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luglio

2018

A. DI SAPIO – D. MURITANO – A. PISCHETOLA


Cosa facciamo con le sentenze


A proposito di Cass. n. 4676/2018 e dell’ultrattività della


comunione legale tra coniugi





Working Paper

Angelo Di Sapio - Daniele Muritano - Adriano Pischetola

Cosa facciamo con le sentenze


A proposito di Cass. n. 4676/2018 e dell’ultrattività della comunione
legale tra coniugi

SOMMARIO: 1. Cass. n. 4676/2018 e lo stupore dei notai. – 2. Approccio dogmatico


vs approccio casistico. – 3. Il caso. – 4. Cosa dice e cosa fa Cass. n. 4676/2018.
– 5. Cosa dice e cosa fa Cass. n. 4676/2018. – 6. Due particolari. – 7. A mo’ di
conclusione.

1. Cass. n. 4676/2018 e lo stupore dei notai.


Da qualche settimana tiene banco sulla stampa, nei forum e sui social
network un’interessante sentenza di Cassazione depositata il 28 febbraio
2018, la n. 4676, per cui la separazione dei beni ha effetti solo per il futuro,
non per il passato: i beni acquistati anteriormente a detta convenzione
matrimoniale rimangono governati dalle regole di amministrazione della
comunione legale (artt. 180 e 184 cod. civ.).
La Cassazione rispolvera il proprio precedente n. 2183/1991, che si
occupò del passaggio dal vecchio al nuovo regime patrimoniale (art. 228
legge n. 151/1975). Di «là dalla diversità della fattispecie», ne riprende «il
principio generale secondo cui, ai beni acquistati in un previgente regime
patrimoniale, continuano ad applicarsi (salva diversa volontà dei coniugi)
le norme proprie di siffatto regime e non quelle del successivo e
sopravvenuto regime coniugale».
La sentenza ha destato stupore in molti notai, convinti, invece, che,
con il mutamento di regime, i beni precedentemente acquistati dai coniugi
siano disciplinati dalle norme sulla comunione ordinaria.

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2. Approccio dogmatico vs approccio casistico
Ci sono molti modi per leggere una sentenza. Quelli più praticati
sono due.
Il primo approccio è quello dogmatico. I testi delle sentenze vengono
setacciati selezionandone i passaggi concettuali. Questi passaggi vengono
poi distillati nell’alambicco. La sintesi (non clorofilliana) forgia la massima.
La massima serve per la formazione di principî. I principî si formano,
appunto, attraverso formulazioni progressivamente generalizzanti delle
massime giurisprudenziali. La distanza tra queste “massime massimizzate”
(ovvero tra questi asseriti principî) e le regole effettivamente applicate nei
casi da cui sono tratte può essere siderale. Si citano così – anche nelle
sentenze – precedenti che non hanno effettivo riscontro giurisprudenziale.
Il riscontro è, piuttosto, nell’elaborazione concettuale della massima. Una
elaborazione concettuale offerta da una persona che non era seduta nel
collegio giudicante. Nella maggior parte dei casi l’Ufficio del Massimario.
Ma non sempre.
Il secondo approccio è quello casistico. Si leggono per intero le
sentenze e si focalizza l’attenzione sul caso concreto. Si cerca la regola
applicata e se ne indaga il perché, la ratio decidendi. È accantonato ogni
passaggio argomentativo non decisivo per la soluzione della questione
concreta (o che sia comunque espressione di opinioni del relatore): sono
obiter dicta. Il giudicato si forma sull’oggetto del giudizio, non su questioni
che potrebbero eventualmente formare oggetto di un altro e diverso
ipotetico giudizio. Le massime specchiano le rationes decidendi: e solo queste.
Le massime servono per delineare le regole da tenere in considerazione
per future applicazioni delle norme.
I due approcci si muovono in direzioni rovesciate. Non è lo stesso
prendere un aereo da Londra a Milano oppure da Milano a Londra.
L’approccio dogmatico muove dalle nozioni e pratica
un’interpretazione dei verba puntando ai principî. Dominano le categorie
concettuali.
L’approccio casistico sa che le nozioni non sono affidate ad alcun
dogma oggettivo. Non sono un a priori confezionato a tavolino
dall’interprete, ma vanno ricavate, a posteriori, dalle regole. Stanno dentro,
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non sopra le regole. Ecco perché l’indagine casistica mira a snidare le regole,
senza cercare conferme di principî precompresi. Le categorie concettuali
hanno funzione principalmente ordinante: sono valide in astratto; in
concreto solo talvolta possono soccorrere alla bisogna. La soluzione dei
casi concreti va cercata nelle regole, non nei concetti.

3. Il caso.
Cass. n. 4676/2018 spezza un’antica concettuologia, tutt’oggi à la
page: la separazione dei beni comporta, di per sé, il passaggio dal pregresso
regime della comunione legale al regime di comunione ordinaria, regolato
dagli artt. 1100 segg. cod. civ. Di qui l’accennato stupore notarile.
Proviamo a far vendemmia del metodo casistico.
Il caso è semplice. Una coppia, coniugata in regime di comunione
legale, acquista un terreno. Successivamente i coniugi mutano il regime in
quello della separazione dei beni. Il marito costruisce su tale terreno tre
fabbricati. Sopravvenuta la separazione personale consensuale e instaurato
il giudizio di divisione, la moglie chiede l’abbattimento di quei tre
fabbricati. Eccepisce l’applicabilità alla costruzione realizzata dal coniuge
degli artt. 1102 e 1120 cod. civ., con conseguente necessità del consenso
del comproprietario espresso in forma scritta. La mancanza del consenso
scritto, a dire della moglie, determinerebbe la lesione del diritto del
comproprietario e la sua legittimazione a chiedere la demolizione dei
fabbricati.
Il marito eccepisce l’applicabilità del regime proprio degli atti di
amministrazione dei beni oggetto della comunione legale: art. 180 cod. civ.
La costruzione dei fabbricati da parte di uno solo dei coniugi è un atto di
straordinaria amministrazione. Era sì necessario il consenso di entrambi i
coniugi, ma la mancanza del consenso dell’altro dev’essere fatta valere in
giudizio entro un anno da quando questi è venuto a conoscenza dell’atto:
art. 184 cod. civ.

4. Cosa dice e cosa fa Cass. n. 4676/2018.


A chi danno ragione i giudici di legittimità? Al marito.
Il percorso logico-argomentativo è, in qualche misura, sillogistico.
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Premessa maggiore: per i beni acquistati durante il regime della
comunione continuano ad applicarsi (salva diversa volontà dei coniugi) le
norme proprie di siffatto regime, dunque gli artt. 180 e 184 cod. civ.
Premessa minore: la moglie non aveva azionato la domanda di
annullamento dell’atto entro un anno, né reso palese il proprio dissenso
rispetto alla costruzione dei fabbricati.
Conclusione: la domanda di demolizione dei fabbricati avanzata dalla
moglie – perché, si badi, questa era la domanda su cui si è pronunciata la
Corte – è respinta.
Dunque, è cassata con rinvio la sentenza di appello [App. Roma n.
3827/2012], che, confermando la sentenza dei giudici di prime cure [Trib.
Rieti sent. non def. n. 397/2006], aveva accolto la domanda di demolizione
dei fabbricati.
In sintesi, cos’hanno fatto i giudici di legittimità nella sentenza in
commento?
Ben desti dal sogno di Rudolf von Jhering, hanno giudicato su un
caso concreto, dando felicemente prova della propria consapevolezza
giuridica.
I giudici di legittimità hanno compiutamente scandagliato la
piattaforma diacronica del caso di specie, che dice molte più cose di quante
ne tace:
a) i coniugi si erano sposati nel 1984;
b) i coniugi avevano acquistato alcuni terreni nel 1987, in regime di
comunione legale;
c) i coniugi avevano mutato il loro regime patrimoniale nel 1988,
passando dal regime legale a quello della separazione dei beni «senza
procedere allo scioglimento della comunione sui beni precedentemente
acquistati»;
d) «dal 1990 in poi» il marito «ebbe a realizzare i predetti fabbricati,
nel tempo utilizzati da entrambi i coniugi senza alcuna contestazione fino
alla separazione personale dei medesimi, nel 2003».
Ecco i fatti all’origine della controversia, nudi e incontestati.
Traspare, allora, in filigrana ma senza equivoci, che la moglie aveva
goduto presumibilmente per oltre 10 anni di quei fabbricati e che la stessa,
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con la richiesta di abbattimento degli stessi, di là da altri eventuali ulteriori
proponimenti, si voleva rimangiare la parola data. In buona sostanza, il
marito aveva sostenuto le spese di quelle costruzioni – medio tempore godute
dalla moglie – e avrebbe dovuto sostenere pure le spese del loro
abbattimento.
Questa era la materia del contendere. Non se, in astratto, la
separazione dei beni produca l’effetto di trasformare il pregresso regime
di comunione legale in comunione ordinaria. Perché i giudici di merito
devono pronunciarsi sui fatti di causa e quelli di Cassazione sulle specifiche
regole applicate, e non sui concetti.
La Cassazione non approva la richiesta (di abbattimento) promossa
dalla moglie. Ricorda alla moglie un divieto che ha radicamenti nel buon
senso, prima che nel diritto: nemo contra factum proprium venire potest. Qui,
probabilmente, sta la ragione ultima della decisione al vaglio e, al
contempo il crittotipo su cui si muove. È vero che la prescrizione è sospesa
tra coniugi (artt. 2946 e 2941, n. 1, cod. civ.), ma anche nei rapporti
familiari vige quell’obbligo di coerenza che si riconnette alla regola di
autoresponsabilità dei propri comportamenti su cui l’altro coniuge ha
riposto il proprio incolpevole affidamento. Qui si radica la scelta di
applicare la regola fissata dall’art. 184 cod. civ., per cui «[g]li atti compiuti
da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo
non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili
elencati nell’articolo 2683. L’azione può essere proposta dal coniuge il cui
consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto
conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione.
Se l’atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non ne abbia avuto
conoscenza prima dello scioglimento della comunione l’azione non può
essere proposta oltre l’anno dallo scioglimento stesso».
Per avere conferma che è questo il tracciato battuto dalla sentenza è
sufficiente leggerla. Ci dice la Corte, in un passaggio nevralgico: «[o]rbene,
nella specie, non solo non risulta esser stata azionata, nel termine annuale,
la domanda di annullamento dell’atto eccedente l’ordinaria
amministrazione del fondo in comunione, ma soprattutto non si rinviene
in alcun modo che la controricorrente [scil. la moglie], nei circa 13 anni
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intercorsi tra l’inizio dei lavori di costruzione e la separazione personale,
abbia in qualche modo appalesato (neppure implicitamente ovvero per
fatti concludenti) il proprio dissenso rispetto alla edificazione del fondo.
Laddove – in virtù del principio di libertà delle forme ed in mancanza di
espressa previsione normativa, tanto più in considerazione dell’ambito di
incidenza degli effetti, tutti interni rispetto allo svolgimento del rapporto
di comunione legale, esclusivo dei coniugi – il consenso di cui all’art. 181
cod. civ. non necessita di forma scritta» (punto 3.5 della motivazione).

5. Perché Cass. n. 4676/2018 suscita l'interesse dei notai?


La sentenza, come accennato, ha avuto energica eco nel contesto
notarile.
Si registra una levata di scudi nei confronti del suo passaggio che
abbozza un’efficacia ultrattiva della comunione dei beni.
È sotto scacco una credenza raramente messa in forse dai notai,
ovvero che il mutamento convenzionale del regime patrimoniale legale in
quello della separazione dei beni determinerebbe il passaggio dal regime di
comunione legale a quello di comunione ordinaria. Ma le credenze non
diventano certezze tramite la recita ripetuta di un rosario assertivo.
I ben informati sul tema sanno bene quant’è spinoso. Le varianti non
sono due, ma quattro: (i) ultrattività della comunione; (ii) passaggio dalla
comunione legale a quella ordinaria; (iii) formarsi di una comunione
transitoria sui generis sulla falsariga della comunione ereditaria; (iv)
soggezione dei beni in comunione a una procedura di liquidazione, con
assonanze a quanto accade per le associazioni e le società.
Si è chiamata in scena la certezza del diritto, sulle cui condizioni
stipulative – ricordiamolo – non s’è mai trovato un accordo condiviso, per
non parlare poi delle sue declinazioni operative. Uno dei pochi punti fermi,
delineato più volte dalla Corte costituzionale, è che, per un’elementare
esigenza di democrazia e solidarietà, le soluzioni dei casi concreti, pur nella
pluralità dei parametri da soppesare, devono essere comunque ragionevoli.
È trascorso oltre mezzo secolo dagli studi di Gino Gorla sul
contributo giurisprudenziale alla certezza del diritto e basti ricordarne la
preziosa intuizione che la certezza del diritto alberga, anzitutto, nella
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prevedibilità dei possibili esiti giurisprudenziali. Stiamo parlando, appunto,
di certezza del diritto, non di certezza della legge.
Fu proprio Gorla a indicarci il percorso per verificare le possibili
strade, i possibili bivi e i viottoli senza uscita in giudizio. L’invito era
d’indagare con attenzione, e proprio con metodo casistico, i precedenti
giurisprudenziali in sede materiae approfondendo la storia delle regole
operazionali.
Si affaccia così un altro passaggio della sentenza in commento, quello
che innesta una parentela col precedente n. 2183/1991, per cui i beni
acquistati dai coniugi in regime di comunione ordinaria tra loro
anteriormente alla riforma del diritto di famiglia non entrano nella
comunione legale, ma restano in comunione ordinaria, sempre che i
coniugi non abbiano stipulato uno specifico accordo ai sensi dell’art. 228,
comma 2, legge n. 151/1975 (nel caso di specie fu perciò ritenuta
proponibile la domanda di divisione dei beni proposta dal coniuge
comunista anche anteriormente alla cessazione della comunione legale e,
per l’effetto, [ratione temporis] pure in pendenza del giudizio di separazione
personale dei coniugi stessi).
La regola applicata da Cass. n. 4676/2018 trova così il proprio
referente. Ne forza un po’ i presupposti, ma il solco è quello.
Non rientra tra i propositi di queste considerazioni sondare la bontà
della tesi accreditata dai giudici di piazza Cavour. Va tuttavia rimarcato che
essa tocca tematiche pensose e s’inserisce in un panorama di
giurisprudenza e dottrina frastagliato e tutt’altro che inedito.
Certo, l’indirizzo del passaggio dal regime legale a quello ordinario si
attesta, a oggi, come il più accreditato in dottrina. Di esso ha tenuto conto
anche una parte della giurisprudenza, sia di merito (Trib. Verona, 29
settembre 1987 e Trib. Caltanissetta, 11 maggio 2002), sia di legittimità,
ancorché obiter (Cass. n. 10586/1996 e n. 9846/1996) e tangenzialmente
(Cass. 20976/2007). Sennonché, andando un po’ più a fondo della linea di
galleggiamento dei commentari brevi, si scopre che, all’interno di questa
corrente, è tuttora acceso il dibattito se, salva la saldatura degli artt. 192 e
194-197 cod. civ., l’applicabilità delle regole della comunione ordinaria
riguardi solo i rapporti tra i coniugi o anche i rapporti con i creditori di cui
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agli artt. 189 e 190 cod. civ. (il cui affidamento, com’è stato
appropriatamente osservato, potrebbe essere tutelato a sufficienza con la
revocatoria).
Epperò anche l’indirizzo dell’ultrattività del regime legale presenta le
sue credenziali e ha attirato benevolenza in giurisprudenza, sia pur
incidentalmente (App. Milano, 19 novembre 1993, n. 2387 e Cass. n.
11467/2003) o comunque a proposito dell’ultrattività della regola scolpita
dall’art. 189 cod. civ. (Cass. n. 7169/1997).
La linea di demarcazione tra i due indirizzi sta nel diverso favor
riconosciuto alla comunione legale e, più in generale, all’assetto
solidaristico di gestione e responsabilità coniugale. Il che nulla ha a che
spartire con l’almanaccare l’esistenza di Krishna recitando mantra in suo
onore. Tutt’altro. Anzi, a ben considerare l’impianto di questi due indirizzi,
si staglia un possibile diagramma alternativo, quello di verificare
l’applicabilità delle singole norme di riferimento, senza congetture, come
s’è detto, “ontologiche”.
Possiamo fermarci qui. Come detto, queste considerazioni puntano
ad altro: a comprendere il registro del discorso di Cass. n. 4676/2018 e il
percorso e la curvatura della soluzione offerta nel caso affidatole.
I processi, lo sappiamo, servono a risolvere casi concreti, non a
svolgere esercizi formalistico-concettuali. È l’analisi degli interessi in gioco
che guida il giudice nell’argomentare.
Ciò che conta è il risultato e, sotto quest’aspetto, la sentenza si fa
apprezzare.
Discorso a parte può essere fatto per la motivazione.
La sentenza in rassegna risolve lo specifico caso senza sconfessare la
regola, che, anzi, espressamente ribadisce: «[i]n particolare, questa Corte
osserva che la natura di comunione senza quote della comunione legale
dei coniugi permane sino al momento del suo scioglimento, per le cause
di cui all’art. 191 cod. civ., allorquando i beni cadono in comunione
ordinaria e ciascun coniuge, che abbia conservato il potere di disporre della
propria quota, può liberamente e separatamente alienarla, essendo venuta
meno l’esigenza di tutela del coniuge a non entrare in rapporto di
comunione con estranei».
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Insomma, la sentenza modula la regola sulla base degli interessi in
gioco, ritenendo più confacente, in relazione al caso specifico (costruzione
sul suolo comune da parte di un solo coniuge), affermare – rispetto al bene
acquistato nella vigenza del regime anteriore – la permanenza dell’assetto
giuridico originario. D’altra parte, il giudice di legittimità, nella fattispecie
concreta rimessa alla sua valutazione, è stato chiamato a pronunciarsi sul
regime vigente non “post-modifica”, ma “ante-modifica”. Altro non ha
fatto che rilevare quale fosse il regime con riferimento ai beni interessati
al momento in cui risultavano acquistati (quanto all’area su cui insistono)
e poi realizzati.
Nel contempo, proprio perché la regola non viene “smontata”, ma
piuttosto applicata, la sentenza nulla aggiunge di sorprendente. Ci dice solo
che ciò che è stato prima della modifica convenzionale, salva diversa
volontà dei coniugi, non è retroattivamente modificato dal regime
successivo alla modifica stessa. Questo è quanto.
Si badi, però. Alla medesima conclusione si sarebbe potuti pervenire
anche attraverso un altro percorso motivazionale. Ci si riferisce al percorso
offerto dalle Sezioni Unite n. 3873/2018 in tema di costruzione di un
comproprietario sul suolo comune e operatività dell'accessione. Mutatis
mutandis, pure nella nostra ipotesi, si sarebbe potuto affermare, con le
Sezioni Unite, da un lato, che «il consenso alla costruzione dell’opera,
manifestato da un comunista all’altro, può essere dato con qualunque
forma (anche verbalmente), non attenendo esso alla sfera dei diritti reali e
non facendo venir meno l’operatività dell’accessione e, quindi, l’acquisto
della proprietà della costruzione da parte di tutti i comunisti in rapporto
alle rispettive quote dominicali» e, dall’altro lato, che «[l]’esercizio dello ius
tollendi» deve «essere coniugato con il principio di “tolleranza”, col
principio di “affidamento” e con quello di “buona fede”». Precisa inoltre
la Corte: «[t]rattasi di principi generali immanenti all’ordinamento
giuridico, in quanto tali sottesi all’intera disciplina del codice civile, che
devono sempre essere tenuti in conto dal giudice».
Da questa latitudine, la tematica relativa al trattamento da riservare ai
beni pervenuti ai coniugi manente communione potrebbe dare l’impressione
di essere un problema di astrazione concettuale: sia aderendo all’indirizzo
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dell’ultrattività, sia aderendo a quello della comunione ordinaria, il risultato
non sarebbe cambiato.
E allora, perché tanto clamore? Difficile dirlo, ma si può azzardare
che molte critiche fin qui mosse a questa sentenza denunciano un effetto
inatteso. Questa sentenza scompagina il frasario notarile.
Much ado about nothing, quindi? Non proprio.
L’acceso dibattito germogliato da Cass. n. 4676/2018 ci dà una
significativa testimonianza di quali e quante cose noi facciamo con le
sentenze. Ci fa venire allo scoperto e mette in bella mostra i nostri legami
con il metodo dogmatico, nel cui focolare, a differenza di quello del
metodo casistico, abitano soggetti astratti, e non persone in carne e ossa. Ma
sono le persone in carne e ossa (e non i soggetti astratti) che noi notai
incontriamo quotidianamente.

6. Due particolari.
Il diritto, si dice, sta anche nei particolari.
Cass. n. 4676/2018 fa «salva» una «diversa volontà dei coniugi».
Il passaggio sarebbe anche stimolante se non fosse così
scopertamente ancorato al precedente n. 2183/1991 dal dare l’impressione
– per riprendere un’immagine di Jean Cocteau – di esserne una
specchiatura non si sa quanto effettivamente riflettuta. A ogni modo, per
questa via, potrebbe essere tenuta in piedi la facoltà per ciascun coniuge di
alienare la propria quota ai sensi dell’art. 1103 cod. civ., consentendo, così,
l’ingresso in comunione anche a estranei e pure per quote diseguali.
Ancora. Come accennato, la sentenza n. 4676/2018 veicola l’idea
della comunione legale come «comunione senza quote». Lo fa per ben due
volte (punti 3.3 e 3.4 della motivazione).
La Corte è pienamente acclimatata nel quadro di alcuni precedenti.
Tace, curiosamente, sul più importante, ma lo replica. Paga dazio alla
blasonata sentenza della Corte costituzionale 10-17 marzo 1988, n. 311
(rel. Luigi Mengoni). Si tratta di un precedente noto, che, pur essendo stato
oggetto di critiche e limature da una parte degli studiosi, è ancora in piena
auge. Ora, volendo declinare alcune considerazioni sopra abbozzate, si
potrebbe ricordare qui un passaggio di questa sentenza spesso
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dimenticato: «la corretta metodologia insegna che la “regola” (nel senso di
dottrina) dogmatica di un istituto giuridico deve essere tratta non da
categorie precostituite, ma ex iure quod est, cioè dalle norme positive che
sostanziano l’istituto medesimo» (punto 1 del considerando in diritto). È
un passaggio che tradisce un approccio dogmatico, ma è un passaggio di
alto livello, lucido e rigoroso, mai rigido. La piramide argomentativa
poggia su fondamenta concettuali ben delineate, non sulla punta. Di qui il
fiorire degli agganci giurisprudenziali, compresa Cass. n. 4676/2018.
Il metodo casistico è però un altro affare. Non si perde in questo
genere di particolari.
Il riferimento a una «diversa volontà dei coniugi» e l'accenno alla
natura della comunione legale quale «comunione senza quote» – ecco lo
scarto differenziale – sono obiter dicta: a) i coniugi non avevano
assoggettato i beni acquistati anteriormente alla separazione dei beni al
regime della comunione ordinaria; b) che i coniugi fossero individualmente
titolari di un diritto di quota o solidalmente titolari di un diritto avente per
oggetto i beni della comunione era del tutto irrilevante per la soluzione di
quella controversia.
Se si volesse leggere in controluce la sentenza, ci sarebbero altre cose
da dire.
Primo. Sembrerebbe quasi che i supremi giudici – prima ancora di
confermare una regola che a essi poteva pur sembrare sensata – abbiano
colto l’esigenza di salvaguardare il gioco di pesi e contrappesi del ménage
familiare e quindi il buon senso e la filosofia a esso sottesi: un’intrigante
operazione di ricostruzione dal diritto vivente.
Secondo. Talora appare chiaro che la regola, posta a riferimento
generico della singola decisione assunta o “interpretata”, ceda il passo
all’evidenza dei fatti e al collegamento causale degli avvenimenti. Oppure
che la ratio di quella regola, in alternativa o in affianco, venga evocata dai
fatti stessi, in una sorta di rapporto evanescente tra ius e factum mediato
solo dall’itinerario perseguito dall’organo giudicante per pervenire alla
finalità prefissa o ritenuta meritevole di autorevole e definitiva
enunciazione. La regola si consacra così, in via autonoma, anche nella
lettura che se ne può dare ab externo.
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Ecco quante e quali cose noi possiamo fare con le sentenze.

7. A mo’ di conclusione.
È ormai ritrito: le Corti hanno il compito di risolvere questioni di
diritto che non hanno trovato composizione altrove. Non di
sistematizzare l’intero panorama giuridico.
Le sentenze possono essere persuasive, convincenti, appaganti,
acconce, ponderate, efficienti o no. Epperò, prima di dire che una sentenza
è giusta o sbagliata, occorrerebbe fare un piccolo gesto di umiltà: mettersi
d’accordo su cosa intendiamo per “giusto” e “sbagliato”.
Molto tempo fa, regnava un tacito accordo per cui i doctores segnavano
la strada alla giurisprudenza, che questa spesso seguiva spontaneamente.
Ma questi esimi studiosi del passato, pur biasimando gli effetti negativi di
un conflitto tra la “scuola” e la “curia” in ordine alla certezza del diritto,
non hanno mai smesso di portare sul palmo delle loro mani gli
insegnamenti della storia (compresi quelli del diritto comune e del relativo
invito a riconoscere il giuridico che pulsa nel quotidiano) e non si sono
mai sognati di negare i trionfi evolutivi di alcune sentenze dai medesimi
ritenute prima facie “errate”. Sapevano bene che non era detto che i giudici
avessero fatto male i conti: poteva essere che stessero giocando a un gioco
diverso da quello solitamente praticato.
I rapporti tra dottrina e giurisprudenza si sono tuttavia sensibilmente
trasformati da almeno un cinquantennio. E sono conseguentemente
mutate le strategie metodologiche d’insegnamento universitario. La
giurisprudenza ha cominciato, da lustri, a vivificare il proprio spazio nelle
pagine dei manuali di diritto privato. Il rapporto non è più ancillare.
La stessa giurisprudenza è cambiata, anche per ragioni di economia.
Lo stile delle sentenze è diverso. Le sentenze in stile dottorale sono ormai
merce rara. Continua invece a non esserci una correlazione necessaria tra
regole applicate e motivazioni: qui viene aiuto il metodo casistico, oltre
naturalmente a quello comparatistico.
I commenti alle sentenze cercano, spesso, di aiutare l’operatore a
stare al passo coi tempi. Capita però che, facendo applicazione di un
metodo dogmatico, talvolta ne travisino la portata, marginalizzandone le
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esternalità negative per una certa classe di operatori (notai, avvocati o
commercialisti non fa differenza). E gli operatori “meno accorti” ne
seguono pedissequamente il passo, mentre quelli “più sportivi” calamitano
pigramente le testatine (ovvero i neretti) alle massime.
Bussa alla porta il selective reporting, che è una pratica dalle origini
risalenti: se ne sono evocate referenze nel Corpus Juris Secundum e
nell’American Jurisprudence. Una pratica che, in un contesto come quello
attuale – non lo dimentichiamo, il 2017 ha portato a 31.240
pronunciamenti di Cassazione, tra sentenze, decreti e ordinanze – è
destinata ad avere sempre maggior presa. Nulla di male, per carità. A patto
però che la comprensione delle sentenze non faccia l’inchino e ceda il
passo all’oscuramento della loro effettiva portata e che la loro
pubblicazione non sia intessuta solo sull’autocomprensione degli autori
che le glossano.
Gli anelli delle catene decisionali giurisprudenziali stanno tuttora
tenendo fronte alla crescente litigiosità proprio per via delle rationes
decidendi. Non degli obiter, di cui, ieri come oggi, le sentenze sono generose.
Carta canta, basta dare uno sguardo alla Rassegna della giurisprudenza di
legittimità. Orientamenti delle Sezioni civili, pubblicata all’inizio di ogni anno dai
magistrati dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Cassazione.
Talvolta ci si dimentica di ciò e si propongono (anche sulle riviste più
nobili e impegnate) analisi delle pronunce giurisprudenziali senza
distinguere tra ratio decidendi e obiter dicta. Questo, probabilmente, accresce
la destrutturazione della certezza del diritto di cui tanto ci si lamenta, e il
fatto diventa ancor meno commendevole allorché chi si presta a questo
gioco non risente delle conseguenze che ne possono derivare.
Ecco il valore aggiunto del metodo casistico: permette di focalizzare
i precedenti nella loro reale portata, che – la s’inquadri come meglio
aggrada – è comunque una portata significativa per i giudici che dovranno
decidere in futuro su questioni analoghe.
In questo contesto, chiamare in causa il mero dato positivo, altro non
è, come s’è efficacemente notato, che confondere il menu con la cena.
La giurisprudenza detta regole per soluzioni concrete. Si tratta,
beninteso, di regole non scolpite nella roccia, neppure se sancite dalle
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Sezioni Unite, ma si tratta pur sempre di regole che, in buona parte,
consentono di ipotizzare le possibili soluzioni a futuri casi concreti, senza
essere costretti a improvvisarsi nel difficile ruolo del rabdomante.
C’è una cosa su cui la giurisprudenza non ha facoltà d’incidere:
l’interpretazione delle sue stesse decisioni. Le massime non sono
appannaggio esclusivo dei giudici, così come l’identificazione delle rationes
decidendi. Qui vige un regime di oligopolio giuridico. Ed ecco allora il
prestigioso ruolo riconosciuto all’interprete che vuole aiutare l’operatore a
stanare le regole operazionali in action. Perché sono proprio queste
intuizioni interpretative che possono accrescere fattivamente la
prevedibilità delle decisioni a venire.
Si può anche non svolazzare nel buio come il raggio d’una pila. Basta
accendere la luce della critica.
Denken heisst uberschreiten [pensare è trasgredire], avrebbe detto Ernst
Bloch.

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Mappa bibliografica.

Lo scritto che precede non ha, volutamente, note bibliografiche.


Di là dalle imprecisioni, non tutto è farina del sacco del suoi autori, ed è
per questo che, per l’approfondimento delle singole questioni trattate e/o
evocate, essi fanno rinvio ai seguenti contributi: G. GORLA, voce Giurisprudenza,
in Enc. dir., vol. XIX, Giuffrè : Milano, s.d., ma 1970, p. 489 e, con maggiori
dettagli, La motivation des jugements, in Foro it., 1979, V, c. 1, Lo stile delle sentenze.
Ricerca storico-comparativa, nei Quaderni Gorla, Foro it., 1967-1968, Raccolta di saggi
sull’interpretazione e sul valore del precedente giudiziale in Italia, in Quaderni Gorla, Foro
it., 1966-1967, La struttura della decisione giudiziale in diritto italiano e nella common law
- Riflessi di tale struttura sull’interpretazione della sentenze sui «Reports» e sul «Dissenting»,
in Giur. it., 1965, I, 1, p. 1239, Lo studio interno e comparativo della giurisprudenza e i
suoi presupposti: le raccolte e le tecniche per l’interpretazione delle sentenze, in Foro it., 1964,
V, c. 73, «Ratio decidendi», principio di diritto (e «obiter dictum»). - A proposito di alcune
sentenze in tema di revoca dell’offerta contrattuale, ibidem, 1964, V, c. 89, Le scuole di diritto
degli Stati Uniti d’America, in Riv. dir. comm., 1950, I, p. 320; J.H. MERRYMAN, The
Italian Style I: Doctrine, in (1965) 18 Stanford Law Review, p. 39; R. VON JHERING,
Serio e faceto nella giurisprudenza, trad. it. G. Lavaggi, Sansoni : Firenze, s.d., ma
1954; R. SACCO, di cui L’interpretazione, in G. ALPA, A. GUARNERI, P.G.
MONATERI, G. PASCUZZI e R. SACCO, Le fonti non scritte e l’interpretazione, nel
Trattato di diritto civile diretto dallo stesso SACCO, Le fonti del diritto italiano, 2, Utet
: Torino, 1999, p. 159, La parte generale del diritto civile, 1, Il fatto, l’atto, il negozio, nel
Trattato di diritto civile diretto sempre dal medesimo A., Utet : Torino, 2005 e
Prospettive della scienza civilistica italiana all’inizio del nuovo secolo, in Riv. dir. civ., 2005,
I, p. 417 e già Metodo del diritto e scontri generazionali, in Giur. it., 1989, IV, p. 177;
P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità , Giuffrè : Milano, 2005; J. DERRIDA,
2

[1994] Forza di legge, a cura di F. Garritano, trad. it. A. Di Natale, Torino : Bollati
Boringhieri, 2003; A. BARAK, [1989] La discrezionalità del giudice, trad. it. I. Mattei,
Giuffrè : Milano, 1995; J.P. DAWSON [1968], Gli oracoli del diritto, Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici : Napoli, 2014; A.M. DERSHOWITZ [2004], Rights from
wrongs. Una teoria laica dell'origine dei diritti, trad. it. V. Roncarolo, Codice edizioni :
Torino, 2005; A. GAMBARO, Il Linguaggio e lo stile delle Corti supreme: la motivazione,
relazione tenuta presso la Corte di Cassazione il 16 giugno 2016, consultabile
all’indirizzo www.cortedicassazione.it; P.G. MONATERI, di cui “Correct our watches by
public clocks” l’assenza di fondamento dell’interpretazione del diritto, in J. DERRIDA e G.
VATTIMO [curr.], M. BUSSANI [coord.], Diritto, giustizia e interpretazione, Annuario
Filosofico Europeo, Laterza : Roma-Bari, 1998, p. 189, I grandi interpreti. La
dottrina. La giurisprudenza, in G. ALPA, A. GUARNERI, P.G. MONATERI, G.
PASCUZZI e R. SACCO, Le fonti non scritte e l’interpretazione, cit., p. 423 e “All this
and so much more”: critica all’argomentazione e non interpretivismo, in A. PALAZZO [cur.],
L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo, Esi : Napoli, 2001, p. 163; G.
PASCUZZI, di cui La trasmissione dei dati, sempre in G. ALPA, A. GUARNERI, P.G.
MONATERI, G. PASCUZZI e R. SACCO, Le fonti non scritte e l’interpretazione, cit., p.
531 e Cosa intendiamo per «metodo casistico»?, in Foro it., 2016, V, c. 335; S. BAGNI,
M. NICOLINI, E. PALICI DI SUNI PRAT, L. PEGORARO, A. PROCIDA
MIRABELLI DI LAURO e M. SERIO [curr.], Giureconsulti e giudici. L’influsso dei

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professori sulle sentenze, vol. 1, Le prassi delle Corti e le teorie degli studiosi e vol 2., La
dottrina nella giurisprudenza oltre i confini di spazio, giurisdizione e materia, Giappichelli
: Torino, 2016; N. POSENATO, Lo stile delle sentenze, Cleup : Padova, 2017; L.
MENGONI, [1994] L’argomentazione orientata alle conseguenze, ora in ID., Ermeneutica
e dogmatica giuridica, Giuffrè : Milano, 1996, p. 91; N. LIPARI, Il diritto civile tra legge
e giudizio, Giuffrè : Milano, 2017; L. COVIELLO, Gli errori della giurisprudenza ed i
suoi trionfi, in Giur. it., 1918, IV, p. 33; E. GIANTURCO, Crestomazia di casi giuridici
in uso accademico, rist. anast. dell'ed. di Napoli, 1884, A. Forni : Sala Bolognese,
1989. Ma anche F. GALGANO, Dogmi e dogmatica nel diritto, Cedam : Padova, 2010
e G. TERRANOVA, Elogio dell’approssimazione. Il diritto come esperienza comunicativa,
Pacini : Ospedaletto, 2015.
Sul distinguo «disposizione» vs «norma» si consultano con profitto V.
CRISAFULLI, voce Disposizione (e norma giuridica), in Enc. dir., vol. XIII, Giuffrè :
Milano, s.d., ma 1964, spec. p. 207 segg.; T. ASCARELLI, Giurisprudenza
costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Riv. dir. proc., 1957, p. 352; A. PUGIOTTO,
Sindacato di costituzionalità e “diritto vivente”, Giuffrè : Milano, 1994; più in generale
J. TULLY, Wittgenstein e la filosofia politica. Comprendere le pratiche di riflessione critica, in
D. SPARTI [cur.], Wittgenstein politico, Feltrinelli : Milano, 2000 e C. TAYLOR,
Philosophical Papers, vol. 2, Philosophy and the Human Sciences, Cambrige University
Press : Cambrige - New York - Melbourne, 1985, p. 45.
Sul divieto di venire contra factum proprium, senz’altro, R. SACCO, Il fatto, l’atto,
il negozio, cit. e poi F. ASTONE, Venire contra factum proprium, Jovene : Napoli, 2006;
per un riuscito esperimento didattico, G. PASCUZZI, Pacta sunt servanda,
Zanichelli : Bologna, 2006.
A proposito dei crittotipi R. SACCO, Introduzione al diritto comparato , nel 5

Trattato di diritto comparato diretto dallo stesso A., Utet : Torino, 2002, p. 190 segg.
e P.G. MONATERI, La sineddoche, Giuffrè : Milano, 1984.
Sul selective reporting P.G. MONATERI, L’occhio del comparatista sul ruolo del
precedente giudiziario in Italia, in Contr. impr., 1988, p. 192.
In dottrina, sulla specifica questione dell’efficacia ultrattiva dello statuto di
cui agli artt. 180 segg. cod. civ. in caso cessazione del regime di comunione legale,
v., quali apripista all’impostazione fatta ora propria dalla Cassazione, G. OPPO,
[1976] Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, ora in ID., Scritti giuridici,
V, Persona e famiglia, Cedam : Padova, 1992, G. FURGIUELE, Libertà e famiglia,
Giuffrè : Milano, 1979 e F. MASTROPAOLO e P. PITTER, Commento agli artt. 186
- 197 cod. civ., nel Commentario al diritto italiano della famiglia diretto da G. CIAN, G.
OPPO e A. TRABUCCHI, III, Cedam : Padova, 1992; si allontanano invece da
questa impostazione, propendendo per il regime di comunione ordinaria, pur
con differenze tra loro, P. SCHLESINGER, Della comunione legale, nel Commentario
alla riforma del diritto di famiglia diretto da L. CARRARO, G. OPPO e A. TRABUCCHI,
I, 1, Cedam : Padova, 1977, G. CATTANEO, Corso di diritto civile, Giuffrè : Milano,
1988, F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, vol. 2, nel Trattato di diritto civile
e commerciale Cicu e Messineo, Giuffrè : Milano, 1984, M. GIONFRIDA DAINO, La
posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi, Cedam : Padova, 1986, A.
GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, nel Commentario del codice civile
Scialoja e Branca, Zanichelli - Foro it. : Bologna - Roma, 2003, G. OBERTO, La
comunione legale tra coniugi, II, Amministrazione, responsabilità patrimoniale e interferenze,
nel Trattato di diritto civile e commerciale Cicu e Messineo, Giuffrè : Milano, 2010 e ;
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T.V. RUSSO, Le vicende estintive della comunione legale, Esi : Napoli, 2004.
Configurazioni ancora diverse in M. PALADINI, La comunione legale come “proprietà
solidale”: le conseguenze sistematiche e applicative, in Fam. dir., 2008, p. 685; S. ALAGNA,
Lo scioglimento della comunione legale: osservazioni e proposte, in Studi sulla riforma del
diritto di famiglia, Giuffrè : Milano, 1973; V. DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della
famiglia nel sistema del diritto privato , tomo 2, Il regime patrimoniale della famiglia.
2

Nozioni introduttive - Convenzioni matrimoniali - Comunione legale dei beni - Comunione


convenzionale, Giuffrè : Milano, 2002. Una trattazione del tema
metodologicamente interessante, analitica e non “ontologica”, in G. AMADIO,
Lo scioglimento della comunione legale, in T. AULETTA [cur.], Bilanci e prospettive del
diritto di famiglia a trent’anni dalla riforma (Atti del Convegno di studi di Catania, 25-
27 maggio 2006), Giuffrè : Milano, 2007, p. 199 e in M.F. LO MORO BIGLIA, Lo
scioglimento della comunione legale tra coniugi, Cedam : Padova, 2000. Il dibattito si era
aperto già prima della riforma e cfr. G. TEDESCHI, Il regime patrimoniale della
famiglia , nel Trattato di diritto civile diretto da F. Vassalli, Utet : Torino, 1963 e F.D.
4

BUSNELLI, voce Comunione dei beni fra coniugi, in Enc. dir., VIII, Giuffrè, s.d., ma
1961, p. 264.
Questa è una mappa, non una guida bibliografica: U. ECO, L’antiporfirio, in
G. VATTIMO e P.A. ROVATTI [cur.], Il pensiero debole, Feltrinelli : Milano, 1983.

Lo scritto si cita:
A. DI SAPIO, D. MURITANO e A. PISCHETOLA, Cosa facciamo con le
sentenze. A proposito di Cass. n. 4676/2018 e dell’ultrattività della comunione legale
tra coniugi, (Working Paper - luglio 2018), consultabile all’indirizzo
www.academia.edu.
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