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Selvicoltura speciale

Indice
 Generalità sulla selvicoltura nel piano mediterraneo……………………………………….……..…pag.2
 Generalità sulla selvicoltura nel piano basale………….…………………………………………………pag.10
 Generalità sulla selvicoltura nel piano montano………..…………..……………………..…………..pag.20
 Generalità sulla selvicoltura nel piano subalpino……………………..………........................…pag.38
 Storia e sostenibilità della selvicoltura…………..………………………………………………..…………pag.46
 Funzione del bosco…..…………………………………………………………………………………………..……pag.47
 Il taglio saltuario…………………………………………………………….……………………………….…………pag.54
 Vivaistica forestale…………………………………………………………………………………………..…………pag.55
 Rimboschimenti e imboschimenti…………………………………………………………………………..….pag.62
 Selvicoltura delle specie esotiche…………………………………………………………………………..…..pag.67
 Elementi di selvicoltura urbana…………………………………………………………………………..……..pag.71
Fatte da rico

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I piani (o fasce) di vegetazione in Italia

 Piano mediterraneo (Lauretum)


o Lauretum medio e freddo (fascia Meso-Mediterranea di Quezel)
o Lauretum caldo (fascia Termo-mediterranea di Quezel)
 Piano basale (fascia collinare e planiziaria) (Castanetum)
o Castanetum freddo (Quercus-Tilia-Acer di Schmidt)
o Castanetum caldo (fascia sopra mediterranea di Quezel)
o Serie planiziaria di Ozenda (pianura padana)
 Piano montano Fagetum (Fagus-abies di Schmidt) o Picetum basso
 Piano subalpino (Picetum)
o Picetum superiore (Larix-Pinus cembra di Schmidt)
o Picetum inferiore (Picea abies di Schmidt)

Generalità sulla selvicoltura nel piano mediterraneo


 Aspetti climatici: clima caldo-arido e la disponibilità idrica è il principale fattore limitante.
 Aspetti vegetazionali: orizzonte delle sclerofille sempreverdi, specie adattate ad una
modesta disponibilità idrica e spesso di lento accrescimento.
 Influenze antropiche: riduzione della componente forestale dovuto a pascolo, incendi con
modifiche della composizione specifica e strutturale.
 Finalità: difesa del suolo, conservazione e miglioramento degli aspetti naturalistici e
paesaggistici. La produzione legnosa oggi è di secondaria importanza e comunque
concentrata prevalentemente nei cedui.

Piano mediterraneo
 Querce sempreverdi
o Quercus ilex: il leccio
o Quercus suber: la sughera
 Pini mediterranei
o Pinus pinea: il pino domestico
o Pinus pinaster: il pino marittimo
o Pinus halepensis: il pino d’Aleppo
o Pinus brutia: il pino bruzio
 Macchia mediterranea

Quercus ilex – Leccio


Specie ad areale circummediterraneo (in Italia circa 620.000 ha
dei quali 247.000 ha in Sardegna e 126.000 in Toscana). Nella
penisola Iberica e in nord Africa troviamo Q. ilex e Q. rotundifolia.
Sono presenti molte entità sottospecifiche che presentano
variabilità della forma delle foglie, delle cupole, della taglia e del
portamento vegetativo.

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Si colloca sia nel Lauretum caldo che, soprattutto, nel Lauretum freddo, con frequenti trasgressioni
nel Castanetum caldo.

È la sclerofilla meno termofila (è presente sulla costa atlantica francese e in Marocco supera i
2000 m di quota), ed è la più resistente al gelo (le foglie resistono fino a circa –15 °C, il cambio fino
a –25 ° C ed oltre). Trova l’ottimo con piogge annue di almeno 750-800 mm ed è indifferente al
substrato. In Italia è presente lungo le coste, nelle isole (dove può salire fino a 1000 m di quota) ed
in alcune zone peninsulari interne (es. Umbria). Sono presenti anche piccoli areali disgiunti nel
nord Italia (laghi lombardi, colli Euganei, ecc.) come relitti dopo l’ultima glaciazione.
Può essere considerata una specie tollerante l’ombra, in quanto cresce soddisfacentemente anche
sotto copertura, fino a raggiungere il piano dominante. La chioma esercita una elevata copertura
e, in assenza di disturbi, è specie che tende a formare boschi puri. A conferma di ciò, si sottolinea
che allo stato giovanile spesso i cedui di leccio si presentano misti con altre specie mediterranee
prendendo il nome di “cedui mediterranei” o “forteti”. Nelle fasi più adulte invece tende a
prevalere nettamente sulle altre specie. La capacità pollonifera è elevata, anche dopo incendi.

Gestione
Attualmente si ritrovano formazioni di leccio allo stato di arbusteti come formazioni degradate
definite “macchie di leccio”, di ceduo (più o meno invecchiato) e, in pochi casi, di fustaia.

Arbusteti: popolamenti degradati in cui non è possibile pensare a forme di trattamento


convenienti ai fini economici o evolutivi. Altezza a 20 anni di età < 5 m; n ceppaie/ha < 450-500. Si
consiglia quindi il riposo colturale.

Cedui: un tempo molto utilizzati per produrre carbone o legna da ardere (con turni di 10-16 anni
ed accrescimenti medi di 2-4 m3/ha/yr), oggi di importanza economica non sempre significativa.
Prolungamento dei turni (fino a 30-40 anni ed anche oltre), ovvero conversione all’alto fusto
attuando periodici diradamenti che hanno anche lo scopo di ridurre il rischio di incendio. Nei
terreni fertili, la conversione a ceduo composto potrebbe favorire la rinnovazione naturale da
seme, ma non appare conveniente dal pov applicativo, se non qualora si intenda ottenere ghianda
da pascolo.

Fustaie: sono presenti solo in casi particolari in aree parco, ovvero al limite con il pascolo arborato.
La fustaia ha interesse protettivo, estetico e naturalistico. È meno importante dal pov produttivo,
in relazione alla modesta qualità tecnologica del legname ed anche alla difficoltà di ottenere fusti
ben conformati.

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Quercus suber – Sughera
Specie ad areale mediterraneo occidentale e sulla costa atlantica in Portogallo e Marocco, più
limitato soprattutto verso oriente rispetto a quello del leccio (in Italia 168.000 ha dei quali 139.000
in Sardegna e 15.000 in Sicilia). Esistono inoltre forme di
transizione come Q. crenata (= Q. pseudosuber), specie
forse ibrido tra Q. suber e Q. cerris presente allo stato
sporadico anche in varie regioni dell’Italia settentrionale,
tra le quali il Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino ed
Emilia Romagna. La sughera presenta una notevole
variabilità morfologica, nonché una sottospecie occidentalis
a maturazione biennale delle ghiande. Si colloca nel
Lauretum medio, con poche trasgressioni nella sottozona
calda e fredda.

È specie più termofila rispetto al leccio e può resistere meglio di quest’ultimo all’aridità. Trova
l’ottimo in ambienti con almeno 600-700 mm annui di pioggia. Predilige suoli da rocce silicee, a
reazione acida o subacida, può crescere anche su suoli da rocce carbonatiche, purché decalcificati.
È specie eliofila, che esercita una modesta copertura, ha una buona resistenza al fuoco grazie alla
corteccia inspessita ed ha una discreta capacità pollonifera.

In Italia si ritrova soprattutto lungo tutta la costa tirrenica e nelle isole maggiori. È rara in Liguria
ed in Puglia. La sughera si trova come componente della macchia, o, più frequentemente, allo
stato coltivato per la produzione del sughero, in popolamenti di diverso aspetto e consistenza in
relazione anche alla presenza ed all’intensità del pascolo. In Toscana sono presenti cedui composti
a sughera sopra leccio.

Gestione
La gestione di queste formazioni riguarda essenzialmente la coltivazione per la raccolta del
sughero. Le sugherete rivestono un notevole interesse anche dal pov estetico-paesaggistico e
storico-colturale. L’abbandono della coltura sembra negativo nei riguardi della sopravvivenza della
sughera, in quanto, almeno fino ad ora, si è in genere osservato uno sviluppo delle altre specie
della macchia senza una significativa rinnovazione della quercia in oggetto. Peraltro, i boschi
naturali a partecipazione di sughera sono in genere considerati delle forme di transizione verso la
lecceta.

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Cenni sulla raccolta del sughero

Quando la pianta ha un’età di 15-20 anni viene realizzata la prima raccolta del sughero, detta
anche demaschiatura. Da questa prima raccolta si ottiene il sughero maschio (o vergine o
sugherone), adatto soprattutto alla macinatura, per ricavarne granulato per l’edilizia, per isolanti
termoacustici e per pannelli. Dopo ogni raccolta o decortica, la sughera impiega ~ 9-12 anni per
rigenerare la corteccia, ed il sughero prodotto in seguito è detto femmina o gentile; esso si
presenta maggiormente liscio, compatto, leggero, elastico e impermeabile rispetto al sughero
maschio ed è quindi molto più adatto alle lavorazioni.

Quercus trojana – Fragno


Quercia semidecidua dove le foglie rimangono sulla
pianta durante l’inverno e cadono ormai disseccate in
primavera, quando spuntano i nuovi germogli.
Presente in Basilicata, Puglia, Balcani, Turchia ed isole
orientali del Mediterraneo. Preferisce terreni calcarei,
spesso in consociazione con leccio, roverella e cerro.

Quercus coccifera - Quercia spinosa


È una quercia sempreverde a portamento arboreo o arbustivo, alta in genere 2-5 m ma che, in
condizioni favorevoli, può raggiungere gli 8 m. L‘areale della quercia spinosa si estende lungo le
coste di tutto il bacino del Mediterraneo. Vegeta nel Lauretum caldo, fino ai 450-500 m di quota. È
un componente della macchia mediterranea. In Italia è presente in tutte
le regioni meridionali, ad eccezione della Campania. Nel 19° secolo la sua
presenza è stata indicata anche nell'estrema Liguria occidentale, ma tali
segnalazioni sembrano provenire da località che oggi non fanno più
parte del territorio amministrativo ligure (Nizzardo), pertanto la
presenza di questa specie in Liguria è dubbia. Nelle aree più calde è
attaccata dal Kermes ilicis, cocciniglia da cui si estrae un colorante rosso.

Quercus calliprinos - Quercia di Palestina


Pianta a portamento arbustivo-arboreo, un tempo era considerata specie
a sé stante, ora viene invece considerata un morfotipo particolarmente
xerofilo della specie Q. coccifera. In Italia è presente in Puglia, Basilicata
e Sicilia. È presente nel Bacino del Mediterraneo e nell’Asia sud
occidentale. Rispetto alla Q. coccifera può raggiungere altezze maggiori
(fino a 15-18 m) e presenta ghiande di diametro più elevato (> 2 cm).

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Pinus pinea – Pino domestico
Specie ad areale circummediterraneo, di dubbio
indigenato in Italia, in vari paesi spesso introdotta a
livello colturale per la produzione di legno (cantieristica
navale) e di pinoli. Si ritiene originario di aree con clima
di transizione tra quello atlantico e quello mediterraneo.
P. pinea, pur presentando una certa variabilità per
alcuni caratteri come la predisposizione alla produzione
di pinoli, non sono state ancora accertate razze
geografiche. È presente nel Lauretum e nel Castanetum
caldo con un totale di circa 46.000 ha in Italia dei quali 11.000 ha in Toscana e 12.600 ha in
Sardegna. È specie molto eliofila, ma meno rustica degli altri pini mediterranei. In Italia è stata
diffusa con i rimboschimenti in tutte le zone costiere, soprattutto in Toscana, Lazio, Sardegna e
Sicilia (fino a 700 m di quota), sono presenti anche nuclei nell’alto Adriatico (Ravenna), in
condizioni ambientali marginali per la specie. Trova l’ottimo climatico in aree con una piovosità di
almeno 800 mm annui, predilige terreni derivanti da rocce silicee e necessita di molto spazio per
espandere la chioma. Gli aghi hanno una cuticola relativamente sottile e pertanto possono essere
più facilmente danneggiate dall’aerosol marino (tanto più se inquinato da tensioattivi). La
rinnovazione naturale è in genere difficoltosa anche dopo l’incendio.

Gestione
Pinete litoranee di interesse paesaggistico: costituzione di fasce protettive nei riguardi
dell’aerosol marino, eventuale diradamento delle latifoglie che tendono a competere con il pino.
Impianto artificiale da attuarsi anche su dossi artificiali nel caso siano presenti infiltrazioni di acqua
salmastra in falda.

Pinete da pinoli: densità finale di 70-180 piante/ha, trattate a taglio raso con rinnovazione
artificiale (turno di 100-120 anni). Possibilità di realizzare strutture disetaneiformi per evitare
tagliate a raso.

Pinete per la produzione legnosa: diffuse soprattutto in Spagna, trattate a taglio raso con turni di
60-80 anni e rinnovazione artificiale posticipata.

Pinus pinaster – Pino marittimo


Specie a diffusione occidentale, più atlantica che tipicamente
mediterranea. Lo troviamo sulla costa tirrenica fino in Toscana, in
Portogallo, Francia, Spagna e a sprazzi in nord Africa (in Italia circa
62.000 ha dei quali 18.000 ha in Liguria e 26.000 ha in Toscana, in
Piemonte 800 ha). P. pinaster presenta diverse varietà in relazione
agli ambiti geografici (var. atlantica, maghrebiana, renoui, coortensis, provincialis, cossyra).

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Le diverse provenienze presentano una notevole variabilità per quanto riguarda vari caratteri,
quali la resistenza al freddo, la forma del fusto, ecc. Si colloca dal Lauretum freddo alla sottozona
calda del Castanetum, teme l’aridità in quanto dotato di un apparato radicale poco profondo (nelle
stazioni aride sembra più sensibile agli attacchi parassitari). È il meno termofilo dei cosiddetti “pini
mediterranei” (nell’Italia peninsulare arriva fino a 500-700 m s.l.m.). Predilige terreni sciolti, a
reazione acida o subacida, provenienti da rocce silicee. In Italia è presente allo stato spontaneo in
Liguria, sul litorale toscano, in Sardegna (nuclei sparsi) e in Pantelleria. In una ristretta area della
parte sud-orientale del Piemonte, al confine con la Liguria, sono presenti pinete molto prossime a
quelle della zona di Sassello (SV), quest’ultime sicuramente naturali. Per i rimboschimenti le
provenienze più interessanti per il nostro paese sono quelle liguri, toscane, corse e provenzali. È
specie eliofila e rustica, con caratteristiche di specie pioniera, capace di colonizzare terreni poveri.
Presenta un apparato radicale superficiale. È più resistente del pino domestico all’aerosol marino,
pertanto è stato spesso utilizzato come fascia di protezione verso il mare. Si rinnova facilmente
dopo l’incendio se le piante sono adeguatamente provviste di seme. Il pino marittimo è specie ad
accrescimento relativamente rapido e viene spesso impiegato (soprattutto in Francia, Portogallo,
ecc.) per la costituzione di impianti artificiali a scopo produttivo.

Gestione
• Tagli successivi: con intensità del taglio di sementazione pari al 60-70%. Per consentire
l’affermazione della rinnovazione naturale è importante procedere tempestivamente alla
rimozione dei portasemi.
• Taglio a buche: con buche ampie 1,5-2 l’altezza delle piante.
• Taglio raso: nei popolamenti artificiali a scopo produttivo, con turni di 50-60 anni e
rinnovazione artificiale posticipata.
• Taglio a scelta: tradizionalmente applicato in Toscana ed in Liguria, su proprietà private,
associato alla raccolta dell’erica e all’impiego del legname di piccole dimensioni come
assortimento da miniera o altro. È difficile ottenere rinnovazione naturale.

La gestione di questi boschi deve tenere conto della scarsa stabilità delle piante, dovuta
all’apparato radicale superficiale e del temperamento eliofilo della specie. Nei boschi a
rinnovazione naturale sono necessari opportuni sfollamenti (2-4). Nelle perticaie e nelle fustaie di
origine naturale o artificiale sono opportuni diradamenti frequenti e graduali. La rinnovazione
naturale può trovare ostacolo nella vegetazione del sottobosco, pertanto può essere opportuno
smuovere leggermente il terreno. In Piemonte è stato impiegato per il rimboschimento di pascoli
degradati nella fascia collinare pedemontana alpina (tra l’imboccatura delle Valli Chisola e di
Lanzo), in aree a microclima favorevole. In alcune aree dell’Appennino piemontese è stato
probabilmente diffuso mediante rimboschimenti di cui si è persa la memoria. Il legname viene
utilizzato per usi industriali e per falegnameria andante (imballaggi, ecc.). La qualità può essere
migliorata mediante potature. Il pino marittimo è tradizionalmente impiegato anche per
l’estrazione della resina.

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Differenze tra P. pinea e P. pinaster
Pinus pinea

Pinus pinaster

Pinus halepensis – Pino d’Aleppo


Specie ad areale circummediterraneo. Lo si ritrova allo
stato indigeno dalle coste meridionali della Spagna e
della Francia, all’Italia, al nord Africa alla Grecia, all’Isola
di Cipro, mentre in Turchia ed in alcune isole egee è
sostituito dal P. brutia (pino bruzio), specie
tassonomicamente simile. P. halepensis in Italia circa
104.000 ha di cui 27.000 in Puglia e 28.000 in Sicilia. È
specie con una significativa differenziazione di tipo
geografico, che riguarda anche la rapidità di accrescimento (le provenienze orientali hanno un
accrescimento giovanile superiore a quelle occidentali). In Italia, oltre alla Puglia, si ritrova allo
stato spontaneo nella riviera ligure di ponente, in Sardegna, in Campania ed in Sicilia. Un nucleo
forse spontaneo è ubicato in Umbria, in Valle Spoletina ed in Valle Nerina (forse unico nucleo
indigeno nella zona del Castanetum caldo).

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È specie diffusa soprattutto nel Lauretum caldo e medio. Spiccatamente eliofila, molto resistente
alla siccità e sensibile al freddo, si rinnova molto bene dopo gli incendi in relazione ai coni serotini
che si dischiudono completamente con il calore degli incendi. Non
presenta particolari esigenze edafiche, cresce bene anche su rocce
calcaree compatte e teme solo i terreni molto argillosi. Sopporta bene
l’aerosol marino (se non inquinato) ed è quindi specie pioniera
adattabile alle aree costiere più calde del nostro paese. È stata
frequentemente impiegata nel meridione per il rimboschimento di
terreni degradati nella zona del Lauretum.

Gestione
Per ottenere la rinnovazione naturale si possono applicare i tagli successivi con forte intensità del
taglio disementazione o il taglio a buche. Talvolta il fuoco prescritto può favorire la rinnovazione.
Il turno è in genere di 50-60 anni, oltre i quali l’accrescimento può decrescere significativamente.
Nelle stazioni più fertili può fornire accrescimenti interessanti (≥ ai 10 m3/ha/yr). Il legno è di
modesta qualità (anche in relazione alla forma del fusto assai contorta) ed è adatto per usi
industriali o, al massimo, per falegnameria andante. Attualmente l’interesse per questo pino
riguarda prevalentemente la protezione del suolo ed il paesaggio.

Pinus brutia – Pino bruzio


Nativo del mediterraneo orientale (dalla Grecia alla Georgia) e, naturalizzato in
Italia, in Calabria e Puglia. Per il legname è particolarmente interessante la ssp.
eldarica di origine asiatica medio orientale, con una discreta forma del fusto e
della chioma ed una più elevata resistenza al freddo. Esiste anche un ibrido
naturale tra P. brutia e P. halepensis che ha dimostrato un buon vigore
vegetativo in parcelle sperimentali ubicate in Toscana.

La macchia mediterranea
Con questo termine si intendono cenosi che possono assumere strutture assai varie. Da quella del
cespuglieto a quella del ceduo di bassa statura con tutte le forme strutturali intermedie. Può
essere originata anche dalla progressiva degradazione di un preesistente soprassuolo arboreo
(lecceta) a seguito delle frequenti utilizzazioni, del pascolo e degli incendi. Sono formazioni spesso
con una elevata biodiversità e di interesse paesaggistico e naturalistico. Tra le specie presenti si
citano: leccio, sughera, filliree, lentisco, corbezzolo, mirto, alaterno, alloro, oleastro, carrubo,
eriche (E. arborea ed E. scoparia), oleandro, tamerici, ginepri (J. oxycedrus e J. phoenicia). Specie di
particolare interesse naturalistico sono la palma nana, l’euforbia arborea, la ginestra dell’Etna.

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Generalità sulla selvicoltura nel piano basale
 Aspetti climatici: disponibilità idrica meno limitante rispetto al piano mediterraneo.
 Aspetti vegetazionali: orizzonte delle latifoglie eliofile.
 Influenze antropiche: forte riduzione della componente forestale con modifiche della
composizione specifica e strutturale.
 Finalità: difesa del suolo, conservazione e miglioramento degli aspetti naturalistici e
paesaggistici. La produzione legnosa è concentrata prevalentemente nei cedui.

Principali querce caducifoglie o semi-decidue italiane (Sup. tot. circa 2.000.000 ha)

 Subgenere Quercus
o Quercus robur: la farnia
o Quercus petraea: il rovere
o Quercus pubescens: la roverella
o Quercus frainetto: il farnetto
 Subgenere Cerris
o Quercus cerris: il cerro
o Quercus trojana: il fragno
o Quercus macrolepis: la vallonea
o Quercus crenata: la cerro-sughera

Quercus robur – Farnia


Occupa una vastissima area che va dal Portogallo alla
Russia e dal sud della Scandinavia alla Calabria, fino in
Caucaso. La farnia è la più continentale tra le querce
caducifoglie italiane, esige molto calore estivo ma
sopporta bene il freddo invernale. In Italia 29.000 ha dei
quali 10.000 ha in Lombardia 4000 ha nel Lazio e 3600 ha
in Piemonte. È tra le querce più eliofile e in natura forma
coperture rade. Tipica delle pianure alluvionali con suolo profondo. Specie meso-igrofila e
sopporta fino a 100 giorni di sommersione delle radici per via dell’apparato radicale superficiale. È
indifferente al substrato, ma i migliori accrescimenti si hanno nei suoli carbonatici, ricchi di basi. Si
ibrida in natura con rovere e roverella. Oggi è relegata a popolamenti relitti della pianura poiché il
suo areale è stato molto ridotto dalla concorrenza dell’agricoltura e della pioppicoltura.

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Quercus petraea – Rovere
Ha un’areale più limitato che si ferma alla Polonia. È perlopiù
concentrato in Europa centrale. In Italia infatti lo troviamo
solo nel centro-nord. È una specie a clima subatlantico, più
suscettibile della farnia alle gelate tardive, ma meno
termofila potendo così salire maggiormente di quota,
raggiungendo anche i 1500 m s.l.m. In Italia 59.000 ha dei
quali 23.000 in Piemonte e 6000 ha in Lombardia e Toscana. È
specie eliofila, ma meno della farnia. Ha un apparato radicale fittonante e profondo, in grado di
eludere l’aridità. È una specie mesofila che non tollera la sommersione. Predilige i terreni acidi e
subacidi, sopporta anche suoli superficiali e sassosi. Si ibrida con farnia e roverella. È presente
sporadicamente in boschi di pianura e collinari, in purezza è relegata in pochi boschi relitti di
montagna. Nel nord Italia il suo areale è stato molto ridotto per lasciar posto al castagno.

Tipi di popolamenti
 Querceto di farnia: formazione di ecotono tra ambiente acquatico e terrestre localizzato
lungo il corso dei principali fiumi, in condizioni di falda superficiale e periodica
sommersione (fino a 2 mesi/yr). Il carpino è assente, è frequente la presenza dell’olmo
campestre, ontano nero, pioppo bianco e pioppo nero, orniello, pado (P. padus). Nelle
formazioni rade è spesso presente una copertura arbustiva molto fitta (prugnolo, ligustro,
biancospino, etc.). Frequentemente il querceto è stato sostituito da pioppeti specializzati.
 Querco-carpineto planiziale: con possibile presenza di olmo campestre, ontano nero,
frassino maggiore ecc. In relazione all’umidità del substrato, nei sistemi più naturaliformi la
farnia è presente con 70-100 piante/ha di grosso diametro.
 Querco-carpineto collinare: con presenza di rovere quando le condizioni di umidità del
substrato diminuiscono con ciliegio, acero campestre, frassino maggiore, ecc.
 Querceto di rovere: in ambienti sub-montani, in condizioni anche di scarsa disponibilità
idrica nel substrato. Nelle stazioni più fertili la rovere è stata spesso sostituita dal castagno.

Gestione
Nei querceti di farnia e nei querco-carpineti planiziali il problema colturale più rilevante è spesso
la difficoltà di rinnovazione della farnia.

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Interventi proposti sono:

a) Mantenimento di un soprassuolo monoplano a copertura colma con tagli successivi a


gruppi di 250-300 m2 (alcuni autori propongono l’allagamento di tratti di bosco ed il
sommovimento degli strati superiori del suolo per aumentare la competitività della farnia
rispetto al carpino).
b) Mantenimento di un soprassuolo più rado rispetto al precedente (fustaia chiara) a
struttura disetanea, con circa 150-250 soggetti con D> 17,5 cm, con G da 10 a 15 m2/ha e
con provvigioni da 130 a 250 m3/ha (tali valori sono più bassi rispetto a quelli presenti in
molti querco-carpineti della pianura padana).

In entrambi i casi, in mancanza di rinnovazione naturale può essere necessario ricorrere a semine
o a piantagioni di farnia. Nei querceti di farnia sono proponibili modelli colturali intermedi rispetto
ai due sopra indicati, che non favoriscano eccessivamente lo strato arbustivo di ostacolo alla
rinnovazione di farnia.

Nei querco-carpineti collinari (dove la rinnovazione della farnia è spesso più agevole rispetto a
quelli planiziali) e nei querceti di rovere (su suoli fertili ed in buone condizioni colturali) alcuni
autori propongono una selvicoltura di qualità secondo l’impostazione svizzera o quella francese.

-Impostazione svizzera:

 Taglio di rinnovazione a buche su tagliate di D=2H (con piantagione in caso di mancata o


lenta rinnovazione).
 Fase di educazione (fino a 20 anni) asportando solo le piante malformate (diradamenti ogni
5-8 anni)
 Fase di selezione (fino a 40 anni) attuando diradamenti deboli dal basso per avvantaggiare
le piante candidate
 Fase di regolarizzazione della produzione (fino a 60 anni) diradamenti forti per favorire
l’accrescimento delle candidate. È necessaria la presenza di un soprassuolo di
accompagnamento (carpino bianco, tiglio, acero, ecc.) per prevenire la formazione di rami
epicormici.

In Italia non si attua perché non ci sono soprassuoli adatti alla crescita di querceti di rovere.

Quercus pubescens – Roverella


Occupa il centro-sud Europa, Balcani e Turchia. La roverella è
una specie termofila e meso-xerofila, che però manifesta una
buona resistenza ai freddi invernali. La si ritrova nelle valli
continentali delle Alpi fino anche ad oltre 1000 m s.l.m., nel
bacino del Mediterraneo si trova a contatto con il leccio. In Italia
850.000 ha di cui in Piemonte 19.000 ha. È specie eliofila, in
grado di eludere la siccità mediante una precoce entrata in
vegetazione e una precoce fioritura.

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È frugale che si adatta anche a suoli superficiali argillosi o rocciosi, vegeta prevalentemente su
suoli carbonatici. Si ibrida con farnia e rovere. Nelle aree più fertili è stata sostituita dai vigneti.
Nell’Italia nordoccidentale la si ritrova sui versanti più caldi delle valli alpine continentali e nelle
aree collinari. È soggetta agli incendi forestali anche perché mantiene le foglie secche sui rami per
tutto l’inverno (specie semidecidua).

Quercus cerris – Cerro


Areale meno vasto che comprende Italia, Balcani e coste della
Turchia. Il cerro non sopporta né i freddi eccessivi in inverno, né
le temperature molto elevate e la siccità estiva (entra molto
tardi in vegetazione). In Italia circa 880.000 ha di cui in Piemonte
7200 ha. È una specie esigente da pov idrico, esige terreni
freschi e profondi, prevalentemente acidi o subacidi, ma in
presenza di una buona disponibilità idrica tollera anche i terreni
argillosi. È eliofila, con un accrescimento giovanile molto veloce. Soprattutto nell’Italia centro-
meridionale il cerro è stato parzialmente sostituito dal castagno. Lo si ritrova comunque nelle alte
pianure e nelle colline del nord e nelle zone collinari e montane del centro-sud Italia.

Tipi di popolamenti
 Querceto di roverella dei substrati carbonatici: con presenza più o meno cospicua di
carpino nero, orniello e cerro in relazione anche alla quota e alle caratteristiche idrologiche
della stazione.
 Querceto di roverella dei substrati silicatici: relativamente raro, presente in Alto Adige,
Trentino, Piemonte (es. Valle di Susa), più frequente in questi casi la mescolanza con la
rovere che è più competitiva rispetto alla roverella su questo tipo di substrato.
 Querceti di cerro: localizzati soprattutto nella regione appenninica (es. Appennino ligure e
piemontese) e nell’alta pianura. Possono essere puri o con presenza di roverella, acero
campestre, carpino nero, ecc.

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Gestione
Per i querceti di roverella (oggi governati a ceduo semplice matricinato o a ceduo composto):

 Mantenimento del ceduo semplice matricinato o del ceduo composto nelle situazioni ove
ciò è possibile e conveniente.
 Conversione del ceduo semplice o del ceduo composto all’alto fusto. Può essere necessario
un periodo di attesa, in quanto le piante da rilasciare (800-1000/ha) dovranno avere un
diametro di almeno 10-12 cm ed altezza di 12-15 m.
 Rilascio del bosco all’evoluzione naturale nelle stazioni più povere e/o meno facilmente
accessibili.

Per i querceti di cerro (cedui o fustaie):

 Mantenimento del ceduo ove questo è possibile e conveniente.


 Conversione del ceduo alla fustaia. Eventuale periodo di attesa (fino ad una età dei polloni
pari a circa 1,5 volte il turno consuetudinario), eliminazione del piano dominato e rilascio di
1-2 polloni/ceppaia con successivi diradamenti.
 Nelle fustaie tagli a buche o tagli successivi a piccole superfici e diradamenti ogni 15 anni.

Altre querce di interesse naturalistico presenti in Italia

 Q. ithaburensis subsp.  Q. virgiliana  Q. gussonei


Macrolepis (Vallonea)  Q. dalechampii  Q. sicula
 Q. frainetto (Franietto)  Q. congesta  Q. pyrenaica

Castanea sativa – Castagno


Il castagno europeo è presente e coltivato dal Caucaso
al Portogallo e dalla Sicilia ad aree dell’isola britannica.
Le superfici più estese si trovano in Francia (1.000.000
ha) in Italia (788.000 ha) ed in Spagna (130.000 ha).
L’indigenato del castagno in Europa è stato messo in
dubbio fino alla scoperta di pollini fossili in Italia ed in
Corsica. In Italia la coltura del castagno da frutto
(derivata dall’Asia anteriore già in epoca greca), fu
ampiamente diffusa dai romani, i quali utilizzavano anche il ceduo per i pali da vite. Subì alterne
vicissitudini nel corso dei secoli e cominciò a declinare verso la fine dell’ottocento in relazione ai
noti mutamenti sociali ed economici ai quali nel secolo successivo si è poi aggiunta l’azione di
temibili parassiti. Il castagno è specie termofila, mesofila per quanto riguarda le esigenze idriche,
moderatamente tollerante l’ombra in giovane età ed eliofila allo stato adulto. Il suolo condiziona
in maniera netta la distribuzione del castagno su ampi territori. Infatti questa specie presenta
notevoli esigenze dal pov delle caratteristiche pedologiche. Predilige terreni sciolti, profondi, ricchi
di sostanza organica e di basi (es. potassio), a reazione neutra o subacida. Teme il ristagno idrico.

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Può adattarsi a suoli carbonatici in ambienti piovosi. Il castagno presenta una longevità molto
elevata ed una capacità pollonifera altrettanto elevata. Nelle aree ottimali di vegetazione del
castagno questa specie sostituisce generalmente querceti di rovere o, in Italia meridionale, di
cerro; in questi casi il castagno occupa certamente aree tra le più fertili del territorio submontano.
In certi casi la coltura del castagno è stata però spinta anche in aree non del tutto ottimali per
clima (area del faggio, area del leccio e della sughera) o per tipo di suolo (es. terreni marnosi, in
sostituzione di querceti di roverella e carpino nero).

Gestione
Castanicoltura da frutto

Attività da realizzare solo in aree vocate per caratteristiche ambientali ed infrastrutturali. I boschi
di castagno destinati alla produzione frutticola sono tradizionalmente le fustaie o selve castanili.
L’IFNC del 2005 indica circa 147.000 ha tra castagneti da frutto e selve castanili (al 2014 circa
55.000 ha di castagneto da frutto gestito da circa 34.000 aziende agricole).

 Recupero delle vecchie selve castanili:


a) Mantenimento delle vecchie piante con eventuale rinfoltimento (in presenza di
varietà pregiate ed in situazioni sanitarie recuperabili);
b) Sostituzione delle vecchie piante con eventuale rinfoltimento (in presenza di varietà
di scarso pregio e/o in situazioni sanitarie non recuperabili).
 Nuovi impianti: convenienza economica, problemi tecnici.
 Tecniche colturali per il recupero dei vecchi castagneti: ripuliture, potature di rimonda e di
ringiovanimento, ceduazione ed innesto dei polloni, innesto di selvatici.
 Tecniche colturali per il mantenimento dei castagneti da frutto: regimazione delle acque,
ripuliture, potature di rimonda, eliminazione e sostituzione di piante malate, eventuali
trattamenti antiparassitari

Castanicoltura da legno

L’IFNC del 2005 indica una superficie di circa 600.000 ha di castagneti da legno. Si tratta in gran
parte di cedui castanili a regime ovvero oggi in stato di abbandono colturale e quindi più o meno
invecchiati. Nei cedui di castagno il n. ottimale di ceppaie/ha è compreso tra 400 e 600-800.
Possono distinguersi diverse tipologie in relazione ai turni adottati. Le tipologie più frequenti sono:

 Cedui a turno breve (10-12 anni) per paleria medio-piccola: no interventi colturali;
 Cedui a turno medio (15-25 anni) per paleria grossa: si prevede uno sfollamento al 4°-5°
anno ed uno o due diradamenti intorno al 10° e 20° anno;
 Cedui a turno lungo (dai 25 ai 40-45 anni) con uno sfollamento e due o tre diradamenti (il
primo a circa 15 anni): in fase sperimentale in Italia, ma potrebbero consentire di ottenere
materiale da opera;
 Fustaia per materiale da opera: non esistono riferimenti precisi in Italia, potrebbe
ipotizzarsi una conversione dei cedui con diradamenti ogni 10-12 anni fino a densità di 500-
600 piante/ha a 30-40 anni, con turni di 60-80 anni.
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Nella fustaia così costituita è difficile mantenere il castagno in purezza in quanto tendono
sempre a diffondersi anche le altre specie forestali tipiche della corrispondente fascia di
vegetazione.

Per la produzione di assortimenti da opera di castagno si deve considerare il problema della


cipollatura. Per contenerla:

- evitare traumi e ferite alle piante; - mantenere accrescimenti costanti


- mantenere una chioma equilibrata; nel tempo (diradamenti)
- impiego di genotipi esenti dal difetto

Produttività dei cedui di castagno a 20 anni:

Italia centro-settentrionale:

 Altezza media 15-12 m; massa 200-100 m3/ha; Im 10-5 m3/ha/yr

Italia centro-meridionale:

 Altezza media 18-13 m; massa 300-200 m3/ha; Im 15-10 m3/ha/yr

Vecchi castagneti da frutto abbandonati e non più recuperabili come tali:

 Ceduazione semplice (problemi legati alla scarsa densità delle ceppaie, <400 ceppaie/ha);
 Ceduazione con coniferamento (problemi legati alla scelta delle specie da introdurre);
 Ceduo composto o fustaia mista di castagno ed altre latifoglie in fase di introduzione
naturale nel vecchio castagneto.

Castagni esotici (specie principali)

 Castagno americano (Castanea dentata): ridotto a un cespuglio dal cancro corticale;


 Castagno giapponese (Castanea crenata): resistente al cancro corticale ed introdotto in
Europa per la costituzione di ibridi con il castagno Europeo;
 Castagno cinese (Castanea mollissima): meno interessante in Europa dal pov colturale.

Robinia pseudoacacia – Robinia


La robinia è una leguminosa arborea originaria della parte sud-orientale degli Stati Uniti. Fu
importata in Francia nel 1601 dal botanico Jean Robin, da cui prese il nome. Verso la metà del
1700 fu importata in Italia, prima come specie ornamentale e poi per altri usi, quali il
consolidamento delle scarpate e la produzione legnosa. Oggi la robinia è presente praticamente in
tutta Italia, dove copre una superficie di circa 200.000 ha con particolare riferimento al Piemonte
(ove i boschi puri e misti di robinia coprono una superficie di circa 85.000 ha) alla Lombardia, alla
Toscana (ove si trovano cedui molto produttivi), in Emilia-Romagna e in Veneto. La robinia viene
diffusamente coltivata in piantagioni da legno in vari paesi europei (Ungheria - 270.000 ha; Francia
– 100.000 ha) ed extra-europei (Cina – 1 milione di ha; Corea del Sud – 270.000 ha).

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È specie eliofila, che non si rinnova facilmente sotto parziale copertura, trova l’ottimo nei suoli
sciolti e ben drenati, anche poveri di nutrienti e a reazione subacida, mal si adatta ai terreni molto
argillosi. In Italia è presente dal livello del mare fino a circa 1000 m di quota nel centro nord e fino
a 1600 m nel meridione. Ha un’elevata capacità pollonifera e produce polloni radicali dalle radici
più superficiali, le quali sono molto estese in senso orizzontale. Come tutte le leguminose, è in
simbiosi radicale con microrganismi azotofissatori e quindi può arricchire il suolo di azoto. Nel
complesso, è una specie pioniera, che però (almeno al di fuori del suo areale di vegetazione
naturale) presenta una limitata longevità (60-70 anni) e quindi nelle zone più fertili è specie
transitoria che può essere gradualmente sostituita da altre specie più longeve. La notevole
diffusione della robinia in Italia è collegata alle peculiari caratteristiche di “invadenza” che questa
specie presenta ed è stata favorita dai seguenti fattori:

 diffusione in aree agricole di cedui puri di robinia tagliati a turno breve per la produzione di
legna da ardere o di piccola paleria;
 diffusione della robinia come specie consolidatrice delle scarpate ferroviarie;
 progressivo abbandono dei terreni agricoli e pascolivi;
 eccessivo sfruttamento e degrado delle formazioni forestali indigene.

Gestione
Il ceduo puro di robinia: può essere mantenuto nelle aree di buona e discreta fertilità di proprietà
privata, dove non sussistono limitazioni di carattere ambientale e dove sono possibili redditi
soddisfacenti. (nei cedui di robinia alcune PMPF consentono di omettere il rilascio delle matricine).

 Ceduo puro di robinia per la produzione di legna da ardere: turno 6-9 anni
 Ceduo puro di robinia per la produzione di paleria: turno 15-20 anni (attuazione di un
diradamento dall’alto per sfoltire il piano dominante a 9-10 anni di età).
 Ceduo puro di robinia a turno lungo per la produzione di legno da opera: modello colturale
ancora in una fase sperimentale, turno di 40 anni (attuazione di un diradamento dall’alto
all’età di 9-11 con marcatura di circa 300 piante candidate/ha, attuazione di un secondo
diradamento all’età di 20-23 anni per favorire ulteriormente lo sviluppo dei candidati,
densità finale di circa 500-700 piante/ha).

Per ridurre la diffusione della robinia all’interno dei boschi nei quali si è insediata è necessario
lasciarle invecchiare, in quanto la modesta longevità della specie determina un deperimento
relativamente precoce delle piante. Invece è assolutamente da evitare il taglio dei polloni in
quanto ciò non farebbe che rinvigorire le piante. Una tecnica sperimentata per accelerare il
deperimento delle piante di robinia è la succisione (eliminazione di un anello di corteccia e cambio
intorno al fusto), anche se i risultati ottenuti sono incerti in quanto la pianta può risponderne
mediante un forte scoppio di polloni radicali ed una abbondante fruttificazione. Infine, non
vengono neanche utilizzati trattamenti chimici.

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Le latifoglie correlate alle querce
Sono specie comuni nel piano inferiore dei querceti, presenti soprattutto allo stato misto con le
querce (a parte i carpini). Hanno interesse dal pov floristico (biodiversità) e per l’influenza che
possono avere sulla dinamica evolutiva dei querceti come miglioramento del suolo, rapporti con la
rinnovazione naturale delle querce, colonizzazione terreni nudi.

 Carpino bianco (Carpinus betulus)  Acero opalo (Acer opalus)


 Carpino nero (Ostrya carpinifolia)  Orniello (Fraxinus ornus)
 Acero campestre (Acer campestre)  Olmo campestre (Ulmus campestris)

Carpinus betulus – Carpino bianco


È assai diffuso nel centro Europa e Turchia, dove rappresenta la
principale specie correlata ai querceti. I boschi a prevalenza di
carpino bianco occupano in Italia una superficie di circa 40.000 ha.
In Italia sale fino a circa 1000 m s.l.m., oltre i quali trova limitazioni
per le gelate primaverili e per l’insufficiente calore estivo. Specie
spiccatamente mesofila in quanto predilige i suoli neutri o
subacidi, ricchi di azoto, profondi, freschi ma senza ristagno idrico.
Tollera abbastanza l’ombra nella fase giovanile ed è più eliofilo nella fase adulta.
Si insedia facilmente al di sotto delle querce, ma in età adulta necessita di spazio
e di luce. Pertanto, in condizioni ambientali favorevoli, i tagli frequenti del
querceto possono favorire il carpino. In Italia sarebbe associato soprattutto alla
farnia ed alla rovere (querco-carpineti) pertanto la regressione di queste specie
dovuta all’azione antropica ha influito anche sul carpino bianco. Attualmente il
carpino bianco si ritrova nei boschi planiziari ove talvolta per le mutate
condizioni idrologiche può aumentare la sua concorrenza nei riguardi della
farnia, nei cedui quercini ubicati in ambienti collinari freschi ed umidi, nei castagneti abbandonati,
nei cedui di faggio della fascia submontana. Il legno è di scarso valore. Può costituire il piano
inferiore in rimboschimenti di querce.

Ostrya carpinifolia – Carpino nero


Presenta un areale limitato all’Europa sud-orientale (Italia,
Austria, Balcani, Grecia e Turchia). In Italia è presente nell’area
prealpina centro-orientale e nell’area peninsulare, con presenze
sporadiche nelle isole maggiori. In Italia vi sono circa 700.000 ha
di boschi con presenza di Carpino nero, di cui 15.000 ha in
Piemonte. È specie correlata ai querceti di roverella e di cerro.
Necessita di un lungo periodo vegetativo. In Italia vegeta fino a 1000-1200 m s.l.m.

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Ha esigenze idriche superiori a quelle della roverella, negli ambienti collinari
peninsulari occupa soprattutto i versanti nord. Predilige i suoli calcarei e marnosi,
teme il ristagno idrico, ma sopporta i terreni argillosi. Il temperamento nei riguardi
della luce è simile a quello del carpino bianco, pertanto si insedia facilmente al di
sotto dei querceti. Ha una notevole capacità pollonifera e ciò ne aumenta la
concorrenzialità con le querce nei boschi cedui e nei cedui composti. I boschi a
prevalenza di carpino nero detti “ostrieti” derivano in genere dalla regressione
delle querce. Possono assolvere funzioni protettive nelle pendici argillose più ripide. In aree fertili
potrebbero essere sostituiti con altre specie, dopo un periodo di invecchiamento. Il legno è un
buon combustibile, ma la produttività del ceduo è modesta.

Acer campestre – Acero campestre


Albero di piccole dimensioni, con un areale di indigenato molto
ampio, un tempo molto usato come tutore vivo delle viti, da cui
un possibile inselvatichimento. Tendenzialmente termofilo,
sopporta una certa secchezza del terreno (non come la roverella)
e si adatta bene ai terreni argillosi. È eliofilo e si dispone spesso ai
margini dei querceti. Nel piano inferiore solo se le querce sono
rade, ma in questo caso può essere sostituito dai carpini.

Acer opalus – Acero opalo


Gruppo di specie con areale mediterraneo (A. opulifolium, A. obtusatum e A. neapolitanum) a
temperamento termofilo ed esigenti in fatto di suolo e disponibilità idrica. Miglioratrici del
terreno, manifestano una certa tolleranza dell’ombra. Specie presenti nei querceti generalmente
allo stato sporadico ed interessanti dal pov floristico.

Acer cappadocicum subsp. lobelii – Acero lobato


Acero presente nell'Italia centro-meridionale, dall‘Abruzzo alla Calabria, dove si ritrova nel piano
collinare e montano (700 - 1500 m s.l.m.)

Acer monspessulanum – Acero minore


Piccolo albero a portamento talvolta cespuglioso, resistente alla siccità e con distribuzione
tipicamente mediterranea. Vegeta nei boschi termo-mesofili di latifoglie (Castanetum caldo). In
Italia si trova in tutta la penisola e nelle isole.

Fraxinus ornus – Orniello o Frassino minore


Specie ad areale mediterraneo-orientale, termofila, eliofila e frugale, ha caratteristiche di specie
pioniera soprattutto nella fascia inferiore dell’orizzonte delle querce caducifoglie (si ritrova spesso
anche nella macchia mediterranea, in associazione al leccio). Sui suoli carbonatici e marnosi si
associa al carpino nero costituendo gli “orno-ostrieti”; sui suoli argillosi in ambienti xerici si
associa alla roverella. Viene utilizzato anche per l’estrazione della manna.

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Latifoglie igrofile del piano basale
 Populus nigra – Pioppo nero  Alnus glutinosa – Ontano nero
 Populus alba – Pioppo bianco  Alnus cordata – Ontano napoletano
 Salix alba – Salice bianco
Superfici dei boschi igrofili:

 Pioppeti naturali: 71.000 in Italia ha di cui 5.000 ha in Piemonte


 Saliceti ripariali: 24.000 ha in Italia di cui 2.800 ha in Piemonte
 Boschi ad ontano nero: 33.000 ha in Italia di cui 4.000 ha in Piemonte

Generalità sulla selvicoltura nel piano montano


 Aspetti climatici: la disponibilità idrica è ottimale per la vegetazione forestale e la
temperatura non è fattore limitante;
 Aspetti vegetazionali: orizzonte delle latifoglie sciafile e delle aghifoglie microterme;
 Influenze antropiche: presenti, ma meno intense rispetto agli orizzonti inferiori per quanto
riguarda la riduzione della superficie boscata;
 Finalità: difesa del suolo, conservazione e miglioramento degli aspetti naturalistici e
paesaggistici. Produzione legnosa nei cedui e nelle fustaie.

Piano montano
 Fagus sylvatica: il faggio
 Abies alba: l’abete bianco
 Picea abies o P. excelsa: l’abete rosso
 Pinus sylvestris: il pino silvestre

Fagus sylvatica – Faggio


Molto diffuso in Europa, dalla Sicilia al sud della Scandinavia
e dai Pirenei fino all’Ungheria. In Italia lo troviamo su tutto
l’arco alpino e sulla dorsale appenninica. In Sardegna non
c’è per l’assenza della fascia montana (mentre in Corsica è
presente). In Italia i boschi di faggio coprono una superficie
di circa un milione di ha dei quali circa 115.000 in Piemonte.
Il faggio è specie tipicamente adattata a climi subatlantici,
cioè caratterizzati da una moderata escursione termica su
base annua, con estati fresche ed umide ed inverni non
troppo freddi. Predilige le aree con umidità atmosferica relativamente elevata (versanti nord).
Teme le gelate tardive in quanto presenta una fogliazione precoce. Per queste sue caratteristiche il
faggio rifugge le valli (o i settori di valle) a clima spiccatamente continentale.

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Il faggio è specie indifferente al substrato trovando faggete eutrofiche, mesotrofiche e
oligotrofiche. È una specie molto sciafila (seppure in grado inferiore rispetto all’abete bianco) e
sopporta l’aduggiamento anche per 20-30 anni. Un prolungato ombreggiamento può però
determinare la perdita della dominanza apicale e pertanto il fusto può facilmente biforcarsi una
volta che la rinnovazione viene liberata dalla copertura. Nelle Alpi il limite superiore del faggio si
colloca normalmente sui 1300-1500 m s.l.m. (la temperatura media del mese più caldo non deve
scendere al di sotto dei 13 °C) e solo in casi particolari può salire oltre tali quote. Negli Appennini il
faggio raggiunge invece il limite superiore della vegetazione arborea (fino a quote di 1600-1800 m
s.l.m., 2300 m sull’Etna). Le piante adulte di faggio esercitano al suolo una copertura molto intensa
(superiore a quella dell’abete) ed in condizioni ambientali ottimali tende a formare popolamenti
puri o quasi puri. Tale tendenza si riduce allontanandosi dall’ottimo climatico; in questi casi la
mescolanza può realizzarsi con abete bianco, abete rosso, acero di monte e/o altre specie a
seconda dei casi. È specie con buona facoltà pollonifera, anche se meno longeva rispetto ad altre
latifoglie. La rinnovazione del faggio può essere ostacolata da una eccessiva presenza di flora
nitrofila dovuta, ad esempio, a tagli troppo intensi realizzati nella faggeta adulta.

Gestione
Le fustaie: In passato sono state trattate anche a taglio raso con riserve (ad. es. nel meridione con
la legge “Borbonica”). Allo stato attuale in Italia (ed anche negli altri paesi europei) per le fustaie di
faggio è previsto generalmente il trattamento a tagli successivi nelle sue diverse varianti (uniformi,
su piccole superfici, ecc.). Nelle faggete pure il taglio saltuario non trova applicazioni significative
in relazione alla naturale tendenza all’uniformità strutturale di queste formazioni ed anche per i
difetti di forma che possono derivare da un prolungato ombreggiamento della rinnovazione.

a) Tagli successivi uniformi: attuati su superfici da 2 a 6 ha circa. Applicabili in faggete di


buona fertilità, dove la rinnovazione in massa avviene facilmente, almeno nelle annate
di pasciona, omogenee come struttura e nelle quali si intende conservare il faggio in
purezza (es. faggete a prevalente funzione produttiva);
b) Tagli successivi a grandi gruppi: attuati su superfici di circa 0,5-1,5 ha. Si prestano
come alternativa ai tagli successivi uniformi al trattamento delle faggete in cui vi sia
una certa disformità di età e di struttura, pur con una discreta fertilità della stazione;
c) Tagli successivi a piccoli gruppi: attuati su superfici < 0,5 ha. Utilizzabili ove non
sussistono le condizioni di uniformità strutturale e di fertilità necessarie per applicare
con successo le forme precedenti di trattamento, e/o quando si intende favorire o
conservare la mescolanza del faggio con altre specie. In questi casi la singola particella
viene percorsa ogni 10-20 anni per l’attuazione di tagli di sementazione, di tagli
secondari o di sgombero e dei tagli intercalari.

Per turni da 80 a 120-150 anni (oltre i 150 anni possono verificarsi marciumi), taglio di
sementazione con asportazione dal 25 al 30% della provvigione (spesso assimilabile ad un
diradamento dal basso, per creare un leggero isolamento della chioma delle piante migliori).
Periodo di rinnovazione da 10-15 a 20 anni.

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Nelle fustaie dense, poco o per nulla diradate, 10-15 anni prima del taglio di sementazione
possono essere previsti tagli preparatori (spesso assimilabili a diradamenti dall’alto, per liberare la
chioma delle piante migliori, lasciando un corteggio di piante dominate per evitare eccessive
scoperture del suolo). In Italia, gli incrementi medi annui delle fustaie di faggio si aggirano sui 3-4
(1-8) m3/ha.

Cure colturali

Nei boschi di particolare interesse ai fini produttivi già nella fase di spessina possono essere attuati
dei tagli selettivi per eliminare le piante peggio conformate. Tali interventi devono essere di
intensità moderata, poiché in questa fase una elevata densità del soprassuolo favorisce la
formazione di fusti diritti e poco ramosi. I primi diradamenti veri e propri dovrebbero essere
realizzati nella fase di perticaia (all’età di 30-40 anni) a vantaggio dei soggetti migliori per forma e
vigore. La frequenza degli interventi potrà essere tanto più elevata quanto più si è interessati a
favorire l’accrescimento diametrico, con frequenze decennali nel caso di fustaie a prevalente
funzione produttiva. In Italia sono spesso consigliati diradamenti dal basso e piuttosto graduali,
mentre in altri paesi europei, come Francia e Germania, vengono generalmente previsti
diradamenti selettivi, con una scelta delle piante che viene effettuata intorno ai 30 anni di età.

I cedui: Il faggio è tradizionalmente governato a ceduo per l’ottenimento di assortimenti da


energia (legna da ardere e da carbone). Ai cedui di faggio sono stati applicati sia il trattamento a
taglio raso con rilascio di matricine, sia il trattamento a sterzo. Quest’ultima forma di
trattamento, un tempo utilizzata soprattutto per i cedui posti in condizioni stazionali meno
favorevoli (es. in vicinanza dei crinali), oggi è quasi del tutto abbandonata in quanto poco
efficiente sotto il profilo economico (seppure vantaggiosa sotto il profilo biologico ed ecologico-
ambientale). Allo stato attuale sono più o meno regolarmente utilizzati solo una parte di quei
cedui ancora a “macchiatico positivo” (in genere quelli ricadenti in aree fertili e vicine a strade
camionabili). La maggioranza dei cedui di faggio sono invece in fase di abbandono colturale e, in
una quota più o meno rilevante a seconda delle zone, in fase di conversione all’alto fusto. Nei
cedui la durata del turno ed il numero minimo di matricine da rilasciare ad ogni taglio devono
essere dedotti dalle “Prescrizioni di massima e di polizia forestale” o dai regolamenti forestali
localmente vigenti. Mediamente i turni variano da 20 fino a 35-45 anni. Le attuali forme di
trattamento dei cedui di faggio ancora a regime devono comunque essere mirate a ridurre
l’impatto sull’ambiente di tipo estetico ed idrogeologico. Ciò ad esempio mediante la limitazione
dell’estensione delle tagliate su una medesima pendice.

I cedui composti

In generale questa forma di governo viene ritenuta poco adatta al faggio a causa della notevole
ramificazione assunta dalle matricine, le quali risultano così scarsamente idonee a fornire
assortimenti da opera di buona qualità. In certi casi possono essere classificati come “cedui
composti” anche boschi a prevalenza di faggio con una struttura molto irregolare. Questi
soprassuoli, di origine varia e non sempre facilmente definibile, presentano una discreta densità di
piante ad alto fusto associata ad una componente a ceduo.

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Allo stato attuale la gestione del ceduo composto di faggio prevede, in genere, il passaggio alla
fustaia mediante opportuni interventi. Infatti, la conversione a ceduo semplice è di norma vietata
dalle Prescrizioni di massima, mentre la gestione classica a ceduo composto appare poco
proponibile in quanto complessa dal pov tecnico e non conveniente da lato economico.

La conversione dei cedui di faggio all’alto fusto

La conversione può avvenire lasciando il ceduo alla evoluzione naturale, oppure mediante
l’attuazione di tagli di avviamento, quest’ultima indicata come conversione “attiva”. I tagli di
avviamento consistono in diradamenti selettivi e graduali volti a favorire i polloni più vigorosi e
meglio conformati. Ciò determina la formazione di un soprassuolo “transitorio”, poi sottoposto a
tagli successivi per ottenere la fustaia definitiva. I primi tagli di avviamento devono essere attuati
su cedui già abbastanza invecchiati, nei quali cioè si sia verificata una sufficiente differenziazione
dei polloni in ciascuna ceppaia e nel contempo la capacità pollonifera delle ceppaie sia abbastanza
ridotta. L’intensità dei tagli di conversione può variare in genere dal 25 al 35-40 fino anche al 50%
della provvigione. Le intensità più elevate possono essere raggiunte nei cedui in condizioni
stazionali molto favorevoli (elevata fertilità e modesta pendenza) e dove non sussistono altre
limitazioni di carattere ambientale (es. nelle aree protette regolamenti specifici possono limitare
l’intensità dei tagli di avviamento). Ovviamente, a parità di fertilità stazionale, più i tagli sono
leggeri e maggiore dovrà essere la frequenza degli interventi. Generalmente il faggio è in grado di
rispondere bene ai tagli di avviamento alla fustaia e secondo alcuni autori ciò sarebbe da porre in
relazione anche al fenomeno dell’affrancamento dei polloni stimolato dai tagli stessi. Infatti, tale
fenomeno consentirebbe ai polloni di acquisire una vitalità ed una longevità più simile a quella
degli individui nati da seme. I primi tagli di avviamento alla fustaia spesso sono interventi a
“macchiatico negativo” ed i tempi necessari alla conversione, cioè per il passaggio alla fustaia
“definitiva”, sono sempre lunghi (spesso secolari). Comunque, già dopo i primi interventi il bosco
tende ad assumere una configurazione strutturale più simile a quella della fustaia, con vantaggi dal
pov estetico e della fruibilità turistica. Per quanto indicato, queste conversioni sono attuate
soprattutto nelle proprietà pubbliche, con particolare riferimento ai parchi ed alle altre aree di
elevato interesse dal pov paesaggistico e ricreativo. Nelle proprietà private questi miglioramenti
boschivi sono realizzati generalmente solo in presenza di contributi pubblici.

Abies alba – Abete bianco


Caratterizzato da un areale centro europeo diviso in 3
digitazioni: Carpatico-Darniano, Balcanico e Appenninico.
Con spot in Corsica e sui Pirenei. In Italia è presente su tutto
l’arco alpino e sulla dorsale appenninica fino in Aspromonte.
In Sicilia è vicariato dall’Abies nebrodensis (abete dei
Nebrodi), specie oggi minacciata di estinzione. In Italia i
boschi di abete bianco ammontano a circa 68.000 ha dei
quali circa 16.000 ha in Trentino e 14.000 ha in Piemonte.

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L’abete bianco è specie di transizione tra i climi atlantici ed i climi continentali. Infatti, rispetto al
faggio (tipicamente atlantica) l’abete bianco ha esigenze più spostate in senso continentale, in
quanto è più resistente al freddo invernale, meno soggetto alle gelate primaverili, più esigente di
calore estivo e meno favorito da un’elevata umidità atmosferica. Ha una resistenza al freddo
elevata (-25 °C e simile a quella dell’abete rosso), il limite altitudinale deriva dalle esigenze di
calore estivo e dalla sensibilità all’aridità fisiologica determinata dal terreno gelato (le foglie sono
comunque soggette a perdite idriche per traspirazione cuticolare che non sono compensate da
assorbimento radicale). Nell’Appennino centro-meridionale ha un comportamento più termofilo
rispetto alle Alpi in quanto presente il massimo di frequenza nella fascia montana inferiore.
Presenta un apparato radicale profondo ed una traspirazione non particolarmente elevata (minore
di quella del faggio) per cui è potenzialmente idoneo ad eludere la siccità. Però in questa specie la
carenza idrica è spesso accompagnata da infezioni parassitarie (insetti e funghi), favorendo quadri
patologici diffusi soprattutto nell’Europa centrale noti con il termine di “moria dell’abete bianco”.
È specie plastica, senza particolari preferenze circa il tipo di substrato, teme però i suoli superficiali
e quelli idromorfi (abetine eutrofiche, mesotrofiche, oligotrofiche). Infine è tra le specie più sciafile
e la rinnovazione può riprendersi bene anche dopo un lungo periodo di ombreggiamento. Le
provenienze meridionali hanno apparentemente un comportamento più eliofilo rispetto a quelle
settentrionali rinnovandosi bene anche in assenza di copertura, probabilmente per l’effetto della
copertura su fattori ecologici diversi dalla luce.

Tipi di popolamenti (Abetine, Abieteti)


L’abete bianco in natura tende a formare popolamenti misti. Ciò può essere collegato al fatto che
è una specie di transizione tra i climi atlantici e quelli continentali. Procedendo lungo un gradiente
di continentalità crescente troviamo:

 Abieti-Faggeti: nel margine esterno delle Alpi (condizioni esalpiche) e negli Appennini.
Climi ad impronta atlantica abbastanza pronunciata. Nelle Alpi si collocano in senso
altitudinale al di sopra della faggeta, negli Appennini al di sotto della faggeta.
 Abieti-Piceo-Faggeti: nelle aree alpine in climi più spostati in senso continentale rispetto al
caso “A” (condizioni mesalpiche)
 Piceo-Abieteti: nel settore interno delle Alpi, in climi ancora più spostati verso il
continentale rispetto al caso “B” (condizioni endalpiche)

I popolamenti puri di abete bianco sono rari in natura. Nell’Appennino settentrionale sono
presenti abetine pure coetanee di origine antropica e derivano da un trattamento pregresso a
taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata. Nelle abetine pure la rinnovazione naturale
spesso è difficoltosa e secondo alcuni Autori ciò a causa di fenomeni di allelopatia. Nei boschi misti
di abete bianco e faggio si osserva il fenomeno della “rinnovazione incrociata”, cioè l’abete si
rinnova preferibilmente sotto il faggio e viceversa.

24
Gestione
Abetine miste con faggio e/o abete rosso a struttura monoplana

Sono applicabili i tagli successivi su piccole superfici (a gruppi, ad orlo), ovvero il taglio a buche.
Queste forme di trattamento possono tra l’altro consentire di movimentare maggiormente la
struttura; è necessario liberare prontamente la rinnovazione presente sotto copertura in quanto
ciò assicura ritmi di crescita elevati e regolari. La struttura monoplana rende comunque le piante
più soggette a danni meteorici, per cui sono necessari diradamenti (già in fase di spessina) per
evitare che il coefficiente di snellezza superi i valori di 75-80.

Abetine miste con faggio e/o abete rosso a struttura multiplana

In questi casi è applicabile il taglio saltuario, il quale si adatta bene alle caratteristiche ecologiche
dell’abete bianco. È una forma di trattamento assai valida dal pov ambientale, generalmente un
po’ meno efficiente rispetto ai boschi coetanei dal pov produttivo per i costi di utilizzazione più
elevati. Generalmente la disetaneità è realizzata a gruppi più o meno grandi di piante coetanei al
loro interno. Il periodo di curazione può essere 12-15 anni circa. È importante non allungare
eccessivamente tale periodo per evitare la coetaneizzazione della struttura. Con il taglio di
curazione vengono abbattute le piante più grosse e diradati i gruppi di piante delle classi
diametriche inferiori in maniera selettiva, favorendo i soggetti migliori.

Abetine pure coetanee a rinnovazione naturale

Tagli successivi: sono applicati in Francia, ma in forme molto irregolari spesso confinanti con il
taglio saltuario (fustaia disetanea), ciò in quanto le fustaie pure di abete bianco mal si prestano a
questa forma di trattamento poiché la rinnovazione naturale non è agevole. In linea generale, i
tagli successivi prevedono un turno di 120 anni, con un periodo di rinnovazione lungo (15 - 40
anni) e con diradamenti moderati dal basso fino a 40 anni e diradamenti selettivi più intensi dopo i
40 anni (individuando 200-300 piante di avvenire/ha) fino a raggiungere, a 80-100 anni, una
densità finale di 300-400 piante/ha.

Abetine pure coetanee a rinnovazione artificiale

Taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata: in Italia questo trattamento era un tempo
attuato nelle abetine pure della Toscana, con turni di 100 anni e con diradamenti selettivi dal
basso attuati fino a raggiungere una densità finale di 700-800 piante/ha. Oggi nel nostro Paese
questa forma di trattamento ha perso di importanza per il diminuito interesse economico nei
riguardi del legno di abete bianco, nonché per evidenti motivi di ordine ambientale. Il taglio raso è
ancora utilizzato in alcuni paesi dell’Europa centrale ove prevalgono forme colturali fortemente
orientate verso la produzione legnosa.

Miglioramento delle Abetine pure coetanee a rinnovazione artificiale

Taglio a buche: è in fase di sperimentazione per favorire la rinnovazione naturale di altre specie
(faggio, acero di monte, frassino maggiore, ecc.) all’interno delle abetine pure. Con l’obiettivo di
costituire popolamenti misti più naturaliformi.
25
Per il miglioramento delle abetine pure coetanee sono state sperimentate buche di ampiezza D/H=
1/1 - 0,75/1 – 0,5/1. I risultati possono essere diversi in relazione all’ambiente. All’interno della
buca le diverse specie si rinnovano in zone diverse, in relazione alla variabilità spaziale del
microambiente.

Abies nebrodensis – Abete dei Nebrodi


Vicaria l’abete bianco in Sicilia.

Picea abies o P. excelsa – Abete rosso


L’abete rosso è una delle principali specie forestali europee
dal pov della produzione legnosa. Il genere Picea
comprende circa 40 specie, tra le quali l’abete rosso è
quella con più ampio areale naturale. In Europa è presente
anche la P. omorika (monti della Serbia) ed in Asia
anteriore la P. orientalis. In Siberia è presente la P.
obovata, da alcuni ritenuta una ssp. di P. excelsa, mentre
da altri autori ritenuta solo una razza geografica di
quest’ultima. L’areale naturale dell’abete rosso comprende
due nuclei separati, uno baltico-siberiano ed uno alpino-centroeuropeo, con spot disgiunti, tra i
quali in Grecia, relitti nella Germania settentrionale e nell’Appennino settentrionale (Foce di
Campolino e Passo del Cerreto), in relazione ai flussi di ripopolamento postglaciale. In Europa
l’abete rosso è stato ampiamente diffuso anche al di fuori del suo areale naturale per finalità
produttive. In Italia le maggiori realtà produttive forestali dell’arco alpino (Val di Fiemme, Cadore)
fanno riferimento prevalentemente a boschi di abete rosso. In Italia i boschi di abete rosso
occupano una superficie di circa 586.000 ha, con la massima frequenza in Trentino Alto Adige
(circa 310.000 ha), Veneto (96.000 ha), Lombardia (88.000 ha). In Piemonte si segnalano circa
18.000 ha ed altrettanti in Valle d’Aosta. L’abete rosso è specie con una notevole ampiezza
ecologica, anche a seguito della grande variabilità genetica e quindi della differenziazione in razze
geografiche ed in ecotipi. Sulle Alpi è presente sia nel piano montano che nel piano subalpino. È
caratteristico di climi ad impronta più continentale rispetto all’abete bianco. Per l’abete rosso
delle Alpi possono indicarsi i seguenti limiti termici: limite freddo con T media annua 1-1.5 °C e con
2.5 mesi con T media > 10 °C; ottimo di vegetazione con T media annua 3-7 °C e con 3.5 mesi con T
media > 14 °C; limite inferiore della coltura forestale: 18 °C di temperatura media del mese più
caldo. In climi prettamente atlantici la coltura dell’abete rosso presenta problemi legati ad un
precoce invecchiamento delle piante ed alla suscettibilità a parassiti e malattie (es. marciumi
radicali da H. annosum). È molto esigente dal pov idrico ed è sensibile ai danni derivati da annate
siccitose. Peraltro, l’abete rosso presenta una scarsa efficienza d’uso dell’acqua quando il
contenuto idrico del suolo si discosta dai livelli di saturazione. Inoltre, la sensibilità alla siccità è
accentuata dall’apparato radicale superficiale. È specie plastica e può crescere bene su suoli a
reazione acida e su suoli carbonatici. Infine è specie definita di “mezz’ombra” cioè è meno
tollerante l’ombra rispetto all’abete bianco, ma comunque in grado di sopportare, allo stato di
giovane pianta, un ombreggiamento anche prolungato.
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Tipi di popolamenti
 Boschi del piano montano (Peccete montane, 330.000 ha)
 Boschi del piano subalpino (Peccete subalpine, 196.000 ha).

A queste due tipologie corrispondono diverse caratteristiche compositive, strutturali e diverse


potenzialità di rinnovazione dell’abete rosso.

(Fisionomia delle peccete montane e delle peccete subalpine)

Gestione
La plasticità ecologica dell’abete rosso si riflette anche nella possibilità di applicare diversi
trattamenti selvicolturali. Infatti, in relazione alle diverse epoche storiche e situazioni geografiche,
i boschi di abete rosso sono stati soggetti a vari tipi di trattamento (alcuni ormai abbandonati):

Forme di trattamento dei boschi puri e misti di abete rosso a struttura coetanea

Tagli successivi a gruppi: gruppi con superficie max di 0,5 ha. Taglio di sementazione = 30-35%
della provvigione.

Taglio a buche: D buche = 1-1,5 volte l’altezza degli alberi. Superficie max della buca = 2000 m2.

Taglio marginale: tagli a strisce della larghezza di 15-20 m attuati partendo da una situazione di
margine del bosco.

Turno delle peccete coetanee in Italia: 100-120 anni. Nel centro Europa sono invece utilizzati
anche turni di 60-80 anni o anche inferiori (30 anni) in piantagioni a scopo produttivo trattate a
taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata.

Nelle peccete pure monostratificate il problema maggiore è derivato dalla scarsa stabilità delle
piante che può essere accentuata da condizioni di eccessiva densità del popolamento (le
condizioni di instabilità si hanno in corrispondenza di un coefficiente di snellezza ≥ a 100). Si deve
inoltre considerare che l’abete rosso ha una bassa capacità di autodiradamento in quanto specie
non particolarmente eliofila e pertanto mantiene naturalmente una densità elevata. Per questi
motivi, se si intende mantenere la pecceta pura e monostratificata, per aumentare la stabilità del
popolamento sono opportuni diradamenti graduali e frequenti, iniziando già nelle fasi giovanili,
(nella fase di spessina più che in quella di perticaia).

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I primi diradamenti (fase di spessina) saranno volti ad eliminare i soggetti peggiori e
successivamente (fasi di perticaia e successive) a favorire i soggetti migliori liberandoli dalla
competizione delle concorrenti (diradamento selettivo). Se i diradamenti vengono iniziati in età
avanzata, è più opportuno attuare interventi dal basso, per non destabilizzare il popolamento. Nei
casi in cui non si ritenga importante mantenere la pecceta pura, per aumentare la stabilità del
popolamento può essere favorita la mescolanza con altre specie (abete bianco, larice, faggio) e ciò
soprattutto quando queste ultime già tendono ad inserirsi naturalmente nel popolamento di abete
rosso.

Forme di trattamento di peccete miste

Queste possono avere strutture molto diverse in relazione ai trattamenti pregressi. Molte volte
tagli a scelta attuati nel passato hanno favorito strutture disetaneiformi più o meno regolari.
Poiché i popolamenti misti sono più stabili di quelli puri di picea, è opportuno favorire il
mantenimento della mescolanza, ad esempio mediante tagli successivi su piccole superfici (come
per peccete miste con larice e pino silvestre), cercando inoltre di disetaneizzare eventuali gruppi
molto estesi a struttura coetaneiforme (mediante prelievi assimilabili al taglio a scelta).

Peccete miste a struttura disetanea

Nei boschi misti di abete rosso, abete bianco e larice del Cadore è tradizionale il taglio saltuario
(con periodo di curazione di circa 12-15 anni) che viene tuttora attuato in quanto pienamente
corrispondente ai criteri della selvicoltura naturalistica. Si tratta di forme colturali che prevedono
spesso un abbinamento di tagli a scelta per singole piante con interventi assimilabili ai tagli
successivi a gruppi.

Aspetti produttivi

Le produzioni dell’abete rosso possono essere notevoli se le condizioni stazionali sono favorevoli
(in vari paesi europei sono stati osservati incrementi medi ad 80 anni di età spesso superiori ai 10
m3/ha/yr, fino a massimi di circa 20) e ciò giustifica il notevole interesse per questa specie
nell’ambito della selvicoltura produttiva del centro Europa. Peraltro, il legno di abete rosso è assai
pregiato ed è secondo solo a quello di larice per l’idoneità agli impieghi strutturali. Si cita inoltre il
cosiddetto legno “di risonanza” che talvolta si riscontra in individui sparsi all’interno dei
popolamenti e di particolare pregio per la fabbricazione di strumenti musicali.

Forme di trattamento delle peccete un tempo utilizzate in Italia ed oggi abbandonate

 Taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata: (ancora utilizzato nella selvicoltura
produttiva del centro Europa).
 Taglio a fratte: tagli di forma rettangolare di 1-3 ha estesi su un versante (un tempo
utilizzato in Val di Fiemme).
 Taglio raso a strisce: strisce di 30-40 m x 80-120 m lungo le linee di massima pendenza
(utilizzato nella provincia di Bolzano, ancora impiegato in Austria).

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Pinus sylvestris – Pino silvestre
Il pino silvestre è il pino europeo con il più vasto areale di
diffusione naturale. È diffuso in tutte le montagne
dell’Europa centro-orientale, compreso l’arco alpino,
nelle pianure dell’Europa settentrionale ed in tutta la
Scandinavia. In Asia è diffuso in tutta la Siberia, fino alla
Manciuria, dove si differenzia in P. densiflora, mentre nel
Caucaso ed in Turchia si differenzia in P. kochiana.
Presenta areali disgiunti nei Pirenei e nella Spagna
meridionale, in Scozia e in Grecia. In Italia i boschi di pino
silvestre occupano una superficie di circa 147.000 ha, dei quali 54.000 in Trentino Alto Adige,
20.000 ha in Piemonte, 13.000 in Lombardia e 10.000 ha in Valle d’Aosta. È diffuso nelle zone
dell’arco alpino con clima ad impronta continentale (Valle D’Aosta, Valle di Susa, Alta Valtellina,
Val Venosta, Valle Pusteria). Nell’Appennino è presente in Piemonte ed in Liguria, e lembi relitti si
trovano nell’Appennino Emiliano in provincia di Reggio Emilia i quali costituiscono l’area più
meridionale del pino silvestre in Italia. È specie resistente alle basse temperature invernali, ma
necessita di un certo calore estivo e di una stagione vegetativa non troppo lunga. È resistente
all’aridità, indifferente al substrato vegetando bene su suoli sia acidi che carbonatici ed è
spiccatamente eliofila rinnovandosi bene soprattutto allo scoperto. Si tratta pertanto di una specie
rustica e pioniera, colonizzatrice di aree nude e di terreni poveri. Il pino silvestre è una specie
dotata di una ampia plasticità dal pov termico poiché pur essendo specie tipica del piano
montano, può vegetare bene nel piano submontano, con digressioni anche nell’alta pianura (es.
brughiere) e nel piano subalpino (es. margine meridionale delle Alpi marittime). Dato l’ampio
areale di diffusione naturale, si differenzia in numerose razze geografiche, con caratteristiche di
adattamento a diverse condizioni ambientali. Anche in Italia esistono diverse provenienze (es. Val
Pusteria, Olgelasca dalle brughiere lombarde, Ceriana dalla Liguria, Casina dall’Appennino
reggiano) e ciò deve essere attentamente considerato nel caso di rimboschimenti. L’attitudine alla
produzione legnosa (velocità di crescita e morfologia del fusto e della chioma) è considerata
superiore nelle provenienze settentrionali (nord Europa) e decrescente con il diminuire della
latitudine. In nord Europa è oggetto di numerosi studi di miglioramento genetico ai fini produttivi.

Tipi di popolamenti
Il pino silvestre può formare popolamenti stabili oppure popolamenti transitori:

 Le pinete stabili sono quelle ubicate in condizioni ecologiche molto difficili, nelle quali solo
il pino silvestre riesce a rinnovarsi. Ad esempio:
o Pinete di rupe (su costoni rocciosi);
o Pinete su falde detritiche;
o Pinete su substrati serpentinosi (Valtournanche, Val d’Ayas);
o Pineta di brughiera o “baraggia” (Lombardia, Piemonte);
o Pinete su morene (Alto Adige) [in ambiente continentale];
o Pinete di greto (valle di Susa) [in ambiente continentale].
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 Le pinete transitorie sono quelle ove il pino silvestre (specie pioniera) tende gradualmente
ad essere sostituito dalle specie più esigenti (specie mesofile definitive). Ad esempio:
o Pinete su ex coltivi o pascoli abbandonati;
o Pinete su terreni ove il precedente popolamento forestale, costituito da specie
definitive, è stato distrutto da un disturbo occasionale: taglio raso, incendio, frana…

Gestione
Nei paesi nordici spesso le pinete sono trattate a taglio raso con rinnovazione naturale posticipata,
ovvero a taglio raso con riserve per ottenere la rinnovazione naturale. In Italia, per ridurre
l’impatto ambientale sono stati proposti tagli a buche di 500 m2 oppure tagli a strisce di 20 x 50 m.
Nelle pinete coetanee monostratificate sarebbero necessari anche opportuni diradamenti che
però spesso vengono trascurati per motivi economici (Alto Adige). I tagli successivi su piccole
superfici (a gruppi ad orlo) sono applicati in Piemonte, con un taglio di sementazione attuato
asportando il 60-70% della massa ed un periodo di rinnovazione di 10-30 anni. Nelle pinete
transitorie, il taglio a scelta del pino silvestre può favorire la rinnovazione delle specie definitive,
meno eliofile del pino stesso.

Modulo colturale del pino silvestre nelle pinete su morene in provincia di Bolzano

- Turno: 100-110 anni


- Intervento di rinnovazione: taglio a strisce o a buche di 1000-3000 m2; taglio marginale
- Tagli intercalari: sfollamento a 10-12 anni con eliminazione del 50% delle piante;
diradamento all’età di 40-50 anni riducendo il n. delle piante a 1200-1500 /ha
- Massa finale: 300-350 m3/ha con D medio di circa 22-25 cm

Modulo colturale del pino silvestre in Scandinavia

- Intervento di rinnovazione: taglio raso su 18-20 ha con fuoco prescritto e/o scarificazione
del suolo e piantagione artificiale; taglio raso con riserve e rinnovazione naturale.
- Tagli intercalari: uno sfollo quando la spessina ha raggiunto i 3-5 m di altezza; uno o due
diradamenti commerciali altamente meccanizzati.
- Taglio finale con piante di D medio pari a circa 35 cm

Modulo colturale del pino silvestre in Spagna

- Turno: 70-80 anni


- Intervento di rinnovazione: tagli successivi o taglio raso con riserve (30-40 /ha). Eventuale
scarificazione del suolo per favorire la rinnovazione naturale. Taglio di sgombero o
eliminazione delle riserve dopo 5-6 anni.
- Tagli intercalari: sfollamento a 15-20 anni; diradamenti con cadenza decennale (a 20-30-40
anni di età) con asportazione complessiva fino al 40% dell’area basimetrica.
- Massa finale: 400-600 m3/ha

Pinus heldreichii o Pinus leucodermis – Pino loricato

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Pinus nigra – Pini neri
Il termine di Pinus nigra comprende un gruppo di 4 entità genetiche distinte (sottospecie) a loro
volta ulteriormente suddivise in varietà. Le entità tassonomiche indigene del nostro Paese sono il
P. nigra var. austriaca (Pino nero d’Austria) indigeno in alcune aree del Friuli e del Veneto, il P.
nigra var. italica (Pino nero di Villetta Barrea) indigeno in alcune aree dell’Abruzzo, della Basilicata
e della Calabria, ed il P. laricio var. calabrica (Pino laricio) indigeno in Calabria ed in Sicilia nella
zona dell’Etna.

 Pinus clusiana  Pinus laricio


o P. mauretanica (N Africa) o P. corsicana (Corsica)
o P. salzmanni (S Francia) o P. calabrica (Calabria e Sicilia)
o P. hispanica (Spagna)  Pinus nigricans
 Pinus pallasiana o P. austriaca (Austria, Slovenia,
o P. banatica (N Romania) Friuli e Veneto)
o P. tatarica (Crimea) o P. illyrica
o P. caramanica (Turchia) o P. dalmatica (costa dalmata)
o P. fenzlii (Cipro) o P. pindica (Grecia)
o P. italica (Abruzzo)

I pini neri presenti in Italia prediligono climi ad impronta atlantica (circa come il faggio), il pino
nero d’Austria è però più resistente al freddo rispetto al pino laricio, che è relativamente più
termofilo. Nelle aree di indigenato il clima è abbastanza piovoso, con almeno 80-100 mm di piogge
nel periodo estivo. Il pino nero d’Austria ed il pino di Villetta Barrea vegetano su suoli carbonatici
anche molto superficiali e poveri e si adattano anche alle “rocce verdi” (serpentini, ecc..).
Il pino laricio cresce su suoli relativamente più fertili a reazione subacida, provenienti da graniti
arenarie, ecc..). Sono specie eliofile, che possono rinnovarsi soprattutto in piena luce, anche se
tollerano una certa copertura laterale nella fase giovanile. I pini neri sono quindi specie pioniere,
che sono state utilizzate fino ai secoli passati per il rimboschimento di aree degradate.

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In Italia si stimano circa 235.000 ha di pini neri, dei quali 115.000 ha nelle aree di indigenato
(soprattutto in Friuli Venezia Giulia ove il P. nigra var. austriaca copre una superficie di circa 30.000
ha ed in Calabria, ove il P. laricio copre una superficie di circa 74.000 ha) e 120.000 ha di
rimboschimenti attuati in prevalenza nel periodo dagli anni “20 agli anni “50.

Gestione
La selvicoltura dei pini neri riguarda prevalentemente:

- La conservazione del pino nelle aree di indigenato;


- La gestione dei rimboschimenti secondo le opportunità locali.

Per la conservazione del pino nero austriaco nelle aree di indigenato sono generalmente
sufficienti leggeri interventi volti a favorire i nuclei di rinnovazione naturale presenti, liberandoli
dalla copertura superiore. Per il pino laricio la rinnovazione naturale può essere ottenuta con tagli
rasi a strisce (larghe 30 x 100 m) ed a buche (del diam. di circa 40 m), il sommovimento del terreno
dovuto alle operazioni di esbosco favorisce la rinnovazione stessa.

La gestione dei rimboschimenti di pino nero prevede generalmente la sostituzione del pino con le
latifoglie della corrispondente fascia climatica. Spesso queste già naturalmente si insediano
all’interno della pineta adulta e possono essere ulteriormente favorite con diradamenti del pino.
Solo nelle situazioni meno fertili può essere previsto il mantenimento del pino come protezione
idrogeologica. I rimboschimenti di pino laricio possono essere utilizzati per la produzione legnosa,
mantenendo e rinnovando naturalmente il pino con tagli rasi a buche. Nei casi in cui si assiste ad
un ingresso spontaneo delle latifoglie queste possono essere favorite con diradamenti del pino.

Betula pendula – Betulla


La Betula pendula (o Betula alba var. verrucosa) è la
specie di betulla più diffusa in Europa ed in Italia; è
presente in tutto l’emisfero euroasiatico, dove
caratterizza il paesaggio delle foreste boreali, e lungo
tutto l’arco alpino. In Italia è presente anche la B.
pubescens (o B. alba v. pubescens), specie non molto
frequente caratteristica degli ambienti umidi palustri o
torbosi subalpini. Nel meridione si segnala la Betula
pendula var. aetnensis sull’Etna verso il limite della
vegetazione arborea. La B. pendula è presente particolarmente in Piemonte (circa 30.000 ha di
betuleti e boschi montani pionieri su un totale in Italia di circa 55.000 ha) ed in Lombardia (14.000
ha); si ritrova inoltre nell’Appennino settentrionale, in alcune stazioni isolate in Abruzzo,
nell’Appennino campano e sull’Etna. La betulla dimostra una grande ampiezza termica e può
vegetare fino a circa 2000 m di quota nel piano subalpino (negli ontaneti, nei lariceti e al margine
delle peccete), nel piano montano (nelle pinete di pino silvestre e nei cedui di faggio sui suoli acidi)
e nel piano basale (nei querceti su suoli acidi, nei castagneti e in Appenino nei cedui di cerro).
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Ciò anche in riferimento ad una ampia variabilità intraspecifica con la differenziazione di ecotipi
diversamente adattati. Sopporta valori di pH del suolo fino a 3,3. Si adatta a terreni poveri di
humus, a suoli con un profondo strato di materiale organico, a suoli ricchi di acqua (è in grado di
trasportare ossigeno dalla parte epigea alle radici), a suoli molto drenati (ha radici profonde, in
grado di assorbire acqua dagli strati più profondi del suolo). È spiccatamente eliofila ed il seme, di
piccole dimensioni, germina bene sul terreno minerale. Ha una buona capacità pollonifera ed è in
grado di produrre anche polloni radicali. Possiede un’elevata capacità colonizzatrice, soprattutto in
terreni acidi o acidificati, favorita dall’abbondante produzione di seme e dalla facoltà pollonifera.

Tipi di popolamenti
 Betuleti stabili: sfasciumi di rocce silicee, canaloni da valanga, ecc. in aree del piano
montano e subalpino
 Betuleti secondari o transitori: aree abbandonate dall’agricoltura o interessate da disturbi
che non abbiano radicalmente alterato il suolo, aree di brughiera.

Gestione
In relazione alle sue peculiarità ecologiche, la betulla è spiccatamente pioniera e la sua diffusione è
stata favorita dall’abbandono delle aree agricole e dagli incendi. In Piemonte questi fenomeni
hanno talvolta consentito l’insediarsi di boschi di neoformazione puri o a grande prevalenza di
betulla ed attualmente in una fase di evoluzione più o meno naturale, ma per i quali può porsi il
problema della gestione selvicolturale. In vari paesi esteri (es. Scandinavia, Scozia e Russia) il legno
della betulla viene ampiamente utilizzato per vari usi, soprattutto per paste da carta, ma anche
per tranciati e compensati. Pertanto in questi paesi la betulla presenta un notevole interesse dal
pov selvicolturale, mentre in Italia sono ancora scarse le esperienze in tal senso. Le opzioni
selvicolturali ipotizzabili per i boschi di neoformazione di betulla in Italia sono le seguenti:

Mantenimento della betulla ai fini produttivi: con turni di circa 40-50 anni e con diradamenti
progressivi fino ad una densità di circa 300-500 piante/ha. La rinnovazione naturale del bosco di
betulla richiederebbe però il taglio raso con riserve, con i connessi problemi di carattere
ambientale. All’età di 25-30 anni le provvigioni misurate sono state di 150-300 m3/ha e gli
incrementi medi di 5-7 m3/ha/yr.

Sostituzione della betulla con le specie definitive: il bosco di betulla riveste il significato di fase
pioniera e transitoria verso il ritorno del bosco definitivo. L’evoluzione può essere accelerata
mediante diradamenti o tagli a piccole buche nella fustaia matura di betulla in grado di favorire
l’ingresso delle specie definitive meno eliofile rispetto alla betulla.

La scelta tra le due opzioni deve avvenire sulla base delle caratteristiche stazionali (possibilità di
ingresso delle specie definitive) e delle opportunità locali di carattere produttivo e/o ambientale.

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Le latifoglie “Nobili”
Si tratta di latifoglie generalmente di grandi dimensioni che possono ritrovarsi sia nel piano
submontano che in quello montano. Sono specie mesofile, esigenti dal pov edafico, soprattutto
per quanto riguarda la disponibilità idrica e le caratteristiche fisiche del substrato. Sono
caratterizzate da un legno di elevato valore tecnologico e per questo sono definite anche latifoglie
con legno di pregio. Si ritrovano allo stato più o meno sporadico in differenti formazioni forestali e
solo in certi casi alcune di queste specie formano popolamenti di una certa estensione. Per questo
si definiscono latifoglie nobili, cioè poco socievoli (ciò in relazione a fenomeni di concorrenza
interspecifica ed alla complessa biologia del seme, che presenta stati di profonda dormienza). Le
principali latifoglie nobili sono:

 Acer pseudoplatanus – Acero montano  Tilia platyphyllos – Tiglio nostrano


 Acer platanoides – Acero riccio  Tilia cordata – Tiglio selvatico
 Fraxinus excelsior – Frassino maggiore  Ulmus glabra – Olmo montano
 Prunus avium – Ciliegio selvatico

Acer pseudoplatanus e Acer platanoides – Acero montano e Acero riccio


L’acero montano e l’acero riccio sono specie diffuse in gran
parte dell’Europa centro orientale. Sono entrambe specie
tipiche dei boschi montani e submontani (querceti, faggete,
peccete). In Italia l’acero montano presenta una diffusione
maggiore rispetto all’acero riccio, ciò soprattutto nelle regioni
meridionali. In condizioni favorevoli l’acero montano può
manifestare anche caratteristiche di invadenza, in quanto
specie in grado di resistere a condizioni di parziale aridità, non
molto esigente in termini di azoto, adattabile ai suoli acidi e
dotata di uno sviluppo giovanile relativamente veloce. Inoltre,
è specie non particolarmente eliofila, per cui può rinnovarsi
naturalmente anche sotto parziale copertura. Teme però il
ristagno idrico e quindi i suoli argillosi e compatti. L‘acero
montano è, insieme al frassino maggiore, una delle specie
maggiormente in grado di colonizzare gli ex-coltivi ed ex-
pascoli abbandonati della fascia montana e submontana.
L‘acero riccio è specie considerata più esigente dal pov edafico
di umidità del suolo e dell‘aria rispetto all‘acero montano
e presenta una diffusione generalmente più sporadica
rispetto a quest‘ultima specie.

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Fraxinus excelsior – Frassino maggiore
Il frassino maggiore è specie anch’essa con un vasto areale
europeo, che presenta affinità con l’acero montano, ma
rispetto a quest’ultimo è dotato di una maggiore igrofilia
(arriva a sopportare anche 50 giorni di sommersione), una
minore adattabilità ai suoli acidi ed una maggiore capacità di
adattamento ai terreni argillosi. Inoltre, il frassino maggiore
presenta una notevole plasticità ecologica, ritrovandosi allo
stato spontaneo in boschi di pianura (querco carpineti),
nonché in boschi del piano submontano e montano (in consociazione con querce
e faggio). È specie abbastanza tollerante l’ombra nella fase giovanile e quindi
può rinnovarsi facilmente nei querceti radi e nelle radure delle faggete. Si
rinnova bene anche negli ex coltivi abbandonati.

Prunus avium – Ciliegio selvatico


Il ciliegio selvatico è specie con areale che si estende dal nord
Africa alla parte meridionale della penisola scandinava. In
Italia è presente nei boschi montani e submontani ed è stato
ampiamente diffuso allo stato colturale. È specie eliofila, più
resistente all’aridità dell’acero montano, resistente alle
gelate tardive e ai freddi invernali. Può adattarsi a differenti
tipi di substrato temendo solo i terreni troppo compatti in
quanto molto sensibile al ristagno
idrico. In linea generale il ciliegio è, tra le latifoglie nobili, quella con
maggiore ampiezza ecologica, potenzialmente adattabile a molte aree della
fascia basale, submontana e montana. Il ciliegio può riprodursi per via
agamica attraverso polloni radicali e ciò può favorirne la diffusione negli ex-
coltivi.

Tilia platyphyllos e Tilia cordata – Tiglio nostrano e Tiglio selvatico


Il tiglio nostrano e quello selvatico presentano un areale
centro-europeo, più espanso verso nord e verso est per il tiglio
selvatico rispetto a quello
nostrano. Il tiglio nostrano
(platyphyllos) presenta
notevoli analogie ecologiche
con l’acero montano, mentre
quello selvatico (cordata) è più
esigente in termini di calore
estivo e quindi più adattato a climi ad impronta continentale,
nonché più resistente all’aridità e più adattabile ai suoli acidi.
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Il tiglio nostrano è più frequente nei boschi di faggio ed abete bianco, mentre il tiglio selvatico e
maggiormente diffuso in ambienti più termofili, come i boschi di querce del piano submontano.

T. platyphyllos  T. cordata

Ulmus glabra – Olmo montano


L’olmo montano è specie con areale particolarmente esteso,
dalla Spagna agli Urali e dalla Scandinavia alla Sicilia. In Italia
partecipa alla costituzione degli acero-frassineti e può
ritrovarsi sporadico nelle faggete. Attualmente è specie
minacciata dalla grafiosi (tracheomicosi diffusa da coleotteri
scolitidi) unitamente all’olmo campestre (U. campestris) altra
specie del gen. Ulmus tipica del piano basale. Ma mentre
l’olmo campestre può conservare una certa vitalità nonostante la malattia,
mediante l’emissione di numerosi polloni, l’olmo montano presenta una
capacità pollonifera inferiore ed è quindi maggiormente esposto ad una
progressiva rarefazione a seguito della malattia.

Tipi di popolamenti
 Aceri – frassineti: popolamenti del piano montano o submontano ubicati in suoli profondi,
fertili e freschi localizzati nella parte bassa dei versanti esposti a nord. In queste condizioni
il soprassuolo è dominato da aceri e da frassino maggiore, con partecipazione di tiglio
platifillo e di olmo montano, mentre le altre specie della corrispondente fascia di
vegetazione (abete bianco, abete rosso, faggio, querce, ecc..) risultano subordinate.
 Tilio – acereti: formazioni simili alle precedenti ma in condizioni più termofile (fascia
basale) e su rocce carbonatiche, il tiglio cordato sostituisce il platifillo. Queste due tipologie
forestali coprono in Italia circa 153.000 ha (51.000 ha in Piemonte)
 Aceri – faggeti: formazione più tipica delle aree Appenniniche, soprattutto nelle zone
vicine ai crinali poco accidentati, dove i suoli sono ancora abbastanza evoluti, ma dove il
faggio riduce il suo potere di concorrenza, a vantaggio dell‘acero montano, in seguito alle
più difficili condizioni climatiche

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La gestione dei boschi alpini di latifoglie per la produzione di legname di qualità
Anche nel settore dei prodotti legnosi la tendenza attuale è quella di premiare la qualità rispetto
alla quantità (nella Alpi orientali la variazione di prezzo dei segati 1995-2005 è stata del + 7% per la
qualità elevata e del – 63% per le qualità inferiori). Realizzazione di assortimenti di pregio da
specie quali castagno, faggio e latifoglie nobili. Possibili scelte operative alternative alla
tradizionale selvicoltura di popolamento:

Selvicoltura d’albero: Individuare precocemente i soggetti migliori effettuando solo su di essi le


cure colturali.

1. Fase di qualificazione: con interventi limitati lasciando che la competizione evidenzi i


soggetti d’élite.
2. Fase di crescita o di dimensionamento: con attuazione di diradamenti selettivi dall’alto per
stimolare la crescita diametrale dei soggetti d’élite.
3. Fase di maturazione: nella quale si raccolgono progressivamente le piante che giungono a
maturazione.

Vantaggi: possibilità di regolare con le cure colturali la mescolanza specifica, la dinamica generale
e la stabilità del popolamento.

Svantaggi: costi molto elevati dovuti alla notevole frequenza degli interventi (anche ogni 5-6
anni), difficoltà collegate al taglio delle piante mature e competenze tecniche necessarie.

Caratteri da osservare per la scelta dei candidati:

- Danni: marciumi (soprattutto al colletto), cretti, cicatrici;


- Forma del fusto: eccentricità, sinuosità, portamento verticale o inclinato, fibratura deviata,
altezza biforcazione (sopra o sotto 5-6 m), tipo biforcazione (a V o a U);
- Forma della chioma: simmetria della chioma;
- Toppo fino a 5-6 m: presenza di rami morti, presenza di rami vivi.

Altre latifoglie del piano montano


 Sorbus domestica – Sorbo domestico
 Sorbus aria – Sorbo montano o farinaccio
 Sorbus torminalis – Ciavardello
 Sorbus aucuparia – Sorbo degli uccellatori
 Salix caprea – Salicone
 Populus tremula – Pioppo tremolo
 Laburnum anagyroides – Maggiociondolo
 Alnus incana – Ontano bianco

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Generalità sulla selvicoltura nel piano subalpino
 Aspetti climatici: temperatura e lunghezza ciclo vegetativo sono i principali fattori limitanti
 Aspetti vegetazionali: orizzonte delle conifere microterme
 Influenze antropiche: modifiche della composizione specifica e strutturale
 Finalità: difesa del suolo, conservazione e miglioramento degli aspetti naturalistici e
paesaggistici, difesa di infrastrutture da calamità naturali. La produzione legnosa oggi è di
importanza secondaria.

La fascia subalpina: In Italia è esclusiva delle Alpi e comprende i boschi della catena alpina che
arrivano al limite della vegetazione arborea e pertanto
corrisponde generalmente a condizioni climatiche ed edafiche
difficili per la vita dei vegetali. All’interno di questa fascia si
possono avere diverse condizioni climatiche, da spiccatamente
continentali a spiccatamente sub-atlantiche con varie fasi
intermedie di transizione, in relazione all’altitudine e alla
posizione nell’ambito della catena alpina. Il tipo climatico
influisce anche sul limite superiore della vegetazione arborea e
quindi sull’ampiezza della fascia stessa (valori orientativi: da
1400-1500 a 2400 m s.l.m. nelle Alpi occidentali; da 1500 a 2000
m s.l.m. in Trentino e da 1600 a 1800 m s.l.m. nelle Alpi Carniche
e Giulie). Uno degli aspetti più rilevanti dal pov ecologico è
costituito dalla brevità della stagione vegetativa che varia da 100
a 70 giorni. Le gelate e gli abbassamenti di temperatura fuori
stagione costituiscono inoltre un disturbo quasi costante che
influisce sui processi vegetativi e riproduttivi delle piante. Le
specie arboree più rappresentate sono le conifere microterme:

 Picea abies – Abete rosso


 Larix decidua – Larice
 Pinus cembra – Pino cembro
 Pinus montana – Pino montano
o Pinus uncinata – Pino uncinato
o Pinus mugo – Pino mugo

Possono essere presenti anche:

 Pinus sylvestris – Pino silvestre


 Abies alba – Abete bianco

Tra le latifoglie arboree presenti (con portamento più o meno arbustivo) si citano:

 Populus tremula – Pioppo tremulo  Alnus spp. – Ontani


 Betula spp. – Betulle  Salix spp. – Salici
 Sorbus aucuparia – Sorbo degli uccellatori

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Le particolari condizioni climatiche della fascia subalpina determinano le caratteristiche biologiche
(lento accrescimento, difficoltà di rinnovazione) e strutturali (struttura orizzontale a collettivi) dei
boschi presenti e quindi anche il tipo di selvicoltura che può essere attuato.

Picea abies – Abete rosso


In Italia vi sono 196.000 ha di pecceta subalpina dei quali 136.000 ha in Trentino Alto Adige,
19.000 ha in Lombardia, 11.000 ha in Valle d’Aosta e 5.000 ha in Piemonte. Nel piano subalpino e
soprattutto nel piano subalpino superiore la selvicoltura dell’abete rosso deve considerare
l’influenza delle particolari condizioni climatiche sulle caratteristiche evolutive delle cenosi
forestali, nonché le funzioni svolte dai boschi posti in prossimità del limite della vegetazione
arborea. Rispetto a quanto avviene nella sottostante fascia montana, nel piano subalpino le
dinamiche sono generalmente rallentate, la rinnovazione naturale trova maggiori difficoltà ad
affermarsi e gli accrescimenti annuali sono inferiori.

La rinnovazione naturale dell’abete rosso nel piano subalpino

Nel piano subalpino la quantità e la qualità del seme prodotto decresce rispetto al piano montano
e l’accrescimento dei semenzali è più lento. Terreni torbosi o con cotico erbaceo infeltrito
ostacolano la rinnovazione di abete rosso, che invece può trovare substrati più favorevoli nei suoli
minerali scoperti, nei terreni coperti da muschio e nel legno marcescente derivato da vecchie
ceppaie. Le buche di dimensioni molto piccole sono in genere sfavorevoli alla rinnovazione
dell’abete rosso in quanto in esse la neve tende a permanere a lungo. Nella colonizzazione dei
pascoli abbandonati la rinnovazione dell’abete rosso si presenta spesso a “collettivi” o “cespi”,
cioè con gruppi di fusti ravvicinati (da 3 a oltre 20) che costituiscono un insieme unitario dal pov
biologico, con una chioma ed un apparato radicale praticamente unici. Questi collettivi possono
derivare dal morso degli animali, dall’attecchimento di più semenzali in micrositi particolarmente
favorevoli alla rinnovazione, dalla radicazione di rami striscianti. Essi conferiscono alle singole
piante particolari caratteristiche di elasticità ed impediscono l’accumulo di grandi masse compatte
di neve. Dal pov selvicolturale devono essere considerati come un unico individuo.

Gestione
Nei boschi del piano subalpino che svolgono prevalentemente funzioni di protezione, la presenza
dell’abete rosso in mescolanza con altre specie (es. P. cembra e Larix) può essere utile in quanto
l’abete presenta una buona capacità di trattenuta della neve, un accrescimento più veloce rispetto
al pino cembro ed una buona tendenza a formare collettivi, strutture efficaci dal pov protettivo.
Deve però essere considerata la scarsa profondità delle radici che può ridurre la stabilità delle
piante. Nei tagli di rinnovazione e negli eventuali diradamenti è importante individuare dei
collettivi che diano garanzie di stabilità, costituiti da piante sane e con chioma bassa, meglio in
grado di assicurare l’efficacia protettiva del bosco. In linea generale, con i tagli di rinnovazione è
importante concentrare l’energia radiante sui gruppi di novellame eventualmente già presenti,
ovvero nelle aree dove sono frequenti microstazioni potenzialmente favorevoli alla rinnovazione.
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In certi ambienti (es. peccete subalpine a megaforbie), è stata proposta l’applicazione di tagli a
“fessura”, aprendo fessure di larghezza non superiore a circa ⅓ dell’altezza degli alberi, disposte
trasversalmente alla massima pendenza ed orientate preferibilmente verso il sole del mattino
(valli continentali) o del pomeriggio (valli suboceaniche). È però necessario valutare il rischio
costituito dall’accumulo della neve nelle aperture che può favorire il distacco di valanghe.

Larix decidua – Larice


Conifera decidua che nel piano subalpino superiore si consocia al
pino cembro ed in quello inferiore all’abete rosso, insieme al quale
può penetrare anche nella fascia montana. Ha distribuzione
tipicamente alpina, dalle Alpi Marittime fino alle Alpi Giulie, con
areali disgiunti nei Sudeti e nei Carpazi fino alla Romania, con relitti
presenti anche in Polonia. Ad est è vicariato dal Larice siberiano (L.
sibirica). In Italia il larice è presente allo stato spontaneo in tutte le
regioni alpine, con una superficie complessiva dei boschi a
partecipazione di larice di circa 382.000 ha (dei quali circa 116.000 ha di lariceto in fustaia chiusa
ed il resto in boschi misti con il pino cembro ed altre conifere del piano subalpino), con estensioni
massime in Trentino Alto Adige (154.000 ha) ed in Piemonte (81.000 ha). È specie microterma e
fortemente eliofila, adattata a climi ad impronta continentale. Rifugge le aree con elevata umidità
atmosferica, ma anche quelle con scarsa piovosità estiva. La fioritura, che è anticipata rispetto alla
fogliazione, può essere danneggiata da gelate primaverili. Le foglie completamente costituite
possono essere danneggiate da gelate di -2/-3 °C mentre la pianta può sopportare freddi invernali
fino a –35 °C. È specie pioniera indifferente al substrato, teme solo i suoli compatti con ristagno
idrico, nei quali soffre facilmente di asfissia radicale. Presenta un apparato radicale assai profondo
ed è specie longeva. La fisiologia è condizionata dalla perdita invernale degli aghi. Il ridursi della
stagione vegetativa deve essere compensato da una maggiore assimilazione, per cui il larice
mantiene alti tassi di traspirazione (stomi aperti) anche in presenza di forti venti e si avvantaggia di
buoni apporti termici durante l’estate. Pertanto necessita di un elevato approvvigionamento idrico
e le giovani plantule temono fortemente la competizione idrica esercitata dalle altre specie
erbacee o arboree. Le piante adulte possono più facilmente rifornirsi di acqua mediante il
profondo apparato radicale. Alle quote più elevate è limitato dallo scarso calore estivo e dalla
permanenza della neve nel suolo. Nei climi atlantici è limitato invece dalla minore possibilità di
traspirare e dalla maggiore suscettibilità a patologie fungine (cancro, ruggini, ecc.) ed al
lepidottero defogliatore C. laricella. Il larice costituisce quindi una tipica specie colonizzatrice dei
suoli disturbati dove non è presente competizione da parte di altre specie erbacee od arboree.

La rinnovazione naturale del larice

Il larice è incapace di rinnovarsi sotto copertura ed i giovani semenzali necessitano di terreno


minerale in quanto il seme è molto piccolo e povero di sostanze di riserva e pertanto la plantula
non riesce a perforare uno strato spesso di lettiera.

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Per lo stesso motivo il larice fatica a rinnovarsi nei pascoli, dove il terreno è compatto ed è
presente uno spesso cotico erboso. Pertanto, in ambiente alpino è una delle specie maggiormente
in grado di colonizzare terreni nudi e degradati (frane, alluvioni, aree incendiate o soggette ad
erosione superficiale a seguito del taglio raso del bosco preesistente, terreni agricoli abbandonati
ecc.). Ciò, soprattutto in passato, ha favorito la diffusione di questa specie.

I boschi di larice

Il larice, per le sue caratteristiche di specie pioniera, per la sua chioma leggera e decidua (che
lascia filtrare molta luce e quindi consente lo sviluppo di un consistente sottobosco erbaceo),
nonché per l’ottima qualità del legno, è stato tipicamente utilizzato nel contesto di una economia
silvopastorale alpina. Spesso è stato particolarmente favorito e fino agli anni “40 ampiamente
utilizzato nei rimboschimenti del piano montano e subalpino. In relazione a ciò, in Piemonte la
maggior parte (2/3) dei lariceti sono allo stato puro e spesso monostratificati. Oggi però questa
economia silvopastorale è in fase di forte contrazione e ciò influisce sull’evoluzione dei lariceti puri
i quali in genere non sono cenosi definitive, ma piuttosto boschi di transizione in evoluzione verso
altre formazioni forestali a partecipazione di pino cembro, pino uncinato, abete rosso, abete
bianco, pino silvestre, ecc. a seconda dei casi.

Tipi di popolazioni – Lariceti


 Lariceto primario: in aree rupestri del piano subalpino a clima continentale
 Lariceti secondari: su pascoli/prati ancora utilizzati o abbandonati o disturbati:
o Lariceti in cui può facilmente avvenire la successione con altre specie (abete rosso e
pino cembro)
o Lariceti in cui il larice non riesce a rinnovarsi e mancano le altre specie colonizzatrici
(abete rosso e pino cembro)
o Lariceti su peccete o cembrete disturbate (valanghe, schianti da vento, ecc.)

Tipi di popolazioni – Larici-cembreti


 Larici-cembreto primario: in aree rupestri del piano subalpino a clima continentale
 Larici-cembreto secondario: in aree del piano subalpino e del piano montano superiore
dove è stata abbandonata l’attività alpicolturale; può entrare anche l’abete rosso nei casi in
cui questo è più competitivo (es. al di sotto dei 1800 m s.l.m.).

Gestione
In passato la forma tipica di trattamento dei lariceti era il taglio raso con rinnovazione artificiale
posticipata e con tagliate dell’estensione di 3-5 ha, che però oggi è stata quasi completamente
abbandonata. Successivamente si è evoluta una forma di trattamento che prevede il taglio raso su
superfici inferiori all’ettaro (0,3-0,5 ha), con tagliate di forma irregolare per ridurre l’impatto visivo
e la lavorazione superficiale del suolo per favorire la rinnovazione naturale. Un’ulteriore
evoluzione del metodo selvicolturale, adattabile anche ai larici-cembreti, prevede un taglio a
piccole buche, prelevando singoli collettivi per creare nuclei di rinnovazione e mantenere così una
struttura orizzontale a gruppi.
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L’apertura delle buche può avvenire cercando di regolare il periodo di irraggiamento diurno ad es.
mediante l’uso dell’orizzontoscopio o bussola solare. Per favorire ulteriormente la rinnovazione del
larice il terreno delle buche può essere sottoposto ad una leggera lavorazione superficiale. La
rinnovazione artificiale potrebbe essere impiegata solo nei casi peggiori, ove non è possibile
lavorare il terreno. Le superfici in rinnovazione devono sempre essere protette dal pascolo. Sia nel
piano montano che in quello subalpino, nei lariceti puri viene favorito il graduale reingresso in
mescolanza con il larice delle altre specie tipiche delle corrispondenti fasce di vegetazione, per
pervenire a boschi misti, possibilmente pluristratificati e dotati di maggiore stabilità. Dove l’abete
rosso tende a sostituire completamente il larice non è sempre opportuno accelerare tale
sostituzione, in quanto la conservazione del larice può essere consigliabile dal pov economico
(valore del legname) e della stabilità del popolamento.

Pinus cembra – Pino cembro


Presenta una distribuzione quasi esclusivamente alpina, con areali
disgiunti nei Carpazi (dove si trova a quote inferiori rispetto alle
Alpi) e in Asia è vicariato dal P. sibirica che in estremo oriente si
differenzia in P. pumila. In Italia lo si ritrova in boschi puri o, più
frequentemente, in formazioni miste con altre conifere del piano
subalpino (larice, pino uncinato, abete rosso).

Estensione dei Larici-cembreti In Italia (ha)

 VdA: 36.700  Lombardia: 9.600


 Piemonte: 20.300  Alto Adige: 49.400  Veneto: 5.900
 Trentino: 15.100  Friuli v.g.: 1.800

In Piemonte si trovano circa 1500 ha di cembrete pure o quasi pure (es. val Varaita). Trova l’ottimo
in climi ad impronta continentale, indifferente al substrato, nella fase giovanile tollera una
copertura rada, nella fase adulta è spiccatamente eliofilo. Nelle Alpi è presente con una
distribuzione discontinua soprattutto al di sopra dei 1600 m s.l.m. e nelle aree a clima
spiccatamente continentale. Alle quote inferiori e dove il clima è meno continentale la diffusione
del pino cembro può essere limitata da:

- Competizione con l’abete rosso - Danni alla chioma da neve “bagnata”


- Patologie fungine che possono condurre a - Squilibrio tra fotosintesi e traspirazione
morte i semenzali derivato da eccessivo calore.

La rinnovazione naturale del pino cembro

Allo stato iniziale la rinnovazione naturale sopporta un leggero ombreggiamento (determinato da


larice o da cespugli), oltre 1-2 m di altezza deve invece vegetare in pieno sole. In presenza di forti e
prolungati innevamenti i semenzali possono essere danneggiati da funghi criofili (es. P. infestans).
La rinnovazione può essere facilitata dall’azione di un uccello, la nocciolaia (N. caryocatactes), che
raccoglie i semi e li deposita in buchette nelle posizioni con minore innevamento.

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Tipi di popolazioni
 Larici-cembreto: eventualmente con abete rosso od ontano verde
 Cembreta pura: di solito sono formazioni di modesta ampiezza (< 5000 m2), raramente
occupano ampie superfici (Alto Adige e Piemonte), si trovano a quote > 1800 m s.l.m. (dove
l’abete rosso è meno competitivo), lungo versanti non molto acclivi e poco esposti a frane
o valanghe (forse in aree poi destinate al pascolo)

Gestione
In passato il pino cembro è stato soggetto a forme selvicolturali riconducibili ad un taglio a scelta
per singole piante, a carico soprattutto delle piante in grado di fornire i migliori assortimenti
legnosi. In assenza di continui insediamenti di rinnovazione, ciò ha determinato una
semplificazione della struttura, con eliminazione dei collettivi e riduzione della stabilità dei
popolamenti. In generale, oggi si ritiene necessario evitare l’applicazione di modelli colturali
prefissati su vaste superfici, in quanto la variabilità strutturale di questi popolamenti nello spazio è
notevole. Si deve decidere caso per caso se intervenire per gruppi o per piede d’albero, ovvero con
aperture assimilabili ai tagli successivi, cercando sempre di rispettare la struttura e la tessitura
naturale dei popolamenti. Ciò significa attuare prelievi moderati, favorendo il perpetuarsi di una
struttura orizzontale a gruppi, alternando nuclei di rinnovazione di pino cembro e delle altre
specie ad esso consociate con collettivi adulti delle medesime specie, a vantaggio della stabilità
generale del bosco.

Pinus Montana – Pino montano


Gruppo di specie al quale appartengono il:

 Pinus uncinata
 Pinus mugo
 Altre entità sottospecifiche (es.
Pinus pumilio)

Più recentemente alcuni Autori


considerano però il pino uncinato ed il
pino mugo come specie distinte.

Pinus uncinata – Pino uncinato


Il pino uncinato ha un areale Europeo occidentale (Alpi occidentali, Pirenei, Massiccio centrale,
Giura, Engadina). In Italia i boschi di pino uncinato occupano circa 4000 ha dei quali 2300 ha in
Valle d’Aosta, 1300 ha in Lombardia (Valtellina) e 400 ha in Piemonte. Nei Pirenei vi sono circa
40.000 ha di pinete pure o quasi pure. Nelle Alpi si segnalano importanti estensioni di pino
uncinato tra il passo del Monginevro e Briançon. Il pino uncinato può presentare sia un
portamento arboreo che un portamento prostrato. Si ibrida facilmente con il pino silvestre ed
ibridi spontanei sono stati osservati nei Pirenei. È specie microterma, tipica della fascia subalpina,
ma maggiormente in grado di scendere nel piano montano rispetto al pino cembro.
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È una specie pioniera xerofila ed eliofila, considerata vicariante ecologica del pino silvestre nel
piano subalpino. È in grado di colonizzare diversi tipi di substrato ed anche quelli derivanti da
rocce verdi. In gioventù tollera un certo ombreggiamento. L’accrescimento iniziale del pino
uncinato è più lento rispetto a quello del larice e quindi i giovani semenzali di pino possono
soccombere alla competizione di quest’ultima specie. Su substrati incoerenti le piante possono
subire ribaltamenti a seguito della eccentricità della chioma dovuta spesso al fatto che gli individui
sono raggruppati in collettivi. Le piante morte possono rimanere in piedi per molti decenni. La
struttura dei popolamenti piemontesi è tendenzialmente multiplana se sono presenti anche piante
adulte di larice, oppure biplana.

Gestione
In Francia viene trattato a taglio raso o a tagli successivi (nel caso di popolamenti monoplani) o con
taglio a scelta (nel caso di popolamenti multiplani). A livello generale, la gestione selvicolturale di
questi popolamenti deve tenere conto delle caratteristiche di pionierismo e di eliofilia tipiche del
pino uncinato, nel complesso essa è simile a quella impiegata per il pino cembro ed il larice. In
Piemonte oggi i popolamenti di pino uncinato sono spesso lasciati all’evoluzione naturale

Pinus mugo – Pino Mugo


Il pino mugo è una specie a portamento sempre prostrato. L’areale si estende dalle Alpi Marittime
fino alle Alpi orientali, con una appendice nei Balcani. In Liguria ed in Piemonte (Alpi Marittime e
Val di Susa) sarebbe presente anche l’entità tassonomica affine P. pumilio. Sono presenti aree
relitte negli Appennini (es. Appennino Ligure, Tosco-emiliano e Abruzzese). È specie tipicamente
microterma, però con maggiori possibilità di scendere fino a 600-700 m s.l.m. È eliofila e pioniera,
in grado di formare boscaglie compatte capaci di una prolungata permanenza “in situ”. Dal pov
edafico il pino mugo è specie assai frugale, adattabile sia ad ambienti xerici che ad ambienti di
torbiera. Non è sempre esclusiva dei suoli carbonatici, seppure in Piemonte il pino mugo appare
effettivamente legato a tali suoli (ciò probabilmente per motivi di concorrenza interspecifica). È
una delle specie più efficienti nell’uso dell’acqua e più tolleranti al freddo. Completa in breve
tempo il ciclo vegetativo annuale; nella bassa e compatta mugheta il microclima si mantiene caldo-
umido è ciò riduce la traspirazione. In gioventù tollera l’ombra e quindi sopporta la competizione
delle erbe.

Gestione
In genere i popolamenti di pino mugo non sono oggetto di particolari cure selvicolturali. Tali
popolamenti hanno una notevole importanza ai fini della protezione del suolo dall’erosione ed a
questo scopo è stato utilizzato per il rimboschimento di scarpate in ambiente alpino. I mugheti
molto estesi ed uniformi possono però favorire il distacco delle valanghe. La trasformazione
artificiale dei mugheti in boschi di altre conifere alpine è in genere difficoltosa dal pov tecnico e
pertanto sconsigliata. Per ridurre il rischio di valanghe è stato proposto il taglio della mugheta per
strisce larghe circa 20 m, notando però la mancanza di nuova vegetazione nelle strisce tagliate per
molto tempo.

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Può essere diradato se tende ad invadere i pascoli, negli altri casi è meglio lasciare il popolamento
all’evoluzione naturale. Possono essere previsti rimboschimenti ai fini protettivi o per ricostituire
mughete distrutte dal fuoco.

Alnus viridis – Ontano verde


Specie a portamento prevalentemente arbustivo con un areale molto
vasto che comprende Alpi, est Europa e Siberia. In Italia è presente solo
nell’arco alpino. È specie microterma ed igrofila, tipica della fascia
subalpina, ma in grado di scendere anche al di sotto dei 1000 m s.l.m.
in ambienti molto piovosi. Predilige i climi ad impronta subatlantica ed i suoli silicatici. Nelle aree a
clima continentale la sua presenza è spesso relegata nelle zone più umide, lungo i corsi d’acqua. È
specie tendenzialmente eliofila e moderatamente tollerante l’ombra. È specie azotofissatrice e
quindi in grado di migliorare il terreno.

Tipi di popolamenti
Le boscaglie di ontano verde si sviluppano in natura come formazioni pioniere sui terreni franosi,
percorsi da valanghe o nelle aree dove l’innevamento è troppo prolungato per consentire la
sviluppo delle conifere tipiche della fascia subalpina. La diffusione attuale dell’ontano verde è
stata in parte determinata dall’uomo, in quanto questa specie può facilmente colonizzare i pascoli
più umidi abbandonati, ovvero i boschi di abete rosso o di larice in ambienti umidi e rimasti radi
per l’attuazione di tagli ai quali non è seguita una sufficiente rinnovazione naturale (in questi casi
l’ontano verde viene spesso considerato una specie “infestante”, che può ulteriormente
ostacolare la rinnovazione delle conifere). È tipico dei suoli idrici. Lo troviamo su:

 Medi ed alti versanti in suoli lungamente innevati: in queste condizioni può formare
popolamenti ampi e compatti nelle esposizioni settentrionali mentre in quelle meridionali
è generalmente limitato ai micro impluvi più ricchi d’acqua;
 Nei margini dei canaloni da valanga: lo sviluppo dell’alneto è considerato indicativo dei
tempi di ritorno della valanga;
 Sulle terrazze tra i salti di roccia: nelle porzioni più scoscese prevale il pino mugo.

La boscaglia di ontano verde si presenta spesso molto compatta e tende a perdurare a lungo
ostacolando la rinnovazione di specie arboree. Solo nelle aree meno umide la minore
competitività dell’ontano può consentire il graduale insediamento dell’abete rosso o del larice.
Un’eventuale ceduazione dell’ontano, spesso attuata per il rifornimento di combustibile da parte
delle malghe, può infittire ulteriormente il popolamento. Le boscaglie di ontano verde presentano
una efficace azione protettiva nei riguardi dell’erosione del suolo, ma non nei riguardi delle
valanghe. Una eventuale sostituzione dell’alneto con altri tipi di vegetazione è pensabile solo per
le boscaglie di invasione dei pascoli umidi e dei boschi radi e comunque richiede estirpazioni e
periodiche ripuliture.

FINE PRIMA PARTE


45
INIZIO SECONDA PARTE
Evoluzione storica della gestione forestale
 Periodo preistorico e protostorico
o Bosco = luogo sacro da conservare e da proteggere
 Periodo romano
o Prima evoluzione delle pratiche selvicolturali, disboscamenti per colture, pascolo e
cantieristica navale
 Medio Evo
o Significativi disboscamenti per concessioni di pascolo, interventi di protezione, di
ricostituzione e di trasformazione dei boschi soprattutto da parte di ordini
monastici
 XVI secolo
o Primi provvedimenti legislativi nel settore forestale (Repubblica di Venezia) per la
protezione ed il buon governo dei boschi
 XVIII – XIX secolo
o Nascita delle scienze forestali moderne in Germania ed in Francia
Evoluzione dei principi selvicolturali

 Taglio a scelta: progressivo degrado delle foreste;


 Principio del massimo reddito: in Germania, Hartig e Cotta, tra ‘700 & ‘800, fustaie
coetanee ed applicazione di metodi agronomici (taglio raso con rinnovazione artificiale
posticipata e diradamenti bassi) sostituzione delle specie autoctone con altre in grado di
fornire maggiori ricavi (diffusione delle conifere);
 Trasferimento alle latifoglie dei principi del bosco coetaneo: in Francia, Lorentz e Parade,
tra ‘700 & ‘800, adattamento alle querce e al faggio del bosco coetaneo, preferenza per la
rinnovazione naturale (tagli successivi uniformi, diradamenti dall’alto);
 Fustaia irregolare o disetanea: in Francia e Svizzera, Gurnaud e Biolley, tra ‘800 & ‘900
rispettivamente stabiliscono e perfezionano il metodo del controllo per la coltivazione
delle fustaie irregolari di A. alba e di P. abies tradizionalmente gestite con il taglio a scelta,
come risposta al tentativo di applicare anche in questi popolamenti il trattamento
coetaneo. De Liocurt (1930) Shaffer, Gazin ed altri perfezionano ulteriormente il metodo
disetaneo in Francia (curva di distribuzione dei diametri, sostituzione del turno con il
diametro di recidibilità)
 Selvicoltura su basi naturali: in Germania, Gayer, tra ‘800 & ‘900 studia la reazione al
sistema coetaneo utilizzato nei boschi tedeschi, fa prevalere selvicoltura all’assestamento,
rifiuta schemi colturali precostituiti, l’adattamento delle forme di trattamento alle esigenze
di ogni porzione della foresta applicando di volta in volta le tecniche più adatte (taglio raso,
taglio successivo, taglio a scelta, diradamento alto o basso, ecc.). In Italia nella prima metà
del ‘900 Pavari si fa promotore di una selvicoltura su basi ecologiche.
 Studi sulla dinamica delle foreste vergini: da metà ‘900 ad oggi, Leibundgut, Mayer, Susmel,
Oldemann, cercano di individuare dei principi colturali trasferibili alle foreste coltivate.
46
Selvicoltura sostenibile
 Rapporto Meadows et al. (1972) “The limits to growth” afferma che uno sviluppo fino a
livelli indefiniti è impossibile in quanto le risorse sono finite;
 “1st Earth summit” di Stoccolma (1972) conferma la necessità di porre limiti allo sviluppo;
 Il rapporto Brundtland (1987) “Our common future” afferma che lo sviluppo è sostenibile
se soddisfa le esigenze delle generazioni attuali senza compromettere le possibilità per le
generazioni future di soddisfare le proprie esigenze;
 Conferenza mondiale di Rio de Janeiro (1992) non pone limiti allo sviluppo, ma sottolinea
che questo deve essere compatibile con le esigenze di salvaguardia delle risorse ambientali
(sviluppo sostenibile). Convenzioni sul cambiamento climatico del pianeta e sulla diversità
biologica;
 Selvicoltura sostenibile: rientra nel quadro più ampio dello “sviluppo sostenibile”. Nella
conferenza di Rio de Janeiro sono state poste le basi anche della selvicoltura sostenibile
(agenda 21, raccomandazioni definite “Principi sulle foreste”);
 Processo Pan-europeo per la gestione forestale sostenibile.

Criteri di gestione forestale sostenibile espressi nella III Conferenza Ministeriale sulla protezione
delle foreste in Europa (Lisbona, 1998).

1. Mantenimento ed appropriato miglioramento delle risorse forestali e loro contributo al


ciclo del carbonio;
2. Mantenimento della salute e della vitalità dell’ecosistema foresta;
3. Mantenimento ed incoraggiamento delle funzioni produttive delle foreste;
4. Mantenimento, conservazione e miglioramento della diversità biologica negli ecosistemi
forestali;
5. Mantenimento ed appropriato miglioramento delle funzioni protettive della gestione
forestale;
6. Mantenimento di altre funzioni sociali o economiche)

Funzione del bosco


Il concetto di funzione del bosco è di carattere strettamente antropico; con un ragionamento di
tipo economico potremmo dire che esso deriva dal fatto che il bosco è un bene (risorsa naturale
rinnovabile) che può consentire il soddisfacimento di bisogni (materiali ed immateriali) da parte
dell’uomo. Il bosco non necessita dell’uomo per esistere, ma è l’uomo che necessita del bosco per
mantenere la propria esistenza su livelli qualitativi adeguati e ciò giustifica la selvicoltura come
scienza ed attività pratica che si preoccupa di trarre dal bosco i benefici attesi (servizi ecosistemici)
mantenendo integra la risorsa (selvicoltura sostenibile).

47
Evoluzione storica delle funzioni del bosco considerate dalla selvicoltura

Approvvigionamento di legno (approccio monofunzionale)



Approvvigionamento di legno + Difesa del suolo nelle aree declivi (In Italia L. f. 3267/1923 - vincolo
idrogeologico) (approccio ancora sostanzialmente monofunzionale)

Approvvigionamento di legno + Difesa del suolo nelle aree declivi + Salvaguardia della biodiversità
+ Salvaguardia della qualità delle acque e dell’aria (emissione di O2 ed assorbimento di CO2) +
Salvaguardia del paesaggio + Funzione turistico-ricreativa + Protezione diretta di infrastrutture
(approccio multifunzionale).

Il progressivo aumento delle funzioni richieste al bosco è derivato in parte dalla sostituzione del
legno con altri materiali (che ha in parte ridotto o comunque modificato il mercato di questa
materia prima), in parte dalle nuove esigenze espresse dalle società soprattutto a partire dai paesi
più industrializzati (es. paesaggio, ricreazione, ecc..), in parte ancora dalle più recenti emergenze
sviluppatesi a livello globale (es. erosione della biodiversità naturale, effetto serra, ecc..). Oggi si
parla sempre più diffusamente a livello internazionale di Ecosystems services che il bosco è
deputato a svolgere.

Aspetti fondanti di una selvicoltura sostenibile

 Specie in equilibrio con l’ambiente


 Rinnovazione naturale
 Struttura del bosco articolata

Funzioni prevalenti

Le diverse funzioni svolte dal bosco possono essere


in parte concomitanti ed in parte contrastanti, cioè
l’ottimizzazione della funzionalità dell’ecosistema
per una funzione può concorrere ad aumentare o a
ridurre la funzionalità dello stesso bosco nei riguardi
di una o più delle altre funzioni (es. la funzione
idrogeologica della foresta può ben coesistere con la
salvaguardia del paesaggio e della biodiversità,
mentre l’ottimizzazione dei redditi ottenibili con la
produzione legnosa può ridurre l’efficienza del bosco nei riguardi della protezione del suolo o della
salvaguardia della biodiversità o di entrambe). In relazione a ciò, ai fini della gestione selvicolturale
può acquisire un significato importante il concetto di funzione prevalente del bosco. Questa è
intesa come la funzione (o l’insieme di funzioni) che in quella determinata situazione spazio-
temporale si ritiene debba avere la prevalenza. Tali funzioni dipendono da una combinazione di
fattori fisici (es. propensione al dissesto delle pendici), infrastrutturali. (es. densità della rete
viaria), vincolistici (es. inclusione in aree protette) e dovrebbero essere definite in sede di
pianificazione territoriale (piani territoriali dei Parchi, piani di Assestamento Forestale ecc.).
48
Modello colturale di riferimento

Una volta definite le funzioni prevalenti, il modello colturale di riferimento costituisce quella
tipologia più o meno ideale di bosco (dal pov compositivo, strutturale e delle modalità di
rinnovazione) reputato meglio in grado di
svolgere tali funzioni. Pertanto, la gestione
selvicolturale dovrà essere volta al progressivo
avvicinamento del modello colturale di
riferimento, considerando come punto di
partenza lo stato attuale del bosco stesso. Sulla
base di ciò dovranno essere valutati i modi ed i
tempi di realizzazione degli interventi
selvicolturali, i quali potranno essere di
mantenimento di determinate situazioni
ritenute già vicine al modello di riferimento,
ovvero di sostanziale miglioramento qualora si
ritenga che la situazione reale del bosco sia
molto diversa da quella prospettata come
obiettivo della gestione. Ovviamente, il modello di riferimento può essere un traguardo molto
distante e raggiungibile solo in tempi molto lunghi.

 Stabilità: meglio garantita da una struttura articolata, con fasi di senescenza e di rinnovazione
puntiformi (realizzate tramite la coltura)
 Naturalità: non sempre desiderabile la naturalità strutturale se è coetaneiforme, più
desiderabili quelle in termini compositivi, sui livelli complessivi di biomassa, sulla presenza di
piante di grosse dimensioni, sulla presenza di necromassa, sull’impiego della rinnovazione
naturale.
 Biodiversità: non vi sono evidenze che le foreste vergini siano sempre le più ricche di
biodiversità (es. boschi mediterranei che tendono dalla macchia (ricca di specie) alla lecceta
pura ed uniforme meno ricca di specie). In genere, i fattori indicati come desiderabili per la
naturalità possono incrementare anche la biodiversità.

Boschi polifunzionali

Boschi che svolgono varie funzioni di carattere ecologico-ambientale (biodiversità, paesaggio,


protezione del suolo, ecc.), nei quali può essere considerata anche la funzione produttiva a livelli
variabili in relazione alle potenzialità stazionali.

Modello colturale di riferimento: Fustaia a struttura articolata, rinnovazione naturale,


composizione specifica in equilibrio con l’ambiente. Forme di trattamento della fustaia:

- Trattamenti assimilabili al taglio saltuario;


- Tagli successivi su piccole superfici;
- Taglio a buche

49
La selvicoltura nei boschi con funzione prevalente di protezione del suolo

Tutti i boschi sottoposti a vincolo idrogeologico (87 % dei boschi italiani) hanno anche una
funzione di protezione del suolo, ma in alcuni casi questa può essere prevalente sulle altre
funzioni.

Parametri orientativi per la definizione di un bosco con funzione di protezione del suolo

- Pendenza (quando superiore al 70-80%)


- Erodibilità del substrato pedologico (argille, scisti, etc.)

Modello colturale di riferimento: fustaia a struttura articolata, con elevata copertura del suolo
(almeno 70-80%). Il ceduo è in genere meno efficiente della fustaia ai fini della protezione del
suolo.

Nelle fustaie: interventi ridotti al minimo, solo leggeri tagli di rinnovazione per piccoli gruppi o per
piede d’albero, favorendo la mescolanza specifica e l’articolazione della struttura. È importante
evitare una eccessiva densità ed uniformità della struttura che potrebbe ridurre la stabilità.

Conversione dal ceduo all’alto fusto:

- Tagli di avviamento alla fustaia molto cauti (25-30% della provvigione)


- Possibile opzione di rilascio del ceduo all’evoluzione naturale.

La gestione della vegetazione di sponda

Questo tipo di vegetazione presenta aspetti positivi e negativi dal pov idraulico.

La vegetazione riparia riveste un’importanza significativa dal pov naturalistico, sia dal pov della
fruizione ricreativa (parchi fluviali) sia come elemento di connessione nell’ambito della rete
ecologica territoriale (corridoi verdi). La funzione naturalistica è però subordinata agli aspetti
idraulici che sono sempre prevalenti. La gestione della vegetazione di sponda ai fini idraulici è
particolarmente importante in corrispondenza di zone fortemente antropizzate o di particolari
punti come ad esempio ponti o altri restringimenti dell’alveo.

50
Sezioni del corso d’acqua e tipo di intervento

 A: alveo di modellamento con inondazioni


molto frequenti
 B: zona golenale con inondazioni frequenti
 C: zona golenale con inondazioni poco
frequenti

A – Alveo di modellamento con piene molto frequenti (ogni 2-3 anni): Eliminazione di tutte le
piante arboree in alveo, rilascio degli individui migliori sulle sponde opportunamente distanziati,
eliminazione della necromassa (ai fini di un deflusso ottimale Dmax piante a 1,60 m = 2 cm)

B – Zona golenale con inondazioni relativamente frequenti (ogni 5-20 anni): Eliminazione di tutti gli
individui instabili, eliminazione della necromassa, rilascio degli individui migliori opportunamente
distanziati. Si deve evitare l’accumulo di Large Wood Debris (LWD) cioè di detriti legnosi non
radicati di D > 10 cm ed L > 1 m. Se possibile salvaguardare eventuali specie rare.

C – Zona golenale con inondazioni poco frequenti (ogni 100 anni): Eventuale conversione del ceduo
in fustaia, eliminazione della necromassa

La selvicoltura nei boschi a prevalente funzione produttiva

Parametri che definiscono l’attitudine alla produzione legnosa:

 Aspetti ambientali e legislativi: fertilità della stazione (quota e pendenza) e regime


vincolistico (vincoli ambientali oltre il vincolo idrogeologico);
 Aspetti infrastrutturali ed economici: viabilità (densità viabile per la sola viabilità principale
almeno prossima ai 20-25 m/ha; quota parte di superficie servita almeno prossima al 60-
70%) e mercato dei prodotti legnosi (vicinanza di segherie od altre industrie trasformatrici)

Modelli colturali di riferimento:

- Fustaia: tagli successivi (uniformi, a piccole superfici) tagli a buche. Eventuali


sfollamenti e diradamenti selettivi (dall’alto) di grado anche forte.
- Ceduo semplice matricinato: disposizione delle tagliate rilascio delle matricine, rilascio
della vegetazione nei crinali e nei compluvi
- Conversione del ceduo all’alto fusto: attuata mediante tagli di avviamento anche di
forte intensità.

La selvicoltura nelle aree protette

Legge quadro sulle aree protette (L. 394/1991)

- Piano del Parco


- Regolamento del Parco

51
 Area a) Riserva integrale: nessun intervento
 Area b) Riserva generale orientata: conversione all’alto fusto o rilascio all’evoluzione
naturale dei cedui, trattamento delle fustaie secondo criteri che tengano conto delle
preminenti funzioni ambientali, rinaturalizzazione dei boschi molto antropizzati.
 Area c) Aree di protezione: possibile mantenimento dei cedui a regime e dei cedui
composti, ovvero conversione all’alto fusto mediante tagli di avviamento o mediante il
rilascio all’evoluzione naturale. Trattamento delle fustaie secondo criteri che tengano
conto della possibilità di valorizzare anche gli aspetti produttivi. Eventuale
rinaturalizzazione dei soprassuoli più antropizzati.
 Area d) Aree di promozione economica e sociale: (come per area c)

La biodiversità forestale

Interrelazione tra sostenibilità e diversità, dove la diversità influisce sul funzionamento degli
ecosistemi e quindi sulla loro stabilità. Livelli di biodiversità in un ecosistema:

- Intraspecifica (variabilità genetica)


- Interspecifica (numero di specie)
- Funzionale (numero di funzioni)  è la vera biodiversità!

Diversità di ecosistemi nell’ambito di un paesaggio o diversità di paesaggi nell’ambito di un


territorio più vasto. La perdita di biodiversità non è reversibile se non in tempi molto lunghi.

Ipotesi sui rapporti tra biodiversità e funzionamento degli ecosistemi

 Ipotesi delle specie ridondanti e delle specie chiave: solo poche specie sono realmente
importanti
 Ipotesi del ribattino: tutte le specie sono importanti perché sono tra loro interrelate
 Ipotesi della risposta idiosincratica: è impossibile prevedere la risposta del sistema
all’eliminazione di una specie

Gli effetti negativi dell’attività umana sulla biodiversità riguardano:

- La riduzione della quantità di materia organica a disposizione degli organismi che


compongono l’ecosistema;
- L’eliminazione di specie mutualistiche (es. insetti impollinatori);
- La distruzione e la frammentazione degli habitat;
- L’inerzia dei processi di degrado ambientale (es. inquinamento).

Principi per conservare la biodiversità

A livello di singolo popolamento forestale

- Favorire la mescolanza specifica - Favorire la presenza di necromassa


- Favorire l’articolazione della struttura - Proteggere il suolo
- Ampliare il range dimensionale e
cronologico

52
Tenere conto della imprevedibilità degli eventi

- Passato invisibile (scala temporale)


- Presente invisibile (scala spaziale)

A livello di paesaggio

- Considerare il territorio come un insieme di elementi tra loro interdipendenti e non come
un insieme slegato di diverse forme di proprietà e di uso del suolo
- Evitare l’isolamento e l’eccessiva frammentazione degli habitat

Rinaturalizzazione dei sistemi forestali

Riguarda sistemi forestali sottoposti ad un’elevata semplificazione da parte dell’uomo:

- Rimboschimenti o fustaie molto semplificate (es. a rinnovazione artificiale posticipata)


- Cedui

La rinaturalizzazione consiste non tanto nel ripristino di una comunità vegetale ritenuta lo stato di
“climax”, quanto nel ripristino dei processi naturali di auto-regolazione e di auto-perpetuazione
del sistema (aumento della resistenza e della resilienza e quindi della stabilità del sistema). Questi
processi devono seguire le linee evolutive naturali dei sistemi nei quali si opera (massima riduzione
degli input energetici esterni).

- Composizione specifica più in equilibrio con l’ambiente


- Articolazione delle strutture troppo omogenee
- Implementazione o innesco della rinnovazione naturale

Nei cedui la rinaturalizzazione prevede generalmente la conversione mediante interventi di


avviamento alla fustaia o mediante il rilascio all’evoluzione spontanea della vegetazione.

La rinaturalizzazione dei rimboschimenti o delle fustaie molto semplificate a rinnovazione


artificiale posticipata (pino nero ed abete rosso fuori zona, abete bianco, specie esotiche, etc…)

- Diradamenti
o Impianti giovani (età < 50 anni): diradamenti selettivi per favorire il raggiungimento
di una maggiore stabilità anche statica. Possibile rinnovazione naturale delle specie
autoctone in corrispondenza delle interruzioni della copertura.
o Impianti adulti (età > 50 anni): riduzione della copertura in maniera più o meno
graduale per favorire la rinnovazione naturale della specie autoctone. Se non
sussistono pericoli di instabilità diradamenti forti o taglio di sementazione con
asportazione anche del 35-40 % della provvigione
- Tagli a buche: Impiegati ad es. per la rinaturalizzazione delle fustaie coetanee di A. alba
dell’Appennino. In questo caso, consistono nell’apertura di buche di diversa dimensione,
con D/H= 1/1 - 0,75/1 – 0,5/1. I risultati possono essere diversi in relazione all’ambiente.
All’interno della buca le diverse specie si rinnovano in zone diverse, in relazione alla
variabilità spaziale del microambiente.

53
- Tagli di smantellamento: Utilizzati ad es. nella rinaturalizzazione dei rimboschimenti adulti
di P. nigra effettuati fuori zona. Consistono nella asportazione totale o quasi totale
dell’impianto. Si effettuano quando al di sotto del rimboschimento è già presente una
buona densità di rinnovazione affermata (30-40 mila semenzali/ha). Generalmente tale
rinnovazione risponde bene alla eliminazione del piano dominante. Eventuali problemi
collegati all’impatto paesaggistico e turistico-ricreativo possono consigliare di attuare
l’eliminazione del rimboschimento in maniera graduale, operando per settori.

Taglio saltuario = equilibrio biologico


Nel bosco disetaneo l’equilibrio strutturale è rappresentato
nella correlazione tra la superficie occupata dalle diverse fasi
cronologiche e il tempo che queste trascorrono. Per esempio:

 Insediamento  circa 10 anni  6%


 Rinnovazione  da 10 a 32 anni  13%
 Costruzione iniziale  fino a 53 anni  13%
 Costruzione avanzata  fino a 120 anni  41%
 Biostasi  165 anni  27 % (considerate mature
vengono tagliate)

Perché il bosco disetaneo sia in equilibrio ci deve essere un


equilibrio tra la percentuale di tempo e la percentuale di
area occupata dal bosco in quella fase. La superficie
occupata solo da rinnovazione può essere minore perché può essere presente sotto il bosco
che si trova in altre fasi. È la struttura che si deve cercare di mantenere attraverso i tagli di
curazione così da permettere di ottenere la rinnovazione naturale.

Fasi evolutive del bosco disetaneo

Nomenclatura elaborata da diversi autori che hanno studiato le foreste naturali nella seconda
metà del ‘900. Secondo Oldeman esistono 4 fasi:

1. Fase di rinnovazione: corrisponde al novelleto. Dura finché le piante raggiungono


un’altezza di 2 m. Le piante quindi competono con la vegetazione spontanea erbacea e
arbustiva.
2. Fase di costruzione: corrisponde alla spessina e alla perticaia. Qui si ha una forte
competizione tra le giovani piante e un accrescimento in altezza molto elevato.
3. Fase di biostasi: corrisponde alla fustaia adulta e matura.
4. Fase di degradazione: fase che nei boschi naturali determina il deperimento delle piante,
mentre nei boschi gestiti normalmente è assente perché vengono tolte le piante mature
attraverso i tagli di curazione.

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Il fattore principale che determina l’efficienza di una fustaia trattata a taglio saltuario è la
continuità della rinnovazione naturale nello spazio e nel tempo. La presenza e la distribuzione
della rinnovazione naturale dipendono principalmente dalla:

1. Disponibilità di luce al suolo


2. Concorrenza della vegetazione spontanea erbacea ed arbustiva

Micrositi favorevoli in relazione al clima luminoso

- Gap (G): radura più o meno ampia


- Canopy edge (CE): bordo delle chiome verso la radura
- Closed canopy (CC): chiome colme

Il microsito più favorevole alla rinnovazione naturale è il canopy


edge. La presenza di semenzali è più che proporzionale rispetto
alla superficie disponibile.

Con il taglio di curazione e necessario:

- Asportare le piante mature (con il D più elevato) per dare spazio ad una nuova fase di
rinnovazione
- Effettuare un diradamento nelle classi diametriche inferiori per favorire la crescita delle
piante migliori che dovranno costituire il futuro piano dominante

Il trattamento a taglio saltuario comporta comunque una forte contrazione del ciclo forestale
rispetto ai tempi naturali. La continuità nello spazio e nel tempo della rinnovazione naturale
appare legata soprattutto alla frequenza delle condizioni di margine, cioè di canopy edge.
Un’elevata variabilità strutturale favorisce la presenza di rinnovazione affermata al di sotto delle
piante mature e quindi una rapida occupazione dello spazio reso disponibile con il taglio di
curazione.

Vivaistica forestale
Obiettivi: Produrre materiale d’impianto (postime) per
rimboschimenti e per arboricoltura da legno in grado di
sviluppare una soddisfacente performance (elevate percentuali di
attecchimento e veloce accrescimento iniziale) quando collocato a
dimora in un ambiente sufficientemente idoneo dal pov climatico
e pedologico. In linea generale, la performance del materiale
vivaistico è collegata alle potenzialità che le giovani piante
provenienti dal vivaio hanno di formare nuove radici e di
sviluppare le radici già presenti al momento dell’impianto quando
sono collocate a dimora in un ambiente sufficientemente idoneo. I
fattori che influiscono su tali potenzialità sono molteplici e
riguardano tutta la filiera della produzione vivaistica.
55
Legge 269/1973 “Disciplina della produzione e del commercio di sementi e piante da
rimboschimento”

Istituzione dei boschi da seme e del Libro Nazionale dei Boschi da Seme (LNBS) presso il MAF. La
legge stabiliva che le piante con finalità di rimboschimento dovessero nascere da semi di boschi da
seme. Questi, individuati in tutta Italia per le diverse specie. Scelti col criterio di essere costituiti da
piante con buon portamento ed esenti da malattie. Quindi una scelta su base fenotipica e non
genotipica. In tutta Italia ne sono stati individuati 175 con il problema che le conifere erano
discretamente coperte, mentre le latifoglie no (tranne che il faggio, la farnia e il rovere). Infine,
venivano usate le provenienze che erano disponibili, come ad esempio semi della Calabria per
rimboschimenti in Piemonte.

Direttiva CEE 105/1999, recepita con D. Lgs 386/2003 – “Concetto di Regione di Provenienza”

Disciplina la produzione e la commercializzazione di materiale di moltiplicazione forestale;


certificazione del materiale e classificazione in categorie: Identificato alla fonte, selezionato,
qualificato e controllato. Introduzione del concetto di Regione di Provenienza (R.d.P.): “territorio
soggetto a condizioni ecologiche sufficientemente uniformi e sui quali si trovano soprassuoli o
fonti di seme con caratteristiche fenotipiche e genotipiche omogenee”. Ed infine, il materiale di
propagazione deve essere usato soltanto nella R.d.P. in cui è stato prodotto.

Raccolta del seme

Età di inizio della fruttificazione delle specie forestali

- Molto precoci: meno di 10 anni – cipressi, ontani, eucalipti


- Precoci: 10-20 anni – pini mediterranei, querce sempreverdi
- Intermedie: 20-40 anni – larice, pino nero, pino silvestre
- Tardive: oltre i 40 anni – abete bianco, abete rosso, faggio, querce caducifoglie

Periodicità di fruttificazione delle specie

- 1 anno  cipresso e pini mediterranei


- 4-6 anni  abete rosso, querce decidue e faggio
o Ciclicità attribuite a fluttuazioni climatiche

Epoca e periodo di raccolta

Il periodo di raccolta varia in funzione della specie e dall’età, minima o massima, della pianta.

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Modalità di raccolta del seme

- Da terra: faggio e querce


- Sugli alberi: semi piccoli, strobili delle conifere
- Mediante vibratori: strobili di pino domestico

Trattamento dei semi dopo la raccolta

- Semi con polpa carnosa: eliminazione della polpa tramite macerazione in acqua
- Ghiande: eliminazione della cupola tramite battitura
- Strobili: apertura degli strobili al calore naturale o artificiale, ovvero disgregazione degli
strobili all’aria (abies), estrazione dei semi per battitura, dis-alatura dei semi.

Qualità del seme

 Purezza (P): percentuale in peso di semi puri presenti nella partita. Le impurità sono
costituite da semi di specie differenti dal seme puro e da materiale inerte quale terra,
legno, frutti…
 Germinabilità (G): percentuale di semi puri in grado di germinare in condizioni standard di
clima e di substrato fornendo plantule normali in un tempo prefissato.
 Valore Colturale: Vc = P x G/100

Son parametri che devono essere esplicitati sui lotti di sementi

Prove di germinazione: conteggio settimanale dei semi che germinano in un ambiente ottimale
controllato  400 semi in 4 lotti da 100.

Nel caso di semi dormienti, prima delle prove, devono essere sottoposti ad un pretrattamento per
eliminare la dormienza.

Test di Vitalità del seme

Per ovviare al problema della dormienza, che richiede test di germinabilità molto lunghi (fino
anche a sei mesi) si applicano i test di vitalità i quali consentono di valutare in maniera
approssimativa la germinabilità.

 Mediante prova del taglio: alcuni semi vengono tagliati a metà per verificare l’aspetto
dell’embrione e dei tessuti di riserva i quali devono risultare normali (embrione presente e
normalmente sviluppato, assenza di necrosi, ecc.)
 Mediante TTC: L'analisi si basa sulla differente colorazione assunta dai tessuti all'interno
del seme lasciato immerso al buio per 24-48 h in una soluzione all’1% di cloruro di 2,3,5
Trifeniltetrazolo (TTC).
Il seme viene quindi aperto e i tessuti embrionali ed endospermatici dei semi vitali
appaiono colorati di rosso (per riduzione del TTC da parte degli enzimi del seme) mentre i
semi non vitali non si colorano.
 Peso di mille semi: Si conta il numero di semi in una quantità di seme pesata e si calcola
proporzionalmente il peso di 1000 semi (P1000).

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Questo parametro è importante per la valutazione di quanti semi ci sono in un kg e quindi
potenzialmente quante piantine si verrebbero a produrre utilizzando quel lotto.
𝑛° 𝑠𝑒𝑚𝑖 𝑣𝑖𝑡𝑎𝑙𝑖 1000 ∗ 𝑉𝑐
=
𝑘𝑔 𝑑𝑖 𝑠𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑃 ∗ 1000

Conservazione dei semi

- Semi a facile conservazione (es. molti pini, abete rosso, cipresso, molte leguminose):
tollerano un’essiccazione spinta, si mantengono in contenitori ermetici all’umidità del 4-7%
a T ambiente (per corti periodi) o a T prossime a 0 °C (per più anni).
- Semi di difficile conservazione (es. querce, castagno): non tollerano un essiccamento
spinto, per periodi corti si mantengono stratificati in sabbia o torba in locali freschi; per 2-3
anni si mantengono mescolati a torba o perlite umida in contenitori idonei ad assicurare gli
scambi gassosi evitando il disseccamento al di sotto del 35-40% di umidità.
- Semi con caratteristiche intermedie (es. abete bianco e faggio): per poco tempo si
mantengono stratificati in sabbia o torba umida in locali freschi o in cella frigorifera a 3-4
°C; per alcuni anni si mantengono in contenitori ermetici con umidità del 6-7% (abete
bianco) o del 9-10% (faggio) alla T di 10°C.

I semi facili da conservare son detti ortodossi, mentre quelli difficili son detti recalcitranti.
Contenuto idrico di semi ortodossi (%) Possibili alterazioni durante la conservazione a basse temperature
<5 Ossidazione dei lipidi
5-6 Nessuna (livello ideale per la conservazione dei semi)
10-18 Marcato sviluppo dell’attività delle crittogame
>18 Aumento della respirazione
>30 Germinazione dei semi non dormienti
Dormienza

Complesso di fenomeni che fa sì che il seme non sia immediatamente germinabile al momento
della sua maturazione. Un carattere evolutivo è la vernalizzazione dei semi per poter germinare.
Tipi di dormienza Cause Condizioni che la interrompono Esempi
Esogena
Impermeabilità dei tegumenti seminali
Fisica Scarificazione R. pseudoacacia
all’acqua
Chimica Presenza di fattori inibitori nel pericarpo Rimozione del pericarpo A. pseudoplatanus
Resistenza meccanica dei tegumenti alla
Meccanica Rimozione del tegumento E. angustifolia
crescita dell’embrione
Endogena
Morfologica Incompleto sviluppo dell’embrione Estivazione combinata ad altri
Meccanismi fisiologici di inibizione della
Fisiologica
germinazione
Brevi periodi di vernalizzazione, sostanze
Leggera B. pubescens
stimolanti della crescita
Intermedia Lunghi periodi di vernalizzazione, gibberelline N. obliqua
Profonda Vernalizzazione molto prolungata S. aucuparia
Morfo-fisiologica Lunghi trattamenti termici con alternanza di T F. excelsior

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Pretrattamento dei semi

Per eliminare la dormienza è necessario un pretrattamento che sarà diverso a seconda del tipo.

- Dormienza dovuta alla presenza di tegumenti impermeabili all’acqua (es. leguminose):


scarificazione meccanica o chimica o immersione in acqua calda;
- Dormienza dovuta a immaturità dell’embrione (es. pino cembro): imbibizione ed
esposizione a T idonee (spesso intorno a 2 °C);
- Dormienza dovuta alla presenza di sostanze inibitrici (es. abete bianco e faggio): pre-
refrigerazione (2-4 °C) all’umido per periodi variabili da 1 a 3 mesi. In questo periodo deve
essere evitato sia il disseccamento del seme sia l’eccessiva umidità;
- Dormienza dovuta ad immaturità dell’embrione associata alla presenza di sostanze inibitrici
(es. ciliegio e frassino maggiore): stratificazione umida alternativamente a bassa
(vernalizzazione a 2-3 °C) ed alta (estivazione a 10-20 °C) temperatura;
- Semi che non presentano una particolare dormienza: la pre-refrigerazione favorisce
comunque una migliore germinazione.

Allevamento in semenzaio

Semina: viene effettuata in autunno o in primavera a seconda della specie. Quella autunnale
consente una vernalizzazione del seme direttamente nel terreno ma richiede più attenzioni in
quanto il seme risulta più esposto agli attacchi parassitari e alla predazione.

o Concia del seme: con repellenti e antiparassitari


o Semina su terreno lavorato e concimato eseguita a spaglio o preferibilmente a solchetti. Il
seme va coperto con uno strato di terreno variabile dai 2-5 cm per i semi grossi ai 0.2-0.5
per i semi piccoli.

Cure colturali alle semine ed ai semenzali

- Irrigazione dopo la semina;


- Protezione delle semine dell’eccessiva insolazione con arelle o materiale inerte;
- Ombreggiamento dei semenzali dopo l’emergenza con reti al 50-80%;
- Diserbo manuale, meccanico o chimico;
- Sfollamenti nel caso di semine a spoglio molto fitte;
- Taglio del fittone verso la metà di agosto alla profondità di 8-10 cm;
- Dopo il primo anno, eventuale diradamento delle piantine per l’ottenimento di semenzali
di 2 anni per la messa a dimora.

Se non è ancora idonea per la vendita la piantina la si porta nel piantonaio.

Allevamento in piantonaio

Ha lo scopo di pervenire alla formazione di piantine più equilibrate dal pov morfologico, con una
migliore conformazione dell’apparato radicale, più vigorose e quindi con maggiori possibilità di
attecchimento una volta poste a dimora in pieno campo. Devono essere sottoposte a trapianto
soprattutto le specie che crescono lentamente (es. conifere).
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Trapianto: Vengono trapiantati in piantonaio semenzali di 1 o 2 anni di età e normalmente
eseguito con macchine estirpatrici e trapiantatrici a file distanti da 17,5 a 22,5 cm (distanza sulla
fila 4-8 cm). Il trapianto deve essere attuato durante il periodo di riposo vegetativo:

 Trapianto autunnale: pini mediterranei


 Trapianto primaverile: latifoglie
 Trapianto estivo: abete rosso e bianco

Cure colturali ai trapianti

- Irrigazione subito dopo il trapianto


- Diserbo manuale, meccanico o chimico

In genere le piante rimangono in piantonaio 1 o 2 anni, solo alcune specie ad accrescimento più
lento (es. A. alba) possono rimanere 3 anni. Se le piante rimangono in piantonaio più di 3 anni (in
alta montagna) devono subire periodici trapianti.

In genere, il materiale usato nei rimboschimenti è di 2-4 anni di età (1S+1T; 2S+1T; 2S+2T). In
arboricoltura da legno si usa generalmente materiale di 1-2 anni per le latifoglie (1S; 2S; 1S+1T) e
2-3 anni per le conifere (1S+1T; 1S+2T).

Conservazione delle piantine

Subito dopo l’estirpazione dal semenzaio o dal piantonaio le piantine devono subire una selezione
ed eventualmente una classificazione. Quindi devono essere conservate:

- In tagliola: se la collocazione a dimora avviene entro breve tempo


- In cella frigorifera (alla T di 0-2 °C): se la collocazione a dimora avviene dopo qualche mese
dall’estirpazione. In quest’ultimo caso è importante evitare la disidratazione delle piantine
mediante l’impiego di sacchi di plastica.

Allevamento in contenitore (pane di terra)

 Vantaggi:
o Possibilità di una meccanizzazione molto spinta delle fasi di allevamento in vivaio;
o Minore crisi di trapianto;
o Nei climi aridi viene mantenuta più a lungo l'umidità intorno alle radici;
o Possibilità di ritardare la piantagione;
o Meccanizzazione delle operazioni di piantagione più agevole
 Svantaggi:
o Maggiori costi di produzione e di trasporto;
o Possibilità di danneggiare le radici con l'impiego di contenitori non adatti.

Caratteristiche dei contenitori

 Materiale: carta pressato, materiale plastico rigido o non rigido, torba pressata, ecc.;
 Forma: importante per le specie fittonanti, per evitare malformazioni all'apparato radicale;
 Volume: deve corrispondere alla dimensione delle piante che si vogliono produrre.
60
Modalità di allevamento

 Importanza del substrato di riempimento dei contenitori:


 Semina diretta nei contenitori (più usata e suscettibile di essere meccanizzata):
 Semina in aiuole e successivo trapianto in contenitore (per semi molto piccoli o nel caso di
partite con molti semi vani).

La micorrizazione artificiale in vivaio

Importanza delle micorrize per le piante forestali. Effetto deprimente delle pratiche colturali di
vivaio sulle micorrize (es. uso di substrati artificiali e concimazioni). Metodi di inoculazione
artificiale in semenzaio o in piantonaio:

 Impiego di terra prelevata in bosco


 Collocamento a dimora di alcuni semenzali micorrizati
 Disseminazione artificiale delle spore
 Impiego di colture pure dei funghi micorrizici, prodotte in condizioni asettiche

Principali caratteristiche per la valutazione della qualità del materiale vivaistico

 Morfologiche: H, D, peso, V della parte aerea e radicale, dimensione della gemma apicale,
colore, n° aghi secondari, dimensione e densità delle foglie, n° delle radici laterali primarie,
deformazioni e danni, fibrosità, indici tra due o più attributi.
 Fisiologiche: dormienza, stato idrico, nutritivo e dei carboidrati
 Performance: vigor test, root growth capacity, fluorescenza della clorofilla, termografia IR,
stress resistance, colorazione al TTC, fine root electrolyte leakage

Caratteristiche nutrizionali

Relative Water Content


𝑝𝑒𝑠𝑜 𝑓𝑟𝑒𝑠𝑐𝑜 – 𝑝𝑒𝑠𝑜 𝑠𝑒𝑐𝑐𝑜
(𝑅𝑊𝐶) = ∗ 100
𝑝𝑒𝑠𝑜 𝑡𝑢𝑟𝑔𝑖𝑑𝑜 – 𝑝𝑒𝑠𝑜 𝑠𝑒𝑐𝑐𝑜

Più il valore è alto, più la quantità del semenzale è alto; > capacità di emettere nuove radici

Fine Root Electrolyte Leakage e Shoot Electrolyte Leakage


𝐸𝐶(24) − 𝐸𝐶(𝐻2 𝑂)
𝑅𝐸𝐿𝑆𝐸𝐿 = ∗ 100
𝐸𝐶(𝑎𝑢𝑡𝑜𝑐𝑙) − 𝐸𝐶(𝐻2 𝑂)

- Viene immerso per 24h un campione in H2O  EC (24)


- Soluzione in cui ho autoclavato il campione  EC (autocl)

Più è alto il valore, minore è la quantità.

Root Growth Capacity o Root Growth Potential: misura la capacità delle giovani piantine di
formare nuove radici. Conferisce la capacità di attecchimento e sviluppo iniziale. Si determina
ponendo le piantine per 3-4 settimane in condizioni controllate di clima e di substrato e poi
pesando le nuove radici formatesi e sviluppatesi durante la prova.
61
La propagazione agamica nel vivaismo forestale

Viene applicata soprattutto in arboricoltura da legno per l’ottenimento di materiale d’impianto di


origine clonale. Le tecniche oggi impiegate in Italia su scala industriale sono:

 Talea per il pioppo ed il salice


 Micropropagazione per il ciliegio da legno

L’innesto può essere impiegato per la realizzazione di arboreti da seme. I cloni di specie forestali
per potere essere commercializzati devono essere iscritti al Registro Nazionale dei Materiali
Forestali di Base (RNMFB), ex Registro nazionale dei cloni forestali, attivato presso il MiPAAF e
previsto dal decreto legislativo 386/2003.

Allevamento in cassoni

Applicato soprattutto alle latifoglie fittonanti (es. querce, noce), consente di ottenere in 1 anno
piante di dimensioni sufficienti per la messa a dimora e con un apparato radicale ben conformato,
idonee anche all’arboricoltura da legno. Può essere attuata una forzatura per aumentare lo
sviluppo delle piante.

Rimboschimenti (Reafforestation) o Imboschimenti (Afforestation)


Rimboschimento: ricostituzione di una copertura forestale in un’area in cui c’era una volta.

Imboschimento: Costituzione di una copertura forestale in un’area in cui non c’era bosco.

- Rinfoltimento: piantagione per aumentare la densità del popolamento di una specie;

- Arricchimento: piantagione per arricchire il popolamento con individui di specie forestali


diverse da quella già presente (es. coniferamento dei cedui);

- Sottopiantagioni: piantagione sotto piante vicine a maturità per rinnovare il popolamento.

Ogni rimboschimento necessita di una progettazione e di un piano di gestione. Devono essere


chiari gli obiettivi dell’intervento e, sulla base di questi, date le caratteristiche della stazione, posso
scegliere le modalità di realizzazione dell’intervento stesso.

Obiettivi generali dei rimboschimenti

- Difesa del suolo: rimboschimenti in aree collinari e montane degradate, spesso in


associazione con opere di difesa idraulica (sistemazioni idraulico-forestali)

- Rinaturalizzazione di aree fortemente antropizzate: rimboschimenti in aree di pianura

- Altri scopi: come protezione da valanghe in zone di alta quota

La difesa del suolo è stato l’obiettivo primario del rimboschimento dall’800 a pochi decenni fa
cercando di evitare il dissesto idrogeologico con opere idrauliche.

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Negli ultimi decenni è emerso l’obiettivo delle rinaturalizzazioni di aree fortemente antropizzate,
rimboscando delle aree ex agricole di pianura.

Possono essere attuati o per piantagione o per semina (quest’ultima oggi più rara). Oggi si tende a
privilegiare la piantagione di piantine ottenute in vivaio. Per la scelta di specie e tipologie di
intervento è importante lo studio delle caratteristiche climatiche e pedologiche della stazione.
Non è sempre necessario scavare un profilo ma sono importanti struttura e potenza.

Preparazione del terreno

Aspetto rilevante del rimboschimento. Un’adeguata scelta di questi favorisce l’esito del
rimboschimento. Bisogna creare un ambiente pedologico favorevole all’attecchimento delle piante
che vengono messe a dimora.

- Decespugliamento: se è stato per più anni abbandonato

- Pareggiamento delle superfici: eventuale in aree di pianura per evitare il ristagno

- Lavorazione del suolo:

o Lavorazione andante: effettuata su tutta la superficie interessata dal rimboschimento

 Aratura e/o scarificatura

o Lavorazione localizzata: solo nelle aree in cui vengono messe a dimora le piante

 Strisce  Gradoni
 Buche  Piazzole
 Arginelli
o Minima lavorazione: tende a provocare il minimo disturbo possibile al suolo

 Piantagione a fessura

Lavorazione andante

Applicata nei casi in cui non ci sono problemi di dissesto idrogeologico, cioè il pericolo di favorire
l’erosione, lo scorrimento superficiale, ecc. applicato soprattutto in zone dove ci può essere il
massimo beneficio dato da questo tipo di intervento come terreni argillosi. Aumenta la macro e
micro porosità del suolo e quindi aumenta il drenaggio.

L’aratura è il ribaltamento del terreno + l’azione di frantumazione del suolo mentre la scarificatura
è l’apertura di trincee nel terreno in cui non c’è ribaltamento ed è preferita quando si vogliono
attuare lavorazioni profonde senza portare scheletro in superficie. Queste due possono essere
anche abbinate: lavorazione due strati, in uno o due passaggi con l’aratro ripuntatore.

A volte, in pianura, l’approfondimento con un ripper può essere utile per rompere la suola di
aratura cioè lo strato composto e impermeabile che si forma a seguito del passaggio delle
macchine sempre a una stessa profondità.

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Lavorazione localizzata

Si prevede di lavorare il suolo solo in corrispondenza delle zone in cui vengono poste le piante.
Questa lavorazione è ideale per la difesa del suolo. Vengono usate generalmente specie pioniere a
cui possono essere associate specie secondarie.

Per la lavorazione a strisce si arano solo strisce di una certa larghezza lungo le quali viene
effettuata la piantagione. C’è un’alternanza che riduce il pericolo di dissesto. Lavorazioni
effettuate lungo la massima pendenza in discesa.

Tipicamente, la lavorazione a buche, è la più utilizzata nei rimboschimenti. Dimensioni tipiche di


40x40x40 o 40x40x60 di profondità. Aperta con vanga o trivella attaccata a trattori. Si sconsiglia
nei terreni argillosi poiché tendono a compattarsi a livello delle pareti della buca andando in
contro al cosiddetto “effetto vaso”. Un rimedio può essere quello di graffiare le pareti della buca.

La lavorazione a gradoni consiste nell'apertura, con mezzo meccanico di adeguata potenza,


provvisto di lama frontale, di terrazzamenti di varia larghezza (da 3 a 4 metri a seconda del mezzo
meccanico impiegato), lungo le linee di livello con contropendenza a monte per trattenere meglio
le acque meteoriche ed evitare il ruscellamento e l'erosione delle pendici. Successivamente si
opera con una rippatura del terreno terrazzato alla profondità di 60-80 cm. Generalmente, lo
sviluppo totale dei gradoni per ettaro è di circa 1000-1200m.

Gli arginelli infine si costituiscono con il passaggio dell’aratro di creste sulle quali vengono
collocate le piantine. Impiegata tradizionalmente su terreni torbosi per consentire alle piantine di
evitare il ristagno idrico. Le creste si costituiscono rovesciando attraverso l’aratura una zolla di
terreno così si raddoppia l’orizzonte organico e viene esposto quello minerale

Minima lavorazione

Piantagione a fessura che mira a ridurre al minimo la lavorazione del terreno. Si fa quando le
caratteristiche del terreno vengono considerate già ottimali.

Impiego di escavatori di potenza medio piccola in terreni difficili

In terreni con abbondante scheletro e rocce superficiali, per non modificare eccessivamente la
morfologia del sito, possono essere realizzate trincee di scavo e reinterro, con un escavatore tipo
ragno, della larghezza variabile da 80 a 100 cm e di circa 60-80 cm di profondità, lungo le linee di
livello, a volte discontinue per la presenza di ceppaie, piantine o tare rocciose. L'interasse tra le
trincee, variabile, è mediamente di 6-7 m; tra una trincea e l'altra vengono scavate delle buche
delle dimensioni di circa 2-3 m2 per una profondità di circa 60-80 cm.

Rimboschimenti per la difesa del suolo in aree degradate

Si tratta generalmente di impianti monospecifici o misti di conifere pioniere, in relazione alle


difficili condizioni stazionali. Le specie maggiormente impiegate sono pino d’Aleppo, pini neri, pino
silvestre così da innescare processi di successione secondaria della vegetazione. Lavorazione del
terreno localizzata a buche o, soprattutto in area mediterranea, a gradoni, oppure misto a buche e
trincee di scavo e reinterro. Densità d’impianto: 1000 - 2000 piante/ha.
64
Non devono essere abbandonati, vanno mantenuti con cure colturali come eventuali risarcimenti
(nel caso le piante non avessero attecchito), ripuliture (manuali o meccaniche) e diradamenti
(quando le chiome cominciano a toccarsi). È importante l’accuratezza nelle operazioni di impianto.

Rimboschimenti per la rinaturalizzazione di aree di pianura

Si tratta generalmente di impianti misti o più raramente monospecifici di latifoglie (specie


secondarie) tipiche delle aree planiziarie. Le specie arboree impiegate sono farnia, rovere, carpino
bianco, ciliegio selvatico, olmo campestre, acero campestre, frassino maggiore, orniello, ontano
nero, pioppo nero, pioppo bianco, salice bianco, etc. Possibile inserimento anche di specie
arbustive. Siamo in condizioni di buona fertilità, con suolo profondo e a basso rischio di dissesto
idrogeologico. Lavorazione del terreno andante mediante aratura eventualmente abbinata ad una
ripuntatura (lavorazione a due strati). In certi casi può essere anche opportuno approfondire i fossi
di scavo per aumentare il franco di coltivazione (la distanza tra le superfici del suolo e la falda).
Vengono inoltre ridotti i tempi che in natura sarebbero necessari per passare da vegetazione
climax tramite una successione secondaria. Quando si impiegano specie arboree relativamente
esigenti (specie secondarie) in aree facilmente meccanizzabili la lavorazione localizzata non è in
genere conveniente in quanto le specie introdotte si avvantaggiano significativamente del
miglioramento delle condizioni fisiche del suolo indotto con la lavorazione andante. L’effetto
positivo della lavorazione andante è particolarmente evidente nei terreni argillosi.

Schemi di piantagione

Le diverse specie possono essere collocate a dimora (consociate) in vario modo:

- In maniera alternata sulla fila e tra le file secondo disegni di varia natura

- A gruppi monospecifici (gruppi di 5-15 piante o di 50-60 piante) tra loro alternati.

I filari di piantagione possono essere anche curvilinei allo scopo di conferire al soprassuolo una
impressione di maggiore “naturalità”. Le densità di impianto variano da 1100 a 2000 piante/ha.
Bisogna però tener conto il diverso accrescimento delle singole specie. Soprattutto quando
l’alternanza avviene a livello di singola pianta e non di gruppo. Anche qui avremo cure colturali
come eventuali risarcimenti, irrigazioni di soccorso, diserbi (manuali e meccanici) e diradamenti
(fondamentali per accrescimenti più veloci che in ambienti montani).

I rimboschimenti nel piano subalpino

Costituzione di soprassuoli che possono avere anche funzione di protezione diretta. Sono ambienti
particolari in cui lo sviluppo delle giovani piante rimboschite può essere ostacolato da vari fattori:

- Permanenza della copertura nevosa (breve o prolungata)


- Movimenti del manto nevoso
- Venti freddi
- Scarsità di nutrienti nel suolo

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Rapporti tra micro-topografia e potenzialità di crescita della rinnovazione nel piano subalpino

Micrositi sfavorevoli

• Depressioni e concavità dove la neve permane più a lungo


• Incisioni provocate da fenomeni erosivi
• Zone umide con presenza di terreno torboso e/o di
megaforbie
Micrositi favorevoli
• Convessità del suolo dove la neve permane meno a lungo
• Creste od altre aree sopraelevate
• Zone vicino a vecchie ceppaie
L’alternanza di micrositi favorisce una struttura della vegetazione
forestale a gruppi

Scuola forestale svizzera: tecniche di rimboschimento che imita il


concentramento in gruppi nei micrositi favorevoli.

- Rimboschimento a cluster: si collocano a dimora


gruppi monospecifici costituiti ciascuno da 20-30 semenzali
posti ad una distanza reciproca di 50-100 cm (il diametro di
ciascun gruppo non supera i 2-4 metri). La disposizione a
gruppi consente ai semenzali più interni di difendersi dal
morso degli animali. Vengono attuati da 2 a 5-6 collettivi
monospecifici alla distanza reciproca di 2-3 m in modo che
entro 20-30 anni potranno tra loro fondersi formando un
cluster. L’obiettivo è quello di creare un popolamento
fortemente strutturato a collettivi, con presenza di margini
stabili.

Rimboschimento per semina

Aspetti positivi:

- Minore artificialità del popolamento


- Integrità dell’apparato radicale per le fittonanti
- Possibilità di operare più facilmente in zone di difficile accesso o percorsi dal fuoco

Aspetti negativi:

- Predazione del seme e devitalizzazione di questo a causa di funghi e insetti


- Minore possibilità di controllo della vegetazione spontanea che può competere con i
semenzali

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La riuscita della semina dipende generalmente dalle piogge cadute dopo la semina. Nelle aree
mediterranee si pianta in autunno/inverno. Il rimboschimento per semina può avere ancora oggi
un interesse perché risulta meno costoso delle piantagioni in termini sia economici che energetici.
Oggi le querce sono le specie per cui talvolta si prova il rimboschimento per semina, a gruppi o a
file, in ogni buca possono essere collocate una o più ghiande. La germinazione non dovrebbe
essere minore di ⅓ dei semi messi a dimora.

Semine con bombe di semi

Attuate anche con mezzi aerei

Selvicoltura delle specie esotiche


Eucalyptus spp. – Eucalitti
Il genere Eucalyptus comprende oltre 700 entità specifiche e sottospecifiche, tutte originarie
dell’Australia e di altre isole vicine (Tasmania, Nuova Guinea, ecc.). L’Eucalyptus è il più coltivato al
mondo per la produzione legnosa (oltre 5 milioni di ha in Australia, America latina, Sud Africa e
bacino del Mediterraneo). Introdotti in Italia nel 1803 (Orto botanico della Reggia di Caserta)
utilizzati per traverse ferroviarie, paleria per miniere, opere di bonifica e, dagli anni “50 in poi, per
paste da carta. Tra le varie specie introdotte in Italia si citano:

 E. globulus  E. gunni  E. gomphocephala


 E. x trabutii  E. dalrympleana  E. occidentalis
 E. camaldulensis  E. rubida  E. viminalis
 E. bicostata
Di queste, allo stato attuale solo le prime tre vengono ritenute coltivabili in Italia per finalità
produttive, limitatamente alla zona del Lauretum secondo Pavari.

 E. globulus: specie sensibile al freddo, da impiegare dove le gelate sono poco frequenti e in
aree con piovosità non inferiore ai 500 mm. Trova l’ottimo in terreni a reazione subacida,
freschi e profondi. Teme i terreni superficiali, nonché quelli argillosi, quelli calcarei e quelli
con drenaggio difficoltoso. È la specie più richiesta per le paste da carta.
 E. x trabutii: ibrido naturale tra E. camaldulensis ed E. botryoides. Dal pov climatico e
pedologico ha esigenze simili alla specie precedente, rispetto alla quale presenta però una
maggiore tolleranza ai terreni moderatamente argillosi.
 E. camaldulensis: specie più plastica rispetto alle precedenti per quanto riguarda le
caratteristiche del terreno, maggiormente resistente all’aridità e relativamente più
resistente al freddo invernale (fino a -6/-7°C). È la specie più impiegata nel bacino del
Mediterraneo in impianti puri e come frangivento.
 E. gomphocephala ed E. occidentalis: sono specie potenzialmente più adattabili ai terreni
argillosi e alla siccità.
 E. gunni, E. dalrympleana, E. rubida, E. bicostata ed E. viminalis: sono specie più resistenti
al freddo (sempre limitatamente alla fascia del Lauretum).
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Per la piantagione sono stati tradizionalmente impiegati semenzali di 6-8 mesi allevati in
contenitore. Oggi per i cloni selezionati si usano talee radicate. In questi ultimi anni in Italia sono
stati individuati cloni di E. camaldulensis ed E. globulus di produttività quasi tripla rispetto al
materiale normalmente in commercio. Eventuali nuovi impianti devono essere attuati solo in aree
idonee dal pov ambientale, ricorrendo ad una lavorazione profonda del terreno.

Modulo colturale per la produzione di tondelli da cartiera

 Densità di impianto: 1100 (3 x 3 m) 1300 (3 x 2,5 m) piante/ha.


 Nei primi anni: controllo della flora spontanea mediante lavorazione superficiale del
terreno, potature di formazione al 3°- 4° anno. (Possibilità di attuare sfollamenti delle
ceppaie nei primi anni dopo la ceduazione).
 Spalcatura fino a 2 m per migliorare la dominanza apicale e per ridurre i rischi di incendio.
 E. globulus: ceduazione al 12° anno seguita da 2-4 cicli agamici di 8 anni ciascuno.
 E. camaldulensis: ceduazione al 15° anno seguita da 2-4 cicli agamici di 13 anni
ciascuno.

Fasce frangivento: si eseguono in 2-3 file ponendo le piante a distanze di 2 x 2 – 2,5 x 5 m.


Problemi connessi alla competitività con le colture agrarie per l’acqua e gli elementi nutritivi.

Produttività degli impianti di eucalipto

La maggior parte degli impianti di eucalipto fino ad oggi attuati in Italia ha fornito risultati
produttivi scadenti (perché attuati in aree non idonee), nella maggior parte dei casi non superiori
ai 5-6 m3/ha/yr all’età di 10-12 anni. In cedui della Sicilia ubicati in buone condizioni stazionali
sono stati osservati incrementi medi anche di 15-16 m3/ha/yr. In alberate frangivento ubicate in
aree particolarmente fresche e fertili dell’Italia meridionale sono stati misurati incrementi anche
superiori ai 25-30 m3/ha/yr. Nell’America meridionale, con cloni selezionati, vengono raggiunte
produttività anche superiori ai 40-50 m3/ha/yr all’età di 5-6 anni e ciò testimonia le potenzialità di
questa specie.

Uso del legno: paste da carta e pannelli (tondelli con diametro > 3 cm). L’impiego per paleria è
ormai in disuso. Gli assortimenti di eucalipto prodotti in Italia spesso sono poco idonei come legno
da lavoro a causa della presenza di difetti (forti tensioni interne, nervosità, elevati ritiri).

Avversità: P. semipunctata, insetto le cui larve scavano gallerie sottocorticali che possono
condurre a morte la pianta (lotta mediante impiego di piante esca).

Pseudotsuga menziesii – Douglasia


La douglasia è una conifera originaria dell’America settentrionale, lungo il settore occidentale degli
USA, dal confine con il Canada quasi fino al Messico. Introdotta in Italia nel 1858 (Parco di
Moncioni – Arezzo) è stata ampiamente sperimentata ai fini della produzione legnosa a partire
dagli anni “20. Attualmente in Italia è presente su circa 20.000 ha, in Francia 330.000 ha, negli altri
paesi dell’Europa centro-occidentale 290.000 ha. La Douglasia è la conifera esotica a rapido
accrescimento che oggi presenta le maggiori possibilità di diffusione nel nostro paese.

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In Italia trova le migliori condizioni vegetative dalla sottozona fredda del Castanetum alla
sottozona calda del Fagetum. Le piogge devono essere almeno di 850 mm con non meno di 100
mm nel periodo estivo. Teme l’aridità (soprattutto nella fase giovanile), le aree ventose (es.
crinali), ed è sensibile alle gelate tardive ed ai danni da neve pesante. I migliori accrescimenti si
hanno nei terreni profondi, sciolti e ben drenati, a reazione acida o subacida. In pratica si tratta dei
medesimi suoli ove vegeta bene il castagno. Le provenienze che, secondo alcuni autori, sono più
adatte ai nostri ambienti sono:

 Per le regioni subalpine occidentali: British Columbia e Washington;


 Per l’Appennino centro-settentrionale: Washington, Oregon, California.

Per l’impianto si utilizzano trapianti di 4 anni (2S+2T) a radice nuda o trapianti di 2 anni (1S+1F) in
contenitore.

Moduli colturali

 Ciclo breve per la produzione di materiale di piccole dimensioni (da cartiera o altro):
densità iniziali definitive di 1600-2000 piante/ha – eventuali spalcature del fusto fino a 2 m
di altezza – taglio raso a 30-35 anni.
o Modulo adatto per investimenti su grandi superfici. Possibili problemi legati al
modesto valore degli assortimenti prodotti ed alla scarsa elasticità del modello
colturale.
 Ciclo medio per la produzione di assortimenti da sega: densità iniziali di 1000-1100
piante/ha – diradamenti a 15-20; 25-30; 35-40; 45-50 anni di età del soprassuolo – taglio
raso a 60 anni, con 300-350 piante/ha. Il primo diradamento può essere attuato con criteri
geometrici o misti, gli altri con criteri selettivi, individuando le piante candidate che
arriveranno alla fine del turno.
o Modulo adatto per aziende medio-grandi, consente una certa continuità delle
utilizzazioni e di concentrare sui soggetti migliori le potenzialità della stazione.

Criteri colturali per migliorare la qualità del legno da sega di douglasia

L’intensità dei diradamenti può essere regolata sulla base di un S% (indice di Hart Becking=
d/Hdom*100) intorno a 17-19; i diradamenti frequenti (ogni 6-7 anni) consentono di ottenere una
buona omogeneità dei ritmi di crescita durante il ciclo produttivo e di mantenere un valore del
rapporto ipsodiametrico < 90 (valori superiori indicano una scarsa stabilità delle piante e quindi la
necessità di attuare diradamenti moderati). Spalcature fino ad un’altezza del fusto di 2 m attuate
al momento del primo diradamento. Potatura delle piante candidate fino a 6 m da terra attuata in
due o tre interventi (preferibilmente al momento dei diradamenti).

Produzioni legnose

 Prealpi lombarde: 10 -14 m3/ha anno a 28-30 anni


 Appennino toscano: 13 - 22 m3/ha anno a 50 anni
 Calabria: 13-18 m3/ha anno a 19 anni

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Assortimenti

 Da sega D> 25-30 cm, L> 300 cm


 Da imballaggio D> 14-20 cm, L> 120cm
 Da cartiera D> 10 cm, L> 200 cm

Avversità

 Marciumi radicali da H. annosum;


 Defogliazioni dovute a funghi (P. gauemannii e R. pseudotsugae)
 Defogliazioni dovute ad afidi (Gilletteella cooley e G. coweni).

Altre conifere esotiche utilizzate in Italia per l’arboricoltura da legno


Si tratta soprattutto di due pini americani, il pino radiato ed il pino strobo, sperimentati in Italia, su
scala più o meno vasta, ai fini della produzione legnosa nella seconda metà del secolo scorso ed
ormai sostanzialmente abbandonate in relazione a fattori ecologici (esigenze climatiche e/o
pedologiche molto specifiche) ed economici (modesta richiesta da parte del mercato). Oggi negli
impianti di queste specie sono spesso previsti interventi di rinaturalizzazione.

Pinus radiata – Pino radiata o Pino insigne


Pino a tre aghi originario di aree costiere ristrette della California (l’areale naturale copre circa
8000 ha), potenzialmente coltivabile nel Lauretum freddo, è adattato a climi oceanici con elevata
umidità dell’aria. È il pino più coltivato al mondo (circa 3.7 milioni di ha soprattutto in Nuova
Zelanda, Cile, Australia, Spagna) ed è la seconda specie coltivata al mondo per la produzione
legnosa dopo gli eucalipti. Il pino radiato è una conifera a rapida crescita, con un legno a basso
contenuto in resina. In Nuova Zelanda è estesamente coltivato con turni di circa 28 anni per la
produzione di legname da opera. Piante di circa 20 anni (derivate da diradamenti o da colture
dedicate) possono essere utilizzate per assortimenti da cartiera.

Produzione legnosa

 In Calabria: 12-19 m3/ha/yr a 20 anni


 In Sardegna: 7-30 m3/ha/yr a 15-20 anni
 In Toscana (Maremma): 17-28 m3/ha/yr a 28 anni

Assortimenti

 Da sega: D> 22 cm
 Da imballaggi: D 14-22 cm
 Da cartiera: D 10-14 cm

Avversità

 Defogliazioni da lepidotteri (T. pityocampa e da R. buoliana) e da agenti fungini (D. pini).


 Marciumi radicali da Armillaria spp.

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Pinus strobus – Pino strobo
Pino a cinque aghi originario dell’America settentrionale, zona dei grandi laghi, potenzialmente
coltivabile nella zona del Fagetum su substrati acidi e subacidi (Prealpi piemontesi e lombarde)
dove può manifestare rapidi accrescimenti. Il legno del pino strobo è ottimo per cartiera. Può
essere usato per arredamento di interni e mobili, sfogliato per ottenere compensati o tranciato.

Produzione legnosa

 In Piemonte e Lombardia 8-11 m3/ha/yr a 12-18 anni


 In Lombardia 6,5-20,8 m3/ha/yr a 20-25 anni
 In Veneto (Bellunese) 9-15 m3/ha/yr a 15 anni
 In Calabria (Serre) 14,9 m3/ha/yr a 22 anni

Avversità

 Danni da D. splendidella, le cui larve, scavano gallerie nel tronco


 Attacchi di ruggine vescicolosa (Cronartium ribicola),
 Marciumi radicali da P. cactorum, Armillaria ed H. annosum.

Elementi di selvicoltura urbana


Le alberature in ambiente urbano possono svolgere molteplici funzioni:

- Funzione estetica (e psicologica);


- Ombreggiamento e quindi mitigazione dei calori estivi;
- Attenuazione dei rumori determinati dal traffico o da attività produttive;
- Filtraggio delle polveri;
- Barriera visiva (ad es. per nascondere inestetismi del paesaggio).

Tra queste funzioni, una o alcune possono prevalere sulle altre e pertanto devono essere
attentamente considerate in fase progettuale e gestionale. Tra i principali problemi legati alla
progettazione ed alla gestione delle alberature urbane si citano:

- La frequente presenza di inquinanti nell’aria e nel suolo;


- Lo scarso spazio spesso disponibile (sia a livello epigeo che ipogeo);
- La necessità di non creare situazioni pericolose sia per il traffico che per i pedoni;
- La necessità di attuare metodi di lotta antiparassitaria di basso o nullo impatto ambientale;
- La necessità di contenere i costi di gestione.

Proprietà del suolo desiderabili per suoli importati

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- Tessitura: sabbia e limo con meno del 40% di argilla (<2micrometri)
- pH: tra 4 e 8
- Contenuto di pietre: meno del 30% in peso secco e pietre di dimensioni inferiori a 50 mm
- Altro: privo di semi di erbe, radici di erbe perenni, ramoscelli e altro materiale
- EC: sotto a 2 mS/cm
- Contenuto di metalli pesanti: sotto il valore limite EEC

Le specie prescelte dovranno essere:

- Di taglia adeguata allo spazio epigeo ed ipogeo disponibile;


- Resistenti alle tipologie ed ai livelli di inquinamento localmente presenti;
- Esenti da malattie gravi e difficilmente controllabili;
- In grado di crescere senza l’applicazione di interventi colturali molto frequenti;
- Compatibili con la o le funzioni prevalenti assegnate all’alberatura (puramente estetica, di
ombreggiamento, di barriera visiva, ecc.).

Possiamo trovare:

 Alberi di 1° grandezza, H max > 30 m (> 18 m) es. Platanus occidentalis, Quercus robur
 Alberi di 2° grandezza, H max 25-30 m (10-18 m) es. Acer pseudoplatanus, Aesculus
hippocastanum
 Alberi di 3° grandezza, H max 20-25 m (< 10 m) es. Sorbus aucuparia, Quercus pubescens
 Piccoli alberi H max < 10 m es. Laburnum anagyroides, Cercis siliquastrum

Classi dimensionali m2 Profondità Volume (m3) Superficie minima libera Distanze di piantagione
1° grandezza (+ 18m) 3x3 2 18 2.50 x 2.50 10 - 15
2° grandezza (10 - 18m) 2.50 x 2.50 1.50 9.35 2x2 7 - 10
3° grandezza (fino a 10m) 2x2 1.20 4.80 1.50 x 1.50 5-7

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Circonferenza tronco/taglia D zolla (cm) n° trapianti La dimensione della zolla è
(cm) correlata alla taglia dell’albero ed al
14 – 16 50 2 numero di trapianti. La sola
16 – 18 55 3
dimensione della zolla in funzione
18 – 20 60 3–4
dell’altezza non è significativa. Per
25 – 30 80 4
alberature di latifoglie i rapporti
30 – 35 90 5
45 – 50 120 6
sono quelli elencati in tabella.

La piantagione degli alberi ornamentali

- Predisposizione della buca o della - Predisposizione di impianto irriguo


fossa di impianto per interventi di soccorso
- Messa a dimora di esemplari con - Predisposizione di sostegni
pane di terra - Eventuale predisposizione di
- Concimazione protezioni

Doppio filare alberato: larghezza stradale min. 24 m con orientamento nord-sud

Gli interventi colturali dovranno essere rivolti a:

- Favorire l’attecchimento delle piante dopo la messa a dimora (irrigazioni di soccorso,


protezioni dai danni accidentali e dai vandalismi, ecc.);
- Conferire alle piante una morfologia del fusto e della chioma adeguata alle funzioni
previste (potatura di formazione) e stabile nel tempo (potatura di mantenimento).

Le potature degli alberi ornamentali

- Di formazione: attuata in vivaio - Di ringiovimento


- Di trapianto: per l’attecchimento - Tagli di ritorno: per ridurre la chioma
- Di allevamento - Potatura a tutta cima: per sfoltire la
- Di mantenimento chioma

Le potature devono essere attuate senza provocare stress alle piante che potrebbero:

- Aumentare il rischio di malattie;


- Ridurre la longevità degli alberi;
- Creare situazioni non favorevoli dal pov statico (marciumi interni al fusto, formazione di
rami più facilmente soggetti a rotture per neve o vento, ecc.).

La protezione degli alberi isolati nelle aree di cantiere

Possibili danni:

- Parte epigea: urti con macchine ed attrezzi e bruciature;


- Parte ipogea: riporto di terreno, abbassamento del livello del terreno, scavi di trincee per
fondazioni o altro e costipamento del suolo (passaggio di mezzi pesanti, ecc.)

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Interventi di protezione:

- Parte epigea: protezione del fusto con strutture in legno ed eventuali legature dei rami
- Parte ipogea: rilascio di aree di rispetto (r= 1,5-2m oltre la proiezione della chioma),
altrimenti costituzione di uno strato di suolo aerato prima del riporto di suolo; protezione
del costipamento con uno strato di ciottoli sul quale appoggiare tavole di legno o piastre
metalliche per il passaggio delle macchine; esecuzione di scavi a mano e fondazioni
discontinue in prossimità di piante; preparazione delle piante per scavi di lunga durata.

Gli inventari delle alberature

Per il controllo dello stato delle piante (soprattutto ai fini della sicurezza pubblica) e per la
programmazione degli interventi di gestione, sono utili gli inventari delle alberature (o inventari
del verde urbano), che possono essere attuati con varie metodologie e vari livelli di dettaglio. Gli
inventari vengono normalmente redatti su base comunale e sono costituiti essenzialmente da una
descrizione delle singole alberature (ubicazione, specie, numero e dimensioni delle piante, stato
sanitario, valutazione delle condizioni statiche, VTA ecc.) sulla base della quale può essere definita
una scala di priorità degli interventi colturali (reimpianti, potature, eventuali interventi, ecc.).
Spesso sono redatti su base informatizzata, per renderli più facilmente consultabili ed aggiornabili
nel tempo.

VTA – Visual Tree Assessment

Esame visivo della pianta per individuare eventuali anomalie strutturali (sintomi) indicative di
condizioni interne in grado di pregiudicare in maniera più o meno grave la resistenza meccanica
della pianta a sollecitazioni esterne (es. presenza di carie). All’esame visivo possono poi seguire
indagini strumentali per approfondire la diagnosi (sistemi penetrometrici per misurare la densità
del legno, tomografia).

Sintomi di una scarsa vitalità della pianta:

- Anomalie delle foglie - Seccumi apicali


- Microfillia - Lenta rimarginazione delle ferite

Sintomi di una possibile presenza di carie interna alla pianta:

- Rigonfiamenti, depressioni o costolature - Presenza di corpi fruttiferi sul fusto


- Fessurazioni della corteccia - Elevata fruttificazione in piante di età
- Lesioni al fusto ed ai rami avanzata

Indicazioni di una tendenza progressiva della pianta al ribaltamento

- Inclinazione del fusto non giustificata dalla luce


- Rigonfiamenti, avvallamenti o fessurazioni del terreno in prossimità delle piante

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Resistograph

Si verifica il rapporto t/r, dove r è il raggio della pianta


nella sezione considerata e t è la porzione di raggio in
cui il legno è sano. Il valore di t/r = 0,3 è considerato il
limite al di sotto del quale le probabilità di caduta
dell'albero sono molto elevate e si deve stabilire se è possibile mettere in sicurezza l'esemplare o
se è necessario l'abbattimento. Oltre al solo rapporto t/r il tecnico rilevatore deve tenere conto
anche di altri parametri e di altri aspetti riguardanti la chioma, la posizione della pianta, la
presenza di altri alberi, ecc.

Tomografia sonica

Si effettua una vera e propria tomografia della sezione della pianta che si sospetta abbia delle
degradazioni significative. Lo strumento è costituito da un set di sensori (da 8 a 12), che vengono
posizionati nei punti strategici attorno alla zona che si vuole indagare. Ogni sensore è connesso ad
un chiodo (0.8 – 1 mm), il quale permette il contatto con il legno. L’onda sonica viene generata
manualmente attraverso un martello collegato al modulo e al chiodo. I diversi sensori misurano il
tempo di trasmissione dell’onda sonica; dai tempi di trasmissione e dalla
distanza tra i sensori, vengono calcolate le velocità apparenti dell’onda
sonica. È inoltre possibile determinare il rapporto t/r. I dati vengono registrati
ed elaborati con appositi software:

- Zone nere e marroni: legno sano


- Zone blu, viola o bianche: legno molto cariato o cavità.
- Zone verdi: legno ancora dotato di una funzione meccanica, ma con
infezione fungina in atto.

Classi di Propensione al Cedimento

- A: Trascurabile - C/D: Elevata


- B: Bassa - D: Estrema (abbattere la pianta)
- C: Moderata
Ferite di potatura e fenomeni di decadimento degli alberi

- Diametro delle ferite (max ¼ - ⅓ del D del fusto o della branca)


- Numero delle ferite
- Posizione delle ferite rispetto al fusto (influenza la formazione di barriere naturali)
- Sensibilità specifica ed età della pianta
- Periodo della potatura (il periodo meno indicato sembra essere quello autunnale)

Finalità della potatura

- Eliminare rami in pericolo di caduta


- Favorire l’accesso ai percorsi
- Guidare la pianta verso forme prestabilite
- Consentire la produzione di legno di qualità.
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