Freebook è un’idea editoriale,

un progetto di “libro libero”.

Andrea Cortellessa
L’Edup dona ai suoi lettori
dei veri e propri libri,
prodotti editoriali completi
Beckett l’italiano
rispetto all’opera da cui sono tratti.
Possono essere letti,
stampati, citati,
riprodotti sul proprio blog,
con la sola raccomandazione Tratto da
di indicare sempre la fonte: Tegole dal cielo. La letteratura italiana
www.edup.it
nell’opera di Beckett

Tratto da
Andrea Cortellessa

Beckett l’italiano
Freebook è un’idea editoriale,
un progetto di “libro libero”. L’Edup dona ai suoi lettori
“E fango è il mondo”
dei veri e propri libri, prodotti editoriali completi Beckett e Leopardi
rispetto all’opera da cui sono tratti.
Possono essere letti, stampati, citati, riprodotti sul proprio
blog, con la sola raccomandazione di indicare sempre
la fonte: www.edup.it

ANDREA CORTELLESSA, professore di Letterature comparate

Università di Roma Tre.

Stando alla grande biografia beckettiana di James Kno-

wlson, Damned to Fame, l’incontro con Leopardi date-
rebbe agli anni al Trinity College, a Dublino: dove Bec-
kett giunge, appena diciassettenne, nell’ottobre 1923.
Come riconobbe lui stesso molti anni dopo, ebbe su di
lui un profondo influsso il suo professore di lingue ro-
Sul sito www.edup.it è possibile scaricare integralmente manze, Thomas Brown Rudmose-Brown (Knowlson
questo volumetto e tutti gli altri FREEBOOK desiderati.
1996, pp. 57-62). Tracce provenzali sono evidenti, in ef-
Collezionali tutti.
fetti, nella sua prima raccolta poetica, Echo’s bones,
pubblicata nel 1935 a Parigi: dove si susseguono due
Enueg e un’Alba, componimenti esplicitamente ricalcati
© Edup S.r.l. sui ‘generi’ della poesia provenzale del XII e XIII secolo
© FREEBOOK, 2009 (laddove va ricordata la specificazione di Gabriele Fra-
Via Quattro Novembre, 157 - 00187 Roma sca, per il quale ‘genere’ va inteso “nell’accezione tutta
Tel. +39.06.69204371 contenutistica che caratterizza la trattatistica versificato-
www.edup.it • info@edup.it ria in lingua d’oc”: Frasca 1999, p. 277).
Ma per l’italiano ebbe maggior peso un’insegnante
Prima edizione Freebook marzo 2009 privata, Bianca Esposito; intervistato in limine da Kno-
wlson, nell’estate dell’89, ha infatti ricordato Beckett: “Bi-
sognava studiare due lingue e io scelsi come seconda
lingua l’italiano. Fui fortunato a incontrare Bianca Espo-
sito: mi aiutò non solo nell’apprendimento della lingua
ma anche nello studio della letteratura” (Knowlson
1996, p. 63). Sono di questo periodo una quantità di ap-
punti, rimasti fra le sue carte, su autori come Bembo,
Speroni, Castiglione, Ariosto, Carducci e d’Annunzio; ma
è altresì in questo momento che si focalizza il grande
amore per Dante, cioè quello che resterà uno dei pa-
linsesti fondamentali della sua opera, da un punto di vi-
sta culturale ma anche esistenziale (si pensi solo al-
l’icona ricorrente dell’accidioso, ricalcata sul Belacqua
del IV canto del Purgatorio)1. Ricorda Knowlson come,
a ottant’anni compiuti, Beckett portò con sé in un ospi-
zio per anziani parigino la piccola copia della Comme-
dia allora studiata e sottolineata: con ancora inserita, a
mo’ di segnalibro, una cartolina raffigurante il San Fran-
cesco di Giotto e recante un messaggio in italiano.
Quella cartolina gli era stata mandata proprio da Bianca
Esposito, quando Beckett aveva vent’anni, per augu-
rargli di riprendersi da una malattia. Lui l’aveva conser-
vata per più di sessant’anni.
Aggiunge appunto Knowlson, senza darci però
troppi dettagli: “sembra che scoprisse anche, da solo o
con l’aiuto di Rudmose-Brown, il grande poeta pessi-
mista del XIX secolo, Leopardi” (Knowlson 1996, p. 63).
Come che sia, Leopardi resta una presenza indubbia –
certo non pervasiva come quella di Dante, ma signifi-
cativamente persistente nel lungo periodo – nel vissuto
4 5
di Beckett. Il libro recente di Nathalie Léger, alcune pa-
gine del quale sono state anticipate – anticipando di
qualche settimana il centenario – da Carlo Ossola sul
“Sole 24 ore”, fotografa uno dei ricorrenti momenti in
cui Beckett decide di isolarsi – ancor più rispetto a stan-
dard, come i suoi, non proprio logorroici – in una Vie
per antonomasia silencieuse:
Negli anni Cinquanta si fa costruire una casa a Ussy, sui
rilievi lungo la Marna. Vi si chiude. Legge l’Infinito di Leo-
pardi: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle / E questa
siepe, che da tanta parte / De l’ultimo orizzonte il guardo
esclude”. Si taglia fuori dal paesaggio, sbarra l’orizzonte,
lo rende impossibile, annulla una parte del cielo. Ciò
ch’egli vuole è il silenzio, il muro, e – all’interno – uno
sguardo che si accechi per meglio vedere […]. Tien duro
ostinatamente, si rinchiude in casa, s’incatena alla lingua
e introduce pazientemente la misura nell’illimitato. (Leger
2006, cit. in Ossola 2006)
Nathalie Léger interpreta molto tendenziosamente, ma
forse legittimamente, i versi di Leopardi. Anzitutto
perché non riporta la parte seguente dell’idillio: che
darebbe al frammento un valore biografico molto di-
verso, per non dire tendenzialmente opposto, a quello
da lei ipotizzato. In ogni caso nel nome di Leopardi,
oltre che un’adesione esistenziale così persistente (ove,
beninteso, nel caso di Beckett ciò sia dato distin-
guere), si compie anche una quanto mai decisa ele-
zione letteraria. Anzi, a ennesima dimostrazione della
sua tendenza all’iperdeterminazione storicamente sce-
verata da Aldo Tagliaferri (1967-79), filosofica e lette-
raria. Di più: filosofica e letteraria insieme. Sempre
Knowlson, infatti, riporta il testo di una lettera al-
l’amico Tom McGreevy del luglio 1930:
Sto leggendo Schopenhauer. Tutti mi ridono appresso. Be-
aufret e Alfy, ecc. Ma io non sto leggendo filosofia, non
m’interessa nemmeno se ha ragione o torto, se è un buon
metafisico o se non vale niente. Una giustificazione intel-
lettuale all’infelicità – la più grande che mai sia stata tentata
– merita l’attenzione di chi è interessato a Leopardi e a
Proust e non a Carducci o a Barrès. (Knowlson 1996, p. 140)
È questo, si capisce, il palinsesto di quelle esplicite ci-
tazioni da A se stesso, date in italiano, che sono poi le
uniche evidenti presenze testuali di Leopardi in tutta
l’opera beckettiana (tranne due significative eccezioni
sulle quali ovviamente tornerò) e che si trovano ap-
punto nella monografia su Proust, complessivamente se-
gnata – come dice Knowlson – da un “tono generale,
scuro, pessimista” (Knowlson 1996, p. 140). (Beckett, è
il caso di sottolineare, consegna il saggio all’editore
Chatto and Windus alla fine di settembre dello stesso
1930; il piccolo libro viene pubblicato l’anno seguente
ed è il primo a uscire a suo nome).
Ma ecco i famosi due passi (entrambi dai vv. 4-5 del
componimento leopardiano):
La tragedia della relazione fra Marcel e Albertine è la tipica
tragedia di ogni rapporto umano, il cui fallimento è pre-
ordinato in anticipo. […] La Memoria e l’Abitudine sono
6 7
attributi del cancro del Tempo. Essi controllano anche i più
semplici episodi dell’opera proustiana, e la comprensione
del loro meccanismo deve precedere qualsiasi particolare
analisi della loro applicazione. Sono gli archi rampanti del
tempio eretto per commemorare la saggezza dell’archi-
tetto, che è poi la saggezza di tutti i saggi da Brahma a
Leopardi, la saggezza che consiste, non già nella soddi-
sfazione, ma nell’oblazione del desiderio:
“In noi di cari inganni
Non che la speme, il desiderio è spento.” (Beckett 1978,
p. 31)
Molto più avanti Beckett cita prima Proust, per poi
commentarlo con le stesse parole di Leopardi impiegate,
ormai, in guisa di slogan:
“In mezzo alla più totale cecità, la perspicacia soprav-
vive nella forma di affetto e di predilezione. Pertanto è
un errore parlare di una scelta errata in amore, dal mo-
mento che il semplice fatto che vi sia stata una qualsiasi
scelta, implica che ve ne sia stata una cattiva”. E, come
in precedenza, la saggezza consiste nel distruggere la fa-
coltà di soffrire, piuttosto che nel vano sforzo di addo-
mesticare gli stimoli che esasperano questa facoltà. “Non
che la speme, il desiderio…”. (Beckett 1978, p. 69)2
È altresì il caso di segnalare come nella prima edizione
della monografia proustiana figuri al frontespizio,
quale esergo, un’altra cellula di A se stesso, stavolta dal
v. 10: “e fango è il mondo”. A conferma che davvero
questo Leopardi estremo aveva in origine, per Beckett,
la funzione di icasticamente sintetizzare lo stato
d’animo – prima che l’orizzonte di senso – nel quale
il Proust era stato concepito e realizzato3.
Il pessimismo di Schopenhauer è uno dei princi-
pali ‘personaggi concettuali’ – per deleuzianamente
dire – del saggio di Tagliaferri che ricordavo prima, il
quale fa notare altresì come siano con ogni probabi-
lità filtrate dalle citazioni contenute nel Mondo come
volontà e come rappresentazione anche altri passi ri-
portati nel saggio su Proust e altrove. Per esempio Cal-
derón, “Pues el delito mayor del hombre es haber na-
cido”, oppure l’Ecclesiaste, “Quid est, quod est? Ipsum
quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est” (Ta-
gliaferri 1967-79, p. 71n), che si può ipotizzare echeggi
ancora nel Comment c’est del ’61. Ma certo la costel-
lazione ‘pessimistica’ è, e soprattutto era ai tempi del
saggio proustiano di Beckett, un vero e proprio tòpos
dell’interpretazione leopardiana, a partire dal celebre
dialogo di Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leo-
pardi appunto. Per parafrasare il saggio ‘genealogico’
su Joyce dello stesso Beckett si potrebbe dire, in-
somma: Ecclesiaste… Leopardi. Schopenhauer…
Proust. È fra l’altro una filiera molto simile, questa
(fatto salvo, naturalmente, il punto d’arrivo), a quella
dalla quale prese le mosse l’originale interpretazione
leopardiana d’un altro grande maestro della modernità
come Jules Laforgue. Per poi appunto capovolgerla o,
per dirla niccianamente, trasvalutarla: dal tetro pes-
simismo giovanile, nutrito da abbondanti letture ap-
punto di Schopenhauer e Hartmann (nel quale s’in-
8 9
serisce un saggio del 1878 di Elme Marie Caro, Le pes-
simisme au XIXe siècle: Leopardi, Schopenhauer, Har-
tmann)4, a un’iridescente capriola ludico-parodica
che – quanto meno psicologicamente, o esistenzial-
mente – non è forse arbitrario accostare al risus pu-
rus o “dianoetico” di Beckett: “la risata che ride… si-
lenzio, prego… di tutto ciò che è infelice” (Beckett
1998, p. 43).
Alla linea della koinè ‘pessimistica’, diciamo, si può
assimilare – con lo stigma dei versi-emblema di A se
stesso, fra l’altro – un’ulteriore traccia testuale leopar-
diana presente nell’opus, anche se stavolta nel Nachlass
postumo. Per la precisione nel proto-romanzo del ’32
Dream of Fair to Middling Women, pubblicato solo nel
’92 (ringrazio Giancarlo Alfano per il generoso assist):
Non est vivere, he was absolutely of that famous opinion,
sed valere, vita. He declined the darkest passages of
Schopenhauer, Vigny, Leopardi, Espronceda, Inge, Hatiz,
Saadi, Espronerda, Becquer and the other Epimethei. All
day he told the beads of his spleen. Or posa per sempre,
for example, he was liable to murmur, lifting and shifting
the seat of the disturbance, stanco mio cor. Assai palpita-
sti... and as much more of that gloomy composition as he
could remember. (Beckett 1993, pp. 61-62)5
Dove ha senz’altro ragione Daniela Caselli, peraltro, a
distinguere un pessimismo ‘in prima persona’ – per così
dire – esemplato dal Proust (dove “Leopardi represen-
ted an ideal ‘tragic’ tradition to which Beckett felt he be-
longed”), da quello attribuito al personaggio-marionetta
di Belacqua in Dream of Fair to Middling Women
(dove “Leopardi is not simply quoted, but he becomes
part of the fictive novel”, con effetto distanziante e pa-
rodico: “he is one of the instruments used by Beckett
to subvert the power of Literature as monument”)6.
La stessa Caselli segnala infine un’ultima e quasi im-
percettibile traccia leopardiana, annidata non nell’‘ar-
cheologia’ personale di Beckett, stavolta, bensì nel
pieno della sua opera maggiore. E tuttavia, come si ve-
drà sùbito, a sua volta sottilmente dissimulata. Parlo
dell’auto-versione di Molloy, il romanzo inaugurale
della ‘trilogia’ uscito in francese nel ’51 e tradotto in in-
glese dallo stesso Beckett (assieme a Patrick Bowles)
quattro anni dopo. Nel passo in oggetto, la micro-tes-
sera (sempre da A se stesso) s’introduce nel lavoro di
auto-riscrittura: come a dar corpo a un fantasma, a
esplicitare insomma uno stimolo remoto, ma pun-
gente, evidentemente già sotteso all’‘originale’. L’in-
tertestualità a matrici multiple e sovrapposte, e co-
stantemente trasvalutante, che è il proprium della
scrittura di Beckett (l’“iperdeterminazione” di Taglia-
ferri, cioè), funziona ora in modo assai più sottile. Al
posto del mosaico ‘a giorno’ esibito nel proto-ro-
manzo ancora squisitamente joyciano, ora quegli stessi
enzimi agiscono ben più in profondità; a un punto tale,
infatti, che in una prima ‘emersione’ (il testo francese)
essi risultano metabolizzati senza residui. Mentre, in
una specie di curiosissima reatroazione intertestuale –
un rigurgito citazionale, verrebbe da dire –, riappaiono,
a sorpresa, nella riproposizione trans-linguistica.
10
Molloy ha ucciso il cane di Sofia, o Lousse, e si trova
ora nell’incombenza di seppellirne il corpo; la sua
gamba malata, però, gli impedisce di vangare; il pen-
siero di poter essere allora privato di quell’arto inutile
gli evoca, allora, altra e più significativa mutilazione –
parimenti desiderabile, peraltro (nello spirito, appunto,
di Leopardi e Schopenhauer). Allineo di séguito il fran-
cese di Beckett, l’inglese di Beckett e Bowles e l’italiano
di Tagliaferri, che ovviamente traduce dal francese (il
corsivo è mio):
Je ne disposais pour ainsi dire que d’une jambe, j’étais mo-
ralement unijambiste, et j’aurais été plus heureux, plus lé-
ger, amputé au niveau de l’aîne. Et ils m’auraient enlevé
quelques testicules à la même occasione que je ne leur au-
rais rien dit. Car mes testicules à moi, ballotant à mi-cuisse
au bout d’un maigre cordon, il n’y avait plus rien à en ti-
rer, à telle enseigne que je n’avais plus envie d’en tirer
quelque chose, mais j’avais plutôt envie de les voir di-
sparaître, ces témoins charge décharge de ma longue
mise en accusation. (Beckett 1951, p. 52)
I had so to speak only one leg at my disposal, I was vir-
tually one-legged, and I would have been happier, livelier,
amputated at the groin. And if they had removed a few te-
sticles into the bargain I wouldn’t have objected.
Far from such testicles as mine, dangling at mid-thigh at the
end of a meagre cord, there was nothing more to be squee-
zed, not a drop. So that non che la speme il desiderio, and
I longed to see them gone, from the old stand where they
bore false witness, for and against, in the lifelong charge
against me. (Beckett 1979, p. 34, cit. in Caselli 1997, p. 12)
11
 Non disponevo per così dire che d’una gamba, ero mo-
ralmente unigambista, e sarei stato più contento, più leg-
gero, amputato all’altezza dell’inguine. E se nella stessa oc-
casione mi avessero tolto qualche testicolo non avrei
detto niente. Perché da testicoli come i miei, ballonzolanti
a mezza coscia all’estremità d’un magro cordone, non c’era
più niente da cavare, tanto che non avevo più voglia di
cavarne qualcosa, ma semmai di vederli sparire, questi te-
sti a carico e discarico della mia lunga imputazione. (Bec-
kett 1996, pp. 36-37)
Passando dalla mera rassegna dei loci alla loro inter-
pretazione, direi che vada anzitutto sottolineato come,
già nel Proust, il dispositivo Leopardi-Schopenhauer ve-
nisse impiegato da Beckett non solo nel senso generi-
camente pessimistico della cultura simbolistico-deca-
dente ma – con adesione più intima e, parrebbe,
analitica al pensiero di Leopardi, ben al di là dunque dei
versi-emblema di A se stesso –
all’analisi del nesso assuefazione-noia: appunto centrale
nel pensiero del nostro poeta-filosofo (anche se Beckett,
al riguardo, appena possibile torna a riferirsi alla propria
‘fonte’ principale, cioè a Schopenhauer). Sùbito dopo la
prima citazione leopardiana, sempre nel Proust, si legge
infatti (a revocare radicalmente in dubbio la vulgata se-
condo la quale la negatività venga alfine redenta, nella
Recherche, dal Temps retrouvé ovverosia appunto dalla
memoria):
Le leggi della memoria sono soggette alle più generali
leggi dell’abitudine. L’abitudine è un compromesso effet-
12
tuato fra l’individuo e l’ambiente che lo circonda, o fra l’in-
dividuo e le sue eccentricità organiche, la garanzia di
un’insensibile inviolabilità, il parafulmine della sua esi-
stenza. L’abitudine è il ceppo che incatena il cane al suo
vomito. Respirare è un’abitudine. La vita è abitudine. O
piuttosto, la vita è una successione di abitudini, come l’in-
dividuo è una successione di individui; e dal momento che
il mondo è una proiezione della coscienza individuale
(Schopenhauer direbbe: una oggettivazione della volontà
individuale), il patto può esser continuamente rinnovato,
e la lettera di salvacondotto aggiornata. La creazione del
mondo non ha avuto luogo una volta sola per sempre, ma
ha luogo ogni giorno. (Beckett 1978, pp. 31-32)
Il ‘sistema’ dell’abitudine o, per appunto leopardia-
namente dire, dell’assuefazione si fa dunque ulte-
riore figura concettuale di quella cattiva infinità che è
stimmate filosofica decisiva, per Beckett, sin dal già ri-
cordato saggio d’esordio Dante… Bruno. Vico…
Joyce, (il quale del resto precede la monografia prou-
stiana d’un paio d’anni appena: cfr. Beckett 1991). An-
che in quel caso il riferimento, si sa, è alla nostra let-
teratura: in particolare al Purgatorio dantesco
trasvalutato – s’intende – col ricorso a Joyce (ma in-
tanto si noterà come per designare Dante Beckett im-
pieghi una perifrasi prelevata, senza citarne la fonte
come se si trattasse di tassello di fama proverbiale,
dalla canzone di Leopardi Sopra il monumento di
Dante che si preparava in Firenze: “colui per lo cui
verso – il meonio cantor non è più solo”, Beckett
1991, p. 36)7.
13
 Di qui, è facile postillare, discendono i set nei quali
sarà ambientata la produzione beckettiana a venire. A
differenza che in quello dantesco, dove un termine del
viaggio di espiazione – pur remotissimo – è costante-
mente previsto, nel Purgatorio di Joyce (e di Beckett) il
movimento è per l’appunto ciclico, circolare (secondo
una suggestione vichiana pure puntualmente addotta
dal saggio del ’29), e proprio per questo destituito di
senso (cioè di significato e vettore): in tutti i sensi, cioè,
senza fine. La versione definitiva di questo incubo ten-
denzialmente astratto ci verrà offerta da Le dépeupleur
(1970), che pare fedele trascrizione narrativa dell’im-
magine finale dello scritto joyceano: “null’altro che que-
sto: né premio né punizione, semplicemente una serie
di stimolanti che permettano al gattino di afferrare la
propria coda. E l’agente parzialmente purgatoriale? Il
parzialmente purgato” (Beckett 1991, p. 42).
È per questo che, appunto con Leopardi, “la sag-
gezza […] consiste, non già nella soddisfazione, ma nel-
l’oblazione del desiderio”; perché non è la “punizione”
purgatoriale che va evitata, bensì i sempre “stimolanti”
desiderî, che riducono la vita dell’uomo a quella della
bestiola da laboratorio: chiusa nel suo eterno, cattiva-
mente infinito e infinitamente cattivo, circuito di volontà
e rappresentazione. Quello di un purgatorio destinato
a non colmare mai la propria condizione di “parzial-
mente purgato”: e, proprio per questo, senza fine.
Il senso d’un esaurimento terminale – terminale ma,
come sappiamo, infinitamente penultimo – è del resto
la vera, grande lezione che dal Leopardi estremo trae
14
Beckett. Ma è una lezione che si approfondirà col
tempo: giungendo al suo nucleo irradiante con l’ul-
tima, rastrematissima e radicale parte dell’opera sua.
Chi ha descritto meglio di tutti questa condizione sono
stati un filosofo come Gilles Deleuze e uno scrittore –
di suo assai ‘beckettiano’8 ma anche, col tempo, sem-
pre più marcatamente ‘leopardiano’ (cfr. Cortellessa
2003) – quale Gianni Celati. Il primo, nel suo memo-
rabile breve saggio L’épuisé (pubblicato nel ’92, cioè a
sua volta nel pieno della spossatezza che tre anni dopo
lo porterà a farla finita…; Ginevra Bompiani, che l’ha
tradotto, lo definisce “un libro sulla vecchiaia, sul-
l’esaurimento della potenza”)9, descrive lo spazio del-
l’ultimo Beckett come il luogo che si raggiunge una
volta esaurite le possibilità della combinatoria (quelle
che avevano fatto la joycity del maestro di Beckett,
cioè) nonché, più alla radice, le stesse “potenzialità
dello spazio” (Deleuze 1999, p. 26)10: dove dunque
“l’energia dell’immagine è dissipativa” (ivi, p. 28) e si
produce “una specie di epurazione vocale e spaziale”
(ivi, p. 40). Questo per Deleuze si mostra con ogni evi-
denza nei teledrammi dell’ultimo periodo, come … nu-
vole… del ’76 o Nacht und Träume dell’82: perché qui
in gioco non è neppure la mera verbalità – già da
tempo ‘esaurita’ da Beckett… – bensì quella che l’au-
tore dell’Immagine tempo e dell’Immagine movimento
chiama la “lingua III” attiva nell’opera beckettiana,
cioè appunto quella per immagini. “La voce estingue
il possibile mentre lo spazio estenua le sue potenzia-
lità” (ibidem):
15
 In ogni caso, l’immagine risponde alle esigenze di Mal vi-
sto Mal detto, Mal visto Mal sentito, che governano il re-
gno dello spirito. E poiché è un movimento dello spirito,
non si separa dal processo della propria scomparsa, della
propria dissolvenza, prematura o meno. L’immagine è un
soffio, un fiato, ma spirante, in via d’estinzione. L’imma-
gine è quel che si spegne, si consuma, è una caduta. È una
pura intensità che si definisce come tale per la sua altezza,
cioè per il suo livello sopra lo zero, che descrive solo ca-
dendo. (Deleuze 1999, p. 46)
Ma, come accennavo, chi ha ricondotto questa costel-
lazione al suo ètimo ultimo – appunto a Leopardi, cioè
– è stato Gianni Celati. Devo citare, e me ne scuso, dai
miei appunti presi ascoltando una serie di conferenze
purtroppo ancora inedite, nelle quali in occasione del
centenario di Leopardi del ’98 Celati ha minuziosa-
mente analizzato la sua prosa11. Parlando dello Zibal-
done, Celati ha descritto questa scrittura come mai “co-
struttiva”, bensì “dissipatoria” (nel senso proprio, ha
precisato, delle «strutture dissipative» – irreversibili, irri-
petibili, imprevedibili – di cui ha parlato Ilya Prigogine).
Nel Novecento, ha aggiunto Celati, pochi hanno saputo
affrontare il demone ‘leopardiano’ di una scrittura anti-
economica, radicalmente non-costruttiva, dissipativa
insomma: Pessoa, Cioran, Bernhard, Celan, Manganelli.
E naturalmente il più grande di loro: Samuel Beckett, ap-
punto. Come quella di Leopardi, la scrittura di Beckett
vive (cito sempre dalle conferenze inedite di Celati) “nel-
l’eco di ciò che svanisce, nell’echeggiare di un suono
cessato per sempre: restituisce l’immagine di una dissi-
16
pazione, e lascia così dietro di sé una vibrazione affet-
tiva”. Appunto la scrittura come fiato in via d’estinzione
di cui parla Deleuze.
E infatti quello che propone di abitare Celati – per
Leopardi, per Beckett e ovviamente per se stesso,
nonché per chi se la senta di seguirlo – è, appunto
come l’ha descritto Deleuze, il luogo dell’esaurimento
del linguaggio. O, altrimenti detto, l’ultimo orizzonte
della parola. Questo “depotenziamento della parola”,
questo “parlare contemplativo”, conduce, se portato ai
suoi estremi, al sussurro. Cioè a quella sensibilità che
Celati definisce “sfinimento”, esemplandola – guarda
un po’ – proprio su A se stesso. La sua lettura del tardo
canto leopardiano da parte sua è, al riguardo, un’in-
terpretazione critica in piena regola: ogni ripresa di
verso, ogni enjambement, costituisce una ripresa in
extremis dello sfinito, un minimo (o meglio, correg-
gerebbe Deleuze, penultimo…) sussulto biologico, re-
siduale: “come parole che si pronuncino nell’addor-
mentarsi”.
Allora viene in mente il centro lancinante di Cinema
naturale, il più leopardiano e il più ‘esausto’ dei libri di
Celati, il suo terzo episodio intitolato Nella nebbia e nel
sonno (Celati 2000, pp. 40-59). Il narratore, come negli
altri racconti che compongono il libro, è semplice por-
tavoce di una serie di esperienze che gli sono state nar-
rate: per la precisione da un amico, nel frattempo
morto, che a sua volta (doppio è qui il filtro narrativo,
dunque) aveva ascoltato i racconti di una sua amica di
nome Alida. Racconti che per lungo tempo ha avuto
17
l’abitudine di registrare e conservare (come fa, cioè, il
Krapp di Beckett – ma in quel caso era la propria la
voce che si ascoltava, propri i ricordi che risanguina-
vano…):
e la sentiva bisbigliare, o fare piccoli squittii che gli ri-
cordavano i versi d’un topo. A volte nel dormiveglia la
sentiva chiedere: “Mi capisci?”, e dal letto le rispondeva:
“No, ma vai avanti lo stesso”. (ivi, p. 51)

Glielo chiedeva con quell’aria seria: “Ho bisogno di par-

Come si scopre nel finale (ivi, p. 59), non è solo l’amico
lare ancora, potresti ascoltarmi un altro po’?”. Lui diceva di Alida che ascolta insonnolito quella voce sempre
sempre di sì, perché era affascinato da questa ragazza con uguale:
lo sguardo così serio. E mi raccontava che a un certo
punto lei gli telefonava ogni mattina appena sveglia, poi anche lei spesso si addormentava al telefono mentre gli
veniva ogni sera a parlargli per ore, finché hanno preso stava parlando. Allora in un certo senso loro dormivano
l’abitudine di dormire assieme perché lei voleva conti- assieme, e forse sognavano assieme, ma ognuno in as-
nuare a parlargli, anche se il mio amico era molto inson- senza dell’altro, e questa mi sembra una fortuna […]. Le
nolito o addormentato del tutto […] nel letto il mio amico parole fuggono via nella nebbia e nel sonno, sfuggono ai
la ascoltava finché poteva, crollando dal sonno, sperando giorni e agli anni, ma è lì che poi ci si incontra, come dice
che si addormentasse anche lei. Ma lei ricominciava sem- un’altra canzone nei nastri.
pre a raccontargli le stesse storie […]. Si abbracciavano
stretti, e così lui tenendola stretta riusciva a calmarla, fin-
Dove insomma si capisce che anche le filiazioni let-
ché stanco piombava nel sonno. (Celati 2000, pp. 41-43)
terarie, seppure fra scrittori ‘assoluti’ quali Leopardi e
Beckett – scrittori che giustamente incutono timore a
Succede poi che l’amico di Alida debba trasferirsi – così
chi solo ipotizzi di poterli ‘proseguire’ – non arrivano
che lei non può più andare a trovarlo – ma puntuali gli
mai a ultimarsi davvero. Ammettono cioè, di neces-
arrivano le sue telefonate, che lo raggiungono ovunque,
sità e per nostra fortuna, sempre una stazione penul-
per quanto lontano da lei si spinga:
tima: quella, se non altro, in cui li leggiamo. “È lì che
Così stava per un po’ ad ascoltarla, e le faceva delle do- poi ci si incontra”.
mande per capire di cosa stesse parlando, o solo per
mostrare che le badava, ma lei rispondeva: “No, no, non
farmi domande, ascolta”. Così dopo un po’ lui si ad-
dormentava, stanco di ascoltarla in silenzio. Tra l’altro
non si sa come facesse, diceva il mio amico, ma ogni
volta che lui tornava a casa dopo un viaggio faticoso,
Alida lo beccava immediatamente mentre stava per ad-
dormentarsi […]. Di notte lasciava il telefono per terra

18 19
 Note

1 Sul quale cfr. Frasca 1988 (ora, ampiamente rivisto, in que-

sto stesso volume).
2 Nella stessa pagina, poche righe dopo, figura – del pari in
originale e senza indicazione d’autore – un’altra citazione
italiana: “Ma se l’amore, per Proust, è una funzione della
tristezza dell’uomo, l’amicizia è una funzione della sua co-
dardia; e, se nessuna delle due cose può esser realizzata
a causa dell’impenetrabilità (isolamento) di ogni ‘cosa
mentale’, il fallimento di ogni tentativo di possesso può
avere almeno la nobiltà di ciò che è tragico, mentre il ten-
tativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è
possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa
di orrendamente comico, come la follia che fa parlare con
i mobili”. Il sintagma è la definizione della pittura da parte
di Leonardo da Vinci, un paio di volte citata da Proust (una
in All’ombra delle fanciulle in fiore), con ogni probabilità,
via Paul Valéry.
3 In un saggio per intero dedicato al Proust, John Pilling la-
menta la caduta dell’esergo nella revisione del testo (com-
piuta da Beckett per la ristampa del 1965): esergo che sa-
rebbe stato particolarmente gradito, a quel tempo, a Joyce
(che vi vedeva un pun multilingue fra il mondo e l’ag-
 gettivo francese immonde). Ma chissà non sia stato pro-
prio questo dettaglio a spingere il Beckett maturo al-
l’espunzione… (cfr. Pilling 1976, p. 10; cit. da Caselli
1997, p. 20n).
4 Mi riferisco all’innovativa Tesi di dottorato di Flabbi 2005,
pp. 114-151 (con preziosa bibliografia). Ringrazio con ca-
lore Lorenzo per avermi consentito la lettura della sua tesi,
e per le conversazioni a tema laforghiano che mi ha re-
galato. Gli devo in particolare le informazioni sul back-
ground filosofico “pessimista” del leopardismo di Lafor-
gue. Ho tentato di analizzare una “funzione Laforgue”
nell’avanguardia storica in Cortellessa 2006.
5 Caselli 1997 (p. 6) segnala un’altra microtraccia, nello
stesso testo (p. 18), dal v. 15 delle Ricordanze: “So utterly
did she queer his pitch that he was moved to quote ‘le so-
leil est mort’ in petto, and his time of the lilies shifted over
to the night hours, sitting vigilant among the notes, alla
fioca lucerna leggendo Meredith” (Leopardi: “e spesso al-
l’ore tarde, assiso / sul conscio letto, dolorosamente / alla
fioca lucerna poetando, / lamentai co’ silenzi e con la notte
/ il fuggitivo spirto, ed a me stesso / in sul languir cantai
funereo canto”).
6 Caselli 1997, pp. 9 e 10. Ringrazio Gilda Policastro per
avermi segnalato questo utile contributo: a quanto ne
sappia, l’unico dedicato al mio argomento (cfr. anche, ma
più genericamente, Barnes 1989, p. 45; qualche cenno an-
che in Restivo 1991, pp. 121-127, che ricollega – ma senza
evidenze testuali – il finale della versione inglese di Fin de
partie, Endgame, al finale del Cantico del gallo silvestre; al
di là del merito, pensando alla curiosa vicenda di Molloy
che vedremo fra poco, è peraltro interessante che secondo
la studiosa abbia un più palpabile colore ‘leopardiano’ l’au-
toversione del dramma, rispetto al suo ‘originale’ francese;
conclude Restivo, ribadendo le linee generali della propria
lettura beckettiana, che “Se riflettendo sugli esiti del secolo
dei lumi Leopardi precorre Nietzsche e il ‘nichilismo’ de-
22
semiotizzante del Novecento (insieme già accennando
ad una via d’uscita), Beckett ne elabora le conseguenze,
pervenendo in Finale di partita alle difficili soglie del po-
stmoderno”: pp. 126-127).
7 Sono i versi 21-22 del testo di Leopardi. Caselli 1997, pp.
2-3, ritiene che i versi leopardiani siano qui ridotti da Bec-
kett a un “mere rhetorical device to construct a pedestal
for Joyce”, anche se “they nevertheless provide a first evi-
denze of Beckett’s long-term interest in Leopardi”.
8 Cfr. almeno Celati 1975. Sui sottili mutamenti della poetica
celatiana, ben mostrati dalle varianti apposte a questo suo
fondamentale libro di saggi, rinvio a Cortellessa 2005. Ma
si vedano ora, in questo volume, i Pensieri su Beckett con-
segnati dallo stesso Celati al nostro questionario Persi-
stenze e i contributi di Giancarlo Alfano e Luigi Severi.
9 Bompiani 1999, p. 57.
10 E, più avanti: “si tratta di esaurire lo spazio” (p. 32).
11 Faccio riferimento, scusandomene, ad appunti presi il 30
aprile 1998, il 29 novembre e il 1 dicembre 1999; le cita-
zioni seguenti vanno intese come mediate dalla memoria
balba, e dalle labili capacità di stenografo, di chi scrive: che
se ne assume per intero la responsabilità.
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