglese ben fatta e molto fedele; segue
la III.Parte, la piu' lunga, con studi su tematiche particolari: la terminologia, l'abate,
il
codice liturgico, le misure disciplinari, la formazione, il ruolo della S.Scrittura
nella RB, rapporti tra RB e RM. Sopratutto in questa
terza parte si tiene molto conto
degli studi del DeVogue. Una IV.Parte comprende una concordanza latina e gli indici:
tematico,
scritturistico, patristico e delle opere antiche; segue la lista dei monasteri
benedettini in U.S.A.
APPENDICE
Congregazioni Benedettine
(in ordine di fondazione)
1. Congregazione Camaldolese
- Camaldolesi Cenobiti: nel 1616 ebbe luogo una scissione tra i Camaldolesi. I
cenobiti si divisero dagli eremiti e si organizzarono
in una vera Congregazione molto
fiorente al principio (oggi estinta).
Oggi e' rimasta come Congregazione con il titolo di Monaci Eremiti Camaldolesi,
che comprende eremi e cenobi.
2. Congregazione di Vallombrosa
3. Congregazione Cistercense
Fondata da S.Roberto Abate nel 1098. E' divisa in tante altre congregazioni (21)
secondo la nazionalita' (ricordiamo quella di
Casamari, con la famosa abbazia presso
Frosinone).
4. Congregazione di Montevergine
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
6. Congregazione Silvestrina
7. Congregazione Celestina
Fondata da Pietro Morrone (poi Papa Celestino V), eremita sui Monti della
Maiella, nel 1240. Il Papa diede da osservare la Regola
di S.Benedetto nel 1263. Dopo un
periodo di grande floridezza, inizio' la decadenza che continuo' fino alla completa
soppressione
sotto Napoleone.
Fondata dal B.Bernardo Tolomei nel 1319. Monasteri principali: Monte Oliveto
Maggiore (SI), S.Miniato di Firenze, Settignano (FI),
Seregno (MI), S.Anastasia in
Roma, S.Maria Nova in Roma.
9. Congregazione Cassinese
Nel 1408 il monaco Ludovico Barbo inizio' un'azione che tendeva a unire varie
abbazie per difenderle dalla peste della
"commenda". Il movimento ebbe inizio a S.Giustina
di Padova col nome "De unitate seu de Observantia Sanctae Justinae de
Padua"
(Unione o Osservanza di S.Giustina di Padova). Monasteri principali: Montecassino,
S.Paolo fuori le Mura in Roma,
Cesena, Cava dei Tirreni, Pontida, S.Martino delle Scale
(PA), Farfa, S.Pietro di Perugia.
Nel 1842 il monaco cassinese Pier Francesco Casaretto, dopo varie peripezie,
vedendo la decadenza che regnava nelle abbazie
della sua congregazione (fu colpito
specialmente a Subiaco), ideo' una riforma nel senso di un ritorno integrale alla Regola.
Di qui
ebbe origine la Congregazione Sublacense nel 1851, chiamata prima Congregazione
Cassinese della prima osservanza. Il suo
tentativo si realizzo' in Liguria con
l'appoggio di Carlo Alberto a Genova e a Finalpia. Poi questi monaci
riformati furono chiamati
dal Papa anche a Subiaco. Monasteri principali in Italia: Subiaco,
Genova, Finalpia (SV), Parma, Praglia, Noci, S.Giustina di
Padova, Montevergine, S.Giorgio
Maggiore di Venezia, Novalesa (TO). La Congregazione e' divisa in provincie secondo
le
nazioni.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Ci sono poi dei monasteri singoli, non uniti in nessuna Congregazione. Tutte le
Congregazioni sopra nominate (eccetto
Cistercensi e Trappisti) sono unite nella CONFEDERAZIONE
BENEDETTINA, eretta da Leone XIII nel 1893, che e' l'unione
fraterna dei monaci che
vivono sotto la stessa Regola, salva l'autonomia di ciascuna Congregazione o monastero. La
Confederazione Benedettina e' presieduta dall'Abate Primate che risiede a Roma nel
Collegio Internazionale di S.Anselmo
sull'Aventino.
PROLOGO
Ascolta, o figlio.....
Obsculta, o fili.....
Alla Regola e' preposto un lungo Prologo di 50 vv. (quello della RM e' di 180 vv.), in
cui S.B. prepara l'animo del monaco ad
accogliere con cuore largo e docile gli
insegnamenti in essa contenuti.
Il Prologo della RB - uno dei documenti piu' belli del monachesimo antico - e' una catechesi, una istruzione religiosa in cui si
descrive la vocazione del monaco e le grandi
prospettive del suo itinerario spirituale.
L'uso dei verbi all'imperativo (ascolta, apri, accogli, chiedi al Signore.....) e'
caratteristico del genere sapienziale; non e' un
imperativo severo o proprio del giudice:
S.B. appare un "ottimista" nei confronti di Dio, come i saggi dell'A.T., vede
sopratutto la
dolcezza della chiamata di Dio e la bellezza dell'ideale che mostra al
discepolo (mentre nella RM prevale il "pessimismo" nei
confronti di Dio, visto
come giudice terrificante).
In tal modo la vocazione monastica appare come l'incontro con una persona, Gesu'
Cristo, sempre vivo, sempre presente, e
l'esistenza del monaco consiste in un dialogo con
Lui: difatti Egli chiama il monaco, lo interroga personalmente, risponde alla sua
preghiera.
Struttura
Il prologo ha una struttura abbastanza nitida: puo' essere diviso in una serie di
pericopi o parti:
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
vv. 44-50: la scuola del servizio divino. Risposta dei monaci all'invito
1. - I.PARTE: vv.1-13
1-3: Ascolta...
E' la prima parola della Regola ed e' uno dei temi principali della catechesi e della
spiritualita' monastica: l'ascolto di Dio attraverso
la sua Parola, mediata dal padre
spirituale. L'affettuoso invito ne richiama di simili nella Scrittura, sopratutto nei
Proverbi: "Ascolta,
figlio mio, gli insegnamenti di tuo padre" (Prov.1-8);
"Figlio mio, ascolta le mie parole e inclina l'orecchio a quel che dico"
(Prov.4,20); "Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio" (Sal.44.11). I monaci
antichi sentivano una certa predilezione per queste
forme dirette che creano
immediatamente un clima di intimita' tra maestro e discepolo, propizio al colloquio cuore
a cuore.
Come per l'obbedienza di Cristo tutta l'umanita' ritorno' a Dio da cui l'aveva staccata
la disobbedienza di Adamo (Rom.5,18-19),
cosi' tutta la perfezione cristiana, e quindi
anche quella monastica che e' un voler vivere piu' radicalmente il proprio battesimo,
viene concepita come un ritorno a Dio, da cui ci aveva allontanato il peccato; vedi la
parabola del "figliol prodigo" (lc 15,11-32).
Il tema del ritorno a Dio e' eminentemente biblico e comune nella tradizione
monastica. La stessa frase di S.B, c'e', quasi uguale,
in S.Cipriano e in S.Agostino.
3: Obbedienza - milizia.
Il monaco e' soldato di Cristo, allora la Regola gli offre le forti e gloriose armi
dell'obbedienza: forti per l'efficacia che posseggono
nel lavorio della perfezione;
"lucide" o "gloriose" per la nobilta' che conferiscono all'anima
davanti agli occhi di Dio: l'obbedienza
assomma l'intera donazione di se' al Padre celeste
in un perfetto atto di amore. S.B. ce la presenta fin dall'inizio con particolare
accento
di ammirazione e di gioia. Quindi, la vita monastica, vita di obbedienza, e' paragonata ad
una nobile e volontaria milizia
(cf.2Tim. 2,3-4: "lavora come un buon soldato di
Cristo Gesu'. Nessuno che militi per Dio..."), milizia che ha nel cenobio non una
caserma, ma una nobile palestra spirituale.
Chiunque tu sia.
Nel monastero c'e' posto per tutti, chiunque e' ammesso senza distinzione,
purche' sia disposto a questa totale obbedienza e alla
rinuncia alle proprie volonta'.
Il termine al plurale e' molto significativo: non si tratta della volonta' in senso
moderno, nel senso di
energia, ne' nel senso di facolta' spirituale (dell'amore, della
liberta' o del dono della propria persona). La Regola non vuole
trasformare il monaco in
un essere abulico, senza volonta' e senza personalita'. Si tratta qui delle volonta'
nel senso di velleita', di
impulsi peccaminosi, diremmo meglio in italiano
"voglie" che impediscono di ricevere la grazia battesimale. Difatti
l'espressione
"rinunciare alle proprie volonta'" e' propria del linguaggio
ecclesiastico e della liturgia del battesimo.
4-7: Innanzitutto...
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Senza la grazia divina e la nostra preghiera per procurarcela, l'opera della nostra
santificazione iniziata in noi da Dio col battesimo
quando ci ha resi suoi figli adottivi,
rimarrebbe frustrata e affliggerebbe il cuore del Signore.
Allusione alla parabola dei talenti (Mt.25,14-30); nota il contrasto tra "padre
corrucciato" e "padrone terribile".
8-13: Il resto della I.Parte del prologo contiene sviluppi delle idee precedenti con
cinque citazioni esplicite della S.Scrittura, alcune
di grande delicatezza, altre
risuonanti di vigore e di energia. Cosi' l'invito a svegliarci dal sonno, uno dei
moniti paolini che
possiedono l'efficacia di un perenne sprone alle anime; la Chiesa ce lo
fa leggere all'inizio della liturgia dell'Avvento, inizio
dell'anno liturgico.
8: la Scrittura ci sveglia
E' la voce del Signore che ci chiama, e' la luce divina a cui dobbiamo aprire
gli occhi dell'anima e ascoltare con orecchie
attentissime. Nota il parallelo tra
occhi e orecchi: qui S.B. ha in mente la scena degli apostoli che contemplano la gloria di
Cristo
trasfigurato e odono, come portati fuor di se', la voce del Padre.
2. - II.PARTE: vv.14-34
Composta da testi biblici sapientemente legati, questa scena della chiamata divina pone
in rilievo la gratuita' della vocazione:
l'iniziativa appartiene interamente a Dio,
a Cristo. La Scrittura ci esorta a svegliarci dal sonno, la luce splende, la voce chiama,
il
Signore cerca il suo operaio; all'uomo che apre gli occhi per vedere e gli orecchi del
cuore per ascoltare e compie la volonta' di
Dio e risponde generosamente, il Signore da la
ricompensa avendo i suoi occhi sempre su di lui, ascoltando le sue preghiere, anzi
prevenendo le sue invocazioni con una sollecitudine meravigliosa.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Pero' torna subito ad essere l'uomo pratico che va alla conclusione: se il Signore
stesso nella sua bonta' ci indica il cammino della
vita, cingiamoci i fianchi con la fede
e le buone opere e camminiamo sotto la guida del Vangelo. Questa espressione e'
diventata
proverbiale: la perfezione a cui tende la vita monastica non e', nella sua
essenza, diversa da quella proposta al semplice cristiano
in forza del battesimo, ma ne
costituisce il primo sviluppo e coronamento.
prospettiva escatologica
"... per meritare di vedere colui che ci ha chiamati nel suo regno" (1Tess
2,12): la prospettiva escatologica domina la finale di
questo brano sulla vocazione
personale: siamo chiamati al regno definitivo, situato oltre i confini di questo mondo
visibile.
22-34: Salmo 14
L'ultimo concetto del regno a cui Dio ci ha chiamati da lo spunto per il nuovo brano
sulla tenda del regno di Dio. Nomade tra
nomadi, Jahwe' aveva abitato in una tenda
come i figli di Israele; cosi' si parla della tenda di Jahwe' come dimora del regno.
"Abitare nella tenda del Signore" equivale a penetrare definitivamente nel regno
escatologico. S.B. cita allora il salmo 14,
considerato dalla tradizione patristica come espressione
della vocazione monastica che contiene i concetti di: ricerca di Dio,
cammino che
conduce alla sua dimora, qualita' richieste a chi vuole abitare nella sua tenda, ecc...
Davide chiede al Signore chi sia degno di abitare nel santuario del monte Sion, dove
abita lo stesso Dio; e nei versetti seguenti
S.B. immagina che Dio stesso risponda,
enumerando le doti dell'anima giusta.
S.B. continua l'elenco delle qualita' del giusto parlando della lotta contro il
maligno (v.29) e contro le tentazioni di superbia, qualora
si veda il bene nella
propria vita, perche' si riconosce che tutto e' opera della grazia (nuova insistenza sulla
necessita' della grazia,
vv.30-32). L'idea del giusto che spezza le azioni del
tentatore porta S.B. ad introdurre l'altra idea del giusto che stronca contro la
pietra
che e' Cristo (1Cor 10.4) i cattivi pensieri appena nati. E` l'interpretazione
simbolica del salmo 136,9: "beato chi afferrera` i
tuoi piccoli e li sbattera` contro
la pietra" che troviamo in S.Agostino, S.Girolamo, S.Ambrogio ecc.
Le citazioni del salterio e dell'apostolo vengono concluse con quella del Vangelo: la
parola di Cristo mette il suggello a quanto
detto prima. E' la conclusione del discorso
della montagna (Mt 7,24-25) che viene applicata alla vita monastica: il monaco,
ascoltando
la parola di Cristo e mettendola in pratica, si va costruendo giorno per giorno l'edificio
della santita'; le pioggie, i fiumi, i
venti sono tentazioni, ostacoli, dubbi, avvilimenti
che sopravvengono a minacciare l'opera della santificazione monastica, ma non
le
nuoceranno perche' e` fondata sulla roccia, che e` in definitiva lo stesso Cristo
Gesu` (1Cor 10,4).
3. - III.PARTE: vv.35-44
Al termine delle sue parole, il Signore aspetta che rispondiamo alle sue esortazioni.
La tregua di questa vita ci vien data per
correggerci dalle nostre infedelta' (v.36); la pazienza
di Dio ci chiama a conversione (vv.37-38); la vocazione a dimorare nella
tenda di Dio
richiede che pratichiamo le condizioni di chi voglia abitarvi (v.39); percio` dobbiamo
disporre corpo e anima a militare
sotto i precetti della santa obbedienza (v.40).
Si ritorna al concetto iniziale del prologo: il monaco e` colui che dedica spirito e
corpo
totalmente al servizio di Dio, militando con le armi dell'obbedienza.
S.B. ricorda la necessita' della grazia - si noti l'insistenza con cui insiste su
questa idea, contro l'eresia dei pelagiani - e ricorda le
due vie (inferno - vita eterna, v.42) a cui dobbiamo pensare mentre siamo in questo corpo, mediante questa vita nella luce (v.43).
C'e' l'allusione al testo gia' citato di Gv. 12,35: "questa vita
di luce", che e' dire lo stesso che "questa vita in cui abbiamo ancora la
luce", prima cioe` che "ci colgano le tenebre della morte". Ma si pensi
come, in senso piu` profondo e spirituale, la vita del
monastero e` una vita di luce.
S.B. termina col vigoroso incitamento del currendum et agendum, che ci sprona
all'alacrita` dell'azione. L'abbattimento, la sfiducia
e l'inerzia che possono sorprendere
la nostra debolezza svaniscono quando si ricordano queste parole, energiche e insieme
paterne, del santo Patriarca.
http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
4. - IV.PARTE: vv.45-50
Inoltre, il servizio del funzionario e soprattutto del soldato non avviene senza lotta,
senza fatica, senza pericoli; militare implica non
solamente l'azione ma
anche la pena e la sofferenza, concetti che saranno espressi poco piu' avanti (v.50) come partecipazione
alle sofferenze di Cristo per mezzo della pazienza. Questo tema della pazienza
avra' poi uno sviluppo meraviglioso nei capitoli
sull'obbedienza (RB 5) e sull'umilta` (RB
7).
Ci appare cosi` tutta la ricchezza del termine schola, che e` anche palestra e
corpo militare e officina (RB 4) e ci richiama volta per
volta:
- o la docilita` dell'allievo,
cosi` ci permette di avere sempre presente la persona di Cristo sotto tre aspetti
complementari: il Maestro che insegna, il Sovrano
che comanda, il Redentore
sulla croce.
Questi versetti sono propri di S.B. e indicano la delicatezza e il tono paterno nel
disporre l'animo all'accettazione del sacrificio e
nel prevenirlo contro ogni tentazione
di scoraggiamento. L'ordinamento del monastero - milizia, officina, scuola - comporta
necessariamente prescrizioni e divieti; egli si affretta ad avvertire che spera di non
dover fissare nulla di pesante o di aspro: e` il
suo proverbiale senso umano e
cristiano di comprensione e di condiscendenza verso le debolezze che troveremo sempre in
tutta
la Regola.
http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Tuttavia nel salmo il cuore allargato indica aumento di forza e di coraggio; nella
nostra Regola invece e` attribuito all'amore; S.B.
aggiunge: in una ineffabile dolcezza
di amore, ponendo nella frase un accento mistico e soave di chi ha fatto esperienza
personale di Dio e ne ha gustato la dolcezza. Quindi S.B. attribuisce la dilatazione del
cuore all'intensita` dell'amore, quell'amore
che secondo S.Paolo "e` stato riversato
nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci e` stato dato" (Rom 5,5). Il
testo della
Regola piu` simile a questo e` la bella finale del capitolo sull'umilta` (RB
7,67-70), in cui si attribuisce allo Spirito Santo la radicale
trasformazione che
esperimenta il monaco giunto alla sommita` della scala di Giacobbe, cioe` alla carita`
perfetta.
Nel testo c'e` il termine conversatio che puo` derivare o dal verbo intransitivo
"conversari" e significa "modo, tenore di vita,
condotta"; oppure dal
verbo transitivo "conversare" (da "convertire") nel senso di
"rivoltare, rigirare", e allora equivale a
"conversio". Come termine
specifico monastico puo` quindi significare, oltre il semplice "modo di vivere",
anche l'entrata o la
dimora in monastero, l'appartenenza allo stato
monastico, oppure, in senso piu` limitato, la "vita ascetica nello stato
monastico";
infine, come equivalente a "conversio", significa la
conversione, il mutamento di vita. Nella Regola incontriamo ora l'uno ora l'altro
di
questi significati. Qui S.B., come appare dal contesto, intende parlare dell'esercizio
delle virtu` nello stato monastico.
Si viene al monastero per un atto di fede e piu` si va avanti nella via di Dio, piu` la
fede si radica nell'anima.
50: conclusione
La conclusione del prologo ha la forma di una doppia orazione finale con vari incisi.
Appare per la prima volta la parola
"monastero" non nel significato primitivo di
"dimora di un solitario", ma nel senso che ha assunto abitualmente nel mondo
latino di
"dimora di una comunita' di monaci cenobiti"; e nel monastero - ci si
dice - dobbiamo perseverare fino alla morte. La stabilita' e`
considerata dal santo
Patriarca come elemento essenziale della vita monastica che egli imposta; difatti la
Regola e` scritta solo
per i cenobiti, come dira` espressamente alla fine del capitolo
primo. Quale debba essere la vita dei monaci nel monastero sara` il
tema dei vari
capitoli; qui solamente ci ricorda di non allontanarci mai dagli insegnamenti del Signore
e di mantenerci saldi nella
sua dottrina; e conclude affermando lo scopo della vita
monastica, che e` poi lo stesso di tutta la vita cristiana: partecipare alle
sofferenze
di Cristo per partecipare anche al suo regno glorioso.
http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
STABILITA` e CORSA
""Il salire si attua restando fermi e c'e` una ragione: piu` uno rimane fermo
e immobile nel bene, piu` corre verso la virtu`. Quando
uno, come dice il salmo (39,3)
ritrae i piedi dalla profondita` dell'abisso e li pone sulla roccia che e` Cristo (cf.1Cor
10,5), allora
quanto piu` e` stabile nel bene, tanto piu` accelera la sua corsa. Come se,
nella stabilita`, egli sia fornito di ali che sollevano al
volo il suo cuore verso gli
spazi celesti"".
CAPITOLO 73
Che non tutte le norme per la perfezione sono contenute in questa Regola.
De hoc quod non omnis justitiae observatio in hac sit Regula constituta.
Premessa e contenuto
Trattiamo questo capitolo subito dopo il prologo, perche' esso costituisce l'epilogo
della RB e corrisponde percio' al prologo, col
quale presenta molte analogie.
Giunto alla fine della Regola, SB afferma che quanto ha stabilito costituisce soltanto
un modesto inizio di vita monastica per
principianti (v,1); che chi vorra' compiere
ulteriori e piu` sicuri progressi nell'ascesi monastica non avra` che da rivolgersi agli
insegnamenti spirituali contenuti nella S.Scrittura e nei Padri (vv.2-7); e termina con
una esortazione ad osservare la Regola come
base necessaria per arrivare, attraverso le
opere indicate, alla conquista di mete spirituali piu` alte (vv.8-9).
http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Secondo gli antichi romani, honestas morum - onesta` di costumi conteneva il concetto di bonmta`, di giustizia; qui, nel contesto
monastico, come per Cassiano e gli altri Padri del monachesimo, il temine comprende quanto contenuto nella Regola: la vita
religiosa, la preghiera continua, l'umilta`, l'obbedienza, ecc. Ma nonostante questa
ricchezza di contenuto, rappresenta sempre
"un inizio di vita monastica - initium
conversationis" per coloro che vogliono arrivare alla cima della vita spirituale.
(Del resto, la
perfezione e' un dono che Dio concede e opera in ciascuno in modo personale
e irripetibile).
Nel v.2 SB, come nel prologo, sprona anche qui all'alacrita` della corsa; nella
vita dello Spirito egli non vuole solo il progresso, ma
anche la lena generosa. La sua
Regola vuole adattarsi alle debolezze e rendersi accessibile anche ai meno forti; ma
insieme apre
la via alle piu` eccelse vette della santita`. Nel v.1 ha detto:
"initium conversationis - inizio di vita monastica"; qui dice: "ad
perfectionem conversationis - la perfezione della vita monastica" e, per salire alla
perfezione della vita religiosa, altre guide - egli
dice - sono necessarie.
3: ...la S.Scrittura...
Pero`, dopo questo primo accenno ai Padri, SB sente la necessita` di dire una nuova
parola sulla S.Scrittura. Appare qui la sua
venerazione e il suo amore per i libri
sacri: sono la parola di Dio e il monaco, come ogni cristiano, non puo` certo trovare
nutrimento piu` sano e piu` solido per la sua anima. SB rivela in tutto il corso della
Regola come la Scrittura gli sia familiare, e i
suoi figli lungo i secoli hanno fatto
sempre di essa il pascolo preferito. E dobbiamo dire che tante deviazioni "nella
devozione si
sarebbero potute evitare se la parola della S.Scrittura fosse stata il
continuo nutrimento dell'anima dei fedeli!" (A.Stolz). E ci
sarebbe molto piu` di
santita` e anche di pace e di giustizia sociale, se ci fosse nel mondo un po' piu` di
Vangelo!
Si noti come in questo capitolo SB assegni a ciascuna categoria uno scopo determinato:
la S.Scrittura e` "norma sicura di
condotta per la nostra vita" (v.3); le opere
dei Padri in generale conducono "al culmine della santita`" (v.2); quelle dei
Padri della
Chiesa ci insegnano "la via diritta per giungere al nostro Creatore"
(v.4); gli autori monastici servono per formare "monaci fervorosi
e obbedienti"
(vv.5-6). Non e` superfluo quindi sottolineare l'eccezionale importanza che SB da alla
lettura, tanto da unirla cosi`
intimamente al progresso morale e spirituale del
monaco; la lectio divina - Bibbia e Padri - offre al monaco le norme superiori e
l'impulso per scalare la cima della perfezione.
Abbiamo il contrasto tra i precedenti monaci buoni e obbedienti, che ardono dalla brama
di avanzare e attingono percio` a tutte le
fonti indicate, e noi che ci trasciniamo nella
pigrizia. E' un tema caro a S.Benedetto (cf.Rb 18,24;40,6;49,1) che ammira l'esempio
dello
straordinario fervore di preghiera e di mortificazione degli antichi monaci e, mentre con
realismo ammette che non tutti di
fatto sono imitabili al suo tempo e nel suo ambiente,
calca la mano, qui specialmente, sulla distanza spirituale che separa lui e i
suoi da
quelli, per spronare all'alacrita' e all'ardore della virtu`.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
SB, lo sappiamo bene, non e` un idealista, ma un uomo pratico secondo Gesu` Cristo:
indica le vette e mostra i mezzi per
arrivarci. Pero` insiste che la cosa immediata da
fare ora e` mettere in pratica "questa Regola cosi` modesta per principianti,
appena
delineata" (v.8). Anzitutto, cioe`, e` necessario "almeno dar prova di buoni
costumi e di un inizio di vita monastica" (v.1);
poi si potra` e si dovra` correre,
senza fermarsi mai, con l'aiuto delle dottrine menzionate sopra. Tra il principio della
vita
monastica e la sua perfezione si estende uno spazione senza limite.
Prospettiva escatologica
Ritorno a Dio
Questa immagine del ritorno anelante che caratterizza il dinamismo della RB richiama
spontaneamente il concetto del ritorno a
Dio che spicca con tanto rilievo nella
prima frase del prologo (v.2). Tuttavia le ultime parole si riferiscono con precisione non
"alla
patria celeste" ma alla anticipazione delle realta` escatologiche che si
realizza, o almeno che si cerca di realizzare, nei monasteri.
Le "eccelse vette di
dottrine e di virtu` (v.9) in effetti si raggiungono in questo mondo presente. Per queste
sante cime passa il
cammino che conduce il monaco alla sua dimora eterna: la patria
celeste. Fino a queste cime intanto si dirige come obiettivo
immediato colui che si mette
al servizio di Cristo Re sotto la Regola di S.Benedetto.
Allora, metti in pratica "con l'aiuto di Cristo questa piccola Regola fatta per
principianti - dice il santo Patriarca - e arriverai "con la
protezione di Dio",
alla perfezione della vita monastica. In questa ultima apparizione cosi` emozionata ed
emozionante,
l'affermazione di SB risulta singolarmente ferma e solenne. Due verbi
risaltano nel testo: uno all'imperativo perfice (metti in
pratica), alla fine del
v.8, e un altro al futuro pervenies (giungerai), alla fine del v.9; metti in
pratica la Regola e giungerai alle vette.
"Pervenies - giungerai" e` alla fine
del capitolo, quasi come un traguardo e aggiunge, a ratificare e a dare la
certezza: Amen. Cosi`
finisce la Regola di S.Benedetto.
CAPITOLO 1
De generibus monachorum
2. Nell'Antico Testamento
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Non mancano elementi "monastici" neppure nella vita e nella dottrina dei
filosofi classici, in particolare i pitagorici.
4. Nel cristianesimo
5. Nel IV secolo
Nel IV secolo, terminata l'era delle persecuzioni, all'inizio della liberta` della
chiesa, il movimento monastico assume uno sviluppo
enorme, e cio` senza dubbio fu causato
dall'ondata di profano e di mediocre che era penetrata nella chiesa. Infatti uno dei
luoghi
comuni del monachesimo primitivo era il richiamo continuo e l'entusiasmo ammirato
verso la prima comunita` di Gerusalemme; e
in realta` i monaci si considerarono
come gli eredi e i continuatori di quella comunita` ideale. Cassiano lancio` la teoria che
i
cenobiti erano i discendenti in linea retta, per una successione ininterrotta, di quei
primi credenti, i quali "stavano insieme e
tenevano ogni cosa in comune; chi aveva
proprieta` e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di
ciascuno" (Atti 2,44-45) e "avevano un cuore solo e un'anima sola" (Atti
4,32).
... in S.Benedetto...
...oggi.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
S.Benedetto da come cosa risaputa che le specie dei monaci sono quattro , contando
anche quelle dei falsi. Usa cioe` un cliche`
tradizionale gia` definito da oltre un
secolo. S.Girolamo, parlando dei monaci egiziani, enumera tre specie"
cenobiti, anacoreti e
"remnuot" (sarabaiti); Cassiano ne enumera quattro:
cenobiti, anacoreti, sarabaiti e falso anacoreti che erano usciti dai cenobi. SB
e`
d'accordo con ambedue riguardo alle prime tre categorie, ma unisce i falsi anacoreti (di
Cassiano) alla terza categoria (i
sarabaiti) e aggiunge la quarta dei girovaghi,
meno sviluppata ai tempi di Girolamo e di Cassiano, ma ricordata da Agostino.
La prima specie e` quella dei cenobiti, coloro che vivono in monastero, cioe`
insieme. "Cenobita" - in Cassiano "cenobiota" - viene
dal greco
"koinos" = comune e "bios" = vita. E` la prima specia anche per
Cassiano, non tanto forse nella valutazione (Cassiano, e
anche SB, probabilmente, hanno
una stima superiore della vita eremitica), ma sopratutto perche` ritenuta piu` adatta e
piu` sicura
per la maggioranza degli uomini; prima anche cronologicamente perche' - dice
Cassiano - ebbe i suoi inizi nella comunita`
apostolica di Gerusalemme. Quando la maggior
parte dei monaci abbracciarono la vita comune, il termine "cenobita" e
"cenobio"
furono usati piu` raramente e furono sostituiti da "monaco"
e "monastero".
Per il verbo "militando", vedi il concetto della vita monastica come milizia
nel commento al prologo (Prol 3,40, 45 incluso nel
concetto di "schola").Il
cenobitisno si basa su due colonne: la Regola e l'abate. La prima, la
Regola, e` una legge scritta costituita
da usanze tradizionali, la "disciplina
coenobiorum" di cui parla Cassiano, tramandata oralmente e poi fissata nello scritto;
ha il
carattere di stabilita` e di autorita`; la mancanza di essa e` un pericolo per gli
eremiti che non siano ben formati e la causa
principale della cattiva condotta dei
sarabaiti e girovaghi. La seconda colonna, l'abate, e` la regola vivente, una
persona costituita
in autorita` che interpreta la legge scritta.
La RB non distingue tra i due nomi. Essi formano, come per S.Girolamo e per Cassiano,
la seconda specie. "Anacoreta" viene dal
greco <ana>, che significa
lontananza e <koreo>, che significa abitare e percio` significa "colui che vive
in disparte"; "eremita"
viene dal greco <eremos>, che significa luogo
deserto. Praticamente i due termini sono sinonimi, anche se anacoreta si riserva
per i
grandi asceti del deserto. SB spiega chi sono questi eremiti. Vissuto da solo per tre anni
nello speco sublacense, egli sa per
esperienza i pericoli di quella vita che in se stessa
e` di alta perfezione.
La vita eremitica
L'idea della lotta, il tema della milizia cristiana domina in questo versetti: il
monastero e considerato come una specie di
accademia militare dove si debbono formare le
unita` speciali degli anacoreti. La comunita` dei fratelli e` come un esercito in
combattimento attivo e continuo contro il demonio; i cenobiti si aiutano l'un l'altro come
buoni compagni d'armi. Gli eremiti escono
dalle loro file ben addestrati o equipaggiati o
armati (tali sono i significati attribuibili al termine "instructi") per il
combattimento
individuale nella vita del deserto. Quali nemici speciali dei solitari si
citano i pensieri: e` noto quanto gli eremiti dell'oriente
dovettero lottare contro i
pensieri, ed e` chiaro che questo e` un pericolo molto piu` grave per un eremita privo
com'e`, a differenza
del cenobita, del sostegno dei fratelli e dei superiori. Allettamenti
della carne: altro genere di lotta frequentissima presso i solitari;
si ricordino le
tentazioni di Antonio nel deserto e la lotta di SB a Subiaco (Dial.II, c.2).
Dopo tanta insistenza sulla ormai acquisita sufficienza a combattere da soli, era
necessaria questa aggiunta contro il pericolo di
presunzione di sapore pelagiano; della
necessita` della grazia SB e` convinto e la richiama ad ogni occasione.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
con la tonsura
La tonsura, o taglio dei capelli, fu, fin dai primi secoli, un segno distintivo,
benche` ancora non esclusivo, dei chierici e dei monaci.
Da principio significava solo
portare i capelli corti. Ma almeno fin dal sec.VI, e` in uso anche la "corona"
di capelli lasciata sulla
testa rasata; ma probabilmente i monaci usarono a lungo quella
primitiva e a questa forse pensa SB. I preti diocesani usarono da
molto tempo, fino a poco
fa, la tonsura ridotta a un piccolo cerchio rasato al vertice del capo (volgarmente la
"chierica" perche`
con la prima tonsura si entrava a far parte del clero).
Presso i monaci e gli altri religiosi sono state varie fino ai tempi recentile
fogge della
tonsura; presso i benedettini italiani, per es., essa consisteva in una sottile linea che
incideva i capelli in senso
orizzontale (la "corona"). La tonsura ha voluto
sempre significare una speciale appartenenza a Dio e, specialmente per i monaci,
la
rinuncia alle vanita` del mondo. Cio` spiega ancor meglio l'espressione di SB.
E' la frase di S.Girolamo e di Cassiano; gruppetti quindi molto esigui dove non si
poteva svolgere una vita seriamente regolare e
dove era facile mettersi d'accordo per
seguire i propri comodi.
E' il caso dei falsi eremiti che SB raggruppa qui, mentre Cassiano ne fa la quarta
specie di monaci. Non solamente sono senza
Regola, ma anche senza un capo, appunto
l'opposto dei cenobiti, che "militano sotto una regola e un abate" (v.2).
SB, pur trattando male questo sarabaiti, usa pero` una certa moderazione nella sua
critica e solo in questa ultima parte mostra il
ridicolo del loro criterio di vita (v.9).
S.Girolamo e Cassiano sono molto piu` duri e si dilungano nel bollare a fuoco e
ridicolizzare
questi monaci.
Tuttavia, sia detto tra parentesi, ci si potrebbe porre il dubbio se questa critica non
sia esagerata o ingiusta, per lo meno nel
generalizzare in un modo cosi` assoluto.
Partendo dal cenobitismo ad oltranza, S.Girolamo e Cassiano mettono in ridicolo e
criticano tutti quelli che non vivono secondo quelle leggi. Certamente, il monachesimo
libero e vario che fioriva un po' dappertutto,
poteva dar luogo ad abusi e sicuramente ne
dava; certamente, molti di quei monaci erano ipocriti, Ma condannare in blocco tutta
una
maniera diversa di servire Dio nell'ascetismo, e` un'altra cosa.
In realta' pare che i sarabaiti non erano quelli che Cassiano (e SB) fanno apparire
come cenobiti degenerati e rinnegati, ma la
sopravvivenza, la naturale evoluzione
dell'ascetismo premonastico, come e` provato da molti testi dei secoli IV e V. Non perche`
il
cenobitismo stretto offre maggiori garanzie di andare a Dio, almeno teoricamente, si
debbono disprezzare, in modo generale e
assoluto, le altre specie di monaci (Colombas).
Questa quarta specie e' considerata la peggiore da SB. "Girovaghi" viene dal
greco <ghiros> = giro e dal latino <vagus> = vagare.
S.Agostino li chiama
"cicumcelliones", cioe` vaganti di cella in cella. SB bolla a fuoco questi
vagabondi; l'intera vita la passano
cosi`: sono la scrocconeria e la fannullaggine
divenuta sistema, schiavi dei propri capricci (e` chiaro che non si sarebbero mai
adattati
a vivere sotto un abate!) e della propria golosita` (e` l'aspetto piu` degradante della
loro vita). La RM indugia a lungo (ben
62 versetti) a descrivere i costumi e le arti degli
ingordi girovaghi, ma con tono caricaturale e particolari esagerati, anche se
pittoreschi,
al cui confronto spicca la gravita` e la sobrieta` di SB.
E anche qui si potrebbe fare l'osservazione, almeno come dubbio, fatta sopra per i
sarabaiti. In realta` questi monaci chiamati
girovaghi hanno una tradizione degna di tutto
rispetto: il cosiddetto monachesimo itinerante che risale alle origini stesse della
Chiesa. Effettivamente esisteva nella Chiesa primitiva una categoria speciale di cristiani
i quali, senza patria, senza casa,
viaggiava di citta` in citta` compiendo l'ufficio di
predicatori ambulanti. Man mano poi che le comunita` crstiane si consolidarono
intorno ai
vescovi stabili, questa classe di predicatori perse la sua ragion d'essere. Tuttavia
alcuni continuarono questa vita
errabonda non come predicatori del vangelo, ma per motivi
ascetici. Questa pare l'origine dei girovaghi cosi` strapazzati in RM e
RB, monaci che
volevano prendere sul serio l'imitazione di Gesu` Cristo il quale "non aveva dove
posare il capo" (Lc 9,58); soli o
in piccoli gruppi praticavano la piu` stretta
poverta`, vivevano di cio` che davano loro o dei frutti che trovavano nelle campagne,
passavano la notte in rifugi di fortuna o all'addiaccio e ritenevano un titolo di gloria
essere chiamati vagabondi o pazzi. La curiosa
storia di uno di questi monaci antichi si
puo` leggere nella "Storia Lausiaca" di Palladio, c.37. (Colombas).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
SB si ferma solo alla prima specie. E` chiaro che esclude la terza e la quarta.
Ma che dire degli eremiti? Senza dubbia e` una
categoria legittima; ma SB la considera
superiore o inferiore ai cenobiti? La questione e` dibattuta. Certamente, ispirandosi come
fa a Cassiano, SB dovrebbe ritenere l'opinione comune secondo cui la vita ancoretica
rappresenta la realizzzazione piu` perfetta
dello stato monastico; pero` non la ritiene la
via piu` comune e sopratutto non adatta alla maggior parte degli uomini.
Iniziando la grande opera dell'organizzazione della vita del cenobio nei suoi elementi
costitutivi, ascetici e disciplinari, SB si
richiama all'aiuto do Dio, come ha
raccomandato di fare al discepolo prima di iniziare qualunque opera buona (cf.Prol.4)
CAPITOLO 2
Preliminari
Tuttavia, dell'abate si parla in quasi tutta la Regola per l'importanza del ruolo come
lo concepisce SB, sopratutto nella "sezione
disciplinare". E` l'abate che
sceglie il priore e il cellerario (RB 65,11; 31,1) e forse anche i decani (RB 21,1); che
si prende cura
degli scomunicati (RB 27-28) ed eventualmente puo` cacciare un monaco
recalcitrante (RB 28,6). All'abate sono affidati la
responsabilita` dell'amministrazione,
gli uffici piu` importanti nella liturgia; egli puo` cambiare l'ordine dei posti e la
misura dei cibi e
delle bevande. A noi interessa sopratutto la figura dell'abate come SB
la propone e come e` vista nella prospettiva di oggi.
Dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, la questione dell'abate e` stata molto discussa
e studiata, specialmente a causa della crisi
in cui si e` trovata la figura del superiore
nelle comunita` religiose. Le cause sono varie:
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Oltre a queste immagini piu` antiche che possono aver contribuito a formare la figura
dell'abate nella RB, ce ne sono tante altre
formatesi lungo i secoli, per esempio: l'abate-signorotto
del medioevo, l'abate-garante dell'obbedienza in senso strettamente
giuridico e l'abate-padre
della famiglia monastica. Tutto questo ci aiuta ad approfondire il senso dei capitoli
sull'abate.
RB.2 e RB.64 presentano un proprio "genere letterario" che potremmo definire del
pastore o della esortazione al buon governo e
che si trova in numerosi altri scritti,
ad esempio:
La prima parte del capitolo 2 attira tutta l'attenzione sul titolo di abate, di
cui RB e RM vogliono dare tutto un programma di vita. Il
nome, quando lo utilizzava SB,
aveva ormai una storia lunga, monastica e premonastica.
1: il termine "abate"
Agli inzi del monachesimo si comincio` ad usare tra i monaci la parola abba` (in
Egitto <apa`> in copto) senza alcun riferimento a
potere di governo; si dava a
monaci venerando non come puro titolo onorifico, ma come a veri padri spirituali,
persone attraverso
le quali si esercitava la parternita` di Dio nel deserto;
<apa-abba> non l'uomo che governava in monastero, ma solo il monaco che era
arrivato alla perfezione ed era ripieno dello
Spirito di Dio, che possedeva il discernimento
degli spiriti, la scienza spirituale, era capace di pronunciare parole di
salvezza
ispirate dallo Spirito Santo, capace di generare figli secondo lo Spirito,
fino a formare in loro monaci perfetti e futuri "padri
spirituali". E`
l'immagine piu` comune negli Apoftegmi e in Cassiano, come gia` detto sopra
(nei preliminari di questo capitolo).
Pero`, come si sa, le parole si evolvono con l'uso e cambiano di senso; piano piano
"abba" si trasforma in puro titolo onorifico o
titolo di governo;
il suo significato tecnico, caratteristico e pregnante di "padre spirituale", di
"anziano" che guida le anime ando`
man mano sfumando. In occidente il termine
"abbas-abate" si impose sugli altri - "padre", "preposito",
"maggiore" - con cui si
designava il superiore di una comunita` monastica; nel
secolo VI era la parola maggiormente usata e in tal senso la troviamo in
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
RB e RM.
Responsabilita` dell'abate
SB vuole che l'abate stesso per primo sia consapevole di cio` che comporta il suo
nome e sin dall'inizio si appella al suo senso di
responsabilita`: "deve
realizzare con i fatti il nome di superiore". Se dunque il termine di abate nella RB
non richiama il concetto di
uomo carismatico, anziano, che comunica lo Spirito ai monaci,
tuttavia acquista un nuovo e profondo significato: l'abate fa in
monastero le veci di
Cristo, e di questo ne siamo convinti per fede. E` il grande principio fondamentale -
non si tratta di una
opinione, di una pia credenza, ma e` materia di fede - che e`
divenuto nella RB la definizione dell'abate.
L'abate secondo la RM
Che cosa significa che l'abate fa le veci di Cristo nel monastero? La formula e` una
sintesi della dottrina esposta a lungo nella RM
e di cui restano solo poche tracce in SB.
Il succo della RM e` questo: l'abate esercita una funzione analoga a quella del vescovo
e
appartiene come lui alla categoria dei "dottori", cioe` di quei ministri posti
da Cristo a capo della Chiesa dopo gli "apostoli" e i
"profeti"
(1Cor.12,28); come il vescovo governa la Chiesa, cosi` l'abate governa solamente una
"schola" di Cristo, cioe` il
monastero; come il vescovo e` assistito da
presbiteri, diaconi e chierici, cosi` l'abate si fa coadiuvare da "prepositi" (decani
nella
RB). Questo parallelo tra superiori ecclesiastici e monastici era comune nei testi
del secolo VI (cosi` a proposito delle comunia`
pacomiane, cosi` in Cassiano, ecc.) e si
appoggiava sui medesimi testi scritturistici: "Pasci le mie pecorelle..."
(Gv.21,17); "Chi
ascolta voi, ascolta me" (Lc.10,16).
Abate-dottore
Questa dunque la concezione dell'abate nella RM. SB, nella sua concisione, conserva
la sostanza di questa dottrina, pur con
modifiche e particolarita` proprie, frutto di
una diretta e sofferta esperienza in questo campo. Ma torniamo al testo.
SB, cioe`, prova che il superiore fa le veci di Cristo dal fatto che e` chiamato con il
suo stesso nome: "abba-padre'. Al lettore
moderno suona molto strano il fatto che Cristo
e` chiamato "Padre"; e i commentatori hanno cercato di interpretare questo
passo
che e` uno dei piu` studiati di tutta la Regola (c'e` una bibliografia
abbondantissima): grazie a questi numerosi contributi, si sono
trovati molti testi di
epoca patristica in cui Cristo viene designato come Padre; attraverso Giustino, Clemente
Alessandrino,
Origene, Atanasio, Agostino, Evagrio Pontico, Cesario di Arles e molti
altri, abbiamo la certezza che la dottrina della paternita` di
Cristo e` molto
antica, piuttosto comune, tradizionale e ortodossa.
Notiamo che la RB e` piu` cauta che la RM (in cui nel prologo c'e` il lungo commento al
"Padre Nostro" come preghiera diretta a
Cristo), pero` anche qui appare Cristo
come Padre adottivo dei monaci e questa paternita` fonda la sua autorita` su di loro,
come
quella dell'abate suo vicario.
Potremmo dire che dando a Cristo il nome di Padre, SB vuole reagire contro la
tendenza ariana di considerare il Figlio come
inferiore al Padre. Nello sforzo di
salvaguardare la divinita` del Signore Gesu`, troviamo la ragione per cui e` messa in
ombra la
considerazione di Cristo come "Fratello", per cui la cristologia di SB
risulta un po` unilaterale, mentre si e` notata la sua devozione
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Abate - maestro
Come maestro, l'abate dovra` render conto non solo della sua dottrina,
ma anche della condotta dei discepoli. Il che
evidentemente non esime costoro dal
giudizio divino, come invece pretende la RM (per lo meno in tre passi: RM1,87.90-92;
2,35-
38; 7,53-56: con questo ragionamento i monaci non debbono fare altro che obbedire
all'abate e su quest'ultimo ricade tutta la
responsabilita` dei loro atti). Nella RB non
c'e` riferimento alcuno a questa strana teoria che fa dei monaci degli
"irresponsabili"
eterni "minorenni". Tuttavia l'abate e` responsabile
dei monaci.
L'abate - pastore
SB ricorda poi un principio di somma importanza che i monaci antichi non cessavano di
inculcare: la dottrina del maestro deve
essere duplice, cioe` teorica e pratica,
l'abate deve insegnare piu` con l'esempio che con la parola (ricordare che di Gesu` Luca
dice: "coepit facere et docere - fece ed insegno`" (Atti 1,1). E subito aggiunge
un chiarimento: per i piu` intelligenti ed evoluti
basteranno anche le sole parole, ma per
i piu` duri e incolti occorre anzitutto l'esempio:
- discepoli capaci: sono quelli che per innata o acquisita finezza di intelletto
e di cuore e per l'energia di volonta` sanno
comprendere e seguire presto l'insegnamento
del maestro.
- duri di cuore: frase biblica (Is.46,12 ecc.) che qui significa "quelli
che stentano a capire e ad eseguire".
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
"Affinche` mentre predica agli altri, non sia trovato riprovevole proprio
lui": applicazione del testo paolino di 1Cor.9,27. SB, che
concede all'abate tanto
potere, non esita a ricordargli gravemente che anche lui e` soggetto alla legge di Dio e
alla Regola, e la
discordanza tra l'insegnamento e la vita sarebbe molto grave, e lo
renderebbe oggetto di un piu` severo giudizio da parte di Dio,
come dice nei versetti
seguenti con due citazioni scritturistiche, una del VT (salmo 49,16-17) e una del Vangelo
(Mt.7,3).
16-22: a) imparzialita`...
L'abate non deve, nei confronti dei suoi monaci, avere o mostrare preferenze personali, basate sulla nascita, sulla posizione
sociale, sulla naturale simpatia, sulla parentela o
su altri motivi umani, perche` in Cristo tutti siamo uguali (Gal.3,28) e non vi e`
preferenza di persone presso Dio (ef.6,8). L'unico criterio per le preferenze di Dio e` la
maggiore bonta` e la maggiore umilta`; e
solo di questo genere e` l'eccezione che puo`
fare l'abate (v.17), non commette ingiustizia preferendo i piu` obbedienti.
- esorta, vale per gli obbedienti, i miti, i pazienti, i monaci docili ai quali
basta una leggera parola di approvazione o di conforto
perche` proseguano nella virtu`;
L'altra parte di questo tema precisa con piu` esattezza il modo della correzione:
questa deve essere immediata ed effettiva; l'abate
non deve chiudere gli occhi sulle
mancanze abituali e sugli abusi dei monaci inosservanti: correrebbe il rischio di cadere
nello
sdegno di Dio come avvenne a Heli sacerdote di Silo (1Sam.2-4 passim) il quale
rimproverava i figli Cofni e Pincas che davano
scandalo, ma non li correggeva
efficacemente: Dio puni` tutti e tre con la morte. Per questo, ai piu` delicati e
comprensivi, bastera`
l'ammonizione a parole, una o piu` volte, ma agli ostinati si
applichera` subito il castigo corporale.
Qualche lettore di oggi potrebbe rimanere colpito da questo ricorso alle battiture.
Ma si pensi che sono passati 14 secoli e i
costumi sono cambiati. A quel tempo la pratica
delle battiture era comune anche per i monaci e chierici, si ricorreva ad essa o per
colpe
molto gravi o quando l'eta` e la rozzezza rendevano inefficaci le pene spirituali. Inoltre
SB pensava anche ai fanciulli che
vivevano nel cenobio: per loro - e per qualche adulto da
considerare come un grosso bambino - egli riteneva, secondo la Scrittura
e la tradizione
romana e monastica, che l'educazione severa comprendente anche sanzioni corporali, fosse
necessaria a
temperare caratteri forti.
Regere animas, governare anime: tre volte (v.31, 34, 37) appare
l'espressione per ricordare che cio` costituisce senza dubbio
l'incarico essenziale, il
piu` delicato e il piu` arduo; "guidare le anime" significa "adattarsi a
temperamenti molto diversi", che nel
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Autorita` come servizio: oggi sopratutto, nella Chiesa, su questo si insiste molto.
L'abate deve donarsi tutto a vantaggio della
comunita`, allora si conformera` alla varia
indole dei suoi monaci; questa disponibilita` non solo gli evitera` la perdita di qualche
pecorella (fu anche la preoccupazione di Gesu`, cf.Giov.17,12), ma gli dara` la
soddisfazione di vedere crescere in merito e in
numero il proprio gregge.
Pastore di anime, l'abate dedichera` ad esse il meglio delle sue energie e delle
sue qualita` e non si preoccupera` troppo delle
cose transitorie, terrene e caduche
(v.33): si noti l'accumularsi di epiteti per indicare l'inconsistenza e la provvisorieta`
degli
interessi materiali, in confronte del bene delle anime che deve essere al centro dei
pensieri dell'abate (v.34). Che cosa importa la
eventuale scarsezza di beni materiali?
Abbia fede nella Provvidenza: vengono addotte due citazioni, una del Vangelo (Mt.6,33,
"cercate prima...", la notissima sentenza di Gesu` che e' valida per tutti i
cristiani, tanto piu` lo e` per i monaci che cercano
esclusivamente il Regno di Dio), e
una del Salmo 33,11: "nulla manca a chi teme Dio".
SB termina il capitolo secondo con espressioni - uguali nella RM - che insistono ancora
una volta sul rendiconto che l'abate dara`
a Dio di tutte e singole le anime
affidate alla sua cura, oltre, naturalmente, alla propria. Questo pensiero gli infondera`
un salutare
timor di Dio che servira` anche alla vigilanza su se stesso; e
mentre procurera` che i fratelli si correggano dei loro difetti, si andra`
anche lui
correggendo dei propri.
CAPITOLO 64
L'elezione dell'abate.
De ordinando abbate.
Preliminari
Non e` facile interpretare i vari termini che compaiono nel testo. I verbi-chiave sono:
ordinare, constituere e eligere, che si
possono rendere in italiano
con: scegliere, eleggere, designare, elevare, costituire. La RB non spiega il senso
preciso di queste
parole, ne' come si realizzava cio` che esse significano. Si puo` dire
che per SB l'elezione di un abate e` un avvenimento
sopratutto spirituale che viene
dall'alto, non tanto giuridico; quindi non vuole imporre a Dio delle regole fisse. Cio`
che importa e`
che si nomini una persona degna. Inoltre, si ritiene oggi che quando un
legislatore monastico non e` molto esplicito e chiaro nel
definire qualche punto, lo fa
perche` da` la cosa come scontata, ben conosciuta e rimanda alla norma comune.
Secondo la RM, era l'abate prossimo alla morte che sceglieva il successore. SB accetta
invece un modo che rimontava alle origini
del cenobitismo: la comunita` di comune
accordo sceglie un nuovo capo (questa prassi era prevista e approvata dalle leggi
ecclesiastiche e civili); ma comune accordo "secondo il timore di Dio", cioe`
seguendo il criterio unicamente valido per il superiore
(v.2), il quale deve essere persona
degna e con tutte quelle qualita` elencate nel capitolo 2 e nel capitolo 64,7-22.
SB non offre particolari sul meccanismo elettorale. Nel caso in cui nessuno dei monaci
riceva un suffragio unanime, cioe` nel caso
di una comunita` divisa, l'intenzione di SB e`
che sia preferito il candidato scelto dalla parte piu` sana e spirituale della comunita`,
per quanto piccola di numero possa essere. Ma come si fa a stabilire qual'e` questa
"parte piu sana"? Potevano essere senza
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Quello che importa per SB e` che l'eletto offra garanzia di una vita irreprensibile
e di una dottrina sicura, anche se fosse l'ultimo
nell'ordine della comunita`
(v.2); una clausola, questa, molto originale per le consuetudini del tempo in cui
le elezioni tenevano
conto, e` vero, del merito personale, ma anche (e a volte
sopratutto!) del rango del candidato. In ogni caso ne' il vescovo
diocesano, negli abati
della regione, ne' i cristiani del luogo dovevano permettere che si designasse un abate
indegno, complice
dei vizi dei monaci, anche se fosse stato eletto all'unanimita` (si
pensi ai monaci di Vicovaro, Dial.II,2).
Nel corso dei secoli, come si sa, non sono mancati gravi abusi nell'elezione
dell'abate, come all'infelice tempo della commenda
(Cf.DIP <Dizionario degli Istituti
di Perfezione>, I,26-27: voce "abbas",3) o della intromissione di principi o
di altri laici. Le reazioni
a questi abusi portarono a una dottrina canonica in cui
sono precisati dal diritto generale e particolare (dalle Costituzioni delle
singole
congregazioni) le norme per l'elezione, la procedura, la durata in carica, ecc. (Cf.
studio delle nostre Costituzioni).
I vv.7-22 contengono un'esortazione al nuovo abate che entra nel suo ifficio, non solo
riguardo ai suoi obblighi, ma anche riguardo
a cio` che deve essere - o cerca di essere -
egli stesso. Per la RM l'unico criterio per l'elezione di un abate era la perfezione
personale che uno aveva raggiunto: a chi deve insegnare l'arte spirituale si richiede che
la sappia praticare meglio di tutti. Invece
la RB in questa nuova esortazione parla
all'abate delle qualita` umane, del carisma della direzione delle anime,
delle doti del
pastore. Abbiamo cosi' un nuovo direttorio abbaziale, che e`
un completamento, una aggiunta, una ratifica anche, con il suo
accento piu` affettuoso e
paterno, con il tono di maggiore discrezione e benignita`, frutto senz'altro di esperienza
personale. E'
una stupenda pagina di letteratura cristiana in cui si armonizza la saggezza
di un profondo conoscitore delle anime e l'ispirazione
soprannaturale di prudenza e
carita`; vi aleggia lo stile delle lettere pastorali di S.Paolo e quello delle esortazioni
liturgiche agli
ordinandi.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Si noti che nella RM non si parla mai di eventuali difetti dell'abate, il quale deve
essere piu` avanti di tutti nella perfezione. Al
relativamente lungo commento sulla
correzione dei difetti (vv.12-15) corrisponde il commento sul modo di governare
(vv.17-19); la
raccomandazione di far osservare la Regola (v.20) e' la conseguenza di
tutto quanto precede e annuncia la conclusione. E` quindi
una costruzione ben combinata.
Vediamo il contenuto.
9: Sia dotto nella legge divina.... L'abate sia istruito nella legge di Dio,
perche` il primo elemento della sua opera di bene e`
l'insegnamento delle cose divine. SB
ha gia` insistito nel capitolo 2 su tale compito dell'abate, la cui dottrina deve
infondere nel
cuore dei discepoli un fermento di giustizia divina (RB.2,5; cf. anche
RB.2,11-15); "... perche` sappia da dove trarre insegnamenti
nuovi e antichi"
(l'espressione latina "nova et vetera" e` una citazione di Mt.13,52): sono gli
insegnamentoi che non mutano e le
applicazioni che cambiano ogni giorno, le regole che
sono eterne e gli ammonimenti che si adattano a ciascun individuo.
Sia casto, sobrio, misericordioso: richiamo all'elenco delle qualita` del vescovo
in S.Paolo (cf. per es. 1Tim.3,2). L'ultima qualita`,
la misericordia, e` seguita
da un commento. SB raccomanda all'abate di preferire la misericordia alla giustizia
(citazione di
Giac.2,13), "affinche` egli stesso possa ottenere un trattamento
simile" (chiarissima allusione a due passi del Vangelo: Mt.5,7;
Mt.7,2).
Nella medesima linea della misericordia, abbiamo un'altra sentenza lapidaria frequente
in S.Agostino (Discorso 49,5 e altrove),
con l'invito a non cessare di amare i fratelli
mentre detesta i vizi: oderit vitia, diligat fratres (detesti i vizi, ami i
fratelli).
(= Miri ad essere amato piuttosto che temuto): altra bellissima sentenza tratta
direttamente dalla Regola di S.Agostino (cap.15) e
sapiente programma di governo.
La norma, in realta`, si trova anche in altri testi, cristiani, monastici e classici; si
puo` dire che
queste brevi ma sostanziose parole convergono la sapienza del deserto,
quella cristiana e quella politica classica. "Miri ad essere
amato piuttosto che
temuto" e` in fondo una variante di "giovare piuttosto che dominare" del
v.8. In ambedue le sentenze
appaiono due gruppi di elementi: autorita`, onore, timore da
una parte; servizio, misericordia, amore dall'altra. Trovare l'equilibrio
tra le due cose
sarebbe l'ideale, ma in realta` - e la RB e` realista - risulta impossibile mantenere
sempre tale equilibrio tra i due
piatti della bilancia.
Nel v.16 abbiamo un elenco di qualita` negative da evitare. Nulla di piu` dannoso per
la tranquillita` dispirito delle tensioni di un
abate turbolento, inquieto, vittima del
sospetto e della gelosia.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
- Ostinato <obstinatus>: deve pur essere convinto che gli altri possano
talvolta pensarla meglio di lui.
E' stato notato che il non sia turbolento dell'inizio del v.16 evoca la figura
del Servo di Yahwe (Is.42,4), applicata a Cristo in
Mt.12,18-21): "Non contendera`,
ne' gridera`, ne' si udra` sulle piazze la sua voce"; gia` prima, nel v.13, SB ha
ricordato l'altra
caratteristica "non spezzera` la canna incrinata": la
mansuetudine di Cristo deve essere un modello e uno specchio per il suo
vicario.
La discrezione era tanto stimata presso i monaci antichi. Anche Cassiano usa
l'espressione: "la discrezione, madre di tutte le
virtu`" come al v.19
(Cf.Collazioni 2,4). E` noto che S.Gregorio Magno la colse come una caratteristica della
RB, definendola
appunto "mirabile per la discrezione" <discretione
praecipuam> (Dial.II,36).
La discrezione sara` che l'abate disponga tutte le cose - tanto le spirituali che le
temporali (v.17) - in modo che "i monaci forti
desiderino di fare di piu` e i deboli
non si scoraggino" <non refugiant> (v.19). L'espressione ci ricorda quella di
Prol.48: "non
refugias", "non abbandonare subito la via della
salvezza". In ambedue i casi SB considera la stessa situazione umana: quella del
monaco pusillanime e di poca forza che di fronte a un'osservanza troppo rigorosa si
sentirebbe tentato di lasciare il monastero.
Nel prologo SB si rivolge a questo monaco
spaventato esortandolo alla perseveranza; qui chiede all'abate che tenga conto di tale
debolezza. Nel prologo promette al fratello tentennante che non si stabilira` nulla di
troppo duro e penoso, qui esige dalla
"discrezione" dell'abate che mantenga la
promessa abbreviando piuttosto che aumentando il peso della Regola che, per altro,
deve
far osservare in tutto (v.20).
E' stato detto che appare nel capitolo 64 una omogeneita` di pensiero, una unica
visuale ispira l'autore: quella del pastore ideale,
del servitore umile, mansueto e
paziente che e` Cristo. Spirito di servizio, misericordia, amore, prudenza, pace, ecc.,
sono tutti
aspetti di una identica attitudine fondamentale.
Questo ritratto dell'abate del capitolo 64 differisce in alcuni punti non solo dalla
RM, ma anche da quanto detto nel capitolo 2 della
stessa RB. SB ha corretto se stesso in
eta` avanzata alla luce dell'esperienza? Oppure il capitolo 64 e` dovuto a una mano
diversa da quella del capitolo 2? Tutte le ipotesi sono permesse. Comunque, negli ultimi
capitoli della Regola, che sono propri di
SB (di cui si riconosce sempre piu`
l'originalita`) ci si presenta l'abate piuttosto che come un maestro severo, teso ed
inquieto per il
peso della responsabilita`, come un uomo servizievole e misericordioso.
CAPITOLO 3
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Preliminari
E` merito del DeVogue', tra l'altro, aver indicato i precedenti storici del consiglio
degli anziani nella tradizione monastica; ricorda le
assemblee degli anacoreti di Scete,
parla delle "Vite" copte di S.Pacomio, secondo cui il superiore generale
riunisce i "grandi" o
"anziani" della "koinonia"; cosi`
ancora riferisce che le Regole di S.Basilio presentano un parallelo perfetto con le
disposizioni della
RB. Tuttavia in questi passi si tratta sempre di un consiglio
ridotto scelto, composto di uomini "capaci di giudicare" e sembra che
essi
non si limitano ad esporre il loro parere, ma danno un voto abbastanza decisivo. In SB
c'e` una impostazione diversa del
cenobio e quindi dei rapporti tra abate e comunita`.
Quanto alla convocazione del consiglio, il capitolo 3 di RB prevede nel monastero due
casi:
- lo convoca l'abate,
I monaci cessano di essere dei minorenni a cui si presenta tutto gia` stabilito e
definitivo; sono persone adulte che pensano con la
loro testa, hanno idee e convinzioni
proprie che l'autorita` deve soppesare e apprezzare. Si instaura cosi` un dialogo generale
in
cui i monaci si manifestano, si conoscono, formano realmente una comunita`. Quindi
questa disposizione di Benedetto di
convocare tutti senza eccezione ha un'importanza
decisiva per l'instaurazione di autentiche relazioni tra monaci e monaci, e tra
monaci e
abate, per la formazione di quello spirito di famiglia, caratteristico dei cenobi
benedettini.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Si enuncia ora un principio assoluto e di portata generale: "In ogni cosa tutti seguano la Regola come maestra e nessuno ardisca
temerariamente allontanarsene"
(v.7). Qual'e` il significato esatto di un principio cosi` categorico?
Che esso valga sia per i monaci che per l'abate e` indiscutibile. Percio` - ci si
domanda - allontanarsi talvolta dal contenuto
letterale o anche dal senso della Regola
implica necessariamente temerarieta` e bisogna quindi evitarlo ad ogni costo? O non
piuttosto a volte si puo` - e talvolta si deve - date le circostanze, prescindere dai
precetti della Regola?
In tutti i modi, sembra certo che questa frase, grave e maestosa, piu` che per i monaci
(anche per loro, certamente) e` scritta per
porre rimedio ad eventuali capricci
dell'abate, il quale con ogni probabilita` va considerato incluso in quel
"nessuno" del versetto
seguente: "nessuno in monastero segua i capricci del
proprio cuore" (v.8). In compenso, segue nei vv.9-10 una frase per
salvaguardare
l'autorita` dell'abate: non discutere insolentemente o altercare sfacciatamente con lui
(ma naturalmente in riunione
con umilta` e delicatezza si puo` contraddirlo). Poi (v.11)
di nuovo un richiamo per l'abate. Come si vede, e` quasi un tira e molla
tra i due poli
del cenobio: comunita` e abate.
I correttivi dell'autorita` abbaziale sono dunque due: il timore del giudizio divino
(rendiconto a Dio, cf. RB.2 e RB.64 piu` di una
volta) e la Regola cui anche lui
deve sottomettersi.
Conclusione:
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Quest'ultimo e` un punto importante: tutti, abate e monaci, sono sotto la Regola; per
SB essa e` norma suprema. Senza dubbio il
ricorso alla Regola e` in relazione alle
difficolta` del momento; pero` c'e` un elemento permanente: in tutti i tempi, e sopratutto
in
periodi di rilassamento, la comunita` e l'abate non possono avere salvaguardia che il
rispetto religioso di una Regola intangibile;
un abate non e` niente senza una Regola.
Excursus sulla figura dell'abate come appare nella RB, e sua applicazione al superiore
dei nostri giorni in rapporto alla comunita`.
Introduzione ai
1. Sacra Scrittura
b) Cap. 5: L'obbedienza;
d) Cap. 7: L'umilta`.
E difatti nel capitolo 7 della RB, nella scala dell'umilta`, l'obbedienza e` il tema
piu` rilevante dei quattro primi gradini, mentre la
taciturnita`, gia` presente nel quarto
gradino, e` materia propria dei gradini 9, 10 e 11. Possiamo dunque dire che l'obbedienza
e`
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAPITOLO 4
Preliminari
Dipendenza dalla RM
La fonte piu` immediata e` dunque la RM (il DeVogue` ha individuato una fonte comune
per RM e RB: la Passio Juliani, un
documento del VI secolo o forse anche del IV-V).
La RM tratta della "ars sancta" <arte santa> nei capitoli 3-6 che fanno da
collegamento tra il capitolo 2 sull'abate e i capitoli 7-10 sulle grandi virtu` monastiche
dell'obbedienza, della taciturnita` e
dell'umilta`.
Differenze tra RB e RM
Le differenze tra RB e RM, a prima vista non sono molte. Tuttavia S.Benedetto mostra
una certa tendenza ad abbreviare (gli
strumenti sono 77 in RM, 74 in RB; i versetti
totali del capitolo sono 95 in RM, 78 in RB). Le aggiunte di SB sono poche e per
questo
molto significative; alcune rappresentano una sottolineatura di preoccupazioni tipiche di
SB, cosi` per il 40mo contro la
calunnia e il 69mo sull'importanza dell'umilta`; cosi`
alcuni aggiunti sull'obbedienza. SB ha poi la tendenza a radicalizzare certi
precetti e a
rendere piu` "monastici" certi precetti che in RM hanno un carattere piu`
"laico". Inoltre SB si mostra sensibile al tema
dei rapporti reciproci
(vv.70-73) sottolineando la "dilectio" e l'"amor" come
atteggiamenti da tenere sia reciprocamente sia nei
confronti di Dio. Molto importante e`
notare che in RM tutto il capitolo e` compreso in una inclusione principale:
RB sostituisce cosi`:
Ne risulta quindi che la "ars" in SB non trova piu` la sua sintesi e il suo
significato fondamentale nel timore verso Dio, ma
nell'amore. Questo era il
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Fonti
Moltissimi dei precetti appartengono alla vita morale comune di tutti i cristiani,
perche` la perfezione cercata attraverso i consigli
evangelici suppone quella comune dei
precetti. La maggior parte delle sentenze sono prese dalla S.Scrittura; altre dagli
scritti dei
Padri della Chiesa; altre dagli Autori monastici; altri ancora
dalla Passio Juliani (citata sopra) e qualcuna da autori profani.
Valore diverso
1-9: il decalogo
Con il 10mo strumento siamo in pieno Vangelo: la rinunzia a tutto per seguire Gesu`
(Mt.16,24; Lc.9,23); forse il richiamo di tale
sentenza dopo il decalogo e` dovuto al
passo di Mt.19,16ss: "va`, vendi ... e seguimi". Poi, dopo l'esplicitazione
della
mortificazione corporale (vv.11-13), si passa alle opere di misericordia,
collegamento molto naturale per gli antichi, dato che il
digiuno era sempre legato
all'elemosina: "ama il prossimo" implica necessariamente "ristorare i
poveri".
Questi due versetti (con richiamo al v.10) riassumono tutto il lavoro di ascesi
proposto al monaco: la vita monastica come sequela
di Cristo; quindi estraniarsi in
un certo senso dalle altre cose per mettere Cristo al primo posto. Nel v.20 possiamo
vedere
un'allusione a Giac.1,27 o forse anche a Rom.12,2. Che cosa sono questi acta
saeculi <costumi del mondo>? Forse i gesti
contrari ai comandamenti divini
("mondo" in Giovanni e` tutto un complesso di uomini, cose, mentalita` che si
oppone a Dio) o,
forse, tutto cio` che non e` secondo l'umilta` e l'obbedienza monastica:
l'amore per gli onori, il mettersi in mostra, il parlare troppo,
ecc.
Il v.21 e` molto importante, in quanto ripreso in RB.72,11 (tipico di SB) e a proposito dell'ufficio divino in RB.43,3 (pure proprio di
SB. Cf anche RB.5,2): e` il giudizio di valore che il monaco e` tenuto a dare, in base al quale conformare la propria
esistenza
concreta: nulla vale di piu` dell'amore di Cristo e del suo servizio, percio`
nulla puo` essergli anteposto.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
44-47: Novissimi
La presenza di Dio che ci guarda "in ogni luogo" (v.49) fara` si` che
"in ogni momento" custodiamo la nostra vita (v.48), che
spezziamo contro la
roccia che e` Cristo i cattivi pensieri e li manifestiamo al padre spirituale (v.50). In
tal modo la vita del monaco
acquista una serieta` e una gravita` per cui non solo si
evitano "le parole cattive e scorrette" (v.51), ma si cerca di "non parlare
molto" (v.52), di non dire buffonerie (v.53), di ridere smodatamente (v.54).
Troveremo tutto questo sopratutto nel 1^ gradino
dell'umilta` (RB.7).
Dopo una citazione di Gal.5,16 che richiama la lotta della carne contro lo spirito
("desideri della carne" sono tutte le tendenze
disordinate, v.59), si torna ad
insistere sulla necessita` di "odiare la propria volonta`" (v.60) per obbedire
in tutto ai precetti
dell'abate, uomo virtuoso senza dubbio, ma sempre uomo e soggetto lui
pure alla legge del peccato, per cui potrebbe essere che
la sua vita non corrisponda alla
sua dottrina; in tal caso bisogna obbedire lo stesso, ricordando la parola del Signore a
proposito
degli scribi e dei farisei (v.61).
Pero` la coerenza tra il dire e il fare non vale solo per l'abate, ma per tutti: ecco
allora il curioso aforisma del v.62 ("non voler
essere ritenuto santo prima di
esserlo, ma prima esserlo perche`...", tratto dalla Passio Juliani 46) per
avvertire che non
diventiamo noi ipocriti come i farisei. La coerenza richiama ancora la
necessita` dei fatti, delle opere nell'adempimento dei
comandamenti di Dio (v.63). Chiude
la serie quel sobrio e modesto Amare la castita` (v.64), unico luogo dove SB fa
esplicita
menzione di tale virtu`; ma questa allusione discreta e` tutto un poema in
quell'amare la castita`.
Il lungo catalogo termina con un atto di fede illimitata nella bonta` divina: solo
nella consapevolezza e speranza della misericordia
di Dio e` possibile intraprendere il
"lavoro" delle buone opere; se il monaco esprimente le difficolta` e forse
l'impossibilita` di
questo lavoro deve essere pero` certo dell'aiuto di Dio. E` notevole
il fatto che mentre RM ha "e non disperare di Dio", Benedetto
preferisce
"e della misericordia di Dio non disperare mai", sottolineando cosi` che
l'aiuto viene dall'amore di Dio.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
II.PARTE: vv.75-77:
Dopo aver, senza alcun preambolo, enumerati tutti gli strumenti, SB conclude offrendoli
come utensili di un'arte: devono essere
maneggiati, usati, adoperati assiduamente,
"notte e giorno": si noti con qual vigore si indica la continuita` del
lavoro ascetico; e` un
lavoro che non ammette riposo ne` ferie, solo la morte temporale vi
pone fine. E allora il monaco, da bravo operaio (Prol.14;
RB.7,70), riconsegna gli
strumenti e riceve il dovuto salario per il lavoro eseguito. E qual'e` la paga? In
realta` non la conosciamo
esattamente, ne` possiamo conoscerla. La RM, secondo il suo
stile eccessivo e un po' barocco, indugia a questo punto su
un'ampollosa descrizione delle
delizie del paradiso (terra risplendente, acque abbondanti, rive ricoperte di fiori e
frutti, suoni e
canti, ecc...), ispirandosi alla apocrifa "Visio Pauli"
(RM.3,84-94). Con sobrieta`, SB si limita a citare il testo paolino di 1Cor.2,9: la
ricompensa e` al di sopra di quanto possiamo concepire ed immaginare.
III.PARTE: v.78
Nella nostra Congregatione, tuttavia (come per altre, sorte nel medioevo), il concetto
di stabilita` e` piu` ampio, anche se si cerca
di conservare stabili le singole comunita`.
Ecco la visione della vita monastica come appare dal "catechismo" in forma di
massime che e` il capitolo 4 della RB: il monaco e`
l'operaio di Dio (Prol.14; RB.7,49.70)
che, nell'officina del monastero, in compagnia e in comunione con gli altri operai che
formano la sua famiglia religiosa, fatica notte e giorno in un lavoro interamente
spirituale - <l'arte spirituale> del v.75 -
maneggiando strumenti spirituali che
sono le virtu`, sperando e fidando della grazia e della misericordia del suo Signore che,
nel
giorno benedetto in cui riconsegnera` gli attrezzi, possa ricevere la ricompensa delle
sue fatiche: "Cio` che occhio non ha mai
visto, ne` orecchio mai udito, ne` mai
entrato in cuore di uomo: questo, Dio ha preparato per coloro che lo amano"
(1Cor.2,9).
CAPITOLO 5
L'obbedienza.
De oboedientia.
Preliminari
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Profeti.
...e nel NT
L'obbedienza occupa quindi, senza dubbio, una posizione-chiave nella storia divina
della salvezza. I Padri della Chiesa non
cessarono di segnalarlo con grande insistenza. Ma
questa idea incontro` un'eco straordinaria soprattutto tra i monaci a cominciare
dalle
prime generazioni. In effetti i Padri del Deserto, ammaestrati dalla loro esperienza,
erano giunti a due conclusioni: primo, che
senza il rinnegamento di se` non
si giunge a una vera adesione alla volonta` di Dio; secondo, che il rinnegamento consiste
essenzialmente nella rinuncia alla propria volonta`, "muro di bronzo - a dire
dell'abate Poimene - che separa l'uomo da Dio"
(Apophtegmata, Poimene 54). I testi
monastici trattano di continuo questo tema sotto tutti gli aspetti:
- obbedire a Dio;
- obbedire alla Scrittura;
- obbedire ai Padri del monachesimo;
In tal modo si ando` elaborando a poco a poco una teoria e in pratica il concetto
dell'obbedienza religiosa. Si suole distinguere
un'obbedienza ascetica o educativa
(piu` specifica degli eremiti) e un'obbedienza funzionale o sociale al servizio
della comunita`
(propria dei cenobiti). In realta` i due aspetti sono complementari:
l'obbedienza ascetica e` necessaria per realizzare l'obbedienza
funzionale nella maniera
piu` perfetta possibile; l'obbedienza sociale, poi, ha sempre un aspetto ascetico ed
educativo. In ogni
caso, i legislatori monastici del cenobitismo (Pacomio, Basilio, ecc.)
non si mostrano meno esigenti, riguardo all'obbedienza, dei
Padri spirituali degli
eremiti. S.Basilio richiede un'obbedienza universale e senza condizioni.
L'obbedienza nella RB
Il capitolo 5 della RB riassume molto il lungo capitolo 7 della RM, ma non lascia
alcuna delle tre parti costitutive:
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
formazione
cenobitica e` unanime nella tradizione monastica.
E' il carattere piu` evidente della vera obbedienza e SB vi insiste per tutta la prima
parte del capitolo.
L'amore di Cristo balza evidentemente come il motivo fondamentale e il piu` nobile per obbedire. L'idea non e` nuova: il monaco
impugna le gloriose armi dell'obbedienza per militare sotto Gesu` Cristo vero Re (Prol.3). Si ricordino anche gli strumenti 10 e 21
del
capitolo 4. Evidente anche il richiamo nella struttura grammaticale al "Niente
anteporre all'amore di Cristo" di RB.4,21 e al
"Nulla assolutamente antepongano
a Cristo" di RB.72,11.
Possono pero` esserci altri motivi meno elevati anche se validi e la RB li enumera: il
servizio santo a cui si sono consacrati, il
timore dell'inferno, il desiderio della vita
eterna; ma in tutti e tre questi motivi e` sempre supposto e incluso il primo, quello
dell'amore integrale a Cristo, da cui il monaco non puo` prescindere.
- si imita in tal modo il Signore che disse di se stesso: "Non sono venuto a fare
la mia volonta`, ma la volonta` di colui che mi ha
mandato (Giov.6,38).
Il primo elemento corrisponde al 61mo strumento delle buone opere e, insieme al secondo
(stabilita` in monastero, RB4,78),
caratterizza i cenobiti che "vivono in monastero
militando sotto una Regola e un abate" (RB.1,2).
La Regola insiste sulle qualita` che deve avere l'obbedienza cenobitica per essere
veramente gradita a Dio e "dolce agli uomini".
Quest'ultima espressione e` un
tocco sapiente e amorevole di umanita` e finezza psicologica del santo Patriarca. Anche
per il
superiore dare un ordine non e` sempre facile: riesce percio` di conforto per lui
incontrare un'obbedienza sollecita e sorridente.
Dunque si obbedisca senza esitazione
o ritardo - si raccomanda ancora la celerita` - o svogliatezza oppure con
mormorazioni o
proteste (v.14), ma volentieri e serenamente, perche`
"Dio ama chi dona con gioia' (v.16).
Di buon animo: parole importanti che devono penetrare nell'animo del monaco.
"Dio guarda nel profondo del cuore" (v.18);
obbedire esteriormente non basta, se
l'atto non e` accompagnato dalla buona volonta` profonda e sincera di chi obbedisce:
l'obbedienza si deve interiorizzare.
17-19: la mormorazione
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CONCLUSIONE
* come colui al quale si obbedisce (Lc.10.16 citato nel v.6 e nel v.15)
L'abate non potrebbe esigere un'obbedienza assoluta senza essere autorizzato da Gesu'
(di cui fa le veci in monastero, RB.2,2); e
d'altra parte l'obbedienza e` cristologica in
quanto ispirata dall'amore a Cristo (RB.5,13)
CAPITOLO 68
Preliminari
Questo capitolo, uno dei piu` belli di tutta la Regola, fa parte della serie degli
ultimi capitoli (67-73) propri di SB, i quali - secondo
Delatte - possono considerarsi il
testamento spirituale del santo Patriarca e sono interamente immersi nella luce di Dio e
impregnati della sua dolcezza; e - secondo De Vogue`, di altra generazione e di altra
scuola - il capitolo 68 uno dei passi piu`
caratteristici e piu` preziosi della RB;
dopo tanti commenti conviene fermarsi ad ammirare la sua dottrina tanto ferma e insieme
tanto armoniosa, tanto soprannaturale e insieme tanto umana.
SB torna ad occuparsi dell'obbedienza sino alla fine della sua Regola. Non si tratta di
una ritrattazione o rettifica di certe cose,
come potrebbe dirsi in qualche modo del
capitolo 64 rispetto al capitolo 2 per quanto riguarda l'abate (cf.sopra, relativo
commento); si tratta invece di una appendice, di una precisazione molto
interessante.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Ci troviamo di fronte a una caso estremo di obbedienza: come deve reagire in situazioni
difficilissime il monaco desideroso di
obbedire? A risolvere la questione ci si presenta
un autore con un linguaggio e una mentalita` certamente diversi da; capitolo 5; o
non e` la stessa persona o e` talmente maturata in eta`, esperienza, saggezza da non
sembrare la stessa. Si puo` dire,
giustamente, che nel capitolo 5 l'obbedienza e` messa a
fuoco dal punto di vista dell'abate, mentre nel capitolo 68 dal punto di
vista del
discepolo. Tuttavia cio` non e` sufficiente ad eliminare la distanza tra i due capitoli:
nel primo una dottrina austera,
esigente, teorica; nel secondo un insegnamento altrettanto
soprannaturale e in fondo anche piu` esigente, pero` nello stesso
tempo pieno di
umanita`, di comprensione, di finezza psicologica. E` veramente una perla tra le piu`
fini della RB, un capitolo
meraviglioso non solo sotto l'aspetto dottrinale, ma anche
letterario.
Fonti
Non si trovano paralleli del capitolo 68 in quanto tale; niente del sapere e della
mentalita` del capitolo nella RM secondo la quale
l'obiezione del fratello ad accettare ed
eseguire immediatamente un ordine, merita subito la scomunica e la pena (RM.57,14-16).
Si
possono tuttavia considerare i seguenti testi: la Regola di S.Basilio 69; Pseudo-Basilio:
Ammonizione al figlio spirituale 6;
S.Cesario di Arles: Discorso 233,7; e
sopratutto Cassiano: Istituzioni 4,10. Quest'ultimo, a proposito di monaci
obbediente,
aggiunge che essi "non solo ricevono con fede e devozione comandi
umanamente impossibili, ma si sforzano anche di adempierli
senza alcuna esitazione del
cuore, non misurando l'impossibilita` per riverenza e sottomissione al loro seniore".
Probabilmente
questo passo, con il richiamo alle cose impossibili, avra` ispirato SB; ma
in esso manca completamente il processo psicologico-
pedagogico, meravigliosamente
descritto nel capitolo 68 della RB.
STRUTTURA di RB.68
II. - se, soppesato il tutto, vede che sembra superare le sue forze, il monaco e`
autorizzato a presentare le ragioni della sua
impossibilita` (vv.2-3);
III. - se il superiore non cambia parere, il monaco sappia che gli conviene obbedire e
obbedisca (vv.4-5)
1: Il caso difficile
impossibile: non nel senso in cui allude Cassiano nel testo citato sopra
(Ist.4,10), cioe` di cose che il superiore stesso conosce
impossibili e comanda solo per
provare il monaco e distruggere ogni attaccamento alla propria volonta`, ma nel senso che
paiono
impossibili a chi li riceve. Si puo` notare inoltre che spesso una cosa sembra
impossibile solo finche` non la si fa. SB vuole che
all'inizio, anche in casi cosi` ardui
per la debolezza umana, si riceva l'ordine con perfetta docilita` e sottomissione.
Il monaco soppesa l'ordine ricevuto e conclude che veramente e` superiore alle sue
forze. Ed ecco allora il tocco paterno di SB e
la larghezza del suo spirito: non si
irrigidisce subito sulla esecuzione del comando, ma permette che il monaco suggerat
<faccia
presente> la sua difficolta`; la voce del monaco puo` illuminare
anche il superiore e indurlo a modificare o a ritirare il comando.
Pero` SB insiste:
"con sottomissione e a tempo opportuno" - due qualita` positive - "senza
arroganza, puntiglio od opposizione -
tre note negative -. E`
l'atteggiamento proprio dell'umilta`; anche il verbo "suggerat" indica il
parlare sommesso e umile di chi
accenna appena, fa presente con calma.
Ma anche dopo l'esposizione delle difficolta`, il superiore puo` avere ancora le sue
valide ragioni per persistere nell'ordine dato. E'
il momento in cui viene messo alla
prova tutto il fondo soprannaturale che ispira l'obbedienza, e` il momento della fede di
Abramo,
dell'obbedienza eroica.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
per amore: l'amore rende possibile e meritorio tutto. SB ha gia` detto nel capitolo
5 che l'obbedienza e` propria di quelli che non
hanno nulla piu` caro di Cristo, e che
sono incalzati dall'amore per la vita eterna.
CONCLUSIONE
CAPITOLO 6
L'amore al silenzio.
De taciturnitate.
Preliminari
Non c'e` nella Bibbia una vera e propria dottrina sul silenzio, ne` si puo` parlare del silenzio come virtu` o valore raccomandato; la
Scrittura e` piena di testi che si riferiscono a entrambe le cose: "C'e` un tempo per tacere e un tempo per parlare
(Qoelet 3,7b). La
lingua e` un dono di Dio, attraverso cui gli uomini comunicano fra di
loro ed esprimono a Dio i sentimenti del loro cuore. A volte e`
importante tenerla a
freno, mentre a volte sarebbe vigliaccheria e mancanza di fedelta` tacere. Nei libri
sapienziali, sopratutto i
Proverbi, si insiste sul retto uso della lingua.
Antico Testamento
Piu` recentemente si tende ad associare il silenzio con il deserto, che pero` nella
Bibbia significa sopratutto luogo desolato e
selvaggio. Certo la solitudine e`
caratteristica del deserto, cosi` Israele puo` ripensare alla durezza e alla fatica
dell'Esodo
(Deut.8,15) e specialmente alla continua assistenza di Dio
(Deut.29,4-5).L'esperienza del deserto diventa oggetto di nostalgia da
parte di Dio e
viene riproposta dai profeti come mezzo per guarire l'infedelta` di Israele (Osea 2,16;
Ezech.20,35). Tuttavia non si
tratta tanto di silenzio, quanto piuttosto di esperienza
di solitudine, di separazione dal mondo abitato che rende piu` vicini a Dio.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Nuovo Testamento
Nel NT ugualmente l'accento e` posto piu` sulla lode di Dio, sull'annuncio del Regno,
sui doni delle lingue e della profezia in
S.Paolo. Il silenzio e` invece l'atmosfera nella
quale si custodisce e si rivela il mistero (Rom.16,25) o che accompagna l'operarsi
del
giudizio divino (Apoc.8,1).
Questa nota biblica potrebbe sembrare lontana dall'insegnamento della RB, tutto
incentrato sul silenzio come forma di umilta` e di
mortificazione; pero`, anche la
dottrina della taciturnitas non puo` essere rettamente compresa al di fuori di
questo concetto biblico
e cristiano. Per il cristiano il silenzio e` sempre anche
contemplazione e lode di Dio che si manifesta.
La tradizione monastica
Abbiamo detto sopra che i libri sapienziali non cessano di inculcare il buon uso della
lingua. Il saggio, a differenza dello stolto, sa
meditare e pesare le sue parole.
Discepoli e coltivatori di tale saggezza, i monaci cristiani fin dalla piu` remota
antichita`
praticarono e insegnarono la moderazione nell'uso della parola. Tutta la
tradizione (Apoftegmi, storie monastiche, regole
cenobitiche, trattati spirituali, ecc...)
lo testimonia; ma nessuno parla di silenzio assoluto, perche` tacere sempre non e`
umano,
pero` e` necessario moderarsi, perche` la lingua facilmente passa il limite e
arriva a mormorazioni, calunnie, detrazioni,
conversazioni peccaminose: parlare molto,
cioe`, equivale ad esporsi di piu` al peccato. Si tratta quindi di un silenzio ascetico.
Il silenzio poi ha grande importanza per la vita del monaco, in quanto e` in funzione
della quiete in Dio <la "hesychia">, la
tranquillita`; l'accento
veniva posto sopratutto sulla ritiratezza, sul rimanere in cella, "tacendo e
sedendo" dice S.Girolamo. Anche
per Cassiano, che pure dedica al silenzio tre dei
suoi indizi di umilta`, esso e` in funzione della preghiera, aiuta il monaco a
raggiungere
la "preghiera di fuoco" ed e` il segno della raggiunta unita` della persona in
Dio. Cosi` si proibiva ai monaci di parlare
fuori delle celle e di ritrovarsi a parlare in
refettorio; molti monasteri erano famosi per il silenzio che vi regnava, ma sembra piu` un
titolo di gloria che una parte della dottrina di ascesi.
La "taciturnitas"
La nozione di equilibrio fra tacere e parlare, con evidente inclinazione a favore del
silenzio, la lingua latina dei monaci la espresse
con il termine taciturnitas (che
non corrisponde al nostro italiano "taciturnita`", la quale puo` comportare
anche quell'aria di
musoneria che diviene cosi` pesante e fastidiosa nei contatti col
prossimo). Silere e silentium significano astenersi totalmente dal
parlare; taciturnitas
significa l'abitudine a far caso al silenzio, il volontario e virtuoso amore al
silenzio, frutto di umilta` e di
raccoglimento, che concede la facolta` di esprimersi
con moderazione, soltanto se necessario, discretamente. Percio` si potrebbe
tradurre anche
"amore al silenzio" con tutto il significato spiegato sopra (cioe` anche
modo di parlare).
Il silenzio nella RM
RM.8,1-25: espone la teoria del corpo come prigione dell'anima gli occhi sono le
finestre e la bocca la porta; mediante lo sguardo
e la parola l'anima guarda fuori e ha
occasione di peccato.
RM.8,31-37: l'ultima parte del capitolo (quella utilizzata da RB.6) parla del silenzio
con il commento al salmo 38. In seguito
distingue due specie di taciturnita`: quella che
si guarda dai peccati della lingua e quella che si astiene dalle parole buone per
umilta`.
Quali sono le motivazioni per il silenzio nella RM? Ne potremmo indicare tre: (a) il
silenzio e` da raccomandare per evitare il
peccato, e` la motivazione piu` comune e
ripetuta; (b) il silenzio e` in vista dell'umilta`; (c) il silenzio aiuta a mantenere la
memoria
occupata in Dio e a fuggire la dimenticanza.
Il silenzio nella RB
SB tratta della taciturnita` molto piu` brevemente, in un solo capitolo di soli 8 vv.,
contro i complessivi 88 della RM, e riproduce
solo alcune parti di RM.8 e 9:
- RB.6,1-3 = RM.8,31-33
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
- RB.6,4-5 = RM.8,35b-36
- RB.6,6 = RM.8,37
- RB.6,7 = RM.9,1-50
- RB.6,8 = RM.9,51.
La citazione del salmo 38,2-3, che in RM si deve dire in segreto quando si e` tentati
da collera, per RB diventa un esempio di
taciturnita` da seguire. Il v.7 non riprende la
casistica della RM sulla domanda da fare all'abate ma, secondo il capitolo 3 sul
consiglio
dei fratelli, combatte l'indipendenza di giudizio del discepolo. Quindi RB e` piu`
preoccupata di evitare divergenze
insanabili tra l'abate e il discepolo, che di proibire a
questi di porre liberamente domande.
L'atteggiamento del salmista viene indicato come generale disposizione d'animo del
monaco. "Anche dai buoni discorsi ci si deve
"a volte" <interdum>
astenere per amore al silenzio", tanto piu` dalle parole cattive! E nel v.3 SB
insiste: "E` tanta l'importanza del
silenzio - cioe`: tale e` la gravita` e la
serieta` di questa dimensione nella vita monastica - che ecc..."
Alla citazione del salmo 38 SB aggiunge altri due testi scritturistici del genere
sapienziale, brevi e incisivi: Prov.10,19 e
Prov.18,21. In tutti e tre i
testi biblici citati, la ragione addotta per frenare la lingua e` quella di evitare il
peccato, questo e` nella
generale tradizione ascetica del monachesimo primitivo.
Il monaco poi tace per umilta` (v.1: "mi sono umiliato") e parla
con umilta` (v.7); tanto il parlare (il modo di parlare) che il tacere
sono in
rapporto con l'umilta`. Si veda l'evidente parallelismo nella struttura della frase tra:
- RB.6,6 e RB.3,6 =
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
- RB.6,7 e RB.3-4 =
8: parole sconvenienti
Infine, con accento severo ed energico, SB condanna i discorsi non convenienti alla
dignita` di monaco, non solo le trivialita` - il
che pare ovvio - ma anche le parole
giocose e non necessarie. Questo ultimo versetto contribuisce a dare un aspetto ancora
piu`
rigoroso e molto forte al capitolo che senza dubbio e` in una linea rigida e severa.
Ma...
CONCLUSIONE
... per fortuna, altri passi della RB che si riferiscono alla "taciturnitas"
(=amore al silenzio e uso corretto, monastico, della parola)
mitigano e umanizzano
l'aspetto serio e un po` duro del capitolo 6. A giudicare dal v.6, il silenzio regna come
norma generale nel
monastero e per parlare ci vuole un permesso speciale che si accorda
solo raramente. Ma da altri testi si deduce che la
proibizione di parlare non era cosi`
assoluta: i monaci non erano soggetti ad una legge che li obbligava a convivere senza
comunicare tra loro. Il silenzio assoluto si osservava in certi luoghi e in certe ore:
durante i pasti (RB.38,5); in dormitorio, tanto
durante il riposo notturno (RB.42,1)
quanto durante la siesta (RB.48,5). In altri luoghi era molto meno rigoroso (o veniva
trasgredito spesso); in RB.26,1-2 si proibisce di parlare con lo scomunicato; in RB.67,5-6
si ordina di non parlare di cio` che si e`
visto fuori del monastero. I monaci quindi
parlavano e ridevano pure! Tra le mortificazioni suggerite in quaresima (RB.49,7) si
dice
di togliere qualcosa alla loquacita` e... alle buffonerie (=scurrilitate", lo
stesso vocabolo che nel capitolo 6 e` condannato
assolutamente, "aeterna clausura in
omnibus locis damnamus"! (v.8)
E nel capitolo 7,60 sostituisce "dire poche parole e sante" di RM con: "dire parole poche e ragionevoli (sensate)". A SB interessa
di meno che le conversazioni siano edificanti (come nella RM), quanto piuttosto che abbiano senso, che avvengano nella
ragionevolezza e nella calma. Cosi` in RB.31,7.13-14: come deve rispondere il cellerario a chi gli chiede qualcosa fuori luogo o
quando non puo` concedere qualcosa. Cosi` RB.66,2-4 a proposito del portinaio: che risponda subito, rivolga parole di benvenuto,
con tutta la mansuetudine e umilta`, con fervore di carita`. La pedagogia di SB
tende sopratutto a promuovere il buon uso della
parola nelle relazioni concrete; siamo
indirizzati dunque sul terreno delle relazioni fraterne, un argomento di cui RM non
si occupa
mai, ma che per SB e` di capitale importanza.
APPENDICE
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
E' anche una reazione alla teologia dotta, legata troppo a sistemi filosofici e
separata dalla vita liturgica e spirituale> Forse proprio
perche` i cristiani hanno
saputo mostrare troppo poco questa unita` di parola e di silenzio, del vuoto dell'uomo e
della pienezza di
Dio che e` scoppiata la corsa verso le religioni asiatiche. Con tutto il
rispetto per esse, e riconoscendo che c'e` stata negli ultimi
anni una riscoperta
reciproca senz'altro positiva, pero` e` indubbio che e` stata una reazione contro la
Chiesa e il cristianesimo
dimentichi della loro tradizione spirituale.
Ed e` il silenzio fatto da Dio, dalla sua azione in noi, come si manifesta nella vita
quotidiana concreta, nella liturgia, nella Parola,
nei rapporti fraterni. C'e` il rischio
di considerare il silenzio del monaco un po' come tecnica (affine alle tecniche di
meditazione e di
preghiera orientali (yoga, zen, buddhismo) e non come il lavoro operato
in noi dalla grazia di Dio, dall'azione dello Spirito in noi.
Solo cosi` il silenzio puo`
diventare lode e adorazione, azione di grazie, espressione della risposta fedele dell'uomo
all'eterna
fedelta` di Dio."" (Ibidem pp.70-75)
CAPITOLO 7
L'umilta`.
De humilitate.
Preliminari
La RB, con la parola "umilta`", designa tutta una realta` spirituale che e`
molto lontana da quello che si intende comunemente nei
trattati di morale e nei trattati
di teologia in occidente: questi ne hanno un concetto molto ristretto, distante dalla
tradizione biblica e
patristica. Nella Scolastica, con la classificazione delle virtu`,
l'umilta` viene collocata tra le suddivisioni della modestia, la quale a
sua volta
fa parte della virtu` cardinale della temperanza (cf.S.Tommaso, Somma Teologica,
II-II, q.161) e veniva definita per
esempio: "una virtu` dell'appetito irascibile che
frena il desiderio della propria grandezza, facendoci conoscere la nostra pochezza
davanti
a Dio". E notiamo che S.Tommaso non ritiene giustificabile la scala dei 12 gradini di
umilta` di S.Benedetto, proprio
perche` ci sono incluse cose che riguardano altre virtu`!
(cf.ibidem, art.6). In S.Tommaso e nella Scolastica c'era l'intento di una
sistematizzazione di tutta la teologia e quindi della classificazione di tutte le virtu.
Completamente diversa e` la mentalita` di SB (che fra l'altro non intendeva fare alcuna
classificazione sistematica!): in lui la
famosa scala abbraccia la traiettoria completa
della vita umana, comprende tutto il cammino ascetico, comporta elementi
interni
ed esterni, informa tutta la vita dello spirito; il concetto di umilta` e` di una
ampiezza e di una profondita` indescrivibile.
Il termine UMILTA`
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
L'umilta` diventa una parola con significato positivo, come un ideale morale e
religioso, solo nel linguaggio degli autori cristiani,
alla luce di tutta la tradizione
biblica.
a) A.T.
L'umilta` occupa un posto centrale nella teologia biblica. Gesu` in persona proclama
l'ideale dell'umilta` nel discorso della
montagna, pero` la dottrina che predicava non era
interamente nuova, ma era preparata da una lunga tradizione dell'AT.
Nei testi dell'esilio e del post-esilio va acquistando man mano importanza l'aspetto
piu` interno e spirituale dell'umilta`: si esalta
come ideale religioso l'umile, il
povero, il quale pone tutta la sua speranza non nei beni terreni ma solo in Dio
(cf.Is.57,15; 66,2).
Quindi l'umilta` e` legata intimamente con la poverta`; gli umili per
eccellenza sono gli <anawim>, i "poveri di Yahwe; non si tratta
solo e
sempre di indigenza materiale, ma di una disposizione interiore, tanto che il greco ha
reso spesso il termine con la parola
<praus> = mite, sottomesso, umile, mansueto.
b) nel NT.
GESU` sopratutto insegna cio` in modo mirabile con il suo esempio; egli stesso
si mette tra gli "anawim" e si offre come modello:
"Imparate da me che sono
mite e umile di cuore" (Mt.11,29). L'umilta` di Cristo ha due aspetti:
umilta` fraterna rispetto agli uomini che si manifesta concretamente nello spirito
di servizio: "Il Figlio dell'Uomo non e` venuto per
essere servito, ma per servire e
dare la sua vita..." (Mt.20,26). Gesu` si identifica con i poveri, con i piu` miseri:
"Cio` che avete
fatto al piu` piccolo..." (Mt.25,40) e, invece di cercare la sua
gloria, (Giov.8,50), si umilia fino a lavare i piedi ai suoi apostoli
(Giov.13,2-17), il
che era un compito caratteristico degli schiavi.
La KENOSIS di Cristo
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
morte di croce, per compiere la volonta` del Padre (I aspetto: umilta` davanti a
Dio) e prestare agli uomini il supremo servizio di
dare la vita per loro (II aspetto:
umilta` fraterna).
Con i testi dell'epoca patristica si potrebbe formare una bellissima e densa antologia
sull'umilta`, tanto essa appare con frequenza
sia presso i Padri Greci che presso quelli
Latini. Per Atanasio e` un'attitudine interiore; per Basilio il servizio del
prossimo; per
Giovanni Crisostomo madre e guida; per Girolamo guardiana di
tutte le virtu`. E tutti la vedono in relazione all'esempio di Cristo.
Origene
parla con insistenza ed entusiasmo di Cristo quale "maestro di umilta`"; cosi` Clemente
Alessandrino, Basilio, Gregorio di
Nissa, Ambrogio e sopratutto S.Agostino
con testi numerosi ed espressioni commoventi: "Fu crocifisso per te per insegnarti
l'umilta` (Discorsi su Giovanni 2,4); "Gli sembro` poco essersi fatto uomo, ma
volle anche essere condannato dagli uomini; poco,
essere condannato, volle anche essere
disonorato; poco, essere disonorato, volle anche essere ucciso; poco, essere ucciso, volle
anche essere crocifisso..., poiche` non si trattava di una morte qualunque..., scelse la
piu` terribile e dolorosa forma di morte..., si
umilio` talmente che accetto` la
morte in croce" (ibid. 36,4)
sono gli elogi che troviamo in tutta la letteratura del monachesimo primitivo. E
troviamo anche una infinita` di manifestazioni:
vestire poveramente, lavare i piedi
agli ospiti, rifiutare il sacerdozio, obbedire senza limitazioni al padre spirituale o al
superiore del
monastero... Cosi` per la tradizione monastica la parola "umilta`"
acquista un significato straordinariamente ampio che include la
bassa stima di se stesso,
le umiliazioni, l'obbedienza, l'imitazione di Cristo e altri concetti di maggiore e minore
importanza.
L'umilta' in Cassiano
Tutto questo appare chiaramente dalle opere di Cassiano, da cui dipendono RM e RB. E`
significativo che egli non dedica
nessuna delle sue "Collazioni" all'umilta` in
particolare, proprio perche` - come si e` detto - per gli antichi monaci essa non e` una
virtu` particolare, ma piuttosto un atteggiamento, uno spirito che pervade tutte le
virtu`. Nel 12^ libro delle "Istituzioni" dimostra che
l'umilta` e` la
disposizione fondamentale di tutta la perfezione cristiana e, nello stesso tempo, il suo
coronamento. Secondo
Cassiano l'umilta` non solo abbraccia tutto il processo di
purificazione dell'anima, dall'estirpazione dei vizi all'acquisto delle virtu`,
ma anche continua
fino alla carita` perfetta e ai diversi gradi della contemplazione; la sua importanza
e` tale che occupa il posto
centrale nella concezione del monachesimo, in modo che umilta`
potrebbe usarsi per designare la vita monastica (Coll.9,3; 24,9).
L'umilta` insomma
consiste in una disposizione spirituale profonda e sincera che accompagna e da`
autenticita` a tutte le opere, a
tutti gli sforzi e a tutte le virtu` del monaco.
I testi sono numerosi. Ricordiamo solo l'itinerario diventato poi classico (la famosa scala di RM e RB), che parte dal timore del
Signore e dei suoi castighi e conduce, attraverso i gradi intermedi della purificazione dei vizi e del distacco dal mondo, alla
carita`
perfetta. Si trova in: Istit.4,32-43: esortazione dell'abate Pinufio ai
novizi; in particolare nei capitoli 38-39 si parla di dieci "indizi" o
"segni" dell'umilta`, che hanno dato poi lo spunto ai "gradini"
dell'umilta` di RM e RB.
L'umilta` nella RM
Il capitolo 7 di RB
Tuttavia vi sono importanti differenze: SB abbrevia molto (70 vv. contro i 123
di RM.10); varia l'introduzione ai singoli gradini; usa il
termine "monachus",
mai il termine "discipulus" come in RM dove ogni capitolo ha la forma di una
risposta del maestro alla
domanda del discepolo. Sopratutto e` importante la modifica
nella conclusione: SB sopprime la lunga conclusione della RM con la
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descrizione della
patria celeste, come del resto abbrevia anche nel preambolo alcuni accenni al cielo; cioe`
per SB l'umilta`
conduce semplicemente alla carita' perfetta; cosi` la sua
conclusione e` piu` semplice e piu` armonica e fa vedere un cammino
preciso nella vita
monastica che dalle strettoie dell'osservanza conduce alla perfezione della carita`, al
cuore dilatato e alle vette
della virtu`. Difatti bisogna confrontare la finale del
capitolo 7 (RB.7,67-70) con Prol.49-50 e con RB.73,8-9, cioe` con
l'inizio e la
fine della Regola (testi propri di SB).
- epilogo (vv.67-70).
CASSIANO RM - RB | CASSIANO RM - RB
12|68
25|76
3 cf.3 | 8 7
4 cf.3 | 9 9 e 11
5 4 | 10 10
Il primo gradino di RM-RB, il piu` lungo, non si ritrova in Cassiano, cosi` anche per
il 12^; inoltre gli indizi 3^ e 4^ di Cassiano sono
uniti in un solo gradino, mentre il 9^
di Cassiano viene diviso in due differenti (9 e 11) da RM e RB; anche la sequenza e`
differente. Esaminiamo ora il testo di RB.7
SB pone come pietra fondamentale del suo trattato sull'umilta` una massima del Signore
e la pone con particolare enfasi e
solennita`: "Fratelli, la divina Scrittura ci
grida..." <clamat, e` la prima parola del capitolo!>.
SB giunge a una conclusione: i nostri atti di abbassamento nell'umilta` sono veri atti
di ascensione verso la perfezione. Tale
ascensione conduce all'idea della scala.
Cassiano, abbiamo visto, a proposito dell'umilta`, parla di "indizi", di
"segni", da cui il
padre spirituale puo` conoscere l'umilta` del discepolo;
pero` in altri luoghi, trattando del cammino verso la perfezione, parla di
"gradi" (Istit.4,39); cosi` anche di "gradini discendenti della
superbia" (Inst.4,29-30), di "gradini della giustizia" (Coll.12,7) ecc.
Comunque, l'allegoria della scala e` antichissima e costituisce un tema spirituale
frequente nella letteratura monastica e patristica
per indicare l'ascensione dell'anima
verso Dio e il progresso nella vita spirituale. Basti ricordare che S.Giovanni Climaco,
contemporaneo di SB, deve il suo nome appunto a un trattato sulla "Scala (in
greco <climax>) del Paradiso", dove la vita spirituale
e` paragonata ad
una salita per 30 gradini. SB aggiunge un'applicazione allegorica della celebre scala di
Giacobbe (Gen.28,12) a
cui spesso si richiamavamo gli antichi scrittori, come S.Basilio,
Cassiodoro, e specialmente S.Girolamo: "... il patriarca Giacobbe
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E` singolare il senso accomodato che SB da` agli angeli. Gli angeli che salgono
e scendono, comunemente sono visti come
intermediari tra Dio e gli uomini: alcuni scendono
a portare i doni di Dio, altri salgono a portare le preghiere e le azioni degli
uomini. Per
SB significano umilta` e superbia; e si noti con che forza si ferma su questa insolita
interpretazione: "senza dubbio...
significa solo questo..."!
ed e` Dio che la erige (si noti bene l'iniziativa di Dio, come nel v.9 e` Dio
che chiama a salire la scala). I lati (SB pensa a una scala
a pioli - quindi le due
fiancate, gli stazzi - sono il corpo e l'anima, cioe` i due principi costitutii
della natura umana, perche` l'umilta`
deve essere interiore ed esteriore; difatti
ha citato prima (v.3) il salmo 130,1: "il mio cuore non si inorgoglisce e il mio
sguardo non
si leva in superbia: il cuore = l'interno, lo sguardo = l'esterno.
a Dio, 1^ gradino),
- e tutto questo lo opera Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo (v.70)
Possiamo quindi presentare questo aspetto della scala dell'umilta`: dal timor di Dio
all'amore perfetto attraverso:
I sette primi gradini hanno per oggetto la condotta interna del monaco umile; gli
ultimi cinque la sua condotta esterna.
Il primo gradino invita alla vigilanza su di se` e sulle proprie azioni a causa
della presenza di Dio che domina la vita dell'uomo,
secondo una mentalita`
tipicamente biblica. Dopo un enunziato generale e la descrizione del timor di Dio per
evitare i peccati col
pensiero, con la volonta` propria, con i desideri (vv.10-12),
fornisce le prove scritturistiche per le singole parti: pensieri (vv.13-18),
volonta`
(vv.19-22), desideri (vv.23-25); e conclude con una esortazione riassuntiva
(vv.26-30).
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Qui manca il ricordo della presenza di Dio perche` SB concepisce la volonta` propria
sempre come cattiva (di qui il suo pallino
dell'obbedienza!); tutto il brano si limita
quindi a richiamare il divieto di seguire la propria volonta`. Abbiamo anche qui quattro
citazioni bibliche (una implicita). Per indicare il Padre Nostro, nel testo latino c'e`
solo la parola "oratione", cioe` la preghiera per
eccellenza, quella insegnata
da Gesu`.
Dio e` presente a tutti i nostri desideri, quindi dobbiamo astenerci da quelli cattivi.
Si noti nel v.22 la frase: "la morte sta in agguato
proprio all'inizio del piacere
peccaminoso", presa letteralmente dagli "Atti di S.Sebastiano" falsamente
attribuiti a S.Ambrogio, ma
certo molto antichi; si vede che SB e i monaci li leggevano
spesso insieme agli altri Atti dei Martiri.
Facciamo prima qualche osservazione riguardo alle citazioni. Nel v.33 (2^
gradino) SB riporta una sentenza citandola
inesattamente come dalla Scrittura; la
spiegazione deve trovarsi nel fatto che egli cita a memoria e la frase, che gli sara`
stata
familiare, per svista la ritiene biblica, simile per esempio a qualcuna dei
Proverbi.
Nel v.37 (4^ gradino), nella citazione del salmo 26,14 e` piu` probabile che SB
intenda "sustine" nel senso di "sopporta"; questo
appare dal contesto:
c'e` immediatamente prima e immediatamente dopo lo stesso vocabolo "sustinere"
nel senso di sopportare. Il
significato sarebbe: sostenere (=sopportare) con
fede e pazienza l'ora di Dio il quale, per vie talvolta durissime alla natura umana,
ci guida alla santita`. Nel v.40 (4^ gradino), nella citazione del salmo 65,10-11,
il salmista allude alle gravi sciagure cui soggiacque
il popolo per permissione di Dio che
lo voleva purificare; SB applica il testo alle sofferenze che Dio puo` permettere
che il monaco
incontri nell'obbedienza. Cosi`, continuando nel v.41 la citazione
del salmo 65,12, SB continua nel senso accomodatizio: il
salmista allude all'uso dei
vincitori di calpestare i vinti; SB dice che i monaci devono sottomettersi volentieri ai
superiori, perche`
Dio stesso li ha posti sopra di noi!
In questi gradini dell'umilta` che riguardano l'obbedienza, appare Gesu` Cristo. Non
stiamo soltanto davanti a Dio tre volte santo,
terribile, giudice. Al momento di fare il
passo definitivo, di rinunciare alla propria volonta` e abbracciare l'obbedienza sino alle
ultime conseguenze, Cristo e` unito a noi.
Tra i primi quattro gradini esiste un perfetto crescendo: anzitutto il monaco si fa permeare dal timor di Dio e dalla necessita` di
rinunciare alla volonta` e ai desideri propri (1^ gradino); poi rinunzia a soddisfare i suoi desideri per realizzare il piano di Dio (2^
gradino); quindi decide di sottomettersi agli ordini di un superiore, il che e` gia` piu` difficile (3^ gradino); infine accetta ogni forma
di obbedienza, per quanto dura e penosa possa essere (4^ gradino). Ebbene, e` Cristo che lo trascina in questo
abbassamento
che e` il contrario dell'orgoglio di Adamo che voleva innalzarsi fino a Dio.
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Col 4^ gradino abbiamo gia` toccato il fondo dell'umilta`. I tre gradini seguenti
tuttavia conducono il monaco all'umile
riconoscimento della sua indigenza spirituale:
Cosi` abbiamo la sequenza dei primi sette gradini che riguardano l'aspetto interiore
dell'umilta`:
E' dunque umiliazione, e non piccola, rivelare sinceramente all'abate i peccati segreti
o anche i pensieri cattivi che vengono in
mente. Si tratta di un gradino impegnativo: il
cuore del monaco viene svelato, portato alla luce, egli accetta di essere rivelato a se
stesso. La manifestazione dei pensieri fa parte del nucleo piu` antico della spiritualita`
monastica; i "pensieri" (=pensieri, impulsi,
passioni, <loghismoi> in
greco) formavano la preoccupazione maggiore dei primi monaci, sopratutto per chi era
eremita
(cf.RB.1,5) e nel saperli svelare e combattere consisteva la saggezza del deserto;
pero` solo i Padri che possedevano il carisma
del discernimento potevano giudicare
rettamente circa questi "pensieri". Cassiano ha trasmesso tutta questa
spiritualita`
all'occidente: questo gradino corrisponde al 2^ "indizio" di
Cassiano (vedi piu` sopra la tabella).
Notiamo che cio` avveniva quando il superiore non era del tutto istituzionalizzato, era
ancora il "padre spirituale". La successiva
evoluzione ha dato all'abate altre
connotazioni meno carismatiche. Si e` cosi` operata una divisione tra l'abate e il
cosiddetto
"padre spirituale". Come dobbiamo interpretare questo gradino? Come
riferito all'abate (in SB e` cosi`, sopratutto qui; cf.pero`
anche RB.4,50; 46,5), oppure
a un'altra figura? E` un punto da discutere. Resta comunque la necessita` per il monaco di
una
capacita` di autoriconoscimento, di fronte all'abate e ai fratelli, della propria
miseria.
Delle tre citazioni bibliche che commentano il 5^ gradino, notiamo che nella seconda
del salmo 105,1 SB ha preso la parola
"confitemini" nel senso di
"confessatevi", "rivelatevi", mentre nel salmo significa
"lodate".
49-50: 6^ GRADINO: essere contento delle cose piu` vili e di essere umiliato
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Delle tre citazioni bibliche notiamo che nella seconda del salmo 87,16 il salmista
(secondo la Volgata) rileva che dopo essere
stato esaltato, e` stato umiliato e oppresso.
SB cita il testo nel senso che Dio umilia e confonde come castigo dell'orgoglio; la
nuova
traduzione dice: "sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori". La citazione del
salmo 118,71 e` precisa ed e` molto importante per
lo sfondo teologico di questi gradini:
l'umilta` e` vista come il risultato di un cammino di fede; dentro la propria umiliazione
si
riconosce la presenza di Dio, l'azione educativa di Dio che ci purifica: "Bene per
me se sono stato umiliato... Commovente poi la
citazione del salmo 21,7: "Io sono un
verme..."; cosi` il monaco si appropria della parola di Cristo sofferente e diventa
simile a lui.
(Conviene avvertire che poche anime arrivano a questa cima e ci vivono abitualmente: e`
certamente un dono di Dio" (Marmion).
Questi tre gradini si ricollegano alla dottrina del silenzio, gia` vista nel
capitolo 6 e in un gruppo di strumenti delle buone opere
(RB.4,51-54); sono cioe` alcuni
aspetti della "taciturnitas". Il nono invita a frenare la lingua, il decimo a
non ridere facilmente,
l'undicesimo come deve parlare un vero monaco.
Appare chiara la relazione di questo ultimo gradino con il primo. Dobbiamo notare
specialmente che il giudizio di Dio che nel 1^
gradino appare come un orizzonte lontano
anche se terribile (v.11, nel 12^ gradino e` presente: il monaco umile "si
vede gia`
davanti al tremendo giudizio di Dio" (v.64), perche` la sua fede e
il ricordo continuo dei suoi peccati ha operato questa specie di
anticipazione di una
realta` escatologica. Tema comune ad ambedue gli estremi gradini della scala, il peccato
stabilisce fra loro
una sequenza paradossale: mentre nel primo si raccomanda al
monaco di guardarsi costantemente dal peccato e dai vizi (v.12), il
monaco arrivato
all'ultimo gradino "si sente in ogni istante colpevole dei propri peccati" (v.64).
Progresso sorprendente: uno si
guarda costantemente dal peccato per sentirsi alla fine
piu` peccatore che mai! Ma il paradosso si spiega con l'esperienza dei
santi e la logica
propria della scala dell'umilta` in cui non si sale se non abbassandosi.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
67-70: Epilogo
Come la scala di Giacobbe, la scala dell'umilta` non termina in questo mondo, conduce
"all'esaltazione celeste" (v.5). Per questo
la RM, alla "carita`
perfetta" che corona la scala come in Cassiano, aggiunge con logica una lunga
descrizione del cielo
(RM.10,92-122), presa dall'apocrifa "Passione di
S.Sebastiano". SB, eliminando la conclusione escatologica della RM, restituisce
importanza alla conclusione di Cassiano, secondo cui al timore succede l'amore gia` su
questa terra e mantiene la scala
dell'umilta` nei limiti del progresso spirituale in
questa vita, anche se cosi` in RB c'e` un'incongruenza tra il preambolo, che parla di
una
scala levata verso il cielo, e l'epilogo in cui non c'e` piu` la prospettiva escatologica.
CONCLUSIONE
L'umilta`, nella RB come nella tradizione patristica e monastica anteriore, esprime un concetto
completo con molti e diversi
elementi, un compendio di cammino ascetico; ma una
ascesi che non solo sbocca alla contemplazione, ma include gia` in se
stessa una levatura
mistica di grande efficacia. Perche` umilta` significa anzitutto imitazione di Cristo
secondo la prospettiva
paolina; cioe` non solo l'imitazione esterna dell'esempio di Gesu`
storico, ma la comunione intima con i suoi sentimenti, la
partecipazione alla
"kenosis" di Colui che "non considero` un tesoro geloso la sua uguaglianza
con Dio", ma preferi` la nostra
pochezza e miseria, e nel suo amore arrivo` a dare la
vita per noi sulla croce.
Ecco dunque la scala dell'umilta`. Siamo partiti con il timor di Dio, siamo condotti lungo il cammino da Cristo e procediamo con
Cristo e, al termine di questa pedagogia arriva lo Spirito Santo e si comincia ad operare con quella carita` perfetta che scaccia il
timore e si va avanti senza sforzo, naturalmente. Cosi`, lungo la scala dell'umilta`, operano nel monaco Padre, Figlio e Spirito
Santo.
CAPITOLI 8-11
Nei testi piu` antichi, per "OPUS DEI" <Opera di Dio> si intende
tutta la vita spirituale del monaco o, semplicemente, la vita
monastica. Poi a poco a poco
il significato si restrinse a designare la vita di orazione organizzata intorno
alla lettura della Parola di
Dio, alla salmodia e alla preghiera silenziosa. Questo e' il
senso di "Opus Dei" nella RB, con particolare riferimento alla Preghiera
liturgica comune, l'Ufficio Divino, o come diciamo oggi, la Liturgia delle
Ore.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Al gruppo dei capitoli relativi alla dottrina ascetica segue un blocco di capitoli
relativi alla preghiera. E' da notarsi la loro posizione,
quasi a dire che l'Opus Dei
e' l'occupazione principale della vita cenobitica. Nella RM, invece, il direttorio
dell'Ufficio si trova nei
cc.33-45, dopo l'argomento sul dormitorio e la levata.
E' senza dubbio errato considerare i Benedettini come "fondati per il coro";
ma e` anche certo che nella mente del S.Legislatore,
interpretata poi da tutta la
tradizione benedettina, la liturgia costituisce l'occupazione conventuale essenziale e
primaria a cui nulla
deve anteporsi: "Nihil Operi Dei praeponatur"
<Nulla si anteponga all'Opera di Dio> (RB.43,3).
La sezione sull'Ufficio Divino e` molto omogenea sia dal punto di vista dell'argomento
che del vocabolario e dello stile. Vi
abbondano, sotto questo aspetto, anormalita`
linguistiche, vocaboli e modi di dire del latino volgare, della lingua corrente del
sec.VI. E` probabile che tutto il blocco dei cc.8-18 formasse un fascicolo a se` che
conteneva il "corpus liturgico" dei monaci prima
della redazione della RB; fu
poi inserito da SB nel corpo della sua Regola con alcune modifiche.
Prescindiamo dalla divisione e dal titolo dei singoli capitoli, cose che sembrano
abbastanza fittizie, e rileviamo l'importanza di
questa sezione che risulta dal fatto
stesso della quantita`, della minuziosita` con cui viene stabilita ogni parte dell'Ufficio
Divino e
dal posto preminente che occupa nella Regola, subito dopo la sezione dottrinale e
prima della parte legislativa propriamente detta.
Si era parlato e si era scritto per molto tempo sull'influsso dell'Ufficio benedettino
su quello romano. In seguito, dopo una notevole
serie di studi, si e` dimostrato (e oggi
e` pacifico) tutto il contrario, cioe` che l'ufficio benedettino segue passo passo
l'ufficio
romano classico. La Regola, in un punto preciso (RB.13,10) a proposito dei
cantici, fa riferimento alla salmodia della chiesa
romana; pero` questo influsso si rivela
altrove, sopratutto per le ore principali, Lodi e Vespri, e talvolta l'ufficio della
vigilia; per il
resto la RB si ispira al "cursus" dei monasteri romani,
quindi con struttura tipicamente monastica. Inoltre e` facile scoprire contatti
innegabili
con altre tradizioni liturgiche, come l'ufficio bizantino, milanese, spagnolo, e piu`
particolarmente l'ufficio dell'ambiente di
Lerins - Arles e quello descritto nelle
Istituzioni di Cassiano.
Una prima caratteristica che si nota nel cursus benedettino e` l'interesse per la
precisione, per la massima regolamentazione di
tutti i particolari. Se in SB appare
sempre il senso, quasi il pallino, dell'ordine, cio` e` molto piu` evidente nel caso
dell'Ufficio
Divino. Altra caratteristica: rispetto alle due fonti principali (RM e
ufficio romano classico), SB abbrevia nettamente. Nel caso delle
vigilie, SB
abbrevia per dare ai monaci un tempo piu` lungo di sonno continuo, nel caso delle ore
diurne abbrevia in favore del
lavoro: cio` sembra dovuto al fatto che il monastero
previsto da SB sta in campagna e ci si trova in un periodo di difficolta`
economiche
dovute alla guerra tra Goti e Bizantini. Si deve dire anche che SB mitiga la durata
dell'Opus Dei in virtu` di tendenze
gia` presenti nelle sue fonti. RB e` piu` mitigata
anche nei raduni e nelle sanzioni per i ritardatari.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Con questi tre principi fondamentali, SB si mostra fortemente collegato alla tradizione
del monachesimo romano. Eclettico e
innovatore sotto certi aspetti, SB e` tuttavia
solidamente radicato in un preciso ambiente geografico e storico: "e` innovatore, ma
e` anzitutto l'uomo della tradizione" (DeVogue`).
L'ufficio monastico antico era fondamentalmente composto dagli stessi elementi di oggi,
ma aveva un aspetto abbastanza diverso.
La Parola di Dio - canto dei salmi e lettura dei
brani da altri libri della Sacra Scrittura - era, allora come oggi, la base principale. Ma
il modo di salmodiare era diverso da oggi. Per esempio, i cenobiti di Pacomio celebravano
cosi` la preghiera comunitaria: un
solista recitava la Scrittura - non necessariamente il
salterio - e quando aveva terminato una parte, i fratelli che avevano ascoltato
in
silenzio, si alzavano, facevano il segno della croce e, a braccia levate, recitavano il
Padre Nostro, poi si prostravano a "piangere
in silenzio" i loro peccati;
quindi, a un nuovo segnale, si alzavano di nuovo e pregavano in silenzio, finche` un
ultimo segnale li
invitava a sedere ancora e ad ascoltare altri brani della Parola di Dio
da un solista. Ugualmente in Cassiano (Inst.2).
- l'orazione silenziosa.
Al tempo di SB la recita dei salmi da parte di tutta la comunita` divisa in due cori
era sconosciuta o praticata molto raramente.
Cantavano i salmi uno o due solisti con la
partecipazione degli altri monaci quando la salmodia fosse responsoriale. I salmi
interrotti ripetutamente da un'antifona costituivano la maggior parte dell'Ufficio Divino;
grazie al ritornello cantato da tutti,
l'attenzione si manteneva viva. Dopo ogni salmo si
faceva un periodo di orazione silenziosa. Si deve tener presente questo se si
vuole
rettamente giudicare il cursus di SB.
Dato che SB faceva recitare i salmi secondo un criterio di ordine continuo (per esempio
alle vigilie dal 20 al 108, ai vespri dal 109
al 147), si puo` obiettare che si
succedevano salmi di temi completamente diversi. L'obiezione si risolve pensando appunto
alla
preghiera silenziosa dopo ogni salmo e alla colletta salmica. A proposito di questa,
che cosa si deduce dalla RB? SB conosceva o
no l'orazione salmica? C'e` un indizio
contrario in RB.43,4.10: "Chi non giunge al gloria del primo salmo..." sembra
indicare la
mancanza di colletta salmica. Pero` ci sono anche indizi positivi: RB.20,5
"L'orazione che si fa in comune" e` un richiamo a
Cassiano (Inst.2,7) che parla
appunto dell'orazione salmica; RB.50,3 "celebrino l'Opera di Dio dove lavorano
inginocchiandosi con
santo timore" corrisponde a RM.55,4.18 la quale prevede la
genuflessione dopo il salmo per l'orazione salmica; RB.67,2 "l'ultima
orazione
dell'Ufficio Divino...", essendo l'ultima, suppone una serie di orazioni scaglionate
lungo l'intero ufficio. Pare quindi giusto
dedurre l'uso della colletta salmica in RB,
anche se RM e` piu` esplicita in proposito.
Anche per l'orazione silenziosa dopo ogni salmo, abbiamo tutta la tradizione monastica:
tale orazione silenziosa era conclusa dal
sacerdote che presiedeva. Tra il V e il VI
secolo, appaiono serie di collette salmiche dette come conclusione della pausa
silenziosa.
Nella RM la pausa durava almeno un minuto e mezzo, altrove piu', altrove meno. La cosa
comincia poi ad entrare in
crisi sia perche` il gesto che l'accompagnava, cioe` la
genuflessione, e` scomodo, sia perche` spesso non si sa come passare il
tempo di silenzio
(vedi quanto e` attuale il problema!). "Cosi` l'orazione salmica era presente sia al
corpo che all'anima per la
fatica fisica della prostrazione e per lo sforzo spirituale
dell'orazione silenziosa. A partire da queste due difficolta` bisogna spiegare
senza
dubbio la sua scomparsa. E` un fatto compiuto gia` nell'ambiente di SB? La poverta` della
documentazione sull'Italia non ci
permette di affermarlo" (DeVogue`). Pur
nell'incertezza e divergenza di opinioni, riteniamo comunque che nella salmodia secondo
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
la
RB l'orazione silenziosa dopo ogni salmo e la colletta salmica erano due elementi di
grande importanza.
Nota sull'orario in SB
Per capire bene tutte le indicazioni di orario dei capitoli seguenti, si pensi al modo
di computare di SB. Ogni ora non consta di 60
minuti, ma varia secondo le stagioni,
perche` il giorno, dal sorgere del sole al suo tramonto, e` diviso in dodici parti uguali
e cosi`
anche la notte; sicche` al solstizio di giugno l'ora del giorno vale 75 minuti,
mentre al solstizio di dicembre 45 minuti. L'inverso
avviene per la notte. Solo agli
equinozi l'ora sia del giorno che della notte e` di 60 minuti.
1) Inizio di Quaresima
2) Pasqua
3) Pentecoste
4) 14 Settembre
5) Principio di Ottobre
6) Principio di Novembre.
CAPITOLO 8
Passare in veglia buona parte della notte era una pratica molto comune nella Chiesa
primitiva, secondo la mistica dell'"attesa dello
Sposo" (cf. anche Dante,
Paradiso X, 140-141: "Nell'ora che la Sposa di Dio surge a mattinar lo Sposo perche`
l'ami"). La vigilia
domenicale, iniziata con la grande veglia pasquale, risale
ai tempi apostolici. Le altre vigilie notturne cominciarono a celebrarsi in
occasione
delle maggiori solennita` liturgiche e delle feste dei martiri locali.
dodici parti uguali). Da RB.41,9 risulta che vespro e cena dovevano aver luogo con la
luce del giorno: al massimo quindi i monaci
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Il sonno piu` che sufficiente gia` concesso esclude che si ritorni a letto dopo
l'Ufficio notturno. SB ritarda di quasi due ore la levata
rispetto a RM, ma sopprime il
"secondo sonno" concesso da RM dopo l'Ufficio notturno in inverno e dopo le lodi
mattutine d'estate.
In questo SB dipende da Cassiano (Inst.2,13; 3,5) che criticava l'uso
del "secondo sonno" allora assai diffuso. Percio` dopo
l'Ufficio notturno, i
monaci di SB disponevano di un tempo piu' o meno lungo. I fratelli che ne avevano bisogno
impiegavano tale
tempo nello studio del salterio e delle lezioni (sono le "letture
brevi" che si recitavano a memoria come viene detto in RB.9,10 e
12,4.
4: Levata d'estate
Per il periodo estivo non e' fissata un'ora precisa per la levata. Essa doveva essere
regolata in modo tale che, tra l'Ufficio notturno
e quello del mattino, ci fosse solo un
piccolo intervallo. Nei mesi aprile-maggio e settembre-ottobre si hanno in media dalle 8
alle 7
ore di sonno continuo; a giugno di meno, fino a un minimo di 5 ore; ma forse si
andava un po' piu` tardi all'Ufficio notturno (il quale
d'estate e' piu` corto non
essendoci le letture come si vedra` al c.10); la siesta prevista da SB (RB.48,5) serviva
appunto a
compensare il difetto del sonno notturno, specialmente nel periodo centrale.
CAPITOLO 9
Questo capitolo parla soltanto dell'Ufficio notturno feriale, del tempo ordinario, nel
periodo invernale. Si inizia con il versetto
"Signore, apri le mie labbra..."
(salmo 50,17), che viene ripetuto tre volte in coro, nel silenzio della notte. SB mostra
una certa
predilezione per queste formule ternarie sia in onore della SS.ma Trinita`, sia
per far penetrare piu` profondamente nel cuore dei
monaci i concetti espressi dalle
labbra. Il salmo 3 (aggiunto da SB, come detto sopra, forse e` scelto a motivo del v.5:
"Io mi corico
e mi addormento, mi sveglio perche` il Signore mi sostiene". Il
Gloria Patri, breve e popolare dossologia, molto comune al tempo
della controversia
ariana, e` usato frequentemente da SB nel suo cursus liturgico; qui l'adopera, come alla
fine di ogni salmo,
secondo l'uso romano. Il salmo 94, "accompagnato dall'antifona,
oppure cantato lentamente" (v.3), e` quello chiamato invitatorio,
molto adatto al
momento sia per l'inizio "Venite, applaudiamo al Signore...", che per il
contenuto; era intercalato normalmente da
un'antifona, cioe` un versetto con cui il coro
si univa al canto del solista o dei solisti.
Seguono i primi sei salmi con le antifone e poi un versetto. Quindi il lettore chiedeva
la benedizione all'abate per leggere le letture.
Si dice nel v.5 che a questo punto i
fratelli si siedono: quindi bisogna dedurre che i salmi erano recitati tutti in piedi;
cio` e`
confermato dal fatto che SB per il Gloria dei salmi non ordina, come per i
responsori (v.7), di alzarsi. E possiamo da qui notare la
discrezione di SB che colloca le
letture con i responsori dopo i primi sei salmi, mentre nell'Ufficio romano e in Cassiano
(Inst.2,4-6)
erano alla fine dei dodici salmi: percio` le letture, durante le quali i
fratelli stavano seduti, costituivano un vero riposo fisico e
spirituale, a meta` di un
Ufficio lungo e pesante.
Si parla ora del secondo notturno, con altri sei salmi; essi hanno per antifona
l'alleluia per ricordare che la vita del monaco e` una
vita pasquale in unione con
Cristo risorto. Si intercalava l'alleluia, ma non sappiamo come e quante volte. Seguiva
una lettura
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAPITOLO 10
Il capitolo precedente parlava della preghiera notturna d'inverno. Nel semestre estivo
- da Pasqua a novembre - le notti sono
corte; per poter celebrare le lodi mattutine
all'alba, si deve anticipare la sveglia e sopprimere il tempo per lo studio dopo l'Ufficio
notturno (RB.8,4). Il sonno e` accorciato di parecchio; per non restringerlo troppo, si
abbrevia un po` anche l'Ufficio notturno; ma si
deve mantenere il sacrosanto numero di
dodici salmi: allora si sopprimono le lezioni, riducendole a una sola. a memoria, quindi
breve, e seguita da un responsorio breve.
CAPITOLO 11
Nonostante sia stata abolita la pratica della vigilia nel senso originale, il nome e`
restato (25 volte in RB, come nel titolo di questo
capitolo), ma ormai solo nel senso di
Ufficio notturno, come appunto quello di "notturno".
Un Ufficio cosi` ricco e vario occupava evidentemente buona parte della notte e
comportava non poca fatica. Per celebrarlo con
dignita` la comunita` doveva alzarsi molto
prima degli altri giorni e d'estate il sono era ridotto veramente a poco. Quindi,
nonostante l'abolizione della vigilia in quanto tale, abbiamo un ufficio notturno con una
ampiezza e una solennita` degne della
commemorazione settimanale della risurrezione del
Signore.
Alzarsi tardi poteva piu` facilmente capitare in quei tempi, perche` mancavano gli
orologi a suoneria. Mentre per il giorno avevano
la clessidra, la meridiana, l'orologio
idraulico e altri strumenti, la difficolta` era grandissima per la notte. Usavano vari
espedienti,
come per esempio il consumo di una candela, ma piu` spesso dovevano affidarsi
al corso delle stelle o al canto del gallo; per tutti
era necessaria una speciale
attitudine a vegliare. Ma la negligenza, la distrazione, la sonnolenza entravano a volte
in causa: SB
ribadisce che tale disordine deve assolutamente evitarsi; troppa riverenza
merita l'Opera di Dio perche` si debba abbreviare a
causa di un ritardo nella sveglia. Si
noti che l'abbreviazione, in caso, riguardera` letture e responsori, mai il
"sacro" numero dei
dodici salmi!
CAPITOLO 14
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Nel titolo si parla solo delle feste dei santi, ma nel corpo del capitolo si tratta di
tutte le altre solennita`, ossia le feste dei misteri del
Signore: Pasqua, Natale,
Epifania, Pentecoste, ecc. Per questo il calendario monastico si era adattato subito alla
chiesa romana.
Oltre alla B.Vergine Maria, al Battista e ad alcuni Apostoli, a
Montecassino si saranno celebrati S.Martino e pochi altri: le feste dei
santi erano molto
rare.
In questi giorni la struttura dell'Ufficio notturno era quella domenicale, cioe` con il
terzo notturno, con dodici lezioni e dodici
responsori, soltanto che salmi, lezioni e
responsori saranno stati propri di quel giorno festivo.
CAPITOLO 12
Nella conclusione la prece litanica probabilmente era completa, cioe` con le varie
intenzioni cui si rispondeva: "Kyrie eleison..."
4: e cosi` si finisce... ,
CAPITOLO 13
Nei giorni feriali rimangono fissi il salmo 66 come introduzione (recitato lentamente
perche` tutti possano giungere), il salmo 50 e
le "laudes", cioe` i salmi
148.149.150. Cambiano ogni giorno i due salmi dopo il 50 e il cantico dell'AT
(corrispondente al
"Benedicite" della domenica), come usa la chiesa romana
(v.10).
Il Padre Nostro insegnato da Gesu` ebbe fin dagli inizi della chiesa il posto
d'onore nella preghiera pubblica e privata. In Spagna si
recitava solennemente
nell'Ufficio divino e cosi` prescrive SB. In tutte le Ore il Padre Nostro si recitava al
termine, ma sottovoce,
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Speriamo che non avvenga dei monaci quello che racconta Cassiano (Coll.9,22) di certi
cristiani che, arrivati a quel punto del
Pater, passavano sotto silenzio il "dimitte
nobis", naturalmente per non credersi obbligati al perdono...!
CAPITOLO 15
L'alleluia
RB si conforma all'uso romano per le domeniche, cioe` l'alleluia dal terzo Notturno
fino a Nona; invece, diversamente dall'Ufficio
romano, prescrive l'alleluia nei giorni
feriali al secondo Notturno. Naturalmente in Quaresima non si dira` mai l'alleluia, mentre
da
Pasqua a Pentecoste si dira` sempre, cioe` a tutte le Ore, anche nei responsori.
CAPITOLO 16
SB fissa le Ore canoniche per il giorno: sono sette senza contare l'Ufficio notturno e
includendo l'Ora di Prima. Il numero sette,
gia` considerato sacro nell'AT, lo e`
per l'Ufficio divino in forza del citato v.164 del salmo 118 (certo, il salmista intende
dire "sette
volte" nel senso di "molte volte", ma la tradizione
monastica vi ha visto indicato un numero preciso). SB non include l'Ufficio
notturno, per
il quale trova una giustificazione nell'altro versetto citato, il 62, del salmo 118.
Quindi: "sette volte al giorno" (Lodi,
Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro,
Compieta) e "una volta la notte" (l'Ufficio vigiliare o notturno).
L'Ora di Prima...
Nel corso dei secoli l'Ora di Prima era diventata l'Ora di preparazione al lavoro anche
nel senso di organizzazione della giornata:
si recitava nella sala del
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Terza, Sesta e Nona risalgono a remotissima antichita` nella Chiesa. Ne parlano molti
Padri. Furono scelte perche` salisse a Dio
la lode nelle tre principali divisioni del
giorno, ma fu loro assegnato anche un senso mistico: Terza ricorda la discesa dello
Spirito
Santo (vedi gli inni); Sesta ricorda la crocifissione di Gesu`; Nona e` l'ora in
cui Gesu` discese agli inferi, in cui Pietro e Giovanni
salivano al tempio a pregare (Atti
3,1), il centurione Cornelio ebbe la visione (Atti 10,3).
... Compieta.
CAPITOLO 17
Cantare i salmi con l'antifona comportava piu` tempo e maggiore solennita`, le piccole
comunita` non sempre potevano farlo.
Tuttavia SB vuole che i salmi delle Ore minori siano
recitati singillatim et non sub una Gloria <distinti e non sotto un solo
Gloria>
(v.2) forse perche` altrove accadeva che i salmi detti senza antifona perdevano
anche il Gloria. SB vuole che le Ore minori
possano avere salmi non antifonati, se la
comunita` e` piccola, ma sempre ognuno con il proprio Gloria.
CAPITOLO 18
A differenza degli orientali, presso i quali il salterio era recitato solo nelle
vigilie e nei vespri (i salmi erano raggruppati in sezioni
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stabili e inseparabili -
carismi - che si seguivano senza interruzione), RB e il rito romano includono nella
ripartizione settimanale
tutte le Ore. Tuttavia anche in SB (e nel rito romano) abbiamo
una lectio continua dei salmi (vedi schema sopra). La linea
evolutiva della
distribuzione del salterio e`: Bisanzio-Roma-RB. RB e` meno semplice, meno coerente, meno
omogenea. Si pensi
al caso di Prima che inizia il salterio dal lunedi` (v.3), mentre nel
rito bizantino e romano il salterio comincia la domenica. Tutto fa
ritenere che il
salterio benedettino e` un'opera secondaria, su rimaneggiamenti del romano. Con questo, SB
ha ottenuto due
risultati: l'abbreviazione e la varieta`.
Avendo meno salmi da assegnare alle Opre primitive (Vigilie e Vespri), ha dovuto
dividere quelli piu` lunghi, ridurre da cinque a
quattro quelli del Vespro; ugualmente,
tre strofe del salmo 118 (invece di sei come nel rito romano) alle Ore
minori. SB abbrevia anzitutto a causa del lavoro. L'Ufficio romano era per comunita`
urbane; adattandolo a monasteri rurali ha
dovuto abbreviare specialmente le Ore minori che
interrompevano il lavoro giornaliero. Come gia` si e` detto, lo schema della RB
corrisponde allo schema "A" del "Thesaurus" della Liturgia delle Ore
nel rito monastico.
Terminata l'esposizione del suo cursus liturgico, SB avverte che non intende imporre
categoricamente la sua disposizione.
Possiamo qui notare la liberta` lasciata dal santo
all'iniziativa di altri, o anche la sua umilta` che non pretende di aver creato una
struttura perfetta. Lascia quindi liberta`, ma a una condizione: che si salvaguardi la
recita settimanale dell'intero salterio. E lo fa
appellandosi ai Padri della vita
monastica, evidenziando il contrasto tra "i nostri santi padri... alacremente... in
un sol giorno" e "noi
tiepidi... in una settimana". Pare che si alluda
all'episodio delle Viate Patrum (3,6; 5,4.57): un egiziano ando` a visitare un altro,
che
lo volle ossequiare con una buona cena - un piatto di lenticchie! - ma prima lo invito` a
pregare dicendo: Facciamo l'Opera di
Dio (Opus Dei), e poi mangeremo". Ambedue erano
tanto fervorosi che uno recito` l'intero salterio e l'altro (sempre a memoria,
s’intende) due Profeti maggiori!
Insomma SB vuole stimolare l'ardore dei monaci (vedi fine cap.73), far vincere la
tiepidezza e la negligenza, incitarli alla corsa
continua, al fervore nella via della
preghiera, per arrivare a quella preghiera senza interruzione ("Pregate
incessantemente"
1Tess.5,17; Ef.6,18; cf.Rom.12,12; Fil.4,6; Col.4,2) di cui la
preghiera a ore fisse in comune e` solo un mezzo e una tappa.
CAPITOLO 19
De disciplina psallendi
La sezione liturgica di SB si chiude con due brevi capitoli di contenuto diverso dai
precedenti. RB.8-18 ha un aspetto - possiamo
dire - piu` tecnico: si tratta di organizzare
i vari uffici, precisarne le rubriche ecc...; RB.19-20 ha un aspetto piu` spirituale,
precisa
sopratutto le disposizioni interiori della preghiera.
Quindi tutto l'ordinamento scrupoloso sull'Ufficio divino di RB.8-18 non deve trarre in
inganno, quasi si vogliano escludere altre
forme di orazione, quella che oggi siamo soliti
chiamare personale o privata. Non e` cosi`:
Primo, perche` - come abbiamo visto - l'orazione segreta e interna costituiva una
parte dell'Ufficio divino da intercalarsi, secondo
l'uso monastico, alla recita dei salmi
(orazione silenziosa dopo ogni salmo).
Terzo, perche` per SB, come per tutto il monachesimo primitivo, tutta la vita del
monaco senza eccezione era, alla fine dei conti,
"Opus Dei" <Opera di
Dio>. Tutta la vita del monaco era concepita come strettamente legata alla sua
preghiera.
I capitoli 19-20 della RB dipendono da RM.47-48 che presuppongono una fonte comune che
non e` facile determinare, con
evidenti allusioni a Cassiano (Coll.23,6; Inst.2,10).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
La seconda citazione (v.4 - salmo 46,8) si riferisce alla "sapientia" con cui
si deve salmodiare. "Psallite sapienter - cantate inni con
arte": che cosa
significa precisamente? Scienza, abilita`, arte, perfezione, accuratezza, precisione,
attenzione? E` difficile
precisarlo. Tutte queste cose insieme. Comunque, non c'e` dubbio
che "sapienter" si riferisce anzitutto alle disposizioni spirituali
dei
monaci che celebrano l'Ufficio; non si tratta qui di rubriche o di cerimoniale (che pure
hanno la loro importanza), qui si parla
della disciplina dell'"uomo interiore".
La terza citazione (v.5 - salmo 137,1) ci trasferisce in una prospettiva molto ampia. Qui c'e` tutta la tradizione monastica sugli
angeli e sulla relazione tra vita monastica e vita angelica, in ultima analisi tutta la prospettiva escatologica della vita monastica (e
della vita cristiana in quanto tale). La RB vuol dire probabilmente che l'Ufficio divino dei monaci non e` solo anticipazione della
liturgia celeste, ma anche una partecipazione del culto che gli angeli tributano a Dio. SB, cioe`, sente vivamente l'unione del cielo
con la terra durante la celebrazione dell'Ufficio divino. Inoltre per lui l'Opus Dei non e` soltanto imitare cio` che gli angeli fanno in
cielo; ma questi si rendono realmente
presenti nella liturgia monastica e i monaci realizzano il servizio divino anche alla loro
presenza, come dice espressamente il v.6.
6-9: Conclusione
CAPITOLO 20
De reverentia orationis
SB non definisce la preghiera; da` per scontato che i monaci per cui scrive sappiano
bene che cosa sia. Il titolo stesso del capitolo
risulta estremamente sobrio.
"Riverenza" denota un atteggiamento generale della presenza di Dio, di timore
nel senso biblico, che
include umilta` e amore.
Sono altre due qualita` che fanno parte della saggezza tradizionale del monachesimo.
Alla "riverenza" formata di umilta` e di puro
abbandono (= purezza di devozione,
dei vv.1-2), si aggiungono ora la "sobrieta' delle parole", la "purezza del
cuore" (cioe` quella
coscienza monda dai vizi e dai peccati cui SB ha accennato
sopratutto nel capitolo sull'umilta`, RB.7,12.18.29.70; vedi piu` sotto il
significato
della "puritas cordis") e la "compunzione" (anche negli strumenti
delle buone opere (RB.4,57) e riguardo all'oratorio
(RB.52,4) SB parla delle lacrime che
accompagnano la preghiera). Poi SB conclude dicendo che la preghiera sia "breve"
e "pura"
(di nuovo!), a meno che non si prolunghi per ispirazione di Dio (v.4) e
che comunque in comunita` sia breve (v.5).
A questo punto vediamo due problemi che sorgono spontaneamente da questo breve testo
della Regola.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Balza agli occhi in questo c.20 la mancanza di citazioni bibliche, in contrasto con il
c.19 che ne e` pieno (Tuttavia c'e` nel v.3
chiara l'allusione alle parole di Gesu` sulla
preghiera in Matteo 6,7 e a tutto l'insegnamento della parabola del fariseo e del
pubblicano in Luca 18,9-14).
In compenso, il capitolo intero e` pieno delle idee del monachesimo precedente sulla
preghiera, e non solo le idee, ma il
linguaggio, lo stile, i termini sono caratteristici
della scuola sopratutto di Evagrio Pontico e di Cassiano. Cosi` la parola purezza
appare in tre versetti consecutivi: "purezza di devozione" (v.2), "purezza
del cuore" (v.3), "preghiera breve e pura" (v.4): ebbene, si
tratta di
espressioni tecniche di Cassiano e della sua spiritualita`.
Che cosa rimane di tutto cio` in RB.20? Cioe`, come intende SB questa "puritas
cordis", questa "oratio pura"? Certamente, SB e`
influenzato da Cassiano; i
termini che usa: devozione, compunzione, lacrime, si trovano tali e
quali in Cassiano (Inst.5,17;
Coll.3,71; 19,1 ecc...), come anche per la brevita'
(Inst.2,10; Coll.9,36). Quindi si puo` dire che SB, con i vocaboli che utilizza,
suggerisce l'ideale dell'orazione pura nel suo grado piu` elevato.
Pero`, ... suggerisce soltanto! Uomo pratico secondo Gesu` Cristo, non puo` con poche
qualita` esposte sulla preghiera, proporre
a semplici principianti le vette dell'orazione.
La Regola, in effetti, non parla delle cime dell'orazione come le insegnano Evagrio e
Cassiano, ma dell'orazione di tutti i giorni. Che SB voglia lanciare anche i suoi
discepoli verso le "cime" e che lo desideri, non c'e`
dubbio. Pero` le sue
istruzioni, i suoi principi fondamentali si riferiscono all'immediato:
ora e qui la preghiera deve essere riverente, umile, piena di abbandono, breve e pura
(cioe` intensa, senza distrazioni) e deve
sgorgare da un cuore puro (cioe` sincero, senza
macchia di peccato) e contrito. Tutto cio` SB lo ha espresso con quattro coppie
consecutive di vocaboli:
CAPITOLO 47
Preliminari:
complementi alla sezione liturgica (RB.47; 50; 52)
Fuori della sezione propriamente liturgica, SB parla altre volte dell'Opus Dei, per
esempio a proposito delle scomuniche (RB,23-
30), dei ritardatari (RB.43-46), a proposito
del dormitorio e del silenzio notturno (RB.22 e 42), a proposito dell'orario (RB.48) e
altrove parlando della giornata e della vita del monaco, perche` l'Opus Dei e` nel
monastero la cosa piu` importante a cui nulla si
deve anteporre <nihil Operi Dei
praeponatur, RB.43,3>.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Il titolo si riferisce solo alla prima parte del testo (v.1). SB aggiunge poi altre
precisazioni che riguardano la disciplina in coro
durante la celebrazione. Si dice
anzitutto che la responsabilita` della puntuale celebrazione liturgica, di notte e
di giorno, ricade
sopratutto sull'abate, il quale o prende l'incarico lui stesso o lo
affida a qualche fratello "molto attento". In un'epoca in cui le ore
variavano
da un giorno all'altro e in cui i procedimenti per calcolare il tempo erano piuttosto
rudimentali, tale incarico era piu'
difficile di quanto sembri a prima vista.
Il modo di dare il segnale era vario presso gli antichi monaci. Nei monasteri pacomiani
si chiamava con la voce o si batteva uno
strumento qualsiasi; le vergini di Santa Paola
erano chiamate al canto dell'alleluia (S.Girolamo, Eistola 108,19); Cassiano riferisce
che
si bussava alle porte (Inst.4,12). Puo` darsi che SB pensi alla percussione di lamine di
metallo o di tavolette. Il fascetto di
verghe posto da qualche pittore in mano al santo,
piu` che uno strumento penale, indica forse uno strumento destinato alla
sveglia; nel
caso, sarebbe stato il patriarca stesso - come dice qui il testo - a svegliare i monaci.
Spetta ugualmente all'abate designare chi deve cantare o leggere. Il buon ordine della
celebrazione e l'edificazione
dell'assemblea esigono che facciano i solisti solo coloro
che sono in grado di farlo, e cio` si riferisce tanto alla precisione materiale
quanto
alle disposizioni spirituali: umilta`, gravita` e grande riverenza (v.4).
CAPITOLO 50
Il primo caso che la RB contempla e` quello del lavoro. E` vero che SB vuole che
abitualmente i lavori dei monaci si svolgano
dentro la cinta del monastero (RB.66,6-7), ma
a volte per vari motivi - sopratutto si pensi al lavoro dei campi - si poteva essere
abbastanza distanti per accorrere alle varie Ore canoniche. Secondo la RM bastavano 50
passi di distanza per essere dispensati
dall'andare in coro (RM.55,2), il che pare un po`
ridicolo. SB lascia all'abate di giudicare se i monaci possono o no venire in coro.
4: I monaci in viaggio
Notiamo che oggi, nelle odierne condizioni del lavoro monastico puo` essere piu`
frequente l'assenza di qualcuno. E in piu` si
permette (nello spirito anche di mitigazione
che SB mette in questo capitolo: "come meglio possono", v.4) la congiunzione di
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
alcune Ore canoniche. Dobbiamo pero` tendere con ogni sforzo alla "verita` delle
Ore" e al ritmo della lode di Dio nei vari momenti
della giornata.
CAPITOLO 52
De oratorio monasterii
Per comprendere la prima frase di SB (v.1), bisogna tener presente che era abbastanza
normale per gli antichi fare qualche
piccolo lavoro manuale mentre ascoltavano la salmodia
del solista o le letture. Cosi` per i monaci egiziani, probabilmente anche
nelle comunita`
pacomiane. S.Cesario di Arles proibisce alle monache di lavorare durante l'Ufficio (Regula
virginum, 10), pero`
vuole qualche lavoretto durante l'Ufficio notturno per vincere il
sonno (Ibid.15). In questo contesto si comprende la concisa ed
energica frase di SB:
"L'oratorio deve essere cio' che il suo nome significa" (v.1): la casa della
preghiera non sara` mai per SB un
laboratorio, ne` servira` talvolta a consumare i cibi,
ne` fungera` mai da parlatorio, ne` diventera` un luogo, anche provvisorio, per
deporre
strumenti di lavoro o altri oggetti non destinati al culto.
Che nell'oratorio si celebra l'Opus Dei, si sa. SB ricorda qui (vv.2-3) che, terminato
l'Ufficio divino, "tutti escano in silenzio"; e
passa poi al tema che gli
interessa particolarmente: l'orazione privata di ciascun monaco. Si deve mantenere
nell'oratorio il
massimo silenzio, perche` chi vuole possa continuare a pregare;
Non solo dopo l'Opus Dei, ma anche in altri momenti un fratello puo` sentirsi spinto
alla preghiera. Cosi` veniamo a conoscere che
durante la giornata ogni monaco puo` trovare
l'opportunita` di qualche momento libero da dedicare alla sua preghiera privata,
probabilmente durante il periodo della lettura. SB poi aggiunge delle condizioni sulla
maniera di pregare : entri semplicemente e
preghi, espressione nuda e semplice che
non include alcun particolare metodo o schema di orazione; preghi e basta, cioe`
massima
liberta` e semplicita` nel procedimento secondo l'ispirazione di Dio.
Non a voce alta, cioe` senza alzare la voce, senza emettere gemiti e sospiri
sonori, come si usava a volte presso gli antichi, ma
con lacrime e fervore di cuore;
richiama la "purezza di cuore" e la "compunzione delle lacrime" di RB
20,3 (Per preghiera e
lacrime, cf. anche RB.4,57, uno strumento delle buone opere).
Abbiamo gia` avuto modo nel commento a questa sezione della RB di notare le
caratteristiche e lo spirito della preghiera del
monaco (vedi sopratutto l'introduzione a
tutta la sezione cc.8-11 sull'Opus Dei e "lo spirito dell'Opera di Dio", sezione
cc.19-20 nel
Preliminare al c.19).
Vogliamo ora riflettere in maniera un po' piu` sistematica sulla preghiera, sul monaco
come uomo di preghiera, su alcune
caratteristiche della preghiera monastica.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
INTRODUZIONE
Tuttavia l'atto della preghiera ha delle condizioni, delle dimensioni che possono
essere oggetto di studio, di formazione e quindi
d'insegnamento; in tal senso tentiamo
questa esposizione sistematica.
(Coll.9,2). E ancora: "Il fine del monaco e la sua piu` alta perfezione consiste
nell'orazione perfetta" (Coll.9,7).
In questa preghiera continua si arriva man mano sempre piu` al bisogno di semplicita`,
come la preghiera dello Spirito in noi che si
limita ad un solo grido, ma indefinitamente
balbettato : "abba - Padre" (Rom.8,15). E` la preghiera semplice
che i Padri
chiamavamo "monologia", cioe` costituita da poche parole o
addirittura da una sola parola. Questa tradizione e` costante sia in
Oriente che in
Occidente; cosi` sono nate le cosiddette "giaculatorie". Numerose invocazioni
molto brevi che la Bibbia ha
conservato possono fornire sempre la nostra preghiera; il
Vangelo e i Salmi ne sono una miniera. Per ciascuna situazione si puo`
trovare la
giaculatoria adatta, ascoltando lo Spirito Santo che ci tocca dal di dentro: "Signore
Gesu', io credo; aiuta la mia
incredulita`"; "Signore Gesu', che io veda";
"Signore Gesu`, tu lo sai che io ti amo"; "Signore Gesu`, non la mia ma la
tua volonta`".
La serie e` senza fine.
Come si vede, tutta questa tradizione interpretava alla lettera i passi del NT "pregare
sempre senza stancarsi" (Lc.18,1) e "pregate
incessantemente"
(1Tess.5,17; Efes.6,18; cf.Rom.12,12; Filip.4,6; Coloss.4,2).
Ebbene, noi monaci di oggi ci dobbiamo interrogare seriamente su come incarniamo questo
ideale dei nostri Padri. Paolo VI disse
una volta all'abate Braso` che spetta ad altri
nella Chiesa penetrare nelle masse, proclamare il messaggio evangelico in un mondo
secolarizzato; il monaco invece deve sforzarsi di vivere nel monastero la forma piu`
elevata del contatto con Dio e della carita`
fraterna: sono le due grandi dimensioni della
vita monastica. Questo e` il nostro modo di proclamare il Vangelo. Siamo monaci
sopratutto
per questo: per creare un intimo, personale, profondo contatto con Dio. Tutto dovrebbe
essere organizzato in funzione
di questo scopo: la vita di preghiera; questa finalizza
tutte le nostre attivita`: "siamo totalmente per questo - <in hoc toti positi
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Naturalmente cio` non significa che dobbiamo stare tutto il giorno in coro a fare delle
liturgie solennissime o prolisse; una cosa e`
dire che siamo nati per il coro, una cosa e`
dire che siamo nati per la preghiera. Bisogna fare cioe` della vita una preghiera e
della
preghiera una vita, bisogna vivere di preghiera come si vive di aria. E perche`
la preghiera diventi una vita, bisogna abbattere quel
muro di separazione che spesso c'e`
tra il nostro pregare e le nostre attivita`; si tratta di superare in qualche modo la
molteplicita`
delle cose e attraverso le molte cose che facciamo, farne una sola.
Per chi e` convinto di questo, la preghiera non impedisce di essere attenti alle
persone e alle cose; lavoro e preghiera si
intrecciano per formare un tutt'uno,
perche` lo Spirito prega in lui senza fine, la preghiera in lui non e` piu` legata a un
tempo
determinato, e` ininterrotta, e` tutta la vita. Notiamo questo bellissimo testo di
S.Agostino: "Se ti metti a cantare con la voce, verra`
un momento in cui dovrai
tacere" <cum voce cantaveris, silebis aliquando>; ma: "vita sic canta, ut
numquam sileas" <canta con la
tua vita, in modo da non tacere mai> (Esposizione
sul salmo 146,2).
Notiamo qui solo alcune condizioni che sono primordiali per la preghiera.
Potremmo esprimerle cosi` schematicamente:
1. Si fonda sull'evento-Cristo
Con questa mentalita` si evita il rischio di pensare la preghiera come un fatto nostro,
ma lo si fonda sull'evento-Cristo, sul fatto
battesimale, si riconosce che e` lo Spirito
che prega in noi con gemiti inesprimibili (Rom.8,26).
Ora questo si deve vedere sopratutto nella preghiera. Preghiera come memoria dei
"mirabilia Dei" <meraviglie operate da Dio>
che per gli ebrei era la
liberazione dall'Egitto, ma per noi e` la memoria della vita, morte e risurrezione di
Cristo e diventa la trama
di tutta la nostra esistenza quotidiana (le meraviglie di Dio in
me, nella mia piccola storia della salvezza). Non si tratta di ricordare
un fatto passato,
"il Sacrificio di Cristo e`, oggettivamente, il significato e la consistenza di tutta
la nostra vita, del cosmo e della
storia, ieri, oggi e sempre. Percio` la memoria diventa
senso della presenza (RB.19-20) di questo "Logos" misteriosamente e
realmente presente ed efficace in noi e nelle cose. E allora questa coscienza
continuamente rinnovata non puo` non trasformarsi
in attesa del suo ritorno, in
desiderio della manifestazione definitiva di Cristo. Mi pare che l'essenziale della nostra
preghiera sia
espresso dall'acclamazione che ripetiamo tutti i giorni durante la Messa:
"Annunziamo la tua morte, Signore,, proclamiamo la tua
risurrezione, nell'attesa
della tua venuta". (M.B.BOGGERO, Appunti sulla Regola di S.Benedetto,
capp.4-7, p.136).
3. Preghiera liturgica
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Di qui la necessita` assoluta per noi di approfondire la Parola di Dio (cf. piu`
avanti, n.4), in particolare il salterio per la nostra
preghiera comunitaria. Nelle
scuole monastiche del medioevo l'istruzione cominciava sulle pagine del salterio, sul
salterio si
imparava a leggere, a cantare: era come la grammatica di tutto; letti,
meditati, "ruminati", trascritti come esercizio, i salmi erano il
testo su cui
si espletava qualsiasi esercizio scolastico. Dobbiamo oggi rieducarci a questo, dobbiamo
convincerci dell'importanza
dei salmi per la nostra preghiera.
Tutte le meraviglie operate da Dio nella creazione, tutti i suoi comandamenti, tutti i benefici di Dio a Israele, tutto il messaggio
profetico sfociano nei salmi come per capillarita` e diventano preghiera: nei salmi confluisce come preghiera tutta la storia della
salvezza. Appare in essi il dialogo dell'alleanza tra Dio e il suo popolo, un popolo
anche in cammino, in attesa, da cui doveva
uscire, come segno massimo della ricerca di Dio
e della risposta di Lui, Cristo Gesu`. In Cristo infatti i salmi dovevano adempiersi
assieme alla legge e ai profeti (cf.Lc.24,44). E Gesu` prego` i salmi e li assunse come
testimonianza della sua missione. E la
Chiesa legge i salmi alla luce dell'evento-Cristo;
noi usiamo i salmi nella coscienza che il Dio che preghiamo e` il Dio Padre, Padre
del
Signore Nostro Gesu` Cristo che prega i salmi, Padre per tutti noi in cui lo Spirito
grida: "Abba`-Padre" (Gal.4,6). (E.BIANCHI,
Il corvo di Elia, pp.53-55).
Ad evitare che la nostra salmodia sia vuota e arida, dobbiamo dedicare molto tempo allo
studio e alla conoscenza del salterio.
Un altro mezzo (non si parla qui solo della salmodia, ma di tutta la preghiera
liturgica) dobbiamo ricordare per insistervi, mezzo
suggerito dalle norme liturgiche:
quello delle pause di silenzio conosciute dall'antica tradizione monastica (vedi
introduzione alla
sezione liturgica), perche` vogliono essere il momento dell'approfondimento
personale, della necessaria interiorizzazione di
quanto comunitariamente viene
celebrato nell'azione liturgica. Forse e` il momento psicologicamente piu` importante in
una liturgia
che voglia essere autentica preghiera. Infatti la preghiera liturgica,
essendo intessuta di Parola di Dio, e` eminentemente
dialogica: Dio parla - io anzitutto
ascolto.
Normalmente i momenti di silenzio nella preghiera sono brevi, come con saggia
discrezione vuole la Regola (RB.20,5), proprio
perche` momenti comunitari. Ecco perche`
l'esigenza di un ulteriore tempo per l'approfondimento e l'assimilazione personale della
Parola di Dio che e` stata l'oggetto dell'annuncio, del dialogo e del sacramento durante
la celebrazione liturgica. A questo vuole
provvedere la lectio divina.
E' importante questa teologia nella formazione alla lectio e alla preghiera monastica.
(Cf. piu` avanti: Excursus sulla Lectio Divina
in appendice a RB.48).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
6. Preghiera umile
Ma la preghiera del monaco e` umile sopratutto perche` siamo poveri, perche` siamo
peccatori; nonostante tutta la ricchezza di
Parola, di Sacramento, di comunione che ci e`
data, continuamente cadiamo in infedelta`, nella incoerenza piu` grossolana, e ci
adagiamo
in una meschina mediocrita`. Come appare da SB (RB.20,3), la preghiera del monaco ha come
modello la preghiera
del pubblicano (Lc.18,9-14), cosciente della maesta` e della
grandezza del dono di Dio; ma appunto per questo, e tanto piu`,
cosciente della propria
miseria e indegnita`. Senza coscienza della propria miseria, non puo` esserci
approfondimento del mistero
di Cristo; e la lode, il ringraziamento non possono scaturire
che da una preghiera umile, da un cuore contrito. Ricordiamo che SB
parla ripetutamente di
compunzione e di lacrime nella preghiera (RB.4,57; 20,2-3; 52,4).
Un'attitudine ritengo debba essere posta in evidenza nella nostra preghiera monastica.
Si sa che la preghiera e` anche petizione;
Gesu` lo ha insegnato chiaramente nel
Vangelo (Mt.7,7; Lc.11,5-11; si veda sulla preghiera di domanda un interessantissimo
capitolo in E.BIANCI, Il corvo di Elia, pp.105-117).
Ebbene, noi abbiamo conosciuto che Dio ci ha amati per primo. Ed e` qui allora che
viene spontanea anzitutto la preghiera di
ringraziamento, "eterno e` il suo
amore per noi" (salmo 135), grido di stupore, di meraviglia. I cristiani sembrano
aver dimenticato
questo sentimento di fronte a Dio; invece dovrebbe essere proprio
l'inizio del nostro guardare a lui: Meravigliarsi di Dio, 'Egli solo
ha compiuto
meraviglie" (salmo 135,4). La componente dell'ammirazione era molto presente nella
nostra spiritualita` medioevale:
"stupor et admiratio" <stupore e
meraviglia>, quante volte ricorrono questi termini nei testi monastici!. Questo
incontrarsi davanti al
panorama meraviglioso della grandezza di Dio e della storia sacra!
Ecco perche` cantiamo al Signore: "Perche` sprecate tanto
tempo a cantare?" ci
dicono a volte. Il canto e` proprio questa esigenza fondamentale della lode, e` dire a Dio
tutta la gioia che
proviamo davanti alla sua bellezza. E notiamo che e` un passo ancora
piu` avanti lodare Iddio non solo per i suoi benefici, ma per
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Impossibile fare un elenco di tutti i testi della Scrittura. Insomma, questa della lode
e` la piu` alta forma di preghiera (anche
perche` la piu` disinteressata e gratuita) e su
questa dovremmo educarci, in modo da offrire al Signore nei nostri cori monastici
sopratutto questo "sacrificium laudis" <sacrificio di lode> (salmo
49,14).
Come utile complemento a questo excursus sulla preghiera, diamo un cenno su alcuni
elementi classici della tecnica cristiana
della preghiera, riassumendoli dall'opera di
A.LOUF, Signore, insegnaci a pregare, pp.83-120. Tali elementi si ritrovano nella
maggior parte delle varie esperienza di preghiera, sia nei testo del NT, sia nei mistici
moderni; si incontrano anche nella mistica
non cristiana. Si potrebbe supporre allora che
questi elementi formino una specie di base naturale umana, su cui e` piu` facile che
si
sviluppi la preghiera. Naturalmente tutte queste "tecniche" sono al servizio e
dipendono dall'azione dello Spirito Santo e devono
diventare segno ed espressione della
nostra morte e della nostra risurrezione con Cristo.
1. Celibato
L'uomo e la donna secondo la Bibbia sono creati ad immagine di Dio (Gen.1,27) e nei
loro dati specifici di mascolinita` e
femminilita` rappresentano l'amore di Dio; la
pienezza dell'amore di Dio e` normalmente resa e vissuta nell'unione dei due: nel
Signore
- dice S.Paolo - ne` la donna e` senza l'uomo, ne` l'uomo senza la donna (1Cor.11,11). In
via generale l'uomo trova
equilibrio e pace nel legame con l'altro sesso, che per lui e`
la sua seconda "meta`' dell'immagine di Dio. Ora, ogni forma di
astinenza sessuale
rende disponibili le forze interiori mobilitate in una vita sessuale normale. Allorche`
poi uno sceglie
volontariamente il celibato per amore di Cristo e della preghiera, avviene
qualcosa nel suo corpo e nella sua dinamica sessuale
che tende a ristrutturare tutta la
sua persona e a favorire la sua preghiera e l'unione con Cristo Gesu`.
Se cosi` non fosse, il celibato avrebbe il grande rischio di una immaturita` affettiva
(e puo` succedere in molti); invece anche il
celibato fa appello alla dinamica sessuale
dell'uomo o della donna: deve essere la prova vissuta che l'amore di Dio appaga tutto.
E
diviene una vera tecnica di preghiera nella grazia dello Spirito Santo; perche` il
rinunciare ad esprimere con il matrimonio
l'attrazione verso l'altro polo della propria
personalita`, attrazione voluta dal creatore, libera nel piu` profondo del nostro essere
il
valore spirituale di cui l'altro polo e` il segno. Il celibato puo` aprire cosi` la via
verso la preghiera. S.Paolo lo sottolinea
vigorosamente in 1Cor.7,35, quando consiglia il
celibato perche` da` la possibilita` di (traducendo letteralmente) "intrattenersi
lungamente con il Signore senza essere frastornati da Lui". E` forse questa la
migliore descrizione di cio` che la preghiera e`
chiamata a divenire.
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2. Solitudine e silenzio
Quando Gesu` voleva pregare, spesso si separava dagli altri e si appartava in luoghi
solitari, montagna o deserto (Mc.1,35; 1,45;
6,31; Mt.14,13; Lc.4,1; 4,42; 6,12); pare che
egli veda un certo nesso tra solitudine e preghiera.
Vediamo oggi che l'uomo di citta` desidera, a fine settimana o almeno una volta l'anno,
appartarsi un po` dal mondo, dal quale si
sente sempre assediato. Vi sono poi certe
categorie di persone o certe situazioni che esigono una particolare solitudine, ad
esempio
l'artista, il pensatore, gli innamorati. Molto piu` profonda e` la visuale di colui o di
colei che cerca la solitudine in vista
della preghiera; la solitudine e il silenzio
costituiscono l'ambiente in cui la parola di Dio trova la sua piena risonanza. Ci si
ritira per
attendere a Dio, "vacare Deo". Pensiamo ai termini dei primi eremiti:
"anakoresis" = ritiro; "esykia" = quiete (da cui il termine
'esicasmo'); "shelyo" in siriaco = inazione; "quies" = riposo.
Ogni genere di solitudine ci fa riflettere su noi stessi e su Dio, sulla nostra estrema
poverta` e sulla misericordia di Dio. E` risaputa
tutta la teologia e il simbolismo del
deserto presso i Padri e gli antichi monaci (aspetto che oggi si molto riscoprendo).
Come il
popolo di Dio fu provato e formato nel deserto durante quarant'anni, cosi` anche
Gesu` fu condotto nel deserto per esservi tentato
e per imparare e insegnare a non vivere
solamente di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Chiunque cerca la
solitudine in vista della preghiera partecipa di questa grazia.
La Chiesa fa ancora in molti modi l'esperienza della solitudine nella sua situazione di
diaspora in mezzo al mondo; pellegrina sulla
terra, deve imparare ad andare avanti solo
per fede, a fondarsi solo sulla Parola di Dio, sui suoi segni (i sacramenti). Cosi` ogni
cristiano, sopratutto alcuni per una vocazione speciale nella Chiesa, devono lasciar posto
nella loro vita spirituale al deserto. In
questo senso solitudine e silenzio sono
luoghi privilegiati dell'incontro con Dio nella preghiera. (Vedi tutto l'argomento
"il deserto
come terra spirituale" in E.BIANCHI, Il corvo di Elia,
pp.153-171).
3. Veglia
esempio e` stato seguito dai cristiani; la veglia notturna e` un dato universale nel
cristianesimo, sia praticata in comune nella
liturgia, sia in privato nell'ascesi
personale. Qual'e` il significato della veglia per la preghiera?
Prescindiamo da certe risposte che sono pur valide, ma non attingono al mistero
cristiano della veglia, per esempio che la notte
porta maggiore calma per pregare, che il
silenzio notturno della natura aiuta a rientrare in se stessi, che l'oscurita` aiuta a non
distrarsi... Ma piu` profondamente bisogna inserire la tecnica della veglia nella dinamica
del mistero di Cristo. La Chiesa e` tutta
tesa verso il ritorno di Cristo e la venuta
del suo Regno; Gesu` viene chiamato "Colui che era, che e` e che viene"
(Apoc.1,4),
abbraccia i tre momenti del tempo: passato, presente e futuro. Ma poiche`
Gesu` e` sempre in procinto di venire, la Chiesa deve
vegliare senza interruzione; essa e`
vigile per attendere il suo Signore e Sposo: "Vegliate, dunque,..."
(Mc.13,35-37). Sappiamo
che la sua venuta coincidera` con una grande prova; ecco perche`
la preghiera si accompagna alla vigilanza "per non cadere in
tentazione"
(Mt.26,41).
La preghiera di veglia e` dunque orientata verso la duplice realta` della fine dei
tempi: il ritorno di Gesu` e la grande prova che la
precede. La forza della
veglia risiede nella forza della preghiera che lo Spirito ci insegna e pronuncia in noi
"Maranatha" <vieni,
Signore Gesu`> (Apoc.22,20): e` la preghiera
della sposa che attende lo Sposo (Mt.25,10).
Ogni cristiano ha la vocazione particolare di consacrare alla preghiera una certa parte
della notte; per i monaci, poi, cio` e` stato
sempre una tradizione e una esigenza. La
durata ha poca importanza; anche una veglia brevissima - che consistera` nell'andare a
riposo un po` piu` tardi o alzarsi un po` piu` presto - e` opera dello Spirito Santo in
noi e puo` produrre frutti di preghiera.
4. Digiuno
Anche per Gesu` la grande prova nel deserto e` andata di pari passo col digiuno, e
supero` la tentazione solo armato della Parola
si Dop (Mt.4,1-11); la solitudine, la
veglia, il digiuno furono per lui, uomo di questo mondo, la scuola dove apprese a pregare.
Cosi` per il cristiano: il digiuno e` in rapporto con la preghiera; colui che digiuna
vuole significare nel suo corpo come l'uomo non
viva solamente di pane, ma di ogni parola
che esce dalla bocca di Dio (Deut.8,3; Mt.4,4); viene il giorno poi in cui lo Spirito fa
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Ecco come vanno visti questi elementi classici della tecnica cristiana della preghiera
applicati al monaco: il celibato lo rende
"libero per il Signore"; nella solitudine
e nel silenzio egli esperimenta tutto l'itinerario di fede, dalla sua pochezza e
nudita` alla
misericordia di Dio che lo chiama a un colloquio intimo con lui, cuore a
cuore; con la veglia quasi supera il tempo e assomiglia agli
angeli che giorno e
notte contemplano il volto di Dio; con il digiuno e` messo in grado di vivere nel
suo proprio essere la fame
profonda di tutta la creazione in attesa (Rom.8,19), fame che
non puo` mai essere appagata in un corpo, fame che lo Spirito solo
puo` saziare.
CONCLUSIONE
Gli antichi monaci hanno avuto il continuo pensiero della preghiera, erano quasi
"ossessionati" - potremmo dire - dall'ideale della
preghiera continua. SB parla
di "oratio pura" e di "puritas cordis" (RB.20,1.3.4) e, come gia`
detto nel commento, dipende in cio`
da Cassiano. Cassiano chiama "pura"
l'orazione di chi ha raggiunto la "puritas cordis", cioe` la perfetta purezza
del cuore
attraverso un cammino di ascesi, di purificazione da ogni peccato. Questa
purificazione e` la condizione perche` lo Spirito Santo
possa infondere nel cuore la
carita` perfetta, come dice anche SB al termine della scala dell'umilta` (RB.7,67-70). E
la carita`
perfetta si esprime nell'"oratio pura" che ha varie forme, secondo
Cassiano, sempre piu` alte fino alla famosa oratio ignita
<preghiera di
fuoco> (Coll.9,25) o quella ancora piu` perfetta secondo Antonio, del monaco che non
ha piu` coscienza di pregare
(Coll.9,31). Tale preghiera e` una risposta alla
Parola di Dio sperimentata come "propria" perche` attualizzata nella propria
vita,
come dice espressamente Cassiano in testi molto belli (Coll.14,9-10; 10,11).
Per il NT pero` la "vera" tenda del convegno (di cui quella dell'Esodo era
figura) e` l'umanita` assunta dal Verbo nell'Incarnazione
perche` egli "ha posto la
sua tenda in mezzo a noi" (Giov.1,14). "Nel Verbo fatto carne, cioe`, e`
avvenuto l'incontro definitivo
dell'uomo con Dio, e il Lui soltanto ormai ogni uomo puo`
incontrarlo. Il monaco, chiamato in modo singolare a questo incontro,
anzi a fare della
ricerca di quest'incontro il suo unico interesse, l'unico scopo della sua vita, e`
invitato ad entrare in questa tenda,
a "dimorarvi" (Prol.39) per mezzo
dell'ascolto orante della Parola, nella sequela dell'obbedienza della fede, sino alla
partecipazione piena al mistero della Pasqua (Prol.50), nel momento sacramentale della
liturgia e poi nella vita, che in tal modo si
va facendo "nuova",
"cristiforme" per opera dello Spirito donatogli da Cristo Signore.
Nel vangelo di Giovanni Cristo stesso promette l'esperienza di Dio, quando parla di un
suo "manifestarsi" a colui che, traducendo
il proprio amore in obbedienza ai
suoi precetti, diviene dimora del Padre e del Figlio (Giov.14,21.23); e quando
solennemente
afferma: "Questa e la vita eterna, che conoscano te, l'unico vero
Dio e colui che hai mandato Gesu` Cristo" (Giov.17,3). In quel
verbo "conoscere"
sappiamo che e` sottesa tutta la ricchezza e la profondita` dell'ebraico "jada",
intraducibile nelle nostre lingue:
un conoscere, frutto di amore, un penetrare
vitale, un mutuo possedersi come quello degli sposi (infatti e` il verbo usato dalla
Scrittura anche per il mutuo donarsi sponsale). E` quel conoscere sapienziale di cui
parlano tanto spesso le lettere di Paolo
(Efes.3,19; Filp.3,10; Coloss.1,10; 2,2-3; 3,10
ecc.), oggetto dell'appassionata preghiera dell'Apostolo per i suoi cristiani,
conoscenza
che si identifica chiaramente con la fede adulta di ogni fedele, non privilegio di anime
di eccezione.
***
NOTA BIBLIOGRAFICA
(testi usati per questo excursus sulla preghiera monastica)
BOGGERO, M.B. Appunti sulla Regola di San Benedetto (capitoli 4-7), pro
manuscripto, Fabriano 1979, pp.135-143.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAPITOLO 21
De decanis monasterii
Abbiamo gia` visto come nella mente di SB la costituzione organica del cenobio poggia
sul carisma abbaziale: all'abate SB affida
la direzione ultima di tutte le cose del
monastero, principali e secondarie, materiali e spirituali (RB.2 e 64), anche se egli
viene
esortato a servirsi del consiglio dei fratelli (RB.3).
Ora, senza rinunciare alla responsabilita` ultima e principale di quanto accade nel
monastero, proprio per la complessita` del suo
ufficio, l'abate della RB deve
necessariamente dividere i suoi pesi con vari collaboratori.
Preliminari al capitolo 21
Secondo la RM (c.11) i prepositi (= i decani della RB) sono dei guardiani perpetui e
minuziosi (difatti ne vengono prescritti due per
ogni decania, mentre cio` non appare
nella RB) il cui primo dovere consiste nello stare sempre con i fratelli e vegliare su
ogni loro
difetto e riprenderli immediatamente con avvertenze appropriate citando la
Scrittura. Certo, al lettore moderno desta meraviglia il
vedere applicato ad adulti un
sistema di vigilanza che oggi non si concepisce nemmeno per i fanciulli! (DeVogue).
Abbiamo nel testo tre volte la parola "elegantur" e una volta la parola
"constituentur". Da chi erano scelti i decani? Certo non si
puo` pensare
ad una elezione da parte della comunita` con valore deliberativo anche contro il volere
dell'abate; e` troppo chiaro
da tutta la Regola che, per conservare la pace e l'unione,
l'organizzazione dipende dall'abate. Dunque era certamente lui a
costituire i decani; ma
non puo` escludersi da testo e dal contesto che nella scelta entrassero anche altri membri
della comunita`;
o i monaci presentavano i candidati, oppure l'abate consultava alcuni
fratelli "timorati di Dio" (RB.65,15).
Come si diceva sopra, l'incarico di decano in RB, a differenza di RM, e` piu` pedagogico e spirituale. Si esige anzitutto che siano
"stimati", letteralmente "di buona riputazione" <boni testimonii fratres>, espressione tratta da Atti 6,3 a proposito dei diaconi;
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
inoltre che siano di "santa vita monastica" <sanctae conversationis>. Piu` sotto, al v.4, abbiamo una coppia di qualita`
richieste per
chi deve essere ordinato abate (RB.64,2): vitae meritum et sapientiae
doctrinam <santita` di vita e dottrina spirituale>. Il significato
e` evidente:
che l'abate "possa condividere con loro tutti i pesi suoi" (v,3), (l'espressione
richiama Esodo 18,22), compresa la
responsabilita` spirituale: insegnare le vie di Dio ai
fratelli loro affidati.
Abbiamo anche un'anticipazione del codice penale (che inizia al c.23), per il caso dei
decani indegni che montassero in superbia;
per i monaci l'ammonizione era duplice
(RB.23,2), per i decani e` triplice.
Oggi .....
Oggi alcune mansioni degli antichi decani sono raccolte nel priore (o vice-priore);
altre sono ripartite tra gli officiali del monastero,
sopratutto economo, maestro dei
novizi, ecc. Il senso della corresponsabilita` poi e` inculcato dalla mentalita` nuova
della Chiesa
e dall'importanza del capitolo di famiglia. (Talvolta i decani si usano
soltanto per i gruppi di novizi o di giovani monaci nel periodo
di formazione).
CAPITOLO 31
Preliminari
Abbiamo anzitutto un elenco di qualita` che il cellerario deve coltivare e di vizi che
deve evitare. L'espressione non tardus, che
alcuni traducono "non indolente,
non pigro", forse si interpreta meglio - sopratutto per la vicinanza con
"prodigo" - nel senso della
lentezza di chi da` a stento, di malavoglia, quindi:
non avaro, non gretto.
"Si nomini". Da parte dell'abate; ma anche qui, come per i decani, non si
puo` escludere un qualche intervento da parte della
comunita` (o un consiglio o la
presentazione di alcuni candidati).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Il cellerario deve essere come un padre per tutta la comunita`, quindi deve
preoccuparsi di tutto e di tutti (v.3), sopratutto avere
una cura speciale per i piu`
deboli: malati, fanciulli, ospiti, poveri (v.9). Una virtu` che gli viene molto
raccomandata e` l'umilta`
(vv.7.13.16), che dimostrera` nel non contristare i
fratelli (v.6): la sentenza e` l'eco di una massima degli antichi Padri: "non
contristare il tuo fratello, giacche` sei monaco" (Vitae Patrum, 3,170); nel non
disprezzarli nel caso che debba negare loro
qualcosa (v.7): l'espressione e` presa da
S.Agostino: "A chi non puoi dare cio` che ti chiede, non mostrare disprezzo; se puoi
dare, da`; se non puoi, dimostrati affabile (Esposizione sul salmo 103,1.19); non potendo
concedere la cosa richiesta, risponda
con una buona parola, secondo il libro del Siracide
18,17 (v.14); la razione di cibo che deve dare, la dia senza arroganza ne`
indugio (v.16),
cioe` senza farla piovere dall'alto, dandosi l'aria di padrone che, bonta` sua, "si
degna" di dare agli altri.
Riguardo alle cose del monastero, le consideri come "vasi sacri dell'altare"
(v.10): e` un'idea molto viva nella tradizione monastica
(S.Basilio, Reg.103-104;
E' questo il senso della "PAX" benedettina (lo scriviamo sui nostri
ingressi), termine molto denso che racchiude tanti significati:
essa deve essere
l'atmosfera abituale del monastero.
CAPITOLO 65
De praeposito monasterii
Preliminari
Certo, trattare del priore (RB.65) subito dopo il capitolo sul cellerario (RB.31)
significa notare un cambiamento brusco e totale di
clima spirituale: cambia la
prospettiva, lo stile, il tono. Possiamo dire che SB ha messo tutto il suo cuore a
delineare con cura la
figura del cellerario ideale, il piu` prezioso collaboratore
dell'abate, che pensa alle necessita` materiali - ma come ufficio spirituale -
dei monaci,
degli ospiti, dei poveri.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
La prima parte del capitolo presenta uno stile cosi` vivace e un tono di si` vigorosa
indignazione da far pensare a un'esperienza
che piu` di una volta avra` amareggiato
l'animo di SB. Abbiamo un quadro molto fosco: gravi e frequenti scandali nei monasteri
(v.1); prepositi gonfi di superbia, tirannici (v.2); invidie, liti, divisioni in partiti
(vv.2.7.9)..... Da dove provengono queste disgrazie?
SB ne segnala senza esitazione la
fonte: l'assurdita` che commettevano certi vescovi o abati, ordinando il preposito nello
stesso
tempo in cui ordinavano l'abate. Si sente al v.4 che l'espressione e` forte e
nervosa. Si noti al v.6 il brusco passaggio di discorso
diretto (non sempre reso,
purtroppo, nelle traduzioni) che da` vivacita` alla trattazione: e` l'orgoglio che
suggerisce al priore questo
pensiero: "anche tu sei stato stabilito in carica da
quegli stessi che hanno stabilito l'abate!".
Per evitare percio` abusi e per l'unita` del monastero, SB da` all'abate il diritto di
organizzare il cenobio come meglio crede. Si noti
la frase, che e` caratteristica della
Regola benedettina: "tutta l'organizzazione del monastero dipende dall'abate"
(v.11). (Si pensi
anche a tutte le restrizioni apportate oggi dalla Chiesa e dalla
mentalita` nuova, con poteri al capitolo di famiglia, la
corresponsabilita`, ecc...).
SB preferisce il sistema dei decani (vv.12-13); pero` deve ammettere anche la nomina
del priore, ma lo fa con una serie di
condizioni restrittive: "se le condizioni
locali lo richiedono, se la comunita` ne fa umilmente richiesta e se l'abate lo giudica
utile"
(v.14) e sopratutto e` lui, l'abate, che, sia pur consigliandosi, sceglie
liberamente il suo priore (v.15).
E cosi` il capitolo 65 non parla tanto del priore - come gli altri capitoli che
trattano dell'abate e degli altri officiali del monastero - ma
parla piuttosto contro il
priore; cioe` SB denigra talmente questo ufficio, quasi per scoraggiare dal metterlo in
atto, preferendo
sempre l'organizzazione per decani.
Evoluzione storica
CAPITOLO 22
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Preliminari
Nella RM si parla del dormitorio nel capitolo sui decani nell'ambito della
sorveglianza che essi dovevano esercitare (RM.11,109-
120) e se ne parla anche nel c.29 a
proposito dell'orario e del luogo per dormire. SB ne fa un capitolo a parte (RB.22) subito
dopo
quello sui decani (RB.21), come gia` aveva separato il consiglio dei fratelli dal
capitolo sull'abate (RB.2-3) che in RM sono trattati
insieme.
SB stabilisce tre cose: un letto per ogni monaco, rifare bene il letto alla levata, dormire vestiti e cinti e quest'ultima cosa per tre
ragioni: essere pronti per l'Ufficio
divino alla sveglia; evitare i pensieri impuri e la polluzione, non essere in ritardo
all'Ufficio divino.
SB conserva queste norme modificando qualcosa e abbreviando.
RM prescrive un dormitorio unico per tutti; RB una o piu` sale e inoltre luoghi
separati per i novizi (RB.58), i malati (RB.36) e gli
ospiti (RB.53). In tutte e due le
Regole e` scomparso comunque l'uso delle celle separate, uso comune nel cenobitismo
del secolo
precedente (per il significato della cella, cf.Cassiano, Instit.10; Coll.24).
La sostituzione della cella a favore del dormitorio comune avviene alla fine del secolo
V in Gallia (per evitare i vizi della proprieta`
privata, della gola, dell'incontinenza),
e la cosa si nota anche a Costantinopoli. I motivi iniziali dell'abbandono della cella
sono il
lavoro manuale e l'Ufficio divino in comune. In questo cambiamento dalla cella al
dormitorio si deve vedere il fatto piu` importante
della storia del monachesimo antico. La
cella dava al monaco un carattere solitario e contemplativo; il suo abbandono significa
che si lascia questo alto ideale per assicurare la pratica di certe virtu` elementari;
salvare la poverta` e i buoni costumi sembra piu`
urgente che l'orazione incessante.
Quando SB scriveva la Regola (secolo VI), il dormitorio comune era una cosa scontata.
Con l'evoluzione poi nel corso dei secoli,
specialmente per lo sviluppo preso dal lavoro
intellettuale e per le mutate condizioni dei tempi, al dormitorio comune si vennero
man
mano sostituendo le stanze singole, dove ogni monaco non solo dorme, ma prega o
lavora fuori dei tempi e dei luoghi stabiliti
per gli atti comuni.
Non ci si meravigli del v.1: la disposizione che oggi sarebbe superflua, e` comune
nelle regole antiche; la rozzezza e la semplicita`
dei costumi esigeva l'esplicita
proibizione che in un solo letto dormissero piu` persone. Qualche regola fissava anche la
distanza
tra un letto e l'altro. L'abate da` l'occorrente per il letto - un pagliericcio,
una coperta leggera, una pesante e un cuscino; lo
sappiamo da un altro passo della Regola
(RB.55,15 - "pro modo conversationis", v.2).Che cosa significa precisamente? La
traduzione piu` comune e`: "secondo il loro genere di vita, secondo le usanze
monastiche", cioe` che l'arredamento del letto non
disdica alla semplicita` e
poverta` della professione monastica.
Gli antichi dormivano nudi; pero` i monaci devono dormire vestiti, Come risulta da
RB.55,10 i monaci indossavano di notte una
"tunica" corrispondente quasi alla
nostra camicia e la "cuculla", che non aveva la forma attuale, ma somigliava
piuttosto a
un'ampia tonaca e arrivava al ginocchio o ai piedi. Di questi indumenti se ne
prevedono due per "cambiarsi di notte e per lavarle"
(RB.55,10).
Portavano poi ai fianchi una cintura o corda, richiamandosi anche di notte al precetto
del Signore: "Siano cinti i vostri fianchi..."
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
(v.6). Stando a letto vestiti e cinti, i monaci erano gia` in ordine per poter
accorrere all'Ufficio notturno. Un po` di pulizia e il
necessario cambiamento degli
indumenti per il giorno, si faceva dopo, forse prima di andare al lavoro. "Cosi` i
monaci siano
sempre pronti...": c'e` in questa frase tutta la spiritualita` della
veglia e dell'attesa del Signore; il tema della vigilanza (Mt.24,42-51;
25,1-13;
Mc.13,33-37; Lc.12,35-48) era cosi` caro al monachesimo antico; tutta la vita monastica
deve essere una vigilia orante,
una perenne attesa del Signore, che e` sempre vicino, ma
che viene sempre, finche` tornera` definitivamente (cf. quanto detto sul
senso della
veglia in vista della preghiera, nell'Excursus sulla preghiera).
(v.7). I letti dei giovani sono alternati a quelli degli anziani (seniori = adulti, o
piu` probabilmente i decani): RB non pensa tanto ai
pericoli per la castita`, piuttosto
alla dissipazione e alla pigrizia.
CAPITOLO 42
Preliminari
Il capitolo inizia con una massima generale cara a SB (come il c.19 e il c.49). La
Regola ha gia` parlato dell'amore al silenzio (la
"tacitirnitas") nel c.6; ora
ribadisce il principio: il monaco deve aver cura del silenzio in tutti i tempi, ma una
posizione di privilegio
va riservata al tempo della notte. Si noti che qui c'e` la parola
"silentium" (non "taciturnitas"), che ha un senso piu` energico e
assoluto.
Dopo il v.1 viene lasciato il tema del silenzio per trattare di due cosa legate fra
loro: la lettura prima di compieta e la riunione di
tutta la comunita`. RM 30,1-11 prevede
a questo punto la lavanda dei piedi e la comunicazio0ne tra i fratelli di cose necessarie,
prima del silenzio rigoroso. RB insiste di piu` sulla riunione di tutta la comunita` che
sul silenzio a cui prepara compieta. Questa
insistenza sembra giustificata dal fatto che
SB introduce l'uso della lettura prima di compieta, uso sconosciuto a RM.
SB pensa quindi alla parte spiritualmente debole della comunita`. Anche Cassiano notava
che tali letture dell'AT non erano adatte
agli "spiriti deboli e infermi"
(Coll.19,16).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Che tutti si ritrovino sembra molto importante per SB; tre volte in questo capitolo si
trovano espressioni che richiamano questo
fatto: "seggano tutti insieme" (v.3);
"si radunino tutti" (v.7); "tutti insieme" (v.8). Perche` questo far
arrivare tutti? per assicurare
l'osservanza del silenzio notturno? perche` tutti ascoltino
(almeno un po`) la lettura preparatoria per la notte? per concludere tutti
insieme la
giornata al canto di compieta? Impossibile determinarlo con certezza. Certo e` che SB
vuole tutti insieme i membri del
monastero nel momento conclusivo della giornata.
Quando tutti i monaci sono presenti si dice compieta e poi "a nessuno sia permesso
proferire parola" (v.8). La comunita` intera si
immerge nel gran silenzio della
notte. Disciplina cenobitica antichissima: risale a Pacomio ("Nessuno parli a un
altro di notte",
Reg.Pachomii 94) e da lui passa in tutte le altre Regole (Cassiano
ha: "Nessuno dei monaci ardisca di attardarsi per un po` a
scambiare parola con un
altro", Inst.2,15); oltre alla salvaguardia del silenzio, si tende a premunire la
castita` (si suppone la
dormizione in celle separate). Comunque RM e RB sembrano
indipendenti da Pacomio, almeno nella motivazione. RM porta una
motivazione liturgica:
difatti il silenzio rigoroso iniziava con il versetto: "Poni, Signore una custodia
alla mia bocca..." (salmo 140,3)
e terminava con il versetto: "Signore, apri le
mie labbra..." (salmo 50,17) (RM.30,12-16).
La notte e`, infatti il tempo delle grandi rivelazioni di Dio nell'antica e nella nuova
alleanza: nel silenzio della notte il Verbo
incarnato e` apparso per la prima volta tra
noi (cf. la liturgia del Natale); nel silenzio della notte il nostro Redentore e` risorto
dal
sepolcro; nel silenzio della notte, Cristo si intratteneva a colloquio col Padre. Il
monaco dovrebbe, in questo grande silenzio,
prolungare la sua preghiera personale che
nasce dalla liturgia e delle liturgia e` luce e alimento (cf. di nuovo quanto detto sulla
notte e la veglia in vista della preghiera, nell'Excursus sulla preghiera).
Nei nostri monasteri, forse, dovremmo tornare a riflettere con maggiore scrupolosita`
su questo capitolo e su questo aspetto della
spiritualita` monastica. In tal senso, forse,
va riconsiderato l'uso della televisione.
Codice Penitenziale
CAPITOLO 23
De excommunicatione culparum
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
La disciplina regularis
- ammonizioni private
- ammonizione pubblica
- scomunica
- oppure battiture.
La frase "sia punito secondo la (oppure: sia sottoposto alla) disciplina regolare" torna altre volte nella Regola, al di fuori del codice
penale (vedi ad esempio: RB.3,10; 32,5; ecc.). Nonostante l'apparente aridita` dell'argomento, l'esame di questa sezione e`
interessante perche` ci rivela la mentalita` propria di SB e la sua concezione della vita di comunita` con i suoi regolamenti interni e
i momenti difficili,
di infrazioni, di punizioni, di soddisfazioni, ecc.
Differenze dalla RM
Fonti
Lo spirito del codice penitenziale nelle due Regole e` molto diverso. RM e` preoccupata
dell'ordine e della giustizia: a ciascuno il
suo e ciascuno al suo posto; RB, al
contrario, si interessa alla salute della persona. Tipica di SB e` difatti la distinzione
tra colpe
gravi e colpe leggere, tra scomunica maggiore (RB.25) e scomunica minore
(RB.24); mettendo ordine alla materia disordinata
della RM, SB e` molto legato alla
proporzionalita` tra la punizione e la persona a cui e` diretta, cioe` tiene conto dei
diversi tipi di
persona (cf. anche le osservazioni che a questo proposito SB fa all'abate:
RB.2,23-25). Il fine cui SB mira e` esplicitamente il
ravvedimento del colpevole; difatti
il primo gruppo di capitoli organizza il triplo salvataggio delle anime: scomunicato
(RB.27);
recidivi (RB.28); apostati (RB.29). Il secondo gruppo di capitoli (RB.43-46) si
sviluppa intorno alla soddisfazione degli scomunicati.
"Guarire",
"educare" sono dunque le parole-chiavi della nuova legislazione penale; mentre
la RM si preoccupa soprattutto di
esercitare la giustizia e di ristabilire l'ordine, RB e`
assillato dalla preoccupazione di correggere e di salvare le anime.
In RB appare chiaramente la cura che l'abate deve prendersi per gli scomunicati
(soprattutto RB.27): prima e dopo l'espulsione
egli si interessa della salvezza del
peccatore. Si vede sempre il senso pedagogico che porta a considerare l'aspetto medicinale
della pena. Bisogna pero' anche dire che il numero accresciuto delle pene (in proporzione
alla RM) indica una tendenza a punire e
a minacciare. Se SB crea una pastorale inedita per
la salvezza dei cuori duri, egli ha anche sviluppato la penalizzazione e ha dato
alla sua
Regola un volto spesso severo. La cosa appare anche dal c.46, dove RB indurisce la pratica
di RM, di Cassiano e di
Agostino. Almeno questo e` il giudizio di un esperto, come
DeVogue`: "l'inchiesta si chiude con questa immagine complessa. RB
si stacca dalle
sue fonti sia per una tenera e instancabile tenerezza verso i peccatori, sia per un certo
rigorismo che tende a
moltiplicare le esigenze e le punizioni".
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Il capitolo 23
Dobbiamo dire che raramente si comprende appieno il significato della scomunica, di cui
non viene sufficientemente valutata
l'importanza. Eppure e` difficile dire di conoscere
bene la comunita`, se non si riconosce il suo contrario, cioe` la "s-comunica":
la
conoscenza umana procede spesso anche per contrasti (Wathen). Dobbiamo quindi dedurre
che nell'antica Chiesa e nell'antico
monachesimo si sentiva il valore della scomunica
perche` si aveva un forte concetto di Chiesa e di comunita` monastica.
- due ammonizioni private da parte dei seniori (che sono i decani e in genere i
superiori, includendovi certamente l'abate) (v.2);
- in caso di pertinacia, si passa alla scomunica, che e` pena piu` morale che fisica;
quindi si richiede un animo che comprenda il
suo valore (v.4);
- se invece e` un animo cosi` rozzo, una "testa dura" che sarebbe insensibile
alla scomunica, si usa la verga o altri castighi
corporali.
Per SB le battiture sono per quelli che non comprendono la scomunica, quindi ha un
criterio soggettivo, mentre in RM le battiture
sono determinate da un criterio oggettivo:
colpe enormi commesse. Cio` mette ancora una volta in risalto la cura del soggetto
propria
di SB.
Le pene corporali non erano novita` propria di SB: basta confrontare le Regole di
Pacomio, Macario, le Vitae Patrum, Cassiano e
in occidente la Regola di Cesario e la RM.
In questo, come detto sopra, SB e` molto severo; ma non pare giustificata l'immagine
trasmessa da qualche pittore di un SB con un fascio di verghe in mano, quasi stesse sempre
a frustare. Potrebbe interpretarsi di
un santo che mortifica se stesso con la
"disciplina": concezione facile specialmente dopo S.Pier Damiano; oppure il
fascetto di
verghe potrebbe rappresentare uno strumento per la sveglia, un qualcosa di
simile alla nostra "traccola" (cf. quanto detto alla fine
del c.47). Del resto,
la discrezione di SB anche in questo appare manifesta, se si pensa alle terribili
disposizioni penitenziali di
S.Colombano.
CAPITOLO 24
Il titolo non abbraccia il contenuto del capitolo in cui, dopo un principio generale,
si parla solo delle colpe meno gravi.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Tale privazione della mensa comportava anche una limitazione in coro: cioe` il reo
prendeva parte all'Ufficio divino, ma non poteva
fare la parte di solista (recitare a solo
o intonare salmi, antifone o lezioni), fino a quando non avesse fatto la dovuta
soddisfazione
e ottenuto il perdono (queste cose saranno descritte in RB.44,9-10).
CAPITOLO 25
De gravioribus culpis
Per chi comprende bene il profondo senso della vita in comune, tale pena era veramente
terribile: il monaco nelle condizioni
descritte in questo capitolo, per poco sensibile che
fosse, era veramente distrutto. In confronto a tale isolamento, l'eventuale
restrizione
del cibo (v.5) appare ben poca cosa.
E' chiaro che il fine, come in S.Paolo, e` medicinale: la correzione e la salvezza del
reo. Infatti poco dopo (c.27) SB ricordera` la
sollecitudine particolare dell'abate verso
questi fratelli colpevoli e dalla vita sappiamo che, appena si fosse riconosciuto
umilmente
l'errore, egli era pronto a perdonare (cf.II.Dial.12).
CAPITOLO 26
Sembrerebbe a prima vista una sanzione esagerata e senza fondamento. Ma cosi` non e` se
si tengono presenti alcune
considerazioni: la vita di comunita` e la comunione fraterna,
come e' stato rilevato al c.precedente, sono realta` molto importanti
nella vita
monastica; la pena della scomunica consiste proprio nel privare il monaco reo di questa
realta` spirituale; colui che di
iniziativa sua si unisce allo scomunicato, rende vana la
pena medicinale applicata dall'autorita` pastorale dell'abate. Egli si
contrappone
all'abate con grave colpa di insubordinazione, ritenendo ingiusta la decisione di lui. E
come succede spesso in questi
casi, il monaco che cosi` agisce, non e` mosso dal desiderio
di aiutare il reo, ma da una passione di connivenza, di scontentezza,
di critica verso
l'abate; il suo contatto col monaco reo, fatto magari di nascosto e con sotterfugio, si
riduce spesso a colloqui di
mormorazione, con ulteriore detrimento spirituale del reo e
dell'intera comunita`. Alla luce di queste riflessioni, si comprende la
drastica decisione
del santo Legislator.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAPITOLO 27
Quanto sia dovuto pesare a SB sentirsi obbligato a elaborare un codice penale cosi`
severo, appare chiaramente da questo c.27,
uno dei piu` belli della Regola. Il testo,
quasi senza parallelo nella RM, tutto pervaso di pieta` e misericordia, tratta degli
scomunicati, ma e` interamente dedicato all'abate, e` un direttorio abbaziale per un caso
concreto, a cui SB da` la massima
importanza. Basta far caso al vocabolario: vediamo che
abbondano i termini che rivelano una costante preoccupazione, un
enorme interesse con la
ricerca di tutti i rimedi fino a qualche stratagemma: ogni cura (v.1), "tutti i
rimedi" (v.2), "estrema
sollecitudine" (v.5), "con ogni mezzo e saggia
accortezza" (v.5).
SB ritorna alla raccomandazione dell'inizio quasi con le stesse parole e presenta ora
l'abate come pastore: un pastore che non
deve "perdere nessuna delle pecore a lui affidate" (v.5). E` notevole la forza con cui la RB sottolinea l'aspetto realistico,
autenticamente umano della missione dell'abate. Non c'e` da farsi illusioni: nella comunita` ci sono a volte alcuni monaci santi, la
maggior parte vive certamente una vita degna della propria vocazione; pero` l'abate sta li` soprattutto per essere attento a quelli
moralmente infermi perche` ha preso "la cura delle anime deboli e non la tirannia su quelle sane" (v.6). Il monastero non e` una
societa` chiusa di anime perfette, Dio ci guardi (soprattutto i superiori) dal pretendere una tal cosa! SB ricorda all'abate il
rimprovero di Dio ai pastori d'Israele per mezzo di Ez.34,3-4, citato un po' a senso, quasi a dire: ti compiacevi (ti era facile e
comodo) governare i sani, cioe` i
piu` docili e virtuosi e trascuravi i deboli che cadono o stentano nella via di Dio.
Decisamente la
RB sta dalla parte dei piu` deboli, di quelli piu` bisognosi di
comprensione, di aiuto.
CAPITOLO 28
Ritorna qui l'immagine dell'abate come medico, immagine che viene piu` sviluppata: ha
applicato i lenitivi (unguenti) delle
esortazioni, i farmaci della S.Scrittura, il ferro
rovente della scomunica e delle frustate (v.3). Tutto e` stato vano. Allora viene
suggerito "un rimedio ancora piu` efficace": chiedere un particolare aiuto della
grazia di Dio mediante la preghiera dell'abate e di
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAPITOLO 29
Possiamo notare che questa linea di condotta seguita per chi se ne usciva dal
monastero, doveva valere probabilmente anche per
gli espulsi del capitolo precedente.
CAPITOLO 30
Il titolo non abbraccia tutto il contenuto del capitolo perche`, oltre ai fanciulli di
minore eta`, include anche gli adolescenti e gli
adulti di scarsa intelligenza, insomma
tutti coloro che "non comprendono il valore della scomunica "(v.2): in questi
casi la
scomunica sarebbe non solo inutile, ma dannosa; allora si usano digiuni o
battiture "perche` si correggano" (v.3): si noti sempre il
fine medicinale della
pena.
Nella RM viene indicata l'eta` dei 15 anni quale limite per le battiture (RM.14,79-87);
negli adulti le battiture sono previste solo per
motivo oggettivo: colpe enormi commesse.
Invece in RB le battiture inflitte agli adulti sono determinate da un motivo soggettivo:
il
colpevole non comprende la scomunica.
CAPITOLO 43
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Come e` proprio dell'uomo sbagliare, cosi` e` proprio del monaco riconoscere umilmente
i suoi errori e le sue deficienze davanti a
Dio e davanti ai fratelli. Percio` il
significato della soddisfazione e` quello di riparare pubblicamente le colpe, gravi o
leggere,
commesse pubblicamente a detrimento della pace, della concordia, dell'ordine
della comunita`; chiedere perdono a Dio delle
irriverenze commesse contro di lui o contro
le cose a lui consacrate. Il c.43 parla della soddisfazione di chi arriva tardi alla
preghiera comune o alla mensa. Ha il parallelo in RM.73.
Per gli Uffici diurni SB e` piu` severo, perche` i monaci sono allora meno scusabili,
essendo gia` tutti in piedi; non solo si riduce il
margine per il ritardo (il Gloria del
primo salmo), mentre di notte c'era il salmo 3 di attesa e il salmo 94 cantato
lentamente), ma si
proibisce ai ritardatari di associarsi al coro dei fratelli salmodianti
(v.11), a meno che l'abate, per ragioni particolari, non lo
concede; rimane comunque
l'obbligo della soddisfazione (v.12).
Anche la mensa comune e` uno degli atti piu` importanti per la societa` cenobitica. Chi
arriva tardi, dopo la preghiera, o esce
prima della preghiera di ringraziamento, mangera`
da solo e senza vino; pero` tale punizione si applica soltanto dopo due
ammonizioni
(v.14).
Approfittando dell'occasione, SB aggiunge una nota (per se` non c'entra con il tema del
capitolo): che nessuno ardisca mangiare o
bere fuori dagli orai regolari. Anche Cassiano
parla di monaci che osservavano cosi` rigorosamente tale norma da non toccare
neppure i
frutti caduti a terra (Inst.4,18). S.Basilio dice: "Attento a non incorrere nel
peccato di mangiare clandestinamente:
(Reg.15). Fa eccezione il caso in cui il superiore
offre qualcosa, per esempio per un lavoro straordinario o per altro motivo:
sarebbe allora
orgoglio e superbia non accettare e si sarebbe passibili di punizione.
CAPITOLO 44
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Gli scomunicati solo dalla mensa (scomunica minore: RB.24) fanno la soddisfazione
nell'oratorio fino a quando l'abate con la sua
benedizione dice che basta. Consisteva
nella prostrazione alla fine dell'Ufficio e probabilmente nel non intonare salmi e
antifone,
come nella terza e quarta fase del rituale sopra descritto (vv.6-7).
CAPITOLO 45.
Bisogna intendere per gli sbagli in coro, oppure per non essersi umiliati dopo gli
sbagli? Sembrerebbe piu` probabile la seconda
ipotesi: anche i ragazzi hanno il loro amor
proprio. Ma bisogna anche ammettere che SB possa aver inteso infliggere le battiture ai
ragazzi per gli sbagli durante la recitazione. Si pensi che l'uso della verga era normale
per gli alunni, e` rimasta celebre la verga
con cui S.Gregorio correggeva gli irrequieti
fanciulli che formava al canto sacro (cf. anche la famosa esperienza di S.Romualdo).
E,
del resto, fino a non molti anni fa`, sulla cattedra del maestro elementare faceva bella
mostra la bacchetta e qualcuno degli
ancora viventi potra` ricordare di aver imparato le
declinazioni latine a forza di bacchettate!
CAPITOLO 46
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
SB si ispira a S.Agostino (Epistola 211,11) che prevede, per il monaco che riceve
regali di nascosto, tutti e due i casi: se lo
confessa spontaneamente, verra` perdonato;
se si viene a sapere da altri (per esempio da un decano o da qualche altro fratello,
sara`
punito piu` severamente. Tuttavia, mentre Agostino parla di una colpa abbastanza grave
(doni ricevuti di nascosto da una
donna), SB applica la norma a casi piu` banali ed
estende il suo campo di applicazione. Ricordiamo che nella vita del S.Patriarca,
abbiamo
un esempio di ambedue i casi: la confessione spontanea del buon goto, che venne subito
confortato da SN (II.Dial.6) e il
monaco che aveva ricevuto dei fazzoletti e non disse
nulla e ne ebbe una solenne lavata di capo (II.Dial.19).
Tutta questa finale del c.46 si ispira in qualche modo a RM.15 (e a S.Agostino,
soprattutto per la spontaneita` dell'accusa), ma e`
originale nella distinzione netta tra
la confessione pubblica per le mancanze esterne e la confessione privata per i peccati
interni.
Quando SB dice: "sappia curare le piaghe proprie e altrui", include in
tale scienza la nozione della Scrittura (come RM), ma
soprattutto la capacita` di tacere
sulla confessione ricevuta, e in piu` ricorda all'abate e al seniore spirituale la propria
fragilita`:
anche loro sono peccatori come gli altri.
*** Importanza della persona. Piu` volte nel codice penale - come anche nel
capitolo sull'abate (cf.RB.2,23-25.27.28-31) - SB
ritorna sul fatto che la punizione deve
essere adeguata all'indole di ciascuno, proprio perche` non si tratta di vendetta, ma di
un
modo per aiutare e curare il fratello che sbaglia. Percio` SB, a malincuore e dopo
numerosi tentativi, si decide ad espellere il
monaco colpevole e solo per timore che altri
si perdano a causa sua (RB.28,6-8); e in seguito, se quegli si pente, e` disposto a
riprenderlo in comunita` anche piu` volte. (RB.29,1-3).
Che cosa possiamo e dobbiamo ritenere oggi di tutto il codice penitenziale della RB?
Certo, la presenza stessa di un codice
penale nella Regola puo` risultare sgradevole alla
nostra mentalita` odierna; e di fatto l'accentuazione dell'aspetto giuridico e
casuistico
ha portato ad immagini di monastero troppo distanti dallo spirito del Vangelo e del
monachesimo: monasteri quasi
caserme o scuole nel senso peggiore (la storia ce ne fornisce
degli esempi) e non comunita` di volontari, aggregazione libera per
seguire Cristo.
Tuttavia ci sono alcuni valori nel codice penitenziale che non dovrebbero andare
perduti. Poniamo delle riflessioni in forma di
questioni:
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
3. Nella RB pena e penitenza hanno un carattere pubblico, come detto sopra. Abolite,
per la mentalita` dei tempi, tutte le pratiche
della Regola, non c'e` pericolo che vi sia
una mancanza di sensibilita` riguardo al confronto e alla correzione fraterna? O, peggio,
dato che ci si conosce molto bene, non ci riduciamo forse soltanto a fare mormorazione e
critica "privata"? Dobbiamo - credo -
educarci di piu` al senso della
responsabilita` reciproca: la comunita` intera come organismo deve salvare i suoi membri
deboli e
infermi, non con un malinteso senso di pieta` o peggio con una colpevole
solidarieta` con i vizi, ma con una carita` genuina che
comprende la correzione fraterna -
la "verita` nella carita`", cf.Efes.4,15) - con una preghiera insistente e con
un supplemento di
santita`. Dio ci ha riuniti insieme perche` lo cerchiamo nella
preghiera, nel lavoro, nella vita comune. Ognuno deve sentirsi ormai
inseparabile dai suoi
confratelli e solidale con essi per sempre. Bisogna dunque che egli lavori, preghi, si
sacrifichi non solo per
raggiungere la propria santificazione personale, ma anche per
aiutare quella degli altri.
Possiamo ritenere almeno queste riflessioni dall'esame dei dodici capitoli del codice
penitenziale della RB.
CAPITOLO 32
Ma nei capitoli che trattiamo in questa sezione appare l'importanza che SB da` allo
spogliamento individuale, alla
disappropriazione. Per SB la poverta` individuale e`
considerata anzitutto come dipendenza dall'abate: la rinunzia alla proprieta`
proviene
dalla rinunzia alla propria volonta`, idea collegata con quella, soprattutto di Agostino,
della comunione fraterna dei beni,
secondo il modello degli Atti degli Apostoli.
Fonti
Lo spirito di fede e di poverta` esigono che gli oggetti del monastero non siano
lasciati sporchi e fuori posto (la RM ha una frase
plastica quando dice che "gli
attrezzi di ferro si arrugginiscono se non si rimettono a posto puliti", RM.17,9);
per cui chi manca,
dopo essere stato ammonito come al solito, sia punito secondo le
sanzioni previste dalla Regola (letteralmente: "sia sottoposto
alla disciplina
regolare", v.5).
CAPITOLO 33
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
E' uno dei capitoli piu` duri della Regola, una pagina energica, radicale, in cui SB
porta a conseguenze estreme l'insegnamento di
Cassiano: il monaco non deve possedere nulla
di proprio, ed e` in totale dipendenza dalla volonta` dell'abate. Senza mezze
misure SB
esordisce all'inizio del capitolo con una frase secca: "Nel monastero bisogna
soprattutto strappare fin dalle radici
questo vizio" (v.1).
Notiamo in questo capitolo: nessuno ardisca (v.2); nulla nel modo piu`
assoluto; nulla insomma (v.3). La ragione di cio` e` detta
nel v.4: poiche` il
monaco si e` dato integralmente a Dio, ormai a lui non appartengono piu` ne` la sua
volonta` ne` il suo corpo,
tanto meno quindi i beni esterni e materiali. Nel testo
originale latino c'e` un gioco di parole (forse un po` troppo sottile);
letteralemente
sarebbe: perche` i monaci non hanno sotto la loro volonta` ne` i propri corpi, ne` le
proprie volonta` (cioe` i propri
desideri).
Un capitolo cosi` deciso e radicale non poteva non terminare con le sanzioni contro chi
"va dietro a questo pessivo vizio" (vv.7-8).
Oggi.....
Oggi si deve intendere che il monaco abbia molte cose a suo uso personale con il
permesso implicito del superiore; cioe` anche
se il superiore non ha dato direttamente un
libro o un capo di vestiario o la macchina da scrivere, si suppone il suo benestare e la
sua benedizione per un certo spazio in cui il monaco responsabilmente usa le sue cose.
Tuttavia, commentando questo capitolo della Regola, non e` male interrogarci, noi
monaci del XX secolo, sullo spirito di distacco e
di poverta`. Ricordiamoci che la
vocazione di Antonio il Grande comincio` con la pratica letterale delle parole di Gesu`:
"Va, vendi
quello che hai..." (Mt.19m21); ricordiamoci che una delle note
qualificanti del monachesimo era lo spogliamento totale, per vivere
nella semplicita` e
nel distacco piu` assoluto; pensiamo che ancora oggi per il monachesimo hindu e buddhista
farsi monaci
significa spogliarsi veramente di tutto, non avere assolutamente nulla. Le
notre camere non sono rifornite un po` troppo? Non
diventiamo forse troppo esigenti o alla
ricerca di tante piccole cose, anche non strettamente necessarie? La nostra poverta` - di
cui facciamo ora un voto esplicito - a che cosa veramente si riduce? Nonostante tutti i
cambiamenti dei tempi, lo spirito del voto di
poverta` rimane sempre lo stesso: il
distacco reale e sincero da tutti i beni temporali ed esterni, anche minimi, per avere
libero il
cuore ed aderire esclusivamente a Dio.
Oggi, poi, siamo chiamati, molto piu` che una volta, a una testimonianza anche collettiva di poverta`. A questo, il mondo di oggi e`
molto sensibile (fanno problema le grandi proprieta` e le vistose costruzioni dei seminari e degli istituti religiosi...). E` bene che non
solo il singolo monaco nella semplicita` della sua stanza, nel vestito, negli oggetti di suo uso, ma anche tutta la comunita` dia
conventualmente testimonianza dello spirito e della pratica della poverta`, tenendo conto del luogo in cui e` situato il monastero.
Cosi` e` bene che superiori, singoli monaci, comunita` tengano in considerazione che due terzi dell'umanita` non hanno di che
procurarsi il necessario sostentamento, anzi vivono in condizioni sub-umane; di fronte alla poverta`, non sono che
inezie che
dovrebbero diventare motivo - per dirla con SB, c.40,8 - "di benedire Dio
e non mormorare", perche` ci danno modo, in forza del
Corpo Mistico, di condividere
piu` intimamente le sofferenze dei fratelli piu` poveri.
CAPITOLO 34
Il capitolo inizia con la risposta alla domanda posta dal titolo (v.1); l'ideale della
prima comunita` cristiana di Gerusalemme (Atti
4,35) diventa per SB un criterio. Il
cammino monastico non e` anarchico ne` livellatore; i monaci non sono fatti in serie o con
lo
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
stampo. L'abate, che deve dare ai monaci il necessario (RB.33,5), deve considerare le
varie personalita`; non che deve fare
preferenze (v.2), ma tener conto delle debolezze
(v.3). Ancora una volta SB e` dalla parte dei piu` deboli (cf. anche RB.37,2-3;
55,21;
ecc.): piu` che esigere molto o il massimo da tutta la comunita`, nella legislazione si
parte dalla necessita` dei meno dotati.
risente delle idee, del vocabolario, della fine psicologia del grande spirito di
Agostino.
CAPITOLO 54
2: eulogia
CAPITOLO 55
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Anche S.Agostino, subito dopo le norme sull'accettazione di lettere o regali, parla del
vestiario dei monaci: un punto su cui e` piu`
facile che si insinui il vizio della
proprieta`. Questo capitolo della RB si ricollega a RM.81 e, nella seconda parte, a RM.82.
Che cosa deve avere dunque ciascun monaco per uso suo personale? Vestiti, calzature e
pochi utensili: lo stretto necessario.
RB.55 intende precisarlo, ma solo fino a un certo
punto. Perche` SB ha troppa esperienza, prudenza e sensatezza per imporre un
vestito
uniforme, un "abito religioso" nel senso moderno della parola, valido e
obbligatorio per tutti i luoghi e per tutte le persone.
SB vuole che si tenga conto del
clima (vv.1-3), e cio` fa capire che egli ha una prospettiva ampia (non pensa solo al
monastero di
Montecassino o di Terracina); esprime la sua opinione su cio` che basta in un
clima temperato (vv.4-6); non gli interessano il
colore e la qualita`, e vuole che i
monaci non se ne curino (vv.7-8). Cio` che gli interessa e` la poverta`, o meglio la
semplicita`:
che ci si accontenti del necessario; difatti SB insiste sulla sobrieta` (sufficit
<basta> dei vv.4 e 10) e sul ruolo dell'abate nel fornire
il vestiario (v.8).
L'elenco del vestiario fornito dalla Regola e` abbastanza ridotto: una cocolla
di lana per l'inverno e un'altra piu` leggera o
consumata per l'estate, la tunica,
lo scapolare "per il lavoro" <propter opera>, scarpe e calze
(vv.4-6). Tutto sembrerebbe chiaro, e
invece non lo e` affatto, perche` nessuno dei capi
di vestiario menzionati corrisponde a quelli in uso oggi nei monasteri; anche se i
nomi
sono rimasti, il significato e` mutato. Vediamo in breve:
In oriente
In oriente gli anacoreti usavano la massima liberta`. Forse il primo abito monastico
distintivo fu la "melota": una specie di zimarra
larga, fatta di pelli di
capra o di altro animale, stretta al corpo da una cintura di cuoio; ricordava - e senza
dubbio voleva pure
imitare - il vestito di Elia (cf.2Re 1,8) e di Giovanni Battista
(cf.Mt.3,4), i due precursori dei monaci cristiani. I monaci d'Egitto
continuarono per
molto tempo a usare la melota, pero`, in genere, solo come difesa dal freddo. Abitualmente
invece indossavano
una tunica con o senza maniche, una cintura di cuoio e un
cappuccio <"Koukoullion"> che copriva il capo e il collo. Cosi` la
maggior parte degli eremiti e cenobiti di S.Pacomio. S.Basilio non prescrive un abito
tipico, ma un vestito povero, semplice,
simbolo della rinunzia alla vanita` del mondo.
In occidente
La RB
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
sarebbero una specie di sandali legati al collo del piede con lacci
(come le "ciocie" usate nella zona di Cassino I(che e` la
"Ciociaria"); le "caligae" invece erano stivaletti da viaggio He da
campagna. Sembra piu` probabile che "pedules" fossero un
indumento di stoffa che
avevano l'ufficio delle nostre calze, e "caligae" fossero le scarpe simili alle
calzature militari, stivaletti che
coprivano interamente il piede H Comunque, a parte
queste considerazioni archeologiche di importanza relativa, certo e` che SB
lascia una
grande liberta` per quanto riguarda la qualita`, il colore, la foggia dei vestiti
(v.7). Da questo e da altri indizi, pare che
nessuno dei capi di vestiario citati Din
questo capitolo appartenga esclusivamente ai monaci: l'abito dei primi benedettini non
differiva essenzialmente da quello dei contadini, dei poveri e degli schiavi, cioe` delle
classi inferiori della societa`. E` sintomatico
che SB non parla mai dell'abito monastico,
se non nel momento della professione (RB.58,26), il che e` tanto piu` strano in quanto
Cassiano, il suo autore preferito, e la RM trattano di esso lungamente ed esaltano il
valore religioso e il simbolismo dell'abito
monastico come segno distintivo (cf. Inst.1:
tutta la descrizione dell'abito e il suo simbolismo; RM.81; 90,82-85; 95,21; ecc...) M
Per
SB il distintivo del monaco e` la tonsura (RB.1,7; vedi commento). Se nella
professione il monaco viene spogliato del suo
abito De ne riceve un altro completo (e
notiamo che li` non si dice "abito monastico" o "abito santo" o
simili, ma semplicemente
"vestiti" - anzi "rebus" <le robe> -
del monastero, RB.58,26), cio` vuol significare direttamente che egli ha perduto il
diritto di
proprieta`. Insomma, SB non da` importanza a queste cose. Fare una storia
dell'evoluzione dell'abito monastico lungo i secoli e`
pressoche impossibile. Certamente
nel sec.VI non era usato il colore nero, che era ritenuto un lusso (S.Cesario lo
proibisce
spressamente). Oggi quasi tutti i benedettini usano il nero; i Camaldolesi, gli
Olivetani e i monaci di Montevergine usano il bianco;
i cisterciensi e i Trappisti usano
tonaca bianca e scapolare nero . L'abito nella Congregazione Silvestrina K Nella
Congregazione
Silvestrina, all'inizio l'abito era de gattinello, cioe` di un panno di
lana di colore misto risutante dalla combinazione del grigio o
cenerino con il lionato.
Per questo nel Emedioevo i Silvestrini furono chiamati, come i Vallombrosani, monaci
="grisei" <grigi>. Col
passare del tempo il lionato prese il w sopravvento
sul grigio, fino a diventare tane`, come si puo` vedere da numerose pitture
esistenti. Nel 1663, al tempo dell'unione con i Vallombrosani, fu adottato il colore
nero. Le Costituzioni del 1690 stabiliscono l'abito
di colore tane` o lionato che
pieghi allo scuro. In seguito, non sappiamo precisamente quando, si adotto` il colore
bleu fino al
1933. Attualmente, a partire da quella data, l'abito e` nero e la cocolla
(abito corale) e` di colore turchino tendente al nero. In India
e Sri Lanka, viene usato
il bianco. In Australia, da qualche anno, usano, opzionale d'estate, anche il colore
bianco.
SB vuole evitare che i monaci accrescano il guardaroba. "Bastano due tuniche e due
cocolle". Sappiamo che i monaci dormivano
vestiti, per essere pronti a recarsi
all'Ufficio notturno (RB.22), e quindi avevano la tunica e forse anche la
"cuculla"... Notiamo il
vigoroso sufficit <basta> all'inizio del
v.10 e tutto il v.11: quel che e` in piu` e` superfluo e si deve eliminare (cosi`
anche in
Pacomio, Reg.81). Al v.13 si parla di femoralia <femorali>: corrispondono pressappoco alle odierne "mutande". Ordinariamente
non erano usati, ma solo in viaggio, soprattutto per cavalcare. Nei monasteri il loro uso fu pero` assai vario: in alcuni luoghi li
portavano abitualmente tutti (come a Cluny); in altri chi
li voleva, in altri era addirittura proibito. Notiamo anche la delicatezza e la
signorilita` di SB nel prescrivere vestiti migliori per chi viaggia (v.14).
La stessa semplicita` che distingue l'abito del monaco, deve contrassegnare il suo
letto: sufficiant <bastano>, (di nuovo, per la
terza volta, appare questo
verbo!), un pagliericcio, una coperta leggera, un cuscino (v.15). Il letto era allora
l'unico mobilio
personale del monaco, e pare che servisse da nascondiglio per le piccole
cose che i monaci sottraevano all'uso comune. La RB,
come tutti i documenti monastici
antichi, invita l'abate a ispezionare con frequenza e a punire
Pero`, per estirpare dalle radici il "vizio della proprieta`" (di nuovo
appare l'espressione usata in RB.33,1), l'abate deve dare a tutti i
fratelli il
necessario. Osservazione molto pertinente: altrimenti se lo procurano di nascosto! e`
stato sempre cosi`!. In tal modo
invece, non hanno alcun pretesto per compiere atti di
proprieta`. Le disposizioni precedenti ricordano l'energico c.33; solo che,
invece di
dirigersi ai monaci, qui la Regola parla all'abate: dia egli tutto il necessario, secondo
la frase di Atti 4,35 gia` citata nel
c.34: "veniva distribuito a ciascuno secondo il
bisogno". E di nuovo la Regola parla a favore dei deboli che necessitano di piu`. A
queste necessita` deve badare l'abate nel dare le cose, e "non alla cattiva volonta`
degli invidiosi" (v.21); cioe` non deve omettere
di soddisfare le necessita` dei
monaci piu` deboli per dare retta a quelli che, mossi da invidia, non tollerano eccezioni
o
agevolazioni. Cosi` il trattato sulla proprieta` (spogliamento di se`) costituito dai
cc.33-34 riceve nel c.55 un complemento
indispensabile, che potrebbe intitolarsi "la
responsabilita` dell'abate nel mantenimento della vita comune" (DeVogue`).
CAPITOLO 57
De artificibus monasterii
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Trattiamo in questa sezione anche del c.57, a prima vista difficile da classificare. La
poverta` individuale del monaco, lo
spogliamento di se` acquista qui un aspetto piu`
spirituale che materiale: il monaco deve essere distaccato dalla proprieta` privata
anche
nei suoi pensieri.
Forse SB si ispira a S.Agostino, il quale parla di monaci che hanno portato delle
sostanze al monastero e che potrebbero
insuperbirsi di cio`. Potrebbe ispirarsi anche a
Cassiano (Inst.4,14) che parla del lavoro dei monaci egiziani. Per SB, se gli artigiani
non sono capaci di disinteresse e di distacco, deve proibirsi loro di esercitare la loro
arte (v.3).
Per la vendita dei prodotti del monastero sono due i vizi da evitare: la frode e
l'avarizia. La frode potevano commetterla o gli
artigiani stessi o altri monaci o
altri intermediari. L'avarizia, sotto il pretesto di maggiori introiti per il monastero,
sarebbe una cosa
grave sia per i monaci singoli che per il buon nome del monastero stesso.
Per evitare cio`, si vendera` aliquantulum <un pochino>
di meno di quanto
vendono i secolari. S.Girolamo (Epist.22,34) parla con ironia dei monaci sarabaiti, i
quali, "come se fosse santo
il loro lavoro, e non la vita, vendevano a prezzi
maggiori"!
... <affinche` in tutto sia glorificato Dio>. Anche nel trattare interessi cosi`
secondari e temporali, il fine e l'ispirazione devono
essere di carattere soprannaturale.
La bella sentenza, presa da S.Pietro (1Petr.4,11), ricordata quasi incidentalmente in un
passo
secondario della Regola e a proposito di un argomento cosi` poco spirituale, esprime
bene lo spirito di fede del S.Patriarca, ed e`
divenuta un programma e un motto dei
nostri monasteri, dove si trova spesso anche abbreviata in sigla: U. I. O. G. D.
CAPITOLO 35
I settimanari di cucina
De septimanariis coquinae
Sette capitoli consecutivi, dal 35 al 41, hanno come denominatore comune la trattazione
del tema dell'alimentazione dei monaci. I
padri del monachesimo antico danno
all'alimentazione grande importanza: sia nel senso che tale necessita` corporale serviva
loro
come palestra per esercitarsi nella mortificazione e nella penitenza; sia nel senso
che compresero il ruolo che una giusta
alimentazione ha per le attivita` spirituali del
monaco. Cassiano, con la sua esperienza dei diversi ambienti monastici, riassume
nelle sue
Institutiones alcune norme; in un capitolo pone espressamente la questione: come debba
essere il pasto del monaco. E
risponde che si deve scegliere una alimentazione: a) che
mortifichi gli ardori della concupiscenza; b) che possa prepararsi
facilmente; c) che sia
la piu` economica... (Inst.5,23).Riassumendo il suo insegnamento, possiamo dire che il
regime alimentare
dei monaci deve avere tre obiettivi: a) dominare direttamente la
passione della gola e, indirettamente, quella della lussuria, cosi`
collegata con la gola;
2) essere in coerenza con la poverta` che si e` professata; 3) favorire l'orazione e in
generale tutta l'attivita`
spirituale del monaco.
Introduzione al c.35
Il sistema settimanale per il servizio della cucina e della mensa era comune tra
i monaci d'oriente e d'occidente. A questo capitolo
corrispondono in RM almeno sette
capitoli, in cui con ogni minuziosita` e` descritto il modo di entrare a tavola, il cesto
dei pani che
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
scende dall'alto con una fune, la distribuzione del pane e delle bevande,
quando sedersi, ecc., con tutti i significati simbolici e
spirituali: la mensa comune e`
vista proprio in spirito di fede, come una grande liturgia. SB dipende chiaramente da RM
(e da
Cassiano), ma e` molto piu` breve, con dei punti in comune e altri punti diversi.
Notiamo subito, come in tanti altri passi della Regola, la sollecitudine verso i
piu` deboli. Ci sono coloro che possono essere
dispensati: i malati (v.1) - oltre al
cellerario (v.5) - e ai piu` deboli si diano comunque aiuti perche` non siano oppressi
Questi versetti sul supplemento ai settimanari sono qui fuori luogo e andrebbero meglio
o prima dei vv.7-11 o dopo i vv.15-18;
sono stati aggiunti dopo (come fa spia anche il
plurale, mentre nei vv.7-11 si parla del settimanario al singolare). La motivazione
del
supplemento si ispira a S.Agostino (Reg.13,160-162). Il lavoro di cucina e` gia` pesante
di per se`; inoltre i settimanari devono
lavorare in cucina e servire a tavola mentre i
fratelli mangiano; il pasto era al piu` presto a mezzogiorno, spesso assai piu` tardi, o
anche verso sera (la colazione mattutina non si conosceva): cio` spiega perche` SB conceda
uno spuntino: un po` piu` di pane e
un bicchiere di vino, oltre la misura fissata per
tutti. Cosi` anche in Cesario (Reg.Virg.14). RM non accorda il supplemento, perche`
i
settimanari mangiano assieme ai fratelli.
Il servizio di cucina e di mensa, pur cosi` modesto, deve essere visto con spirito di
fede, e quindi riceve l'impronta di sacro e viene
benedetto da Dio. Al rito SB (come
Cassiano, RM e tutta la tradizione monastica) da` un carattere ufficiale e liturgico.
Nella RB
tale rito si svolge dopo le lodi domenicali. RM lo divide: sabato sera, l'uscita;
domenica, dopo Prima, l'entrata. Anche i versetti
scritturistici usati sono diversi.
CAPITOLO 36
I fratelli infermi
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
De infirmis fratribus
Preliminari
I capitoli RB.36 e 37 sarebbero dovuti venire dopo il 41, perche` prevedono deroghe
alla legge dei digiuni; e inoltre separano due
capitoli (il 35 e il 38) che dovrebbero
essere uniti. RB ha anticipato perche` in essi ci sono temi affini a quelli del c.35: il
servizio, la
ricompensa, la fuga della tristezza; c'e` la solita preoccupazione per la
cura soggettiva e per il servizio vicendevole tra i fratelli.
Il capitolo si apre con due solenni principi fondati su due frasi del Signore: bisogna
aver cura dei malati prima di tutto e soprattutto
- espressione assoluta ed
energica - e servire a loro come a Cristo in persona (v.1); seguono le due
citazioni di Mt.25,36 e 40. I
monaci opereranno di conseguenza, ma SB aggiunge una frase,
grave, ma pacata, anche per gli infermi a non essere petulanti e
troppo pretenziosi o
addirittura capricciosi. Comunque, anche ammesso che i fratelli malati diventino cosi`
strani - come puo`
succedere a causa del male - gli altri devono sopportarli in ogni caso.
La prima parte del capitolo si chiude con una ammonizione
categorica all'abate affinche`
si prenda "somma cura" degli infermi (v.6).
SB scende ad alcuni particolari concreti e stabilisce: primo, che nel monastero ci sia
una infermeria affidata a un infermiere
"timorato di Dio, diligente e
premuroso" (v.7); secondo, l'uso dei bagni ai malati ogni volta che e`
necessario (v.8); terzo, che si
permetta di mangiare carne, anche se soltanto a
quelli molto deboli (v.9). Tanto l'uso dei bagni che il mangiare carne sono una
concessione: costituivano infatti un'eccezione allo stato di monaci. Una parola su tutte e
due le cose.
Fin dalle origini del monachesimo, notiamo una esplicita avversione per l'uso dei bagni. Non dobbiamo dimenticare che per gli
antichi, i bagni, piu` che una pratica igienica, erano un passatempo, un lusso e un piacere (sappiamo che cosa erano le terme dei
romani). Per mortificarsi e per non cadere nella sensualita`, i monaci esclusero per principio i bagni dal loro genere di vita,
riservandoli solo ai malati. La tradizione cenobitica e` unanime (Vita di Antonio, Pacomio, Agostino, Reg.Masch., Cesario,
Fulgenzio,
Leandro, Isidoro); un'unica eccezione, la Regola femminile di Agostino (Epist.211,13) che
concede alle monache il
bagno una volta al mese. SB si trova su questa linea e autorizza
il bagno a tutti, anche se "piu` di rado, soprattutto ai giovani"
(v.8). Non
possiamo stabilire la frequenza di questi bagni per i sani, ma certo, considerando il
tempo e l'ambiente, SB e`
eccezionalmente liberale, quasi rivoluzionario.
Per lo stesso motivo che dai bagni, i monaci si astenevano dalle carni (perche` i bagni
e le carni riscaldano il corpo e solleticano la
sensualita`: "il bagno scalda la
carne, il digiuno la raffredda", scrive S.Girolamo). Anche su questo punto SB si
mostra molto
liberale verso gli infermi. Il brano, considerando soprattutto il parallelo
con RB.39,11, si deve interpretare nel senso della
proibizione assoluta solo per le
"carni dei quadrupedi", cioe` non riguarda il pollame e i pesci. La distinzione
tra carne di
quadrupedi e carne di uccelli era gia` antica nella dietetica monastica: la
seconda si considerava piu` leggera, e quindi meno
pericolosa per la virtu`; si equiparava
praticamente ai pesci, ricordando la Scrittura secondo cui pesci e uccelli furono creati
insieme (Gen.1,20-21). Il capitolo termina inculcando di nuovo all'abate la "massima
cura" che si deve avere per gli infermi,
vigilando anche perche` gli incaricati
adempiano bene il loro dovere, secondo il principio generale che sul maestro ricade la
responsabilita` ultima di tutto (v.10).
Conclusione
Il c.36 sui malati e` uno dei meglio riusciti della RB, sotto l'aspetto letterario e
contenutistico. Molti esempi ci sono nella
legislazione monastica della sollecitudine per
i malati, pero` nessuna Regola riunisce in cosi` mirabile sintesi il trattato sugli
infermi
come RB, che elimina anche ogni nota negativa rispetto ai fratelli malati (RM
prevede soprattutto il caso delle... finzioni e non
parla ne` di infermeria, ne` di
infermieri). "Questo trattato mostra in modo chiaro che RB nella sua brevita`
possiede delle
istituzioni piu` evolute di quelle di RM. E siamo portati a pensare che
questo sviluppo istituzionale e spirituale sia il riflesso di una
conoscenza piu` ampia
della letteratura cenobitica anteriore e contemporanea" (DeVogue`).
CAPITOLO 37
I vecchi e i fanciulli
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
SB fa` poi una sola applicazione pratica riguardo al vitto: anticipino le ore stabilite
per il pasto comune. Per i vecchi e i fanciulli
sarebbe stato troppo grave sostenere il
digiuno fino al tardo pomeriggio o rifocillarsi con un forte pasto verso sera o anche solo
aspettare fino a mezzogiorno (ricordiamo che non esisteva la colazione). SB si ispira a
S.Girolamo (Epist.22,35) ed e` molto largo
nell'eccezione concessa, senza scendere in
particolari (RM.28.19-26 fissa l'eta` e limita le eccezioni); rimane volutamente poco
esplicito, confidando nella discrezione di coloro che guidano la comunita` monastica, in
cui ci sono sempre anime "forti" e anime
"deboli", come infermi,
vecchi e fanciulli.
CAPITOLO 38
Il lettore di settimana
De hebdomadario lectore
Un altro ufficio connesso con la refezione dei fratelli e` quello del lettore di mensa.
Anche questo ufficio e` settimanale, come
quello dei servitori. La lettura a tavola era
sconosciuta in Egitto (Pacomio). Secondo Cassiano, l'uso di leggere a tavola lo
avrebbero
introdotto i monaci di Cappadocia per evitare le discussioni frivole e le dispute
(Inst.4,17). S.Basilio (Reg.Brev.180) si
appella al motivo spirituale, seguito poi da
tutta la tradizione monastica: cioe` di rifocillare anche lo spirito insieme al corpo
(vedi la
scritta nel nostro refettorio del monastero di S.Silvestro: "Dum corpus
reficitur, mens ieiuna non maneat" <mentre si rifocilla il
corpo, lo spirito non
rimanga digiuno>; cosi` S.Agostino, S.Cesario, ecc.
SB inizia il capitolo con una norma generale presa da RM.24, la quale aggiunge il
famoso principio della doppia mensa (come
detto sopra), citando Mt.4,4 (Lc.4,4): "Non
di solo pane...". Il lettore di mensa prende servizio la domenica con un rito
liturgico
sobrio che si svolge in chiesa dopo la Messa (in RM si svolge in refettoio), in
cui si chiede di vincere lo spirito di superbia e di
vanagloria. Perche`, essere scelto
per la lettura pubblica era - soprattutto a quei tempi - di pochi, in quanto non potevano
farlo
tutti, ma solo chi era in grado di farlo in maniera degna: SB lo dira` espressamente
alla fine del capitolo (v.12) e lo dice anche
altrove (RB.47,3).
RM.24 dice espressamente che si doveva leggere sempre la Regola molto lentamente, in
modo che i fratelli su ogni brano
potevano domandare spiegazioni all'abate; l'abate
inoltre poteva interrogare sulla lettura. Quando invece vi erano ospiti che non
avrebbero
potuto capire i "secreta Dei" e quindi deridere forse il monastero, si leggeva
altro. SB sopprime tutte queste
prescrizioni, non dice cosa si deve leggere (della lettura
della Regola parlera` in RB.66,8) e introduce la prescrizione del silenzio
assoluto,
rifacendosi a Pacomio e a Cassiano; solo l'abate puo` - se vuole - intervenire con qualche
esortazione (sulla lettura
anzitutto, s'intende, o su altro), ma molto brevemente (v.9).
Bisogna dire che tutta la tradizione monastica e` concorde nel
prescrivere il silenzio al
refettorio comune; e la tradizione benedettina e` stata fedele alla disposizione del
S.Patriarca. Solo negli
ultimi tempi in alcuni monasteri si usa dispensare dal silenzio
(da noi Silvestrini piu` frequentemente); pero` anche in questi casi
non manca la lettura
all'inizio e alla fine.
Abbiamo qui ancora un tratto di umanita` di SB, che concede al lettore - come gia` ai
servitori - un piccolo favore: un bicchiere di
"mixtum" <acqua e vino>
"sia per la santa comunione sia per poter sopportare il digiuno" (v.10).
RM.24,14 dice espressamente
"propter sputum sacramenti" <per lo sputo del
sacramento>, per paura, cioe`, che durante la lettura a voce alta, fra le stille di
saliva che potevano emettere, uscissero anche particelle della sacra specie rimaste
eventualmente in bocca. SB corregge
l'espressione brutale di RM e porta una motivazione
piu` completa aggiungendo il motivo del digiuno e della fatica.
Il v.12 e` una postilla sul criterio per la scelta del lettore di mensa (e, per
estensione, di tutti i lettori e i cantori in chiesa e in
refettorio), parallelo a
RM.47,3: legga e canti come solista solo chi puo` farlo con utilita` ed edificazione degli
uditori.
CAPITOLO 39
De mensura cibi
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
SB prova disagio e ritegno nel determinare la misura del vitto (lo dira` espressamente
all'inizio del capitolo seguente, RB.40,1-2).
Percio` inizia con un modesto sufficere
credimus <pensiamo che bastino>. Identico inizio in RM.26,1, con la differenza
che RB e`
un po` piu` restrittiva mettendo come occasionale il terzo piatto che in RM e`
sempre previsto. Caso strano: poi: RB e` piu` lunga
di RM. Al v.1 la frase omnibus
mensis e`, per l'interpretazione, tra le piu` tormentate della Regola. Puo`
significare (piu`
letteralmente prendendo "mensis" come ablativo regolare da
"mensa, mensae"): a tutte le mense, cioe` a quella della comunita`, a
quella dei servitori e del lettore che mangiavano dopo (RB.38,11), e a quella dell'abate e
degli ospiti (RB.56,1); come anche, e piu`
probabilmente, a tutte le tavole, dove
erano seduti i fratelli per gruppi (soprattutto considerando il parallelo con la RM
secondo la
quale i monaci stavano a tavola in tavoli diversi secondo le decanie). Cosi`
DeVogue`, Colombas e altri. Altri invece (come Penco,
Lentini, ecc...) intendono
"mensis" come ablativo volgare al posto del regolare "mensibus" (da
"mensis, mensis") e interpretano: in
tutti i mesi, cioe` sia d'estate che
d'inverno. (Per l'orario dei pasti che poteva essere a sesta, a nona e anche dopo, cf.
RB.41).
SB vuole due pietanze cotte, per assicurare il necessario ai fratelli malati (v.2), ma
chi aveva stomaco forte poteva senza dubbio
fare onore ad ambedue. L'eventuale terzo
piatto era di legumi teneri che in Italia del Sud il popolo soleva mangiare anche crudi:
fave, ceci, lupini, ed anche carote, cipolle, ravanelli, ecc. Per il pane si parla di una
"libbra", peso tradizionale presso tutti i monaci
(cf.Cassiano, Coll.2,19;
RM.26,2). La libbra romana equivaleva a un terzo di chilogrammo, ma variava secondo i
tempi e i luoghi.
Pare che la misura di SB sia molto piu` grande: il pane costituiva il
cibo principale per i monaci di allora, dediti quasi tutti a lavori
manuali. A
Montecassino si conserva ancora un peso di bronzo, di cui un'antica e seria tradizione
attestata gia` da Paolo Diacono
(sec.VIII) dice adoperato fin dai tempi di SB, portato a
Roma nella prima distruzione dell'abbazia (577) e restituito da Papa
Zaccaria. Tale peso
corrisponde a kg.1,055: esso valeva per il pane crudo; per il cotto, l'equivalente si puo`
calcolare intorno agli
800 grammi. SB ricorda al cellerario di conservare la terza parte
della razione di pane a testa per i giorni in cui c'era anche la cena
(ma non si dice in
che cosa questa consistesse).
Questo era il regime normale. Ma ci potevano essere dei supplementi per qualche motivo:
SB cita solo il caso di un lavoro
eccessivo, RM.26,11-13 anche un motivo gioioso
(domenica, giorni di festa, ospiti particolari; e parla anche del "dolce" (!)
ricordando un episodio di "Vitae Patrum"); purche`, osserva SB, non si esageri
fino all'eccesso o all'indigestione (vv.7-9).
I fanciulli seguono un regime particolare (v.10): si sa che essi hanno bisogno piu` di
cibo frequente, che di cibo abbondante. SB
ha gia` provveduto in loro favore (RB.37).
Come gia` detto in RB.36,9, l'astinenza dalle carni era normale per i monaci; si
intende "carni di quadrupedi" (v.11). Il divieto delle
carni si e` andato nel
corso dei secoli piu` o meno attenuando, a causa della crescente debolezza generale
dell'organismo, e oggi
di fatto e` quasi annullato nella legge ecclesiastica. Le
Costituzioni delle singole Congregazioni fissano le norme per l'astinenza
nei monasteri.
CAPITOLO 40
De mensura potus
Sull'uso del vino nella tradizione monastica, si va dalla totale proibizione (Vita di
Antonio, Pacomio, Basilio - solo per i malati -,
Giovanni Crisostomo...), alla progressiva
(Agostino, Ilario di Arles...) e pacifica ammissione (Cesario, Aurichiano, Isidoro,
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAPITOLO 41
Preliminari
Il tempo pasquale, per il carattere di particolare letizia, esclude il digiuno; percio` SB prescrive il pasto principale a sesta e la cena
alla sera. Per i romani il pasto principale era la sera; ma i monaci subito dopo la refezione serale, avevano la lettura e compieta, e
quindi il riposo; percio` l'inversione dei due pasti era anche una buona norma igienica. Riguardo ai monaci primitivi (Egitto),
S.Girolamo dice che "da Pasqua a Pentecoste le cene si cambino in pranzi", cioe` l'ora veniva anticipata da nona a sesta
(Epist.22); cosi` anche Cassiano (Coll.21,23). Anche RM prevede il pranzo a sesta
nel tempo pasquale e concede la cena, ma
solo giovedi` e domenica (RM.28,37-40). SB e`
piu` largo: pranzo e cena per tutto il tempo pasquale.
Il periodo estivo ha il pranzo a sesta ed ha, in via ordinaria, il digiuno che anche i
semplici fedeli osservavano ogni settimana,
cioe` il mercoledi` e il venerdi`, digiuno che
consisteva nel fare il pasto a nona e non avere la cena. Mentre i giudei digiunavano il
lunedi` e il giovedi`, i cristiani, fin dai primi tempi, digiunavano il mercoledi` e il
venerdi`, e questa usanza fu tenuta in grande onore
presso i monaci;
per la chiesa romana e alcune altre anche il sabato (cosi` anche RM). Ma anche questo
digiuno mitigato ha per SB delle deroghe:
mercoledi` e venerdi` si digiuni (nel senso
detto sopra), purche` i lavori campestri e la calura estiva non richiedano una dispensa;
l'abate consideri la cosa. Si noti il v.5 che intende dire: se e` vero che i monaci non
devono mai mormorare (RB.34,6; 40,8-9), e`
anche bene che l'abate disponga le cose in modo
da evitare ogni motivo fondato di mormorazione.
In quaresima l'unico pasto si prendeva dopo vespro. Era l'ora comune per tutti i
cristiani: si tratta della "quaresima ecclesiastica",
in cui si celebrava il
sacrificio eucaristico nel tardo pomeriggio, e quindi si faceva a vespro l'unica refezione
del giorno. SB
aggiunge che la cena si faccia con la luce del sole e che il vespro,
percio`, venga anticipato (v.8); anzi mette come norma
generale che tutto si faccia con
la luce del giorno <luce fiant omnia>. E` una disposizione che eccita la nostra
curiosita`. Perche`?
Anche se non si escludono ragioni di ordine economico (risparmiare
olio) o anche il motivo di abbreviare un po` il tempo del
digiuno che doveva essere
pesante per gente che faceva lavori manuali, pare che il motivo principale sia di tipo
morale: la
convinzione che la notte non e` un tempo adatto per mangiare, come per parlare
(RB.42,8-11); SB ha in mente probabilmente
molte frasi di S.Paolo (cf. Rom.13,12-13;
Ef.5,8-14; 1Tess.5,5-8) sulla notte come simbolo di tutti i peccati: in particolare di
quelli
della bocca.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Nell'insieme dobbiamo dire che il sistema dei digiuni in RB e` molto attenuato rispetto
a RM, mentre e` piu` severo per cibi e
bevande. Nei tre capitoli sui pasti, troviamo tre
volte l'accenno a dispense: RB.39,6-9 (aggiunta di cibo); 40,5-7 (aggiunta di
vino);
41,4-5 (dispensa dal digiuno in estate). Il motivo della dispensa e` il lavoro,
perche` RB prevede il lavoro di agricoltura (mentre RM
limita il lavoro dei monaci
all'artigianato o al giardinaggio). RB.41,4-5 raccomanda all'abate molta discrezione
(cf. anche RB.64,17-
19), perche` i monaci evitino la mormorazione e perche` i deboli non
si scoraggino.
Certo, cio` che SB concede al cibo e alla bevanda avrebbe scandalizzato i Padri del
deserto. L'ideale del S.Patriarca, pero`, non
e` una santita` riservata a pochi, ma
accessibile anche agli infermi di corpo e ai deboli di animo. Nel suo programma di
perfezione
ascetica non entrano di proposito rigorose macerazioni del corpo ed eroici
digiuni. I suoi monaci devono poter attendere alla
preghiera corale, alla lettura e al
lavoro senza eccessivo peso. Certo, il prolungamento del digiuno fino a nona per parecchi
mesi
dell'anno e la qualita` stessa dei cibi differenziavano abbastanza i monaci dai
laici; ma per la quantita` del vitto come del sonno,
SB in definitiva non richiede molto
di piu` di quanto si esigeva allora dai buoni cristiani.
----------
N.B.: il c.42 e` stato trattato dopo il c.22; i cc.43-46 sono stati trattati dopo i
cc.23-30 nel codice penitenziale; il c.46 e` stato
trattado dopo il c.20, nella sezione
dell'Opus Dei.
LA GIORNATA IN MONASTERO
CAPITOLO 48
Preliminari
L'Opus Dei e` l'occupazione principale del monaco, pero` non e` l'unica. Il rimanente
tempo va distribuito tra lavoro manuale e
lectio divina. Quindi il titolo non abbraccia
tutto il contenuto del capitolo. In realta` in queste pagine abbiamo tutto l'orario
della
giornata, con la saggia distribuzione del tempo tra OPUS DEI, LECTIO DIVINA,
LAVORO MANUALE, i tre grandi cardini della vita
monastica.
Schema
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
(vv.17-21);
Scendendo al concreto, SB stabilisce l'orario per i vari tempi dell'anno. Nei mesi di
primavera estate, dopo Pasqua (verso le 5) i
monaci andavano al lavoro. Non si fa menzione
dell'Ufficio di Terza, che probabilmente veniva celebrato sul luogo stesso del
lavoro
(cf.RB.50), oppure si celebrava al termine del lavoro verso le 10. (Sara` bene ricordare,
a proposito di ore e di orario, che si
tratta di computo romano, con l'ora variabile
secondo le stagioni in funzione della luce solare (cf. Introduzione generale alla
sezione
sull'Opus Dei, posta prima dei cc.8-11).
Dall'ora quarta (verso le 10) fino a sesta (verso mezzogiorno) i monaci si dedicavano
alla lectio. Si noti la discrezione di SB che
d'estate fa lavorare i monaci nelle prime
ore del giorno quando non e` troppo caldo. Dopo sesta, i monaci mangiavano e poi
avevano
la siesta, per compensare qualcosa alle meno ore di sonno durante le brevi notti
dell'estate (cf. commento al c.8). SB
non tiene conto qui del mercoledi` e venerdi`, in
cui non si mangiava fino a nona (RB.41,2-4) per ragione del digiuno; sembra
pero` che la
siesta nel periodo estivo ci fosse tutti i giorni, digiuno o non digiuno, come appare dal
parallelo RM.50,56-60. Quelli a
cui non piaceva dormire o che amavano astenersene per
ascetismo, erano autorizzati a leggere presso il proprio letto, ma non a
voce alta: la
raccomandazione non e` superflua, perche` gli antichi erano soliti leggere, anche
privatamente, pronunziando le
parole. Da questo testo deduciamo che tutti i monaci,
dormissero o leggessero, dovevano rimanere nel dormitorio comune (come
appare anche da
RM.44,12-19). La siesta durava fino a nona, ma detta ora canonica si anticipava un po` e
poi i monaci tornavano
al lavoro fino a vespro.
Quindi il lavoro manuale dei monaci non consistera` solo nelle diverse occupazioni
domestiche (in cucina, nel forno, nel mulino); o
nei diversi incarichi in monastero
(ospiti, ammalati); o nella semplice coltivazione dell'orto sufficiente per le verdure per
la mensa
comune; o ancora nell'esercizio di un'arte: tutti lavori, questi, che non davano
un'entrata al monastero (anche gli stessi artigiani,
cf.RB.57,4-7); si tratta anche di
coprire le necessita` del monastero con il prodotto del proprio lavoro, di provvedere al
proprio
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
sostentamento con fatica, secondo la grande legge del lavoro. In tal caso, dice
SB, i monaci si dedichino a tali lavori pesanti non
soltanto senza mormorare, ma
col santo orgoglio di sentirsi veri monaci (vv.7-8); pero` non si ecceda, e si pensi ai
meno dotati di
vigore fisico o morale (v.9).
Si parla solo qui di due segnali per l'Ufficio divino, pero` si puo` supporre che erano
sempre due i segnali per chiamare alla
preghiera i monaci quando stavano lavorando. Come
gia` si e` visto, (RB.41,6), in questo periodo i monaci mangiavano solo dopo
nona, e non
c'era la siesta; percio` dopo il pasto si riprendeva la lettura o lo studio dei salmi: vacent
psalmis significa "mandare a
memoria il salterio" a forza di recitarlo (SB a
questo scopo ha gia` stabilito il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi in inverno,
cf.RB.8,3). La lettura durava certamente fino a vespro; dopo vespro, breve intervallo,
quindi riunione dei monaci con la lettura
delle Collazioni e compieta (cf.RB.42,5).
Come si vede, l'orario invernale era piu` austero che quello estivo. In quaresima
questo carattere severo si accentua: la
quaresima e` un tempo penitenziale. La refezione
era dopo il vespro, che pero` veniva un po` anticipato (cf.RB.41,7-8). L'orario
cosi` e`
meno spezzettato: lettura tutta di seguito fin verso le 9; poi lavoro continuo fino alle
16 (interrotto solo dagli Uffici di sesta
e nona recitati probabilmente sul posto di
lavoro); seguiva il vespro, la refezione, quindi la lettura comune e compieta. Ciascuno
dei giorni di penitenza preparatori alla Pasqua (eccettuata la domenica) costituiva una
dura giornata di lettura e di lavoro
sopportata a digiuno fino a vespro.
Dedicarsi per tre ore al giorno (e in quaresima per tre ore di seguito) alla lectio
divina implicava un certo sforzo per molti monaci,
specialmente in quei tempi in cui la
cultura e la lettura non erano alla portata di tutti. SB delega uno o piu` anziani a
vigilare
perche` i monaci facciano la lectio (forse... bisognerebbe rimettere questa norma
nei nostri monasteri!!!). La disposizione - che
vale evidentemente per tutto l'anno e non
solo per la quaresima - prova che non si leggeva in un luogo comune, ma ciascuno
prendeva
il suo libro e si ritirava dove voleva. Nei secoli posteriori, poi, si uso` studiare e
leggere insieme nel chiostro o in una
sala apposita. Al tempo di SB sarebbe stato
impossibile, anche perche` si usava in genere pronuncuare a voce alta le parole che
si
leggevano: ecco perche` era piu` facile che uno approfittasse dell'occasione e si metteva
bellamente a chiacchierare.
Il fratello accidioso
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Al v.21 segue un principio generale: che i monaci non comunichino tra di loro in ore
non competenti, tanto meno durante il tempo
della lettura, che deve essere dedicato a
parlare con Dio, ad ascoltare e approfondire la sua parola.
Conclusione
RB, poi, si preoccupa che i monaci lavorino: il lavoro dura circa sette ore in
inverno e in quaresima, sei ore e mezzo in estate ed
e` piu` intervallato a causa del
clima estivo. Non si specifica quale era il lavoro manuale che i monaci facevano. SB non
ne
assegna uno esclusivo: oltre a quello necessario per i servizi del monastero (forno,
cucina, ecc.), poteva essere quello dei vari
artefici (cf.RB.57) e certamente - in certe
occasioni o per circostanze storiche - quello dei campi.; e` considerato comunque
eccezionale quello estivo della raccolta. Nel corso dei secoli i monaci hanno intrapreso i
piu` vari generi di lavoro manuale e
intellettuale (cf. in appendice l'Excursus sul lavoro
monastico).
Per la ricostruzione di una giornata monastica nel monastero benedettino del medioevo,
si puo` vedere il libro (molto breve e di
facile lettura) di: L.MOULIN, La vita
quotidiana secondo S,Benedetto, Jaca Book, Milano 1980.
CAPITOLO 49
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
De quadragesimae observatione
Preliminari
Nel determinare l'orario, SB ha tenuto conto del particolare carattere della quaresima
(RB.48,14-16; 41,6-7). L'importanza data a
tale periodo lo induce a scrivere un capitolo a
parte sulla quaresima, quale tempo forte dell'anno liturgico per il quale senza dubbio
egli aveva particolare devozione e che considerava come molto adatto per il rinnovamento
spirituale dei monaci.
Uomo pratico secondo Gesu` Cristo, SB pensa che anche per i monaci - uomini che
aspirano alla santita`, ma sempre uomini
dalla testa ai piedi! - capita molto a proposito
questo periodo di rinnovamento e di intensificazione della vita cristiana che ogni
anno
prepara i catecumeni al battesimo e tutti i fedeli a una degna celebrazione della Pasqua.
E` stato notato che, ad eccezione
dei vv.8-10 che sono come una appendice e di carattere
chiaramente cenobitico, il capitolo dipende, tanto nelle idee quanto nelle
espressioni,
dai "Discorsi sulla quaresima" di S.Leone Magno, soprattutto i primi quattro
(sono dodici).Cosi` il contrasto iniziale tra
la vita da tenersi in quaresima e quella
piu` leggera da tenersi nel resto dell'anno; cosi` il "tale virtu` e` di pochi"
(v.2) a proposito di
una vita sempre a un livello spirituale molto alto; soprattutto
l'idea della "purezza di vita", di purificazione, di espiazione in
quaresima
delle colpe di tutto l'anno sono il 'leit-motiv' della predicazione di S.Leone. Appare
chiaro che SB ha assimilato la
dottrina quaresimale del vescovo di Roma, e` impregnato del
suo vocabolario e ripete spontaneamente le sue espressioni senza
che si preoccupi di
citarle letteralmente. Quello che S.Leone predicava a tutti i cristiani, SB lo scrive per
i monaci; e` una ulteriore
prova che la vita monastica e` un modo di realizzare la vita
cristiana e che la dottrina della perfezione evangelica predicata dai
Padri della Chiesa
e` ugualmente valida per il cristiano che vive nel mondo e per quello che, seguendo la sua
vocazione, vive in
monastero.
"La vita del monaco dovrebbe essere una continua quaresima", quasi a dire:
tale sarebbe l'ideale, magari fosse cosi`! Qual'e` il
significato esatto di queste parole?
Non dobbiamo credere che SB pensi a un carattere eccessivamente severo e melanconico
della
vita monastica; per lui la quaresima - come appare in seguito - non ha un volto triste, ma
significa anzitutto un tempo in cui si
vive con purezza (v.2) e integrita` la vita
cristiana, o per lo meno si cerca. Uomo pratico e realista, SB sa che sono pochi quelli
dotati di tanta virtu` e fortezza di spirito da mantenersi completamente fedeli al Vangelo
durante tutto l'anno. Allora durante la
quaresima sforziamoci non solo di vivere come
monaci autentici, ma anche di fare qualcosa in piu`, quasi a compensare e
cancellare le
negligenze degli altri periodi. Questo e` insomma l'ideale quaresimale per i monaci:
vivere perfettamente come tali e
riparare con pratiche supererogatorie alle infedelta`
della "quaresima" precedente. (Per i paralleli con S.Leone Magno, cf.
"Discorsi sulla quaresima", I,2; IV,1; V,2.6).
"Puritas" qui e` nel senso piu` ampio: la mondezza di mente e di cuore, per
cui si e` spogli da ogni attacco che distragga da Dio.
La bellissima sentenza richiama il
48.mo strumento delle buone opere: Actus vitae suae omni hora custodire
<vigilare
continuamente sulle azioni della propria vita>, RB.4,48; e` la vigilanza
assidua di chi ama seriamente Dio e vuole che nessuno dei
suoi atti possa ostacolare
l'unione con Lui; e` praticamente il primo gradino dell'umilta`, con la famosa
"memoria Dei" (cf. RB.7,10-
30, vedi commento).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
- 3) compunzione del cuore, e` lo spirito di compunzione, cioe` il chiedere perdono a Dio dei propri peccati con lacrime e gemiti,
come ha gia` detto nel 57.mo
strumento delle buone opere (RB.4,57), evidentemente con maggiore frequenza e intensita`
che
negli altri periodi.
5: Aggiungiamo qualcosa...
7: Sottraiamo qualcosa...
Nel terzo elenco (v.7) si parla di sottrarre qualcosa alla loquacita` e alla
scurrilita` o leggerezza. Ma non aveva SB completamente
condannato queste cose nel c.6
sull'amore al silenzio? (RB.6,8, vedi commento). Come mai ora si suggerisce di reprimerle
"un
poco" <aliquid> durante la quaresima? Una cosa e` la teoria, un'altra
e` la pratica. Qui pare affacciarsi sorridente il volto paterno di
SB. La vita dovette
insegnare al santo - sempre grave e solenne, ma anche molto umano - che ci sono dei tipi
per natura leggeri e
portati allo scherzo e alla buffoneria, e privarli del tutto di
queste cose equivarrebbe a reprimerli. Basta che si moderino un po`,
almeno in quaresima!
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CAPITOLO 66
De ostiariis monasterii
Preliminari
http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Il monastero nella primitiva tradizione era considerato come un luogo chiuso, separato
dal mondo, costituito - secondo la RM - da
"santi", da "fratelli
spirituali" che non si debbono mescolare ai secolari. I fratelli percio` vivevano
tutta la loro vita nei "recinti" del
monastero, ai margini della vita del mondo.
Cosi` per anacoreti e cenobiti, cominciando dai pacomiani. Tuttavia anche per il
monastero
di RM e di RB, alcune relazioni con l'esterno sono inevitabili: accogliere poveri e
pellegrini, quindi l'importanza
dell'ufficio del portinaio (RB.66), ricevere tutti gli
ospiti (RB.53 e 56), uscire per breve tempo per qualche commissione (RB.51) o
anche per
viaggi piu` lunghi (RB.67).Tutto cio` trattiamo in questa sezione; e iniziamo proprio
dall'organizzazione autosufficiente
del monastero, quale ci appare dal c.66, prevista
appunto per ridurre al minimo le uscite.
Il capitolo sui portinai del monastero ci testimonia - come si e` detto - di tutta una
mentalita` sulla concezione del monastero come
unita` auto-sufficiente, separato dal
mondo, ecc. Difatti non si limita a tracciare le qualita` del portiere (vv.1-5), ma
ricorda che il
cenobio deve essere organizzato con ogni cosa all'interno (vv.6-7); una
nota finale prescrive la lettura frequente della Regola in
comunita` (v.8).
Oggi molti monasteri per l'ufficio di portinaio viene assunto un laico; pero` nella
riscoperta che oggi si sta facendo del monastero
come luogo di accoglienza, non sarebbe
male ripensare la cosa e rifare all'ufficio del portinaio quel posto delicato e importante
che gli da` la Regola. Cosi` pure sara` bene rieducare tutti alla disponibilita` e
gentilezza nel rispondere alla porta e al telefono;
anche rispondere subito e con
delicatezza al telefono puo` essere oggi un'ottima forma di accoglienza.
6-7: Clausura
Gia` alla fine del c.4 SB ha ricordato che tutti gli strumenti dell'arte spirituale
enumerati vanno usati nell'"officina" che e` il recinto
del monastero e la
stabilita`. Percio` ora aggiunge che il cenobio deve essere provvisto di tutto il
necessario - enumera difatti
alcune cose principali - per ridurre al minimo le uscite,
"cosa questa che non giova affatto alle loro anime" (v.7). (La frase
riecheggia
alcune espressioni della "Historia Monachorum in Aegypto"). Ricordiamo anche
come SB ha parlato male dei monaci
girovaghi (RB.1,10-11). Gia` Antonio il Grande diceva
che "un monaco fuori del monastero e` come un pesce fuor d'acqua" (Vita,
85;
Apoftegmi, Antonio, 10).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Questa nota finale prescrive la lettura frequente della Regola in pubblico, anche se
non specifica i modi e i tempi. Secondo la RM
(RM.24,15), tale lettura si faceva a
refettorio durante il pasto. Da questa finale si deduce che qui terminava la prima stesura
della
RB: difatti RB.66 corrisponde a RM.95, sempre sui portinai, che e` l'ultimo capitolo
della RM.
CAPITOLO 67
I viaggi senza dubbio sono inevitabili. E` curioso notare che proprio immediatamente
dopo il c.66 che insiste rigorosamente nulla
necessita` di rimanere in monastero, il primo
dei capitoli aggiunti (ricordiamo che i cc.67-73 sono stati aggiunti dopo la prima
redazione della Regola che terminava al c.66) parla dei fratelli mandati in viaggio.
Necessita` di apostolato, di carita`, di interessi
del monastero e anche di famiglia
possono esigere che i fratelli viaggino. RB.67 si limitava comunque a far notare i
pericoli
spirituali a cui puo` andare incontro il monaco fuori del suo ambiente piu`
naturale, e SB richiama continuamente l'aiuto
soprannaturale. I partenti si raccomandano
alla preghiera della comunita` (v.1); essi poi durante l'assenza vengono ricordati alla
fine dell'ufficio (v.2: questo si fa ancor oggi con il "Divinum auxilium...); al
ritorno chiedono perdono delle eventuali colpe
commesse fuori (vv.3-4).In questo contesto
si comprende la prescrizione seguente (vv.5-6), di non riferire le cose viste o udite
fuori ai fratelli rimasti dentro, sempre per evitare il pericolo di far entrare la
mentalita` del mondo nel monastero. Il v.7 aggiunge la
pena regolare per chi esce dal
monastero senza il permesso dell'abate, o per chi compie qualsiasi cosa (l'interpretazione
secondo
il contesto sembra essere: qualsiasi cosa fuori dal monastero), senza il permesso
dell'abate. Il santo Patriarca non perde
occasione per riaffermare l'autorita` del
"padre del monastero". Tuttavia SB non prescrive niente di straordinario: i
Regolamenti di
Pacomio hanno disposizioni molto simili. Anche per questo brano va tenuto
conto, oggi, della nostra situazione diversa; va
interpretato secondo quanto gia` detto al
capitolo precedente.
CAPITOLO 51
Questo capitoletto parla di viaggi meno importanti e, senza dubbio, piu` frequenti, per
piccole commissioni. In pratica si limita a
proibire di fermarsi a mangiare fuori, qualora
si pensi di rientrare in giornata, senza espressa licenza dell'abate. Nel testo c'e`: il
suo
abate, ad escludere l'invito proveniente anche da un altro abate, nel caso il monaco sia
andato a fare una commissione in un
altro monastero. Ricordiamo l'episodio dei fratelli
che accolsero l'invito di una pia donna e furono rimproverati (ma poi subito
perdonati!)
da SB. E S.Gregorio inizia quel capitolo proprio ricordando che "era consuetudine del
monastero che ogni volta che i
fratelli uscivano per qualche commissione, non prendere ne`
cibo ne` bevanda fuori del monastero" (II.Dial.12).
Notiamo che questo capitolo si trova dopo il c.50, con cui appare la connessione,
perche` li` si diceva come si devono comportare
riguardo all'Ufficio divino i fratelli che
lavorano non molto lontano o sono in viaggio. Notiamo ancora che nel testo del presente
capitolo si parla di monaco, al singolare, mentre al c.67 sempre al plurale:
probabilmente nei viaggi piu` lunghi e importanti i
monaci non andavano mai da soli, ma
almeno in due.
CAPITOLO 53
De hospitibus suscipiendis
Preliminari
Il c.53 sull'ospitalita` e` in linea con tutta la tradizione monastica. La S.Scrittura parla dell'accoglienza degli ospiti come di un
esercizio fondamentale della carita` fraterna (cf. Rom.12,13; 13,8; ecc.) e Gesu` dice che nelle persone di ospiti e pellegrini si
riceve lui stesso (Mt.25,35-43). Fin dalle origini del monachesimo, ricevere poveri, pellegrini e ospiti fu ritenuta una pratica
sacrosanta della vita quotidiana: cosi` presso i Padri del Deserto (abbiamo tanti esempi e aneddoti nei "Detti"), presso anacoreti,
presso i cenobiti pacomiani. SB si mostra degno erede di questa tradizione. Per il c.53 della RB abbiamo nella RM vari capitoli
(RM.65; 71-72; 78-79), in cui da una parte notiamo grande comprensione e carita` (addirittura il Maestro fa anticipare il pasto dei
fratelli a sesta, se l'ospite si trattiene); d'altra parte notiamo differenza nei confronti di ospiti che si fermano piu` giorni: in essi
potrebbero nascondersi parassiti e
ladri. SB ha soppresso tanta casistica e parla dell'ospitalita` in un solo capitolo
unitario e ben
compatto, tutto pieno di un profondo spirito di fede, di calore
umano e di carita` fraterna.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
RB.53 si divide in due parti: a) la prima (vv.1-15) descrive l'accoglienza con una
piccola teologia dell'ospitalita` (e` ispirata
soprattutto alla "Historia
Monachorum in Aegypto" tradotta da Rufino); b) la seconda (vv.16-24) parla
dell'organizzazione
dell'ospitalita` nel monastero, con le ripercussioni per la vita
interna del cenobio e la pace dei fratelli.
Appare, anche dalla struttura e dal vocabolario, che questa seconda parte dovette
essere composta in un secondo tempo da SB;
in seguito alla pratica continua
dell'ospitalita`, alle varie esperienze, agli inconvenienti notati, il santo Patriarca
dovette aggiungere
alcune precisazioni. Le campagne italiane non erano certo il deserto
dell'Egitto, gli ospiti a Montecassino affluivano
incessantemente e a volte in buon
numero; tale afflusso avra` pregiudicato il clima di preghiera e il silenzio in cui
vivevano i
monaci. Da qui alcune restrizioni aggiunte alla prima stesura, per armonizzare
le irrinunciabili tradizioni dell'ospitalita` monastica
con le esigenze della vocazione
cenobitica.
Dato che nel monastero bisogna accogliere tutti coloro che chiedono ospitalita` -
(ricordiamo l'8.vo strumento delle buone opere:
"onorare tutti gli uomini"
(RB.4,8) che si riferisce senz'altro all'ospitalita`, come ha dimostrato DeVogue`) -
potrebbero derivare
inconvenienti per la vita comune, poiche` gli ospiti, "che non
mancano mai in monastero" (v.16), arrivano alle ore piu` impensate.
Ecco allora la
necessita` di una certa organizzazione, per compiere bene l'esercizio dell'ospitalita`.
Abbiamo quindi la cucina a
parte con un personale specializzato, la foresteria e il
foresteriario, con eventuali aiutanti: ambedue le cose sono creazioni di
S.Benedetto
rispetto alla RM. Il santo patriarca vuole che la casa di Dio sia amministrata da saggi
e saggiamente (v.22).
Sappiamo che nel mandare alcuni monaci a fondare il monastero di
Terracina, SB parlo` di posto per l'"oratorio, il refettorio per gli
ospiti, la
foresteria..." (II.Dial.22); e ancor oggi non si concepisce monastero benedettino
senza una parte riservata a foresteria.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAPITOLO 56
La mensa dell'abate
De mensa abbatis
Il capitolo, uno dei piu` brevi di tutta la Regola, e` stato il tormento dei
commentatori, antichi e moderni. Alcuni hanno ritenuto
inammissibile che SB faccia
mancare abitualmente l'abate dalla mensa comunitaria, che e` uno dei segni maggiori della
vita
fraterna e della comunita` radunata nel nome di Cristo. DeVogue` ha interpretato che
gli ospiti fossero introdotti nel refettorio
monastico e mangiassero alla
"tavola" ("mensa" = nel senso di tavola) dell'abate, in giorno di
digiuno con orario diverso (in modo
che l'abate - solo lui - interrompesse il digiuno),
negli altri giorni insieme alla comunita`. Ma questa ipotesi renderebbe
incomprensibile il
v.3 e non risponderebbe alla "mens" di SB, il quale vuole che gli ospiti non
disturbino con la loro presenza la vita
regolare dei monaci.
Dobbiamo dire che separare l'abate dai fratelli in un momento cosi` significativo della
vita della comunita` come la refezione
comune, costituisce il prezzo che SB si considero`
obbligato a pagare affinche` l'esercizio dell'ospitalita` non intralciasse lo
svolgimento
normale del ritmo della giornata monastica. Certo, la cosa genero`, nel corso dei secoli,
abusi e inconvenienti: si
pensi alla grande stortura che piu` tardi si verifico` dando
alla "mensa abbatis" il senso di "beneficio ecclesiastico",
con patrimonio
proprio, distinto da quello della comunita`; fu il pretesto per una lunga
serie di gravi abusi che influirono molto negativamente sullo
spirito monastico,
specialmente nel periodo dei cosiddetti "abati commendatari".
-----------
Nota: I cc.54-55 e 57 sono stati trattati dopo i cc.32-34 nella sezione della
poverta`.
CAPITOLO 58
Abbiamo visto nella sezione precedente la paura che i monaci antichi avevano dei
rapporti con l'estrno, per il pericolo che si
infiltrasse nel monastero una mentalita`
mondana (vedi soprattutto RB.66,7 e 67,5). Per questo motivo i Padri del cenobitismo
erano
portati a provare duramente i postulanti, a saggiarne lo spirito e la consistenza dei
propositi, a negare loro ripetutamente
l'ingresso e, una volta ammessi, obbligarli a
restare come in quarantena per un periodo piu` o meno lungo perche` riflettessero
sulla
serieta` della propria vocazione e si abituassero al nuovo genere di vita.
Cassiano descrive in questo modo l'ammissione dei postulanti nei monasteri d'Egitto:
prima si facevano aspettare almeno dieci
giorni alle porte del cenobio, provandone la
pazienza con ogni sorta di ingiurie; poi si facevano entrare e venivano spogliati di tutto
il denaro e dei loro abiti, sostituendovi quelli del monastero; pero` con tale
"vestizione" non erano ancora incorporati alla
comunita`, ma venivano affidati
all'"anziano" che sovrintendeva alla foresteria, e per un anno intero aiutavano
a servire gli ospiti,
esercitandosi nell'umilta` e nella pazienza; infine passavano a far
parte di una decania ed erano candidati ormai membri della
comunita` cenobitica e
ricevevano una formazione specifica (Inst.4,3-7). SB adotto` piu` o meno questo schema, ma
con molte
modifiche, o sue originali o attingendo ad altri autori, come la RM, che in
questa sezione e` lunghissima e particolareggiata.
Trattiamo qui dell'ammissione piu` comune e ordinaria (RB.58), e poi alcuni casi
speciali di ingresso in comunita`: l'oblazione dei
fanciulli (RB.59),
Preliminari al c.58
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
E` uno dei piu` importanti capitoli della Regola, perche` non parla solo della procedura
per l'accettazione, ma del contenuto stesso
della vita monastica, con le idee
fondamentali secondo SB: il QUAERERE DEUM, la STABILITAS, la CONVERSATIO
MORUM, la
OBOEDIENTIA. A questo capitolo corrispondono RM.87-88 e 89-90, molto
lunghi, con tutti i dialoghi tra postulante e abate e le
esortazioni di quest'ultimo,
soprattutto il c.90, in cui quasi tutti i 95 versetti (!) sono occupati da un'omelia
dell'abate. SB ha
modificato molte cose, ha abbreviato moltissimo, ha soppresso la
distinzione tra i postulanti iam conversi <gia` conversi, cioe`
coloro che
vivevano nel mondo alla maniera dei monaci con una vita penitente, semplice e nel
celibato) e i postulanti ancora laici.
1-4: L'ingresso
5-16: Il noviziato
I vv.7-8 sono molto importanti: abbiamo alcune linee fondamentali della vita monastica.
- Si revera Deum quaerit <se veramente cerca Dio>: e` colta qui tutta
l'essenza e il programma della vita monastica. Si viene al
monastero non per uno scopo
particolare o per una missione specifica di bene (predicazione, insegnamento, ecc...), ma
solo per
la ricerca di Dio: e` un atteggiamento generale di fondo, un'attitudine religiosa
essenziale. Per i monaci, l'assidua ricerca di Dio,
dopo che essi sono stati cercati da
Lui (cf.Prol.14), diventa la loro ultima ragion d'essere. L'espressione ha moltissime
sfumature
nella letteratura biblica, ellenistica e patristica. Vedi, per citare alcune
opere: G.Turbessi, Quaerere Deum. Il tema della ricerca di
Dio nella S.Scrittura,
Rivista Biblica (1962) 282-296; G.Turbessi, Cercare Dio, Ed.Studium, Roma 1980; E.
De Sainte-Marie, Si
revera Deum quaerit, Vita Monastica 10 (1956) 173-177.
SB divide l'anno di noviziato in tre periodi disuguali: primi due mesi (v.9), i
successivi sei mesi (v.12), gli ultimi quattro mesi (v.13).
Alla fine di ciascun periodo
si legge al novizio l'intera Regola, "perche` conosca bene che cosa affronta
entrando" (v.12). Oggi si
usa leggere la Regola durante tutto il noviziato,
accompagnata dalla spiegazione particolareggiata del maestro; gli antichi, anzi,
raccomandavano di impararla a memoria, e l'uso e` rimasto presso alcuni monasteri. Cosi`
il novizio va maturando la sua
esperienza "in ogni pazienza" (v.11), ascolta la
triplice lettura della Regola (vv.9.12.13), delibera (v.14) di osservare tutte le
prescrizioni della vita comune, della legge sotto la quale intende militare (v.10).
Allora, al termine del noviziato, lo si ritiene degno
di essere aggregato alla comunita`
monastica (vv.14-16).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
SB fa promettere al candidato tre cose, che impropriamente furono definiti "i tre
voti monastici". In realta` SB non intende qui
stabilire tre voti distinti, ma solo
indicare l'oggetto della promessa del monaco. Nei pacomiani non si parla mai di voti,
anche se
c'era la pratica dei consigli evangelici; Basilio parla di consacrazione al
Signore fatta per voto (Reg.14), ma non menziona "voti"
espliciti. Certamente la
disposizione di SB ha avuto il merito di polarizzare la pratica dei voti monastici (castita`
e poverta` erano
inclusi nel fatto stesso di farsi monaco, nella "conversatio")
ed ha influito sulla organizzazione posteriore della vita religiosa. E
passiamo al
contenuto. Il novizio promette: "de stabilitate sua et conversatione morum suorum
et oboedientia" <stabilita`,
conversione dei costumi, obbedienza>.
Stabilitas
La conversatio morum
Ricapitolando, all'origine del termine c'e` l'idea del genere di vita, la vita in
comune, la maniera di vivere ("conversari"); ma questa
maniera di vivere suppone
e implica un cambiamento della condotta ("conversare", da cui
"convertere"), per cui il monaco e`
cosciente sempre di dover tendere ad
perfectionem conversationis. Cosi` "conversatio morum" non indica solamente
il passaggio
dal mondo alla vita monastica, ma la vita monastica stessa in ogni momento
della sua tensione dinamica (e include e trascende i
tre voti di poverta`, castita` e
obbedienza). La vita monastica deve essere una corsa continua, un progresso nella
"conversatio" e
nella fede, come dice Prol.49; la "conversatio morum"
assicura l'"allargamento del cuore" <il "dilatato corde"> di cui
parla ancora
Prol.49: per correre nella ineffabile dolcezza dell'amore di Cristo
(cf.RB.7,68-70 con Prol.49), nel cammino del ritorno verso il
Padre (Prol.2).
La Oboedientia
Dei tre voti essenziali ad ogni stato religioso e gia` inclusi nella precedente
"conversatio", e` espressamente nominata
l'obbedienza, perche` e` il dono
piu` elevato, perche` indispensabile alla interna organizzazione del cenobio, perche`
per SB e` la
cosa piu` importante; praticamente ne ha parafrasato la materia nei
vv.14-16. Il novizio allora, al termine di un anno di prova e di
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
matura riflessione,
promette solennemente di perseverare nel recinto del monastero e nella comunita`, a cui da
allora in poi
appartiene (stabilitas), in un costante progresso nelle virtu` monastiche
(conversatio) e nella docilita` ai precetti della Regola e ai
comandi dell'abate
(oboedientia). Oggi la professione si emette "secondo la Regola di S.Benedetto e le
Costituzioni della
Congregazione ... " cui si appartiene, perche` le Dichiarazioni e
le Costituzioni approvate dalla S.Sede integrano e interpretano la
Regola secondo le
particolari esigenze di tempo e di luogo e le tradizioni proprie di ciascuna
Congregazione.
Dopo la deposizione del documento sull'altare vicino alle offerte, il triplice canto
del Suscipe (salmo 118,116) intonato dal novizio e
ripetuto dalla comunita` intera
(vv.21-22), e` molto significativo: Accoglimi, Signore, secondo la tua parola...,
canta il monaco al
momento supremo della sua consacrazione a Dio, in risposta alla
chiamata che il Signore gli ha diretto (cf.Prol.14-20). Non c'e`
monaco che non senta
riempirsi l'anima di commozione e di dolcezza al ricordo del suo "Suscipe". La
rubrica seguente (v.23)
contiene ugualmente un significato profondo: il neo professo si
prostra ai piedi dei fratelli chiedendo preghiere; quanto piu` arduo
e` il cammino, tanto
piu` c'e` bisogno della Grazia, e la preghiera fraterna costituisce il primo
aiuto che riceve dalla comunita` di
cui ormai fa parte. Nei vv.24-25 si parla della disappropriazione
che deve essere fatta o distribuendo i beni ai poveri (prima della
professione) o
cedendoli al monastero con una donazione legale, dato che "da quel giorno non sara`
piu` padrone nemmeno del
proprio corpo" (v.25).
CAPITOLO 59
RB sembra addirittura in anticipo sui tempi, nello stabilire con tanta chiarezza la
prassi dell'oblazione dei fanciulli. E` inutile
cercare attenuazioni: niente fa supporre
che SB prevede una ratifica cosciente e libera della involontaria consacrazione fatta da
piccoli; anzi, le precauzioni riguardo ai beni sono proprio per scoraggiare eventuali
tentazioni di uscire dal monastero. Il paragone
tra il c.58 e il c.59 fa vedere una reale
corrispondenza tra la professione degli adulti e l'oblazione dei fanciulli, e che quindi
l'oblazione fatta dai genitori obbligava in perpetuo l'oblato alla vita monastica. Cio`
del resto e` confermato da altri passi della RB: i
ragazzi appaiono sempre come veri
monaci (e non come una categoria a parte) e vengono trattati come gli altri tenendo conto
naturalmente della loro eta` debolezza (cf.RB.22,7; 30; 37; 45,3; 70,4-5; ecc.). L'unica
ragione della incredibile durezza di questo
capitolo e` la mentalita` dell'epoca,
mentalita` che oggi non possiamo accettare. Per la validita` della professione, la Chiesa
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
prescrive oggi almeno 18 anni di eta`, piena consapevolezza e liberta`, mancanza assoluta
di ogni tipo di violenza, timore grave o
inganno (CIC.656). Una volta non era cosi`, e SB
si e` adattato alla mentalita` dell'epoca in ambiente occidentale. D'altra parte,
per
aiutarci a comprendere, e` noto che in alcuni popoli, ancor oggi, i matrimoni dei figli
vengono arrangiati dai genitori fin da
quando i figli stessi sono in tenera eta`! E oggi
c'e` anche chi protesta, in nome della liberta` e dell'autodecisione, contro il
battesimo
dei bambini!
SB distingue tra i figli dei nobili (vv.1-6), quelli dei meno ricchi (v.7) e quelli dei poveri (v.8). In tutti i casi, i genitori, offrendo i loro
figli in tenera eta`, scrivevano la "petitio" e la avvolgevano nella tovaglia dell'altare insieme alla
mano del piccolo (vv.1-2.8): "il
fanciullo - e` stato detto con ragione - e` offerto
passivamente con il pane e il vino. Non lo si tratta come persona, ma come
oggetto"
(DeVogue`).
Quindi per molti secoli quasi tutti i monasteri ebbero i "monaci oblati",
cioe` offerti da piccoli e cresciuti nel cenobio; molti di essi
divennero illustri per
fama e santita`: S.Beda il Venerabile, S.Bonifacio apostolo della Germania, Santa Geltrude
la Grande, ecc.
Coloro invece che entravano da grandi nel monastero, si chiamavano conversi
(non nel senso che il termine assunse poi, a partire
dal sec .XI per distinguerli dai
"chierici").
Fin dai piu` remoti secoli benedettini, accanto agli oblati, si trovavano nei monasteri
i fanciulli che ricevevano la loro istruzione
letteraria e la loro educazione morale. E`
la gloriosa tradizione delle scuole monastiche che, insieme a quelle episcopali,
tennero
alto nel medioevo il culto del sapere e delle arti. OGGI, con il nome di
"oblati", si intendono due categorie di persone: "oblati
regolari"
o "claustrali" (cioe` coloro che, senza essere monaci, vivono
volontariamente in monastero per motivi spirituali) e "oblati
secolari"
(cioe` coloro che, sia sacerdoti che laici, uomini e donne, vivono nel mondo ispirando la
propria vita cristiana alle norme
e alla spiritualita` benedettina).
CAPITOLO 60
La RM (c.83) ammette i sacerdoti solo come ospiti e pellegrini (non come monaci) e li
obbliga a lavorare; dei chierici non parla
affatto. SB e` piu` aperto: sa che la presenza
di sacerdoti e chierici puo` causare problemi, ma li ammette come veri monaci, sia
pure
con cautela per evitare inconveniente. RB ordina quindi di non riceverli troppo presto
(v.1), ma solo se insistono omnino
<assolutamente> nella domanda (v.2),
facendo loro capire subito che il carattere sacro non comporta alcuna mitigazione
nell'osservanza della Regola (vv.2-3). L'espressione "Amice, ad quid venisti?"
la rivolse Gesu` a Giuda nell'atto del tradimento
(Mt.26,50). SB la cita senza il
carattere di amarezza e di rimprovero che ha nel Vangelo, ma solo per ricordare al
sacerdote che e`
venuto di sua spontanea volonta` in monastero. Anche S.Arsenio nel
deserto si domandava spesso: "Propter quid venisti?"
<perche` seri
venuto?>. E` noto l'uso efficace che di questa frase fece S.Bernardo per ammonire se
stesso ripetendo: "Bernarde,
ad quid venisti?". Cosi` i sacerdoti sono
equiparati a tutti gli altri fratelli nel tenore di vita. Non e` detto pero` che bevono
essere
provati per un anno intero, come stabilito nel c.58; comunque dovevano fare una
promessa formale (cioe` la professione) di
osservare la Regola e di perseverare nel
monastero, come si deduce dal confronto con il v.9: "anche questi...".
Per onorare il sacerdozio, l'abate potra` loro concedere alcuni privilegi. Al v.4
"missas tenere" e` discutibile se significhi "celebrare
la
messa", oppure "dire le orazioni finali" <"missas">
dell'Ufficio divino. Allora il senso generale del versetto sarebbe che il
sacerdote occupa
il secondo posto, subito dopo l'abate e, in assenza di questi, compie l'ufficio di
benedire e di recitare le formule
finali. Pero` questo non deve essere causa di
presunzione, ma anzi "dia a tutti esempio di umilta`" (v.5) e quando si tratta
di
decisioni nella comunita` o di nomine, deve stare al posto che gli compete secondo la
professione monastica (vv.6-7) come tutti gli
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAPITOLO 61
Monaci pellegrini
A differenza del sacerdote o chierico del capitolo precedente, il monaco pellegrino non
intende entrare a far parte della comunita`,
ma solo essere accolto in foresteria come
ospite. Per SB non c'e` nessun problema: sia accolto "per tutto il tempo che
vuole",
purche` abbia due atteggiamenti fondamentali: si accontenti di quello che
trova e non turbi la pace della famiglia monastica con
pretese, critiche, pettegolezzi,
ecc. (vv.1-3). Questo non esclude che egli possa fare delle giuste osservazioni "con
motivi validi e
con umile carita`" (v.4). Pieno di spirito di fede, SB suggerisce
all'abate che forse il Signore ha inviato il monaco forestiero "proprio
per tale
motivo" (v.4): c'e` sempre da correggere e da migliorare e la volonta` del Signore si
puo` manifestare attraverso un ospite,
come attraverso le osservazioni dei fratelli piu`
giovani (SB lo ha gia` detto in RB.3,3).
Se il monaco forestiero si trova bene nel monastero che lo ospita, potra` in seguito
chiedere di essere ammesso nella comunita`:
dato che si e` potuto conoscere la sua
condotta, ci si regoli di conseguenza. SB e` preoccupato soprattutto del profitto
spirituale
dei suoi monaci; l'ospite puo` contagiare la comunita` con i suoi vizi, come
puo` edificarla con la sua virtu`: nel primo caso gli si
dica "con urbanita`"
- non con insulti e violenza - di andar via; nel secondo caso non solo lo si accolga in
comunita`, se lo chiede,
ma anzi sia invitato a entrarvi perche` gli altri ne abbiano
edificazione e perche` "in ogni luogo si serve un solo Signore e si milita
sotto un
unico Re" <in omni loco uni Domino servitur, uni Regi militatur>: la
bella sentenza era forse comune nell'uso cristiano.
CAPITOLO 62
De sacerdotibus monasterii
Preliminari:
Per associazione, si parla qui dei sacerdoti del monastero, cioe` dei fratelli
che nel monastero vengono elevati al sacerdozio (non
gia` dei sacerdoti che chiedono di
diventare monaci, come nel c.60): la loro posizione di privilegio si aggiunge a quella
contemplata nei cc.60-61. RB.62 non ha un parallelo nella RM, la quale non prevede
l'elevazione dei monaci al sacerdozio, anche
se prevede la comunione giornaliera. Per la
Messa si andava alla chiesa del villaggio, come del resto facevano gli antichi monaci
ed
eremiti (ma talvolta gli eremiti si ritenevano dispensati dalla partecipazione esterna al
culto. Pensiamo a SB che, eremita, a
Subiaco, ignorava che fosse il giorno di Pasqua:
II.Dial.1). S.Pacomio ed altri preferivano chiamare nei loro cenobi qualche
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
sacerdote per
celebrare i sacri riti.
Monachesimo e sacerdozio
Tutto cio` manifesta la posizione generale, se non unanime, del monachesimo antico
riguardo al sacerdozio. Gli anacoreti copti si
mostravano restii all'ordinazione; i
pacomiani la rifiutavano in assoluto; in Sitia i migliori monaci si opponevano a che i
vescovi
imponessero loro le mani. Sacerdozio e monachesimo sono realta` distinte: uno e`
per il servizio ministeriale del popolo di Dio
attraverso la Parola e i Sacramenti,
l'altro e` per lo sforzo di realizzare nella solitudine la perfezione dell'unione con
Cristo.
Desiderare il sacerdozio per i monaci antichi era segno di superbia; i monaci
avevano paura del sacerdozio; sacerdozio e orgoglio
vanagloria sono termini spesso
associati nei loro scritti (per esempio Cassiano, Inst.11,14-18; Coll.4,20; 5,12). Avevano
paura che
a motivo del sacerdozio dovessero lasciare la loro vita isolata per il
ministero: "il monaco deve fuggire allo stesso modo i vescovi e
le donne",
secondo il celebre detto di Cassiano (Inst.11,18).
L'ordinazione di alcuni monaci per il servizio della comunita` poteva dare origine a
dispute, invidie, divisioni, problemi di autorita` e
di precedenza. Era un rischio. In
questo contesto si comprende il c.62 di SB. Oggi, evidentemente, la situazione e la
mentalita`
sono mutate, la teologia ha aperto una nuova visione. Oggi sarebbe a dir poco
ridicolo accettare con la odierna mentalita`
l'espressione di Cassiano cosi` come
suona...; ma non e` che Cassiano avesse torto: se anche noi oggi avessimo, del
"vescovo e
della donna", l'immagine pratica ed esterna che queste categorie
immediatamente evocavano, non c'e` dubbio che dovremmo
avere la stessa reazione. La
realta` spirituale (la teologia) e` la stessa, l'immagine e la situazione esterna e
contingente sono
mutate. Ma anche oggi, del resto, non mancano aspetti di conflitto
esteriore tra "vescovi e gerarchia" e religiosi; non per nulla e`
stato
necessario il documento pontificio "Mutuae Relationes"...
SB con tutto il monachesimo di allora dimostra una certa sfiducia di dover avere
dei sacerdoti in monastero (appare abbastanza
chiaro da questo capitolo e dal c.60), ma
preferisce correre questo rischio per il vantaggio di avere in casa un sacerdote per la
liturgia monastica. Tanto l'iniziativa che la scelta della persona spettano all'abate, il
quale dovra` vedere chi sia degno, cioe` un
monaco sensato, maturo e di "santa
conversazione". Sacerdotio fungi <"esercitare l'ufficio
sacerdotale", in senso largo: sacerdote
e diacono) e` frase biblica da Sir.45,19.
SB gli ricorda l'obbligo di sottomissione alla Regola e all'abate; anzi, gli ricorda
che si deve sentire piu` obbligato degli altri alla
disciplina regolare e sforzarsi
di "avanzare sempre piu` nel Signore" <"magis ac magis in Deum
proficiat", v.4>. La frase
riecheggia S.Cipriano, Epist.13,16. Insomma,
"noblesse oblige", la nobilta` impone dei doveri! Il monaco ordinato sacerdote o
diacono conservera` il suo posto in comunita` (v.5), anche se potra` essere trattato con
piu` riguardo ed avanzare grado (come
gia` previsto per i sacerdoti secolari che si fanno
monaci: RB.60,4.8 e per i monaci forestieri: RB.61,11-12).
La finale del capitolo e` nello stesso tempo molto triste ed energica. Se il sacerdote
cessa per la sua cattiva condotta di essere
monaco, non lo si riterra` piu` neanche
sacerdote, ma ribelle (v.8). Certo, lo si riprendera` piu` volte, "saepe monitus,
chiamando a
testimoniare anche il vescovo che lo ha ordinato (questo corrisponderebbe
all'ammonizione pubblica di RB.23,3). In seguito si
puo` arrivare addirittura
all'espulsione dal monastero (v.10), ma naturalmente solo in casi estremi (v.11).E`
presumibile che le
disposizioni dei vv.7-11 si applicassero anche ai monaci che erano gia`
sacerdoti prima di entrare in monastero (RB.60); ma il
pericolo dell'insubordinazione
sara` stato piu` facile - e forse SB lo apprese dall'esperienza - in coloro che, prima
semplici monaci,
si vedevano poi elevati alla dignita` sacerdotale o diaconale e preferiti
ad altri loro fratelli.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Preliminari
Dobbiamo pero` dire che, oltre l'influsso di Basilio, Agostino e Cassiano, cio` che
piu` appare e` la maturita` spirituale di SB, la sua
esperienza e la sua riflessione che
gli hanno fatto comprendere la necessita` di dare molto piu` rilievo, nella sua concezione
della
vita spirituale, alle relazioni interpersonali dei fratelli, alla carita` fraterna
nelle sue molteplici manifestazioni.
CAPITOLO 63
De ordine congregationis
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Fissato l'ordine materiale dei posti, SB passa a un teme di grande originalita` (come
si e` detto sopra, nell'introduzione alla
sezione): le manifestazioni di reciproco
rispetto e cortesia. Comincia con un principio generale (v.10), gia` annunciato negli
strumenti delle buone opere (n.70 e 71): "Venerare i piu` anziani, amare i
piu` giovani" (RB.4,70-71). Le norme seguenti (vv.11-17)
sono applicazioni del
principio generale sull'onore e l'amore. Tali forme di deferenza non sono soltanto
manifestazioni di
educazione, sensibilita`, delicatezza e buon gusto naturali, ma sono
ispirate soprattutto dalla S.Scrittura (Rom.12,10): "Prevenitevi
a vicenda nel
rendervi onore" (v.17). Notiamo che il termine "nonno" e` di origine
egiziana e si divulgo` in oriente; in seguito fu
latinizzato e piu` tardi nel linguaggio
ecclesiastico si applico`, con un senso familiare e affettuoso, alle persone che senza
appartenere alla gerarchia, erano considerate degne di particolare venerazione: monaci,
asceti, vergini consacrate a Dio, vedove
e anziani; ancor oggi in francese
"nonne", in inglese "nun", in tedesco "nonne" significa
monaca. Anche i titoli per l'abate "dominus
et abbas" <signore e
abate> non sono nuovi, ma gia` attestati nella tradizione monastica:
"dominus" esprimerebbe l'onore dovuto
all'abate come vicario di Cristo;
"abbas" esprimerebbe l'amore.
Gli ultimi versetti riguardano la prima parte del c.63, non la seconda. E` una specie
di appendice sulla posizione dei fanciulli (v.9).
I piccoli oblati in qualita` di persone
consacrate a Dio come gli altri monaci professi, mantenevano il loro posto negli atti
ufficiali
della comunita` (coro e refettorio, v.18). Essendo pero` nel periodo della
formazione, debbono essere curati con la vigilanza e
mantenuti sotto disciplina "fino
alla maggiore eta`" (v.19), che era considerata verso i 15 anni (cf.RB.70,4).
------------------------
NOTA:
CAPITOLO 69
Preliminari
Notiamo tre volte (titolo, v.1, v.3) il verbo praesumere <ardire, osare>
che c'e` spesso nella Regola per indicare l'usurpazione di un
potere altrui (in questo
caso il compito dei superiori). Il v.3: "Possono nascere gravissime occasioni di
scandali". Notiamo la
gravita` delle parole "gravissime" e
"scandali". Dall'appoggio di un "avvocato" fuori posto, il monaco si
sente incoraggiato a
respingere un'obbedienza, a resistere contro l'abate e altri
confratelli, ed ecco simpatie, antipatie, pettegolezzi, gelosie, discordie...
Il v.4:
"Sia punito molto severamente". Anche S.Pacomio in questi casi prescrive una
riprensione severissima (Reg.176) e
S.Basilio e` molto rigido, perche` il fratello difeso
indebitamente si confermava nella colpa.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CAPITOLO 70
SB torna ad occuparsi dei fanciulli. Nel monastero c'era una perfetta comunione di vita
tra vecchi, adulti, adolescenti e fanciulli, i
quali pregavano, mangiavano lavoravano,
dormivano tutti insieme. Certamente la natura stessa porta a delle differenze di cui si
tiene conto, com'e` logico; anche la Regola fa oggetto di particolare attenzione vecchi e
fanciulli (RB.37; cf. anche 22,7; 30; 45,3)
e ha ordinato che i fanciulli siano sotto la
vigilanza e la disciplina (RB.63,18-19) e che questa sia un'incombenza di tutti i monaci
adulti (RB.63,9). In questo capitolo SB specifica ancora questa disposizione (vv.4-5): per
i fanciulli fino ai 15 anni, tutti i monaci si
devono sentire educatori; si stabilisce
cosi` un'altra dimensione nelle relazioni fraterne: i monaci adulti siano educatori dei
loro
fratelli piu` piccoli. E si noti che SB raccomanda in cio` "mensura et ratio"
<equilibrio e moderazione>, qualita` raccomandate
all'abate nel suo esercizio di
correzione (cf.RB.64).
Chi usa senza discrezione, senza misura, la correzione nei confronti dei fanciulli, o
chi si arroga il diritto nei confronti di altri
monaci adulti, sia punito; e la
motivazione SB la prende dall'assioma chiamato la "regola d'oro", che in
Mt.7,12 e in Lc.6,31 e` in
forma positiva (come in Tobia 4,15): "Non fare agli
altri..."; la troviamo per la terza volta nella RB (qui, 4,9 e 16,4): cioe`
castigare i
fratelli senza autorizzazione e i fanciulli senza discrezione sono mancanze
contro la carita` fraterna.
CAPITOLO 71
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
In senso generale, come riflessione per noi oggi su questo capitolo della
Regola, sara` bene richiamarci tutti a cio` che si direbbe
oggi rispetto reciproco
della personalita` di ciascuno, aiuto vicendevole, disponibilita` l'uno verso l'altro: e` una legge ineludibile del
cenobitismo benedettino, un modo di vivere sempre e
comunque l'oboedientae bonum <il bene dell'obbedienza>!
Cio` che deve essere valido per noi oggi e` questo senso dell'importanza
della comunione fraterna che appare in SB: malintesi,
rivalita`, dispute, certe
"guerre fredde", quel vivere quasi da estranei in comunita`..., sono cose
che possono succedere nei
monasteri: chiarisi l'un l'atro i motivi di certe tensioni,
chiedersi scusa per ristabilire la serenita`, sono valori perenni che vanno
conservati a
costo di qualunque sacrificio.
CAPITOLO 72
Con ragione il c.72 e` stato considerato sempre come una delle pagine piu` preziose
della Regola. E` certamente il capitolo piu`
soave del codice monastico, sintesi del suo
contenuto, compendio della perfezione monastica. Chiudendo la Regola il S.Patriarca
non sa
meglio sintetizzare il suo insegnamento se non nella parola con cui Gesu` compendia e
corona la sua dottrina: la
CARITA`.
Quindi le ultime frasi che uscirono dalla penna di SB possiamo ritenerle queste sullo
"zelo buono". E` stato scritto: "La cosa piu`
importante di questo
capitolo e` il fatto di offrire la prospettiva in cui si deve leggere la Regola. Appare
come SB, dopo essere
vissuto per lungo tempo con i suoi monaci in una vita di preghiera e
di osservanze monastiche, sia giunto a questa convinzione: la
dimensione della carita`,
lo zelo buono; che ne e` il segno e il risultato, e` la cosa piu` importante per il
monaco" (J.E.Bamberger).
Come altri legislatori, SB stende il suo testamento spirituale in forma concisa, con massime
brevi e precise. Definisce prima lo
"zelo buono" (vv.1-2); esorta ad
esercitarlo (v.3); enumera otto massime in cui esso deve manifestarsi (vv.4-11);
conclude con un
augurio e una preghiera (v.12).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
SB raccomanda dunque che "a questo zelo buono debbono darsi i monaci", cioe`
agire ferventissimo amore <con ardore di
carita`, con intenso amore, v.3>. E
passa ad enunciare alcune manifestazioni. Le otto massime, concise, sono enunziate
quasi
tutte col medesimo schema: all'inizio il termine principale, alla fine il verbo in
forma esortativa. Le prime cinque massime si
riferiscono all'amore fraterno, con varie
modalita`; le ultime tre all'amore a Dio, all'abate, a Cristo. Sono una specie di apoftegmi
meravigliosamente espressivi.
E` il testo di S.Paolo (Rom.12,10) gia` citato in RB.63,17; pero` qui non si allude
affatto all'ordine di precedenza, si onora il fratello
senza guardare se e` superiore o un
inferiore: il fervore di carita` non fa caso a queste distinzioni.
Norma quanto mai necessaria per una vera convivenza nella carita`. Chi e` cosi`
perfetto da non avere qualcosa da far sopportare
al vicino? In ogni comunita` la massima
e` di costante applicazione. (L'espressione ricorda Cassiano, Coll.19,9).
Su questo tema dell'obbedienza reciproca SB ha parlato nel c.71 (cf. commento). Ma qui
non si allude all'ordine di precedenza; e
c'e` anche l'avverbio "certatim"
<a gara>, cioe` si deve proprio sentire il gusto, il compiacimento di obbedirsi a
vicenda.
E` un precetto formale, anche se non del tutto nuovo; SB ha parlato dell'amore per
l'abate per amore di Cristo (RB.63,13);
all'abate raccomanda di farsi piu` amare che
temere (RB.64,15); l'abate deve amare tutti i fratelli (RB.2,17). Ora chiaramente si
dice
che i fratelli devono amare l'abate con sincerita`. Nella RM questa idea manca del tutto,
lo schema e` molto piu` verticale: per
il loro maestro i discepoli non possono nutrire se
non fede e obbedienza. La RB pone l'amore reciproco tra monaci e abate, nella
stessa
corrente di carita` verso Dio: "misura del cenobitismo e` la relazione mutua che
unisce i fratelli all'abate in Cristo"
(DeVogue`).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Il nome di Cristo non era ancora apparso nel testamento spirituale di SB; e` stato
lasciato alla fine come coronamento.
L'espressione e` presa da S.Cipriano: "Non
antepongano assolutamente nulla a Cristo, perche` Egli non antepose nulla a noi" (La
Preghiera del Signore, 15); anche S.Agostino ha: "Nihil praeponant Christo"
(Espos. sul salmo 29,9). SB ha gia` posto una simile
massima tra gli strumenti delle buone
opere: "Niente anteporre all'amore di Cristo" (RB.4,91). Qui la rafforza con un
energico
"omnino" <assolutamente>. Il monaco ha posto l'amore di
Cristo al di sopra di ogni altro amore; "Christo omnino nihil praeponant"
e` l'anima e l'anelito di tutta la Regola come di tutta la vita di S.Benedetto.
La frase che esprime un desiderio, un augurio, un voto, una speranza, non solo chiude
il capitolo, ma, nella mente del legislatore,
tutta l'appendice (cc.67-72) e quindi tutta
la Regola. SB ha parlato di tante cose, ha dato tante disposizioni, consigli, esortazioni:
certo, tutto si deve cercare di fare, e il monaco puo` attraversare tanti momenti di
scoraggiamento, puo` sperimentare la difficolta`
del cammino. E allora il S.Padre termina
con una orazione breve, intensa, significativa, in prospettiva escatologica. Si tratta di
arrivare alla "vita eterna", alla patria celeste tante volte intravista e
sospirata nel corso della Regola (cf.Prol.17,41; RB.4,46;
5,3.10; 7,11; 72,2): a Cristo e
solo a Cristo il monaco affida la capacita` di poter trionfare definitivamente nella sua
"ricerca di Dio"
(Rb.58,7); ed Egli solo ci potra` condurre alla vita
eterna, "pariter" <tutti insieme>. E notiamo questo "tutti
insieme": non si tratta di
un'impresa solitaria, di un cammino desertico, ma insieme:
i cenobiti camminano alla pari, formando una carovana con Cristo in
testa che guida e ci conduce
alla vita eterna.
Conclusione
Concludiamo con una citazione del grande maestro della vita comune, il "Dottore
della carita`", S.Agostino. Parlando delle
comunita` di Roma e di Milano, egli
scrive: "Vi si osserva principalmente la carita`. Alla carita` si ispira e si adatta
il loro cibo, la
loro conversazione, il loro vestito, il loro ambiente. Tutto e`
indirizzato e coordinato verso la carita`. Sanno che Cristo e gli Apostoli
la
raccomandarono tanto che, se essa manca, nulla conta, e, se essa e` presente, tutto
acquista la sua pienezza". (De Moribus
Ecclesiae Catholicae 33,73). Non ci sono
parole piu` belle per esprimere l'ideale comunitario di S.Benedetto.
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1. RICERCA DI DIO
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
raggio di luce che lo univa a Dio (II.Dial.35), a significare che nel rapporto con Dio, sono assunte e trasfigurate tutte le
realta`
create. Dunque la ricerca di Dio e` quello che definisce il monaco, e` l'asse
portante della vita monastica.
Evidentemente, alla base di tale ricerca, c'e` l'iniziativa di Dio stesso: e` Lui che
prima viene a cercare; Dio cerca l'uomo (Gen.3,9:
"Dove sei?") e l'incarnazione
di Cristo e` proprio questo annuncio definitivo dell'amore preveniente di Dio: "Il
Figlio dell'Uomo e`
venuto a cercare..." (Lc.19,10; cf.Lc.15,1-7; Giov.10,10-16).
Questo tema biblico e` continuamente presente nella tradizione
patristica e monastica: il
monaco cerca Dio come uno che sa di essere gia` stato cercato e "afferrato" per
primo (Filip.3,12), sa
che Dio cerca il suo operaio tra la folla (Prol.14). Non si puo`
andare alla ricerca di Dio se non ci si e` accorti e non si e` convinti
che Lui per primo
e` venuto alla nostra ricerca.
2. CENTRALITA' DI CRISTO
Nella RB questa ricerca di Dio passa attraverso un rapporto tutto particolare con Gesu`
Cristo. E` il cosiddetto Cristocentrismo
della Regola: Cristo posto al di sopra e
nel cuore di tutte le realta`: "niente anteporre all'amore di Cristo"
(RB.4,21); "Nulla,
assolutamente nulla, antepongano all'amore di Cristo"
(RB.72,2); "per loro, non considerano nulla piu` caro di Cristo (RB.5,2).
Questo forte rapporto personale con Cristo da` tutto il vero senso della vita monastica;
persone e cose diventano segno della
presenza di Lui: "l'abate tiene le veci di
Cristo" (RB.2,2); ai fratellimalati "si serva proprio come a Cristo in
persona" (RB.36,1);
negli ospiti "si adori Cristo stesso che in essi viene
accolto" (RB.53,1.7), e se sono poveri e pellegrini "si accoglie Cristo ancora
di
piu`" (RB.53,15). Veramente il monaco deve tendere ad essere un cristiano che non
sa altro se non Gesu` Cristo (cf. 1Cor.2,2), in
cui vede racchiusi tutto il senso della
vita e della storia.
3. PREGHIERA
Il monaco dedica alla preghiera la parte migliore della sua giornata e deve tendere a
diventare uomo di preghiera. Appare nella
Regola la posizione importante che SB
assegna alla preghiera liturgica comunitaria, che egli chiama "Opus Dei",
opera di Dio per
eccellenza. "Nulla anteporre all'Opera di Dio"
(RB.43,3), e "Nulla anteporre all'amore di Cristo" (RB.4,21) sono due
espressioni
parallele di un'unica convinzione; la liturgia e` infatti lo spazio
privilegiato dell'incontro con Cristo. La giornata monastica e`
scandita dai vari momenti
della lode divina che ritmano il fluire del tempo (deve essere veramente "Liturgia
delle Ore"). Cf.
introduzione alla sezione "LOpera di Dio" e "excursus
sulla preghiera monastica").
4. ASCOLTO
La dimensione preghiera in modo molto biblico e` espressa anche dalla categoria dell'ascolto,
che e` un momento molto
importante nella RB. Il monaco e` l'uomo dell'ascolto in maniera
molto accentuata ("Ascolta, o figlio"..., Prol.1): cercato da Dio
(Prol.14) e
cercatore di Dio (RB.58,7), il monaco ascolta con orecchio attentissimo e meravigliato
(Prol.9) la voce del Signore che
risuona soprattutto nella S.Scrittura (Prol.8-13). La
preghiera liturgica e` tutta intessuta di Parola di Dio. Preparazione e
proseguimento
della preghiera liturgica e nutrimento della preghiera personale e` la lettura amorosa
e pregata della Bibbia, quale
avviene nella "lectio divina", alla quale SB
da` molta importanza (RB.48; cf. Excursus sulla Lectio Divina).
5. SILENZIO
L'ascolto di Dio ha come condizione il silenzio, sia esteriore, sia del cuore e della
mente. Il silenzio ha due aspetti: quello ascetico,
cioe` astenersi dal parlare per
mortificazione (RB.6; 4,5-54; 7,56-61; 9^,10^ e 11^ gradino di umilta`), e quello mistico,
cioe` il
clima di silenzio per far risuonare la Parola di Dio: e` il "deserto del
cuore", quel deserto dove Dio vuol riportare il suo popolo
(Osea 2,14) per parlargli
e convertirlo a Se`. E` diventato un tema comune nella tradizione monastica: solitudine e
silenzio sono
elementi essenziali per una autentica vita di preghiera (vedi introduzione e
conclusione nel commento a RB.6).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
7. OBBEDIENZA
8. ASCESI
Sara` bene oggi richiamarci anche ai valori dell'ascesi concreta nei suoi aspetti piu`
tradizionali, quali il digiuno, la veglia, la fatica,
la poverta`, ecc. Sappiamo che SB
non ama i grandi atletismi ascetici, che anzi una delle sue caratteristiche e` la
moderazione, la
considerazione per i deboli, la famosa "discretio". Pero`
sappiamo anche quanto e` esigente per cio` che riguarda il distacco
personale del
monaco, il quale deve sradicare in se` il vizio della proprieta` (RB.33; 54; 55; il c.33
e` uno dei piu` duri di tutta la
Regola), mettere tutto in comune, evitare ogni forma di
autoaffermazione attraverso le cose, addirittura non deve essere attaccato
nemmeno al suo
lavoro e alle sue eventuali capacita` (RB.57).
Oggi abbiamo certamente una concezione diversa dei contatti con l'esterno e
l'inserimento del monastero nella comunita`
ecclesiale e civile e` un fatto positivo.
Tuttavia, una certa separazione, anche materiale, dal mondo, deve considerarsi come una
componente essenziale della
professione monastica. La fedelta` a un certo distacco, a una
certa separazione (ma la cosiddetta "fuga mundi" deve essere
rettamente intesa;
cf. commento a RB.66), a una vita piu` nascosta in Dio secondo l'affermazione escatologica
di S.Paolo
(Col.3,3-4), puo` essere la forma principale di testimonianza dei monaci oggi:
"Si`, ancor oggi la Chiesa e il mondo, per differenti
ma convergenti ragioni, hanno
bisogno che SB esca dalla comunita` ecclesiale e sociale e si circondi del suo recinto di
solitudine
e di silenzio, e di li` ci faccia ascoltare l'incantevole accento della sua
pacata ed assorta preghiera" (Paolo VI a Montecassino, 24
Ottobre 1964).
10. LAVORO
SB accentua molto il valore e l'importanza del lavoro, facendone uno dei punti
principali della sua concezione monastica (e la
tradizione ne ha ben colto il senso,
coniando il motto "ORA ET LABORA"). Il monaco deve sentirsi soggetto alla comune
legge del
lavoro, e vi si dedica sia per fuggire l'oziosita` (RB.48,1), sia come forma
di poverta` (RB.48,7-8), sia come servizio scambievole
nella carita` (RB.35,6).
SB vuole che il lavoro si faccia con umilta` e distacco (RB.57), ma anche con impegno e
competenza
(RB.31; 32; 53,22, ecc.), e sempre nella serenita`, nella liberta`
(RB.31,17.19; 35,12-13; 48,9-24; 53,18-20). Naturalmente, il
lavoro va armonizzato con le
altre componenti della giornata monastica: preghiera e lectio divina (RB.48; cf. commento
a RB.48
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Tutta questa larghezza, realismo e grande umanita` di SB contribuisce a far si` che il
monaco, pur impegnato seriamente,
conduca la sua ricerca di Dio nella serenita`, nella
pace; in coloro che hanno volontariamente scelto Cristo nella vita monastica,
non ci deve
essere posto per l'acidita`, la scontentezza, l'insoddisfazione. "Ecco, lavora e non
ti rattristare" disse SB al goto
(II.Dial.6); e tutto deve essere organizzato in modo
tale che nella casa di Dio nessuno si turbi e si rattristi (RB.31,19). E` questo il
senso della "Paz Benedictina", che deve essere abituale atmosfera nei nostri
monasteri.
--------------------------
Altri aspetti ancora potevano essere messi in risalto nella RB, ad esempio quello
dell'ospitalita`, dello spirito di fede, della
stabilita`, dell'equilibrio, della
discrezione, ecc. Sono stati qui puntualizzati soprattutto i valori fondamentali per la
vita del monaco;
egli, impegnato nel cammino di ritorno verso Dio (Prol.2), e` convinto
dell'amore di Dio che lo ha scelto (Prol.14); e` convinto
anche della propria umanita` e
fragilita` e quindi di essere sempre bisognoso di conversione. Ma in questo cammino e`
aiutato
dalla comunita` dei fratelli, ed e` spinto dall'amore di Cristo, a cui nulla
assolutamente anteporre (RB.72,11) e da cui spera che ci
conduca tutti insieme alla
vita eterna (RB.72,12). AMEN
INTRODUZIONE
Il problema del lavoro non e` stato mai risolto facilmente e definitivamente nel
monachesimo, per la bipolarita` che esso presenta
in se stesso e per la complessita` degli
aspetti che contiene. Da una parte, le piu` grandi autorita` spirituali hanno sempre visto
nel
lavoro serio e faticoso un elemento di perfezione spirituale, basandosi su molti testi
biblici; d'altra parte, l'idea di una vita spirituale
espressa in termini di vita
contemplativa con l'assenza di ogni interesse e di ogni preoccupazione materiale, ha
spinto altri a
ridurre al minimo il tempo dedicato al lavoro e a combattere i motivi che
spingono l'uomo a lavorare, richiamandosi ad altrettanti
testi biblici.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
D'altronde, una vera teologia del lavoro e` qualcosa di molto recente; certo non possiamo trovarla in epoca patristica; la
valorizzazione positiva del lavoro e` una "scoperta" (possiamo dire, ma parlando con riserva) della societa` industriale, in cui il
lavoro si e` potuto considerare sotto l'aspetto di creativita`, piu` che come necessita` di sussistenza o come una maledizione.
Tracciare una evoluzione della tradizione del lavoro con le sue modalita` e le sue motivazioni, non e` possibile. Tuttavia, per
approfondire un po` il complesso argomento, vediamo il lavoro dalla
tradizione monastica antica a SB, e poi nel corso dei secoli,
per illuminare i problemi
attuali del lavoro monastico.
Il monachesimo primitivo scopri` subito il valore spirituale del lavoro. Per gli
antichi monaci si trattava solo di lavoro manuale, non
esisteva altra forma di lavoro
propriamente detto; erano esclusi positivamente sia il lavoro intellettuale, perche` la
maggioranza dei
monaci erano incolti, sia il lavoro apostolico o ministeriale, perche`
quasi tutti i monaci erano laici e perche` tale attivita` diventava
incompatibile con la
solitudine e la contemplazione. Quindi, lavoro significava per i monaci solo lavoro
manuale, ed esso, grazie ai
solitari e ai cenobiti, divento` un valore positivo.
Per l'antichita` pagana il fatto di lavorare non fu mai un fatto positivo, era ritenuto
una punizione degli dei e compito esclusivo degli schiavi; spiriti elevati come Cicerone
consideravano disonorevole il lavoro
retribuito e interessato. Perfino tra i cristiani, il
lavoro manuale distingueva i monaci dagli uomini liberi del tempo. Cassiano dice:
"Gli uomini liberi fanno ricorso alla fatica altrui, mentre i monaci vivono secondo
il precetto dell'Apostolo, lavorando con le proprie
man i" (Coll.24,12).
- ha lo scopo di:
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Non mancano pero` tendenze contrarie (soprattutto in Siria e in Medio Oriente) che
ritengono il lavoro manuale come indegno
dell'uomo spirituale e incompatibile con la vita
monastica; vivere della provvidenza, cioe` di elemosine, appare segno di
perfezione. E
naturalmente anche questi monaci conoscevano altrettanto bene la Scrittura e si
appoggiavano ad altri testi: "Non
affannatevi per la vostra vita, di quello che
mangerete o berrete..." (Mt.6,25-34); "Procuratevi non il cibo che perisce, ma
quello
che dura per la vita eterna" (Giov.6,27); "Maria ha scelto la parte
migliore" (Lc. 10,42); "Pregate senza interruzione" (1Tess.5,17).
Bisogna
dire, ad onor del vero, che questi monaci, riducendo al minimo le loro necessita`, sentono
appena il bisogno di lavorare;
spesso il lavoro per loro e` solo una pura occupazione
(fare e disfare i canestri, tanto per tenere occupate le mani); spesso il
lavoro appare
per se` privo di importanza, fatto solo per obbedienza, senza interesse alcuno per la
qualita` dell'opera prodotta. Le
diverse tendenze si possono vedere analizzando i
"Detti" e le "Collazioni" di Cassiano; appare, ad esempio, che la
tradizione che
fa capo a Poemen sia contraria al lavoro dei campi perche` svolto all'aria
aperta, il che fa distrarre!.
Quando S.Benedetto scriveva la Regola, la situazione del lavoro dei monaci era cambiata
rispetto al monachesimo primitivo. Non
risulta che i primi monaci in Occidente, quelli di Martino,
lavorassero; della sua comunita` si dice che "non si esercitava alcun
mestiere se non
quello di scrivano, a cui inoltre venivano adibiti in piu` giovani; gli anziani si
dedicavano all'orazione" (Vita Martini,
X.6). Cassiano si lamenta che i
monaci in Occidente non lavorino molto (Inst.10,23). Pare che all'origine del
monachesimo latino
ci siano delle tendenze affini al messalianismo. Tutte le Regole
monastiche occidentali sembrano supporre che il lavoro costituiva
- se non altro - un
problema per i monaci; difatti polemizzano contro l'ozio (si noti come S.Benedetto
ha la fobia della "otiositas",
tre volte nello stesso RB.48,1. 23. 24). Gli
ostacoli sembrano essere stati una certa sicurezza economica, stanchezza prodotta
dall'osservanza, specialmente del digiuno, inabilita` risultante da debolezza corporale o
da cattive condizioni di salute. Queste
ultime, S.Agostino le metteva in relazione
con l'estrazione sociale dei monaci: gli ex-ricchi erano incapaci di dedicarsi al lavoro
manuale, e quindi ne erano dispensati, ma dovevano comunque fare qualcosa.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
comune; in quanto ai mestieri, il c.57 ne parla sempre con molte condizioni e con
distacco: "se per caso ci sono degli artigiani...,
se l'abate lo permette..., se c'e`
da vendere qualche prodotto del lavoro degli artigiani..., si venda a prezzo minore di
quanto lo
vendono i secolari": e` evidente che i monaci non vivevano degli eventuali
prodotti dei vari mestieri.
Quindi la RB, da una parte, si trova nella linea del monachesimo del suo tempo;
dall'altra, notiamo una certa svolta. E partiamo
proprio dalla paura di non poter piu`
digiunare, qualora si facessero lavori pesanti, cosa che preoccupa tanto la RM. E' proprio
qui
che S.Benedetto cambia. Nei capitoli sulla misura del mangiare (RB.39) e del bere
(RB.40) e sull'orario dei pasti (RB.41),
S.Benedetto parla di concessioni, di eccezioni
alla regola generale; di questi eventuali supplementi alla quantita` del vitto ne parla
anche la RM, ma mentre qui la motivazione e` un senso di gioia, di festa o la venuta di
ospiti, per S.Benedetto l'unica motivazione
e` il caso di lavoro eccessivo o piu`
faticoso. Vale la pena rileggere i testi. A proposito del cibo si ha: "Se per caso si
fosse
compiuto un lavoro piu` gravoso del solito, l'abate avra` piena facolta`, se gli
sembrera` opportuno, di aggiungere ancora qualche
cosa" (RB.39,6; vedi invece
RM.26,11-12); a proposito del bere: "Se poi la condizione del luogo o il lavoro
speciale o il calore
dell'estate richiedesse un supplemento, il superiore abbia la
facolta` di darlo (RB.40,5); vedi invece RM.27,43-45); per i digiuni:
"Da Pentecoste
e per tutta l'estate, se i monaci non hanno forti lavori campestri e l'eccessivo calore
non lo impedisce, il mercoledi`
e il venerdi` digiunino fino a nona; negli altri giorni
pranzino a sesta. Ma se avranno lavori nei campi o se il caldo dell'estate sara`
soverchio, anche i quei due giorni il pranzo sara` a sesta..." (RB.41,2-4; invece,
per il Maestro, il digiuno si puo` rompere in
qualche caso per gli ospiti: RM.72,1-7;
S.Benedetto, per gli ospiti, dispensa dal digiuno solo l'abate, che mangia con lo, i
fratelli
no! RB.53,10-11). Quindi per S.Benedetto si puo` dare il caso che i monaci
facciano lavori pesanti e i lavori dei campi.
E arriviamo al famoso passo del c.48 che ci illumina al riguardo. Intanto, tutto il
c.48 ha un'impostazione diversa dalla RM; in
questa l'orario e` visto alla luce
dell'Ufficio divino; in RB l'orario ha uno scopo piu` pratico: ripartire bene lavoro e
lectio divina.
S.Benedetto considera piuttosto il ritmo della vita umana con l'alternarsi
di riposo e di sforzo, di lavoro spirituale e di lavoro
manuale; RB si preoccupa molto che
i monaci lavorino. Orben, a un certo punto del c.48, abbiamo una parentesi di singolare
importanza: "Se poi - in latino "si") le condizioni del luogo
o la poverta` richiedessero che gli stessi monaci si occupino nel
raccogliere le messi,
non ne siano malcontenti, perche` allora sono veri monaci quando (in latino "si")
vivono del lavoro delle loro
mani, come i nostri Padri e gli Apostoli"(RB.48,7-8).
I monaci del suo tempo non erano abituati al duro lavoro dei campi. Pero` le
circostanze (pensiamo alla guerra che c'era allora tra
Goti e Bizantini, quindi alla
mancanza di mano d'opera o alla impossibilita` di pagarla, pensiamo alla poverta del
monastero)
potevano costringere i monaci a fare da se stessi tali lavori, il che causava
un certo malcontento. Ebbene, S.Benedetto li consola
riportandoli a una motivazione
soprannaturale: "allora sono veramente monaci, quando...". Notiamo la
struttura grammaticale della
frase: il primo "si" <se = quando) regge
un verbo al condizionale, indica quindi una semplice eventualita`: "Se le circostanze
lo
richiedessero"; il secondo "si" <se = quando> regge un verbo all'indicativo e non indica una eventualita`, ma un principio generale.
Il testo e` stato analizzato alla perfezione da Olivier du Roy: "La prima condizione e` chiaramente accidentale, locale; la seconda
e` di ordine essenziale, ideale. La prima riguarda il "lavoro agricolo", la seconda riguarda "il lavoro" (manuale) per vivere
(...).Partendo da alcune circostanze particolari, S.Benedetto ha l'occasione di inculcare un principio fondamentale della vita
cristiana e, a fortiori,
della vita monastica: vive del proprio lavoro manuale" (O.DuROY, Moines
aujourd'hui. Une experience de
reforme institutionnelle, Paris 1972, p.271).
Malgrado le reticenze degli ambienti monastici italiani del suo tempo (testimoniato
dalla RM), S.Benedetto si vede costretto dalle
circostanze a introdurre il lavoro
agricolo (ecco perche` nella Regola parla piu` volte di lavori pesanti, per cui
ammette supplementi
alimentari); riscopre cosi` nel suo tempo la grande legge del
monachesimo primitivo: mantenersi con il proprio lavoro manuale
("Se la necessita`
(...), allora sono veri monaci, quando..." RB.48,7-8). Si e` notato che
l'argomento addotto da S.Benedetto
convince solo a meta`, perche` il richiamo a "come
i nostri Padri e gli Apostoli" non prova nulla a favore del lavoro dei campi, ma
solo
l'obbligo del lavoro manuale in generale. La tradizione monastica fondata sull'esempio di
Paolo prova solo questo, tant'e`
vero che la RM, espressamente contraria al lavoro
agricolo, non manca di riferirsi ugualmente ai testi paolini. Ma l'obiezione non
regge.
S.Benedetto vuole provare tanto la necessita` di lavorare nei campi (che puo` dipendere
dalle circostanze), quanto
piuttosto di guadagnarsi la vita con il proprio lavoro. Se e`
vero che S.Paolo non era agricoltore, ma tessitore di lana, se e` vero
che i monaci
antichi non lavoravano necessariamente nei campi - anzi alcuni, come si e` detto, erano
contrari perche` ritenevano
che dissipasse lo spirito - e` altrettanto vero che sia
l'Apostolo che i primi monaci lavoravano per attendere alle proprie necessita`
e,
possibilmente, a quelle degli altri, ospiti e poveri.
Questo e` il punto, questo e` l'ideale antico che riscopre e ripropone S.Benedetto: non
solo occuparsi nei lavori piu` o meno utili,
perche` "l'oziosita` e` nemica
dell'anima" (RB.48,1, motivazione negativa), ma vivere veramente del proprio lavoro
come i Padri e
gli Apostoli (motivazione positiva).Ora, vivere del proprio lavoro nelle
circostanze concrete di allora (poverta`, guerre...) equivaleva
in pratica ad accettare il
lavoro agricolo con quanto esso comportava di pesante. Di fatto, i monasteri si reggevano,
grazie ai
terreni che possedevano, gli altri introiti non potevano bastare alle varie
necessita`. Se dunque si affidava la coltivazione dei
campi ai secolari, come vuole la RM,
i monaci vivevano di rendita; se invece li coltivavano personalmente, allora - e solo
allora -
praticavano la legge apostolica e monastica di vivere del proprio lavoro.
Inquadrando la famosa frase di RN.48,7-8 nel contesto
storico di allora, l'argomentazione
di S.Benedetto risulta molto profonda e pienamente convincente. E` la piu` bella
dimostrazione:
e conferma ci puo` venire da Gregorio Magno quando ci presenta il santo
Patriarca nel momento di ritornare dai campi con gli
strumenti di lavoro sulle spalle
(II.Dial.32).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
non
solo tutto cio` che ha, ma anche tutto cio` che e` (RB.33,4). S.Benedetto
raccomanda addirittura che gli oggetti del monastero
siano trattati "come vasi sacri
dell'altare" (RB.31,10).
- (a) - Bisogna lavorare. S.Benedetto fa del lavoro quotidiano uno dei punti
principali della sua concezione monastica, ne fissa
l'orario, ne indica il senso, ne
determina il valore. Certi asceti del deserto si sarebbero certo meravigliati nel vedere
attribuiti al
lavoro piu` ore che all'Ufficio divino, e nel notare che quest'ultimo sia
talora condizionato dalle occupazioni (cf.RB.48, passim). Ma
gia` si e` detto che anche il
lavoro acquista il carattere di azione sacra nella mente di S.Benedetto; il suo valore e`
in rapporto
all'ascesi e alla vita mistica: e` un rimedio all'ozio che e` nemico
dell'anima (RB.48,1), ma esige anche sforzo e fatica, ed e` quindi
per il monaco uno
strumento di perfezione, un mezzo per dominarsi; non si lavora soltanto per tenersi
occupati, ma per ascesi: si
tratta di un atto di obbedienza (cf.RB.48,11.14; RB.57). Il
carattere penoso del lavoro provoca la tendenza a non lavorare o a
lavorare il meno
possibile. Di fatto, al tramonto dell'Impero Romano, il lavoro si era ridotto a un obbligo
degli schiavi. Facendone
una legge per tutti i monaci, S.Benedetto ne mise in rilievo la
dignita`.
Se chiediamo alla storia come nel medioevo siano state messe in pratica le idee
contenute nella RB, abbiamo in risposta una
serie di paradossi: non si cercava il
rendimento, ma lo si otteneva; non si cercava di operare lontano dal monastero, ma lo si
faceva; non ci si voleva immischiare nel traffico e nel commercio, ma di fatto con il
ruotare di tanti "famuli", ospiti e poveri intorno
ai monasteri, si
organizzavano trasporti (quindi le vie di comunicazione), si organizzavano le fiere, che
erano insieme solennita`
religiose e occasioni di scambi economici. Certamente molte ombre
e molti errori (a volte cose che per noi oggi sarebbero di
grave scandalo), si trovano
nell'economia monastica. Ma dobbiamo sottolineare un elemento essenziale: all'origine e
nei risultati
di tale economia monastica, si trova un fatto religioso; alla base degli
stessi benefici materiali c'e` paradossalmente l'ispirazione
soprannaturale di distacco,
di lavoro fatto per obbedienza e per ascesi.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Uno degli elementi decisivi per l'evoluzione del lavoro monastico fu la clericalizzazione
della vita religiosa. Alle origini e nell'alto
medioevo, il monachesimo si presentava
chiaramente come una forma non clericale di consacrazione a Dio; man mano
aumentarono
nelle file dei monaci coloro che diventavano sacerdoti, soprattutto - a detta degli
storici - per lo sviluppo della liturgia
nei monasteri, che esigeva una preparazione
culturale, e quindi tempo e studio per l'apprendimento. Nel secolo XI assistiamo
alla
nascita della categoria dei "conversi" <=convertiti, cioe`
fattisi monaci tardi>, i quali, non avendo, ne` volendo, una preparazione
culturale,
erano meno adatti al servizio del coro; avevano percio` mansioni piu` modeste e si
accollavano il lavoro agricolo e
l'esercizio dei vari mestieri.
Dobbiamo dire, qualunque sia la direzione delle varie tendenze, che anche i nuovi
movimenti - dopo un primo periodo di fervore
che rappresento` una bella testimonianza -
finirono per accettare decime e rendite varie ("spirituali") di ogni
tipo. Anche i
cisterciensi ben presto (gia` alla fine del secolo XII), abbandonarono il
lavoro manuale per vivere sempre piu` di redditi, con il
lavoro dei conversi e dei
salariati. Forse il motivo principale va ricercato nella impossibilita` di vivere con una
economia naturale
basata sul lavoro manuale, in un'epoca in cui l'economia monetaria stava
avendo un grande sviluppo. Inoltre,
l'ideale dei riformatori si spostava verso una forma di vita non piu` fuori del mondo,
ma a servizio del popolo cristiano e in varie
forme nel mondo (il monachesimo urbano); si
tendeva sempre piu` a unire l'ideale monastico e l'ideale clericale.
A questo proposito, come non ricordare l'apporto dei monaci nella trasmissione
materiale - diciamo cosi` - della cultura? Tra i
lavori proposti ai monaci fin
dai tempi piu` antichi si trova la trascrizione dei testi. Questa attivita` dei
monaci scrivani e` accennata
da RM.54,1; sembra supporla S.Benedetta (si deduce da alcuni
dettagli in RB.33,3; 55,19); e` riferita dalle monache di S.Cesario
di Arles; la nota per
inciso anche S.Gregorio Magno (Dial.1,4); assunse grande importanza soprattutto a Vivarium,
dove
Cassiodoro la raccomandava con insistenza. Lavoro, questo, che divenne man
mano passione e "sacro" more dei libri (anche qui
non senza polemiche), e che
diede vita ai famosi "scriptoria" medioevali, officine di milioni di
codici che hanno conservato e
trasmesso non solo il pensiero cristiano, ma anche le opere
del genio greco e romano. Tra le mansioni di ogni genere che hanno
svolto i monaci nel
corso dei secoli, poche lasciarono una traccia cosi` duratura come questa produzione
manoscritta che si puo`
collocare al limite tra lavoro manuale e lavoro intellettuale,
senza dimenticare il grande elemento dell'ascesi (pazienza, assiduita`,
meticolosita`) che
esso comportava.
Una parola per la Congregazione Silvestrina (cf., per gli inizi, G.FATTORINI, La
spiritualita` nell'ordine di S.Benedetto di
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Nel lavoro agricolo era compreso lo sfruttamento dei boschi (i primi monasteri erano
"nelle selve" <in silvis> e delle colture
spontanee, come ad
esempio lo scotano (per la concia delle pelli). Ricordiamo a questo proposito l'apporto
dei primi silvestrini
all'industria cartaria di Fabriano, avendo essi installato
nei loro terreni delle "gualchiere' in proprio.
Dobbiamo pero` credere che il lavoro non fosse uguale per tutti i monaci. I conversi
certamente facevano i lavori piu` pesanti, e
forse potevano esercitare un'arte specifica
(ma non sappiamo con certezza quale; le Costituzioni parlano di diverse officine nel
monastero, ma cio` non e` una prova di per se` apodittica, potrebbero essere formule
stereotipate). L'attivita` artistica merita
comunque di essere ricordata; pensiamo al caso
di Fra Bevignate, ideatore della Fontana Maggiore di Perugia, del primo disegno
del
Duomo di Orvieto e di altre opere; egli nei suoi lavori era coadiuvato da altri
confratelli. Alcuni monaci ebbero incarichi delicati
dai Comuni, come quelli di economi,
sovrintendenti ai lavori pubblici, ecc.
I monaci corali, pero`, si dedicavano di piu` allo studio; anzi pare che il lavoro
intellettuale man mano acquisto` sempre piu`
importanza, come e` testimoniato dalle prime
Costituzioni (c.5 della V "Distinctio"), e in seguito da vari decreti dei
Capitoli Generali
(in cui non si accenna quasi piu` al lavoro manuale, ma allo studio e al
lavoro apostolico). Ci si teneva molto, nella
Congregazione, alla formazione
intellettuale dei monaci, e per questo non si badava a spese; nei decreti di un
capitolo generale
(del 1318?), si parla anche di istituire degli scriptoria in
determinati monasteri per la traduzione dei libri teologici (sono rimasti,
quale
testimonianza, alcuni codici nell'archivio di Montefano, contenenti opere teologiche e
filosofiche).
Nel corso dei secoli questa linea si e` mantenuta e ci sono stati nella Congregazione uomini
di cultura che acquistarono discreta
fama come eruditi e scrittori; molti monaci si
dedicarono all'insegnamento non solo nelle scuole interne del monastero per i
novizi
e per i professi, ma anche aprendo scuole pubbliche (all'inizio del sec.XVII presso
S.Benedetto di Fabriano e S.Benedetto di
Cingoli, cf. U.PAOLI, p.107, nota 63); altri
monaci insegnavano nei seminari.
Quindi, l'attivita` dei monaci silvestrini si sviluppo` su queste tre linee direttrici:
lavoro manuale - lavoro intellettuale - lavoro
apostolico. Certamente
all'inizio fu privilegiata la dimensione contemplativa e di vita ritirata; e sempre furono
messi in primo piano i
valori monastici della preghiera comune e delle meditazione, che
devono armonizzarsi con il lavoro. Ma questo e` un problema di
sempre, di allora e di
oggi, e che riguarda tutto il mondo monastico, e di cui trattiamo nel punto seguente.
V. PROBLEMI ATTUALI
Gia` si e` detto della complessita` del problema del lavoro per i monaci, gia`
all'inizio del monachesimo, e poi lungo i secoli. Lo
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
- il lavoro trova la sua piena spiegazione alla luce del mistero pasquale di
morte e risurrezione: quindi lavoro nella sua parte
negativa di sofferenza e fatica e
nella sua parte positiva di elevazione, partecipazione creativa, ecc.;
- Cristo e` l'uomo del lavoro, che sperimenta il lavoro e dal mondo del lavoro
prende immagini e linguaggio per il suo
insegnamento;
- il cristiano sa che il suo lavoro serve non solo al progresso terreno, ma anche allo sviluppo
del Regno di Dio (GS.39; LE.27).
Tutto questo e` importante per inquadrare il lavoro monastico oggi. Tentiamo ora
qualche riflessione, anche sotto forma di
questione o di difficolta`.
1. - Il monaco non e` un uomo astorico, e` un uomo del suo tempo, e come tale
deve agire. Ebbene, oggi c'e` una nuova
coscienza del lavoro e dei lavoratori, i quali, a
tutti i livelli, dal tecnico al semplice contadino, sanno che la loro attivita` serve al
bene di tutti, e il fatto del lavoro si sente molto di piu` come un titolo di gloria e di
autorealizzazione. Di qui la reazione violenta
contro i parassiti della societa`;
tra questi, spesso sono considerati tutti coloro che si consacrano al Signore, e c'e`
nella gente
l'idea che la vita religiosa e` una vita comoda e senza problemi sotto
l'aspetto economico. Forse questo ha provocato negli ultimi
tempi una certa crisi in
religiosi e sacerdoti, con il conseguente impegno in compiti assistenziali, culturali e
lavorativi a tempo
pieno (vedi per esempio i "preti operai").
Anche qui appare subito la doppia faccia del problema. Non si nega che forse
alcune accuse sono fondate, non si nega che il
monaco deve tener conto di questa realta`
sociale e adattarvisi, cercando di offrire una testimonianza di un lavoro (di
qualsiasi
genere) serio e impegnato. D'altra parte, pero`, il monaco non puo`
contentarsi solo di non essere un "parassita" della societa`:
deve essere un testimone
vivo della presenza di Cristo nel lavoro.
Oggi la societa` corre il rischio di essere vittima delle sue stesse conquiste; il
desiderio di possedere sempre di piu`, puo` portare
a una idolatria del lavoro,
fino a rendere l'uomo schiavo e abbrutito. Il monaco deve dimostrare di saper lavorare
seriamente e con
impegno, ma nella pace, nella liberta` di spirito, facendo del lavoro non
uno strumento di dominio, ma di servizio.
Il principio di fondo e` che ogni lavoro, per essere autenticamente monastico, deve
permettere al monaco di essere sempre fedele
alla sua vocazione. Ora, come nel monachesimo
antico, si puo` cadere nei due eccessi: da una parte, sotto l'influsso della
mentalita` efficientista ed economicista di oggi, si puo` correre il rischio del troppo
lavoro, del lavoro affannoso che assorbe
completamente le forze dei monaci,
cosi` da non lasciare tempo e spazio (psicologico) per la lettura, lo studio, le riunioni
di
famiglia, l'aggiornamento, ecc...
http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Non dimentichiamo che chi viene al monastero, come postulante o come ospite, spera di
trovarvi un clima di pace, di serenita`, di
uomini centrati in Dio, e non un clima da
grande azienda piu` o meno prospera o da societa` per azioni. Non si puo` organizzare il
monastero partendo dalla efficienza economica, ma, al contrario, dal criterio della schola
dominici servitii, luogo dove soprattutto si
cerca Dio.
D'altra parte, si puo` correre l'altro rischio - come fu ugualmente nel monachesimo
antico - di una mancanza di lavoro, il rischio
che l'"otium cum
dignitate" per "vacare Deo" si trasformi in un "dolce far niente"
di gente che vive di rendita. La pace degli individui
e delle comunita` si ottiene quando
si giunge all'equilibrio con una armonica combinazione tra Opus Dei, lectio
divina e lavoro,
come sapientemente aveva previsto S.Benedetto.
E allora, quali potrebbero essere i lavori piu` appropriati per i monaci? (Riassumiamo
l'ultima parte dell'articolo di PASCUAL in
"Yermo" 13 (1975) nn.1-2, pp.349-351;
il volume raccoglie gli Atti della XII Settimana di studi monastici del 1971 nel monastero
di
Leyra in Navarra, incentrata tutta sul lavoro monastico).
Il principio generale e` che, salvi i diritti primordiali dell'Opus Dei, della lettura
e degli esercizi regolari, il tempo restante si dedichi
al lavoro, lavoro compatibile con
la vita monastica. Bisogna tener conto che il giovane che entra in monastero oggi,
desidera una
vita di maggior raccoglimento, di unione con Dio in maggiore silenzio e si
mostra piu` perplesso di fronte a cose che forse una
volta entravano, come elementi
accessori, in molte vocazioni, ad esempio la grandiosita` e la fama del monastero, le
investigazioni scientifiche, ecc., e si sente deluso qualora dovesse ritrovarsi nel
monastero con lo stesso ritmo agitato, frenetico,
con tensioni, ansie, che ha lasciato nel
mondo. Non si vuol dire con questo che desidera una vita comoda (la vita in monastero
con
l'orario e la vita comune, se si segue con impegno, non e` affatto una vita comoda), ma
solo che ci sia una gerarchia di valori
in persone e in ambiente che si dicono votati al
servizio di Dio.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
CONCLUSIONE
Non crediamo di aver esaurito in questa esposizione tutti gli aspetti del lavoro in
rapporto alla vita monastica. Il problema e` molto
complesso e ha mille facce, che vanno
tenute presenti. Al di la` delle varie questioni e difficolta`, rimane il fatto per il
monaco di
inserire la sua attivita` - qualunque essa sia - in una visuale di
fede (alla luce del "Vangelo del lavoro" ultimamente messo in risalto
dalla
enciclica Laborem Exercens, soprattutto nn.24-27), ricondurla al mistero pasquale
di morte e risurrezione di Cristo, con
l'aspetto di fatica-sacrificio e di creativita`-
realizzazione, impegnandosi seriamente, ma sempre proiettato in una dimensione
ultraterrena.
Il monaco deve sentire che il lavoro e` una componente essenziale della giornata
monastica e diventa lavoro orante, perche` le
ore dell'Ufficio divino santificano tutto
cio` che il monaco fa: "Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore
e non
per gli uomini" (Coloss.3,23) e "In omnibus glorificetur Deus"
(1Piet.4,11 citato in RB.57,9).
****
NOTA BIBLIOGRAFICA
GIOVANNI PAOLO II, Laborem Exercens <=LE>, enciclica sul lavoro, 1981,
nn.24-27.
BROWER (De) A., Vivre du travail des ses mains in "Lumiere du Christ"
(1969) 33-37.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
LECLERCQ J., Economia monastica occidentale, in DIP III (1976) 1020-1027 (molto
interessante).
LENTINI A., S.Benedetto, La Regola, 2da Ed., Montecassino 1980, 418-419, note al
v.1; 423-424 note a vv.7-8; 434-435; 428
nota al v.16.
LIPARI A., Tunc veri monachi sunt.... La verita` principio della vita
benedettina in "Benedictina" 28 (1981) 577-590.
LUNARDI G., L'ideale monastico nelle polemiche del sec.XII sulla vita religiosa,
Ed.La Scala, Noci 1970, 116-131.
WARREN (De) H.B., Le travail manuel chez les moines a travers les ages in
"La vie spirituelle ascetique" 52 (1932) 80-123.
INTRODUZIONE
Il motto divenuto tradizionale per i Benedettini (ma non c'e` nella Regola, ne` e`
stato coniato dai monaci, ma applicato ad essi da
altri), cioe` "ORA et LABORA",
passa sotto silenzio la "LECTIO DIVINA" (=l.d.), alla quale la Regola di
S.Benedetto (=RB) e tutta
la tradizione monastica accordano una particolare attenzione.
San Benedetto (=SB), stabilendo nel c.48 l'orario del monaco,
distribuisce tra il lavoro e
la l.d. il tempo rimasto libero dalla preghiera. Per molto tempo, durante il periodo
patristico e l'alto
medioevo, la pratica della l.d.fu continua e molto sentita tra i
monaci e fuori; man mano, a partire dal sec.XII, divenne piu` rara e
scomparve del tutto
all'epoca del massimo sviluppo della "devotio moderna" (sec.XV), quando
la spiritualita` trovo` una forma di
preghiera nuova e l'orazione mentale divenne un
esercizio di pieta` che non si alimentava piu` principalmente alla Bibbia. Tutto
questo e`
durato fino al movimento biblico del sec.XX con il ritorno alla S.Scrittura; tra il 1940 e
il 1950, con lo sviluppo del
movimento liturgico francese, la formula si diffuse di nuovo
largamente tra i monaci e fuori.
Vaticano II, che e` tutta nutrita di termini e di idee fornite dalla tradizione della
l.d. nelle diverse epoche; si puo` dire che tutta la
parte finale della DV ne raccomandi
la pratica. Nelle "Proposte" approvate dal Congresso degli Abati del 1967
("La vita
benedettina"), la l.d. e` presentata come una delle attivita`
principali del monaco, insieme alla preghiera e al lavoro. Cosi` si e`
tornati -
almeno a livello di convinzione - alla triplice articolazione della giornata monastica:
PREGHIERA - LECTIO - LAVORO.
Che cos'e` dunque la l.d.? E` un modo particolare di accostarsi alla Parola di Dio, in
vista soprattutto della preghiera, e l'ascolto-
risposta di (quindi colloquio con) Dio
attraverso la parola scritta: "Nei libri sacri il Padre (...) viene incontro ai suoi
figli e discorre
con loro" (DV.21). Per i Padri della Chiesa e del monachesimo era
una cosa familiare e normale: il contatto continuo, amoroso con
la parola di Dio, fino ad
assimilarla e a farsene assimilare. Per questo nella Regola non si puo` trovare una
dottrina sistematica
della l.d., perche` questa e` data per scontata; si dice soltanto
ripetutamente (RB.48,1. 4. 10. 13. 14. 17. 18. 22) "vacare lectioni"
<dedicarsi alla lettura>, oppure "in lectione divina" <nella
lettura divina>. In senso proprio e stretto, denotava la lettura della
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
S.Scrittura.
Fin dalle origini del monachesimo, la Bibbia e` stata il libro dei monaci
anacoreti e cenobiti; i grandi maestri inculcarono la
necessita` della lettura frequente e
assidua; chiamata "alimento celestiale", "pane caduto dal cielo",
"pane e sangue di Cristo", la
Scrittura costituiva lo strumento imprescindibile
- e spesso unico - della formazione del monaco, e del suo itinerario spirituale fino
all'incontro con Dio. Divinae vacare lectioni <dedicarsi alla (o "essere
libero" per la) lettura divina> era la formula con cui si
indicava questa lettura
approfondita del monaco, questa assimilazione della parola di Dio attraverso la lettura.
S.Pacomio aveva stabilito che tutti nel monastero sapessero a memoria alcuni passi
della S.Scrittura e, come minimo, il NT e il
salterio; questo era il programma comune, e
generalmente venne rispettato in seguito da tutti i monaci.
I monaci soprattutto vedevano la loro vita in questa linea: vita monastica come "Historia
Salutis" <Storia della Salvezza>. (Si veda,
su questo, lo studio
fondamentale e bellissimo di B.CALATI, Historia salutis, in: Vita Monastica 12
(1959), n.56, pp.3-48, l'intero
fascicolo). Tutta la Scrittura, quindi, va vista
nell'unita` dell'AT e del NT, alla luce del mistero di Cristo e della Chiesa: l'AT va
letto
come preparazione al Nuovo, come una grande storia profetica, unica grande profezia
che annuncia Cristo, la Chiesa e noi, cioe`
che Cristo, la Chiesa e noi esprimeremo in
tutta la pienezza di fede, nella speranza del compimento glorioso. Cristo e` la chiave
dei
Testamenti, perche` Egli e` la Parola definitiva di Dio, la Parola <il Verbo>
fatta carne nella pienezza dei tempi, in cui tutte le
promesse di Dio e le parole
precedenti hanno avuto il loro compimento: "Lui che cerco nei libri", diceva
S.Agostino.
Ma il mistero di Cristo continua nel mistero della Chiesa e nella vita di ogni singolo
credente, che sono la continuazione-
attualizzazione del mistero della salvezza. Quindi
tutta la Scrittura viene letta come annuncio-profezia di Cristo, della Chiesa, del
cristiano. Questo e` il metodo dei Padri, dalla cui riflessione e` scaturita la dottrina
dei diversi "sensi biblici": la tradizione
medioevale ne conosce quattro:
Un esempio tipico di questo senso spirituale a cui e` diretta la l.d., l'abbiamo nel II
Libro dei Dialoghi. E` il "vir Dei Benedictus",
specialmente, che Gregorio
ci presenta, come la formula piu` viva del senso spirituale e del senso pieno della
Scrittura. Benedetto
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
"L'uomo di Dio Benedetto ebbe un unico Spirito: quello di Colui che mediante la
grazia della redenzione, riempi` i cuori di tutti gli
eletti (...), di lui e` scritto:
'dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto'" (II.Dial.c,8).
Cosi` i Padri intendevano questa unione intima con la Scrittura. Bisogna vivere tutta
la Bibbia, partecipare interamente a cio` che
si legge. Si veda ancora questo testo
meraviglioso di Cassiano: "Fortificato da questo cibo, (il monaco) penetra a tal
punto nei
sentimenti espressi dai salmi, che egli li recita ormai non come composti dal
profeta, ma come se fosse lui stesso l'autore, come
un'opera personale nella piu` profonda
compunzione; o almeno pensa che i salmi sono stati composti apposta per lui, e capisce
che
cio` che i salmi esprimono, non si e` avverato solo in tempi lontani nella persona del
profeta, ma trova anche in lui al momento
presente il suo compimento" (Coll.X,11). Se
tutto cio` e` vero dell'AT, a piu` forte ragione vale per il NT, per Cristo; il Vangelo ci
offre l'occasione di penetrare il consiglio di Paolo: "Abbiate in voi gli stessi
sentimenti di Cristo" (Filip.2,5). Ecco come tutta la
Bibbia si legge come un unico
filo conduttore, con l'occhio cioe` illuminato dal carisma profetico, come mistero di
storia sacra,
storia della salvezza, che dovra` compiersi fino al ritorno glorioso di
Gesu`.
Con questa mentalita` dobbiamo accostarci anche oggi al sacro testo. Il Concilio
ricorda che la S.Scrittura deve "essere letta e
interpretata con l'aiuto dello stesso
Spirito, mediante il quale e` stata scritta" (DV.12). E` la disposizione fondamentale
davanti alla
parola di Dio: va letta nella fede, va penetrata attraverso l'intervento
dello Spirito Santo, come parola che viene da Dio e a Dio
conduce. Il monaco, che deve
essere soprattutto l'uomo dell'ascolto, e` attento alla parola di Dio per accoglierla,
custodirla,
metterla in pratica, produrre frutti (Mt.13,23). "Scopo della lectio
divina e` la ricerca di Dio nella parola scritta.
Percio` la lectio in tutta la tradizione monastica e` ritenuta uno dei mezzi piu`
comuni e caratteristici della vita dei monaci" (La Vita
Benedettina, Congresso
degli Abati 1967, n.19 c). Riportiamo anche quest'altra recente descrizione della l.d.:
"Si tratta di una
lettura meditata, soprattutto della Bibbia, e prolungata in
preghiera contemplativa. Questo tipo di lettura sapienziale ha occupato in
ogni tempo un
posto importante, per non dire essenziale, nella vita spirituale, in particolare nella
vita dei monaci" (J.M.DELVAUX,
Lectio divina, in Collectanea Cisterciensia 33
(1971) 104).
Notiamo quindi che la l.d. non e` solamente la lettura o lo studio della Scrittura: e`
la ricerca di Dio nella sua parola scritta. Una
lettura, sia pur spirituale, che ha per
scopo la preparazione di una conferenza, di un articolo o dell'omelia, oppure la
curiosita`
erudita o estetica, non risponde alla definizione della l.d. Essa vale non
per quello che ci fa acquisire (avere), ma per quello che ci
fa diventare (essere).
Ecco perche` si parla di lettura "sapienziale" (e la 'Sapientia' e` gusto
delle cose di Dio, un dono dello Spirito
Santo), e` una contemplazione delle Scritture,
una lettura in vista della preghiera. Allora e` una lettura sacra e divina. Tradotta in
italiano, l'espressione perde un po` della sua forza: "lettura", per noi, e` un
termine troppo superficiale; "studio" e` troppo
intellettuale;
"meditazione" forse sa troppo di psicologistico e di pietistico> E`
preferibile lasciare l'espressione "lectio divina" (che
include e trascende
queste tappe, come vedremo), oppure tradurre: "pregare la Parola" (come
nel titolo del libro di E.BIANCHI).
- In Neemia 8,1-12 possiamo notare una specie di teologia della liturgia della
parola. Dopo il ritorno dall'esilio, inizia una nuova
fase storica per tutto Israele, e
questo avviene con una solenne liturgia a cui tutto il popolo e` invitato (vv.1-2). Dopo
una
benedizione di lode al Signore, si legge la parola di Dio per una intera giornata,
brano per brano, traducendo le parole ebraiche al
popolo che conosceva solo l'aramaico,
con spiegazione e commento a cura di Esdra e dei leviti. E il popolo, pensando alla sua
infedelta` all'alleanza, e` mosso a pentimento e piange. Ecco una caratteristica della
l.d.: nella sua parola, Dio si fa presente,
tocca e penetra i cuori; allora l'uomo e`
disarmato di fronte alla parola di Dio, l'uomo si arrende, immediatamente appare la
contraddizione tra l'iniziativa da parte di Dio e l'infedelta` da parte dell'uomo; ed ecco
il pentimento; ma e` un pianto salutare per la
salvezza; quindi viene la parola di
consolazione: "Non piangete..." (v.9).
- In Luca 4,21, Gesu` ci da` un approfondimento del metodo della l.d.: primo,
perche` Egli realizza in se` quello che le Scritture
dicevano; secondo, perche` Egli
riferisce all'"oggi" la parola di Dio. Il brano di Isaia 61,1-2 trova il suo
"oggi" nella proclamazione
di Gesu`: "Oggi si compie...". Ebbene, la
parola di Dio scritta nei libri sacri non e` stata detta - lo sappiamo - solo nel momento
in
cui Egli parlo` al suo portavoce, ma e` detta (nel senso piu` forte) ogni volta che il
testo viene proclamato, in qualunque forma,
nella celebrazione liturgica (cf. SC.7; DV.21)
o anche nella lettura privata, perche` sempre "la Parola di Dio e` viva,
efficace..."
(Ebr.4,12; cf. Is.55,10-11).
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Dunque Dio parla a me, qui, in questo momento. L'attualizzazione della Parola di Dio
per me, "hic et nunc", e` il perno della l.d.
"Oggi si compie in voi questa
Scrittura": e` il passaggio del Mar Rosso, come la manna del deserto, il vino
miracoloso di Cana, la
guarigione del sordomuto: "Oggi si compie...". Ecco
perche` si parla di lettura personale, di un confronto continuo con la Scrittura.
Secondo una definizione assai diffusa nel medioevo attraverso Gregorio Magno, ma la cui
partenita` spetta a S.Agostino, la Bibbia
e` come uno specchio in cui si deve veder
riprodotta l'immagine da seguire e, se da questa si discosta la propria condotta, e`
dovere del singolo ridurre o eliminare lo scarto che rende l'uomo difforme dal modello
biblico. Il Maestro interiore rivolge a
ciascuno un messaggio personale e unico, ma cio`
attraverso un messaggio universale, anteriore a noi, che nella Bibbia e`
proposto a tutti;
tocca quindi a ciascuno farlo individuale, interiorizzarlo, attualizzarlo per se`. Nei
racconti e nei libri storici, il lettore
confrontera` la sua esperienza con quella dei
personaggi biblici, vedra` l'iniziativa di Dio e la risposta dell'uomo: tutto servira`
come simbolo della realta` della vita cristiana.
Fra le tante parti cosi` diverse che compongono la Bibbia, ciascuno avra` delle
legittime preferenze: chi si nutre molto bene
dell'AT, chi del NT, a qualcuno piace
particolarmente S.Paolo, a qualcun altro piacciono i Vangeli, chi preferisce i Sinottici,
chi
Giovanni, qualcuno si ritrova meglio nei libri sapienziali o nei salmi, qualcun altro
nei Profeti. Perche` nella Bibbia si trova tutto, ci
si puo` riferire a tutti i casi: che
ciascuno ponga davanti al sacro testo le questioni e i problemi suoi, e Dio dara` la
risposta a lui
adatta. Perche` la l.d. e` un dialogo d'amore, il cuore si lascia toccare
da cio` che Dio dice; Dio parla e io rispondo: e` una
conversazione con una Persona Viva
che mi interpella e mi coinvolge in una comunione di vita. Questa e` la grande, suprema
esegesi. Questo e` il succo della l.d.
Illustriamo ora i vari atti in cui si articola la l.d., come sono stati consacrati
dalla tradizione monastica, in quanto si tratta di una
lettura meditata e orante della
parola di Dio. Nel sec.XII, Guigo II il Certosino ha cosi` sintetizzato le tappe di
questo ascoltare-
rispondere, che e` poi l'arco di tutta la vita spirituale: 1. Lectio
- 2. Meditatio - 3. Oratio - 4. Contemplatio. (Una traduzione
italiana
della lettera di Guigo, "Scala claustralium" <La Scala dei
monaci>, si trova in appendice al libro di E.BIANCHI, Pregare la Parola,
pp.75-91).
1. Lettura <Lectio>.
E` il punto di partenza. Per giungere a quella intimita` con la sacra pagina, intimita`
di cui si e` parlato sopra, e` necessaria una
lettura continua e organica. Tutti gli
autori monastici insistono su questo punto, perche` esso e` la condizione preliminare per
stabilire col testo un rapporto personale e proficuo. Allora bisogna applicarsi al testo
con attenzione, con calma, e soprattutto
accostarsi nello spirito. Prima di iniziare la
lettura, bisogna mettersi in una disposizione particolare e invocare lo Spirito Santo che
venga ad illuminarci. Un autore moderno dice che la parola di Dio ha bisogno di una
"epiclesi" (come il pane e il vino). Nella l.d. il
credente deve fare questa
epiclesi in unione con la grande epiclesi eucaristica. Ci vuole poi fedelta`, continuita`,
assiduita`.
Bisogna dedicare alla l.d. un tempo, e un tempo adatto, non i ritagli
di tempo, nella fretta e nella distrazione. E questo non e` facile
oggi; puo` diventare un
vero esercizio di ascesi. Deve essere una lettura assidua: e` una condizione
indispensabile per la l.d.
Ci vuole dunque assiduita`: leggere e rileggere, perche` la parola di Dio penetri. (Concretamente, si potrebbero scegliere due
strade: o seguire il lezionario
quotidiano, cosi` si ha anche l'aggancio con la liturgia del giorno; oppure fare la
lettura continuativa
dei singoli libri della Scrittura; ma anche qui ognuno ha la sua
esperienza, lo Spirito soffia dove vuole!). Come risultato di questo
contatto continuo
con la parola di Dio, si finisce per subire una sorta di condizionamento psicologico con
le idee, le immagini, le
frasi stesse della S.Scrittura, fino a farci acquistare cio` che
si puo` chiamare una "mentalita` biblica", che influisce continuamente
sulle
nostre scelte.
2. MEDITAZIONE <Meditatio>
Secondo momento, che per altro non si distingue chiaramente dal primo: si passa
insensibilmente dalla lettura
all'approfondimento. Per gli antichi, la
"meditatio" non era quello che noi intendiamo oggi per "meditazione",
ma era un esercizio di
lettura, di ripetizione, anche pronunziata, delle parole fino a
imparare il testo a memoria; "meditatio" nel senso di "exercitatio",
ed
era un esercizio in cui interveniva la persona intera: il corpo, perche` la bocca
pronunziava il testo; la memoria che lo riteneva;
l'intelligenza che si sforzava di
penetrarne il significato; la volonta` che si proponeva di metterlo in atto nella vita
pratica. I Padri
parlavano anche di "masticare" la Parola, per essi c'era
la famosa "ruminatio" della S.Scrittura, cioe` ritornare sul testo,
richiamarne le parole, ritrovare il tema centrale e imprimerlo profondamente nel cuore. Le
testimonianze sono numerosissime:
Atanasio a proposito di Antonio il Grande, Girolamo,
Ambrogio, Agostino, Isidoro,... su su fino al medioevo (nei libri elencati in
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
bibliografia
si possono trovare molti testi): cercavano il "sapore" della Scrittura,
non la scienza. Giovanni di Fecamp (sec.XI) parla
di "gustarla in ore cordis"
<'nella bocca del cuore', ma l'espressione e` intraducibile>. Tutte le testimonianze
dei Padri vanno viste
alla luce del salmo 118: "Nel silenzio della notte medito la
tua parola..., nel cuore della notte mi alzo per leggere la tua parola...,
medito la tua
parola..., desidero la tua parola..., la tua parola e` la mia gioia..., giorno e notte
medito la tua parola..., la tua parola
mi fa vivere..." (salmo 118, passim).
Come non richiamare qui, quale modello singolare, l'atteggiamento meraviglioso di Maria
SS.ma? Lei, l'umile ancella del Signore
(Lc.1,38), che ha creduto alla Parola
(Lc.1,45), se ne stava in silenzio, ascoltando, meditando e custodendo nel suo cuore cio`
che
faceva e diceva Gesu` (Lc2,19.51; 11,27-28).
3. PREGHIERA <Oratio>
I momenti precedenti quasi conducono alla preghiera. In realta` gia` quanto detto
finora e` una forma di preghiera; si tratta di
prenderne coscienza, ed e` la risposta
alla lettura, si entra in conversazione con Dio; la parola e` venuta in noi ed ora
torna a Dio
sotto forma di preghiera. Ed e` questa la vera preghiera cristiana, quella che
sgorga dal cuore al tocco della divina parola. "Cerca
di non dire niente senza di
Lui" - dice S.Agostino - "ed Egli non dira` nulla senza di te" (Esposizione
sul salmo 85,1); cioe`, prega
con la parola di Dio ed Egli allora non mandera` a vuoto in
te la sua Parola. Si tratta di fare nostre le parole della Scrittura, farle
entrare nel
cuore, e poi restituirle a Dio dopo averle segnate con la nostra adesione. Ascoltiamo
ancora S.Agostino: "Se il salmo
e` preghiera, pregate; se e` gemito, gemete; se e`
riconoscente, siate nella gioia; se e` un testo di speranza, sperate; se ispira il
timore,
temete" (Esposizione sul salmo 33). E` una risposta nell'umilta`, nella piccolezza,
ma anche nella franchezza che e`
possibile proprio quando si parla a Dio con le sue
parole. Lo ha ben compreso l'intelligenza liturgica della Chiesa che ci mette
sulle labbra
sempre parole ispirate. (Penso sia superfluo - tanto appare scontato da quanto detto -
ricordare l'aggancio tra l.d. e
liturgia: la l.d. e` preparazione e, nello stesso
tempo, prolungamento della liturgia della parola. (Vedi soprattutto: AA.VV. L'oggi
della Parola di Dio nella Liturgia, Torino, 1969).
Abituiamoci dunque a nutrire la nostra preghiera di tutto quel ricco deposito che la
Parola di Dio, letta nel silenzio, o ascoltata nella
proclamazione liturgica, ha lasciato
in noi.
4. CONTEMPLAZIONE <Contemplatio>
Non e` qualcosa a cui arriviamo noi, con sforzi personali, e` un dono dello Spirito
Santo che germoglia sulla nostra lettura pregata.
Non e` estasi, ne` esperienza
straordinaria, o stato mistico, o visione, ma e` esperienza viva di fede, e` Cristo che si
manifesta
nelle Scritture. Egli e` cosi` entrato nella parte piu` intima del nostro
essere: non ci resta che guardarlo e contemplarlo, come
Maria la Madre di Gesu` a
Betlemme, e come Maria di Betania seduta ai suoi piedi (Lc.10,39). Ogni pagina della
Scrittura ci svela
questo Cristo e ce lo fa emergere nella l.d.
Gesu`, nel Vangelo di Giovanni, promette l'esperienza di Dio a chi lo ama veramente e
accoglie la sua parola, quando parla di un
"manifestarsi" a lui (Giov.14,21.23);
e ancora dice: "Questa e` la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui
che hai
mandato, Gesu` Cristo" (Giov.17,3). Sappiamo tutta la forza di quel verbo
"conoscere" <ebraico "jada`, intraducibile nelle nostre
lingue), un 'conoscere' frutto di amore, entrare in profonda comunione, creare un rapporto
di intimita` con Lui, un 'conoscere
sapienziale', quella conoscenza di Cristo di
cui tanto spesso parla S.Paolo (Efes.3,10; Filip.3,10; Colos.1,10; 2,2-3; 3,10; ecc.) e
che si identifica con la fede adulta di ogni cristiano; essa e` l'oggetto della preghiera
dell'Apostolo per i fedeli: "(...) potentemente
rafforzati dal suo Spirito nell'uomo
interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e (...) siate in grado di conoscere
l'amore
di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perche` siate ricolmi di tutta la pienezza
di Dio" (Ef.3,16-19). Questa e` la sostanza di
cio` che Cassiano e la tradizione
monastica chiamano la "oratio pura", questa e` la contemplatio
nell'ultima tappa della l.d.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
Una prima difficolta` deriva dal fatto stesso della lettura, di come si serve della
lettura l'uomo d'oggi. L'uomo moderno legge
velocemente; la civilta` moderna esige
velocita` nella stessa lettura, la quale e` soprattutto "informativa", tende a
far sapere il
maggior numero di cose nel minor tempo possibile: la l.d., invece, deve
essere lenta. La lettura che cerca di acquistare nuove
conoscenze lo vuole fare nella
maniera piu` veloce: la l.d., al contrario, e` a base di "ruminazione",
cioe` della lenta assimilazione
del testo letto. L'uomo moderno, poi, legge per agire,
si documenta in vista dell'azione, la sua lettura guarda all'efficacia,
all'efficienza: la
l.d., invece, deve essere disinteressata. L'uomo moderno, inoltre, legge per
distrarsi: di qui la moda (anche nei
films e in TV) dei romanzi d'evasione, dei gialli
intricati, della fantascienza, per uscire appunto dal quotidiano, dalla vita di sempre:
la
l.d. e` una lettura impegnata, in cui uno si sente realmente e direttamente
coinvolto. E ancora l'uomo moderno si informa e si
distrae collettivamente: fino a
pochi anni fa` c'era la civilta` del libro che sviluppa un'informazione individuale, ora,
con i mass-
media, la civilta` attuale produce un tipo di informazione collettiva: la l.d.,
invece, e` una lettura solitaria, un rapporto
personalissimo tra pagina sacra e
lettore.
Altra difficolta`: non dimentichiamo che la S.Scrittura non sempre e` cosi` facile o
immediata; richiede una certa preparazione,
studio, e quindi tempo. Un'altra difficolta`
e` data dal fatto che i testi dei Padri non sono cosi` facilmente gustabili, se non si ha
una
determinata formazione, se non si entra in una certa mentalita`. Alcune
interpretazioni allegoriche sembrano a noi un po` ricercate
e forzate, non ci danno il
senso dell'immediato, dell'attualizzazione ovvia ed evidente; siamo abituati poi a un
linguaggio diverso,
ecc. Tuttavia, non dobbiamo lasciare (anzi dobbiamo riscoprire) i
Padri: il loro metodo e` il migliore per una lettura orante della
Bibbia; e` un
cibo duro, ma solido e nutriente.
CONCLUSIONE
S.Gregorio Magno rimproverava dolcemente Teodoro, il caro amico medico, perche` non
trovava piu` il tempo di attendere
quotidianamente alla l.d. come si era impegnato:
"ogni giorno medita le parole del tuo Creatore. Conosci il cuore di Dio nelle
parole
di Dio" <disce cor Dei in verbis Dei, Epistola 31,54>. Quel povero
Servolo, paralitico e analfabeta, che con grande sacrificio
si era procurato il codice
della Scrittura e se la faceva leggere dai suoi visitatori, e` proposto da Gregorio come
esempio
(IV.Dial.15; Omelie sui Vangeli 15,5). All'abate Giovanni raccomanda che attenda
"ad lectionem atque orationem" <alla lettura e
all'orazione>; e ai suoi
monaci rivolge lo stesso invito, lamentandosi che non li vede "ad lectionem vacare"
(Epistola 3,3). Il santo
abate Equizio, che ha tanti punti in comune con S.Benedetto, e`
presentato da Gregorio nella sua predicazione peregrinante con
l'immancabile codice della
S.Scrittura (I.Dial.4). E c'e` l'esempio fulgido di Gregorio stesso, Pontefice, ma fedele
come un monaco
alla l.d.; nella predicazione, commentando Ezechiele, fa un umile e
commovente esame di coscienza personale di fronte alla
parola di Dio: "Tacere non
posso )...; parlero`, parlero` affinche` la spada della parola di Dio (...) arrivi a
trafiggere (...); parlero`,
parlero` affinche la parola di Dio risuoni anche contro di me
per mezzo mio" (Omelia XI su Ezechiele, libro I, n.5).
Venendo poi a noi monaci silvestrini, troviamo splendidi esempi di l.d. nella Vita
Silvestri e nelle Vite dei suoi primi discepoli. La
ruminatio verbi sia anche per
noi nutrimento e consolidamento spirituale. Se non ne comprendiamo l'utilita`, il Signore
ci faccia la
grazia di sentire, come Agostino in una serata d'agosto del 386 in un
giardino a Milano: "Tolle, lege" <prendi e leggi>! (Confes.VIII,
12,29).
Alcune indicazioni pratiche per "pregare la Parola" si possono trovare in
E.BIANCHI, Pregare la Parola, pp.67-69).
*******
NOTA BIBLIOGRAFICA
--- La vita benedettina. Proposte approvate dal Congresso degli Abati 1967,
n.19.
http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]
Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
AA.VV., Lectio Divina, vari artt. in: Lettres de Liguge` 154 (1972) 1-37.
AA.VV., L'oggi della Parola di Dio nella Liturgia, LDC Torino 1969.
CASEY M., Sette principi sulla Lectio Divina in Inter Fratres 30 (1980)
158-163.
GIURISATO G., Lectio Divina oggi, Parma 1986 (N.B. In appendice, pp.29-38, c'e`
un'ampia bibliografia (153 titoli) sulla l.d.
OURY G., Cercare Dio nella sua Parola. La Lectio Divina, Milano 1987.
PANTONI A., La lectio Divina nei suoi rapporti con la Bibbia e la Liturgia in Vita
Monastica 14 (1960) pp.167-174.
SUTTO I., La comunita` monastica scuola di preghiera. Formazione dei suoi membri,
Relazione al Convegno di Collevalenza
1981.
ZEVINI G. La lettura della Bibbia nello Spirito (DV 12) in Parola Spirito e
Vita 4 (1981) pp.265-278.
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Commento alla Regola di San Benedetto di Don Lorenzo Sena, O.S.B.Silv. (Monastero di Montefano - Fabriano)
http://sanvincenzo.silvestrini.org/regola/commento.htm[03/03/2018 4:50:47]