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APPUNTI SUL LIVIO DI MACHIAVELLI

PAUL VAN HECK

Italiaanse taal en cultuur, Universiteit Leiden, P.O. Box 9515, 2300 RA Leiden,
The Netherlands
E-mail: heck@euronet.nl

Abstract

Of all the classical authors Machiavelli read and meditated upon, none was more impor-
tant to him than Livy, whose Ab Urbe condita libri had a profound impact on the shaping
of his political thinking. When Machiavelli wrote his major works, Il Principe and the
Discorsi, some twenty printed editions of Livy’s history already existed. As the textual
and, more especially, the paratextual differences between them are considerable, the
question which edition Machiavelli actually used is of some importance. This subject is
dealt with by Ronald T. Ridley in his 1987 article Machiavelli’s Edition of Livy, where
he postulates that Machiavelli used the Paris edition published in 1511 by Josse Bade.
In the present article this thesis and the question it aims to resolve are examined closely;
moreover, some observations are made about the paratextual characteristics of the Livy
editions published between ca. 1470 and ca. 1520.

–––––––––––––––––––––––––––––––––––

Chi prova ad individuare l’edizione liviana che fu alla base delle opere
maggiori di Niccolò Machiavelli, trova sulla sua strada una serie di
ostacoli non facilmente superabili.1 Anzitutto ai tempi in cui Machiavelli
scrisse i suoi capolavori circolava già una serie piuttosto nutrita di stampe
liviane,2 di cui qualcuna oggi è rarissima. A ciò si aggiunge il fatto che
queste edizioni sono nel complesso poco studiate, soprattutto perché sono
di scarsa utilità a fini ecdotici: quasi tutti i testimoni filologicamente
rilevanti degli Ab Urbe condita libri sono infatti manoscritti.3 Anche
sul versante machiavelliano gli ostacoli da superare sono non indiffe-
renti. Anzitutto per i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio non
disponiamo ancora di un testo critico veramente affidabile. In secondo
luogo bisogna continuamente tenere presente la possibilità che la versione
machiavelliana di fatti ed avvenimenti di matrice liviana sia basata non
sull’opera dello stesso Livio, ma su altre opere classiche o post-classiche.
E infine, e soprattutto, c’è l’allegra disinvoltura con cui Machiavelli
soleva maneggiare il materiale delle sue fonti. Gli studi degli ultimi anni4
hanno abbondantemente dimostrato, fra l’altro, che M. si affidava spesso
alla memoria o ad appunti datati e imprecisi, e che nelle sue versioni
di fatti e avvenimenti antichi confluiscono e si confondono spesso
elementi attinti ad opere diverse, o a passaggi diversi della stessa opera.

Neophilologus 86: 557–565, 2002.


 2002 Kluwer Academic Publishers. Printed in the Netherlands.
558 Paul van Heck

Stando così le cose, non stupirà che gli studi sull’argomento non
abbondano. A chi scrive è noto un solo articolo dedicato espressamente
a questa materia, pubblicato una quindicina d’anni fa da Ronald T.
Ridley.5 Il quale contributo verte sulle circa sessanta citazioni liviane
in latino contenute nei Discorsi, che vengono messe a confronto con i
passi correspondenti nell’antica tradizione a stampa.6 Il Ridley prende
in considerazione otto edizioni liviane pubblicate fra il 1469 e il 1511,
nonché quattro edizioni pubblicate (o cominciate a pubblicare) negli anni
1518–22. Queste ultime per ovvi motivi non possono essere state il punto
di partenza della meditazione machiavelliana su Livio, ma potrebbero
in teoria essere state consultate nella fase estrema della composizione dei
Discorsi, e costituiscono comunque utilissimo materiale di studio e
termine di confronto. Accostando in tal modo passi di ambedue le opere,
il Ridley giunge ad attribuire importanza decisiva alla forma verbale
passiva exauctorentur in D III.36.12: forma manifestamente errata, poiché
il contesto impone la forma attiva exauctorent (Liv. VIII.34.9). Questa
forma errata, che sarebbe comune a L B G,7 ricorrerebbe in una sola
edizione liviana: quella pubblicata nel 1511 a Parigi dallo stampatore
ed erudito Josse Bade, detto Ascensio. Donde la conclusione del Ridley:
“Does an edition of this date, 1511, when Machiavelli finished the
Discorsi in 1519, not make complete sense? In other words, he bought
or borrowed an edition published in Paris by one of the most famous
scholars and printers of his day, the great friend of Erasmus, the founder
of the glories of French publishing in the sixteenth century.”
Ma forse è meglio essere più prudenti. Anzitutto l’identificazione
proposta poggia su una sola forma. Poi va sottolineato che il Ridley ha
esaminato bensì un buon numero di edizioni liviane “from the first until
the first edition of the Discorsi (1469–1531)” (egli stesso a p. 340 le
definisce “the major editions”), ma non certo tutte le edizioni pubbli-
cate in quel periodo. È vero che molte edizioni non esaminate sono
riedizioni di edizioni esaminate; ma, a parte il fatto che almeno in alcuni
casi il testo delle riedizioni sarà stato ricomposto ex novo, e che ogni
testo ricomposto contiene inevitabilmente un certo numero di varianti
involontarie, allo stato attuale delle nostre conoscenze è difficile dire
se si sia trattato sempre di riproduzioni che nelle intenzioni dei curatori
fossero identiche, o magari di edizioni qua e e là ritoccate. È chiaro
dunque che bisognerà prendere in considerazione tutta la tradizione
liviana antica, senza esclusioni di sorta.
A chi scrive sono note 25 edizioni liviane complete del testo allora
noto pubblicate (o cominciate a pubblicare) tra il 1469 (data presumi-
bile della princeps) e il 1522.8 Un controllo sistematico del luogo su
cui poggia l’identificazione proposta dal Ridley permette di costatare che
l’ed. badiana del 1511 non è l’unica in cui si legge exauctorent[ur]
anziché exauctorent. L’errata forma passiva si riscontra anche altrove:
Appunti sul Livio di Machiavelli 559

anzitutto, sempre con desinenza abbreviata, nelle successive edd. badiane


del 1513 e 1516; poi, a piene lettere, nelle edd. Venezia 1495 e Lione
ca. 1511, non viste dal Ridley.9 Questa costatazione induce a riesa-
minare da capo il problema, prendendo questa volta in considerazione
tutte le edizioni liviane allora esistenti e allargando i raffronti testuali
ad altre porzioni di testo.
Un campo d’indagine che potrebbe dare risultati interessanti è quello
dell’antroponimia. In non pochi casi, infatti, i nomi dei personaggi antichi
nei Discorsi 10 non compaiono nella forma ritenuta oggi corretta. Alcuni
esempi: in D I.36.2 si legge “Manilio” anziché “Manlio” (da Liv. II.43.11
etc.); in D I.39.10 “Terentillo” anziché “Terentilio” (da Liv. III.9.2 etc.);
in D II.4.30 “Flaminio” anziché “Flaminino” (da Liv. XXXI.4.3 etc.);11
in D III.6.68 “Teodoro” anziché “Teodoto” (da Liv. XXIV.5.10 etc.); in
D III.12.17 “Claudio Ponzio” anziché “Caio Ponzio”; (da Liv. IX.1.2);
in D III.24.8 “Publio” anziché “Publilio” (da Liv. VIII.26.7 etc.); in
D III.25.10 “Tarquinio” anziché “Tarquizio” (da Liv. III.27.1).12 Un
raffronto sistematico di questi ed altri consimili casi ci insegna però
che le forme che compaiono nei Discorsi (e che hanno spesso il carat-
tere di lectio facilior) si ritrovano in pressocché tutte le edizioni liviane
in esame, e riflettono dunque l’uso del tempo.13 Ai nostri fini, essi sono
dunque privi di utilità.
Alquanto più complessa è la situazione in alcuni altri casi. In D I.45.15
è chiamato “Marco Duellio” un personaggio oggi noto come Marco
Duillio. Nelle stampe liviane antiche tale personaggio è chiamato sia
M. Duillius sia M. Duellius; e in non poche di esse le due forme si
alternano. In D I.5.15 sono chiamati “Marco Menenio” e “Marco Fulvio”
due personaggi oggi noti come Caio Menio e Marco Folio, e che nelle
stampe liviane antiche sono indicati come C. [o G.] Menenius e M.
Follium (IX.26.7).14 L’errore nel prenome del primo potrebbe spiegarsi
con la presenza, nella prima deca liviana, di due personaggi che difatti
si chiamano Marco Menenio (IV.53; VI.19); potrebbe, in altre parole,
essere attribuibile allo stesso Machiavelli. L’errore nel cognome del
secondo invece è sicuramente attribuibile al Mazzoni, visto che L B G
leggono concordemente “Marco Follio”. In D I.13.9 è chiamato “Publio
Ruberio” il personaggio che in tutte le stampe liviane, antiche e
moderne,15 si chiama “Publio Valerio (Publicola)” (Liv. III.15.1; 17.1;
etc.); “Ruberio” sarà errore di memoria o, meglio, un banale errore di
trascrizione.16 In D I.13.10 è chiamato “Tito Quinzio (Cincinnato)” il
personaggio che in tutte le stampe liviane antiche e moderne è indicato
come L. (= Lucio) Quinzio (Liv. III.19.2 etc.). Ma anche qui Machiavelli
sembra non aver colpe: dove B e G, alla cui lezione si attiene il Mazzoni,
hanno rispettivamente “T.” e “Tito”, L legge, a piene lettere, “Lucio”.
Questa casistica dimostra dunque che molte di quelle che per noi sono
inesattezze nella grafia dei nomi antichi, non sono affatto imputabili a
560 Paul van Heck

Machiavelli. Ad individuare il Livio da lui utilizzato, però, essa non ci


è di nessun aiuto.
Un altro settore che potrebbe illuminarci in materia è quello delle cifre
e dei numeri che nei Discorsi ricorrono in passaggi di pertinenza liviana,
i quali non sempre trovano corrispondenza nelle edizioni liviane moderne.
In D I.33.2, per esempio, si parla di “quaranta” popoli che congiurarono
contro Roma; le edizioni moderne hanno triginta (II.18.3). In D II.15.3
si parla di “otto” cittadini latini sommati a presentarsi a Roma; le edizioni
moderne hanno decem (VIII.3.8). In D III.6.76 si parla di “dugento” fanti
capeggiati da Alessameno; le edizioni moderne hanno mille (XXXV.35.4).
Anche questi ed altri consimili casi17 si rivelano però di scarsa utilità
ai nostri fini. Nel primo e nel terzo caso alla lezione machiavelliana
corrisponde in modo pressocché compatto tutta l’antica tradizione liviana
a stampa.18 Nel secondo caso, dove oltre alle edizioni moderne anche
quelle antiche leggono concordemente decem, potrebbe trattarsi di una
disattenzione da parte di Machiavelli, non però inspiegabile. 19
Dove porzioni di testo facilmente individuabili e delimitabili come
citazioni latine, nomi di persona e numeri non ci portano dunque molto
avanti, non resta forse altra via che accostare pazientemente a brani scelti
del Discorsi i passi corrispondenti nelle edizioni liviane antiche, nella
speranza di trovare un caso davvero risolutivo. Purtroppo i tentativi in
tal senso sinora fatti da chi scrive sono stati quasi sempre vanificati
soprattutto dal carattere o troppo breve e generico o troppo approssi-
mativo delle versioni machiavelliane. Ciononostante un caso interessante,
che merita di essere qui discusso, esiste. Esso si trova in D I.15, intito-
lato I Sanniti, per estremo rimedio alle cose loro afflitte, ricorsero alla
religione. In questo capitolo, Machiavelli narra come i Sanniti alla vigilia
di una battaglia contro i Romani, che si profilava come decisiva, “pen-
sarono di ripetere uno antico loro sacrificio”, allo scopo di “indurre
ostinazione negli animi de’ soldati”. Questa cerimonia è descritta come
segue (accosto al testo machiavelliano quello liviano secondo l’ed. di
Oxford):

Il quale ordinarono in questa forma: che, Sacrificio perfecto per viatorem


fatto il sacrificio solenne, e fatto, intra le imperator acciri iubebat nobilissimum
vittime morte e gli altari accesi, giurare quemque genere factisque; singuli
tutti i capi dell’esercito di non introducebantur. Erat cum alius
abbandonare mai la zuffa, citorono i apparatus sacri qui perfundere religione
soldati ad uno a uno: ed intra quegli animum posset, tum in loco circa omni
altari, nel mezzo di più centurioni con le contecto arae in medio victimaeque circa
spade nude in mano, gli facevano prima caesae et circumstantes centuriones
giurare che non ridirebbono cosa che strictis gladiis. Admovebatur altaribus
vedessono o sentissono; dipoi, con parole magis ut victima quam ut sacri particeps
esecrabili e versi pieni di spavento, gli adigebaturque iure iurando quae visa
facevano promettere agli Dei, d’essere auditaque in eo loco essent non
presti dove gl’imperadori gli mandas- enuntiaturum. Iurare cogebant diro
Appunti sul Livio di Machiavelli 561

sono, e di non si fuggire mai dalla zuffa, quodam carmine, in exsecrationem


e d’ammazzare qualunque ei vedessono capitis familiaeque et stirpis composito,
che si fuggisse: la quale cosa non nisi isset in proelium quo imperatores
osservata, tornassi sopra il capo della sua duxissent et si aut ipse ex acie fugisset
famiglia e della sua stirpe. Ed essendo aut si quem fugientem vidisset non
sbigottiti alcuni di loro, non volendo extemplo occidisset. Id primo quidam
giurare, subito da’ loro centurioni erano abnuentes iuraturos se obtruncati circa
morti; talché gli altri che succedevono altaria sunt; iacentes deinde inter
poi, impauriti dalla ferocità dello stragem victimarum documento ceteris
spettacolo, giurarono tutti. (I.15.4–5). fuere ne abnuerent. Primoribus
Samnitium ea detestatione obsctrictis
(. . .). (X.38.7–12).

Non è difficile vedere che la versione machiavelliana si discosta


dall’originale in diversi luoghi. Mi limito a segnalare qui due divergenze.
Il primo giuramento cui fa cenno Livio, che obbligava alla segretezza,
ritorna tal quale nel testo machiavelliano. Ma il secondo giuramento,
che obbligava ad un impegno totale fino alla vittoria o fino alla morte,
risulta per così dire sdoppiato in Machiavelli, il quale prima accenna a
un giuramento prestato “da tutti i capi dell’esercito di non abbandonare
mai la zuffa”, e poi a un giuramento simile prestato dai soldati “a uno
a uno”.20 Più importante, ai nostri fini, è però la precisa formula del
giuramento. Dove in Livio ognuno dei soldati prescelti deve iurare
[. . .] in exsecrationem capitis familiaeque et stirpis, invocare cioè in caso
di violazione del giuramento una maledizione su se stesso, sulla propria
famiglia e sulla propria stirpe (si noti il crescendo), in Machiavelli egli
la deve invocare “sopra il capo della sua famiglia e della sua stirpe”.
Si tratta di un’interpretazione manifestamente errata, e tanto più visibile
e notevole perché Machiavelli in questo brano traduce quasi alla lettera.
Ma è anche vero che la sua traduzione sarebbe possibile, se non sul piano
del contenuto, almeno su quello grammaticale, se anziché familiaeque
il testo avesse familiae. E nella tradizione a stampa antica di Livio questa
lezione esiste. Tutte le edizioni antiche, anche le sopraricordate edd.
Venezia 1495 e Lione ca. 1511, leggono familiaeque (con desinenza di
solito abbreviata), ad eccezione di altre due edizioni già ricordate: le
badiane del 1513 e del 1516. Dove l’ed. badiana del 1511 aveva ancora
familiaeq[ue], quella del 1513 ha familiae, e quella del 1516 familie,
con un segno a forma di cediglia sotto la -e ad indicare che essa sta
per -ae.21
Quanto fin qui siamo venuti costatando non contraddice dunque la tesi
del Ridley che Machiavelli durante la stesura dei Discorsi si sia servito
di un testo badiano, ma suggerisce di pensare alla seconda edizione
(pubblicata nel dicembre 1513), o addirittura alla terza (pubblicata nel
giugno 1516) piuttosto che alla prima.22 Ma va riconosciuto subito che
le prove su cui si regge tale tesi sono troppo magre per ritenerla certa
o anche probabile. Non è chi non veda, infatti, che la traduzione erronea
562 Paul van Heck

“sopra il capo della sua famiglia e della sua stirpe” potrebbe anche essere
originata da una semplice lettura disattenta del testo, di cui nelle opere
di Machiavelli si potrebbero dare molti altri esempi.
Se però ipoteticamente si riuscisse a dimostrare un giorno che
Machiavelli abbia difatti usato un’edizione badiana, sarebbe provata
anche una cosa che pur in assenza di prove concrete sembra molto
probabile: che Machiavelli nel corso degli anni si sia servito di diverse
edizioni del testo liviano. Che Machiavelli abbia studiato e utilizzato
gli Ab Urbe condita libri anche prima del 1513, non ha infatti bisogno
di essere qui dimostrato;23 e che negli anni ante res perditas egli abbia
preso non pochi appunti liviani utilizzati più tardi per i Discorsi (e per
Il Principe), non sembra supposizione troppo azzardata.
Se, in ogni caso, Machiavelli ha deciso, quando scrisse le sue grandi
opere, di scambiare una vecchia edizione di Livio di cui disponeva (non
necessariamente da identificare con quella cui Bernardo Machiavelli
accenna in alcuni noti passi dei suoi Ricordi)24 per una nuova, nessuno
può dargli torto. Nelle edizioni liviane degli anni settanta e ottanta, infatti,
il testo dell’opera si presenta ancora come un blocco monolitico in cui
il lettore fatica a trovare la sua strada. In esse manca non solo l’attuale
divisione dei singoli libri in capitoli e paragrafi, che fu introdotta in epoca
assai posteriore,25 ma anche la numerazione delle carte; in qualcuna
sono privi di numerazione persino i libri. Data poi la mole del testo, è
chiaro che nella forma in cui uscirono dai torchi, queste edizioni erano
difficilmente utilizzabili come libro di studio e come strumento di
verifica. Unico strumento in esse che permetteva al lettore di orientarsi
in qualche modo era l’epitome liviana, che fu accolta già nella princeps.
A partire dagli anni novanta il paratesto si amplifica: le carte cominciano
ad essere numerate, e compaiono, oltre alle note del Sabellico in apertura
di libro, delle parole chiave in margine che facilitano l’orientamento.
Vent’anni dopo Josse Bade riprende le annotazioni del Sabellico e di
suo aggiunge una Vocabulorum livianorum explanatio; riprende e
infittisce le parole chiave in margine; aggiunge infine un indice alfa-
betico. Nella seconda edizione badiana tale corredo paratestuale è
riveduto e ampliato. Inoltre, come si legge in una nota introduttiva, il
testo dell’opera è stato riscontrato su dieci testimoni; lezioni sospette
vengono segnalate in margine, e ivi affiancate spesso da proposte di
emendazione. Per queste caratteristiche, le edizioni liviane di Josse
Bade appaiono sia più accessibili sia criticamente più meditate delle
edizioni precedenti.
Appunti sul Livio di Machiavelli 563

Notes

01. I presenti Appunti furono scritti e mandati in tipografia prima che uscisse la nuova
edizione critica dei Discorsi a cura di Francesco Bausi (Roma 2001). Di essa non si è
dunque potuto tener conto.
02. Per l’antica tradizione a stampa liviana, cfr. almeno A.H. McDonald, Livius, Titus,
in Catalogus translationum et commentariorum, vol. II, Washington 1971, pp. 331–348;
Addenda et corrigenda, ivi, vol. III, Washington 1976, pp. 445–449. Ma informazioni
bibliografiche più complete, se non sempre più esatte, forniscono i principali manuali
bibliografici e i cataloghi a stampa delle grandi biblioteche, e soprattutto banche dati come
l’ISTC (Incunabula Short Title Catalogue) della British Library. Naturalmente non è
del tutto da escludere che Machiavelli si sia servito (anche) di un testo manoscritto; ma
tale possibilità difficilmente si presta ad un approfondimento critico, e non sarà perciò
presa qui in ulteriore considerazione.
03. Per un primo orientamento, cfr. L.D. Reynolds, Livy, in L.D.R. (ed.), Texts and
Transmission. A Survey of the Latin Classics, Oxford 19862, pp. 205–214, e la bibl. ivi
cit. Rinuncio ad elencare qui i non pochi studi successivi sulla complessa filologia liviana,
di Billanovich, Briscoe, Oakley, Reeve e altri.
04. Per l’usufruizione di Livio da parte di Machiavelli cfr. almeno, in questi ultimi
anni, R. Rieks, Livius und Machiavelli: Prinzipien historischen Denkens und politischen
Handelns, in “Gymnasium” 102 (1995), pp. 305–333; M. Martelli, Machiavelli e gli storici
antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”,
Roma 1998; P. van Heck, La presenza di Livio nei “Discorsi” di Machiavelli, in “Res
Publica Litterarum” XXI (1998), pp. 45–78; M. Martelli, Saggio sul “Principe”, Roma
1999; A.M. Cabrini, Machiavelli e Livio, in “ACME” 52 (1999), pp. 173–191.
05. R.T. Ridley, Machiavelli’s Edition of Livy, in “Rinascimento” XXVII (1987),
pp. 327–341.
06. Se ne omettono però due: D I.40.20 (ut ipsi, taedio praesentium, Consules deside-
rarent), da Liv. III.37.3, e D I.44.9 (crudelitatem damnatis, in crudelitatem ruitis), da
Liv. III.53.7.
07. Le sigle L B G usate nel presente articolo rinviano ai tre testimoni principali
dei Discorsi: il ms. Londinese, l’edizione Bladiana e quella Giuntina. Si rinvia poi all’ed.
critica curata da Guido Mazzoni (in: N.M., Tutte le opere storiche e letterarie, a c. di G.M.
e M. Casella, Firenze 1929, pp. 55–262), e all’apparato a tale ed., pubblicato a parte
(Sul testo dei “Discorsi” del Machiavelli, in “Rendiconti dell’Accademia dei Lincei. Classe
di scienze morali, storiche e filologiche”, serie VI, IX (1933), pp. 41–82). La paragrafatura
adottata nel presente contributo è quella dell’ed. a c. di G. Inglese (Milano 1984).
Più esattamente, in B e G si legge exauthorentur; in L invece (chiaro indizio
della modesta cultura del copista) exaucto reritur; ma il fatto è qui irrilevante. Il Mazzoni
(che nel suo apparato trascura quasi completamente le citazioni latine nei Discorsi)
corregge tacitamente in exauctorent, forma che si riscontra del resto già in molte edd.
precedenti.
08. Sono, in ordine cronologico, le seguenti: 1. Roma 1469 (c. G.A. Bussi, st. C.
Sweynheym – A. Pannartz); 2. Venezia 1470 (st. Vindelino de Spira); 3. Roma 1470 (c.
G. Campano, st. U. Gallo); 4. Roma 1472 (c. Bussi, st. Sweynheym-Pannartz); 5. Milano
1478 (st. Ph. Lavagnia); 6. Milano 1480 (c. P.G. Filelfo, st. A. Zaroto); 7. Treviso 1480
(st. M. Manzolino); 8. Treviso 1482 (c. L. Porro, st. G. Vercelli); 9. Treviso 1485 (c. Porro,
st. Vercelli); 10. Venezia 1491 (c. M.A. Sabellico, st. F. Pincio); 11. Milano 1495 (c.
A. Minuziano, st. U. Sinzenzeler); 12. Venezia 1495 (c. Sabellico, st. Pincio); 13. Venezia
1498 (c. Sabellico, st. B. de Zanis); 14. Venezia 1501 (st. G. de Rusconibus); 15. Milano
1505 (st. A. Minuziano); 16. Venezia 1506 (c. Sabellico, st. G. e B. Vercelli); 17. Parigi
1511 (c. J. Badio Ascensio, st. l’Accademia); 18. Venezia 1511 (c. Sabellico, st. Pincio);
564 Paul van Heck

19. Lione 1511 ca. (c. A. Becharius?); 20. Parigi 1513 (c. Ascensio, st. l’Accademia);
21. Parigi 1516 (c. Ascensio, st. l’Accademia); 22. Magonza 1518 (c. N. Carbachius, st.
J. Scheffer); 23. Venezia 1518–33 (ed. aldina; i primi tre tomi con la prima, terza e
quarta decade uscirono negli anni 1518–20); 24. Venezia 1520 (c. L. Panaetius, st. M.
Sessa – P. De Ravanis); 25. Firenze 1522–32 (ed. giuntina). Il Ridley nel suo articolo
prende in considerazione i nn. 1, 3, 6, 7, 8, 10, 11, 17, 22, 23, 24 e 25. Per il presente
contributo, mi sono servito di ess. della British Library (1, 4, 6, 7, 11, 15), del Museo
Meermanno-Westreeniano dell’Aia (2, 3), della Bibl. Univ. di Leida (5, 8, 9, 12, 13,
14, 16, 18, 20, 22), della Bibl. Apost. Vaticana (10, 23, 24), della Bibl. Univ. di Utrecht
(17), della Yale University Library (19), della Folger Shakespeare Library di Washington
D.C. (21) e della Bibl. Reale dell’Aia (25).
09. Ringrazio mrs. Lynn Braunsdorf della Yale University Library, che ha voluto
verificare per me una serie di luoghi su questa rarissima edizione lionese. La si trova
descritta in J. Baudrier, Bibliographie lyonnaise, septième série; nuova ed. Paris 1964,
pp. 18–19; essa è ivi datata “vers 1511”. Osserva il Baudrier, seguendo del resto il Graesse
ed il Brunet: “Il est à remarquer que [. . .] à la place du 33e livre qui manque en entier,
il est dit: Tertium hujus decadis librum . . . integrum desideravimus et que la seconde
moitié du 40e livre manque également, ce qui prouve que cette édition lyonnaise est
antérieure à celle d’Alde 1518–1520 dans laquelle ces lacunes sont remplies et qu’elle
ne peut être considérée comme une contrefaçon”. Ma su quali considerazioni poggi la
datazione “vers 1511” (“vers 1510” in Graesse e Brunet) non vi si dice.
10. Cito, salvo indicazione contraria, dall’ed. Mazzoni (che segue sostanzialmente
L), tenendo però sempre presenti sia L B G sia le principali edd. recenti (a c. di G.
Inglese, Milano 1984; a c. di C. Varotti, Torino 1993; a c. di C. Vivanti, Torino 1997;
a c. di R. Rinaldi, Torino 1999), che su quella mazzoniana si basano. I ritocchi introdotti
dall’Inglese (elencati alle pp. 40–42 della sua ed.) vengono in parte ripresi nelle edd.
successive; Rinaldi riporta la veste grafica “alla testimonianza di L, con alcuni moderati
interventi”, p. 92).
11. Si noti però che L e B hanno “Flamminio”.
12. Ma B e G hanno “Tarquino”; la lez. L non era ben leggibile sul microfilm da
me consultato.
13. Eccezione fa qui in qualche caso l’ed. Roma 1470, dove in II.43.11 si legge
Veius [?] NC [= CN] Manlius, e in IX.1.2 C. Pontium (altre edd. sciolgono il prenome
in Claudium).
14. Fa eccezione anche qui l’ed. Roma 1470, che ha C. Menius e M. Folium.
15. Delle edd. moderne ho tenuto presenti soprattutto l’ed. Weissenborn-Müller (Berlin
1963) e l’ed. di Oxford.
16. Si noti però che solo L ha “Ruberio”; B e G hanno “Rubetio”. Un personaggio
dal cognome Ruberio o Rubetio non figura né negli Ab Urbe condita libri né, per quel
che ne so, altrove nella letteratura latina; è dunque assai probabile che si tratti di un
errore di trascrizione.
17. Si veda ancora D I.13.9 (“Una moltitudine [. . .] in numero di quattromila uomini”),
dove “quattromila” corrisponde sostanzialmente alla tradizione liviana antica, che ha
quattuor milia hominum et quingenti (III.15.5); in alcune importanti edd. moderne
(Weissenborn-Müller; Conway-Walters) anziché quattuor si legge però duo.
18. Anche qui fa eccezione l’ed. Roma 1470, che in II.18.3 ha triginta, come le
edd. moderne.
19. Negli scritti machiavelliani non è infrequente la locuzione “otto o dieci”: “Né si
possano per tanto giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in tanto
tempo per le sue differenzie non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini”(D I.4.6);
“Era stato Annibale in Italia otto o dieci anni” (D I.53.17); “Gli rinchiusero in una prigione
capace di tutti loro; donde gli traevano a otto o dieci per volta” (D II.2.23); “Né dubitò
Appunti sul Livio di Machiavelli 565

[. . .] di confinare otto o diecimila uomini con condizioni straordinarie” (D III.49.5);


“Io vi scrissi 8 o 10 dì sono” (lett. a F. Vettori, 19-12-1513; si allude alla lett. del 10
dic.). Nel primo caso “otto o dieci” non allude ad un passo liviano concreto né, per quel
che mi risulta, a passi di altri autori antichi abitualmente frequentati da M.; sta ad
indicare semplicemente un numero piuttosto esiguo. Il secondo caso si riferisce ad un
avvenimento occorso nell’autunno del 212 a.C. Visto che Annibale era sceso dalle Alpi
nell’ottobre 218, “sei” anziché “otto o dieci” sarebbe stato dunque più esatto. Ma
pretendere una simile precisione da M., come pur qualcuno ha fatto, sarebbe assurdo.
Al numero di sei si sarebbe potuto arrivare solo attraverso una vera e propria vivisezione
del lunghissimo discorso di Livio, che allora era inconcepibile per un fatterello del genere.
E non va dimenticato che ai tempi di Machiavelli si aveva ancora un’idea abbastanza
approssimativa della cronologia antica, che comincia ad essere studiata a fondo solo nel
Cinquecento. “Otto o dieci” sta qui per un numero di anni non piccolo, ma nemmeno
grandissimo, e in tal senso non è propriamente errato. Per il terzo caso si suol rinviare
a Tucidide IV.46–48, dove però, come già osservò il Walker, non si parla di otto o dieci,
ma di venti prigionieri presi per volta. Nei passi liviani ricollegabili al quarto caso
(XXIII.25.7; XXV.5–7; XXVI.1.10), non si parla propriamente di “otto o diecimila
uomini”, ma più genericamente dei resti degli eserciti sconfitti a Canne e altrove. Da
tutti questi casi risulta dunque che “otto” e “dieci” per M. dovevano essere tendenzial-
mente sinonimi.
20. Per questo passo, cfr. anche Martelli 1998, pp. 22–25, e inoltre C. Saulnier,
L’armée et la guerre chez les peuples samnites (VIIe–IVe s.), Paris 1983, pp. 89–95.
21. Ringrazio per la sua gentile collaborazione Dr. Georgianna Ziegler della Folger
Shakespeare Library.
22. Per una descrizione dettagliata delle tre edd., cfr. Ph. Renouard, Bibliographie des
impressions et des oeuvres de Josse Bade Ascensius, 3 voll., nuova ed. New York, s.a.:
vol. III, pp. 10–13.
23. D’obbligo qui il rinvio almeno allo scritto Del modo di trattare i popoli della
Valdichiana liberata, databile al 1503, che com’è noto contiene una versione di Liv.
VIII.13.11–14.8. Le divergenze testuali fra le edd. antiche che si riscontrano in questo
brano non permettono di ricondurre la versione machiavelliana ad un’edizione precisa.
Semmai, esse permettono di escludere qualche edizione. Per fare un solo esempio: dove
quasi tutte le edd. hanno ad Pedum Asturamque, tradotto da M. con “appresso Peda et
Astura”, l’ed. Roma 1470 ha ad Pedum Saturemque.
24. B. Machiavelli, Libro di Ricordi, a c. di Cesare Olschki, Firenze 1954, pp. 14,
35, 222–223.
25. Fu introdotta, com’è noto, da Jan Gruter all’inizio del Seicento. Una divisione
in capitoli si ha già nelle contemporanee edizioni di Livio in volgare; ma essa è diversa
da quella invalsa più tardi nelle edd. latine.

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