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Marco Pellegrini

Il papato nel rinascimento

Il recupero dell'autorità primaziale

Monarchia pontificia: un concetto problematico. I papi hanno sempre rivendicato il diritto di


rappresentare il vertice della Chiesa di Cristo come un diritto inerente alla loro dignità di successori
di Pietro. La traduzione pratica di questo primato petrino è sempre stata difficoltosa. Gli avversari
contestano come un abuso ogni declinazione in senso monarchico del primato e sostengono che il
potere di direzione della Chiesa deve essere condiviso collegialmente. In età tardoantica la nozione
di principalitas porta alla definizione di principatus che fu associata alla preminenza goduta da
Pietro nel collegio degli apostoli (honos petri). Questa associazione divenne operativa entro il 422
anno in cui Bonifacio dichiara che la “sede apostolica detiene il principatus”.
Nel 472 papa Gelasio I afferma che la “sede apostolica possiede il principatus su tutta la Chiesa”.
Gregorio Magno diede i primi lineamenti della dottrina del primato petrino che conia l'attributo di
servus servorum Dei per designare la propria condizione gerarchica: il papa doveva essere
considerato il primo di tutti nella cura et sollicitudo (termine che voleva dire anche giurisdizione
amministrativa → non escludeva l'intervento negli affari temporali) del bene della Chiesa
universale: il vero potere del papa è lo zelo.
Nel 1075 il Dictatus Papae di Gregorio VII dichiarò che solo il papa di Roma poteva essere
definito vescovo universale della Chiesa. Il Corpus iuris canonici contribuì alla strutturazione in
senso monocratico della Chiesa d'Occidente. Il primato detenuto dal papa diede luogo alla dottrina
della plenitudo potestatis, ossia del potere supremo che gli competeva sopra la Chiesa e il mondo in
quanto sulla Terra egli è rappresentante di Cristo. Innocenzo III fece cambiare l'appellativo di
vicario di Pietro in vicario di Cristo. Nel 1302 fu emanata la bolla Unam Sanctam da Bonifacio
VIII, summa del medioevo sulla tesi del potere onnicomprensivo del pontefice romano. Tuttavia
egli non menziona mai la parola monarchia. Monarchia papale come espressione è complessa
nell'applicazione alla Chiesa romana. Nel periodo 1417-1527 comunque essa è motivabile. Nel
1436 durante lo scontro tra Eugenio IV e il Concilio di Basilea, il papa accusò il concilio usando le
parole monarchia e democrazia. Dopo la chiusura del concilio il termine monarchia conobbe una
fase di grande fortuna.

Il punto di riavvio: l'elezione di Martino V (1417). Nel 1417, deposti i papi preesistenti, Martino
V venne eletto papa al Concilio di Costanza. Egli, pur senza sconfessare in Concilio e mantenendo
il favore dell'imperatore Sigismondo, non confermò la riforma della Chiesa tratteggiato dal
concilio. Di conseguenza le decisioni prese a Costanza rimasero prive di convalida papale e persero
parte del loro valore giuridico: la dottrina conciliarista cominciò ad essere sgretolata. Il papa si
impegnò a riedificare la monarchia pontificia, contro i conciliaristi che volevano un concilio
regolarmente convocato a scadenze fisse. In alcune bolle affermò la tesi dell'infondatezza del
ricorso in appello al futuro concilio contro le decisioni papali. In silenzio Martino V svuotò
l'effettività del concilio. Intanto aveva stipulato accordi con i regni di Francia, Spagna, Inghilterra,
Impero germanico dando ai sovrani ampi poteri nella gestione degli affari ecclesiastici del loro
dominio in cambio del riconoscimento dell'autorità papale ripristinata. Nel 1423, tornato in Italia
(ma non a Roma) convocò un concilio ecumenico a Siena ma fu cancellato. Nel 1431 a Basilea ne
fu convocato un altro affidando la presidenza al cardinale Cesarini, ma poi Martino morì e la
situazione si fece ancora fluttuante per il papato.

Il Concilio di Basilea (1431-1449). Il nuovo papa Eugenio IV diede chiari segnali di discontinuità
rispetto al suo predecessore, una inversione frequente perchè supportata dal principio della libertas

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Ecclesiae, secondo cui non si può sottoporre la Chiesa di Cristo a condizionamenti storici che non
possa rescindere quando lo desideri. Eugenio IV decise di ridurre drasticamente il potere che
durante il pontificato di Martino IV aveva assunto la casa baronale dei Colonna, limitando la
fazione cardinalizia a disposizione del cardinale Prospero Colonna. Perciò venne revocata la
dignità cardinalizia a Domenico Capranica che aveva ricevuto dal Colonna una designazione solo
verbale dal defunto Martino V. Il Capranica, non accettando la decisione di Eugenio, ricorse in
appello al concilio di Basilea, presieduto dal Cesarini che non poteva accettare che fosse fatta
piazza pulita delle scelte di Martino. Dopo la sua inaugurazione nel luglio 1431, Eugenio inviò una
lettera a Cesarini ordinandogli di trasferire il concilio da Basilea a Bologna: la Chiesa Ortodossa,
bisognosa di parare l'aggressione turca, sembrava pronta a riunirsi con la Chiesa latina. Ma durante
il Concilio fu intimato al papa di recarsi subito a Basilea, perchè in caso contrario i padri avrebbero
regolato da soli. Fra i partecipanti si fece largo il proposito di avvalersi dei risultati del Concilio di
Costanza per muovere guerra alla pretesa monarchica di Eugenio IV, che fu sottoposto alle
imputazioni di eresia, scisma, contegno scandaloso, tanto da minacciarlo di deposizione per
inadempienza dei suoi obblighi. Il sinodo divenne aggressivo anche grazie al sostegno
dell'imperatore Sigismondo, timoroso di vedere disfatta l'architettura laica e unitaria che aveva
cercato di imprimere all'Europa cristiana. Alla fine le deposizioni imperiali ottennero che Eugenio
nel 1433 revocasse l'ordine di trasferimento. Forte di questa vittoria il concilio abolì le strutture
giuridiche e finanziarie che alimentavano la vita materiale della curia romana, strangolando
economicamente il papato: Una parte degli introiti sottratti alla sede apostolica dirottata nelle casse
del concilio che mise in piedi una camera finanziaria, una cancelleria, una penitenzieria, un corpo
diplomatico. I poteri istituzionali del concilio furono dilatati al punto da non avere più limiti.
L'assemblea prese la prerogativa di deliberare intorno a qualsiasi materia concernente la vita dei
fedeli che finì per essere regolata secondo il criterio maggioritario: trionfo dell'ideale democratico
applicato al governo della Chiesa occidentale.
La maggioranza dei membri del concilio era costituita da esponenti del basso clero e da laici veri
propri: docenti universitari e professionisti del diritto ma anche avventurieri della penna e della
parola.

Il concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439). Cercando aiuti contro l'invasione turca, imperatore


d'oriente Giovanni VIII Paleologo si dichiarò pronto a venire in Italia a capo di una delegazione
che avrebbe trattato della riunione della Chiesa greca e latina. Perciò Eugenio decise di invocare
una superiore ragione di interesse per la Chiesa universale che imponeva il trasferimento del
concilio riunito a Basilea: esso sarebbe stato sciolto e riconvocato in una città al di qua delle Alpi,
Ferrara. L'intimazione papale spaccò il sinodo in due partiti, uno minoritario che raccolse l'invito
scendendo in Italia è uno maggioritario che rifiutò. La morte nel dicembre 1437 di Sigismondo
privò il fronte conciliarista del suo scudo più autorevole ma anche del suo più saggio moderatore:
Cesarini tornò in Italia, lasciando il concilio in balia di una frazione maggioritaria che si lascia
trasportare dalla deriva della lotta contro il papato. Nel 1438 il concilio dichiarò Eugenio sospeso
da ogni funzione spirituale e temporale.
Tuttavia il concilio di Ferrara pregnanti scomunicò i padri conciliari che ancora stavano a Basilea:
così Eugenio aveva trasformato il suo duello con i dissidenti di Basilea in una competizione tra due
concili rivali uno dei quali giuridicamente superiori perché presieduta dal Papa. Era chiaro che la
parte vincitrice avrebbe cambiato il futuro assetto della Chiesa in funzione del consolidamento del
conciliarismo della restaurazione della monarchia pontificia. Tuttavia molti abbandonarono il
concilio di Basilea questa contrazione numerica inasprì estremismo dell'assemblea che nel 1439
depose Eugenio dalla dignità di pontefice perché eretico e criminale. Il concilio di Ferrara,
trasferito sì a Firenze, proclama invece il primato di Pietro e dei pontefici romani, inserendo questa
clausola nella bolla di unione tra la Chiesa greca e latina intitolata Laetentur coeli del luglio 1439.

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Tuttavia la dottrina del primato promulgata nel 1439 avrebbe ricevuto una piena sanzione solo nel
XIXºsec, quando fu ripresa e sviluppata dottrina dell'infallibilità pontificia fu affermata dal concilio
Vaticano primo candidato 1871.

Lo spettro di un terzo concilio. Dopo aver condannato la bolla, il concilio elesse antipapa, Felice
V, Amedeo VIII duca di Savoia. Carlo VII re di Francia e Federico III di Asburgo imperatore
obbedirono a Eugenio. La dottrina conciliarista vedeva in testa un parlamento permanente e
chiamato a governare col papa o senza. Nel 1449 Felice però decise di patteggiare con il pontefice
romano Niccolò V che gli concesse la carica di cardinale e di vicario apostolico. In seguito Carlo
VII decide per la tregua col papato (aveva già prima adottato la Prammatica Sanzione che limitava
i poteri della chiesa di Roma ispettori rispetto a quella gallicana). Il papalismo, termine antitetico al
conciliarismo venne riformulato in modo da farne il presupposto teorico dell'assolutismo pontifico.
La vittoria del papalismo

La restaurazione quattrocentesca. Eugenio IV emanò nel 4 settembre 1439 la bolla Moyses vir
Dei fatta circolare tra le principali corti sovrane d'Europa, con cui voleva relativizzare il peso del
Concilio di Costanza. Egli lo definì espressione dell'obbedienza dovuta all'epoca a Giovanni XXIII:
dopo la fuga di costui, esso aveva perso la sua rappresentatività. L'operazione di Eugenio con la
Moyses raddoppiò il peso della definizione del primato papale contenuta nella costituzione
fiorentina Laetentur coeli. Fu poi il castigliano Juan de Torquemada ad essere chiamato per
delucidare la dottrina del primato in essa formulata, nel corso di un pubblico dibattimento tenuto
alla presenza dei padri conciliari, dove Cesarini era stato chiamato a sostenere l'opposta tesi
conciliarista. Questo dibattito, tenuto nel 1439, viene chiamato Oratio synodalis de primatu, diede a
Torquemada la possibilità di svolgere un lavoro di esegesi del canone e dell'ecclesiologia.
Egli ribadì la non piena canonicità dei dei decreti di Costanza (non avvalorati da nessun papa),
aggiungendo che in ogni caso un concilio non deve mai intendersi come sospensivo o sostitutivo
della suprema autorità papale, che mantiene intatta la sua maestà anche nelle sedute conciliari. Al
Papa spetta all'approvazione dei decreti emanati dal concilio, senza la quale la loro validità non è
completa. Perciò il concilio di Basilea era legittimo solo finché aveva lavorato in accordo con il
Papa, mentre aveva perso la sua rappresentatività quando aveva scelto la via della ribellione,
disobbedendo al trasferimento in Italia. Aggiunse poi che in materia di riforma della Chiesa il Papa
è totalmente libero e non sottostà alle direttive di alcun concilio.
In seguito Torquemada Compilo la Summa de Ecclesia pubblicata nel 1453 sotto Niccolò quinto:
compendio le maggiori acquisizioni maturate in campo romano attorno al 1439. Il sottotitolo era
Summa contra impugnatores potestatis summi pontificis. Torquemada si pose così alla testa di
un movimento di riscossa che compiti il salto verso la consapevole adozione del concetto può
ornitologico di monarchia pura applicato al papato. La monarchia è il principio di ordine
connaturato alla creazione e alle sue leggi eterne, come si vede guardando alle cose inanimate e
agli esseri animati come le api per terminare nella considerazione del corpo umano, che è
immagine della Chiesa. In ogni organismo vivente di un centro direttivo che costituisce il motore
da cui derivano alle membra gli stimoli che consentono all'insieme di agire. Come nel cosmo ogni
impulso virtuoso discende dall'alto verso il basso, così nell'umano consorzio sono i superiori a
impartire ordini agli inferiori e questi grazie all'obbedienza fanno sì che l'intero sistema funzioni
secondo ragione e giustizia. Perciò è necessario che il Papa disponga nella chiesa di un'autorità
assoluta. Egli comunque non demonizzava il concilio: esso era benefico quando si poneva come
elemento complementare rispetto alla potestà sovrana del Papa. Il plenum dell'autorità nella chiesa
è rappresentato dal Papa con il concilio, mentre il concilio senza Papa contro il Papa non è un
organismo inerte. Ma cosa fare quando un pontefice manca ai suoi doveri? Risposi che il concilio è
l'ultimo rifugio della Chiesa, ma solo un potere transitorio concesso a un'assemblea che deve

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lavorare per restituire alla Chiesa la sua costituzione legittima, che è quella monarchica. Perciò
apprezzò i decreti della quinta sessione del concilio di Costanza come misure utili a uscire
dall'emergenza, mentre negò che essi potessero costituire le basi per riorganizzare la Chiesa latina
come aveva fatto il Concilio di Basilea quando le aveva proclamati verità di fede. Il concilio era
positivo quando fosse stato convocato dal Papa e condotto sotto la sua presidenza. Egli preciso
anche che esso doveva essere voluto a Roma, nel Laterano.
T. parlò anche del collegio cardinalizio dicendo che le sue prerogative sono finalizzati solo a
ripristinare la normalità in tempi brevi; non deve servire a fondare un contropotere insediato al
vertice della Chiesa romana.
La bolla Moyses, la Summa de Ecclesia e la definizione del primato petrino elaborata dal Concilio
di Firenze costituirono una triade documentaria che segnò un punto di non ritorno nell'affermare il
papalismo. Il 1440 è stato indicato come quell'anno che inaugura una nuova stagione nella storia
della Chiesa d'occidente. In questa svolta si ravvisano i primordi dell'assolutismo papale. Venne
inaugurata anche una nuova visione del papato, formata dalla sintesi tra lo spirito romanistico con
la sua esigenza di unità nella codificazione di leggi pensate come derivanti dall'unica fonte e la
tradizione del diritto canonico, consolidatesi attorno alla concezione della plenitudo potestatis
spettante al papa.

Tra ecclesiologia e giurisprudenza. La curia papale era divenuta laboratorio di sapere giuridico
che aveva alimentato la formazione di un grande apparato amministrativo per provvedere ai
bisogni dell'intero mondo cristiano. Tale crescita istituzionale era andata congiunta con la
formazione di una ideologia definibile come curialismo, votata a sostenere le ragioni
dell'accentramento del governo della Chiesa universale nella sede apostolica. Curialismo e
papalismo erano facce della stessa medaglia. La produzione intellettuale della curia nella prima
metà del XV secolo componeva l'aspetto giurisprudenziale con quello ecclesiologico. In
quest'ottica il Papa era considerato l'origine vivente di tutto il corpo delle leggi in vigore nella
Chiesa. La sua volontà poteva essere creativa di un nuovo diritto o soppressiva di quello esistente
anche se egli non poteva andare contro il diritto naturale. Questo potere permetteva ad esempio una
forte redditività economica. Torquemada aveva affermato che dal Papa scaturiva tutto il potere
vigente nella Chiesa, asserzione ripresa dalla curia. La cultura di curia divenne una forza trainante
della riedificazione della chiesa quattrocentesca in senso monarchico. Il caposaldo di tale scuola di
pensiero era nel principio secondo cui al Papa era lecito governare "a sua totale discrezione": nn
assunto vicino a quello dell'assolutismo imperiale e regio secondo cui la volontà del sovrano è
legge. Il prodotto più rappresentativo di tale indirizzo fu il trattato composto dal veneziano Piero
del Monte: Contra impugnantes sedis apostolicae auctoritatem. L'opera fu diretta giustificare le
ricadute economiche del concetto di onnipotenza legislativa del pontefice. La facoltà papale di
elargire benefici e sottoporre attributo era osteggiata in quelle aree che decenni dopo avrebbero
accolto il messaggio della riforma protestante. L'autore si applicò a dimostrare il buon diritto che il
Papa aveva di conferire tutti benefici della cristianità, come un sovrano distribuisce le cariche, e di
pretendere il pagamento di una tassa. Questa facoltà era difesa perché fornita una sussistenza
materiale alla corte di Roma e mantenevano i collaboratori del papa.
Il papalismo trovò ricezione tra l'Ordine dei Frati Predicatori (in cui comunque un filone rimaneva
conciliarista) e presso gli Studia degli altri ordini mendicanti, come i francescani. Nel XVI sec. il
domenicano Tommaso De Vio, detto il Caetano, difese le posizioni papaliste per conto di Giulio II.
Le sue tesi furono organizzate nel 1521 nel De divina instituzione pontificatus Romani
pontificis. Secondo Caetano al vertice della Chiesa sta una monarchia che non è paragonabile alla
monarchie del mondo. I regimi politici della terra sono frutto di convenzioni politiche di origine
umana e poggiano quindi sul rispetto di alcune leggi fondamentali. La monarchia pontificia invece
si deve a un comandamento di Cristo, che ha imposto a Pietro di guidare la comunità di fedeli.

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Contro la debolezza dell'uomo c'è solo il rimedio nella fede e istituzione divina del primato, che
deve tradursi in certezza che lo spirito Santo non farà mai mancare la sua assistenza. Lo spirito
Santo può servirsi anche di un concilio per trarre la chiesa fuori da una situazione incresciosa ma
questo non può arrogarsi il diritto di alterare la costituzione della Chiesa che è una monarchia di
diritto divino: una formula giuridica per dire che è stata voluta da Dio.
Se il concilio in sé è cosa buona, il conciliarismo è nocivo perchè vuole trasformare la monarchia
papale in regime aristocratico o addirittura popolare. Sono al pontefice spetta la prerogativa di dare
ordini, sapendo che essi diventano legge nella Chiesa (potentia praeceptiva = imperium per
Caetano): il papa può legiferare mentre vescovi, prelati, ufficiali ecclesiastici devono eseguire, in
modo che ogni potere dipenda da quello papale. La difesa dominicana spianò la strada
all'affermazione del papalismo in età Tridentina e alla definizione della dottrina dell'infallibilità
pontificia.
Torquemada, Caetano e altri non pensarono mai alla monarchia pontificia come alla dittatura di un
papa solitario, ma nella loro mente non si era sbiadito il pensiero al Concilio di Basilea, che aveva
reso la costituzione Haec Sancta un dogma, il che aveva legittimato un concilio senza papa e
addirittura a lui contrapposto. L'apologetica domenicana voleva restituire organicità al corpo
mistico della chiesa: la testa, il papa, non può staccarsi dal corpo, il concilio, e viceversa.

La smentita del conciliarismo. Pio II (1458-64) stroncò del tutto le tesi conciliariste. La bolla
Execrabilis del 1460 proibì l'appello al futuro concilio contro le disposizioni della Sede apostolica,
irrogando ai trasgressori la scomunica per eresia e lesa maestà; dichiarò nulla la Haec Sancta.
Perchè la emanò? Pio aveva chiesto a tutta la cristianità latina di pagare tasse per la crociata, ma le
province più renitenti avevano impugnato le disposizioni ricorrendo in appello al futuro concilio.
Pio II delegò alla curia il compito di chiarire il fondamento dei rapporti tra chiesa romana e
gallicana, perchè nel 1462 Luigi XI sospese la Prammatica Sanzione per accattivarsi il papa. Col
tempo, anche se la bolla fu pubblicata in ambiente riservato e non fu registrata fra le costituzioni
della cancelleria apostolica (Pio sapeva che era molto rischiosa), essa fu sempre ricordata affinchè
la curia considerasse passibile di imputazioni per eresia e scisma ogni divergenza dalla dottrina
dell'onnipotenza giuridica del pontefice. Il castigliano Rodrigo Sanchez de Arevalo redasse uno
scritto che andava oltre l'interdizione dell'appello al concilio, stabilito dalla Execrabilis. Egli
teorizzò l'inopportunità del concilio in sé, perchè abisso di pericoli per la pace e l'unità della
Chiesa. Egli confutò il luogo comune più frequente dei conciliaristi, quello secondo cui il concilio
rappresenta l'unico rimedio efficace per guarire i mali della chiesa. Se il concilio si tramuta sempre
in occasione per tentare di abbattere la monarchia pontificia, allora in esso si deve vedere una
soluzione sbagliata in partenza per la salute della chiesa. Sanchez scrisse in un momento in cui
bisognava compattare la Chiesa latina nella lotta contro i turchi e nella repressione dell'eresia
hussita. Nel contempo bisognava ribadire che la riforma della Chiesa è una materia di pertinenza
del papato e che se deve essere convocato un concilio, ciò deve essere fatto dal papa, possibilmente
a Roma. In definitiva, il papalismo curiale fu sorso alle istanze di rinnovamento spirituale della
chiesa che gli ambienti antiromani esprimevano.

Svuotamento delle prerogative cardinalizie. Il pontificato di Paolo II (1464-1471) fece sì che il


papalismo vincesse del tutto contro le pretese oligarchiche del sacro collegio cardinalizio. Secondo
il principio della collegialità, di cui esso si faceva depositario, nessun papa avrebbe mai dovuto

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essere lasciato libero di governare a proprio arbitrio. Tuttavia questo privilegio era custodito con
gelosia e per questo il Collegio non fu mai d'accordo con i conciliaristi. Anche i cardinali, come i
pontefici, erano fautori di una ecclesiologia verticistica: all'apice della Chiesa universale doveva
stare una chiesa romana dotata della pienezza dei poteri. I cardinali però propugnavano un
esercizio condiviso della sovranità (papa = testa; cardinali = membra). Per loro la formula di
governo della chiesa romana doveva essere una compartecipazione fra papa e cardinali da tenersi
nella sede istituzionale, il concistoro.Il costituzionalismo cardinalizio risorgeva alla morte dei
pontefici, quando i cardinali si riunivano in conclave e stilavano un elenco di priorità che il futuro
pontefice avrebbe dovuto affrontare: le capitolazioni elettorali. Nessun papa osò contraddire tale
usanza fino a Paolo II. Chiese aiuto ad Andrea Barbazza che affrontò il problema del rapporto fra
potere di papa e quello dei cardinali. Responso: il collegio non può prefiggere alcuna legge al papa
e non rappresenta un contrappeso istituzionale alla plenitudo potestatis. La facoltà di legiferare
nella chiesa spetta solo al papa. A partire dal pontificato di Pio II il ceto cardinalizio venne
estromesso dalla libera frequentazione a titolo privato del palazzo apostolico. Dal pontificato di
Sisto IV (1471-1484) le asserzioni che qualificavano il papato come una monarchia incondizionata
divennero lo stile di governo. Nel disporre degli affari correnti il pontefice consultava un comitato
ristretto di consiglieri, formato da pochi confidenti che aveva invitato a presiedere al palazzo
apostolico. I cardinali non erano solitamente più di uno o 2,1 dei quali era un nipote. Costante era
la presenza di membri laici, rappresentati dal banchiere fiduciario del Papa e dal nipote laico,
incaricato degli affari militari. Il segretario domestico doveva reggere le fila della diplomazia
pontificia. Il Papa si avvaleva di collaboratori detti “palatini” che erano non cardinali ma chierici di
rango più basso. Il meccanismo delle raccomandazioni al palazzo apostolico non passava più
attraverso i cardinali ma attraverso il nipote un fiduciario del Papa. Le somme versate per speciali
grazie
Dispense erano girate non all'organismo finanziario della curia, presieduta da un cardinale ma al
fondo personale del Papa: la Camera secreta. Inoltre il meccanismo spartitorie delle cariche fu
sottratto al controllo del sacro collegio: una misura che i Adottarono per ripianare il deficit delle
loro casse e che distrusse il sistema di pressioni e contrattazioni che aveva permesso figlie cardinali
di esercitare una certa influenza sulla distribuzione degli uffici di curia.

L'espansione degli uffici curiali. Subito dopo la sua incoronazione Martino V reintegrò le antiche
prerogative della Cancelleria apostolica: in questo modo restituì alla curia la possibilità di
alimentarsi drenando risorse da ogni dove. A spingerlo era il problema della sussistenza materiale
di un organigramma in esubero. In questo provvedimento si ravvisa il primo passo verso la
riedificazione dell'apparato centralista di governo. Tuttavia il ripristino del centralismo romano
diminuiva la dignità dei vescovi e l'autonomia delle chiese locali. Specialmente in Italia molte
cariche ecclesiastiche smisero di essere attribuite in loco e furono riservate al papato che le conferì
di preferenza ai dignitari di curia e ai loro clienti. I vescovi furono lesi anche le loro interessi
economici perché all'atto della loro elezione alla sede apostolica si faceva rimunerare per il servizio
svolto con la procedura di collazione: era prelevata una tassa, detta annata, pari al primo anno di
rendita. A essa si aggiungevano altre due tasse di minor importo, una per i cardinali, l'altra per gli
ufficiali di curia.
Alla curia pontificia si potenzia l'apparato dei tribunali apostolici, tra cui la Rota. Loro crescita fu
sollecitata dal numero sempre più alto di cause che venivano riferite al giudizio della sede
Apostolica. L'espansione della burocrazia papale si accompagnò ad un rialzo delle tariffe che essa
esigeva per le sue prestazioni.
Dopo Martino V il settore che più si espanse fu quello degli uffici rientranti nell'ambito del seguito
personale del pontefice, un mondo che sotto Leone X superò le 900 unità.
Intanto con Sisto IV la preponderanza del Papa mi meccanismi di reclutamento del personale di

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curia si fece irreversibile. Nel 1472 riorganizzò il tribunale della Rota fissando 12 il numero dei
suoi membri che avevano il titolo di cappellani del Papa. Sisto IV scelse di applicare a settori meno
delicati il principio della commerciabilità (venalità) degli uffici. I consultori del papa in materia
finanziaria, cercavano infatti un modo per compensare velocemente i costi delle guerre.
Moltiplicare e rendere acquistabili gli impieghi nella curia fruttava una rendita sicura, grazie alla
spartizione delle tasse applicate a ogni servizio svolto a nome del pontefice dai suoi ufficiali. Il
Partner ha studiato l'uso effettivo che era fatto del termine burocrazia a proposito dell'ambiente
curiale rinascimentale: era un ceto sui generis, di individui abbienti e istruiti, del mondo bancario e
mercantile che si legavano con un vincolo di fedeltà al papa e diventavano sostenitori della sua
potestà assoluta. Sisto portò tra 1479 e 1483 ampliò 3 categorie di ufficiali di curia: gli abbreviatori
a 72 posti, i notai a 72, procuratori a 100 (dovevano sbrigare pratiche per conto di clienti lontani da
Roma). La vendita degli uffici curiali era gestita da un datario, diventato luogotenente del papa nel
rilascio di grazie, dispense e assoluzioni. Il ricavato dalla vendita degli uffici era versato alla
Camera secreta, il fondo privato del papa.
Nel 1487 Innocenzo VIII rese venale anche l'importante carica di segretario apostolico, che prima
era affidata a uomini di fiducia e conoscenza del latino. I segretari stilavano una missiva detta
BREVE, un documento meno impegnativo rispetto alla BOLLA. Innocenzo creò 24 posti di
segretario, per poi farli salire a 30 dopo le proteste dei segretari già titolari. Egli creò anche un
collegio di piombatori, addetti a riscuotere la tassa sull'apposizione del sigillo di piombo alle bolle
papali (50 posti). Nel 1489 fu scoperta a Roma una officina clandestina che fabbricava fale bolle
apostoliche: i contraffattori furono spediti al rogo, ma il fatto che i documenti fossero ritenuti veri
ci dice della propensione a credere che grazie al denaro si potesse ottenere ogni tipo di dispensa.
C'erano dei carrieristi che comprando un posto puntavano a salire i gradini della gerarchia romana.
Per ottenere questo scopo, la carica più ambita era quella di segretario: chi era in grado di pagare di
più era cooptato → meccanismi di mercato, gioco della domanda e dell'offerta.
Dal 1475 quasi tutti i papi aggiunsero nuove categorie di uffici curiali o ampliarono quelli esistenti
(a. e Giulio II creò 101 scrittori dell'archivio della curia romana). Leone X istituì la carica onorifica
di Cavaliere di S. Pietro, che mise in vendita: l'incasso fu tale da spingere i successori a ripetere
l'operazione. L'incremento della curia romana accentuò la propensione all'affarismo a Roma e la
reputazione della Roma papale ne risentì. Alessandro VI addirittura mise in vendita la dignità
cardinalizia. Questo imbarazzante fenomeno (il Collegio cardinalizio era così inquinato per
simonia) rimase però circoscritto a 2 momenti: nel 1493 Alessandro creò 12 cardinali in una sola
tornata chiedendo dai 5000 ai 25000 fiorini; nel 1517 Leone X approfittò della repressione di una
congiura ordita da 2 cardinali nei suoi confronti: i 31 cardinali promossi dovettero sborsare 25-
30000 fiorini. Dopo questi episodi la compravendita della dignità cardinalizia non fu più praticata
se non tacitamente.

La rete delle nunziature, la fiscalità pontificia e le indulgenze. Niccolò V si propose di istituire un


regime di maggiore coordinamento fra centro romano e periferia. Perciò predispose alcune
missioni diplomatiche. Nicola Cusano fu mandato in Germania dove si adoperò a rafforzare il
sentimento della comunione con Roma. Fra Giovanni da Capestrano fu inviato in Europa orientale,
il cardinale normanno Guillaime D'Estouteville venne mandato dal re di Francia a intimare la
revoca della Prammatica sanzione. Carlo VII si difese grazir all'assemblea del clero gallicano che
bocciò la richiesta del cardinale. Luigi XI invece revocò la Prammatica per ottenere l'assenso di
Roma ai sui suoi disegni egemonici tra Italia ed Europa. La partita cessò solo nel 1515 con il
concordato di Bologna.
Invece in Germania aspra fu la protesta contro la tassa per la crociata del 1460: Pio II mandò il
Bessarione come legato. Tuttavia principi laici ed ecclesiastici vollero spezzare l'asse tra papa e
imperatore per salvaguardare le loro autonomie territoriali. Allarmante fu la campagna di opinione

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fomentata nel mondo tedesco dalla corrente antiromana. Nella quale si vede una premonizione
della rivolta protestante.
Bessarione e altri tre cardinali furono mandati in varie parti d'Europa per procurare l'adesione degli
Stati cristiani alla crociata di Sisto IV. Poiché il loro intervento era sempre meno adeguato a
contenere le spinte centrifughe delle particolarità cristiane, il papato creò un proprio apparato
diplomatico privato alternativo a quello delle legazioni cardinalizie. Fu istituita la figura del
nuntius con cui i papi crearono una rete di rappresentanza diplomatica dipendente dal papa e dai
palatini, coordinato dal segretario domestico. Il nunzio aveva anche funzione di collettore delle
tasse apostoliche: associando i poteri del collettore a quelli del nunzio, l'agente delle tasse
apostoliche cominciò ad assumere i connotati di un rappresentante semipermanente del papa. La
costituzione delle nunziature fu uno delle novità rinascimentali maggiori e che più incisero
sull'organizzazione della Chiesa successiva. Essa fu dettata dal bisogno di stabilire un filo diretto
tra papi e principi e di trovare nuovi mezzi di prelievo alle periferie cristiane. L'imposizione di una
decima sui beni del clero delle regioni lontane era un metodo di finanziamento della curia papale,
ma di delicato funzionamento, perchè presupponeva l'aiuto delle autorità civili per garantire
soddisfacenti livelli di riscossione.
Per attingere invece alle risorse del laicato cristiano, il papato sfruttò l'istituto dell'indulgenza
plenaria, in occasione della crociata. L'indulgenza plenaria era accordata per iscritto con una bolla,
dopo un esborso di una congrua offerta, che era il contributo dei fedeli non combattenti. Nella
questione entrava anche la credenza del Purgatorio, problema non ancora chiarito dalla Chiesa. Il
concilio di Firenze nel 1439 risolse la questione elevando il Purgatorio a dogma della Chiesa
cattolica (Giulio II e Leone X le usarono per basilica di S. Pietro).
Il papato fu artefice del rigonfiamento di un'apparato che sul lungo periodo fu sempre meno
difendibile → 95 tesi di Lutero.

La costruzione di un principato italiano

La svolta temporalista: una stagione di guerre. Dopo l'uscita dal Grande Scisma d'Occidente i
papi si buttarono subito nel recupero del loro dominio centroitalico: un territorio che mai avevano
sottomesso totalmente il controllo durante la permanenza ad Avignone. Nel dominio temporale si
ravvisavano una identità ricevuta dalla provvidenza per difendere la loro indipendenza politica:
Stato della Chiesa = stato-santuario → Tempio e anche rifugio per un vescovo di Roma sempre a
rischio di sequestri.
Il papa doveva tenere a distanza la Francia e le potenze continentali. Più volte nel XV sec. la
diplomazia pontificia captò segnali della volontà dei sovrani d'oltralpe di distruggere la
configurazione monarchica del papato, con la violenza o con un nuovo concilio.
Perciò la ricostituzione della monarchia pontificia e indirizzo temporalista risultarono connessi
durante la restaurazione 4-5centesca. Il clima di emergenza autodifensiva rese possibile una nuova
formula di santificazione della guerra. Si tratta della“guerra papale”(papal warfare), la guerra
privata del papa fu come il mezzo più idoneo per pervenire a rendere sicura la scelta italiana. Il
papato o riconquistò i territori con la forza o dove non ebbe la forza sufficiente, dietro pagamento i
signori locali furono fatti in vicari apostolici.
Dal disciplinamento dipese la riuscita del progetto italiano di Martino V che dopo il Concilio di
Costanza partì per Roma. In passato il re di Napoli aveva invaso Roma, approfittando del Grande
Scisma. Durante il XIV sec. invece la Sede apostolica si era intromessa nelle lotte di successione
che avevano lacerato il Regno, per rivendicare la sovranità feudale sulla corona napoletana.
Martino V negoziò con Giovanna II di Napoli che accondiscese al ristabilimento del papato a
Roma (voleva sottrarre Bologna alla sfera di influenza di Milano viscontea, molto nemica di
Napoli). Martino V compì il suo ingresso a Roma nel settembre 1420: è il momento in cui si

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reintegra l'autorità temporale del papato. Era prevedibile che ciò avrebbe portato alla rimonta del
personale italiano in curia, del sacro collegio e del papato.

Martino V e il nepotismo come “instrumentum regni”. Sul piano della redditività fiscale lo Stato
della Chiesa funzionò nel Rinascimento come scudo della libertas ecclesiae. Il papato decise di
investire le proprie risorse in un circuito economico-militare con cui si scatenavano conflitti per
redimere territori che spesso non avevano alle spalle alcuna tradizione di obbedienza alla Sede
apostolica, ma che facevano parte solo in teoria del dominio papale. Alla base dell'esistenza dello
Stato della Chiesa c'era da Donazione di Costantino che dava alla Chiesa romana una fascia
centroitalica non ben identificata. Se in età conciliare si cercò di delegittimarla, poi ci fu una
inversione di tendenza: il curialismo difese il diritto del papa di possedere i territori concessi nel
documento.
Martino V sfruttò la sua posizione di papa e di capoclan di una delle più grandi famiglie baronali
del Lazio, con agganci con tutte le consorterie di potere in Italia. Il papa per sancire la supremazia
dei Colonna diede loro nuove acquisizioni. Le cariche politico-militari furono date ai parenti più
stretti (fratello Giordana, nipote Ludovico...).
Giovanna d'Angiò, nel cui regno i Colonna avevano molti feudi, decise di non intervenire e restituì
le terre pontificie usurpate da Napoli e la gratifica di cariche e donativi per i Colonna.
Braccio da Montone si era ritagliato fra le Marche e l'Umbria una cintura di possedimenti tra Jesi e
Perugia. Martino inizialmente non riuscì a sconfiggerlo, ma poi scagliò contro di lui l'esercito
papale e quello napoletano, uccidendolo presso L'Aquila. Così il papa riprese l'Umbria e negoziò
da una posizione di forza il ritorno di Bologna ad una soggezione all'autorità della Sede apostolica.
Intanto il papa continuava a esaltare casa Colonna, assegnando una posizione predominante ai
nipoti Prospero, Antonio e Odoardo. Al primo furono date l'amministrazione del dominio
temporale e della custodia delle fortezze della Chiesa, Antonio fece da tramite tra Martino e
Giovanna II, ottenendo nuovi feudi nel regno di Napoli.
Quando morì Martino V però questa struttura venne subito meno. Soprattutto non si riuscì a far
eleggere Papa Prospero Colonna perché i cardinali percepirono i risvolti negativi consistenti nella
riduzione della Chiesa romana alla dipendenza da un reticolo di potere locale.

I cardinali-condottieri di Eugenio IV. Il successore di Martino, Eugenio IV, revocò alcune


concessioni feudali operate dal suo predecessore a favore dei nipoti. Odoardo e Antonio dunque
mossero contro Roma mentre il fratello cardinale spariva nell'ombra. Ebbero la peggio perché
Giovanna si schierò a fianco del nuovo pontefice confiscando ai ribelli i loro feudi. I colonna
dovettero fare atto di sottomissione e pagare un'ammenda ma poi si unirono a Niccolò
Fortebraccio, nipote di Braccio da Montone quando questi nel 1434 occupò Roma: Eugenio riparò
a Firenze e si rese conto di aver sbagliato nel cercare di estromettere da un momento all'altro una
famiglia baronale che da oltre un decennio aveva la facoltà di accordare o meno al Papa il
permesso di stare a Roma.
A Firenze il Papa aiutò Cosimo de' Medici a tornare dall'esilio per assumere la guida del governo
cittadino; per ringraziarlo il Medici gli aprì un credito che gli consentì di programmare da Firenze
una campagna di riconquista del territorio umbro-laziale. L'impresa fu delegata a Giovanni
Vitelleschi. Questo spietato condottiero, dopo aver sconfitto i Colonna, fu fatto cardinale e poi si
scagliò contro re Alfonso d'Aragona, che dopo la morte della regina Giovanna stava tentando di
conquistare il trono napoletano e per questo favoriva i Colonna. Tutte le vittorie in Italia centrale
gli fecero guadagnare fama ma anche molti sospetti. Vitelleschi aveva migliaia di uomini a lui
fedeli e con i suoi saccheggi rischiava di portare il papato in una spirale di guerre: fu arrestato e
messo a morte.
Il posto di Vitelleschi fu preso da Ludovico Trevisan che aveva complottato contro di lui.

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Trevisan divenne cardinale e poi amministratore della Camera apostolica, il massimo dicastero
finanziario della curia romana. Egli riportò all'ordine l'Alto Lazio e con la battaglia di Anghiari nel
1440 pose fine alle ambizioni di Filippo Maria Visconti di immischiarsi negli affari dell'Italia
centrale, sfruttando i problemi interni della Chiesa. Fu lui a concordare il patto di Terracina che
permise ad Eugenio IV di riprendere possesso di Roma e del Lazio dietro riconoscimento di
Alfonso il Magnanimo come nuovo re di Napoli.
Grazie all'opera di questi cardinali-condottieri Eugenio rientrò a Roma nel settembre 1443 e poter
beneficiare di una dilatazione dei confini giurisdizionali entro il quale esercitava la sovranità
diretta. Egli dunque scartò il nepotismo per gestire gli affari militari della Chiesa, ma esercito e
amministrazione temporale furono affidati a
collaboratori di fiducia.

Roma crocevia diplomatico: Niccolò V. Niccolò V, successore di Eugenio, attenuò il lato


belligerante del temporalismo pontificio: ripudiò la guerra rendendo evidente la sazietà per la
sequenza di conflitti avutasi sotto Eugenio IV. Per tenere in soggezione gli avversari confidò nelle
armi della persuasione e utilizzò il linguaggio dei monumenti. Niccolò puzza il denaro speso nelle
guerre per realizzare grandi imprese architettoniche, mettendo mano alla ricostruzione della
basilica di San Pietro.
Egli vedeva nella diplomazia lo strumento principe per neutralizzare i conflitti. Con lui Roma
comincia a delinearsi come la principale piazza diplomatica dell'Occidente latino. Tuttavia egli fu
bersaglio della congiura di Stefano Porcari del 1453 che avrebbe dovuto catturare il Papa e
cardinali e sfociare nella programmazione della rinata Repubblica romana.
Un colpo molto duro fu la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi nel maggio 1453. Il Papa
indisse un congresso generale delle potenze italiane che però non vollero lanciarsi nella guerra
santa. Il congresso di Roma si sciolse nel marzo del 1454 con un nulla di fatto ma subito dopo
cessò in Val Padana l'ostilità tra Milano e Venezia Con la pace di Lodi nel 1454. Niccolò rimase
sgomento all'idea di un'unione fra gli stati italiani da cui procurato risultasse scuso. Avendo il re di
Napoli la stessa preoccupazione, il pontefice fece riaprire i negoziati e si arrivò alla alleanza della
Lega italica nel marzo 1455. Con questo strumento si riuscì a limitare i disegni espansionistici di
Carlo VII di Francia nella penisola, ma non si riuscì a raggiungere uno armoniosa coesistenza tra la
Chiesa romana come principato territoriale e la comunità degli Stati circonvicini.
L'italocentrismo fu l'elemento che più caratterizzò la politica temporale di Niccolò IV. Eppure egli
non riuscì a garantire dei vantaggi concreti alla sua posizione.

Avvisaglie di“grande nepotismo”: Callisto III. Con Callisto III, un Borgia, eletto nel 1456 si
ebbero i primi sintomi del “grande nepotismo”> i papi conferiscono alla loro famiglia una
dotazione di risorse afferenti alla Chiesa e allo Stato. Esso prevedeva l'elevazione del ramo laico
alla dignità principesca e la sua inserzione nel novero delle grandi famiglie regnanti italiane. Ciò
implicò un aiuto che il ramo laico della casata avrebbe dovuto portare al ramo prelatizio con le
armi, con il denaro e con le aderenze internazionali. Il ramo ecclesiastico invece doveva tutelare le
fortune della parentela laica con le risorse della Chiesa. La svolta temporalistica della chiesa
romana innescò un processo di State-building: la riconquista militare dello Stato della Chiesa aprì
nuove occasioni di avanzamento sociale.
Nasce la figura del nipote laico che deve reggere le più alte cariche politico-militare della Chiesa
romana. Per rendere la sua potenza indipendente dei cambi pontificato, perché doveva aggiudicarsi
il patrimonio più vasto possibile di rendite e signorie. Il massimo traguardo era riservare la
discendenza laica del Papa-fondatore alla privativa della tutela armata della Chiesa Roma. La forte
opposizione dei cardinali e i mali dovuti al“grande nepotismo”, lo fecero sostituire con il “piccolo
nepotismo”: si conferivano ai parenti papali un gran volume di rendite, la soprintendenza al

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governo e all'amministrazione della Chiesa ma nessun grande principato temporale.
Callisto fece diventare cardinale Rodrigo Borgia, suo nipote e nominò suo fratello, Pedro Luis
Borgia: nel 1456 capitano generale dell'inizio della Chiesa (troncando l'epoca dei cardinali-
condottieri), castellano di Castel Sant'Angelo, una carica che doveva essere affidata a un uomo di
assoluta fiducia per il pontefici, nel 1457 prefetto di Roma, carica viene con cui controllava vari
castelli dell'alto Lazio.
Callisto e la sua famiglia volevano disporre degli affari interni dello Stato della Chiesa senza
condizionamenti dei poteri locali e dell'aristocrazia romana. Queste aspirazioni trovo ritardo contro
le resistenze dei cardinali.
Quindi i Borgia riprodussero il soffocante regime di occupazione che aveva provocato con Martino
V casa Colonna, con l'aggravante che loro erano stranieri (i Borgia erano catalani).
Ci furono problemi anche con Alfonso il Magnanimo, re di Napoli perché costui oltre a non aver
voluto procedere contro i turchi, fece guerra sul mare a Genova e Venezia danneggiando la
coesione nel fronte cristiano. Dopo la sua morte nel 1458 Callisto non riconobbe la legittimità del
successore da Alfonso designato, il figlio naturale Ferrante e dichiarò il mezzogiorno devoluto alla
sede apostolica. In curia cominciarono a pensare che Callisto volesse affidare al nipote Pedro Luis
il regno di Napoli, ma morì nell'agosto 1458.
Pietro Louis divenne capo espiatorio dell'odio contro i Borgia nella corte napoletana e nel mondo
romano. Dopo l'elezione di Pio II Piccolomini, egli cedette alla chiesa le piazze forti umbre e laziali
che ancora controllava. A settembre morì in circostanze misteriose, mentre il fratello Rodrigo
capire l'importanza per la famiglia Borgia di disporre di una potenza territoriale autonoma, in
grado di renderli invulnerabili ai cambi di pontificato.

Pragmatismo battagliero di Pio II. Pio II confermò il titolo regio a Ferrante d'Aragona per evitare
l'intromissione della Francia nella disputa. Così volle preservare la pace della penisola, la
cosiddetta "quiete d'Italia”. Tuttavia il francese Giovanni d'Angiò discese nel mezzogiorno per
prendere il trono di Napoli: in aiuto di Ferrante si mosse un contingente inviato da Milano,
appoggiato dalla Chiesa di Roma. Il re di Napoli ricompensò gli alleati per l'aiuto ricevuto. Il
nipote di Pio II, Antonio Piccolomini, ottenne il ducato di Amalfi e della contea di Celano e fu
inserito nella corte napoletana. Inoltre il re di Napoli appoggiò Pio II giudico nell'abbattimento di
Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, il maggiore antagonista dei pontefici all'interno dello
Stato della Chiesa. Approfittando delle difficoltà della Chiesa, Sigismondo può una serie di territori
contesi ed inoltre parteggiò per Giovanni d'Angiò. Dopo essere stato sconfitto nel 1463 per mano
di Federico da Montefeltro, i domini di Sigismondo furono smembrati.
Pio II fu un uomo dall'alta statura intellettuale e diede un contributo decisivo a diffondere una
nuova estetica aristocratica nelle porti della penisola (scrisse i Commentarii).
Federico da Montefeltro comunque andando contro il volere di Pio I non distrusse del tutto il
Malatesta: lo lasciò in possesso di Rimini, per preservare il suo stato di Urbino. Pio II favorì i suoi
parenti, specialmente di origine senese in misura molto massiccia.
Nell'innalzare i suoi nipoti seguì lo schema del grande nepotismo senza però infrangere le leggi
non scritte del rispetto dell'equilibrio generale: non aumentò in modo pericoloso i possessi signorili
della propria parentela. Pio II favorì il nipote Antonio Piccolomini che avrebbe fondato una lunga
dinastia baronale del mezzogiorno e poi Francesco Todeschini Piccolomini e nel 1503 sarebbe stato
eletto Papa con il nome di Pio III.

Paolo II e l'approccio ierocratico. La repulsione per la guerra di Paolo II lo portò ad affrontare i


problemi della politica temporale del papato dalla posizione dottrinaria, e perciò anacronistica, agli
antipodi del pragmatismo dei predecessori. Nonna favorito un po' telaistico per inconvenienti che
ciò avrebbe portato all'amore del papà. Le guerre furono delegate dallo staff di prelati ereditati dal

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predecessore e mostrò di credere che un monito preferito dalla sua bocca bastasse a tenere a freno
gli avversari.
Bologna rimase refrattaria al passaggio alla soggezione immediata alla sede apostolica e affidò la
propria indipendenza municipale alla casa Bentivoglio. Questa, appoggiandosi a Milano o a
Firenze, Neutralizzare il potere del cardinale legato che risiedeva in città come luogotenente. Paolo
II non riuscì a sottomettere Bologna né a occupare Rimini, che dopo la morte di Sigismondo nel
1468 fu difesa da Venezia, per mantenere al potere la dinastia malatestiana nella persona del figlio
illegittimo Roberto.
Non andando a buon fine le alleanze con Venezia e Napoli, Paolo II decise di disciplinare l'area
dell'Alto Lazio, riducendo il potere dei Savelli e sconfiggendo il conte Everso dell'Anguillara.
Il pontificato di Paolo II presenta un lato memorabile sul piano delle asserzioni ideologiche,
sganciate dalla questione della loro praticabilità. Il corrispondente alla visione di ierocratica di
questo pontefice fu la proclamazione della pax paolina nel 1468: fu l'atto con cui Paolo II ordinò
agli Stati cristiani di desistere dalle guerre e di unirsi dietro alla autorità del pontefice romano.
Rodrigo Sanchez de Arevalo, castellano di Castel Sant'Angelo, Difese la guerra dicendo che essa si
rende a volte inevitabile e giusto davanti alla malvagità dell'uomo. Di qui la necessità di usare le
armi per reprimere l'aggressività umana → difesa della guerra papale.

L'incrocio tra bellicismo e nepotismo: Sisto IV. L'ampliamento della giurisdizione della sede
apostolica fu suo obiettivo primario, insieme all'innalzamento signorile della discendenza che
sdoppia in due linee, costituite dalla prole di suo fratello e della sorella (i della Rovere e i Riario). I
suoi nipoti ottennero cariche temporali e cardinalizie. Sisto buoni che la sua famiglia si
imparentasse con il massimo numero di dinastie sovrani italiani per innestare le sarte di ciascun
ramo del gioco delle alleanze della penisola.
Egli nominò cardinali Pietro Riario e Giuliano della Rovere, promossi nel dicembre 1471. In pochi
mesi Pietro mise insieme una fortuna immensa con rendite beneficiarie a cui aggiunse le somme
prese in prestito dai banchieri.
Giuliano invece, pur accumulando un vasto patrimonio di rendite e benefici, non lo dissipò nelle
spese voluttuarie come Pietro. Lo investì per incrementare il proprio potenziale offensivo e
difensivo. Nel 1473 si fece conferire dal Papa la carica di legato pontificio per la Marca e se ne
avvalse per procurare al fratello Giovanni il subentro ai Piccolomini nella signoria di Senigallia e
Mondavio. Federico da Montefeltro assecondando i nuovi dominatori della Chiesa romana
(dimenticando il debito verso Pio II Piccolomini, togliendo ai Piccolomini quella signoria) facendo
sposare a Giovanni alla figlia Giovanna Feltria che divenne così duca di Urbino.
Giuliano intervenne nel 1474 per soffocare la rivolta antipapale in Umbria. Egli entrò a Todi e
riportò l'ordine eliminando gli oppositori. Poi mosse su Spoleto e assalì la città, cosa cui seguirono
provvedimenti punitivi (ad esempio la separazione del contado della giurisdizione della città,
metodo per indebolire l'economia urbana).
Per ottenere il potenziamento della Chiesa come stato territoriale Giuliano sapeva di dover
stroncare le lotte di fazione di cui si alimentavano le forme di preminenza in sede locale,
mostrando che il papato rappresentava una credibile fonti di autorità sopra le parti. Bisognava
anche abbassare lo strapotere delle oligarchie cittadine. Un problema però era l'ingerenza che i
potentati italiani più forti (Venezia, Firenze, Milano, Napoli) esercitavano sulle province confinanti
dello Stato ecclesiastico intervenendo negli affari interni per mantenere al potere le signorie locali
da loro protette.
Nel 1474 Giuliano mosse contro Città di Castello, la cui famiglia Vitelli, che governava la città, era
legata ai Medici di Firenze. I vitelli difendevano l'autogoverno di Perugia, la maggior città
dell'Umbria e difendeva anche Borgo San Sepolcro che nel 1440 Eugenio IV aveva ceduto ai
fiorentini. Niccolò Vitelli, preoccupato per l'avvicinarsi dell'esercito pontificio, chiese aiuto al

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protettori fiorentini che intromise negli Stati alleati. Giuliano per trarsi d'impiccio chiamò Federico
da Montefeltro, che con un compromesso, convinse Niccolò ad andare a Roma e a sottomettersi a
Sisto. Federico infatti non voleva che la potenza pontificia si espandesse in Umbria, regione e la
sua famiglia deteneva a Gubbio una signoria.
Intanto il nipote Girolamo Riario era stato lanciato dal Papa alla conquista di un principato
secolare: per questo egli aveva stretto parentela con il duca di Milano, sposandone la figlia
illegittima Caterina Sforza. Inoltre Sisto aveva dato a Girolamo la signoria di Imola: Girolamo
voleva unire a Imola, città della Romagna, che però erano protette da Firenze. Si ordì contro i
Medici un complotto che portò alla morte di Giuliano de' Medici nel 1478, ma lasciò illeso
Lorenzo. Quest'ultimo, messo in difficoltà dall'esercito pontificio-napoletano, andò a Napoli per
convincere Ferrante dell'inopportunità dell'aumento della potenza pontificia.
Ferrante firmò con Lorenzo una pace separata e abbandonò Sisto. Girolamo dunque si mise in
contatto con Venezia, promettendo che avrebbero sottomesso Ferrara (desidero veneziano
secolare), signoria di Ercole d'Este, genero di Ferrante. Il piano era:
 cacciare gli Este da Ferrara
 dare Ferrara a Venezia
 dare Modena e Reggio Emilia allo Stato della Chiesa
 dare Moderna e Reggio a Girolamo in vicariato
Nel 1482 iniziò la guerra di Ferrara. Ercole d'Este riuscì a difendere la sua città, mentre l'esercito
napoletano irruppe nel Lazio per difendere Ferrara. Il condottiero papale Roberto Malatesta e
Federico da Montefeltro morirono. Sisto decise di accettare la pace dalla Lega Milano-Firenze-
Napoli, Ma Firenze non recesse dal conflitto, per tenere Rovigo e il Polesine: si apre la seconda
fase della guerra di Ferrara. Girolamo voleva eliminare l'influenza veneziana in Romagna per
unificare sotto di sé l'intera regione, tuttavia Venezia riuscì a mantenere integro il suo dominio.
Col tempo però il guerrafondaio Girolamo iniziò a essere inviso all'interno della sede Apostolica,
soprattutto quando cercò di sterminare casa Colonna, rea di tradimento verso la Chiesa. Il suo
intento era quello di occupare le signorie colonnesi. La sua avventura fu troncata dalla pace di
Ludovico il moro con i veneziani nell'agosto 1484: la seconda fase della guerra di Ferrara si era
chiusa senza guadagni per Girolamo.
Dopo la morte di Sisto Girolamo si raduno con le sue forze fuori Roma e chiamò a soccorso la lega
Milano-Firenze- Napoli. Giuliano della Rovere allertò Venezia. Il collegio cardinalizio dopo essere
riuscito a cacciare Girolamo con le sue milizie comincia il conclave, guidato dallo stesso Giuliano.
Riarmino riparò nella sua signoria di Forlì: dopo quattro anni fu trucidato forse con la complicità
Giuliano.

Il passo falso di Innocenzo VIII. Durante il papato di Innocenzo VIII Giuliano della rovere cercò
di organizzare la resa dei conti con il re di Napoli. Sisto IV aveva assegnato a Giovanni della
Rovere, fratello di Giuliano, il Ducato di Sora (Ciociaria) che era di norma concesso a un uomo di
fiducia del papa, ma era un possedimento del regno di Napoli. Il cardinale Giuliano orchestrò nella
curia romana dei matrimoni per legare la propria famiglia ai Sanseverino e ai Colonna. Re Ferrante
e i consiglieri avevano pianificato progetti di riforma fiscale e amministrativa per ampliare la
giurisdizione regia e a aumentare le entrate. Si ipotizzò un allargamento del demanio nell'area
circostante la capitale, che avrebbe colpito gli interessi di alcune grandi famiglie, tra cui i
Sanseverino che attivarono le loro aderenze a Roma, facenti capo a Giuliano. Anche lui aveva
cominciato a depistare vedi Napoli per l'inaffidabilità di alleato contro turchi e contro cristiani.
Quando la casa di Aragona sembrò voler eliminare la dipendenza da stallatico che la vedeva
dipendere dalla fede apostolica, Giuliano convinse Innocenzo VIII a negare a Ferrante l'investitura
di Benevento, Terracina e Pontecorvo: le 3 enclaves pontificie nel territorio del regno di Napoli, di

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solito affidate ai re napoletani in segno di buona disposizione.
Questi erano gli obiettivi: la Chiesa romana avrebbe combattuto contro la casa d'Aragona, l'avrebbe
detronizzata e condotto regno di Napoli sotto il suo dominio diretto. Firenze, intenzionata a
impedire che la Chiesa possedesse diversi Italia, si mobilita per salvare la casa d'Aragona nel 1485.
Tuttavia ci fu una ribellione dell'Aquila, che si diede in soggezione alla sede apostolica, mentre
Genova (il papa era genovese) mise disposizione capitali e Venezia, nemica secolare di Napoli
faceva partire un esercito contro di essa. La situazione per il papato, che sembrava la meglio, si
aggravò quando i Medici convinsero gli Orsini a saccheggiare il territorio laziale: senza viveri la
popolazione romana prese a tumultuare. I veneziani furono poi sconfitti dalla triplice lega Milano-
Firenze-Napoli, mentre i sovrani europei interpellati non diedero nessun aiuto. Innocenzo VIII fu
costretto a siglare la pace nel 1486.
Firenze venne però in aiuto del papato, contro il signore di Osimo Guzzoni, che aveva provocato la
Chiesa chiamando sulle coste marchigiane il sultano turco. Così Innocenzo VIII fece sposare il
figlio avuto in gioventù Franceschetto con la figlia di Lorenzo de' Medici, Maddalena. Il banco
fiorentino a Roma mise a disposizione delle casse papali una linea di credito fondo perduto con cui
si ripianarono i deficit. Il papa finì per piegarsi alla coesistenza con il consorzio dei signori d'Italia,
raggiungendo il punto più alto della “politica dell'equilibrio”.
Innocenzo firmò anche la pace con Ferrante, rinunciando a molte prerogative giuridiche: in cambio
il regno di Napoli riempì di rendite e benefici casa Cibo (famiglia del papa) e il suo network di
parentele.

Il familismo “carnale” di Alessandro VI. Alessandro VI era il cardinale Rodrigo Borgia, che in
quegli anni era entrato in forte contrasto con Giuliano della Rovere. La sua affermazione per
convincere i membri del conclave a nominarlo Papa al posto di Giuliano avvenne attraverso la
distribuzione di vescovadi, signorie, castelli. Egli si comprò il cardinale milanese Ascanio sforza,
attratto dalla prospettiva di ricavare perse l'ufficio di vicecancelliere, mentre gli indecisi furono
aggregati mediante laute profferte.
Con Alessandro VI si affaccia il pericolo di un concilio antipapale che la Chiesa gallicana avrebbe
potuto organizzare fuori dei confini. Forte anche dei re spagnoli (Isabella di Castiglia, Ferdinando
d'Aragona), Borgia tentò di rafforzare il suo progetto di grande nepotismo. Egli voleva però
privilegiare i figli, non i nipoti (aveva 4 maschi e 1 femmina). Da cardinale aveva Immesso un
figlio chierico nella carriera alta epigastrica e un figlio l'arco nella corsa verso il principato
secolare: radicò entrambi non in Italia, Spagna. Il figlio chierico, Cesare Borgia, fu ricoperto di
benefici ecclesiastici fin dall'adolescenza ed eletto cardinale quando il padre fu eletto papa.
Alessandro invece fece sposare il figlio Pier Luigi nel 1485 con una donna di altissimo lignaggio.
La sua morte prematura però creò un vuoto che fu colmato dal fratello minore Giovanni. L'altro
figlio Iofrè, con il matrimonio con Sancia, figlia di Alnfonso II di Napoli, unì ancora papato e
corona partenopea. Giovanni, duca di Gandia, venne chiamato a Roma: il padre voleva farlo
diventare il più grande barone in terra di Roma, eliminando gli Orsini di Bracciano. Giovanni,
spedito a Bracciano per sconfiggere gli Orsini perse, ma fece comunque scattare l'allarme tra le
grandi famiglie baronali.
Dopo ciò, Cesare depose l'abito cardinalizio e si lanciò nella conquista del principato, sfruttando le
casse papali impunemente. Tuttavia per lui e il padre ci fu una discrepanza di vedute: Alessandro
era favorevole a lasciare al figlio le cittadine di Romagna ma la scalata di Cesare al principato non
doveva andare molt3 oltre questo limite. Tuttavia Cesare conquistò Imola, Forlì (1499), Pesaro,
Rimini, Faenza (1501). Il padre, a malincuore, gli diede anche Cesena e Fano.
Nel 1501 Cesare prese Siena e Piombino, ma il padre lo richiamò all'ordine ordinandogli di
procede contro i Colonna. Bloccato dal veto del re fi Francia Luigi XII che gli aveva impedito di
prendere Firenze e Bologna, Cesare avanzò nei territori umbro-marchigiani. Egli assalì Urbino ma

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in quel momento le famiglie degli Orsini, Vitelli e Baglioni, intimoriti dalla preoccupazione che
Cesare volesse conquistare anche i loro domini, si ribellarono. Egli però fece una strage a
Senigallia nel 1503.
Alessandro gli intimò ancora di combattere i baroni laziali: Cesare vinse contro gli Orsini a
Cerveteri, ma ad agosto il papa morì. Giuliano della Rovere, per ottenere i voti della fazione
Borgiana, assicurò a Cesare, mentendo, la conferma al suo posto. Gli risparmiò la vita e lui andò in
Spagna.

I trionfi del primo Cinquecento

L'ideale cesareo di Giulio II. I pontefici del XV sec. eccelsero tutti nomi diversi dai predecessori,
per distinguersi dagli stessi → individualizzazione del papa. Giulio secondo scelse questo nome
riferendosi alla figura di Giulio Cesare, perché voleva essere accostato a lui. Il linguaggio della sua
propaganda espresse il suo proposito di risollevare l'antico ideale della Ecclesia militans. Giulio
voleva portare nuove altezze la Roma moderna, governata da papi che detenevano un imperium
che fondeva cristianesimo, umanesimo e Stato. Poiché il suo ego si identificava con una istituzione
sovrapersonale, non comprimibile in alcuna situazione del mondo finito, egli non manomise il
patrimonio della Chiesa ma lo accrebbe. Egli usò poco il nepotismo, che praticò solo nella carriera
ecclesiastica e poco in quella politica e temporale. Nel 1505 emanò la bolla Cum tam divino, uno
spartiacque nella storia di conclavi perché vietò il ricorso alle simonie per l'elezione papale.

Egli volle ricostruire la grandezza del papato, ma lo fece limitandosi alla politica temporale,
incentrandosi sulla ricerca del successo mondano mentre meno appassionato fu il suo contributo
alla cura dei risvolti pastorali del suo ufficio. Egli trasforma la sede storica in potentato politico-
militare, con una forza senza precedenti: così sancì la definitiva configurazione del papato in
monarchia.
Per dimostrare che una spoliazione era sempre reversibile, Giulio dichiarò nulle le concessioni che
Alessandro aveva decretato beneficio della sua famiglia. Inizialmente permise a Bologna di
mantenere il regime signorile Che i signori di quella città esercitavano rispettivamente, i
Bentivoglio e i Baglioni. Tuttavia, nel 1505 Giulia prese le armi deciso a conquistare per lo Stato
della Chiesa nella città emiliana. Esistette dal suo intento perché i preparativi per la guerra non
erano completi, ma al centro dei suoi pensieri stava sempre la Romagna, che Alessandro aveva
eretto in ducato a favore di suo figlio e che poi era stata occupata da Venezia, la quale aveva
precluso di fatto a Giulio la possibilità di incamerar lo Stato borgiano nella sua totalità.
Per andare contro Venezia, nel 1504 Giulio firmò un patto a Blois con Asburgo e Valois: Giulio
promise a Luigi XII il porporato a 3 suoi favoriti e la legazione perpetua in Francia al suo I
ministro, il cardinale di Rouen. Così Giulio ottenne l'accordo francese alla eliminazione dei
Bentivoglio. Nel 1506 Giulio partì alla volta di Bologna, durante il viaggio però puntò su Perugia,
entrando trionfante nella città e ristrutturando il governo locale, sancendo la sua supremazia sui
Baglioni. Volgendo verso Bologna, terrorizzati dalla presenza di rinforzi francesi mandati da Luigi
nell'esercito di Giulio, i Bentivoglio fuggirono da Bologna, permettendo al Papa di entrarvi a
novembre.
Questo trionfo gli permise di divenire l'artefice di una chiesa romana assurta dominatrice dello
spazio centritalico.

Una Chiesa militante con le armi. Nel 1507, sconfitto da Venezia, Massimiliano d'Asburgo
intavolò con il cardinale di Rouen la Lega di Cambrai che nel 1508 unì tutti i nemici della
Repubblica sotto una sola bandiera. Anche Giulio vi entrò l'anno dopo, emanando la bolla
Pastoralis officii con cui minacciò la scomunica per Venezia in appoggio all'attacco militare che la

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Francia si apprestava a sferrare. Il pretesto era che Venezia aveva usurpato i territori romagnoli,
maltrattato i chierici, intaccato le rendite ecclesiastiche. In caso di inadempienza dopo 24 giorni
sarebbe scattata per Venezia la scomunica, l'interdetto (divieto di celebrare gli uffici sacri in tutto il
territorio), il marchio di infamia.
Tuttavia, dopo che Venezia fu sconfitta nel 1509 ad Agnadello, cercò di impedire la distruzione
della Repubblica. Prevalse l'indulgenza, perchè c'erano voci che Luigi XII volesse scendere a
Roma e indire un concilio riformatore della Chiesa: Giulio stipulò con Venezia la pace nel 1510.
giulio stipulò poi un accordo con la Confederazione elvetica che gli valse la disponibilità della
migliore fanteria pesante europea. Poi marciò su Mirandola, un cuneo filofrancese in Val Padana,
espugnandola nel 1511.

Il contraltare: la Chiesa Gallicana. Infuriato, Luigi XII apprestò due contromisure: mobilitò la
chiesa gallicana per processarlo e radunò un possente esercito guidato da Goston de Foix che
doveva:
 riconsegnare Bologna ai Bentivoglio
 distruggere Venezia
 discendere a Roma e strappare lo Stato della Chiesa al papa.
Giulio così non ebbe più remore nel manifestare la volontà di cacciare i francesi dalla penisola,
anche per neutralizzare la chiesa gallicana. In lui c'era anche un senso di superiorità del carattere
nazionale italiano: il papato era tutore della “libertà d'Italia”
nel 1510 i delegati del clero francese si riunirono a Tours su invito del re: da tempo la corona
voleva avallare la chiesa nazionale contro la sovranità papale. In questo caso però la chiesa
gallicana doveva citare in giudizio Giulio II, imputato anche della illeceità per un papa di
dichiarare guerra a un principe cristiano per motivi non inerenti alla fede. La chiesa gallicana
doveva distruggere il temporalismo pintificio. Luigi XII poi nel 1511 ridiede Bologna a i
Bentivoglio e sfruttò la defezione di 4 cardinali (Prie e Bichonnet, francesi, Carvajal e Borja,
spagnoli che, costituendosi come sanior pars ecclesiae, convocarono nel maggio un concilio a
settembre a Pisa, in cui riformare la Chiesa.
Luigi però non trovò alleati in Massimiliano di Asburgo e in Inghilterra e inoltre era giuridicamente
debole il provvedimento preso dai cardinali dissidenti. Perciò nel 1511 a luglio Giulio convocò un
concilio fissato per l'aprile 1512: il concilio di Pisa perse valore e a Luigi rimase solo la possibilità
di occupare Roma. Se egli avesse vinto, si sarebbe sgretolata la catena delle conquiste giuliane, il
centro della penisola sarebbe divenuto un protettorato della corona transalpina e la riacquisizione
del regno di Napoli sarebbe stata questione di tempo.
Giulio, riavutosi da una malattia, strinse negoziati con le potenze nemiche della Francia,
convincendole a sottoscrivere una Lega Santa nel 1511: Spagna, Inghilterra, Confederazione
Elvetica, Chiesa. Ma a Ravenna nel 1512 il suo esercito fu sconfitto. Qui però moltissimi soldati
francesi morirono e i rimanenti a sconfiggere il contingente svizzero. In estate si festeggiò la
ritirata dei francesi: Giulio II procedette con la restaurazione di Sforza a Milano e dei Medici a
Firenze.
A Pisa cominciò il concilio, poi trasferito a Milano, ma esso non ebbe nessuna eco. Dopo essere
arrivato ad Asti e poi a Lione il conciliabolo si sciolse mentre Giulio scagliava sul regno di Francia
nel 1512 l'anatema.

Il Concilio Lateranense Quinto (1512-1517). Esso dimostrò l'importanza del papato nel controllo
dello spazio italiano. La maggioranza dei membri del concilio proveniva dalla penisola, c'erano poi
ambasciatori di Spagna, Venezia, Firenze. Giulio indico tre compiti primari: preservare l'unità
dell'Occidente spegnendo il focolaio di scisma Gallicano, studiare le modalità di riforma della
Chiesa, organizzare la crociata. Caetano spiegò che il potere monarchico del Papa imita la potenza,

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la sapienza e l'unicità del potere di Dio. Al Papa competono la spada della giustizia spirituale E
quella della giustizia temporale. La prima spetta solo a lui, la seconda lo accomuna ai sovrani del
mondo.Un inno alla sovrumana completezza del potere papale. Quando Giulio morì nel febbraio
1513, tutti sia ammiratori che detrattori riconobbero che era spirato il pontefice cui si doveva un
potenziamento senza precedenti della Chiesa visibile. (Scena della Messa di Bolsena e della
Cacciata di Eliodoro dal Tempio di Raffaello, dipinte negli appartamenti privati di Giulio).

Leone X e i fasti di un'età dorata. Nel 1512 Giulio partecipò a Mantova ad un congresso delle
potenze antifrancese dove ebbe la direzione degli affari concernenti la penisola. Per bilanciare
l'assetto delle potenze italiane che frenasse le potenze oltremontane e conferisse alla Chiesa il ruolo
di baricentro del sistema egli:
 voleva conferire agli Asburgo Verona, Brescia, Bergamo e Cremona a spese di Venezia →
contraltare nel nord al regno di Napoli;
 ebbe il permesso di annettere allo Stato della Chiesa Parma ePiacenza, Modena e Reggio, a
scapito di Milano e di Ferrara.
Il papa non riuscì però ad assoggettare Venezia. La repubblica, dopo la morte di Giulio, firmò a
Blois con la Francia un accordo per riportare la Lombardia alla Francia e il Veneto a Venezia. Una
situazione che portò la Chiesa in una situazione disagevole.
Il conclave decise di eleggere Giovanni de' Medici, che si fece chiamare Leone X. Leone perdonò i
cardinali secessionisti e si riconciliò con Luigi che aderì al Concilio Laterano. Ad ottobre 1513 fu
formalizzata l'ottava sessione del Concilio.
Per ottenere la massima pace possibile senza ricorrere allo scontro egli: dispose un riavvicinamento
privato a Luigi XII e fece sposare il fratello Giuliano de' Medici con Filiberta di Savoia. Le
intenzioni di Leone erano quelle di non compromettersi con Luigi e di creare una situazione di
equilibrio. Perciò nel 1514 il papa firmò 3 trattati segreti di alleanza difensiva:
1) con Venezia → poteva recuperare il Veneto
2) con Impero → a Leone viene consegnata Modena
3) con Spagna → sarebbe intervenuta per difendere il territorio dello SDC in caso di guerra.
Tuttavia Luigi organizzò una spedizione in Italia, continuata poi dal successore Francesco I. egli
sapeva di non poteva opporsi ai francesi, ma voleva anche creare in Lombardia un'unione tra le
città di Parma, Piacenza Modena e Reggio per erigere un principato padano di appannaggio di casa
Medici.
Nel 151 Francesco trionfa nella battaglia di Marignano. Il re francese, non facendo intromettere la
chiesa gallicana, reclamò un colloquio col papa che ebbe luogo a Bologna nel dicembre 1515. Si
gettarono le basi per il concordato di Bologna con cui si regolarono le materie di conflitto tra S.
Sede e corona di Francia.
Il testo fu ratificato nel 1516 dal Conglio L. Q. con l'abolizione della Prammatica Sanzione: un
traguardo epocale.
Ma il Concilio non riuscì a riformare la chiesa nel profilo spirituale e istituzionale.
Dal 1516 il gallicanesimo non si trasformò mai nel germe di uno scisma.

Una politica a raggio accorciato. Leone si accorse che la chiesa stava arretrando rispetto alle
potenze europee. Tuttavia con il concordato di Bologna ebbe il benestare a rafforzare la presenza
pontificia in centroitalia.
Egli voleva prendere Urbino (filofrancese) per affidarla ai Medici). Cacciò il duca Francesco Maria
della Rovere e fu proposto al suo posto Lorenzo de' Medici il giovane, nipote laico di Leone.
Tuttavia Lorenzo non aveva grandi qualità militari: Francesco Maria, aiutato da Venezia, riprese
Urbino nel 1517; solo un negoziato spinse Francesco Maria ad abbandonare Urbino, per poi
tornarci alla morte di Leone.

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Leone voleva anche tutelare la sicurezza politico-militare della S. Sede. Il sud sembrò cadere
vacante per la cattiva salute di Ferdinando il Cattolico. In previsione di ciò, Francesco I di Francia
si dichiarò pronto a prendere le armi per evitare che il trono degli Angiò cadesse nelle mani di
Carlo d'Asburgo, erede al regno di Spagna. Leone invece voleva escludere entrambi e favorire un
compromesso: il suo candidato era Giuliano de' Medici, suo fratello che però morì. Il papa allora
accordò a Carlo l'investitura di Napoli e quando due anni dopo egli si impose come favorito alla
successione di Imperatore, Leone gli concesse una dispensa che gli avrebbe permesso di tenere
Napoli (in deroga alle costituzioni di Clemente IV che da XIII sec. → proibivano che una stesso
sovrano regnasse a Nord e a Sud della penisola).
Tuttavia Leone sottobanco cercò di impedire a Carlo di riunire le due corone: appoggiò la
candidatura a Federico di Sassonia a Imperatore. Fallendo, Leone si alleò segretamente con
Francesco I a scopo difensivo. Poi il papa epurò il collegio cardinalizio di elementi sgraditi e ne
nominò 31 . la sfera del papato poi si accrebbe: Bologna, Perugia, Urbino, Camerino, Città di
Castello, Firezne, Siena. Federico Gonzaga a Mantova si mise al servizio del papa. Rimaneva
esclusa Ferrara, su cui Leone voleva mettere le mani. Ciò portò alla rottura con Francesco che
appoggiava Ferrara. Poi Carlo V in cambio del recupero di Lombardia e Genova, offrì il suo avallo
al nuovo ordine stabilito da Leone nell'Italia centrale. Così si neutralizzava Venezia che continuava
ad appoggiare i fuoriusciti di Perugia e Urbino per riaprire la contesa sulla Romagana. Leone
avrebbe anche avuto mano libera su Ferrara.
Infine l'unione tra papato e impero avrebbe permesso di superare il problema luterano.

La parentesi rigorista: Adriano VI. Leone X e Carlo V si accordarono nel maggio 1521. Subito si
pianificò una offensiva per togliere la Lombardia a Francesco I: Milano fu presa a novembre.
Però Leone morì. Il capofazione cardinalizio, Giulio de' Medici fece eleggere Adriaan Florensz,
precettore di Carlo V: fu eletto nel 1522 come Adriano VI.
Egli era estraneo alle logiche dinastiche e ai calcoli geostrategici di Leone. Riconsegnò Urbino ai
della Rovere, lasciò al suo posto gli Este. Poi investì Carlo V di una responsabilità, sapendo di
doversi accordare con lui per reprimere la rivolta religiosa tedesca. Non favorevole al concilio,
Adriano voleva una riforma generale dalla Chiesa, per dimostrare la vitalità del papato come
motore di rigenerazione della vita cristiana. Carlo e Adriano collaborarono per proteggere Rodi dai
turchi (fallendo) ma si creò un forte legame. Adriano demandò a Carlo l'arbitraggio delle questioni
del governo temporale della cristianità. Tuttavia i cardinali accusavano Adriano di essere
dipendente da Carlo, anche perchè non aveva intrapreso lo State-building dei predecessori: egli
voleva riformare la chiesa per mondarla dello spirito di venalità.
Adriano decise di tagliare il num degli ufficiali di curia: voleva assottigliare l'organigramma della
curia omana e le sue prestazioni. Volle estirpare il favoritismo perchè la curia doveva ritrovare la
sua natura di apparato preposto alla gestione dei bisogni spirituali della cristianità, non guadagnare
vendendo continuamente le cariche. Per questo insediò nei posti chiave nuovi collaboratori
oltremontani. Tagliò anche le spese per spettacoli e festeggiamenti. Colpita nei suoi interessi
materiali, la componente italiana della curia satireggiò il papa, rappresentato come un barbaro
straniero. Inoltre le sue decisioni non ebbe grande effetto. Egli fu anche criticato per la sua politica
diplomatica: Adriano voleva creare uno stabile raccordo tra papato e autorità imperiale, ma non vi
riuscì: morì nel settembre 1523.
Venezia ruppe così la pace con Carlo V (agli Asburgo parti di Friuli e Veneto, appoggio per crociata
antiturca), la fazione cardinalizia filofrancese rimise ancora in discussione lo strapotere dell'autorità
imperiale in Italia. Giulio de' Medici invece strinse in segreto accordi con Venezia mentre
raccoglieva il favore dei partigiani dell'Asburgo: fu eletto papa, Clemente VII nel 1523.

Velleità e tracollo di Clemente VII. La sua elezione rimise la politica italiana al centro degli

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interessi papali. Carlo V accerchiava lo Stato della Chiesa in quanto re di Sardegna, Sicilia, Napoli,
esercitava il protettorato su Genova e governava Milano grazie al fantoccio Francesco II Sforza (a
causa di Leone X che si era sbilanciata verso Carlo e di Adriano che era a lui compiacente). Solo
un italiano e un curiale poteva riscattare la potenza temporale del papato. Egli cercò di smontare i
presupposti della potenza italiana di Carlo V. i Baglioni di Perugia furono messi sotto controllo, a
Firenze e Siena si ripristinò la potenza temporale del papato.
Per eliminare l'influenza di Carlo in Lombardia, si offrì a Francesco II Sforza come suo ufficioso
protettore per ottenere un supporto, contattò Francesco I: Carlo nel 1524 appoggiò un colpo di
Stato che portò Siena a staccarsi dalla Firenze medicea. Clemente strinse comunque un accordo
con Francesco I che intanto aveva occupato buona parte del ducato di Milano. Il sovrano francese
ottenne così il benestare per l'impresa, che se riuscita, sarebbe continuata con la sua calata a
Napoli. Ma Carlo V vinse Francesco a Pavia e lo imprigionò. I papi del medioevo avevano
privilegiato una conformazione politica della cristianità come insieme di potenze piccole, medie e
grandi: di queste argomentazioni si fece forte la corrente antiasburgica afferente a Clemente VII.
Fu organizzata la congiura di Girolamo Merone che voleva togliere il regno di Napoli a Carlo V
per costituirvi una dinastia autoctona: il capostipite scelto fu Ferdinando d'Avalos che aveva vinto a
Pavia. Egli però denunciò tutto a Carlo V. clemente continuò a parteggiare per Francesco I, anche
dopo il trattato di Madrid (1526) con cui il re francese accettò i dettami di Carlo che ebbe via libera
a conquistare lo spazio peninsulare. Francesco, liberato riaprì lo stato di guerra e Clemente rilanciò
la sua lotta contro il disegno di Carlo.
Formalizzata a Cognac nel 1526 la coalizione antiasburgica vide riuniti il papato, la Francia,
Milano, Venezia e Firenze. Clemente però non aveva una grande armata, contava sul contingente di
fanterie svizzere comandato da dal della Rovere di Urbino. I cantoni elvetici però, minacciati da
Carlo, non aiutarono il papa. Il papa non si arrese e aprì le ostilità contro Napoli. Per preparare
l'arrivo dei francesi, che non arrivarono però in tempo, perchè fermato da preparativi che andavano
a rilento. Perciò il papa decise di firmare una tregua nel 1527. con l'armistizio voleva liberarsi del
fardello della campagna napoletana per poter concentrarsi su una guerra nel Lazio contro i
Colonna.
Carlo V voleva fermare la chiesa roana, che si atteggiava a potenza-guida di un mondo italiano che
però si doveva controllare. Nel 1526 arrivarono i lanzichenecchi che impegnò in una azione
diversiva gli alleati del papa in Lombardia. Poi gli effettivi si ingrossarono grazie all'arrivo del
presidio spagnolo di stanza a Milano esasperato perchè da mesi i soldati non erano pagati.
L'esercito ispano-imperiale andò verso sud, mentre Clemente aveva ordinato il disarmo delle
truppe papali per distendere la situazione con Carlo V e per non pagare ancora i soldati.
Le truppe di Carlo non furono richiamate → Sacco di Roma, 6 maggio 1527.
Troncato il delirio trionfalista, iniziò un'epoca di penitenza (Clemente non si tagliò più la barba).
Cambiò l'attitudine verso il temporalismo.

I nodi irrisolti

L'ambigua nozione di Rinascimento. Il termine Rinascimento nasce tra gli umanisti tra XV e XVI
sec. che lessero il loro presente in termini di presagio di un'epoca di fioritura che stava subentrando
a un'epoca di decadenza. Gli umanisti restringevano la loro visuale al mondo della creatività
artistica e letteraria, senza guardare la religione.
Il papato infatti sembrò incapace di procedere a un rinnovamento generale sul piano organizzativo

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e pastorale. Le affermazioni positive, quando ci furono, furono colte alla base di settori circoscritte
come le Osservanze o con personaggi straordinari come Antonino, il santo arcivescovo di Firenze. I
pontefici invece erano sempre più miopi nello scorgere la portata delle grandi sfide provenienti
dalle periferie della cristianità europea.
Ai primi del '500 il mito della rinascita in corso risulta vivo anche nella cultura ufficiale della curia
romana. Durante i pontificati di Giulio II e Leone X lo stato della chiesa poté anche essere esaltato
come preludio all'aurea aetas. Le vittorie dei pontefici offrirono spunto per un'autoesaltazione che
amò ricollegarsi all'epos della Roma antica. In questo caso il termine Rinascimento può riferirsi al
temporalismo e all'unificazione dello Stato della Chiesa sotto la sovranità pontificia.
La retorica autocelebrativa di curia collimò con la dilatazione degli spazi geografici che si offrirono
come conquista spirituale alla Chiesa romana, dopo le esplorazioni intrapresi da Portogallo e
Spagna, verso Africa e Oceano Atlantico. Dopo la scoperta dell'America fu rivitalizzata la
ierocrazia pontificia. A causa del conflitto tra Spagna e Portogallo per dividere in Nuovo Mondo, si
chiese aiuto ad Alessandro VI, grazie a cui si arrivò nel 1494 al trattato di Tordesillas (metà
orientale portoghese, metà occidentale spagnola). Le bolle di Alessandro furono poi raccolte nelle
Lettere Alessandrine: si regolarono la suddivisione del NM e l'evangelizzazione. Ciò fu possibile
perchè i due sovrani riconobbero nel papa la dignità di dominus mundi, perchè vicario di Cristo: in
questo caso la plenitudo potestatis del pontefice abbracciava gli affari spirituali e temporali.
L'espansione degli orizzonti geografici determinò un revival della ierocrazia papale, in una torsione
temporalista, anche se gli apologeti del papalismo rinascimentale non avallarono mai ciò. Caetano
divise tra potestà spirituale, al papa, e potestà temporale, ai principi. Solo in eccezione accordava al
papa la facoltà di esercitare la potestà temporale e sempre in via provvisoria e per il bene della
chiesa.
Perciò il verdetto di Alessandro per il NM fu giustificato come un intervento arbitrale tra due
principi cristiani assoggettati alla maestà spirituale del pontefice romano (il papato era unica
autorità super partes).
L'esaltazione mitologica del Papa come suprema autorità regolatrice del mondo terreno fu un tema
che gli esponenti della curia rinascimentale coltivarono con trasporto. Le imprese dei papi furono
magnificate come preludio all'immissione di nuovi popoli nella chiesa romana. Egidio da Viterbo,
intellettuale della curia durante Giulio II scrisse un panegirico De Incremento Ecclesiae, con cui si
indicarono nel tempo presenti i segni dell'aprirsi di una nova aetas contraddistinta
dall'evidenziazione dello splendore della verità divina sopra il mondo degli uomini. Egidio sapeva
che la causa cristiana in quell'epoca stava soffrendo arretramenti a est, con la cancellazione
dell'Oriente bizantino per mano turca: per questo nei suoi discorsi inserì sempre incitamenti alla
guerra santa. Tuttavia notava come il papato stesse avendo successo nel teatro mediterraneo,
balcanico e danubiano. Era un auspicio di una vittoria finale sui turchi e del recupero della
Terrasanta. Il papato era celebrato come guida spirituale del mondo e artefice di evangelizzazione e
promozione umana. La sua opera maggiore fu la Historia Viginti Saeculorum. La traiettoria di
Egidio fu quella che più si avvicinò all'idea del Rinascimento.
Altra opera importante fu quella del Maffei, autore dei Commentarii urbani. Queste opere
interessano per lo spirito autoreferenziale di cui furono permeate, una concausa della cecità degli
intellettuali della curia papale → teologia della gloria da cui Lutero prese le distanze.

La contestazione antipapale da Hus a Savonarola. La boemia fu sempre una spina del fianco del
papato nel XV sec. A Praga nacque lo hussitismo dalla rielaborazione del messaggio di Wyclif,

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campione dell'antipapalismo.
Hus enunciò la sua dottrina rendendola comprensibile alle masse, ponendo l'accento su temi di
forte impatto popolare (soppressione del privilegio castale delle gerarchie ecclesiastiche...).
L'assistenza divina era sempre presente a supporto del popolo, considerato la mia chiesa, tutti
prelati, anche il Papa dovevano mostrarsi degni della carica che ricoprivano. Inizia così una
rivoluzione socio-religiosa, di cui il simbolo divenne la comunione per i laci sotto le specie del
pane e del vino, un privilegio liturgico da secoli ristretto ai soli sacerdoti. Intanto si formava per la
prima volta una chiesa congregazionalista, una comunità di cristiani che si costituivano di propria
volontà come una cellula autonoma di credenti, sganciata dai rapporti dallo Stato e dai dettami
della Chiesa romana. Hus negò anche la necessità di un capo supremo per la Chiesa terrena. Lo
hussitismo è vicino alle correnti radicali del calvinismo: ad accomunarli la propensione a costituirsi
in popolo eletto e a imbracciare le armi.
La risposta di Roma fu quella dell'inquisizione e della crociata. In questo senso papato e concilio
furono concordi nell'impiegare la violenza repressiva contro l'eresia anticlericale e antigerarchica in
Boemia. Il concilio di Costanza in modo subdolo lo invitò a comparire davanti al tribunale
ecclesiastico ma lo catturò, lo processò e lo mandò al rogo nel 1415. Così andò in frantumi la
reputazione di lealtà della Chiesa istituzionale verso gli eretici.
Così il concilio ottenne l'effetto contrario e le tendenze separatiste degli hussiti si accentuarono
portando la costituzione di una setta armata. Quando il papato subentrò concilio però prestare la
risposta della vendetta la crociata, ma gli hussiti vinsero ancora. Il concilio di Basile riconoscendo
l'imbattibilità dei ribelli concedette il calice per i laici, con i cosiddetti Compactata del 1436: una
sorta di statuto speciale che consenti allo hussitismo boemo di considerarsi distinto ma non
scismatico rispetto al resto della cristianità d'Occidente. La Chiesa romana non accettò mai tale
stato di fatto ma non smentì mai la concessione (comunque per 140 la sede apostolica si rifiutò di
ripristinare la successione nell'arcivescovado di Praga).
Non riuscendo la Chiesa a risolvere la situazione con la crociata, decide di intervenire dal punto di
vista politico, alzando Giorgio Podebrad nel 1457 al trono di Boemia, che però per facilitarsi
l'ascesa si legò agli utraquisti cui promise di rispettare i Compactata. Podebrad, dopo esser stato
deposto e scomunicato da Paolo II, lavorò per organizzare un concilio in terra tedesca, strinse
legami con il re di Francia. Ma il re d'Ungheria Mattia Corvino fu invitato da Roma a marciare
contro Podebrad rimanendo però sconfitto nel 1468. nel 1471 Podebrad morì così come Paolo II,
mentre Mattia occupò il resto della Boemia. Alla fine la corona boema pervenne agli Jagelloni che
arrivarono a un compromesso con gli utraquisti, emanando nei loro confronti nel 1485 un editto di
tolleranza che però non fu mai ratificato dalla Chiesa.
Sotto Sisto IV in Boemia circolò un manifesto di Satana che dissacrava il papa e lo raffigurava
come Lucifero, una raffigurazione che rispondeva alla percezione di una parte dell'opinione
pubblica europea. La sola contromisura che i papi riuscirono a prendere contro l'avversione in area
tedesca e in area slava fu la delega della repressione ai sovrani locali. Morto il Corvino nel 1490, la
Polonia degli Jagelloni che unirono la corona boema e magiara. Però il papato non tolse mai
l'appoggio agli Asburgo d'Austria. Dopo la caduta degli Jagelloni a Mohacs gli Asburgo presero la
corona boema e quella ungherese.
I papi pensavano che l'Italia fosse immune dall'eresia ma così non era. La comparsa di Savonarola
fornì una prova del discredito in cui cadde il papato rinascimentale nel giudizio dei fedeli d'Italia.
Savonarola attacco Alessandro VI perché contro il temporalismo pontificio, visto come causa della
degenerazione della Chiesa. Egli da giovane aveva visto alle guerre che Sisto IV aveva scatenato in
varie parti d'Italia, anche Ferrara: si convinse che la monarchia pontificia, nella sua nuova
mescolanza di spirituale e temporale era un fattore di sofferenza per tutto il corpo mistico di Cristo.
Per lui la causa della corruzione della chiesa erano i vizi come orgoglio, avidità e lussuria. Per
questo S. abbracciò il conciliarismo e cercò di convincere le e potenze europee a giudicare

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Alessandro, accusandolo anche di aver conquistato la tiara con le simonie. Lavorò per organizzare
un nuovo concilio, trainato dalla chiesa gallicana. In un momento in cui la monarchia francese
perdeva forza nella penisola Savonarola fu consegnato al papa da Firenze. Un commissario
speciale della S. Sede lo equiparò agli eretici perchè si era rivolto al concilio e lo spedì al rogo nel
1498. Divenne martire e vittima del papalismo.
Una misura di ripiego: i concordati. Lo scisma d'Occidente segnato tramonto della teocrazia
papale in due sensi. Determinò la fine della cristianità europea come comunità di popoli resa
omogenea dalla soggezione alla sede romana; pregiudicò l'esercizio dell'autorità papale sopra gli
enti ecclesiastici e la vita religiosa delle province della cristianità. Da ciò nacque un'Europa
formata da un mosaico di potentati gelosi della propria teoria e portati a strumentalizzare la
gestione degli affari religiosi in vista della loro sopravvivenza e del loro ingrandimento.
La chiesa cominciò ad essere concepita come un agglomerato di nationes cristiane, che
Rappresentavano un popolo di credenti che non si riconosceva più unito nella devozione a Roma,
ma diviso secondo il principio della nazionalità. Martino V dunque cerca di ricondurre i vari
territori alla dipendenza spirituale dal papato negoziando nelle condizioni con sovrani. Dopo la sua
lezione del 1418 siglata dei concordati con il maggior numero possibile di Stati europei → prima
stagione concordataria della chiesa di Roma.
La sede apostolica differenziò il trattamento a cui sottopose le aree della cristianità in base ai
rapporti di forza che intratteneva con i rispettivi sovrani. I trattati erano uno strumento flessibile ma
erano provvisori. Martino dovette rinunciare ai diritti fiscali della sede Apostolica sopra le risorse
economiche delle chiese locali, che spesso furono lasciate sotto la tutela amministrativa delle
autorità civili. Dopo l'organizzazione del concilio di Basilea, il concordato con i re di Francia, già
sciolto e ristipulato, fu definitivamente sciolto dal sovrano francese. Nel 1438 egli inserì la
legislazione antipapale di Basilea nel diritto nazionale francese attraverso la Prammatica Sanzione.
Una cosa simile fece la Lombardia viscontea.
Dopo Basilea Eugenio IV cerco di suturare le lacerazioni prodotte dal concilio. Perciò firmò i
concordati con la Bretagna nel 1341 e con la Borgogna nel 1442. Dopo Eugenio, Niccolò fece
ancora di più evolvere la linea concordataria che neutralizzò le più accanite forze fino ad allora
presenti in Italia antagoniste al papato → seconda stagione concordataria.
Ci fu il concordato con Milano, col duca di Savoia, con Venezia e con Genova. La novità più
importante fu però il rientro ufficiale del sacro Romano impero germanico in seno all'obbedienza
romana. Tutto questo portò allo scioglimento del consiglio di Basilea del 1449: la corona imperiale
germanica abbandonò la causa concilia lista con Federico III d'Asburgo che si dichiarò in favore
del papa di Roma. Prima di morire Eugenio firmò un patto con la Germania nel 1447. I principati
territoriali si impegnarono a distaccarsi dal concilio di Basilea e in cambio ricevettero un condono
per la manomissione dei beni e delle cariche entusiastiche dei decenni precedenti.
L'anno dopo Niccolò V firmò a Vienna un altro concordato con Federico III. Il Papa gli concesse il
diritto di nominare i vescovi dei suoi domini austriaci.
Il costo della vittoria ottenuta dal papato contro il riconoscimento della sua giurisdizione sulle
chiese locali curare
Principi secolari della sovrintendenza al loro funzionamento. Così nella maggior parte delle regioni
europee si favorì l'asservimento della religione tra le materie di competenza dell'autorità civile.
In Spagna fu facile arrivare questi concordati sia in Aragona che in Castiglia. Per assicurarsi la
devozione Eugenio riconfermò i privilegi di una falsa bolla di Urbano II che concedeva alla
monarchia castigliana il patronato sopra le diocesi che si sarebbero istituite nei territori strappati ai
mori. Così la monarchia iberica crea un regime regalista che non ebbe bisogno di una sanzione per
via di concordato se non quando la scoperta del nuovo mondo aprire la corona sconfinate
possibilità di allargare le prerogative che esercitava (Lettere Alessandrine).
Giulio II nel 1508 con la bolla Universalis Ecclesiae riconobbe al re di Spagna la responsabilità di

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dirigere la chiesa d'America e gli attribuì le funzioni di carattere non sacerdotale. Una cosa simile
accade in Portogall →. in area iberica l'investitura missionaria sostituì il regime concordatario.

Lo strumento preferito: le Osservanze. A questione della riforma degli ordini religiosi entrò in
collisione con lo ius reformandi che le autorità civili accampavano verso le istituzioni
ecclesiastiche territori. Essere toccato fu l'ordo monasticus, con la predisposizione di alcune
abbazie di area tedesca a farsi epicentro di raggruppamenti di monasteri che accettarono la iforma.
I poteri secolari poi collaborarono con i padri di Costanza dando luogo a congregazioni benedettine
nazionali.
Il laboratorio più interessante fu però quello delle riforme degli ordini mendicanti. I papi furono
contraddittori: diedero dispense e privilegi ai singoli membri ma in altra sede appoggiarono questo
o quella esperienza comunitaria. Riconoscendo le congregazioni de observantia.
L'osservanza francescana aveva oscillato tra un richiamo all'eremitismo e la predicazione popolare.
Martino V ed Eugenio IV ottennero solo di sdoppiare l'ordine in due famiglie. Sisto IV, francescano
conventuale, nel 1472 tentò di abolire l'autonomia degli osservanti ma dovette fare marcia indietro.
ciò non gli impedì di colmare di benefici i due rami dei minori con la bolla delm1474
Maremagnum. Lo stesso trattamento fu riservato ai domenicani con la Bulla aurea del 1479 come
premio per il sostegno alla causa papalista.
Giulio II provò a estinguere il ramo conventuale dell'Ordine ma fallì. Leone X con la Ite vos
decretò l'indipendenza degli Osservanti e la loro preminenza sui conventuali. La vera famiglia
francescana fu riconosciuta negli Osservanti che ricevettero il nome di Ordine dei frati minori. I
conventuali ne divennero un'appendice → reformatio in membris
Perchè i papi volevano difendere le Osservanze mendicanti? Con esse si voleva ricostruire la
societas christiana frantumata dl Grande Scisma, per riprendere autorità sul piano pastorale: i frati
erano lo strumento operativo di cui aveva bisogno.
Bernardino da Siena fu un protagonista della vicenda. Papa Eugenio IV decise di tutelare la causa
osservante grazie al progetto socio-religioso di Bernardino, che coi suoi discepoli costituì una
“scuola bernardiniana”. All'azione moralizzatrice e catechetica, con una predicazione popolare, gli
osservanti fondarono opere assistenziali e devozionali per riplasmare le abitudini collettive in base
a carità sociale e pietà personale. A loro era affidata la predica sulla guarra santa che riscuotevano
le indulgenze per finanziarla. Si instaurò quindi un circuito tra papalismo, osservantismo e prassi
indulgenziaria che rese gli Osservanti strenui apologeti della Chiesa monarchica nelle istituzioni e
comunitaria nello spirito.
Perciò le Osservanze mendicanti finirono bersaglio della Riforma protestante.
Nel NM esse intrapresero u'opera di evangelizzazione. Perchè Spagna e Portogallo eressrro subito
un apparato ecclesiastico nelle zone occpuate. I sovrani, già investiti dal papa del compito di
diffondere la fede nei territori extraeuropei per ragioni pratiche, a loro a volta si fecero aiutare dalle
Osservanze, soprattutto domenicana e francescana.

La mancata “reformatio in capite”. Il papato fu incapace di rigenerare il corpo ecclesiale mentre


divennero irreversibili gli inconvenienti del centralismo asimmetrico creatosi a causa dei
provvedimenti legislativi della chiesa romana: l'amministrazione drenava le risorse economiche
senza usarle per la responsabilità pastorale.
Niccolo V incaricò Domenico Capranica, cardinale, di redigere un memoriale che tratteggiasse i
lineamenti della reformatio in capite. Egli scrisse gli Advisamenta in cui passò in rassegna i mali
del curialismo. Era urgente un controllo sui meccanismi di attribuzione di uffici e benefici conferiti
alla curia. Per controllare l'effettivo stato delle diocesi, Capranica propose di istituire degli ispettori
itineranti. Quanto al personale di curia, egli suggeriva un vaglio accurato che reclutasse persone
competenti, serie e sollecite della salus animarum.

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Pio II lavorò con Domenico de' Domenichi e con Nicola Curano. Il primo auspicò che la riforma
della curia precedesse una riforma di tutta la chiesa. Raccomandò di limitare per legge le occasioni
di scadimento morale deo curiali: bisognava vietare il cumulo di benefici, il rilascio facile di grazie
e indulgenze. Anche Cusano suggerì divieti come quello del cumulo dei benefici e di mettere un
tetto alle spese voluttuarie di cardinali.
I due si differenziarono nella tendenza a riporre la suprema fiducia nell'elemento umano.
Cusano prospettò la costituzione di un comitato di 3 visitatori che avrebbero compiuto una
ispezione della curia romana e del sacro collegio. Questi 3 coadiuvati da una rete di subvisitatori
spediti nelle province avrebbero controllato diocesi, ordini religiosi e vita del popolo. Tuttavia i
riformatori curiali finsero di ignorare i costi della monarchia pontificia: sorvolarono sul fatto che la
curia romana era comunque un bacino di approvvigionamento monetario per i papi. Per questo
Sisto IV non si lanciò nella riforma in capite e si soffermò solo su alcune questione come il lusso
dei cardinali.
Alessandro VI, dopo l'uccisione del figlio, duca di Gandia, nominò una delegazione che mettesse a
punto una riforma della curia romana. Si suggerirono la diminuzione degli uffici curiali, il divieto
del cumulo dei benefici... si prospettò anche di risollevare le prerogative istituzionali del sacro
collegio con ripristino del dibattito concistoriale obbligatorio per le materie più gravi. Ai cardinali
fu chiesto anche maggior decoro. Il papato invece doveva ripristinare la collegialità come stile di
governo.
Alessandro VI però poi fece appello ai sovrani suoi alleati e insabbiò i lavori della commissione.
Al Concilio Laterano V Giulio II si limitò a emanare il decreto Supernae dispositionis nel 1514,
che doveva attuare le riforme. Trovatosi nell'obbligo di onorare l'impegno Leone X, indisse una
inchiesta sul funzionamento della amministrazione curiale: ma dovette rispondere ai cardinali, che
lamentavano la bassa redditività delle loro cariche, aumentando le tasse sulla produzione dei
documenti apostolici.
Adriano VI pure si rese conto che i cardinali, per quanto avidi e cinici, erano i migliori finanziatori
del papato.
Nel 1527 il sacco di Roma fu percepito come castigo divino, per inadempienze istituzionali e
morali del papato.
Dopo l'elezione di Leone X Pietro Querini e Paolo Giustiniani scrissero il Libellus ad Leonem X
che fu una testimonianza delle vedute circolanti nelle parti più attente riguardo la religione delle
elites laiche ed ecclesiastiche. I due, abbandonando la riverenza al papa, fecero un quadro lucido
della situazione. Alcune proposte erano lungimiranti: formazione del laicato, selezione del clero,
traduzione della Bibbia in volgare, formazione di sacerdoti indigeni nei territori extraeuropei. Si
cerca ancora un nuovo concetto di auctoritas pontificia dopo le scoperte geografiche. Il papa deve
farsi promotore della salvezza delle anime, non pensare ai particolarismi. Sono richieste
umanistiche: centralità della coscienza soggettiva, bisogno di informazione, richiamo alla
magnaminitas. Queste posizioni non coincidevano con quelle a corto raggio della curia romana, ma
preludevano alla riforma tridentina.

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422: Bonifacio dichiara che la “sede apostolica detiene il principatus”
492: papa Gelasio afferma che la “sede apostolica possiede il principatus su tutta la Chiesa”
492-496: papa Gelasio I
1075: Dictatus Papae di Gregorio VII
1302: bolla Unam Sanctam da Bonifacio VIII
1436: scontro tra Eugenio IV e il Concilio di Basilea
1417: Martino V eletto papa al Concilio di Costanza
Settembre 1420: Martino V rientra a Roma → il momento in cui si reintegra l'autorità temporale
del papato
1423: Martino V convocò un concilio ecumenico a Siena.
1431: inaugurazione del concilio di Basilea.
1433: Eugenio revoca l'ordine di trasferimento del concilio di Basilea da Basilea a Bologna.
1437: Sigismondo muore
1438: il concilio dichiarò Eugenio sospeso da ogni funzione spirituale e temporale
1439: il Concilio di Basilea depone Eugenio IV
1439: bolla Laetentur coeli
1439: bolla Moyses vir Dei
1439: Oratio synodalis de primatu
1440: battaglia di Anghiari
1440: svolta storica per la chiesa d'occidente
1453: Summa de Ecclesia
1453: Costantinopoli viene presa dai turchi
1453: Niccolò V indice un congresso a Roma
1454: pace di Lodi
1455: Lega Italica
1468: Paolo II proclama la pax paolina

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1456: Pedro Luis Borgia fatto capo delle armate pontificie
1457: Pedro Luis fatto prefetto di Roma
1458: muore Alfonso il Magnanimo
agosto 1458: muore Callisto II
1458-64: pontificato di Pio II
1469: bolla Execrabilis da Pio II
1464-1471: pontificato di Paolo II
1472: Sisto IV riorganizzò il tribunale della Rota fissando 12
1487: Innocenzo VIII rese venale la carica di segretario apostolico
1521: De divina instituzione pontificatus Romani pontificis del Caetano

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