VOLUME  2 I classici • Giacomo Leopardi

Il Neoclassicismo e il Romanticismo Canti, Ultimo canto di Saffo

Giacomo Leopardi
Ultimo canto di Saffo
Opera: Canti, IX Metro: canzone libera
Punti chiave: La bellezza e il sentimento di esclusione della poetessa
Il destino di sofferenza dell’uomo
Il parallelismo tra Saffo e Leopardi

«O pera di 7 giorni», composta nel maggio

1822 secondo l’autografo di Leopardi,
l’Ultimo canto di Saffo venne pubblicata nell’e-
dizione bolognese del 1824 e successivamente nei
Canti (1831). Nell’edizione definitiva delle poesie
leopardiane (1845) occupa la nona posizione, dopo
l’Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere
umano. L’Ultimo canto di Saffo chiude così la
serie delle canzoni, probabilmente secondo un pro-
getto ben chiaro al poeta: «Leopardi stesso, pospo-
nendo nell’ordine dei suoi Canti la canzone di Saffo
all’Inno ai Patriarchi, disse in certo modo che la
morte di Saffo era per lui l’avvenimento decisivo che
segnava la fine di un periodo poetico» (Zottoli).
La canzone ha come protagonista Saffo, la poetes-
sa greca vissuta tra il VII e il VI secolo a.C., e trae
spunto dalla vicenda narrata nella XV delle Eroidi
di Ovidio, nella quale il poeta latino rievoca l’amo-
re disperato di Saffo per il giovane Faone, che la di-
sprezzava per la sua bruttezza. La critica è concorde
nel mettere in relazione questa canzone con il Bruto
minore, in quanto entrambe le poesie sono dedica-
te al tema del suicidio. L’argomento è però trattato
diversamente nei due testi. Nel Bruto minore as-
sistiamo alla tragedia personale di un uomo, Marco
Giunio Bruto, che dopo la sconfitta di Filippi (nel 42
a.C. che vide fronteggiarsi lui e Cassio, paladini della
repubblica, contro Antonio e Ottaviano) si toglie la
vita in un eroico segno di protesta verso la società del
tempo, preannunciando «la catastrofe della repubbli-
ca romana, del mondo e, più leopardianamente, della
Storia» (Dotti). Il suicidio di Saffo è invece la scon-
fitta personale di una donna alla quale è negata la
felicità per il fatto di possedere un aspetto sgradevole.

Schema metrico: canzone libera, divisa in Placida notte, e verecondo raggio

quattro strofe, ciascuna composta da 18
versi, tutti endecasillabi a eccezione del
penultimo, settenario, che rima con l’ul-
timo verso. La canzone presenta anche
assonanze variamente disposte.
1. Placida: tranquilla, serena. Scrive il
critico Ugo Dotti: «È la prima delle gran-
di aperture invocativo/evocative tipiche
della poesia leopardiana, contrassegnata
dall’aggettivo anteposto al sostantivo»;
verecondo: puro, casto.
2. cadente: che sta tramontando; tu: il
pianeta Venere (o Lucifero) invocato da
Saffo sul far del mattino, quando l’astro
risplende in modo più intenso; per questo
motivo è detto nunzio del giorno (v. 4).
3. rupe: si tratta del dirupo di Leucade,
sul mar Ionio, dal quale secondo la leg-
genda Saffo si gettò in mare.
4-6. oh dilettose... miei: o immagini (del-
la natura, sembianze) fonti di piacere (di-
lettose) e care ai miei occhi, fino a quando
(mentre) mi furono sconosciuti (ignote:
«non ancora sperimentate», Leopardi) i
tormenti (erinni) e il [mio] destino (fato)
[ostile]. La coppia di aggettivi dilettose e
care, si riferisce al sostantivo sembianze
del v. 6: anche nel momento che precede
la sua morte, Saffo ammira lo spettacolo
della natura che un tempo le dava gioia.
Il termine erinni, qui usato in senso lato, sta
della cadente luna; e tu che spunti
fra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno; oh dilettose e care
5 mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
sembianze agli occhi miei; già non arride
spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
quando per l’etra liquido si volve
10 e per li campi trepidanti il flutto
polveroso de’ Noti, e quando il carro,
grave carro di Giove a noi sul capo,
tonando, il tenebroso aere divide.
per “passioni tormentose”. Erinni è l’altro campi ondeggianti (trepidanti) la corren-
nome delle Furie, che nella mitologia clas- te impetuosa (flutto) dei venti (Noti), che
sica erano le personificazioni della vendetta. innalza la polvere (polveroso) e quando il
6-7. già non… affetti: ordina così: spet- carro, il pesante carro di Giove (metafora
tacol molle (una dolce vista) non arride per “tuono”) squarcia (divide) il cielo oscu-
(piace) già (più, ormai) ai disperati affetti ro (tenebroso aere) tuonando sopra la mia
(ai sentimenti turbati dalla sofferenza). testa (nostro capo). Giove era, secondo la
Spettacol molle è una sinestesia. mitologia classica, l’artefice dei tempora-
8-13. Noi... divide: un’insolita gioia (in- li, poiché scagliava i tuoni dal suo carro.
sueto... gaudio) mi (noi) rende lieta (rav- Etra liquido, che sta per “cielo”, è sineste-
viva) quando (allor... quando) turbina (si sia, poiché Leopardi attribuisce all’aria le
volve) nel cielo (etra liquido) e sopra i qualità di una superficie liquida.

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Il Neoclassicismo e il Romanticismo
14-15. Noi... tra’ nembi: a me (noi) pia-
ce (giova, latinismo) immergermi (natar,
usato qui in senso figurato) tra le nuvole
tempestose (nembi) e le valli profonde.
15-18. e noi... dell’onda: e a me (noi) [pia-
ce] la fuga senza meta (vasta) delle greggi
spaventate [dalla tempesta], o il fragore
(suono) e la furia vittoriosa (vittrice, per-
ché travolge ogni cosa) delle onde [che si
rovesciano] sulla insicura (dubbia, perché
può essere ricoperta dal fiume che tra-
bocca) sponda di un fiume profondo (alto).
19. divo: divino; bella: la ripetizione
dell’aggettivo all’inizio e alla fine confe-
risce un particolare valore al verso: Saffo
sta infatti sottolineando la bellezza della
natura, anche nel momento supremo.
20. rorida: rugiadosa (si ricordi che Saffo
esprime il suo lamento sul far del mat-
tino, quando la terra è ricca di rugiada).
20-23. Ahi di cotesta... fenno: ahi!, gli dèi
(numi) e il crudele destino (empia sorte)
non resero compartecipe (parte nessu-
na... non fenno) la misera Saffo di questa
infinita bellezza. Dopo aver ammirato an-
cora una volta lo splendore della natura,
la poetessa constatata la propria esclu-
sione dalla bellezza, che è il tema princi-
pale della canzone.
23-27. A’ tuoi superbi... intendo: o natu-
ra, rivolgo (intendo) invano supplichevole
il cuore e i miei occhi alle tue bellezze
meravigliose (vezzose), [come se fossi]
un’estranea (ospite) assegnata (addetta)
ai tuoi splendidi regni, senza valore (vile) e
fastidiosa (grave), e [come se fossi] un’a-
mante disprezzata.
27-28. A me... margo: a me non arride la
soleggiata riva (aprico margo) del fiume.
28. dall’eterea porta: dalla porta del cielo.
31. murmure: mormorio.
31-36. e dove... spiagge: ordina così: e
dove candido rivo (un limpido ruscello)
dispiega (protende) il puro seno (il suo al-
veo) all’ombra degl’inchinati salici (dei sa-
lici che si piegano verso il fiume) sottrag-
ge disdegnando (come se lo disprezzasse)
le flessuose linfe (le sue acque) al mio piè
lubrico (insicuro), e in fuga (allontanando-
si) preme l’odorate spiagge (contro le rive
profumate dai fiori).
37-39. Qual fallo... volto?: quale colpa
(fallo), quale trasgressione (eccesso) così
funesta mi ha danneggiato prima della
nascita, motivo per il quale (onde) il cielo
e il volto della sorte (fortuna) fossero a me
tanto ostili?
40. allor: quando.
40-41. ignara di misfatto: innocente,
senza colpe.
41-44. onde poi... stame?: per cui (onde)
il filo «del colore della ruggine» (Leopardi)
della mia esistenza (ferrigno mio stame) si
avvolgesse al fuso della Parca inflessibile,
privato (scemo) della giovinezza e sfiori-
to, cioè senza l’amore, che è il fiore della
giovinezza. Lo stame è il filo della vita che
le Parche avvolgevano sul fuso, reciden-
dolo quando ritenevano che fosse giunto
il momento della morte. Saffo definisce il
proprio stame ferrigno, aggettivo che dà l’i-
dea tanto dell’oscurità del proprio destino,
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I classici • Giacomo Leopardi
Canti, Ultimo canto di Saffo
Noi per le balze e le profonde valli
15 natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
fiume alla dubbia sponda
il suono e la vittrice ira dell’onda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
20 sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
25 e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo. A me non ride
l’aprico margo, e dall’eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
30 de’ colorati augelli, e non de’ faggi
il murmure saluta: e dove all’ombra
degl’inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
35 disdegnando sottragge,
e preme in fuga l’odorate spiagge.
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
40 In che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? Incaute voci
45 spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
50 de’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
alle amene sembianze eterno regno
diè nelle genti; e per virili imprese,
quanto della durezza, tipica del ferro. 48-49. e la ragione… si posa: e il motivo è
44-46. Incaute voci... consiglio: la tua (si conosciuto solo dagli dèi.
riferisce a se stessa) bocca pronuncia pa- 49. cure: desideri, passioni.
role avventate (incaute, poiché accusano 50. de’ più verd’anni: della prima giovi-
gli dèi): un’intenzione (consiglio) misterio- nezza.
sa (arcano) domina gli eventi prestabiliti 50-52. Alle sembianze... genti: Giove (il
dal destino. Si noti, anche al v. 46, la ripe- Padre degli dèi) ha concesso alla sola bel-
tizione dell’aggettivo arcano, significativa lezza (amene sembianze) di regnare eter-
per esprimere il pensiero di Saffo sulla namente tra gli uomini (nelle genti, lati-
vita umana: un mistero di cui ci è nota nismo). Le sembianze rappresentano la
solo la sofferenza. varietà delle forme della bellezza e sono
47. fuor che: eccetto; Negletta: abban- le medesime cantate da Saffo già nel v. 6.
donata. 52. per: per quanto (si compiano).
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Il Neoclassicismo e il Romanticismo Canti, Ultimo canto di Saffo

53. per dotta lira o canto: per quanto le
opere poetiche siano realizzate con peri-
zia e sapienza. Saffo era poetessa esperta
nell’arte lirica e nel canto.
54. virtù non... ammanto: la virtù non
risplende (luce) in un aspetto fisico (am-
manto) sgradevole (disadorno). A com-
mento del passo, i critici leopardiani
citano uno stralcio della lettera a Pietro
Giordani del 2 marzo 1818: «E mi sono ro-
vinato infelicemente e senza rimedio per
tutta la vita, e rendutomi l’aspetto misera-
bile, e dispregevolissima tutta quella gran
parte dell’uomo, che è la sola a cui guar-
dino i più; e coi più bisogna conversare in
questo mondo: e non solamente i più, ma
chicchessia è costretto a desiderare che
la virtù non sia qualche ornamento este-
riore, e trovandonela nuda affatto, s’attri-
sta, e per forza di natura che nessuna sa-
pienza può vincere, quasi non ha coraggio
d’amare quel virtuoso in cui niente è bello
fuorché l’anima».
55-56. Il velo... Dite: una volta lasciato
cadere (sparto) il corpo (velo) indegno, l’a-
nima fuggirà nuda verso gli Inferi (Dite, il
regno dei morti).
57-58. e il crudo… casi: e correggerà il
crudele errore (crudo fallo) commesso dal
fato (dispensator de’ casi).
58. tu: Faone, per il quale Saffo si strug-
geva d’amore, senza esserne corrisposta.
59. indarno: invano.
59-60. cui... strinse: al quale (cui) mi legò
(strinse) invano (indarno) un lungo amore,
una lunga fedeltà e l’inutile follia (vano...
furor) di un desiderio frustrato (implacato).
62-64. Me non asperse… Giove: Giove
non mi asperse del soave liquido (della fe-
licità) dal vaso (doglio) avaro (cioè, il vaso
da cui Giove è solito attingere raramente,
in modo avaro).
64. poi che perir: dopo che morirono.
65-66. Ogni... primo s’invola: i giorni più
felici della nostra vita (età) fuggono via per
primi.
per dotta lira o canto,
virtù non luce in disadorno ammanto.
55 Morremo. Il velo indegno a terra sparto
rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
e il crudo fallo emenderà del cieco
dispensator de’ casi. E tu cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
60 d’implacato desio furor mi strinse,
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal. Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno
65 della mia fanciullezza. Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
70 il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
han la tenaria Diva,
e l’atra notte, e la silente riva.
67-68. Sottentra... morte: al loro posto (la tenaria Diva), la notte oscura (atra
giungono (sottentra, subentrano) la ma- notte, «la tenebra infernale», Dotti) e la
lattia, la vecchiaia e l’oscurità della morte. riva silenziosa [dell’Acheronte, il fiume
Il verbo sottentra esprime chiaramente infernale] possiedono (han) la mia nobile
con il suo valore etimologico l’idea che la mente (prode ingegno). Proserpina, dea
malattia e poi la morte si insinuino a poco degli Inferi, così definita perché l’ingresso
a poco nella vita dell’uomo, impossessan- all’aldilà era per gli antichi collocato pres-
dosene definitivamente. so il Capo Tenaro. Dotti fa osservare che i
68-70. Ecco di tante... m’avanza: ecco, tre soggetti (Proserpina, la notte e la riva
di tante glorie (palme) che speravo di ot- del fiume infernale) hanno lo scopo di ac-
tenere (sperate), di tante illusioni (errori) compagnare Saffo – che si suiciderà una
così piacevoli (dilettosi), ora solo la morte volta concluso questo canto – nella sua
(il Tartaro) mi rimane. lenta discesa verso la morte.
70-72. e il prode... riva: e Proserpina

in primo piano
analisi del testo I temi e le scelte stilistiche

La struttura della canzone La canzone può essere suddivisa
in quattro movimenti corrispondenti alle quattro strofe.
La prima strofa (vv. 1-18) si apre con la descrizione di un pae-
saggio notturno, dominato dalla luce della luna che sta per
tramontare. Saffo, sulla rupe di Leucade, inizia così il suo can-
to, annoverando le sembianze della natura, ossia gli spettacoli
offerti dalla bellezza del paesaggio. Ma l’armonia di tali sem-
bianze non è più adeguata ai sentimenti del suo animo. A lei,
che è prossima alla morte ed è delusa dalla vita, si accordano
maggiormente le tempeste, la fuga delle greggi, il fragore del
tuono.
Con la seconda strofa (vv. 19-36) il canto di Saffo assume toni
più riflessivi: il cielo e la terra sono cantati per la loro bellezza,
ma proprio a questa bellezza Saffo sa di non appartenere; anzi,
nonostante le sue suppliche alla natura, la poetessa dichiara di
essere come un’estranea per il chiarore mattutino, per il canto
degli uccelli e per i fiumi.
Nella terza strofa (vv. 37-54), la constatazione dell’estraneità
alla bellezza diventa una vera e propria lamentazione che si
esprime con una serie di domande (quale peccato ho com-
messo? quale colpa macchiò la mia anima?) alle quali Saffo
non trova risposta. Il destino è governato da una legge im-
perscrutabile (arcano) e tutto ciò che l’uomo conosce della
vita è la sofferenza. Nulla può liberare l’uomo da questa sorte
negativa: per quanto si posseggano doti interiori sublimi, sen-
za la bellezza esteriore non esiste alcuna virtù.
La parte finale della canzone (vv. 55-72) segna il compimen-
to del dramma. Saffo dichiara il suo proponimento di morire
(morremo), e rilegge la propria vita come segnata da un de-
stino avverso: i pochi giorni felici sono corsi via veloci e ormai
le silenziose rive dell’aldilà hanno la loro vittoria sul prode in-
gegno della poetessa. Nonostante ciò, ella augura la felicità
all’amato Faone, ammesso che egli, in quanto mortale, possa
godere di qualche possibilità di gioia. Di fatto, questo augurio

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Il Neoclassicismo e il Romanticismo Canti, Ultimo canto di Saffo

è vano, perché subito dopo viene ribadita la certezza del de-
stino di sofferenza comune a tutti gli esseri umani. La poesia si
chiude con il trionfo della morte tanto sulla vita umana quanto
sul prode ingegno. Nemmeno la sensibilità, l’intelligenza, l’a-
nimo sublime di un poeta possono fuggire a questo destino.
Esclusione dall’amore, dalla vita Il tema principale della poe-
sia è il dolore di Saffo dovuto all’esclusione dalla bellezza e
dalla felicità. Nonostante ella desideri una comunione totale
con la natura, tanto da definirsi sua amante, Saffo è consape-
vole di essere dispregiata e addirittura un’ospite non gradita.
La natura infatti rifiuta i doni che la poetessa può offrire: la sua
sensibilità, il suo desiderio d’amore, il suo prode ingegno. Anzi,
il suo dolore è direttamente proporzionale alla sua sensibilità e
al suo ingegno: ma queste qualità non risplendono in un corpo
dove è assente ogni bellezza esteriore. «La separazione è per
Saffo, ancora prima che dagli dèi e dal destino e dalle loro
ragioni (di fronte alle quali a un certo punto lei si arresta), dalla
natura» (Lonardi) e la creazione di un personaggio femminile
accentua maggiormente il senso di delicato struggimento e
di disperata passione del personaggio. La sua “esclusione”
dall’amore diventa la risoluzione di (auto)escludersi dalla vita:
la poesia, che si era aperta con il tocco paesistico del passaggio
dalla notte al far del mattino, si conclude con il passaggio verso
un buio più oscuro (l’atra notte) e verso la silente riva alla quale
la donna approderà.
Le fonti e la sovrapposizione Saffo-Leopardi Molte e di-
versificate sono le letture che in vari modi contribuirono all’ela-
borazione della canzone: il testo di Ovidio in relazione alla leg-
genda di Saffo, ma anche testi più moderni, come I dolori del
giovane Werther di Goethe, l’Ortis di Foscolo, la Delphine e la
Corinne di Madame de Staël e il romanzo Le avventure di Saffo
di Alessandro Verri (senza dimenticare il Saul di Alfieri): opere
tutte nelle quali i protagonisti, in lotta con la società e il loro
tempo, scelgono di concludere la vita con il suicidio. Inoltre, in
diversi casi, la conclusione del libro si presenta con un monolo-
go tragico dell’eroe, proprio come in questo canto poetico, che
è veramente l’ultimo, di Saffo. Il tema trattato da Leopardi in
questa poesia è dunque di respiro europeo ed estremamente
attuale nel gusto romantico di primo Ottocento. Queste letture
non bastano però a spiegare la profondità e la lucidità con le
quali viene qui trattato l’argomento. Leopardi dovette infatti
sentire un forte parallelismo esistenziale con la leggenda
della poetessa greca. Come Saffo, anche Leopardi prova do-
lore per la giovinezza tradita, per l’amore non corrisposto,
per l’ingegno incompreso. L’esempio dell’antico ritorna iden-
tico nel moderno: nemmeno l’antichità è un’età felice poiché
la condizione umana è immutata nel corso dei secoli.
Il ruolo del pronome “noi” La critica ha considerato l’u-
so particolare dei pronomi che fa Leopardi in questa canzone
(Blasucci, Lonardi). Questa poesia è un canto dell’io, eppure
questo è volutamente celato: dai pronomi mi, me, dai posses-
sivi mio, miei e dall’uso del plurale noi, in continua alternanza.
Tanto noi (persona plurale) quanto mi, me (persona singolare)
sono riferiti sempre a Saffo, con un impiego oscillante. Il noi ha
certo un valore maiestatico: così nascemmo al pianto significa
“io nacqui al pianto”. Ma l’alternanza continua che Leopardi
propone – tra un noi che è anche un io, un io che è anche un
noi – presenta un’ambiguità semantica tale che Saffo, mentre
parla di se stessa riflettendo sulla propria vita, parla anche
dell’umanità intera afflitta dal dolore (Lonardi). Il destino
di Saffo è dunque quello di tutti gli uomini: tutti sono destinati
alla sofferenza e alla morte.
Lo stile: gli echi della tradizione Notevole è l’insieme delle
citazioni che Leopardi riprende sia dalla tradizione classica, sia
dalla letteratura italiana delle origini. Da Virgilio derivano, per
esempio, nel v. 3, tacita selva (cfr. Eneide, VII, 505: tacitis sil-
vis) e, nel v. 9, etra liquido (cfr. Eneide, VII, 65: liquidum trans
aethera), che è presente anche in Orazio (cfr. Odi, II, 20, 2:
per liquidum aethera). Il grave carro di Giove ricorda il gravi
curru, sempre di Orazio (cfr. Odi, I, 12, 58). L’alto fiume è ri-
preso dalle Georgiche di Virgilio (fluminis alti, IV, 333), mentre
al v. 24 grave ospite addetta traduce un passo dei Pharsalia di
Lucano (submissa... gravis hospita). Ancora Virgilio è da ricor-
dare per quel morremo del v. 55, che riecheggia in modo forte
e significativo le parole di Didone, anch’essa suicida dopo il
rifiuto di Enea (cfr. Eneide, IV, 659-660: Moriemur inultae, sed
moriamur).
Non mancano i ricordi di Petrarca: per esempio il Tartaro m’a-
vanza (v. 70) echeggia questo m’avanza di cotanta spene (cfr.
Rime, CCLXVIII, 32).

Per tornare al testo SPAZIO

Comprensione e analisi COMPETENZE
1. Individua, nella prima strofa, i due tipi di paesaggio che vengono presentati e indica a quale dei due Saffo si sente
più affine e perché.
2. Qual è il sentimento di Saffo verso la natura, così come emerge dalla seconda strofa?
3. Nella terza strofa Saffo esprime considerazioni sulla vita dell’uomo e sulle leggi che governano il destino. Quali?
4. Spiega il significato dei seguenti versi: per virili imprese, / per dotta lira o canto, / virtù non luce in disadorno am-
manto.
5. Quali considerazioni emergono nella strofa finale?
6. Nel testo sono presenti alcune coppie di aggettivi replicati nello stesso verso. Spiega quale valore hanno queste
ripetizioni.
7. Sottolinea nel testo tutte le occorrenze dei pronomi me/mi e noi.

Approfondimenti
8. Elenca e discuti in un breve testo il parallelismo tra Saffo e Leopardi. Che cosa li accomuna? (massimo 10-15 righe)

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Il Neoclassicismo e il Romanticismo Canti, Ultimo canto di Saffo

Da: Zibaldone di pensieri, 5 marzo 1821

Leopardi commenta l’Ultimo canto di Saffo
L’uomo d’immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la
natura appresso a poco quello ch’è verso l’amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non cor-
risposto nell’amore. Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta
la forza, tutto l’incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l’ama con ogni trasporto, ma quasi che
egli non fosse punto corrisposto, sente ch’egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si
vede fuor della sfera della bellezza, come l’amante escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie
dell’amata. Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso
gli è sempre penoso. Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch’egli ammira
ed ama e sente, non gli appartiene. Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel
vedere l’amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante di voi. Egli
sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a
considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di
sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un povero affamato,
che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente, e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai
gustare altrettanto. Egli insomma si vede e conosce escluso senza speranza, e non partecipe dei favori
di quella divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente così vicina, ch’egli la sente come
dentro se stesso, e vi s’immedesima, dico la bellezza astratta, e la natura.

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