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Indice
Generalità sulla selvicoltura nel piano mediterraneo……………………………………….……..…pag.2
Generalità sulla selvicoltura nel piano basale………….…………………………………………………pag.10
Generalità sulla selvicoltura nel piano montano………..…………..……………………..…………..pag.20
Generalità sulla selvicoltura nel piano subalpino……………………..………........................…pag.38
Storia e sostenibilità della selvicoltura…………..………………………………………………..…………pag.46
Funzione del bosco…..…………………………………………………………………………………………..……pag.47
Il taglio saltuario…………………………………………………………….……………………………….…………pag.54
Vivaistica forestale…………………………………………………………………………………………..…………pag.55
Rimboschimenti e imboschimenti…………………………………………………………………………..….pag.62
Selvicoltura delle specie esotiche…………………………………………………………………………..…..pag.67
Elementi di selvicoltura urbana…………………………………………………………………………..……..pag.71
Fatte da rico
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I piani (o fasce) di vegetazione in Italia
Piano mediterraneo
Querce sempreverdi
o Quercus ilex: il leccio
o Quercus suber: la sughera
Pini mediterranei
o Pinus pinea: il pino domestico
o Pinus pinaster: il pino marittimo
o Pinus halepensis: il pino d’Aleppo
o Pinus brutia: il pino bruzio
Macchia mediterranea
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Si colloca sia nel Lauretum caldo che, soprattutto, nel Lauretum freddo, con frequenti trasgressioni
nel Castanetum caldo.
È la sclerofilla meno termofila (è presente sulla costa atlantica francese e in Marocco supera i
2000 m di quota), ed è la più resistente al gelo (le foglie resistono fino a circa –15 °C, il cambio fino
a –25 ° C ed oltre). Trova l’ottimo con piogge annue di almeno 750-800 mm ed è indifferente al
substrato. In Italia è presente lungo le coste, nelle isole (dove può salire fino a 1000 m di quota) ed
in alcune zone peninsulari interne (es. Umbria). Sono presenti anche piccoli areali disgiunti nel
nord Italia (laghi lombardi, colli Euganei, ecc.) come relitti dopo l’ultima glaciazione.
Può essere considerata una specie tollerante l’ombra, in quanto cresce soddisfacentemente anche
sotto copertura, fino a raggiungere il piano dominante. La chioma esercita una elevata copertura
e, in assenza di disturbi, è specie che tende a formare boschi puri. A conferma di ciò, si sottolinea
che allo stato giovanile spesso i cedui di leccio si presentano misti con altre specie mediterranee
prendendo il nome di “cedui mediterranei” o “forteti”. Nelle fasi più adulte invece tende a
prevalere nettamente sulle altre specie. La capacità pollonifera è elevata, anche dopo incendi.
Gestione
Attualmente si ritrovano formazioni di leccio allo stato di arbusteti come formazioni degradate
definite “macchie di leccio”, di ceduo (più o meno invecchiato) e, in pochi casi, di fustaia.
Cedui: un tempo molto utilizzati per produrre carbone o legna da ardere (con turni di 10-16 anni
ed accrescimenti medi di 2-4 m3/ha/yr), oggi di importanza economica non sempre significativa.
Prolungamento dei turni (fino a 30-40 anni ed anche oltre), ovvero conversione all’alto fusto
attuando periodici diradamenti che hanno anche lo scopo di ridurre il rischio di incendio. Nei
terreni fertili, la conversione a ceduo composto potrebbe favorire la rinnovazione naturale da
seme, ma non appare conveniente dal pov applicativo, se non qualora si intenda ottenere ghianda
da pascolo.
Fustaie: sono presenti solo in casi particolari in aree parco, ovvero al limite con il pascolo arborato.
La fustaia ha interesse protettivo, estetico e naturalistico. È meno importante dal pov produttivo,
in relazione alla modesta qualità tecnologica del legname ed anche alla difficoltà di ottenere fusti
ben conformati.
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Quercus suber – Sughera
Specie ad areale mediterraneo occidentale e sulla costa atlantica in Portogallo e Marocco, più
limitato soprattutto verso oriente rispetto a quello del leccio (in Italia 168.000 ha dei quali 139.000
in Sardegna e 15.000 in Sicilia). Esistono inoltre forme di
transizione come Q. crenata (= Q. pseudosuber), specie
forse ibrido tra Q. suber e Q. cerris presente allo stato
sporadico anche in varie regioni dell’Italia settentrionale,
tra le quali il Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino ed
Emilia Romagna. La sughera presenta una notevole
variabilità morfologica, nonché una sottospecie occidentalis
a maturazione biennale delle ghiande. Si colloca nel
Lauretum medio, con poche trasgressioni nella sottozona
calda e fredda.
È specie più termofila rispetto al leccio e può resistere meglio di quest’ultimo all’aridità. Trova
l’ottimo in ambienti con almeno 600-700 mm annui di pioggia. Predilige suoli da rocce silicee, a
reazione acida o subacida, può crescere anche su suoli da rocce carbonatiche, purché decalcificati.
È specie eliofila, che esercita una modesta copertura, ha una buona resistenza al fuoco grazie alla
corteccia inspessita ed ha una discreta capacità pollonifera.
In Italia si ritrova soprattutto lungo tutta la costa tirrenica e nelle isole maggiori. È rara in Liguria
ed in Puglia. La sughera si trova come componente della macchia, o, più frequentemente, allo
stato coltivato per la produzione del sughero, in popolamenti di diverso aspetto e consistenza in
relazione anche alla presenza ed all’intensità del pascolo. In Toscana sono presenti cedui composti
a sughera sopra leccio.
Gestione
La gestione di queste formazioni riguarda essenzialmente la coltivazione per la raccolta del
sughero. Le sugherete rivestono un notevole interesse anche dal pov estetico-paesaggistico e
storico-colturale. L’abbandono della coltura sembra negativo nei riguardi della sopravvivenza della
sughera, in quanto, almeno fino ad ora, si è in genere osservato uno sviluppo delle altre specie
della macchia senza una significativa rinnovazione della quercia in oggetto. Peraltro, i boschi
naturali a partecipazione di sughera sono in genere considerati delle forme di transizione verso la
lecceta.
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Cenni sulla raccolta del sughero
Quando la pianta ha un’età di 15-20 anni viene realizzata la prima raccolta del sughero, detta
anche demaschiatura. Da questa prima raccolta si ottiene il sughero maschio (o vergine o
sugherone), adatto soprattutto alla macinatura, per ricavarne granulato per l’edilizia, per isolanti
termoacustici e per pannelli. Dopo ogni raccolta o decortica, la sughera impiega ~ 9-12 anni per
rigenerare la corteccia, ed il sughero prodotto in seguito è detto femmina o gentile; esso si
presenta maggiormente liscio, compatto, leggero, elastico e impermeabile rispetto al sughero
maschio ed è quindi molto più adatto alle lavorazioni.
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Pinus pinea – Pino domestico
Specie ad areale circummediterraneo, di dubbio
indigenato in Italia, in vari paesi spesso introdotta a
livello colturale per la produzione di legno (cantieristica
navale) e di pinoli. Si ritiene originario di aree con clima
di transizione tra quello atlantico e quello mediterraneo.
P. pinea, pur presentando una certa variabilità per
alcuni caratteri come la predisposizione alla produzione
di pinoli, non sono state ancora accertate razze
geografiche. È presente nel Lauretum e nel Castanetum
caldo con un totale di circa 46.000 ha in Italia dei quali 11.000 ha in Toscana e 12.600 ha in
Sardegna. È specie molto eliofila, ma meno rustica degli altri pini mediterranei. In Italia è stata
diffusa con i rimboschimenti in tutte le zone costiere, soprattutto in Toscana, Lazio, Sardegna e
Sicilia (fino a 700 m di quota), sono presenti anche nuclei nell’alto Adriatico (Ravenna), in
condizioni ambientali marginali per la specie. Trova l’ottimo climatico in aree con una piovosità di
almeno 800 mm annui, predilige terreni derivanti da rocce silicee e necessita di molto spazio per
espandere la chioma. Gli aghi hanno una cuticola relativamente sottile e pertanto possono essere
più facilmente danneggiate dall’aerosol marino (tanto più se inquinato da tensioattivi). La
rinnovazione naturale è in genere difficoltosa anche dopo l’incendio.
Gestione
Pinete litoranee di interesse paesaggistico: costituzione di fasce protettive nei riguardi
dell’aerosol marino, eventuale diradamento delle latifoglie che tendono a competere con il pino.
Impianto artificiale da attuarsi anche su dossi artificiali nel caso siano presenti infiltrazioni di acqua
salmastra in falda.
Pinete da pinoli: densità finale di 70-180 piante/ha, trattate a taglio raso con rinnovazione
artificiale (turno di 100-120 anni). Possibilità di realizzare strutture disetaneiformi per evitare
tagliate a raso.
Pinete per la produzione legnosa: diffuse soprattutto in Spagna, trattate a taglio raso con turni di
60-80 anni e rinnovazione artificiale posticipata.
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Le diverse provenienze presentano una notevole variabilità per quanto riguarda vari caratteri,
quali la resistenza al freddo, la forma del fusto, ecc. Si colloca dal Lauretum freddo alla sottozona
calda del Castanetum, teme l’aridità in quanto dotato di un apparato radicale poco profondo (nelle
stazioni aride sembra più sensibile agli attacchi parassitari). È il meno termofilo dei cosiddetti “pini
mediterranei” (nell’Italia peninsulare arriva fino a 500-700 m s.l.m.). Predilige terreni sciolti, a
reazione acida o subacida, provenienti da rocce silicee. In Italia è presente allo stato spontaneo in
Liguria, sul litorale toscano, in Sardegna (nuclei sparsi) e in Pantelleria. In una ristretta area della
parte sud-orientale del Piemonte, al confine con la Liguria, sono presenti pinete molto prossime a
quelle della zona di Sassello (SV), quest’ultime sicuramente naturali. Per i rimboschimenti le
provenienze più interessanti per il nostro paese sono quelle liguri, toscane, corse e provenzali. È
specie eliofila e rustica, con caratteristiche di specie pioniera, capace di colonizzare terreni poveri.
Presenta un apparato radicale superficiale. È più resistente del pino domestico all’aerosol marino,
pertanto è stato spesso utilizzato come fascia di protezione verso il mare. Si rinnova facilmente
dopo l’incendio se le piante sono adeguatamente provviste di seme. Il pino marittimo è specie ad
accrescimento relativamente rapido e viene spesso impiegato (soprattutto in Francia, Portogallo,
ecc.) per la costituzione di impianti artificiali a scopo produttivo.
Gestione
• Tagli successivi: con intensità del taglio di sementazione pari al 60-70%. Per consentire
l’affermazione della rinnovazione naturale è importante procedere tempestivamente alla
rimozione dei portasemi.
• Taglio a buche: con buche ampie 1,5-2 l’altezza delle piante.
• Taglio raso: nei popolamenti artificiali a scopo produttivo, con turni di 50-60 anni e
rinnovazione artificiale posticipata.
• Taglio a scelta: tradizionalmente applicato in Toscana ed in Liguria, su proprietà private,
associato alla raccolta dell’erica e all’impiego del legname di piccole dimensioni come
assortimento da miniera o altro. È difficile ottenere rinnovazione naturale.
La gestione di questi boschi deve tenere conto della scarsa stabilità delle piante, dovuta
all’apparato radicale superficiale e del temperamento eliofilo della specie. Nei boschi a
rinnovazione naturale sono necessari opportuni sfollamenti (2-4). Nelle perticaie e nelle fustaie di
origine naturale o artificiale sono opportuni diradamenti frequenti e graduali. La rinnovazione
naturale può trovare ostacolo nella vegetazione del sottobosco, pertanto può essere opportuno
smuovere leggermente il terreno. In Piemonte è stato impiegato per il rimboschimento di pascoli
degradati nella fascia collinare pedemontana alpina (tra l’imboccatura delle Valli Chisola e di
Lanzo), in aree a microclima favorevole. In alcune aree dell’Appennino piemontese è stato
probabilmente diffuso mediante rimboschimenti di cui si è persa la memoria. Il legname viene
utilizzato per usi industriali e per falegnameria andante (imballaggi, ecc.). La qualità può essere
migliorata mediante potature. Il pino marittimo è tradizionalmente impiegato anche per
l’estrazione della resina.
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Differenze tra P. pinea e P. pinaster
Pinus pinea
Pinus pinaster
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È specie diffusa soprattutto nel Lauretum caldo e medio. Spiccatamente eliofila, molto resistente
alla siccità e sensibile al freddo, si rinnova molto bene dopo gli incendi in relazione ai coni serotini
che si dischiudono completamente con il calore degli incendi. Non
presenta particolari esigenze edafiche, cresce bene anche su rocce
calcaree compatte e teme solo i terreni molto argillosi. Sopporta bene
l’aerosol marino (se non inquinato) ed è quindi specie pioniera
adattabile alle aree costiere più calde del nostro paese. È stata
frequentemente impiegata nel meridione per il rimboschimento di
terreni degradati nella zona del Lauretum.
Gestione
Per ottenere la rinnovazione naturale si possono applicare i tagli successivi con forte intensità del
taglio disementazione o il taglio a buche. Talvolta il fuoco prescritto può favorire la rinnovazione.
Il turno è in genere di 50-60 anni, oltre i quali l’accrescimento può decrescere significativamente.
Nelle stazioni più fertili può fornire accrescimenti interessanti (≥ ai 10 m3/ha/yr). Il legno è di
modesta qualità (anche in relazione alla forma del fusto assai contorta) ed è adatto per usi
industriali o, al massimo, per falegnameria andante. Attualmente l’interesse per questo pino
riguarda prevalentemente la protezione del suolo ed il paesaggio.
La macchia mediterranea
Con questo termine si intendono cenosi che possono assumere strutture assai varie. Da quella del
cespuglieto a quella del ceduo di bassa statura con tutte le forme strutturali intermedie. Può
essere originata anche dalla progressiva degradazione di un preesistente soprassuolo arboreo
(lecceta) a seguito delle frequenti utilizzazioni, del pascolo e degli incendi. Sono formazioni spesso
con una elevata biodiversità e di interesse paesaggistico e naturalistico. Tra le specie presenti si
citano: leccio, sughera, filliree, lentisco, corbezzolo, mirto, alaterno, alloro, oleastro, carrubo,
eriche (E. arborea ed E. scoparia), oleandro, tamerici, ginepri (J. oxycedrus e J. phoenicia). Specie di
particolare interesse naturalistico sono la palma nana, l’euforbia arborea, la ginestra dell’Etna.
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Generalità sulla selvicoltura nel piano basale
Aspetti climatici: disponibilità idrica meno limitante rispetto al piano mediterraneo.
Aspetti vegetazionali: orizzonte delle latifoglie eliofile.
Influenze antropiche: forte riduzione della componente forestale con modifiche della
composizione specifica e strutturale.
Finalità: difesa del suolo, conservazione e miglioramento degli aspetti naturalistici e
paesaggistici. La produzione legnosa è concentrata prevalentemente nei cedui.
Principali querce caducifoglie o semi-decidue italiane (Sup. tot. circa 2.000.000 ha)
Subgenere Quercus
o Quercus robur: la farnia
o Quercus petraea: il rovere
o Quercus pubescens: la roverella
o Quercus frainetto: il farnetto
Subgenere Cerris
o Quercus cerris: il cerro
o Quercus trojana: il fragno
o Quercus macrolepis: la vallonea
o Quercus crenata: la cerro-sughera
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Quercus petraea – Rovere
Ha un’areale più limitato che si ferma alla Polonia. È perlopiù
concentrato in Europa centrale. In Italia infatti lo troviamo
solo nel centro-nord. È una specie a clima subatlantico, più
suscettibile della farnia alle gelate tardive, ma meno
termofila potendo così salire maggiormente di quota,
raggiungendo anche i 1500 m s.l.m. In Italia 59.000 ha dei
quali 23.000 in Piemonte e 6000 ha in Lombardia e Toscana. È
specie eliofila, ma meno della farnia. Ha un apparato radicale fittonante e profondo, in grado di
eludere l’aridità. È una specie mesofila che non tollera la sommersione. Predilige i terreni acidi e
subacidi, sopporta anche suoli superficiali e sassosi. Si ibrida con farnia e roverella. È presente
sporadicamente in boschi di pianura e collinari, in purezza è relegata in pochi boschi relitti di
montagna. Nel nord Italia il suo areale è stato molto ridotto per lasciar posto al castagno.
Tipi di popolamenti
Querceto di farnia: formazione di ecotono tra ambiente acquatico e terrestre localizzato
lungo il corso dei principali fiumi, in condizioni di falda superficiale e periodica
sommersione (fino a 2 mesi/yr). Il carpino è assente, è frequente la presenza dell’olmo
campestre, ontano nero, pioppo bianco e pioppo nero, orniello, pado (P. padus). Nelle
formazioni rade è spesso presente una copertura arbustiva molto fitta (prugnolo, ligustro,
biancospino, etc.). Frequentemente il querceto è stato sostituito da pioppeti specializzati.
Querco-carpineto planiziale: con possibile presenza di olmo campestre, ontano nero,
frassino maggiore ecc. In relazione all’umidità del substrato, nei sistemi più naturaliformi la
farnia è presente con 70-100 piante/ha di grosso diametro.
Querco-carpineto collinare: con presenza di rovere quando le condizioni di umidità del
substrato diminuiscono con ciliegio, acero campestre, frassino maggiore, ecc.
Querceto di rovere: in ambienti sub-montani, in condizioni anche di scarsa disponibilità
idrica nel substrato. Nelle stazioni più fertili la rovere è stata spesso sostituita dal castagno.
Gestione
Nei querceti di farnia e nei querco-carpineti planiziali il problema colturale più rilevante è spesso
la difficoltà di rinnovazione della farnia.
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Interventi proposti sono:
In entrambi i casi, in mancanza di rinnovazione naturale può essere necessario ricorrere a semine
o a piantagioni di farnia. Nei querceti di farnia sono proponibili modelli colturali intermedi rispetto
ai due sopra indicati, che non favoriscano eccessivamente lo strato arbustivo di ostacolo alla
rinnovazione di farnia.
Nei querco-carpineti collinari (dove la rinnovazione della farnia è spesso più agevole rispetto a
quelli planiziali) e nei querceti di rovere (su suoli fertili ed in buone condizioni colturali) alcuni
autori propongono una selvicoltura di qualità secondo l’impostazione svizzera o quella francese.
-Impostazione svizzera:
In Italia non si attua perché non ci sono soprassuoli adatti alla crescita di querceti di rovere.
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È frugale che si adatta anche a suoli superficiali argillosi o rocciosi, vegeta prevalentemente su
suoli carbonatici. Si ibrida con farnia e rovere. Nelle aree più fertili è stata sostituita dai vigneti.
Nell’Italia nordoccidentale la si ritrova sui versanti più caldi delle valli alpine continentali e nelle
aree collinari. È soggetta agli incendi forestali anche perché mantiene le foglie secche sui rami per
tutto l’inverno (specie semidecidua).
Tipi di popolamenti
Querceto di roverella dei substrati carbonatici: con presenza più o meno cospicua di
carpino nero, orniello e cerro in relazione anche alla quota e alle caratteristiche idrologiche
della stazione.
Querceto di roverella dei substrati silicatici: relativamente raro, presente in Alto Adige,
Trentino, Piemonte (es. Valle di Susa), più frequente in questi casi la mescolanza con la
rovere che è più competitiva rispetto alla roverella su questo tipo di substrato.
Querceti di cerro: localizzati soprattutto nella regione appenninica (es. Appennino ligure e
piemontese) e nell’alta pianura. Possono essere puri o con presenza di roverella, acero
campestre, carpino nero, ecc.
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Gestione
Per i querceti di roverella (oggi governati a ceduo semplice matricinato o a ceduo composto):
Mantenimento del ceduo semplice matricinato o del ceduo composto nelle situazioni ove
ciò è possibile e conveniente.
Conversione del ceduo semplice o del ceduo composto all’alto fusto. Può essere necessario
un periodo di attesa, in quanto le piante da rilasciare (800-1000/ha) dovranno avere un
diametro di almeno 10-12 cm ed altezza di 12-15 m.
Rilascio del bosco all’evoluzione naturale nelle stazioni più povere e/o meno facilmente
accessibili.
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Può adattarsi a suoli carbonatici in ambienti piovosi. Il castagno presenta una longevità molto
elevata ed una capacità pollonifera altrettanto elevata. Nelle aree ottimali di vegetazione del
castagno questa specie sostituisce generalmente querceti di rovere o, in Italia meridionale, di
cerro; in questi casi il castagno occupa certamente aree tra le più fertili del territorio submontano.
In certi casi la coltura del castagno è stata però spinta anche in aree non del tutto ottimali per
clima (area del faggio, area del leccio e della sughera) o per tipo di suolo (es. terreni marnosi, in
sostituzione di querceti di roverella e carpino nero).
Gestione
Castanicoltura da frutto
Attività da realizzare solo in aree vocate per caratteristiche ambientali ed infrastrutturali. I boschi
di castagno destinati alla produzione frutticola sono tradizionalmente le fustaie o selve castanili.
L’IFNC del 2005 indica circa 147.000 ha tra castagneti da frutto e selve castanili (al 2014 circa
55.000 ha di castagneto da frutto gestito da circa 34.000 aziende agricole).
Castanicoltura da legno
L’IFNC del 2005 indica una superficie di circa 600.000 ha di castagneti da legno. Si tratta in gran
parte di cedui castanili a regime ovvero oggi in stato di abbandono colturale e quindi più o meno
invecchiati. Nei cedui di castagno il n. ottimale di ceppaie/ha è compreso tra 400 e 600-800.
Possono distinguersi diverse tipologie in relazione ai turni adottati. Le tipologie più frequenti sono:
Cedui a turno breve (10-12 anni) per paleria medio-piccola: no interventi colturali;
Cedui a turno medio (15-25 anni) per paleria grossa: si prevede uno sfollamento al 4°-5°
anno ed uno o due diradamenti intorno al 10° e 20° anno;
Cedui a turno lungo (dai 25 ai 40-45 anni) con uno sfollamento e due o tre diradamenti (il
primo a circa 15 anni): in fase sperimentale in Italia, ma potrebbero consentire di ottenere
materiale da opera;
Fustaia per materiale da opera: non esistono riferimenti precisi in Italia, potrebbe
ipotizzarsi una conversione dei cedui con diradamenti ogni 10-12 anni fino a densità di 500-
600 piante/ha a 30-40 anni, con turni di 60-80 anni.
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Nella fustaia così costituita è difficile mantenere il castagno in purezza in quanto tendono
sempre a diffondersi anche le altre specie forestali tipiche della corrispondente fascia di
vegetazione.
Italia centro-settentrionale:
Italia centro-meridionale:
Ceduazione semplice (problemi legati alla scarsa densità delle ceppaie, <400 ceppaie/ha);
Ceduazione con coniferamento (problemi legati alla scelta delle specie da introdurre);
Ceduo composto o fustaia mista di castagno ed altre latifoglie in fase di introduzione
naturale nel vecchio castagneto.
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È specie eliofila, che non si rinnova facilmente sotto parziale copertura, trova l’ottimo nei suoli
sciolti e ben drenati, anche poveri di nutrienti e a reazione subacida, mal si adatta ai terreni molto
argillosi. In Italia è presente dal livello del mare fino a circa 1000 m di quota nel centro nord e fino
a 1600 m nel meridione. Ha un’elevata capacità pollonifera e produce polloni radicali dalle radici
più superficiali, le quali sono molto estese in senso orizzontale. Come tutte le leguminose, è in
simbiosi radicale con microrganismi azotofissatori e quindi può arricchire il suolo di azoto. Nel
complesso, è una specie pioniera, che però (almeno al di fuori del suo areale di vegetazione
naturale) presenta una limitata longevità (60-70 anni) e quindi nelle zone più fertili è specie
transitoria che può essere gradualmente sostituita da altre specie più longeve. La notevole
diffusione della robinia in Italia è collegata alle peculiari caratteristiche di “invadenza” che questa
specie presenta ed è stata favorita dai seguenti fattori:
diffusione in aree agricole di cedui puri di robinia tagliati a turno breve per la produzione di
legna da ardere o di piccola paleria;
diffusione della robinia come specie consolidatrice delle scarpate ferroviarie;
progressivo abbandono dei terreni agricoli e pascolivi;
eccessivo sfruttamento e degrado delle formazioni forestali indigene.
Gestione
Il ceduo puro di robinia: può essere mantenuto nelle aree di buona e discreta fertilità di proprietà
privata, dove non sussistono limitazioni di carattere ambientale e dove sono possibili redditi
soddisfacenti. (nei cedui di robinia alcune PMPF consentono di omettere il rilascio delle matricine).
Ceduo puro di robinia per la produzione di legna da ardere: turno 6-9 anni
Ceduo puro di robinia per la produzione di paleria: turno 15-20 anni (attuazione di un
diradamento dall’alto per sfoltire il piano dominante a 9-10 anni di età).
Ceduo puro di robinia a turno lungo per la produzione di legno da opera: modello colturale
ancora in una fase sperimentale, turno di 40 anni (attuazione di un diradamento dall’alto
all’età di 9-11 con marcatura di circa 300 piante candidate/ha, attuazione di un secondo
diradamento all’età di 20-23 anni per favorire ulteriormente lo sviluppo dei candidati,
densità finale di circa 500-700 piante/ha).
Per ridurre la diffusione della robinia all’interno dei boschi nei quali si è insediata è necessario
lasciarle invecchiare, in quanto la modesta longevità della specie determina un deperimento
relativamente precoce delle piante. Invece è assolutamente da evitare il taglio dei polloni in
quanto ciò non farebbe che rinvigorire le piante. Una tecnica sperimentata per accelerare il
deperimento delle piante di robinia è la succisione (eliminazione di un anello di corteccia e cambio
intorno al fusto), anche se i risultati ottenuti sono incerti in quanto la pianta può risponderne
mediante un forte scoppio di polloni radicali ed una abbondante fruttificazione. Infine, non
vengono neanche utilizzati trattamenti chimici.
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Le latifoglie correlate alle querce
Sono specie comuni nel piano inferiore dei querceti, presenti soprattutto allo stato misto con le
querce (a parte i carpini). Hanno interesse dal pov floristico (biodiversità) e per l’influenza che
possono avere sulla dinamica evolutiva dei querceti come miglioramento del suolo, rapporti con la
rinnovazione naturale delle querce, colonizzazione terreni nudi.
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Ha esigenze idriche superiori a quelle della roverella, negli ambienti collinari
peninsulari occupa soprattutto i versanti nord. Predilige i suoli calcarei e marnosi,
teme il ristagno idrico, ma sopporta i terreni argillosi. Il temperamento nei riguardi
della luce è simile a quello del carpino bianco, pertanto si insedia facilmente al di
sotto dei querceti. Ha una notevole capacità pollonifera e ciò ne aumenta la
concorrenzialità con le querce nei boschi cedui e nei cedui composti. I boschi a
prevalenza di carpino nero detti “ostrieti” derivano in genere dalla regressione
delle querce. Possono assolvere funzioni protettive nelle pendici argillose più ripide. In aree fertili
potrebbero essere sostituiti con altre specie, dopo un periodo di invecchiamento. Il legno è un
buon combustibile, ma la produttività del ceduo è modesta.
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Latifoglie igrofile del piano basale
Populus nigra – Pioppo nero Alnus glutinosa – Ontano nero
Populus alba – Pioppo bianco Alnus cordata – Ontano napoletano
Salix alba – Salice bianco
Superfici dei boschi igrofili:
Piano montano
Fagus sylvatica: il faggio
Abies alba: l’abete bianco
Picea abies o P. excelsa: l’abete rosso
Pinus sylvestris: il pino silvestre
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Il faggio è specie indifferente al substrato trovando faggete eutrofiche, mesotrofiche e
oligotrofiche. È una specie molto sciafila (seppure in grado inferiore rispetto all’abete bianco) e
sopporta l’aduggiamento anche per 20-30 anni. Un prolungato ombreggiamento può però
determinare la perdita della dominanza apicale e pertanto il fusto può facilmente biforcarsi una
volta che la rinnovazione viene liberata dalla copertura. Nelle Alpi il limite superiore del faggio si
colloca normalmente sui 1300-1500 m s.l.m. (la temperatura media del mese più caldo non deve
scendere al di sotto dei 13 °C) e solo in casi particolari può salire oltre tali quote. Negli Appennini il
faggio raggiunge invece il limite superiore della vegetazione arborea (fino a quote di 1600-1800 m
s.l.m., 2300 m sull’Etna). Le piante adulte di faggio esercitano al suolo una copertura molto intensa
(superiore a quella dell’abete) ed in condizioni ambientali ottimali tende a formare popolamenti
puri o quasi puri. Tale tendenza si riduce allontanandosi dall’ottimo climatico; in questi casi la
mescolanza può realizzarsi con abete bianco, abete rosso, acero di monte e/o altre specie a
seconda dei casi. È specie con buona facoltà pollonifera, anche se meno longeva rispetto ad altre
latifoglie. La rinnovazione del faggio può essere ostacolata da una eccessiva presenza di flora
nitrofila dovuta, ad esempio, a tagli troppo intensi realizzati nella faggeta adulta.
Gestione
Le fustaie: In passato sono state trattate anche a taglio raso con riserve (ad. es. nel meridione con
la legge “Borbonica”). Allo stato attuale in Italia (ed anche negli altri paesi europei) per le fustaie di
faggio è previsto generalmente il trattamento a tagli successivi nelle sue diverse varianti (uniformi,
su piccole superfici, ecc.). Nelle faggete pure il taglio saltuario non trova applicazioni significative
in relazione alla naturale tendenza all’uniformità strutturale di queste formazioni ed anche per i
difetti di forma che possono derivare da un prolungato ombreggiamento della rinnovazione.
Per turni da 80 a 120-150 anni (oltre i 150 anni possono verificarsi marciumi), taglio di
sementazione con asportazione dal 25 al 30% della provvigione (spesso assimilabile ad un
diradamento dal basso, per creare un leggero isolamento della chioma delle piante migliori).
Periodo di rinnovazione da 10-15 a 20 anni.
21
Nelle fustaie dense, poco o per nulla diradate, 10-15 anni prima del taglio di sementazione
possono essere previsti tagli preparatori (spesso assimilabili a diradamenti dall’alto, per liberare la
chioma delle piante migliori, lasciando un corteggio di piante dominate per evitare eccessive
scoperture del suolo). In Italia, gli incrementi medi annui delle fustaie di faggio si aggirano sui 3-4
(1-8) m3/ha.
Cure colturali
Nei boschi di particolare interesse ai fini produttivi già nella fase di spessina possono essere attuati
dei tagli selettivi per eliminare le piante peggio conformate. Tali interventi devono essere di
intensità moderata, poiché in questa fase una elevata densità del soprassuolo favorisce la
formazione di fusti diritti e poco ramosi. I primi diradamenti veri e propri dovrebbero essere
realizzati nella fase di perticaia (all’età di 30-40 anni) a vantaggio dei soggetti migliori per forma e
vigore. La frequenza degli interventi potrà essere tanto più elevata quanto più si è interessati a
favorire l’accrescimento diametrico, con frequenze decennali nel caso di fustaie a prevalente
funzione produttiva. In Italia sono spesso consigliati diradamenti dal basso e piuttosto graduali,
mentre in altri paesi europei, come Francia e Germania, vengono generalmente previsti
diradamenti selettivi, con una scelta delle piante che viene effettuata intorno ai 30 anni di età.
I cedui composti
In generale questa forma di governo viene ritenuta poco adatta al faggio a causa della notevole
ramificazione assunta dalle matricine, le quali risultano così scarsamente idonee a fornire
assortimenti da opera di buona qualità. In certi casi possono essere classificati come “cedui
composti” anche boschi a prevalenza di faggio con una struttura molto irregolare. Questi
soprassuoli, di origine varia e non sempre facilmente definibile, presentano una discreta densità di
piante ad alto fusto associata ad una componente a ceduo.
22
Allo stato attuale la gestione del ceduo composto di faggio prevede, in genere, il passaggio alla
fustaia mediante opportuni interventi. Infatti, la conversione a ceduo semplice è di norma vietata
dalle Prescrizioni di massima, mentre la gestione classica a ceduo composto appare poco
proponibile in quanto complessa dal pov tecnico e non conveniente da lato economico.
La conversione può avvenire lasciando il ceduo alla evoluzione naturale, oppure mediante
l’attuazione di tagli di avviamento, quest’ultima indicata come conversione “attiva”. I tagli di
avviamento consistono in diradamenti selettivi e graduali volti a favorire i polloni più vigorosi e
meglio conformati. Ciò determina la formazione di un soprassuolo “transitorio”, poi sottoposto a
tagli successivi per ottenere la fustaia definitiva. I primi tagli di avviamento devono essere attuati
su cedui già abbastanza invecchiati, nei quali cioè si sia verificata una sufficiente differenziazione
dei polloni in ciascuna ceppaia e nel contempo la capacità pollonifera delle ceppaie sia abbastanza
ridotta. L’intensità dei tagli di conversione può variare in genere dal 25 al 35-40 fino anche al 50%
della provvigione. Le intensità più elevate possono essere raggiunte nei cedui in condizioni
stazionali molto favorevoli (elevata fertilità e modesta pendenza) e dove non sussistono altre
limitazioni di carattere ambientale (es. nelle aree protette regolamenti specifici possono limitare
l’intensità dei tagli di avviamento). Ovviamente, a parità di fertilità stazionale, più i tagli sono
leggeri e maggiore dovrà essere la frequenza degli interventi. Generalmente il faggio è in grado di
rispondere bene ai tagli di avviamento alla fustaia e secondo alcuni autori ciò sarebbe da porre in
relazione anche al fenomeno dell’affrancamento dei polloni stimolato dai tagli stessi. Infatti, tale
fenomeno consentirebbe ai polloni di acquisire una vitalità ed una longevità più simile a quella
degli individui nati da seme. I primi tagli di avviamento alla fustaia spesso sono interventi a
“macchiatico negativo” ed i tempi necessari alla conversione, cioè per il passaggio alla fustaia
“definitiva”, sono sempre lunghi (spesso secolari). Comunque, già dopo i primi interventi il bosco
tende ad assumere una configurazione strutturale più simile a quella della fustaia, con vantaggi dal
pov estetico e della fruibilità turistica. Per quanto indicato, queste conversioni sono attuate
soprattutto nelle proprietà pubbliche, con particolare riferimento ai parchi ed alle altre aree di
elevato interesse dal pov paesaggistico e ricreativo. Nelle proprietà private questi miglioramenti
boschivi sono realizzati generalmente solo in presenza di contributi pubblici.
23
L’abete bianco è specie di transizione tra i climi atlantici ed i climi continentali. Infatti, rispetto al
faggio (tipicamente atlantica) l’abete bianco ha esigenze più spostate in senso continentale, in
quanto è più resistente al freddo invernale, meno soggetto alle gelate primaverili, più esigente di
calore estivo e meno favorito da un’elevata umidità atmosferica. Ha una resistenza al freddo
elevata (-25 °C e simile a quella dell’abete rosso), il limite altitudinale deriva dalle esigenze di
calore estivo e dalla sensibilità all’aridità fisiologica determinata dal terreno gelato (le foglie sono
comunque soggette a perdite idriche per traspirazione cuticolare che non sono compensate da
assorbimento radicale). Nell’Appennino centro-meridionale ha un comportamento più termofilo
rispetto alle Alpi in quanto presente il massimo di frequenza nella fascia montana inferiore.
Presenta un apparato radicale profondo ed una traspirazione non particolarmente elevata (minore
di quella del faggio) per cui è potenzialmente idoneo ad eludere la siccità. Però in questa specie la
carenza idrica è spesso accompagnata da infezioni parassitarie (insetti e funghi), favorendo quadri
patologici diffusi soprattutto nell’Europa centrale noti con il termine di “moria dell’abete bianco”.
È specie plastica, senza particolari preferenze circa il tipo di substrato, teme però i suoli superficiali
e quelli idromorfi (abetine eutrofiche, mesotrofiche, oligotrofiche). Infine è tra le specie più sciafile
e la rinnovazione può riprendersi bene anche dopo un lungo periodo di ombreggiamento. Le
provenienze meridionali hanno apparentemente un comportamento più eliofilo rispetto a quelle
settentrionali rinnovandosi bene anche in assenza di copertura, probabilmente per l’effetto della
copertura su fattori ecologici diversi dalla luce.
Abieti-Faggeti: nel margine esterno delle Alpi (condizioni esalpiche) e negli Appennini.
Climi ad impronta atlantica abbastanza pronunciata. Nelle Alpi si collocano in senso
altitudinale al di sopra della faggeta, negli Appennini al di sotto della faggeta.
Abieti-Piceo-Faggeti: nelle aree alpine in climi più spostati in senso continentale rispetto al
caso “A” (condizioni mesalpiche)
Piceo-Abieteti: nel settore interno delle Alpi, in climi ancora più spostati verso il
continentale rispetto al caso “B” (condizioni endalpiche)
I popolamenti puri di abete bianco sono rari in natura. Nell’Appennino settentrionale sono
presenti abetine pure coetanee di origine antropica e derivano da un trattamento pregresso a
taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata. Nelle abetine pure la rinnovazione naturale
spesso è difficoltosa e secondo alcuni Autori ciò a causa di fenomeni di allelopatia. Nei boschi misti
di abete bianco e faggio si osserva il fenomeno della “rinnovazione incrociata”, cioè l’abete si
rinnova preferibilmente sotto il faggio e viceversa.
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Gestione
Abetine miste con faggio e/o abete rosso a struttura monoplana
Sono applicabili i tagli successivi su piccole superfici (a gruppi, ad orlo), ovvero il taglio a buche.
Queste forme di trattamento possono tra l’altro consentire di movimentare maggiormente la
struttura; è necessario liberare prontamente la rinnovazione presente sotto copertura in quanto
ciò assicura ritmi di crescita elevati e regolari. La struttura monoplana rende comunque le piante
più soggette a danni meteorici, per cui sono necessari diradamenti (già in fase di spessina) per
evitare che il coefficiente di snellezza superi i valori di 75-80.
In questi casi è applicabile il taglio saltuario, il quale si adatta bene alle caratteristiche ecologiche
dell’abete bianco. È una forma di trattamento assai valida dal pov ambientale, generalmente un
po’ meno efficiente rispetto ai boschi coetanei dal pov produttivo per i costi di utilizzazione più
elevati. Generalmente la disetaneità è realizzata a gruppi più o meno grandi di piante coetanei al
loro interno. Il periodo di curazione può essere 12-15 anni circa. È importante non allungare
eccessivamente tale periodo per evitare la coetaneizzazione della struttura. Con il taglio di
curazione vengono abbattute le piante più grosse e diradati i gruppi di piante delle classi
diametriche inferiori in maniera selettiva, favorendo i soggetti migliori.
Tagli successivi: sono applicati in Francia, ma in forme molto irregolari spesso confinanti con il
taglio saltuario (fustaia disetanea), ciò in quanto le fustaie pure di abete bianco mal si prestano a
questa forma di trattamento poiché la rinnovazione naturale non è agevole. In linea generale, i
tagli successivi prevedono un turno di 120 anni, con un periodo di rinnovazione lungo (15 - 40
anni) e con diradamenti moderati dal basso fino a 40 anni e diradamenti selettivi più intensi dopo i
40 anni (individuando 200-300 piante di avvenire/ha) fino a raggiungere, a 80-100 anni, una
densità finale di 300-400 piante/ha.
Taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata: in Italia questo trattamento era un tempo
attuato nelle abetine pure della Toscana, con turni di 100 anni e con diradamenti selettivi dal
basso attuati fino a raggiungere una densità finale di 700-800 piante/ha. Oggi nel nostro Paese
questa forma di trattamento ha perso di importanza per il diminuito interesse economico nei
riguardi del legno di abete bianco, nonché per evidenti motivi di ordine ambientale. Il taglio raso è
ancora utilizzato in alcuni paesi dell’Europa centrale ove prevalgono forme colturali fortemente
orientate verso la produzione legnosa.
Taglio a buche: è in fase di sperimentazione per favorire la rinnovazione naturale di altre specie
(faggio, acero di monte, frassino maggiore, ecc.) all’interno delle abetine pure. Con l’obiettivo di
costituire popolamenti misti più naturaliformi.
25
Per il miglioramento delle abetine pure coetanee sono state sperimentate buche di ampiezza D/H=
1/1 - 0,75/1 – 0,5/1. I risultati possono essere diversi in relazione all’ambiente. All’interno della
buca le diverse specie si rinnovano in zone diverse, in relazione alla variabilità spaziale del
microambiente.
Gestione
La plasticità ecologica dell’abete rosso si riflette anche nella possibilità di applicare diversi
trattamenti selvicolturali. Infatti, in relazione alle diverse epoche storiche e situazioni geografiche,
i boschi di abete rosso sono stati soggetti a vari tipi di trattamento (alcuni ormai abbandonati):
Forme di trattamento dei boschi puri e misti di abete rosso a struttura coetanea
Tagli successivi a gruppi: gruppi con superficie max di 0,5 ha. Taglio di sementazione = 30-35%
della provvigione.
Taglio a buche: D buche = 1-1,5 volte l’altezza degli alberi. Superficie max della buca = 2000 m2.
Taglio marginale: tagli a strisce della larghezza di 15-20 m attuati partendo da una situazione di
margine del bosco.
Turno delle peccete coetanee in Italia: 100-120 anni. Nel centro Europa sono invece utilizzati
anche turni di 60-80 anni o anche inferiori (30 anni) in piantagioni a scopo produttivo trattate a
taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata.
Nelle peccete pure monostratificate il problema maggiore è derivato dalla scarsa stabilità delle
piante che può essere accentuata da condizioni di eccessiva densità del popolamento (le
condizioni di instabilità si hanno in corrispondenza di un coefficiente di snellezza ≥ a 100). Si deve
inoltre considerare che l’abete rosso ha una bassa capacità di autodiradamento in quanto specie
non particolarmente eliofila e pertanto mantiene naturalmente una densità elevata. Per questi
motivi, se si intende mantenere la pecceta pura e monostratificata, per aumentare la stabilità del
popolamento sono opportuni diradamenti graduali e frequenti, iniziando già nelle fasi giovanili,
(nella fase di spessina più che in quella di perticaia).
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I primi diradamenti (fase di spessina) saranno volti ad eliminare i soggetti peggiori e
successivamente (fasi di perticaia e successive) a favorire i soggetti migliori liberandoli dalla
competizione delle concorrenti (diradamento selettivo). Se i diradamenti vengono iniziati in età
avanzata, è più opportuno attuare interventi dal basso, per non destabilizzare il popolamento. Nei
casi in cui non si ritenga importante mantenere la pecceta pura, per aumentare la stabilità del
popolamento può essere favorita la mescolanza con altre specie (abete bianco, larice, faggio) e ciò
soprattutto quando queste ultime già tendono ad inserirsi naturalmente nel popolamento di abete
rosso.
Queste possono avere strutture molto diverse in relazione ai trattamenti pregressi. Molte volte
tagli a scelta attuati nel passato hanno favorito strutture disetaneiformi più o meno regolari.
Poiché i popolamenti misti sono più stabili di quelli puri di picea, è opportuno favorire il
mantenimento della mescolanza, ad esempio mediante tagli successivi su piccole superfici (come
per peccete miste con larice e pino silvestre), cercando inoltre di disetaneizzare eventuali gruppi
molto estesi a struttura coetaneiforme (mediante prelievi assimilabili al taglio a scelta).
Nei boschi misti di abete rosso, abete bianco e larice del Cadore è tradizionale il taglio saltuario
(con periodo di curazione di circa 12-15 anni) che viene tuttora attuato in quanto pienamente
corrispondente ai criteri della selvicoltura naturalistica. Si tratta di forme colturali che prevedono
spesso un abbinamento di tagli a scelta per singole piante con interventi assimilabili ai tagli
successivi a gruppi.
Aspetti produttivi
Le produzioni dell’abete rosso possono essere notevoli se le condizioni stazionali sono favorevoli
(in vari paesi europei sono stati osservati incrementi medi ad 80 anni di età spesso superiori ai 10
m3/ha/yr, fino a massimi di circa 20) e ciò giustifica il notevole interesse per questa specie
nell’ambito della selvicoltura produttiva del centro Europa. Peraltro, il legno di abete rosso è assai
pregiato ed è secondo solo a quello di larice per l’idoneità agli impieghi strutturali. Si cita inoltre il
cosiddetto legno “di risonanza” che talvolta si riscontra in individui sparsi all’interno dei
popolamenti e di particolare pregio per la fabbricazione di strumenti musicali.
Taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata: (ancora utilizzato nella selvicoltura
produttiva del centro Europa).
Taglio a fratte: tagli di forma rettangolare di 1-3 ha estesi su un versante (un tempo
utilizzato in Val di Fiemme).
Taglio raso a strisce: strisce di 30-40 m x 80-120 m lungo le linee di massima pendenza
(utilizzato nella provincia di Bolzano, ancora impiegato in Austria).
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Pinus sylvestris – Pino silvestre
Il pino silvestre è il pino europeo con il più vasto areale di
diffusione naturale. È diffuso in tutte le montagne
dell’Europa centro-orientale, compreso l’arco alpino,
nelle pianure dell’Europa settentrionale ed in tutta la
Scandinavia. In Asia è diffuso in tutta la Siberia, fino alla
Manciuria, dove si differenzia in P. densiflora, mentre nel
Caucaso ed in Turchia si differenzia in P. kochiana.
Presenta areali disgiunti nei Pirenei e nella Spagna
meridionale, in Scozia e in Grecia. In Italia i boschi di pino
silvestre occupano una superficie di circa 147.000 ha, dei quali 54.000 in Trentino Alto Adige,
20.000 ha in Piemonte, 13.000 in Lombardia e 10.000 ha in Valle d’Aosta. È diffuso nelle zone
dell’arco alpino con clima ad impronta continentale (Valle D’Aosta, Valle di Susa, Alta Valtellina,
Val Venosta, Valle Pusteria). Nell’Appennino è presente in Piemonte ed in Liguria, e lembi relitti si
trovano nell’Appennino Emiliano in provincia di Reggio Emilia i quali costituiscono l’area più
meridionale del pino silvestre in Italia. È specie resistente alle basse temperature invernali, ma
necessita di un certo calore estivo e di una stagione vegetativa non troppo lunga. È resistente
all’aridità, indifferente al substrato vegetando bene su suoli sia acidi che carbonatici ed è
spiccatamente eliofila rinnovandosi bene soprattutto allo scoperto. Si tratta pertanto di una specie
rustica e pioniera, colonizzatrice di aree nude e di terreni poveri. Il pino silvestre è una specie
dotata di una ampia plasticità dal pov termico poiché pur essendo specie tipica del piano
montano, può vegetare bene nel piano submontano, con digressioni anche nell’alta pianura (es.
brughiere) e nel piano subalpino (es. margine meridionale delle Alpi marittime). Dato l’ampio
areale di diffusione naturale, si differenzia in numerose razze geografiche, con caratteristiche di
adattamento a diverse condizioni ambientali. Anche in Italia esistono diverse provenienze (es. Val
Pusteria, Olgelasca dalle brughiere lombarde, Ceriana dalla Liguria, Casina dall’Appennino
reggiano) e ciò deve essere attentamente considerato nel caso di rimboschimenti. L’attitudine alla
produzione legnosa (velocità di crescita e morfologia del fusto e della chioma) è considerata
superiore nelle provenienze settentrionali (nord Europa) e decrescente con il diminuire della
latitudine. In nord Europa è oggetto di numerosi studi di miglioramento genetico ai fini produttivi.
Tipi di popolamenti
Il pino silvestre può formare popolamenti stabili oppure popolamenti transitori:
Le pinete stabili sono quelle ubicate in condizioni ecologiche molto difficili, nelle quali solo
il pino silvestre riesce a rinnovarsi. Ad esempio:
o Pinete di rupe (su costoni rocciosi);
o Pinete su falde detritiche;
o Pinete su substrati serpentinosi (Valtournanche, Val d’Ayas);
o Pineta di brughiera o “baraggia” (Lombardia, Piemonte);
o Pinete su morene (Alto Adige) [in ambiente continentale];
o Pinete di greto (valle di Susa) [in ambiente continentale].
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Le pinete transitorie sono quelle ove il pino silvestre (specie pioniera) tende gradualmente
ad essere sostituito dalle specie più esigenti (specie mesofile definitive). Ad esempio:
o Pinete su ex coltivi o pascoli abbandonati;
o Pinete su terreni ove il precedente popolamento forestale, costituito da specie
definitive, è stato distrutto da un disturbo occasionale: taglio raso, incendio, frana…
Gestione
Nei paesi nordici spesso le pinete sono trattate a taglio raso con rinnovazione naturale posticipata,
ovvero a taglio raso con riserve per ottenere la rinnovazione naturale. In Italia, per ridurre
l’impatto ambientale sono stati proposti tagli a buche di 500 m2 oppure tagli a strisce di 20 x 50 m.
Nelle pinete coetanee monostratificate sarebbero necessari anche opportuni diradamenti che
però spesso vengono trascurati per motivi economici (Alto Adige). I tagli successivi su piccole
superfici (a gruppi ad orlo) sono applicati in Piemonte, con un taglio di sementazione attuato
asportando il 60-70% della massa ed un periodo di rinnovazione di 10-30 anni. Nelle pinete
transitorie, il taglio a scelta del pino silvestre può favorire la rinnovazione delle specie definitive,
meno eliofile del pino stesso.
Modulo colturale del pino silvestre nelle pinete su morene in provincia di Bolzano
- Intervento di rinnovazione: taglio raso su 18-20 ha con fuoco prescritto e/o scarificazione
del suolo e piantagione artificiale; taglio raso con riserve e rinnovazione naturale.
- Tagli intercalari: uno sfollo quando la spessina ha raggiunto i 3-5 m di altezza; uno o due
diradamenti commerciali altamente meccanizzati.
- Taglio finale con piante di D medio pari a circa 35 cm
30
Pinus nigra – Pini neri
Il termine di Pinus nigra comprende un gruppo di 4 entità genetiche distinte (sottospecie) a loro
volta ulteriormente suddivise in varietà. Le entità tassonomiche indigene del nostro Paese sono il
P. nigra var. austriaca (Pino nero d’Austria) indigeno in alcune aree del Friuli e del Veneto, il P.
nigra var. italica (Pino nero di Villetta Barrea) indigeno in alcune aree dell’Abruzzo, della Basilicata
e della Calabria, ed il P. laricio var. calabrica (Pino laricio) indigeno in Calabria ed in Sicilia nella
zona dell’Etna.
I pini neri presenti in Italia prediligono climi ad impronta atlantica (circa come il faggio), il pino
nero d’Austria è però più resistente al freddo rispetto al pino laricio, che è relativamente più
termofilo. Nelle aree di indigenato il clima è abbastanza piovoso, con almeno 80-100 mm di piogge
nel periodo estivo. Il pino nero d’Austria ed il pino di Villetta Barrea vegetano su suoli carbonatici
anche molto superficiali e poveri e si adattano anche alle “rocce verdi” (serpentini, ecc..).
Il pino laricio cresce su suoli relativamente più fertili a reazione subacida, provenienti da graniti
arenarie, ecc..). Sono specie eliofile, che possono rinnovarsi soprattutto in piena luce, anche se
tollerano una certa copertura laterale nella fase giovanile. I pini neri sono quindi specie pioniere,
che sono state utilizzate fino ai secoli passati per il rimboschimento di aree degradate.
31
In Italia si stimano circa 235.000 ha di pini neri, dei quali 115.000 ha nelle aree di indigenato
(soprattutto in Friuli Venezia Giulia ove il P. nigra var. austriaca copre una superficie di circa 30.000
ha ed in Calabria, ove il P. laricio copre una superficie di circa 74.000 ha) e 120.000 ha di
rimboschimenti attuati in prevalenza nel periodo dagli anni “20 agli anni “50.
Gestione
La selvicoltura dei pini neri riguarda prevalentemente:
Per la conservazione del pino nero austriaco nelle aree di indigenato sono generalmente
sufficienti leggeri interventi volti a favorire i nuclei di rinnovazione naturale presenti, liberandoli
dalla copertura superiore. Per il pino laricio la rinnovazione naturale può essere ottenuta con tagli
rasi a strisce (larghe 30 x 100 m) ed a buche (del diam. di circa 40 m), il sommovimento del terreno
dovuto alle operazioni di esbosco favorisce la rinnovazione stessa.
La gestione dei rimboschimenti di pino nero prevede generalmente la sostituzione del pino con le
latifoglie della corrispondente fascia climatica. Spesso queste già naturalmente si insediano
all’interno della pineta adulta e possono essere ulteriormente favorite con diradamenti del pino.
Solo nelle situazioni meno fertili può essere previsto il mantenimento del pino come protezione
idrogeologica. I rimboschimenti di pino laricio possono essere utilizzati per la produzione legnosa,
mantenendo e rinnovando naturalmente il pino con tagli rasi a buche. Nei casi in cui si assiste ad
un ingresso spontaneo delle latifoglie queste possono essere favorite con diradamenti del pino.
Tipi di popolamenti
Betuleti stabili: sfasciumi di rocce silicee, canaloni da valanga, ecc. in aree del piano
montano e subalpino
Betuleti secondari o transitori: aree abbandonate dall’agricoltura o interessate da disturbi
che non abbiano radicalmente alterato il suolo, aree di brughiera.
Gestione
In relazione alle sue peculiarità ecologiche, la betulla è spiccatamente pioniera e la sua diffusione è
stata favorita dall’abbandono delle aree agricole e dagli incendi. In Piemonte questi fenomeni
hanno talvolta consentito l’insediarsi di boschi di neoformazione puri o a grande prevalenza di
betulla ed attualmente in una fase di evoluzione più o meno naturale, ma per i quali può porsi il
problema della gestione selvicolturale. In vari paesi esteri (es. Scandinavia, Scozia e Russia) il legno
della betulla viene ampiamente utilizzato per vari usi, soprattutto per paste da carta, ma anche
per tranciati e compensati. Pertanto in questi paesi la betulla presenta un notevole interesse dal
pov selvicolturale, mentre in Italia sono ancora scarse le esperienze in tal senso. Le opzioni
selvicolturali ipotizzabili per i boschi di neoformazione di betulla in Italia sono le seguenti:
Mantenimento della betulla ai fini produttivi: con turni di circa 40-50 anni e con diradamenti
progressivi fino ad una densità di circa 300-500 piante/ha. La rinnovazione naturale del bosco di
betulla richiederebbe però il taglio raso con riserve, con i connessi problemi di carattere
ambientale. All’età di 25-30 anni le provvigioni misurate sono state di 150-300 m3/ha e gli
incrementi medi di 5-7 m3/ha/yr.
Sostituzione della betulla con le specie definitive: il bosco di betulla riveste il significato di fase
pioniera e transitoria verso il ritorno del bosco definitivo. L’evoluzione può essere accelerata
mediante diradamenti o tagli a piccole buche nella fustaia matura di betulla in grado di favorire
l’ingresso delle specie definitive meno eliofile rispetto alla betulla.
La scelta tra le due opzioni deve avvenire sulla base delle caratteristiche stazionali (possibilità di
ingresso delle specie definitive) e delle opportunità locali di carattere produttivo e/o ambientale.
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Le latifoglie “Nobili”
Si tratta di latifoglie generalmente di grandi dimensioni che possono ritrovarsi sia nel piano
submontano che in quello montano. Sono specie mesofile, esigenti dal pov edafico, soprattutto
per quanto riguarda la disponibilità idrica e le caratteristiche fisiche del substrato. Sono
caratterizzate da un legno di elevato valore tecnologico e per questo sono definite anche latifoglie
con legno di pregio. Si ritrovano allo stato più o meno sporadico in differenti formazioni forestali e
solo in certi casi alcune di queste specie formano popolamenti di una certa estensione. Per questo
si definiscono latifoglie nobili, cioè poco socievoli (ciò in relazione a fenomeni di concorrenza
interspecifica ed alla complessa biologia del seme, che presenta stati di profonda dormienza). Le
principali latifoglie nobili sono:
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Fraxinus excelsior – Frassino maggiore
Il frassino maggiore è specie anch’essa con un vasto areale
europeo, che presenta affinità con l’acero montano, ma
rispetto a quest’ultimo è dotato di una maggiore igrofilia
(arriva a sopportare anche 50 giorni di sommersione), una
minore adattabilità ai suoli acidi ed una maggiore capacità di
adattamento ai terreni argillosi. Inoltre, il frassino maggiore
presenta una notevole plasticità ecologica, ritrovandosi allo
stato spontaneo in boschi di pianura (querco carpineti),
nonché in boschi del piano submontano e montano (in consociazione con querce
e faggio). È specie abbastanza tollerante l’ombra nella fase giovanile e quindi
può rinnovarsi facilmente nei querceti radi e nelle radure delle faggete. Si
rinnova bene anche negli ex coltivi abbandonati.
T. platyphyllos T. cordata
Tipi di popolamenti
Aceri – frassineti: popolamenti del piano montano o submontano ubicati in suoli profondi,
fertili e freschi localizzati nella parte bassa dei versanti esposti a nord. In queste condizioni
il soprassuolo è dominato da aceri e da frassino maggiore, con partecipazione di tiglio
platifillo e di olmo montano, mentre le altre specie della corrispondente fascia di
vegetazione (abete bianco, abete rosso, faggio, querce, ecc..) risultano subordinate.
Tilio – acereti: formazioni simili alle precedenti ma in condizioni più termofile (fascia
basale) e su rocce carbonatiche, il tiglio cordato sostituisce il platifillo. Queste due tipologie
forestali coprono in Italia circa 153.000 ha (51.000 ha in Piemonte)
Aceri – faggeti: formazione più tipica delle aree Appenniniche, soprattutto nelle zone
vicine ai crinali poco accidentati, dove i suoli sono ancora abbastanza evoluti, ma dove il
faggio riduce il suo potere di concorrenza, a vantaggio dell‘acero montano, in seguito alle
più difficili condizioni climatiche
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La gestione dei boschi alpini di latifoglie per la produzione di legname di qualità
Anche nel settore dei prodotti legnosi la tendenza attuale è quella di premiare la qualità rispetto
alla quantità (nella Alpi orientali la variazione di prezzo dei segati 1995-2005 è stata del + 7% per la
qualità elevata e del – 63% per le qualità inferiori). Realizzazione di assortimenti di pregio da
specie quali castagno, faggio e latifoglie nobili. Possibili scelte operative alternative alla
tradizionale selvicoltura di popolamento:
Vantaggi: possibilità di regolare con le cure colturali la mescolanza specifica, la dinamica generale
e la stabilità del popolamento.
Svantaggi: costi molto elevati dovuti alla notevole frequenza degli interventi (anche ogni 5-6
anni), difficoltà collegate al taglio delle piante mature e competenze tecniche necessarie.
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Generalità sulla selvicoltura nel piano subalpino
Aspetti climatici: temperatura e lunghezza ciclo vegetativo sono i principali fattori limitanti
Aspetti vegetazionali: orizzonte delle conifere microterme
Influenze antropiche: modifiche della composizione specifica e strutturale
Finalità: difesa del suolo, conservazione e miglioramento degli aspetti naturalistici e
paesaggistici, difesa di infrastrutture da calamità naturali. La produzione legnosa oggi è di
importanza secondaria.
La fascia subalpina: In Italia è esclusiva delle Alpi e comprende i boschi della catena alpina che
arrivano al limite della vegetazione arborea e pertanto
corrisponde generalmente a condizioni climatiche ed edafiche
difficili per la vita dei vegetali. All’interno di questa fascia si
possono avere diverse condizioni climatiche, da spiccatamente
continentali a spiccatamente sub-atlantiche con varie fasi
intermedie di transizione, in relazione all’altitudine e alla
posizione nell’ambito della catena alpina. Il tipo climatico
influisce anche sul limite superiore della vegetazione arborea e
quindi sull’ampiezza della fascia stessa (valori orientativi: da
1400-1500 a 2400 m s.l.m. nelle Alpi occidentali; da 1500 a 2000
m s.l.m. in Trentino e da 1600 a 1800 m s.l.m. nelle Alpi Carniche
e Giulie). Uno degli aspetti più rilevanti dal pov ecologico è
costituito dalla brevità della stagione vegetativa che varia da 100
a 70 giorni. Le gelate e gli abbassamenti di temperatura fuori
stagione costituiscono inoltre un disturbo quasi costante che
influisce sui processi vegetativi e riproduttivi delle piante. Le
specie arboree più rappresentate sono le conifere microterme:
Tra le latifoglie arboree presenti (con portamento più o meno arbustivo) si citano:
38
Le particolari condizioni climatiche della fascia subalpina determinano le caratteristiche biologiche
(lento accrescimento, difficoltà di rinnovazione) e strutturali (struttura orizzontale a collettivi) dei
boschi presenti e quindi anche il tipo di selvicoltura che può essere attuato.
Nel piano subalpino la quantità e la qualità del seme prodotto decresce rispetto al piano montano
e l’accrescimento dei semenzali è più lento. Terreni torbosi o con cotico erbaceo infeltrito
ostacolano la rinnovazione di abete rosso, che invece può trovare substrati più favorevoli nei suoli
minerali scoperti, nei terreni coperti da muschio e nel legno marcescente derivato da vecchie
ceppaie. Le buche di dimensioni molto piccole sono in genere sfavorevoli alla rinnovazione
dell’abete rosso in quanto in esse la neve tende a permanere a lungo. Nella colonizzazione dei
pascoli abbandonati la rinnovazione dell’abete rosso si presenta spesso a “collettivi” o “cespi”,
cioè con gruppi di fusti ravvicinati (da 3 a oltre 20) che costituiscono un insieme unitario dal pov
biologico, con una chioma ed un apparato radicale praticamente unici. Questi collettivi possono
derivare dal morso degli animali, dall’attecchimento di più semenzali in micrositi particolarmente
favorevoli alla rinnovazione, dalla radicazione di rami striscianti. Essi conferiscono alle singole
piante particolari caratteristiche di elasticità ed impediscono l’accumulo di grandi masse compatte
di neve. Dal pov selvicolturale devono essere considerati come un unico individuo.
Gestione
Nei boschi del piano subalpino che svolgono prevalentemente funzioni di protezione, la presenza
dell’abete rosso in mescolanza con altre specie (es. P. cembra e Larix) può essere utile in quanto
l’abete presenta una buona capacità di trattenuta della neve, un accrescimento più veloce rispetto
al pino cembro ed una buona tendenza a formare collettivi, strutture efficaci dal pov protettivo.
Deve però essere considerata la scarsa profondità delle radici che può ridurre la stabilità delle
piante. Nei tagli di rinnovazione e negli eventuali diradamenti è importante individuare dei
collettivi che diano garanzie di stabilità, costituiti da piante sane e con chioma bassa, meglio in
grado di assicurare l’efficacia protettiva del bosco. In linea generale, con i tagli di rinnovazione è
importante concentrare l’energia radiante sui gruppi di novellame eventualmente già presenti,
ovvero nelle aree dove sono frequenti microstazioni potenzialmente favorevoli alla rinnovazione.
39
In certi ambienti (es. peccete subalpine a megaforbie), è stata proposta l’applicazione di tagli a
“fessura”, aprendo fessure di larghezza non superiore a circa ⅓ dell’altezza degli alberi, disposte
trasversalmente alla massima pendenza ed orientate preferibilmente verso il sole del mattino
(valli continentali) o del pomeriggio (valli suboceaniche). È però necessario valutare il rischio
costituito dall’accumulo della neve nelle aperture che può favorire il distacco di valanghe.
40
Per lo stesso motivo il larice fatica a rinnovarsi nei pascoli, dove il terreno è compatto ed è
presente uno spesso cotico erboso. Pertanto, in ambiente alpino è una delle specie maggiormente
in grado di colonizzare terreni nudi e degradati (frane, alluvioni, aree incendiate o soggette ad
erosione superficiale a seguito del taglio raso del bosco preesistente, terreni agricoli abbandonati
ecc.). Ciò, soprattutto in passato, ha favorito la diffusione di questa specie.
I boschi di larice
Il larice, per le sue caratteristiche di specie pioniera, per la sua chioma leggera e decidua (che
lascia filtrare molta luce e quindi consente lo sviluppo di un consistente sottobosco erbaceo),
nonché per l’ottima qualità del legno, è stato tipicamente utilizzato nel contesto di una economia
silvopastorale alpina. Spesso è stato particolarmente favorito e fino agli anni “40 ampiamente
utilizzato nei rimboschimenti del piano montano e subalpino. In relazione a ciò, in Piemonte la
maggior parte (2/3) dei lariceti sono allo stato puro e spesso monostratificati. Oggi però questa
economia silvopastorale è in fase di forte contrazione e ciò influisce sull’evoluzione dei lariceti puri
i quali in genere non sono cenosi definitive, ma piuttosto boschi di transizione in evoluzione verso
altre formazioni forestali a partecipazione di pino cembro, pino uncinato, abete rosso, abete
bianco, pino silvestre, ecc. a seconda dei casi.
Gestione
In passato la forma tipica di trattamento dei lariceti era il taglio raso con rinnovazione artificiale
posticipata e con tagliate dell’estensione di 3-5 ha, che però oggi è stata quasi completamente
abbandonata. Successivamente si è evoluta una forma di trattamento che prevede il taglio raso su
superfici inferiori all’ettaro (0,3-0,5 ha), con tagliate di forma irregolare per ridurre l’impatto visivo
e la lavorazione superficiale del suolo per favorire la rinnovazione naturale. Un’ulteriore
evoluzione del metodo selvicolturale, adattabile anche ai larici-cembreti, prevede un taglio a
piccole buche, prelevando singoli collettivi per creare nuclei di rinnovazione e mantenere così una
struttura orizzontale a gruppi.
41
L’apertura delle buche può avvenire cercando di regolare il periodo di irraggiamento diurno ad es.
mediante l’uso dell’orizzontoscopio o bussola solare. Per favorire ulteriormente la rinnovazione del
larice il terreno delle buche può essere sottoposto ad una leggera lavorazione superficiale. La
rinnovazione artificiale potrebbe essere impiegata solo nei casi peggiori, ove non è possibile
lavorare il terreno. Le superfici in rinnovazione devono sempre essere protette dal pascolo. Sia nel
piano montano che in quello subalpino, nei lariceti puri viene favorito il graduale reingresso in
mescolanza con il larice delle altre specie tipiche delle corrispondenti fasce di vegetazione, per
pervenire a boschi misti, possibilmente pluristratificati e dotati di maggiore stabilità. Dove l’abete
rosso tende a sostituire completamente il larice non è sempre opportuno accelerare tale
sostituzione, in quanto la conservazione del larice può essere consigliabile dal pov economico
(valore del legname) e della stabilità del popolamento.
In Piemonte si trovano circa 1500 ha di cembrete pure o quasi pure (es. val Varaita). Trova l’ottimo
in climi ad impronta continentale, indifferente al substrato, nella fase giovanile tollera una
copertura rada, nella fase adulta è spiccatamente eliofilo. Nelle Alpi è presente con una
distribuzione discontinua soprattutto al di sopra dei 1600 m s.l.m. e nelle aree a clima
spiccatamente continentale. Alle quote inferiori e dove il clima è meno continentale la diffusione
del pino cembro può essere limitata da:
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Tipi di popolazioni
Larici-cembreto: eventualmente con abete rosso od ontano verde
Cembreta pura: di solito sono formazioni di modesta ampiezza (< 5000 m2), raramente
occupano ampie superfici (Alto Adige e Piemonte), si trovano a quote > 1800 m s.l.m. (dove
l’abete rosso è meno competitivo), lungo versanti non molto acclivi e poco esposti a frane
o valanghe (forse in aree poi destinate al pascolo)
Gestione
In passato il pino cembro è stato soggetto a forme selvicolturali riconducibili ad un taglio a scelta
per singole piante, a carico soprattutto delle piante in grado di fornire i migliori assortimenti
legnosi. In assenza di continui insediamenti di rinnovazione, ciò ha determinato una
semplificazione della struttura, con eliminazione dei collettivi e riduzione della stabilità dei
popolamenti. In generale, oggi si ritiene necessario evitare l’applicazione di modelli colturali
prefissati su vaste superfici, in quanto la variabilità strutturale di questi popolamenti nello spazio è
notevole. Si deve decidere caso per caso se intervenire per gruppi o per piede d’albero, ovvero con
aperture assimilabili ai tagli successivi, cercando sempre di rispettare la struttura e la tessitura
naturale dei popolamenti. Ciò significa attuare prelievi moderati, favorendo il perpetuarsi di una
struttura orizzontale a gruppi, alternando nuclei di rinnovazione di pino cembro e delle altre
specie ad esso consociate con collettivi adulti delle medesime specie, a vantaggio della stabilità
generale del bosco.
Pinus uncinata
Pinus mugo
Altre entità sottospecifiche (es.
Pinus pumilio)
Gestione
In Francia viene trattato a taglio raso o a tagli successivi (nel caso di popolamenti monoplani) o con
taglio a scelta (nel caso di popolamenti multiplani). A livello generale, la gestione selvicolturale di
questi popolamenti deve tenere conto delle caratteristiche di pionierismo e di eliofilia tipiche del
pino uncinato, nel complesso essa è simile a quella impiegata per il pino cembro ed il larice. In
Piemonte oggi i popolamenti di pino uncinato sono spesso lasciati all’evoluzione naturale
Gestione
In genere i popolamenti di pino mugo non sono oggetto di particolari cure selvicolturali. Tali
popolamenti hanno una notevole importanza ai fini della protezione del suolo dall’erosione ed a
questo scopo è stato utilizzato per il rimboschimento di scarpate in ambiente alpino. I mugheti
molto estesi ed uniformi possono però favorire il distacco delle valanghe. La trasformazione
artificiale dei mugheti in boschi di altre conifere alpine è in genere difficoltosa dal pov tecnico e
pertanto sconsigliata. Per ridurre il rischio di valanghe è stato proposto il taglio della mugheta per
strisce larghe circa 20 m, notando però la mancanza di nuova vegetazione nelle strisce tagliate per
molto tempo.
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Può essere diradato se tende ad invadere i pascoli, negli altri casi è meglio lasciare il popolamento
all’evoluzione naturale. Possono essere previsti rimboschimenti ai fini protettivi o per ricostituire
mughete distrutte dal fuoco.
Tipi di popolamenti
Le boscaglie di ontano verde si sviluppano in natura come formazioni pioniere sui terreni franosi,
percorsi da valanghe o nelle aree dove l’innevamento è troppo prolungato per consentire la
sviluppo delle conifere tipiche della fascia subalpina. La diffusione attuale dell’ontano verde è
stata in parte determinata dall’uomo, in quanto questa specie può facilmente colonizzare i pascoli
più umidi abbandonati, ovvero i boschi di abete rosso o di larice in ambienti umidi e rimasti radi
per l’attuazione di tagli ai quali non è seguita una sufficiente rinnovazione naturale (in questi casi
l’ontano verde viene spesso considerato una specie “infestante”, che può ulteriormente
ostacolare la rinnovazione delle conifere). È tipico dei suoli idrici. Lo troviamo su:
Medi ed alti versanti in suoli lungamente innevati: in queste condizioni può formare
popolamenti ampi e compatti nelle esposizioni settentrionali mentre in quelle meridionali
è generalmente limitato ai micro impluvi più ricchi d’acqua;
Nei margini dei canaloni da valanga: lo sviluppo dell’alneto è considerato indicativo dei
tempi di ritorno della valanga;
Sulle terrazze tra i salti di roccia: nelle porzioni più scoscese prevale il pino mugo.
La boscaglia di ontano verde si presenta spesso molto compatta e tende a perdurare a lungo
ostacolando la rinnovazione di specie arboree. Solo nelle aree meno umide la minore
competitività dell’ontano può consentire il graduale insediamento dell’abete rosso o del larice.
Un’eventuale ceduazione dell’ontano, spesso attuata per il rifornimento di combustibile da parte
delle malghe, può infittire ulteriormente il popolamento. Le boscaglie di ontano verde presentano
una efficace azione protettiva nei riguardi dell’erosione del suolo, ma non nei riguardi delle
valanghe. Una eventuale sostituzione dell’alneto con altri tipi di vegetazione è pensabile solo per
le boscaglie di invasione dei pascoli umidi e dei boschi radi e comunque richiede estirpazioni e
periodiche ripuliture.
Criteri di gestione forestale sostenibile espressi nella III Conferenza Ministeriale sulla protezione
delle foreste in Europa (Lisbona, 1998).
47
Evoluzione storica delle funzioni del bosco considerate dalla selvicoltura
Il progressivo aumento delle funzioni richieste al bosco è derivato in parte dalla sostituzione del
legno con altri materiali (che ha in parte ridotto o comunque modificato il mercato di questa
materia prima), in parte dalle nuove esigenze espresse dalle società soprattutto a partire dai paesi
più industrializzati (es. paesaggio, ricreazione, ecc..), in parte ancora dalle più recenti emergenze
sviluppatesi a livello globale (es. erosione della biodiversità naturale, effetto serra, ecc..). Oggi si
parla sempre più diffusamente a livello internazionale di Ecosystems services che il bosco è
deputato a svolgere.
Funzioni prevalenti
Una volta definite le funzioni prevalenti, il modello colturale di riferimento costituisce quella
tipologia più o meno ideale di bosco (dal pov compositivo, strutturale e delle modalità di
rinnovazione) reputato meglio in grado di
svolgere tali funzioni. Pertanto, la gestione
selvicolturale dovrà essere volta al progressivo
avvicinamento del modello colturale di
riferimento, considerando come punto di
partenza lo stato attuale del bosco stesso. Sulla
base di ciò dovranno essere valutati i modi ed i
tempi di realizzazione degli interventi
selvicolturali, i quali potranno essere di
mantenimento di determinate situazioni
ritenute già vicine al modello di riferimento,
ovvero di sostanziale miglioramento qualora si
ritenga che la situazione reale del bosco sia
molto diversa da quella prospettata come
obiettivo della gestione. Ovviamente, il modello di riferimento può essere un traguardo molto
distante e raggiungibile solo in tempi molto lunghi.
Stabilità: meglio garantita da una struttura articolata, con fasi di senescenza e di rinnovazione
puntiformi (realizzate tramite la coltura)
Naturalità: non sempre desiderabile la naturalità strutturale se è coetaneiforme, più
desiderabili quelle in termini compositivi, sui livelli complessivi di biomassa, sulla presenza di
piante di grosse dimensioni, sulla presenza di necromassa, sull’impiego della rinnovazione
naturale.
Biodiversità: non vi sono evidenze che le foreste vergini siano sempre le più ricche di
biodiversità (es. boschi mediterranei che tendono dalla macchia (ricca di specie) alla lecceta
pura ed uniforme meno ricca di specie). In genere, i fattori indicati come desiderabili per la
naturalità possono incrementare anche la biodiversità.
Boschi polifunzionali
49
La selvicoltura nei boschi con funzione prevalente di protezione del suolo
Tutti i boschi sottoposti a vincolo idrogeologico (87 % dei boschi italiani) hanno anche una
funzione di protezione del suolo, ma in alcuni casi questa può essere prevalente sulle altre
funzioni.
Parametri orientativi per la definizione di un bosco con funzione di protezione del suolo
Modello colturale di riferimento: fustaia a struttura articolata, con elevata copertura del suolo
(almeno 70-80%). Il ceduo è in genere meno efficiente della fustaia ai fini della protezione del
suolo.
Nelle fustaie: interventi ridotti al minimo, solo leggeri tagli di rinnovazione per piccoli gruppi o per
piede d’albero, favorendo la mescolanza specifica e l’articolazione della struttura. È importante
evitare una eccessiva densità ed uniformità della struttura che potrebbe ridurre la stabilità.
Questo tipo di vegetazione presenta aspetti positivi e negativi dal pov idraulico.
La vegetazione riparia riveste un’importanza significativa dal pov naturalistico, sia dal pov della
fruizione ricreativa (parchi fluviali) sia come elemento di connessione nell’ambito della rete
ecologica territoriale (corridoi verdi). La funzione naturalistica è però subordinata agli aspetti
idraulici che sono sempre prevalenti. La gestione della vegetazione di sponda ai fini idraulici è
particolarmente importante in corrispondenza di zone fortemente antropizzate o di particolari
punti come ad esempio ponti o altri restringimenti dell’alveo.
50
Sezioni del corso d’acqua e tipo di intervento
A – Alveo di modellamento con piene molto frequenti (ogni 2-3 anni): Eliminazione di tutte le
piante arboree in alveo, rilascio degli individui migliori sulle sponde opportunamente distanziati,
eliminazione della necromassa (ai fini di un deflusso ottimale Dmax piante a 1,60 m = 2 cm)
B – Zona golenale con inondazioni relativamente frequenti (ogni 5-20 anni): Eliminazione di tutti gli
individui instabili, eliminazione della necromassa, rilascio degli individui migliori opportunamente
distanziati. Si deve evitare l’accumulo di Large Wood Debris (LWD) cioè di detriti legnosi non
radicati di D > 10 cm ed L > 1 m. Se possibile salvaguardare eventuali specie rare.
C – Zona golenale con inondazioni poco frequenti (ogni 100 anni): Eventuale conversione del ceduo
in fustaia, eliminazione della necromassa
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Area a) Riserva integrale: nessun intervento
Area b) Riserva generale orientata: conversione all’alto fusto o rilascio all’evoluzione
naturale dei cedui, trattamento delle fustaie secondo criteri che tengano conto delle
preminenti funzioni ambientali, rinaturalizzazione dei boschi molto antropizzati.
Area c) Aree di protezione: possibile mantenimento dei cedui a regime e dei cedui
composti, ovvero conversione all’alto fusto mediante tagli di avviamento o mediante il
rilascio all’evoluzione naturale. Trattamento delle fustaie secondo criteri che tengano
conto della possibilità di valorizzare anche gli aspetti produttivi. Eventuale
rinaturalizzazione dei soprassuoli più antropizzati.
Area d) Aree di promozione economica e sociale: (come per area c)
La biodiversità forestale
Interrelazione tra sostenibilità e diversità, dove la diversità influisce sul funzionamento degli
ecosistemi e quindi sulla loro stabilità. Livelli di biodiversità in un ecosistema:
Ipotesi delle specie ridondanti e delle specie chiave: solo poche specie sono realmente
importanti
Ipotesi del ribattino: tutte le specie sono importanti perché sono tra loro interrelate
Ipotesi della risposta idiosincratica: è impossibile prevedere la risposta del sistema
all’eliminazione di una specie
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Tenere conto della imprevedibilità degli eventi
A livello di paesaggio
- Considerare il territorio come un insieme di elementi tra loro interdipendenti e non come
un insieme slegato di diverse forme di proprietà e di uso del suolo
- Evitare l’isolamento e l’eccessiva frammentazione degli habitat
La rinaturalizzazione consiste non tanto nel ripristino di una comunità vegetale ritenuta lo stato di
“climax”, quanto nel ripristino dei processi naturali di auto-regolazione e di auto-perpetuazione
del sistema (aumento della resistenza e della resilienza e quindi della stabilità del sistema). Questi
processi devono seguire le linee evolutive naturali dei sistemi nei quali si opera (massima riduzione
degli input energetici esterni).
- Diradamenti
o Impianti giovani (età < 50 anni): diradamenti selettivi per favorire il raggiungimento
di una maggiore stabilità anche statica. Possibile rinnovazione naturale delle specie
autoctone in corrispondenza delle interruzioni della copertura.
o Impianti adulti (età > 50 anni): riduzione della copertura in maniera più o meno
graduale per favorire la rinnovazione naturale della specie autoctone. Se non
sussistono pericoli di instabilità diradamenti forti o taglio di sementazione con
asportazione anche del 35-40 % della provvigione
- Tagli a buche: Impiegati ad es. per la rinaturalizzazione delle fustaie coetanee di A. alba
dell’Appennino. In questo caso, consistono nell’apertura di buche di diversa dimensione,
con D/H= 1/1 - 0,75/1 – 0,5/1. I risultati possono essere diversi in relazione all’ambiente.
All’interno della buca le diverse specie si rinnovano in zone diverse, in relazione alla
variabilità spaziale del microambiente.
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- Tagli di smantellamento: Utilizzati ad es. nella rinaturalizzazione dei rimboschimenti adulti
di P. nigra effettuati fuori zona. Consistono nella asportazione totale o quasi totale
dell’impianto. Si effettuano quando al di sotto del rimboschimento è già presente una
buona densità di rinnovazione affermata (30-40 mila semenzali/ha). Generalmente tale
rinnovazione risponde bene alla eliminazione del piano dominante. Eventuali problemi
collegati all’impatto paesaggistico e turistico-ricreativo possono consigliare di attuare
l’eliminazione del rimboschimento in maniera graduale, operando per settori.
Nomenclatura elaborata da diversi autori che hanno studiato le foreste naturali nella seconda
metà del ‘900. Secondo Oldeman esistono 4 fasi:
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Il fattore principale che determina l’efficienza di una fustaia trattata a taglio saltuario è la
continuità della rinnovazione naturale nello spazio e nel tempo. La presenza e la distribuzione
della rinnovazione naturale dipendono principalmente dalla:
- Asportare le piante mature (con il D più elevato) per dare spazio ad una nuova fase di
rinnovazione
- Effettuare un diradamento nelle classi diametriche inferiori per favorire la crescita delle
piante migliori che dovranno costituire il futuro piano dominante
Il trattamento a taglio saltuario comporta comunque una forte contrazione del ciclo forestale
rispetto ai tempi naturali. La continuità nello spazio e nel tempo della rinnovazione naturale
appare legata soprattutto alla frequenza delle condizioni di margine, cioè di canopy edge.
Un’elevata variabilità strutturale favorisce la presenza di rinnovazione affermata al di sotto delle
piante mature e quindi una rapida occupazione dello spazio reso disponibile con il taglio di
curazione.
Vivaistica forestale
Obiettivi: Produrre materiale d’impianto (postime) per
rimboschimenti e per arboricoltura da legno in grado di
sviluppare una soddisfacente performance (elevate percentuali di
attecchimento e veloce accrescimento iniziale) quando collocato a
dimora in un ambiente sufficientemente idoneo dal pov climatico
e pedologico. In linea generale, la performance del materiale
vivaistico è collegata alle potenzialità che le giovani piante
provenienti dal vivaio hanno di formare nuove radici e di
sviluppare le radici già presenti al momento dell’impianto quando
sono collocate a dimora in un ambiente sufficientemente idoneo. I
fattori che influiscono su tali potenzialità sono molteplici e
riguardano tutta la filiera della produzione vivaistica.
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Legge 269/1973 “Disciplina della produzione e del commercio di sementi e piante da
rimboschimento”
Istituzione dei boschi da seme e del Libro Nazionale dei Boschi da Seme (LNBS) presso il MAF. La
legge stabiliva che le piante con finalità di rimboschimento dovessero nascere da semi di boschi da
seme. Questi, individuati in tutta Italia per le diverse specie. Scelti col criterio di essere costituiti da
piante con buon portamento ed esenti da malattie. Quindi una scelta su base fenotipica e non
genotipica. In tutta Italia ne sono stati individuati 175 con il problema che le conifere erano
discretamente coperte, mentre le latifoglie no (tranne che il faggio, la farnia e il rovere). Infine,
venivano usate le provenienze che erano disponibili, come ad esempio semi della Calabria per
rimboschimenti in Piemonte.
Direttiva CEE 105/1999, recepita con D. Lgs 386/2003 – “Concetto di Regione di Provenienza”
Il periodo di raccolta varia in funzione della specie e dall’età, minima o massima, della pianta.
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Modalità di raccolta del seme
- Semi con polpa carnosa: eliminazione della polpa tramite macerazione in acqua
- Ghiande: eliminazione della cupola tramite battitura
- Strobili: apertura degli strobili al calore naturale o artificiale, ovvero disgregazione degli
strobili all’aria (abies), estrazione dei semi per battitura, dis-alatura dei semi.
Purezza (P): percentuale in peso di semi puri presenti nella partita. Le impurità sono
costituite da semi di specie differenti dal seme puro e da materiale inerte quale terra,
legno, frutti…
Germinabilità (G): percentuale di semi puri in grado di germinare in condizioni standard di
clima e di substrato fornendo plantule normali in un tempo prefissato.
Valore Colturale: Vc = P x G/100
Prove di germinazione: conteggio settimanale dei semi che germinano in un ambiente ottimale
controllato 400 semi in 4 lotti da 100.
Nel caso di semi dormienti, prima delle prove, devono essere sottoposti ad un pretrattamento per
eliminare la dormienza.
Per ovviare al problema della dormienza, che richiede test di germinabilità molto lunghi (fino
anche a sei mesi) si applicano i test di vitalità i quali consentono di valutare in maniera
approssimativa la germinabilità.
Mediante prova del taglio: alcuni semi vengono tagliati a metà per verificare l’aspetto
dell’embrione e dei tessuti di riserva i quali devono risultare normali (embrione presente e
normalmente sviluppato, assenza di necrosi, ecc.)
Mediante TTC: L'analisi si basa sulla differente colorazione assunta dai tessuti all'interno
del seme lasciato immerso al buio per 24-48 h in una soluzione all’1% di cloruro di 2,3,5
Trifeniltetrazolo (TTC).
Il seme viene quindi aperto e i tessuti embrionali ed endospermatici dei semi vitali
appaiono colorati di rosso (per riduzione del TTC da parte degli enzimi del seme) mentre i
semi non vitali non si colorano.
Peso di mille semi: Si conta il numero di semi in una quantità di seme pesata e si calcola
proporzionalmente il peso di 1000 semi (P1000).
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Questo parametro è importante per la valutazione di quanti semi ci sono in un kg e quindi
potenzialmente quante piantine si verrebbero a produrre utilizzando quel lotto.
𝑛° 𝑠𝑒𝑚𝑖 𝑣𝑖𝑡𝑎𝑙𝑖 1000 ∗ 𝑉𝑐
=
𝑘𝑔 𝑑𝑖 𝑠𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑃 ∗ 1000
- Semi a facile conservazione (es. molti pini, abete rosso, cipresso, molte leguminose):
tollerano un’essiccazione spinta, si mantengono in contenitori ermetici all’umidità del 4-7%
a T ambiente (per corti periodi) o a T prossime a 0 °C (per più anni).
- Semi di difficile conservazione (es. querce, castagno): non tollerano un essiccamento
spinto, per periodi corti si mantengono stratificati in sabbia o torba in locali freschi; per 2-3
anni si mantengono mescolati a torba o perlite umida in contenitori idonei ad assicurare gli
scambi gassosi evitando il disseccamento al di sotto del 35-40% di umidità.
- Semi con caratteristiche intermedie (es. abete bianco e faggio): per poco tempo si
mantengono stratificati in sabbia o torba umida in locali freschi o in cella frigorifera a 3-4
°C; per alcuni anni si mantengono in contenitori ermetici con umidità del 6-7% (abete
bianco) o del 9-10% (faggio) alla T di 10°C.
I semi facili da conservare son detti ortodossi, mentre quelli difficili son detti recalcitranti.
Contenuto idrico di semi ortodossi (%) Possibili alterazioni durante la conservazione a basse temperature
<5 Ossidazione dei lipidi
5-6 Nessuna (livello ideale per la conservazione dei semi)
10-18 Marcato sviluppo dell’attività delle crittogame
>18 Aumento della respirazione
>30 Germinazione dei semi non dormienti
Dormienza
Complesso di fenomeni che fa sì che il seme non sia immediatamente germinabile al momento
della sua maturazione. Un carattere evolutivo è la vernalizzazione dei semi per poter germinare.
Tipi di dormienza Cause Condizioni che la interrompono Esempi
Esogena
Impermeabilità dei tegumenti seminali
Fisica Scarificazione R. pseudoacacia
all’acqua
Chimica Presenza di fattori inibitori nel pericarpo Rimozione del pericarpo A. pseudoplatanus
Resistenza meccanica dei tegumenti alla
Meccanica Rimozione del tegumento E. angustifolia
crescita dell’embrione
Endogena
Morfologica Incompleto sviluppo dell’embrione Estivazione combinata ad altri
Meccanismi fisiologici di inibizione della
Fisiologica
germinazione
Brevi periodi di vernalizzazione, sostanze
Leggera B. pubescens
stimolanti della crescita
Intermedia Lunghi periodi di vernalizzazione, gibberelline N. obliqua
Profonda Vernalizzazione molto prolungata S. aucuparia
Morfo-fisiologica Lunghi trattamenti termici con alternanza di T F. excelsior
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Pretrattamento dei semi
Per eliminare la dormienza è necessario un pretrattamento che sarà diverso a seconda del tipo.
Allevamento in semenzaio
Semina: viene effettuata in autunno o in primavera a seconda della specie. Quella autunnale
consente una vernalizzazione del seme direttamente nel terreno ma richiede più attenzioni in
quanto il seme risulta più esposto agli attacchi parassitari e alla predazione.
Allevamento in piantonaio
Ha lo scopo di pervenire alla formazione di piantine più equilibrate dal pov morfologico, con una
migliore conformazione dell’apparato radicale, più vigorose e quindi con maggiori possibilità di
attecchimento una volta poste a dimora in pieno campo. Devono essere sottoposte a trapianto
soprattutto le specie che crescono lentamente (es. conifere).
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Trapianto: Vengono trapiantati in piantonaio semenzali di 1 o 2 anni di età e normalmente
eseguito con macchine estirpatrici e trapiantatrici a file distanti da 17,5 a 22,5 cm (distanza sulla
fila 4-8 cm). Il trapianto deve essere attuato durante il periodo di riposo vegetativo:
In genere le piante rimangono in piantonaio 1 o 2 anni, solo alcune specie ad accrescimento più
lento (es. A. alba) possono rimanere 3 anni. Se le piante rimangono in piantonaio più di 3 anni (in
alta montagna) devono subire periodici trapianti.
In genere, il materiale usato nei rimboschimenti è di 2-4 anni di età (1S+1T; 2S+1T; 2S+2T). In
arboricoltura da legno si usa generalmente materiale di 1-2 anni per le latifoglie (1S; 2S; 1S+1T) e
2-3 anni per le conifere (1S+1T; 1S+2T).
Subito dopo l’estirpazione dal semenzaio o dal piantonaio le piantine devono subire una selezione
ed eventualmente una classificazione. Quindi devono essere conservate:
Vantaggi:
o Possibilità di una meccanizzazione molto spinta delle fasi di allevamento in vivaio;
o Minore crisi di trapianto;
o Nei climi aridi viene mantenuta più a lungo l'umidità intorno alle radici;
o Possibilità di ritardare la piantagione;
o Meccanizzazione delle operazioni di piantagione più agevole
Svantaggi:
o Maggiori costi di produzione e di trasporto;
o Possibilità di danneggiare le radici con l'impiego di contenitori non adatti.
Materiale: carta pressato, materiale plastico rigido o non rigido, torba pressata, ecc.;
Forma: importante per le specie fittonanti, per evitare malformazioni all'apparato radicale;
Volume: deve corrispondere alla dimensione delle piante che si vogliono produrre.
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Modalità di allevamento
Importanza delle micorrize per le piante forestali. Effetto deprimente delle pratiche colturali di
vivaio sulle micorrize (es. uso di substrati artificiali e concimazioni). Metodi di inoculazione
artificiale in semenzaio o in piantonaio:
Morfologiche: H, D, peso, V della parte aerea e radicale, dimensione della gemma apicale,
colore, n° aghi secondari, dimensione e densità delle foglie, n° delle radici laterali primarie,
deformazioni e danni, fibrosità, indici tra due o più attributi.
Fisiologiche: dormienza, stato idrico, nutritivo e dei carboidrati
Performance: vigor test, root growth capacity, fluorescenza della clorofilla, termografia IR,
stress resistance, colorazione al TTC, fine root electrolyte leakage
Caratteristiche nutrizionali
Più il valore è alto, più la quantità del semenzale è alto; > capacità di emettere nuove radici
Root Growth Capacity o Root Growth Potential: misura la capacità delle giovani piantine di
formare nuove radici. Conferisce la capacità di attecchimento e sviluppo iniziale. Si determina
ponendo le piantine per 3-4 settimane in condizioni controllate di clima e di substrato e poi
pesando le nuove radici formatesi e sviluppatesi durante la prova.
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La propagazione agamica nel vivaismo forestale
L’innesto può essere impiegato per la realizzazione di arboreti da seme. I cloni di specie forestali
per potere essere commercializzati devono essere iscritti al Registro Nazionale dei Materiali
Forestali di Base (RNMFB), ex Registro nazionale dei cloni forestali, attivato presso il MiPAAF e
previsto dal decreto legislativo 386/2003.
Allevamento in cassoni
Applicato soprattutto alle latifoglie fittonanti (es. querce, noce), consente di ottenere in 1 anno
piante di dimensioni sufficienti per la messa a dimora e con un apparato radicale ben conformato,
idonee anche all’arboricoltura da legno. Può essere attuata una forzatura per aumentare lo
sviluppo delle piante.
Imboschimento: Costituzione di una copertura forestale in un’area in cui non c’era bosco.
La difesa del suolo è stato l’obiettivo primario del rimboschimento dall’800 a pochi decenni fa
cercando di evitare il dissesto idrogeologico con opere idrauliche.
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Negli ultimi decenni è emerso l’obiettivo delle rinaturalizzazioni di aree fortemente antropizzate,
rimboscando delle aree ex agricole di pianura.
Possono essere attuati o per piantagione o per semina (quest’ultima oggi più rara). Oggi si tende a
privilegiare la piantagione di piantine ottenute in vivaio. Per la scelta di specie e tipologie di
intervento è importante lo studio delle caratteristiche climatiche e pedologiche della stazione.
Non è sempre necessario scavare un profilo ma sono importanti struttura e potenza.
Aspetto rilevante del rimboschimento. Un’adeguata scelta di questi favorisce l’esito del
rimboschimento. Bisogna creare un ambiente pedologico favorevole all’attecchimento delle piante
che vengono messe a dimora.
o Lavorazione localizzata: solo nelle aree in cui vengono messe a dimora le piante
Strisce Gradoni
Buche Piazzole
Arginelli
o Minima lavorazione: tende a provocare il minimo disturbo possibile al suolo
Piantagione a fessura
Lavorazione andante
Applicata nei casi in cui non ci sono problemi di dissesto idrogeologico, cioè il pericolo di favorire
l’erosione, lo scorrimento superficiale, ecc. applicato soprattutto in zone dove ci può essere il
massimo beneficio dato da questo tipo di intervento come terreni argillosi. Aumenta la macro e
micro porosità del suolo e quindi aumenta il drenaggio.
L’aratura è il ribaltamento del terreno + l’azione di frantumazione del suolo mentre la scarificatura
è l’apertura di trincee nel terreno in cui non c’è ribaltamento ed è preferita quando si vogliono
attuare lavorazioni profonde senza portare scheletro in superficie. Queste due possono essere
anche abbinate: lavorazione due strati, in uno o due passaggi con l’aratro ripuntatore.
A volte, in pianura, l’approfondimento con un ripper può essere utile per rompere la suola di
aratura cioè lo strato composto e impermeabile che si forma a seguito del passaggio delle
macchine sempre a una stessa profondità.
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Lavorazione localizzata
Si prevede di lavorare il suolo solo in corrispondenza delle zone in cui vengono poste le piante.
Questa lavorazione è ideale per la difesa del suolo. Vengono usate generalmente specie pioniere a
cui possono essere associate specie secondarie.
Per la lavorazione a strisce si arano solo strisce di una certa larghezza lungo le quali viene
effettuata la piantagione. C’è un’alternanza che riduce il pericolo di dissesto. Lavorazioni
effettuate lungo la massima pendenza in discesa.
Gli arginelli infine si costituiscono con il passaggio dell’aratro di creste sulle quali vengono
collocate le piantine. Impiegata tradizionalmente su terreni torbosi per consentire alle piantine di
evitare il ristagno idrico. Le creste si costituiscono rovesciando attraverso l’aratura una zolla di
terreno così si raddoppia l’orizzonte organico e viene esposto quello minerale
Minima lavorazione
Piantagione a fessura che mira a ridurre al minimo la lavorazione del terreno. Si fa quando le
caratteristiche del terreno vengono considerate già ottimali.
In terreni con abbondante scheletro e rocce superficiali, per non modificare eccessivamente la
morfologia del sito, possono essere realizzate trincee di scavo e reinterro, con un escavatore tipo
ragno, della larghezza variabile da 80 a 100 cm e di circa 60-80 cm di profondità, lungo le linee di
livello, a volte discontinue per la presenza di ceppaie, piantine o tare rocciose. L'interasse tra le
trincee, variabile, è mediamente di 6-7 m; tra una trincea e l'altra vengono scavate delle buche
delle dimensioni di circa 2-3 m2 per una profondità di circa 60-80 cm.
Schemi di piantagione
- In maniera alternata sulla fila e tra le file secondo disegni di varia natura
- A gruppi monospecifici (gruppi di 5-15 piante o di 50-60 piante) tra loro alternati.
I filari di piantagione possono essere anche curvilinei allo scopo di conferire al soprassuolo una
impressione di maggiore “naturalità”. Le densità di impianto variano da 1100 a 2000 piante/ha.
Bisogna però tener conto il diverso accrescimento delle singole specie. Soprattutto quando
l’alternanza avviene a livello di singola pianta e non di gruppo. Anche qui avremo cure colturali
come eventuali risarcimenti, irrigazioni di soccorso, diserbi (manuali e meccanici) e diradamenti
(fondamentali per accrescimenti più veloci che in ambienti montani).
Costituzione di soprassuoli che possono avere anche funzione di protezione diretta. Sono ambienti
particolari in cui lo sviluppo delle giovani piante rimboschite può essere ostacolato da vari fattori:
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Rapporti tra micro-topografia e potenzialità di crescita della rinnovazione nel piano subalpino
Micrositi sfavorevoli
Aspetti positivi:
Aspetti negativi:
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La riuscita della semina dipende generalmente dalle piogge cadute dopo la semina. Nelle aree
mediterranee si pianta in autunno/inverno. Il rimboschimento per semina può avere ancora oggi
un interesse perché risulta meno costoso delle piantagioni in termini sia economici che energetici.
Oggi le querce sono le specie per cui talvolta si prova il rimboschimento per semina, a gruppi o a
file, in ogni buca possono essere collocate una o più ghiande. La germinazione non dovrebbe
essere minore di ⅓ dei semi messi a dimora.
E. globulus: specie sensibile al freddo, da impiegare dove le gelate sono poco frequenti e in
aree con piovosità non inferiore ai 500 mm. Trova l’ottimo in terreni a reazione subacida,
freschi e profondi. Teme i terreni superficiali, nonché quelli argillosi, quelli calcarei e quelli
con drenaggio difficoltoso. È la specie più richiesta per le paste da carta.
E. x trabutii: ibrido naturale tra E. camaldulensis ed E. botryoides. Dal pov climatico e
pedologico ha esigenze simili alla specie precedente, rispetto alla quale presenta però una
maggiore tolleranza ai terreni moderatamente argillosi.
E. camaldulensis: specie più plastica rispetto alle precedenti per quanto riguarda le
caratteristiche del terreno, maggiormente resistente all’aridità e relativamente più
resistente al freddo invernale (fino a -6/-7°C). È la specie più impiegata nel bacino del
Mediterraneo in impianti puri e come frangivento.
E. gomphocephala ed E. occidentalis: sono specie potenzialmente più adattabili ai terreni
argillosi e alla siccità.
E. gunni, E. dalrympleana, E. rubida, E. bicostata ed E. viminalis: sono specie più resistenti
al freddo (sempre limitatamente alla fascia del Lauretum).
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Per la piantagione sono stati tradizionalmente impiegati semenzali di 6-8 mesi allevati in
contenitore. Oggi per i cloni selezionati si usano talee radicate. In questi ultimi anni in Italia sono
stati individuati cloni di E. camaldulensis ed E. globulus di produttività quasi tripla rispetto al
materiale normalmente in commercio. Eventuali nuovi impianti devono essere attuati solo in aree
idonee dal pov ambientale, ricorrendo ad una lavorazione profonda del terreno.
La maggior parte degli impianti di eucalipto fino ad oggi attuati in Italia ha fornito risultati
produttivi scadenti (perché attuati in aree non idonee), nella maggior parte dei casi non superiori
ai 5-6 m3/ha/yr all’età di 10-12 anni. In cedui della Sicilia ubicati in buone condizioni stazionali
sono stati osservati incrementi medi anche di 15-16 m3/ha/yr. In alberate frangivento ubicate in
aree particolarmente fresche e fertili dell’Italia meridionale sono stati misurati incrementi anche
superiori ai 25-30 m3/ha/yr. Nell’America meridionale, con cloni selezionati, vengono raggiunte
produttività anche superiori ai 40-50 m3/ha/yr all’età di 5-6 anni e ciò testimonia le potenzialità di
questa specie.
Uso del legno: paste da carta e pannelli (tondelli con diametro > 3 cm). L’impiego per paleria è
ormai in disuso. Gli assortimenti di eucalipto prodotti in Italia spesso sono poco idonei come legno
da lavoro a causa della presenza di difetti (forti tensioni interne, nervosità, elevati ritiri).
Avversità: P. semipunctata, insetto le cui larve scavano gallerie sottocorticali che possono
condurre a morte la pianta (lotta mediante impiego di piante esca).
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In Italia trova le migliori condizioni vegetative dalla sottozona fredda del Castanetum alla
sottozona calda del Fagetum. Le piogge devono essere almeno di 850 mm con non meno di 100
mm nel periodo estivo. Teme l’aridità (soprattutto nella fase giovanile), le aree ventose (es.
crinali), ed è sensibile alle gelate tardive ed ai danni da neve pesante. I migliori accrescimenti si
hanno nei terreni profondi, sciolti e ben drenati, a reazione acida o subacida. In pratica si tratta dei
medesimi suoli ove vegeta bene il castagno. Le provenienze che, secondo alcuni autori, sono più
adatte ai nostri ambienti sono:
Per l’impianto si utilizzano trapianti di 4 anni (2S+2T) a radice nuda o trapianti di 2 anni (1S+1F) in
contenitore.
Moduli colturali
Ciclo breve per la produzione di materiale di piccole dimensioni (da cartiera o altro):
densità iniziali definitive di 1600-2000 piante/ha – eventuali spalcature del fusto fino a 2 m
di altezza – taglio raso a 30-35 anni.
o Modulo adatto per investimenti su grandi superfici. Possibili problemi legati al
modesto valore degli assortimenti prodotti ed alla scarsa elasticità del modello
colturale.
Ciclo medio per la produzione di assortimenti da sega: densità iniziali di 1000-1100
piante/ha – diradamenti a 15-20; 25-30; 35-40; 45-50 anni di età del soprassuolo – taglio
raso a 60 anni, con 300-350 piante/ha. Il primo diradamento può essere attuato con criteri
geometrici o misti, gli altri con criteri selettivi, individuando le piante candidate che
arriveranno alla fine del turno.
o Modulo adatto per aziende medio-grandi, consente una certa continuità delle
utilizzazioni e di concentrare sui soggetti migliori le potenzialità della stazione.
L’intensità dei diradamenti può essere regolata sulla base di un S% (indice di Hart Becking=
d/Hdom*100) intorno a 17-19; i diradamenti frequenti (ogni 6-7 anni) consentono di ottenere una
buona omogeneità dei ritmi di crescita durante il ciclo produttivo e di mantenere un valore del
rapporto ipsodiametrico < 90 (valori superiori indicano una scarsa stabilità delle piante e quindi la
necessità di attuare diradamenti moderati). Spalcature fino ad un’altezza del fusto di 2 m attuate
al momento del primo diradamento. Potatura delle piante candidate fino a 6 m da terra attuata in
due o tre interventi (preferibilmente al momento dei diradamenti).
Produzioni legnose
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Assortimenti
Avversità
Produzione legnosa
Assortimenti
Da sega: D> 22 cm
Da imballaggi: D 14-22 cm
Da cartiera: D 10-14 cm
Avversità
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Pinus strobus – Pino strobo
Pino a cinque aghi originario dell’America settentrionale, zona dei grandi laghi, potenzialmente
coltivabile nella zona del Fagetum su substrati acidi e subacidi (Prealpi piemontesi e lombarde)
dove può manifestare rapidi accrescimenti. Il legno del pino strobo è ottimo per cartiera. Può
essere usato per arredamento di interni e mobili, sfogliato per ottenere compensati o tranciato.
Produzione legnosa
Avversità
Tra queste funzioni, una o alcune possono prevalere sulle altre e pertanto devono essere
attentamente considerate in fase progettuale e gestionale. Tra i principali problemi legati alla
progettazione ed alla gestione delle alberature urbane si citano:
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- Tessitura: sabbia e limo con meno del 40% di argilla (<2micrometri)
- pH: tra 4 e 8
- Contenuto di pietre: meno del 30% in peso secco e pietre di dimensioni inferiori a 50 mm
- Altro: privo di semi di erbe, radici di erbe perenni, ramoscelli e altro materiale
- EC: sotto a 2 mS/cm
- Contenuto di metalli pesanti: sotto il valore limite EEC
Possiamo trovare:
Alberi di 1° grandezza, H max > 30 m (> 18 m) es. Platanus occidentalis, Quercus robur
Alberi di 2° grandezza, H max 25-30 m (10-18 m) es. Acer pseudoplatanus, Aesculus
hippocastanum
Alberi di 3° grandezza, H max 20-25 m (< 10 m) es. Sorbus aucuparia, Quercus pubescens
Piccoli alberi H max < 10 m es. Laburnum anagyroides, Cercis siliquastrum
Classi dimensionali m2 Profondità Volume (m3) Superficie minima libera Distanze di piantagione
1° grandezza (+ 18m) 3x3 2 18 2.50 x 2.50 10 - 15
2° grandezza (10 - 18m) 2.50 x 2.50 1.50 9.35 2x2 7 - 10
3° grandezza (fino a 10m) 2x2 1.20 4.80 1.50 x 1.50 5-7
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Circonferenza tronco/taglia D zolla (cm) n° trapianti La dimensione della zolla è
(cm) correlata alla taglia dell’albero ed al
14 – 16 50 2 numero di trapianti. La sola
16 – 18 55 3
dimensione della zolla in funzione
18 – 20 60 3–4
dell’altezza non è significativa. Per
25 – 30 80 4
alberature di latifoglie i rapporti
30 – 35 90 5
45 – 50 120 6
sono quelli elencati in tabella.
Le potature devono essere attuate senza provocare stress alle piante che potrebbero:
Possibili danni:
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Interventi di protezione:
- Parte epigea: protezione del fusto con strutture in legno ed eventuali legature dei rami
- Parte ipogea: rilascio di aree di rispetto (r= 1,5-2m oltre la proiezione della chioma),
altrimenti costituzione di uno strato di suolo aerato prima del riporto di suolo; protezione
del costipamento con uno strato di ciottoli sul quale appoggiare tavole di legno o piastre
metalliche per il passaggio delle macchine; esecuzione di scavi a mano e fondazioni
discontinue in prossimità di piante; preparazione delle piante per scavi di lunga durata.
Per il controllo dello stato delle piante (soprattutto ai fini della sicurezza pubblica) e per la
programmazione degli interventi di gestione, sono utili gli inventari delle alberature (o inventari
del verde urbano), che possono essere attuati con varie metodologie e vari livelli di dettaglio. Gli
inventari vengono normalmente redatti su base comunale e sono costituiti essenzialmente da una
descrizione delle singole alberature (ubicazione, specie, numero e dimensioni delle piante, stato
sanitario, valutazione delle condizioni statiche, VTA ecc.) sulla base della quale può essere definita
una scala di priorità degli interventi colturali (reimpianti, potature, eventuali interventi, ecc.).
Spesso sono redatti su base informatizzata, per renderli più facilmente consultabili ed aggiornabili
nel tempo.
Esame visivo della pianta per individuare eventuali anomalie strutturali (sintomi) indicative di
condizioni interne in grado di pregiudicare in maniera più o meno grave la resistenza meccanica
della pianta a sollecitazioni esterne (es. presenza di carie). All’esame visivo possono poi seguire
indagini strumentali per approfondire la diagnosi (sistemi penetrometrici per misurare la densità
del legno, tomografia).
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Resistograph
Tomografia sonica
Si effettua una vera e propria tomografia della sezione della pianta che si sospetta abbia delle
degradazioni significative. Lo strumento è costituito da un set di sensori (da 8 a 12), che vengono
posizionati nei punti strategici attorno alla zona che si vuole indagare. Ogni sensore è connesso ad
un chiodo (0.8 – 1 mm), il quale permette il contatto con il legno. L’onda sonica viene generata
manualmente attraverso un martello collegato al modulo e al chiodo. I diversi sensori misurano il
tempo di trasmissione dell’onda sonica; dai tempi di trasmissione e dalla
distanza tra i sensori, vengono calcolate le velocità apparenti dell’onda
sonica. È inoltre possibile determinare il rapporto t/r. I dati vengono registrati
ed elaborati con appositi software: