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Agnoldomenico Pica,
1907-1990
HEVELIUS EDIZIONI
Questo volume nasce a valle delle ricerche per la tesi di Dottorato (Na-
poli 2000), e l’autrice desidera ringraziare quanti, in momenti diversi e in
vario modo, hanno seguito negli anni il suo lavoro. In primo luogo i profes-
sori Benedetto Gravagnuolo, tutor della tesi, e Fulvio Irace, senza la cui
guida non sarebbe stato possibile affrontare un tema e un periodo storico
così complessi come quelli qui trattati; in secondo luogo Carlo Capitanucci,
il cui contributo è stato decisivo nella messa a punto della bibliografia com-
pleta degli scritti di Pica; e ancora Gabriella Capitanucci, cui questo volume
è dedicato, da sempre affettuoso sostegno e futura compagna di lavoro e di
studi. Per la preziosa collaborazione si ringraziano i responsabili e il perso-
nale delle seguenti istituzioni: Archivio Centrale di Stato di Roma; Archivio
Comunale di Milano, Edilizia privata; Archivi Pica e Baldessari, Politecnico
di Milano; Archivio Luigi Moretti, Roma; a Milano, Biblioteche Ambrosiana,
Braidense, Comunale Sormani, d’Arte del Castello Sforzesco, Centrale
della Facoltà di Architettura del Politecnico, Centrale dell’Università Catto-
lica; Biblioteche Nazionali di Roma e di Firenze. Infine, alle professoresse
Maria Giuffrè e Maria Luisa Scalvini va la più sincera gratitudine per l’inte-
resse mostrato nei confronti del mio lavoro.
In copertina:
Agnoldomenico Pica in un disegno di Filippo Pagliani
Sommario
Presentazione di Fulvio Irace 7
3. “Italiam reficere” 67
Dopo la guerra
Pier Luigi Nervi, Luciano Baldessari, Carlo Mollino, Luigi Moretti
«Spazio» nell’attività di Moretti e di Pica
Pica ultimo: un intellettuale sul mercato dell’informazione
Apparati
Profilo biografico 99
Fulvio Irace
1. Milano anni Venti
Vinciana.
3 Politecnico di Milano, Archivio del Rettorato: busta A. Pica. Nell’anno
nella vita e nella scuola, «Il Monitore Tecnico», n. 12, dicembre 1931, p.
453.
13 Cfr. E. N. Rogers, Significato della decorazione nell’architettura,
agosto 1932.
15 Il relatore della tesi dei futuri BBPR era Piero Portaluppi.
Milano anni Venti 17
alla tesi di laurea di Luigi Banfi, Ludovico Belgiojoso, Enri-
co Peressutti ed Ernesto Rogers15, aveva gridato alla scom-
parsa dalle aule della «buffonata degli stili». Di lì a pochi
mesi, invece, anche Milano avrebbe modificato la propria
struttura legislativa passando da sezione a Facoltà16 men-
tre, su esplicita richiesta della stessa Scuola di ingegneria
cui rimaneva legata17, veniva inclusa nel novero delle Facol-
tà di Architettura18 e resa autonoma.
È comunque l’iter accademico seguito da Pica a consen-
tirci di comprendere il sotteso modello di architetto che la
scuola intendeva forgiare e il patrimonio di competenze e
specificità che corrispondevano a ogni protagonista. Gli
insegnamenti, con i relativi docenti e le bibliografie propo-
ste, esprimono, senza filtro alcuno, il clima culturale in cui
Pica e la sua generazione si formarono. Molti tra costoro,
come si è detto, decideranno di prendere le distanze dalla
cultura accademica; altri, come lo stesso Pica, assumeran-
no una posizione di mediazione proponendosi di cogliere i
contributi più significativi della tradizione, tra cui il rappor-
to con la storia, nei suoi riferimenti anche nei confronti dei
temi del restauro dei monumenti e della tecnica edilizia.
Per il decennio 1920-1930, dalla lettura degli Annuari19
risulta illuminante l’analisi degli insegnamenti, dei testi
adottati nei corsi e, soprattutto, dei docenti titolari. Tra di
essi si distinguono alcune figure chiave, non solo dell’am-
biente accademico e istituzionale, ma anche del panorama
professionale del capoluogo lombardo. Gaetano Moretti,
imposto da Roma con, nei primi due anni, gli insegnamenti di Storia
dell’architettura, di Disegno architettonico, di Elementi di composizione e
di Rilievo dei monumenti.
19 Archivio del Rettorato del Politecnico di Milano: Annuari della Regia
Scuola di Ingegneria.
18 Capitolo I
innanzitutto, preside della Facoltà e al tempo stesso docen-
te di Composizione. Uno stralcio del suo programma, rie-
cheggiante posizioni giovannoniane, recitava: «Studio e
sviluppo di edifici di particolare carattere e monumentalità.
Raggruppamenti di edifici. Giardini. Architettura delle città.
Restauro di edifici monumentali. Conservazione e intona-
zione di edifici del passato nello sviluppo delle città
moderne»20. Ambrogio Annoni, responsabile del corso di
Storia dell’architettura, si confermò nel tempo, invece, co-
me uno dei professionisti più accreditati nel campo del re-
stauro dei monumenti, influenzando inevitabilmente in tal
senso anche il proprio insegnamento di carattere composi-
tivo.
Inoltre, dalle scelte didattiche, e soprattutto dalle biblio-
grafie dei differenti corsi, sebbene non siano trascurati
autori come Camillo Sitte o Raymond Unwin, si deduce un
dominante riferimento alla tradizione sette-ottocentesca
francese, nella specificità delle figure di Durand e di Viollet-
le-Duc e, soprattutto, all’Académie d’Architecture. In que-
sta tendenza fortemente esterofila, che mirava comunque a
non compromettere i legami con la tradizione ottocentesca
di Canina e, successivamente, dei lombardi Boito e Beltra-
mi, ma anzi a potenziarne i caratteri ingegneristico-struttu-
rali in una visione neomedievalista, si inserisce inaspetta-
tamente uno scritto “recente” di Giovannoni, Questioni di
Architettura nella storia e nella vita (1925). Non fu certo un
caso che ad adottare quel testo sia stato proprio Portalup-
communications, ibidem; pp. 11. Cfr. anche P. Nicoloso, op. cit., p. 155.
Milano anni Venti 21
convegno di figure di spicco dell’entourage accademico-
sindacale, la posizione dell’Italia sembrò attestarsi, da su-
bito, su un livello invidiabile sia per la struttura didattico-
organizzativa sia per gli aspetti attinenti alla tutela profes-
sionale, distinguendosi rispetto ai principali paesi europei.
Paolo Nicoloso, che nel volume Gli architetti di Mussolini
ha dedicato pagine esaustive ai temi della Réunion, ha sot-
tolineato come a Parigi, ad esempio, l’architettura venisse
insegnata in quattro scuole diverse: l’École Nationale
Supérieure des Arts Décoratifs, l’École des Travaux Publics,
l’École Nationale des Beaux-Arts e l’École Spéciale d’Archi-
tecture24. Per quanto riguarda l’insegnamento in Inghilter-
ra, la situazione appariva ancora più frammentata, con
numerose scuole, tutte private, con le proprie sedi all’inter-
no delle università, dei colleges e delle scuole d’arte. La
Germania, invece, presentava analogie con la situazione
italiana, con sezioni di architettura nelle Technische Hoch-
schule - giudicate da Heinrich Tessenow nel suo intervento
«le uniche serie» - e nelle Accademie d’arte. Sul piano
dell’insegnamento della pratica architettonica, i confronti si
espressero in termini più serrati e, anche in questo caso,
riconducibili alle tradizioni nazionali; così, al caso francese
in cui la tradizione degli ateliers appariva molto radicata,
come del resto anche in Inghilterra, si contrapponeva il
praticantato tedesco che andava a concludere il periodo
degli studi nella Technische Hochschule.
Tra i temi affrontati, anche la carenza normativa sul
piano dell’esercizio professionale emerse con evidenza nel
corso del convegno. Con l’Inghilterra che, senza esitazioni,
denunciava la mancanza di protezione giuridica per il titolo
professionale, sebbene compensata dalla forte presenza
associazionistica del Royal Institute of British Architects;
vari padiglioni» come «fonte di fortissimi squilibri: basti pensare che dalla
puritana falsità del collegio svedese si passa al rigore architettonico di un
Le Corbusier nel Collegio svizzero e alla chiarezza plastica di Willem Mari-
28 Capitolo I
l’episodica Cité Universitaire38. Nel saggio precedente, inve-
ce, con il quesito iniziale Scuola, “Bottega” o autodidatti-
smo? Pica riproponeva l’eterna questione della scuola in
termini nuovi. Escludendo necessariamente nell’organizza-
ta società moderna la concezione di “bottega”, Pica si oppo-
neva però anche all’autodidattismo, sostenendo che «cia-
scuno è necessariamente “autodidatta”, anche nella scuola,
mentre, la figura del così detto “autodidatta puro” è, alla
fine, una invenzione […] Non rimane, dunque, niente altro
che la Scuola di Architettura […] la quale in Italia non è poi
tanto malandata e inadatta». Sulla sua necessità, anzi,
l’autore non poneva il minimo dubbio, mentre si mostrava
preoccupato per la sua evoluzione a causa dell’incongruen-
za tra i programmi d’insegnamento delle nuove scuole e
l’incapacità di adottarli da parte dei docenti. Concludeva, in
un certo senso profeticamente, con la speranza in una
«scuola di domani» in cui la rigida selezione iniziale potesse
condurre a una «elevata, vasta e aggiornata preparazione
culturale».
2. Il cantiere della Storia
Scrivere d’architettura
Biblioteca Ambrosiana.
4 Per gli articoli di Pica apparsi in «Belvedere» (1929-30), si rimanda
34 Capitolo II
Sarfatti e del gruppo novecentista. In campo artistico Bardi
farà riferimento, infatti, a personalità come Carrà, Soffici,
De Chirico e in particolare Sironi, che con Pica intesserà un
profondo e duraturo sodalizio artistico-intellettuale. Nel
maggio del 1929, dunque, esce il primo numero di «Belve-
dere» che, nonostante la sua breve vita, dai protagonisti
dell’intellighentsia editoriale del tempo, da De Benedetti a
Bevilacqua, da Falqui a Oppo, verrà riconosciuto come
punto di riferimento, aperto ai contributi dei critici e artisti
maggiormente esposti sul versante della modernità come
Persico, Garroni, Pica, Rosai, Soffici e altri.
Mutuata, anzi, proprio da una tesi di Soffici - «Non ha
senso dividere l’arte con epiteti vari, meno che mai in “an-
tica” e “moderna”; l’arte è soltanto se stessa» - la posizione
sostenuta da Bardi su «Belvedere» viene condivisa sin dagli
esordi da Pica che, responsabile della rubrica di architettu-
ra, vi contribuirà con l’apporto di molteplici interessi dal
primo numero del 1929 fino al 19314, anno della sua chiu-
sura. L’intesa con Bardi si prolunga anche nella collabora-
zione a «L’Ambrosiano», definito da Giulia Veronesi «l’unico
quotidiano che io conosca, il quale, tenendo il piede in due
scarpe, osasse apertamente sostenere gli intellettuali italia-
ni in una parvenza di fronda»5. A «L’Ambrosiano» Bardi era
arrivato nei primi mesi del 1930, quando ancora ne era
direttore Enrico Caiumi, occupandosi prevalentemente di
recensioni di mostre d’arte. Come ha osservato Francesco
Tentori nella sua accurata ricostruzione della biografia cul-
turale di Bardi6, fu però con la nuova direzione di Giulio
Benedetti che la sua presenza sul giornale si intensificò
sino a divenirne un riferimento fisso, con un ampliamento
dell’area di interesse dei suoi interventi all’architettura e
alla bibliografia.
5 G. Veronesi, Difficoltà politiche dell’architettura in Italia: 1920-1940,
1985, p. 94.
13 E. Persico, L’architetto Gio Ponti, «L’Italia letteraria», 29 aprile 1934.
36 Capitolo II
terminante, infatti, nell’individuazione di percorsi storio-
grafici affini, nella messa a punto di un metodo critico di
ispirazione crociana e persino nella sottolineatura dell’ope-
ra di architetti attivi nell’area del moderno. Anteponendo
entrambi le ragioni della biografia a quelle dell’ideologia,
condivisero l’eccentricità, o la solitudine, di una linea criti-
ca disposta a leggere il buono anche nelle posizioni di quel-
li che, in condizioni diverse, altri critici avrebbero giudicato
totalmente estranei. Come Persico seppe tessere l’inaspet-
tato elogio di Ponti13, così Pica riconobbe l’onestà intellet-
tuale di Muzio e la bontà dell’impostazione urbanistico-ar-
chitettonica della sua Università Cattolica14.
Entrambi inoltre, pur pervenendo a posizioni completa-
mente differenti, ebbero profondi rapporti con artisti come
Martini, Severini, De Amicis, Sironi, e con architetti come
Terragni, Lingeri, Figini e Pollini, Ponti, Mollino. Ad acco-
munarli potrebbe ulteriormente contribuire proprio il rap-
porto che ciascuno dei due ebbe, in momenti e con modali-
tà distinte, con Giuseppe Pagano, arduo trait d’union tra il
commitment della critica partecipata e la fedeltà a un intimo
principio di ordinamento spirituale.
Nel 1929, due anni prima della laurea15, Pica entra a far
parte della redazione di «La Casa Bella», passata in quell’an-
no dalla direzione di Marangoni a quella di Bonfiglioli; nello
stesso anno, fa il suo ingresso in redazione anche Giuseppe
Pagano, appena trasferitosi a Milano da Torino. Sebbene la
direzione di Pagano abbia poi coinciso con un rallentamen-
to, di fatto, del contributo critico di Pica - che in qualche
occasione riuscì a esprimere idee non completamente in
linea con quelle dell’architetto istriano - anch’egli fu coin-
volto nell’impegno nell’Ufficio tecnico e poi nel Centro studi
sull’architettura moderna della Triennale, istituito nel 1936
l’urbinate «imitatore sapiente e perfetto degli antichi»; cfr. Gli antichi visti
dai moderni: Bramante, «Casabella», n. 62, febbraio 1933, pp. 27-29. Nu-
merosi i saggi dedicati a Mantegna e tutti redatti tra il 1931 e il 1934, per
i quali si rimanda alla bibliografia.
20 Una villa moderna nella città del Rinascimento, «La Casa Bella», di-
pp. 30-33.
24 Il Duomo di Milano (1924) e Il Tempio dei Malatesti (1930).
25 Tutti saggi apparsi in «Emporium». Questa “linea del moderno” sarà
anni precedenti era «Problemi d’arte attuale. 1927», più tardi «1928» e
«1929».
Il cantiere della Storia 43
in occasione della V Triennale del 193329, per Pica il razio-
nalismo italiano se non morto, come per il critico napoleta-
no, è certamente, nel 1931, non ancora maturo, e la nuova
architettura italiana non gli pare «certa e chiara da potersi
in via assoluta affermare», anche a causa della sua ecces-
siva dipendenza formale dagli “schemi” di Le Corbusier, di
Gropius, di Taut e di Lurçat. Sorprendente per la giovane
età e per la conoscenza del panorama architettonico euro-
peo, questa prima sortita di Agnoldomenico Pica è partico-
larmente significativa per l’apertura concettuale che in nuce
contiene e che sintetizza la singolarità di una posizione,
potremmo dire, delimitata in un ambito teorico, le cui coor-
dinate maggiori possono essere definite dalle tesi di Persico
e di Giolli.
Di Giolli, Pica condivise «la ricerca della Poesia» - come
scrive de Seta - e l’apprezzamento per taluni esponenti del
Novecento (Sironi soprattutto) e per alcuni membri del co-
siddetto “gruppo neoclassico”. Nel 1930 infatti, proprio
sulla rivista di Giolli «Poligono»30, Pica tessé l’elogio dell’Uni-
versità Cattolica di Muzio e su «La Casa Bella» dello stesso
anno quello della Sala della grafica alla IV Esposizione di
Monza: di essa Pica, in particolare, colse gli «aspetti di un
ordine fantastico», tradendo così un’altra delle caratteristi-
che del suo sistema interpretativo, che troverà particolare
evidenza nello scritto del 1933 sul «Colosseo», dedicato alla
casa Tugendhat di Mies van der Rohe.
Rileggendo l’opera di Mies, dai grattacieli del 1921 ai
blocchi berlinesi di Alexanderplatz, dal padiglione di Bar-
cellona alla casa Tugendhat di Brno, Pica non sottolinea il
carattere della riduzione linguistica, dell’applicazione nor-
mativa, del ricorso allo standard, etc. ma, sorprendente-
mente, ne esalta «l’impeto lirico», «l’essenzialità del pensie-
31 All’estremo della modernità: Mies van der Rohe, «La Casa Bella»,
novembre 1931.
44 Capitolo II
ro», addirittura «l’avventura della fantasia». Mies, dunque,
rappresenta per Pica «la ribellione più illustre forse - e più
chiara - contro ogni insinuazione di bassezza utilitaria o,
comunque, di grettezza, lanciata contro la purità della nuo-
va architettura». L’intonazione dello scritto risente chiara-
mente del più articolato precedente saggio di Edoardo Per-
sico31, in cui l’accento è posto sulla forza delle idee, sulla
ispirazione lirica e sull’interpretazione di casa Tugendhat
come «labirinto fantastico». Se Persico aveva scritto che la
casa di Brno «stabilisce autorevolmente che il compito del
costruttore moderno è di superare i semplici presupposti di
mestiere e sboccare in […] altre interpretazioni originali
della bellezza», Pica, quasi parafrasando, paragona casa
Tugendhat a una «affermazione netta e chiara della posizio-
ne presa dall’artista di fronte al problema del costruire:
costruire per la pratica utilità e per l’agiatezza del vivere, sì,
ma costruire, ancora, per la bellezza, per la gioia, per la
pienezza dello spirito». Su questa interpretazione di Mies,
Pica tornerà successivamente in alcuni saggi come Il vetro
e l’architettura32, e in Nuova architettura nel mondo (1938),
nella cui introduzione lamenterà, a proposito degli architet-
ti e delle opere presentate nel volume - probabilmente rife-
rendosi proprio a Mies e a Gropius - le «esclusioni anche
dolorose» nella raccolta delle opere tedesche.
Nonostante le riserve per taluni aspetti più visionari
dello spiritualismo critico di Persico, è evidente che Pica ne
ritiene meritevole l’impostazione ispirata al pensiero ideali-
sta, con il suo accento posto sui valori creativi individuali
contro le generalizzazioni storiografiche e le forzature ideo-
logiche. Calato nell’intreccio professionale e culturale del
contesto milanese, Pica resta lontano dalle intime ragioni
dello spiritualismo di Persico e dalla sua penetrante lettura
lano-Roma 1930.
37 «Emporium», gennaio 1935, pp. 11-18.
38 Pioneers of the Modern Movement from William Morris to Walter Gro-
pius, London 1936. A testimoniare una certa affinità culturale tra i due
storici, sarà anche, molto più tardi, la recensione che il critico anglosas-
sone farà di Architettura moderna in Milano. Guida, in «The Architectural
Review», maggio 1964.
39 A proposito della condizione contemporanea, Pica aggiungerà: «Cre-
do sia discutibile la tesi di Maurice Casteels che, nel suo libro L’Art moder-
Il cantiere della Storia 47
la nuova architettura39.
Il moderno in Europa
1934.
46 G. Pagano, Architetti europei: W. M. Dudok, «Casabella», n. 57, set-
tembre 1932.
47 Risale allo stesso anno l’intervento di József Molnar e Dénes Sch-
[…] lavorano alla formazione di un gusto europeo» - nel saggio sopra cita-
to, L'Ungheria verso l'Europa.
50 G. Pagano, L’arte di Hans Poelzig, «Casabella», 70, ottobre 1933.
52 Capitolo II
nalistica, l’indirizzo industriale», le prime due naufragate
nel dramma della guerra, le altre in piena fioritura negli
anni del dopoguerra. Come aveva ridimensionato la portata
di Perret nel panorama francese, così Pica sminuisce la
centralità di Behrens in quello tedesco, definendone «mute-
vole» il contributo al filone delle costruzioni industriali a
fronte di «personalità spiccatissime» come Poelzig, Schuma-
cher, Bonatz, Höger, Böhm. In essi legge il «senso del ritmo
ribattuto, della molteplicità conforme, dell’eco infinita di
motivi ripetuti con insistenza ossessiva». Di Hans Poelzig
rivela il limite di certe preferenze romaniche, ma ne vede
risolto il pericolo «nella potente fantasia dell’architetto, ca-
pace di arricchirsi, senza stanchezza, persino di sfumature
di sapore arabesco»; su Poelzig era intervenuto, qualche
anno prima, anche Pagano, che in lui aveva invece ricono-
sciuto «non solo lo stilista moderno, ma anche un classico
educato alla scuola di fine Ottocento»50. In Paul Bonatz,
Pica apprezza la serenità che consente al “goticismo” ger-
manico di cedere «al senso della massa piena e del piano
continuo». La genealogia del funzionalismo va invece ricer-
cata nella lunga tradizione dell’architettura industriale te-
desca: non tanto in Behrens però, bensì in edifici come la
Markthalle di Küster e la Jahrhunderthalle di Max Berg a
Breslavia, per il «sentimento delle possibilità espressive del
cemento armato». Ma è in Erich Mendelsohn51 che Pica
trova il profilo di «uno degli artisti più singolari e personali»
del primo dopoguerra tedesco: in lui ammira infatti la «po-
tenza» e la coerenza della «fantasia», forse indigesta per
«qualche bigotto del razionalismo», ma essenziale per la li-
bertà espressiva dell’architettura. Ricorrendo alla perifrasi
di un’intuizione di Persico nella sua Profezia, Pica ribadisce
motivo ricorrente sia negli scritti di Pagano che in quelli di Persico. Cfr.: G.
Pagano, L’arte di Hans Poelzig, cit.; E. Persico, Per Van de Velde, «Casabel-
la», giugno 1933.
53 Cfr.: «Emporium», luglio 1938, pp. 29-40, e Guida italiana all'archi-
54 Capitolo II
nalismo, non tanto una conseguenza diretta delle “difficoltà
politiche” della nuova architettura, quanto piuttosto l’estin-
guersi o l’assopirsi di una tensione per consumo interno.
Una stasi, insomma, «che le condizioni attuali hanno potu-
to in un primo momento, non già provocare, ma forse favo-
rire, soprattutto per le arbitrarie illazioni da dottrine del
tutto estranee all’arte e per l’equivoca interpretazione dei
soliti bigottismi intellettualoidi e moraloidi».
Il rapporto dell’architettura moderna con la storia e,
soprattutto, con la tradizione, introduce un tema dramma-
ticamente dibattuto in quegli anni, cui nemmeno Pica, al
pari dei più agguerriti razionalisti, sembra volersi sottrarre.
Così, in Adolescenza dell’architettura moderna si trova a
sostenere che l’architettura attuale è «naturalmente inqua-
drata nella tradizione in quanto se ne abbia - come avere si
deve - un concetto dinamico di continuo divenire e non se
ne faccia qualcosa di statico o, comunque, di concluso».
Alla pretesa che l’architettura moderna fosse il risultato
di un progresso tecnico della sola cultura materiale, Persico
aveva anteposto il predominio dello spirituale e la centralità
della dimensione intellettuale; posizione ripresa da Pica nel
suo Cent’anni di architettura in Francia53, dove stigmatizza
l’infatuazione per il progresso riscontrabile nella critica
corrente. Proseguendo, Pica lancia caustiche e incalzanti
riflessioni nei confronti di taluni dei protagonisti di quel
panorama di “modernità”. Di Viollet-le-Duc, a cui comun-
que riconosce un ruolo di primo piano nella Francia premo-
derna per il suo atteggiamento «antiaccademico, rivoluzio-
nario e strettamente realistico», apprezza l’attività critica e
di studioso, e in particolare «il monumentale e mirabile
Dictionnaire», ma ne sottolinea le responsabilità «nella per-
niciosa teoria dei restauri in stile».
naio 1935.
Il cantiere della Storia 55
All’uomo dell’Ottocento si sostituisce quello del secolo
successivo, troppo compromesso con il Liberty, «tritume
decorativo» che permane nelle prime costruzioni di Perret e
si propaga per tutta l’architettura francese, trapelando per-
sino «sotto il nitore di un Lurçat o di un Mallet-Stevens».
Controcorrente rispetto al riconosciuto ruolo di “pionieri”
tributato ai Perret dalla critica straniera, Pica stigmatizza
«quel gusto trito, quasi da intagliatori, che caratterizza tut-
ta l’opera di questi due architetti». Dall’esame della loro
produzione il critico crede così di poter individuare due
correnti “modernissime”: l’una, appunto, ispirata a Perret,
a Débat-Ponsan e ad Albert Laprade, «devota del cemento
armato e di un certo qual fasto decorativo», che «pensa di
toccare il fondo dell’onestà costruttiva esponendo dapper-
tutto pilastri»; l’altra, riconducibile a Le Corbusier, più vita-
le proprio per l’aspra evidenza delle sue contraddizioni, e da
cui emerge una visione artistica della tecnica, non paga
della sua interna perfezione.
A Le Corbusier54 Pica dedica un profilo breve ma lucido
e innovativo, riuscendo a cogliere con acume la scissione di
una personalità creativa in perenne dialettica «tra il critico,
il filosofo, il polemista e il costruttore»: cioè «tra il razionali-
sta puro» e il «poeta attivo e creante».
Contro la riduzione di Le Corbusier a machiniste intran-
sigente, Pica mette in risalto la natura sostanzialmente
complessa della sua ricerca: «Quando la figura artistica di
quest’uomo sarà del tutto capita si vedrà che questo mate-
matico puro, questo geometra, questo fisico della costruzio-
ne, era poi, soprattutto, un concertatore musicale di volu-
mi, un lirico anche a spese (si noti: a spese) dell’utile. Non
sarà forse privo di qualche interesse ricordare che Le Cor-
busier è anche un pittore astrattista e che fu appunto lui a
Il caso italiano
67 Ivi, p. 20.
68 Cfr. ancora ivi, p. 27.
69 «L’Ingegnere», dal 1938 al ‘40, è diretto da Giuseppe Gorla che ne
64 Capitolo II
È però nel dopoguerra che si forma la nuova scuola ita-
liana, secondo quella distinzione, che diventerà poi uno
stereotipo, tra i “neoclassici” lombardi (Muzio, Ponti, Alpago
Novello, Buzzi, etc.) e i “neobarocchi” romani (fra cui Pia-
centini, Busiri Vici, Calza Bini).
Iniziatosi intorno al 1924, il razionalismo italiano ebbe i
primi assertori nel G7, e nel Lingotto la sua prima vera af-
fermazione costruttiva. «Più chiara coscienza» ispirava la
Casa Elettrica di Figini, Pollini, Frette, Libera e Bottoni a
Monza nel 1930, mentre a Torino Giuseppe Pagano con il
palazzo Gualino e la polemica per la nuova via Roma rilan-
ciava i temi della modernità, senza essere del tutto esente,
però, da un «certo gusto di pesantezza». Dopo aver ricorda-
to l’attività polemica di Bardi e il «magistero del gusto»
svolto dalla «Casabella» “riformata” dal napoletano Edoardo
Persico, l’analisi di Pica passa dalla storia alla critica, se
così si può dire, ponendo il problema più arduo della valu-
tazione del razionalismo in termini morali e di apertura alla
diversità. A ragione dunque Giolli aveva sottolineato,
dell’impostazione di Pica, l’attenzione a quei caratteri che
«servono a distinguere, a distaccare»: parlando della “crisi”
del razionalismo e del funzionalismo, Pica infatti la inqua-
dra come fattore di rinnovamento e di chiarimento, come
strumento di liberazione dall’equivoco della “tecnica”, della
“pratica”, della “materia”: «il razionalismo italiano - scrive
- ha ormai superato con un colpo d’ala i limiti ciecamente
deterministici di teorie del tutto estranee al mondo della
creazione, per porsi finalmente il problema dell’architettura
contemporanea nell’unico modo possibile: come un proble-
ma squisitamente ed esclusivamente d’arte»68.
Particolarmente significativa appare l’apertura ai fer-
menti del nuovo provenienti da esperienze relativamente
“marginali” ed “eccentriche” come quelle di Luciano Baldes-
rivista comincia proprio nel luglio del 1938, con l’articolo Il Foro Mussoli-
ni.
70 L’articolo suscitò le ire di Gustavo Giovannoni, espresse in una let-
tera aperta pubblicata su «L’Ingegnere», ottobre 1942, cui Pica replicò nel
febbraio 1943 sulla stessa rivista, e nel luglio successivo su «Costruzioni-
Casabella» con l’articolo Polemica caudata.
66 Capitolo II
stabilimento Olivetti a Ivrea di Luigi Figini e Gino Pollini70.
L’ultimo intervento di Pica sul tema dell’architettura
italiana apparve nel numero 190, del novembre 1943, con
cui «Casabella» chiuse le sue pubblicazioni. Significativa-
mente il titolo, Daccapo, ricordava il più noto Punto e a capo
di Edoardo Persico, anche se il tono e l'attenzione al proget-
to risentono dell’ottimismo del Ponti di «Stile» e del monito
di Pagano all’urbanistica e alla standardizzazione. Gettan-
do un ponte verso quella che sarà la linea critica degli anni
del secondo dopoguerra, Pica sembra voler aprire l’interes-
se degli architetti italiani verso esperienze e artefici che la
storiografia degli anni Cinquanta indicherà come emblemi
di questo secondo rinnovamento: Alvar Aalto, ad esempio,
e soprattutto Wright, e con loro l’italiano Nervi.
3. “Italiam reficere”
Dopo la guerra
Pace, M. Rosso, P. Scrivano (a cura di), Tra guerra e pace, Milano 1998.
3 Profezia dell’architettura, cit.
“Italiam reficere” 69
occupato Giuseppe De Finetti in uno scritto del 19384,
mentre lo stesso Pica, nel 1933, nell’ambito della V Trien-
nale aveva curato per la Galleria internazionale di architet-
tura una sezione sul maestro americano5. Tornato di attua-
lità grazie all’intensa promozione di Bruno Zevi che lo aveva
eletto a paradigma dell’architettura organica, Wright rap-
presentava dunque agli occhi della critica più avvertita un
modello non solo estetico ma anche politico, vista l’identifi-
cazione promossa da Zevi dell’architettura organica come
architettura della democrazia. Una concezione questa, evi-
dentemente, che Pica, da crociano convinto e da convinto
nostalgico dell’illusione fascista, non poteva condividere,
sembrandogli che il valore di Wright fosse da cogliersi «nel
senso essenziale dell’architettura» e non in quello effimero
delle sue contingenze epocali. Wright come antidoto all’usu-
ra del razionalismo gli sembrava, più che una risposta, una
scorciatoia. Una via d’uscita ingenua, insomma, incapace
di scorgere i motivi profondi di una crisi le cui radici anda-
vano ricercate più indietro nel tempo e nelle ragioni della
storia: nell’insufficienza del razionalismo, per esempio, in
quella discrepanza tra lo spirito e la lettera riscontrabili in
Le Corbusier, oppure nelle insorgenze plastiche e formali di
Alvar Aalto e della “scuola romana” di Luigi Moretti, di
Adalberto Libera, di Mario Ridolfi, di Pier Luigi Nervi o,
ancora, nell’accezione idiosincratica del «complicatissimo e
raffinato» Carlo Mollino.
«Reazioni interne», come le definiva Pica, che contestava-
no la possibilità stessa di una considerazione univoca del
razionalismo, a prescindere cioè dalle singole declinazioni
di Reyner Banham fece molto scalpore ed ebbe larga eco, nonché varie
74 Capitolo III
ne, per così dire, di tematica critica, raggruppando le opere
secondo tre categorie. Nella prima, concentra le testimo-
nianze della «resistenza razionalista»13; nella seconda collo-
ca quelle opere in cui appaiono più nette «le sollecitazioni
dell’architettura organica»14; nella terza infine ordina tutte
quelle figure che ricadrebbero «nell’attualissima categoria
del post-razionalismo»15. Dalle parole dell’introduzione, ol-
tre che dalla muta eloquenza delle ricorrenze, risulta evi-
dente la particolare simpatia di Pica per quest’ultimo grup-
po, da lui considerato «la più vasta zona dell’architettura
italiana che sfugge a qualsiasi, anche provvisoria, classifi-
cazione»; qui i valori emergenti sono individuati nelle figure
di Luigi Moretti, Pier Luigi Nervi, Luciano Baldessari, Carlo
Mollino, Giovanni Michelucci.
Accomunati, nell’analisi di Pica, anche da una condivi-
sione di natura tecnico-espressiva, questi stessi “liberi
battitori” sembravano trovare nell’utilizzo del cemento ar-
mato una collocazione di comune riconoscibilità: «in questo
Luciano Baldessari
Carlo Mollino
Luigi Moretti
Fondo Moretti - Archivio Centrale dello Stato di Roma, la rivista era edita
dal Gruppo editoriale Spazio, sostenuto economicamente da Moretti. Cfr.
S. Santuccio, La rivista «Spazio» e l’equivoco della teoria, in L’esperienza
di Luigi Moretti attraverso «Spazio», Bologna 1986, p. 24.
28 Cfr. F. Irace, Milano Moderna, Milano 1996, p. 11.
“Italiam reficere” 83
buto critico è praticamente inesistente. I saggi di Moretti,
infatti, si infittiscono attorno agli anni Cinquanta e si con-
centrano quasi esclusivamente su «Spazio». È probabile,
dunque, che proprio in quegli anni Moretti abbia trovato gli
stimoli per creare un proprio impalcato teorico, arrivando
ad organizzare addirittura una struttura periodica.
Quando esce il primo numero, Moretti è da poco ricom-
parso sulla scena architettonica italiana, dopo una brusca
interruzione di attività dovuta ai difficili eventi storici in cui
è direttamente coinvolto. Lo stesso vale per Pica, anche se i
termini e il ruolo politico e gestionale sono completamente
differenti, visto il suo profilo più defilato anche grazie al
fatto che Milano non è Roma, e le compromissioni risultano
meno determinanti. Li accomuna comunque la capacità di
rivolgere il proprio impegno politico e ideologico al progetto,
umanistico-teorico, della costruzione della rivista. Non è
difficile comunque supporre che «Spazio» nasca soprattutto
per promuovere la parallela attività progettuale - e con essa
l’attività teorica - di Moretti e quindi per rilanciarne l’imma-
gine.
Alla nascita della rivista, probabilmente, possono aver
contribuito alcune circostanze. Una di queste potrebbe
essere stata costituita dall’incontro tra Moretti e il conte
Adolfo Fossataro, avvenuto nel 1945 nel carcere di San
Vittore. Con questo ricco imprenditore Moretti fonda la
Cofimprese28, una società di costruzioni finanziata da Fos-
sataro con la quale Moretti realizza opere a Roma e a Mi-
lano tra il ’48 e il ’54. Ma è possibile che, con l’aiuto econo-
mico di Fossataro, venga pubblicata anche «Spazio» sul cui
primo numero, peraltro, proprio Pica presenta, con la “re-
censione” La sposa non vestiva di bianco, un film diretto da
Mario Baffico e prodotto dallo stesso Fossataro, che asso-
ciava all’attività di costruttore quella di produttore cinema-
ro degli scritti raggiunge i 120 in soli tre anni e sette numeri della rivi-
sta.
30 Corrispondenza presso il Fondo Moretti, Archivio Centrale di Stato
76.
39 Cfr. A. Greco, Moretti dipinto in forma di faraone. Il gioco delle parti
I-IV; Architettura italiana dal 1945 al ‘62, «Domus», n. 395, ottobre 1962,
“Italiam reficere” 93
differenti effetti scaturiti dalla «ventata organica»: uno di-
retto, l’altro indiretto. Se questo si traduce «nel vigoroso
contributo alla rimessa in questione di tutto l’operare ar-
chitettonico», il primo è riconducibile a esempi concreti
come quello di Carlo Scarpa, «il quale trovandosi ad essere
[…] un artista, è forse l’unico che abbia tratto dal suo entu-
siasmo per il maestro americano gli stimoli iniziali per una
sua personalissima esperienza». Dell’architetto veneto, cita
il padiglione del Venezuela alla Biennale di Venezia, il re-
stauro di palazzo Abatellis a Palermo, e quelli del museo di
Castelvecchio a Verona e della gipsoteca canoviana a Pos-
sagno, «tra i più pungenti raggiungimenti dell’architettura
italiana di questi ultimi anni».
Più sorprendente l’indicazione del neorealismo e del ne-
oliberty come derivazioni applicative del principio organico,
di cui condividerebbero soprattutto la natura “romantica” e
anticlassica, ma anche il pericoloso declinare delle «affer-
mazioni antieroiche», in una «retorica della sciatteria».
«L’architettura cosiddetta neorealista nasce dal solco
delle illusioni e delle confusioni del dopoguerra. L’insegna-
mento, che si credeva trarre dagli esempi wrightiani, o
magari da quelli più prossimi e di eguale prestigio di un
Aalto, ricevuto come avvio a un cosiddetto inserimento nel-
la natura e, poi, contaminato con le clamanti, e alquanto
letterarie, aspirazioni populiste, si traduce alla fine in esiti
dialettali o folcloristici».
Troppo «casuale» gli sembra il quartiere Tiburtino, men-
tre trova che la «fantasia di un Mario Ridolfi o di un Ludo-
vico Quaroni riesce a riscattarsi» solo in opere come le case
di viale Etiopia o il villaggio La Martella, in cui «la sensibili-
tà pittorica e un certo piglio scenografico offrono almeno un
certo ordine di risultati».
L'esito migliore di questa attitudine a riconsiderare tra-
dizione, materiali e natura andrebbe per Pica individuato,
però, «nella indiretta conferma che la modernità e validità
94 Capitolo III
della architettura non sono necessariamente vincolate alle
tecniche nuove, né ai nuovi materiali». Da questo punto di
vista la stessa esperienza editoriale del Manuale dell’archi-
tetto, ad opera di Calcaprina, Cardelli, Fiorentino e Ridolfi
nel 1946, seppur rispondente in larga massima «agli inten-
ti meschinamente dialettali del neorealismo», era servita
tuttavia a «recuperare dimenticati elementi che avrebbero
naturalmente funzionato, come poi di fatto avvenne, da
reagenti dialettici nella nuova architettura».
Pure indirettamente ispirato a Wright - alla sua «tenace
fedeltà» all’Art nouveau - si svilupperebbe, secondo Pica, il
neoliberty: «sennonché, quello che nel vecchio maestro era
stata la maturazione […] di una personale e autentica poe-
tica, assume negli improvvisati neofiti le più spiccate e de-
teriori caratteristiche di un vero e proprio revival in senso
ottocentesco».
Proprio a proposito di quest’ultima tendenza, Pica ac-
cenna alla già citata polemica di Reyner Banham, smorzan-
done i toni, quasi a giustificare come non completamente
“immotivata” la definizione che l’inglese aveva dato
- «infantile regression» - della vicenda italiana post-bellica.
Né più incisiva, per le sorti della nuova architettura, Pica
ritiene la proposta del brutalismo, «l’ultima e non molto
incidente esperienza italiana», fondata sulla pretesa espres-
sività della struttura, snaturata per tale via e ridotta a una
misura retorica e letteraria: severo è quindi il giudizio
sull’opera di Viganò (l’Istituto Marchiondi-Spagliardi) e di
Zanuso (villa Shapira).
In un quadro percorso da inquietudini e incertezze,
frammentato da personali vie d’uscita e da appassionati
dibattiti, caratterizzato da una vitalità «prepotente e multi-
forme», il maggior punto di consistenza rimane dunque per
Pica quello rappresentato dalla continuità con il razionali-
smo anteguerra, aggiornato ai moduli di una nuova sensi-
bilità. Infatti, al filone «post-razionalista che è rimasto effi-
“Italiam reficere” 95
ciente e valido […] in continua dialettica e ripensamento»,
Pica riconduce le esperienze di Lingeri, Bottoni, Cosenza,
Zavanella, e anche i grattacieli per uffici di Bega, Ponti,
Nizzoli, Bernasconi.
«Per il resto - scrive - dovremmo trasformare la nostra
rapida rassegna in una serie di monografie», quasi a sotto-
lineare l’aspetto di singolarità rintracciabile, per esempio,
nel lavoro di taluni studiosi e critici militanti come Pane,
Zevi e Perogalli, o di protagonisti più “anziani” (Nervi, Libe-
ra, Michelucci, Vaccaro, Baldessari). Il percorso e l’elenca-
zione delle opere e dei loro autori proseguono e si ampliano,
ma soprattutto sono richiamati i riferimenti già indicati nel
volume del 1959, tant’è che a conclusione Pica, a proposito
di Moretti, sostiene: «gli addebiti che gli sono stati mossi
circa una eccessiva disinvoltura nel piegare il meccanismo
strutturale [...] sono in definitiva i titoli maggiori della sua
forza inventiva». Il quadro italiano “dopo il diluvio”, per Pi-
ca, si riconferma senza ripensamenti.
Ancora dalle pagine di «Le Arti», il critico ha modo di
affrontare temi maggiormente svincolati dal puro evento
singolo: più volte ritorna, infatti, sul tema della pubblicità
(Difesa della architettura pubblicitaria, 1952 e Pittura pubbli-
citaria americana, 1953), anticipando quelle correnti artisti-
che e sociologiche che esploderanno negli anni Sessanta
con la cultura Pop.
In linea con quelle che di lì a poco saranno le teorie sui
media portate avanti da Marshall McLuhan (1967) e sulla
relazione tra arte e tecnica condotte da Lewis Mumford48,
Pica interviene anche sul rapporto tra cultura e televisione
pp. 1-2.
48 L. Mumford, Arts and Technics, New York-London, 1952 (traduzione
italiana 1961).
49 Successivamente rilascerà anche interviste televisive e radiofoniche,
pp. 132-136.
51 Fontana, presentazione alla mostra, Milano 1959; Rosario Murabito,
Monografie
1931
Getti d’arte, prefazione al catalogo, disegni di Albini e Palanti,
Milano.
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Milano, Milano.
1934
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1936
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106 Apparati
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della I Mostra del volo nell’arte italica a Roma, Roma.
1940
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1942
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(a cura di), Architettura delle cerimonie, Milano.
1948
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1951
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1954
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1955
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1956.
1957
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Bibliografia degli scritti 107
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febbraio 1959. Premessa, in R. Aloi, Mercati e negozi, Milano. Fon-
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108 Apparati
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Bibliografia degli scritti 109
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