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TEOLOGIA E PRATICA PASTORALE.

LA PROSPETTIVA DI LUTERO

Fulvio Ferrario*

«La vera teologia è pratica e il suo fondamento è Cristo, della cui morte ci appro-
priamo mediante la fede. Tuttavia, al giorno d’oggi tutti coloro che non sentono
come noi e non condividono la nostra dottrina, fanno teologia speculativa perché
non riescono a liberarsi dal concetto: chi fa il bene ecc. [sarà ricompensato]. Ma
non così che è scritto, bensì: “Colui che teme il Signore, alla fine riuscirà” [Sir.
1,13]. Pertanto la teologia speculativa appartiene al diavolo, all’inferno»1.

Non possiamo sapere con certezza assoluta se queste parole siano ipsis-
sima vox Lutheri, ma certo corrispondono bene al talento del riformatore per
la formulazione densa e sapida. In poche righe, abbiamo alcune coordinate
importanti della visione luterana dell’impresa teologica e del suo rapporto con
l’esistenza credente. Troviamo anzitutto una ruvida contrapposizione tra la
“vera teologia”, definita “pratica”, e una teologia “speculativa”, implicitamen-
te ma inequivocabilmente presentata come falsa; quest’ultima ha a che vedere,
a quanto pare, con una malriposta fiducia nella portata salvifica dell’umano
agire. In tal modo, Lutero prende con decisione le distanze dalla tradizione
scolastica: anche quest’ultima si poneva la domanda, ma rispondeva in modo
diverso, di solito mediante un et-et: la teologia è sia teoretica e speculativa,
sia pratica2. Il fondamento della teologia è Cristo, «della cui morte ci appro-
priamo mediante la fede»: il fondamento cristologico, cioè, è immediatamente
orientato nel senso di una teologia della croce, la quale, a sua volta, è declinata
in prospettiva soteriologica3 e agisce mediante la fede, caratterizzata come

* 
Docente Ordinario di Teologia Dogmatica e disciplini affini, Facoltà Valdese di Teologia di Roma.
1 
WATR, n. 153 (dicembre 1531 o gennaio 1532).
2 
Cf. ad es. STh I,1,4: Tommaso, però, conclude che la teologia sia più speculativa che pratica. Cf.,
su questo tema, G. Ebeling, Lehre und Leben in Luthers Theologie, hrsg. von der Reinisch-Westphälische
Akademie der Wissenschaften, Westdeutscher Verlag, Opladen 1984, 21-30.
3 
Non si può non pensare alla celebre espressione del discepolo Melantone: «Hoc est Christus cogno-
scere, beneficia eius cognoscere».
206 Fulvio Ferrario

un movimento di appropriazione. Le note che seguono intendono sviluppare


una piccola esegesi di queste parole di Lutero, senza nessuna pretesa di com-
pletezza sistematica4, ma ripercorrendo alcuni testi esemplari delle varie fasi
della sua riflessione, tenendo presente l’orizzonte attuale del dibattito sulla
collocazione epistemica ed istituzionale dello studio teologico, in particolare
in ambito evangelico.

1. Il theologus crucis

Si tratta del necessario primo passo, per il quale la Disputa di Heidelberg


costituisce il riferimento obbligato: esso verrà tuttavia svolto in estrema sintesi,
dato che il tema è ampiamente sviluppato, seppure in altra prospettiva, in altri
contributi qui pubblicati.
Com’è stato osservato5, le tesi di Heidelberg non parlano di una “teolo-
gia”, bensì del “teologo” della croce. Il dettaglio non è irrilevante: il discorso è
collocato, fin dall’inizio, su di un piano che impedisce di separare la riflessione
dalla persona credente che la svolge. Tale prospettiva fortemente esistenziale
costituisce una costante del pensiero di Lutero. L’identità del teologo della
croce è definita nella contrapposizione al teologo “della gloria”. Riassumiamo
le caratteristiche di questa contrapposizione: a) il teologo della gloria contem-
pla l’invisibilità di Dio a partire dalle sua opere visibili; il teologo della croce
parla di Dio a partire dalla sua rivelazione nella passione di Cristo; il primo
fraintende catastroficamente, e anzi capovolge, la realtà di Dio; il secondo vive
il discepolato nella forma del pensiero6. b) Il teologo della gloria si muove nel
segno della legge, che accusa e condanna; la posizione del teologo della croce

4 
Per panoramiche generali sulla comprensione del pensare teologico da parte del Riformatore, cf. O.
Bayer, Theologie, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh, 1994, 35-126; D. Korsch, Theologische Prinzipien-
fragen, in A. Beutel (Hrsg.), Luther Handbuch, Mohr Siebeck, Tübingen 2005, 353-62; H.-M. Barth, Die
Theologie Martin Luthers. Eine kritische Würdigung, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2009, 105-136
(per la verità, queste pagine riguardano soltanto il rapporto tra teologia e filosofia; quello della concezione
generale della disciplina è piuttosto trasversale nei vari capitoli; ma, in misura diversa, ciò vale, ovviamente,
per tutti I lavori indicati); Ch. Axt-Piscalar, Was ist Theologie?, Mohr Siebeck, Tübingen 2013, 79-94.
5 
Cf. J. Vercruysse, Gesetz und Liebe. Die Struktur der “Heidelberger Disputation” Luthers, in
Lutherjahrbuch 48 (1971) 7-43; molti contenuti di questo studio di grande rilievo sono ripresi in altri lavori
dello stesso autore: Luther’s Theology of the Cross at the Time of the Heidelberg Disputation, in Gregorianum
57 (1976) 523-548; Rilevanza per l’ecumenismo della “teologia della croce”, in La Civiltà Cattolica 140
(1989), IV, 16-29; per una valutazione storiograficamente aggiornata del dibattito sulla teologia della croce
in Lutero, cf. L. Vogel, La teologia della croce. Lettura teologica di un mondo sperimentato come secolare,
in Teologia 42 (2017) 396-422; per una ripresa in prospettiva dogmatica, F. Ferrario, Dio era in Cristo,
Claudiana, Torino 2016, 77-96; 173-200.
6 
Tesi 19-21, M. Lutero, La disputa di Heidelberg, in Id., Scritti religiosi, a cura di V. Vinay, UTET,
Torino, 1967, 183.
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 207

non è esplicitata simmetricamente7: la dialettica tra legge ed evangelo, qui,


non compare ancora nella sua forma articolata. L’itinerario del teologo della
gloria non sarebbe malvagio “in sé”: il fatto è che non esiste una condizione
umana “in sé”, cioè esterna rispetto alla contrapposizione tra Dio e il diavolo.
L’essere umano “remoto Christo” fa «pessimo uso anche delle cose migliori».
Dal punto di vista propriamente epistemologico, il nucleo della posizione
di Lutero è indicato nella Probatio della tesi 20, dove è presentata in termini
paradigmatici, sulla scorta di I Cor. 1, ma anche con un decisivo riferimento a
Gv. 14,8, la struttura della rivelazione sub contraria specie: la maestà e la po-
tenza di Dio si manifestano nel nascondimento dell’umiliazione e della morte
del Crocifisso. La tradizionale teologia “dal basso in alto”, dalle opere di Dio
alla sua identità eterna, è destinata a forgiarsi un idolo, un Dio diverso da quello
reale. Su tutto ciò, alcune rapide osservazioni.
a) Le contrapposizioni di Lutero non comprendono quella, astrattamente
considerata, tra fede e ragione. Anche il teologo della croce ragiona: il punto è
che lo fa a partire da Cristo crocifisso. La teologia è in ogni caso opera dell’u-
mano intelletto: la differenza tra quella falsa e quella vera risiede nel diverso
orientamento di tale attività.
b) Naturalmente la teologia non ha in sé il proprio fondamento8: esso è
“già posto” (cf. I Cor 1,31) nella rivelazione di Dio in Cristo.
c) Un elemento decisamente originale risiede nell’articolazione del rap-
porto tra tale fondamento e la teologia: si tratta di un rapporto esclusivo, pro-
spettico e dialettico. Il significato di questi aggettivi emergerà, spero, dall’in-
sieme dell’esposizione, ma è possibile caratterizzarlo, in prima battuta, già a
questo punto. Esclusivo: il teologo della croce è vincolato al Crocifisso sol-
tanto: quest’ultimo non costituisce un capitolo della teologia, bensì il punto di
partenza, il contenuto fondamentale e il criterio metodologico. Prospettico: il
teologo della croce non ha una visione panoramica «von Gott und der Welt»,
non è in grado di elaborare qualcosa come un “sistema”: la sua è una theologia
viatoris, il che significa inevitabilmente frammentaria e incompleta9. Dialet-
tico: il teologo della croce vive e pensa nella tensione del suo rapporto con il
Dio vivente, rivelato nel Crocifisso, dunque nel più intenso coinvolgfimento

7 
Tesi 22-24, ibid.
8 
Il che, però, non è in alcun modo una novità, cf. STh I,1,3: la teologia è una scienza “subalternata”
alla «conoscenza di Dio e dei beati», cioè alla rivelazione.
9 
Il pensiero di Lutero su questo punto non ha alcun bisogno di precisazioni. Nel panorama contempo-
raneo, tuttavia, non scarseggiano i fraintendimenti di tale carattere frammentario e parziale, che lo scambiano
con l’ammissibilità, o addirittura la necessità, di un pensiero teologico poco rigoroso e banalmente associativo.
In realtà, ogni sconto sul rigore razionale dell’impresa teologica è radicalmente escluso: di nuovo, la questione
è l’orientamento di tale rigore, il tipo di uso che se ne fa.
208 Fulvio Ferrario

esistenziale (ed esistentivo, se vogliamo mantenere la distinzione di Heideg-


ger, che in questo contesto funziona bene). Anche la figura di pensiero del
paradosso, notoriamente molto utilizzata da Lutero e che attraversa anche il
testo in esame, va intesa in questo quadro. Essa non è affatto una concessione
all’irrazionalità, bensì una precisa modalità di pensare la realtà mobile e tesa
della condizione umana di fronte a Dio.
d) In questo quadro va compresa l’altra caratteristica fondamentale del
teologare di Lutero, cioè la dimensione esegetica, laddove il messaggio della
Scrittura, così com’è restituito dal lavoro di interpretazione, è immediatamente
posto in relazione all’esperienza esistenziale. Nelle tesi di Heidelberg l’esegesi
non è in primo piano, ma neppure assente. Il carattere rinnovatore dell’in-
terpretazione biblica di Lutero risiede nell’intreccio tra gli elementi appena
menzionati, gli impulsi umanistici recepiti anche a Wittenberg e i lineamenti
dell’agostinismo e della praxis pietatis del giovane Lutero. Il celebrato sola
Scriptura non opera isolatamente, bensì costituisce un elemento di una costel-
lazione teologica originale.
Dieter Korsch10 ha colto con precisione la portata di tutto ciò per quanto
riguarda la struttura epistemica del pensare teologico. La teologia accademica
medievale è orientata da due grandi paradigmi, che nella pratica funzionano
in termini convergenti: quello storico-salvifico, canonizzato a partire da Pier
Lombardo, e quello metafisico che celebra i suoi trionfi soprattutto (ma non
esclusivamente) nella Scolastica classica. L’innovazione di Lutero rispetto a
questa tradizione riprende elementi comunque consolidati, sia nella teologia
di tipo monastico centrata sulla lectio divina, sia nella mistica tedesca, sia,
naturalmente, della stessa pratica scolastica di orientamento nominalista: il
quadro e l’insieme, tuttavia, sono originali e si inseriscono in modo esplosivo
nella disputa ecclesiale di quegli anni. La caratterizzazione della teologia della
Tischrede del 1532 si lascia verificare con buona precisione già nella disputa
del 1517.

2. Cognitio dei et hominis

In un importante articolo del 196611, Gerhard Ebeling ha richiamato l’atten-


zione su una definizione luterana della teologia, tratta dall’Enarratio del S. 51:

10 
Cf. D. Korsch, Theologische Prinzipienlehre, 335 s.
11 
Ora in G. Ebeling, Cognitio dei et hominis, Lutherstudien I, Mohr Siebeck, Tübingen, 1971, 221-272,
in part. 255-272. Lo studio sviluppa un’articolato confronto tra l’uso dell’espressione cognitio dei et hominis
da parte di Lutero e quella di Zwingli e di Calvino, aspetto che va al di là degli obiettivi del mio intervento.
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 209

«La conoscenza di Dio e dell’essere umano è sapienza divina e propriamente


teologica; e precisamente quella conoscenza di Dio e dell’essere umano riferita
in ultima analisi al Dio giustificante e all’essere umano peccatore; dunque, il
tema della teologia è propriamente l’essere umano colpevole e perduto e il Dio
giustificante o salvatore»12. Il grande studioso sottolinea come, nell’esegesi lu-
terana, Davide rappresenti la condizione umana in quanto tale, di fronte a Dio.
Ancora una volta, Lutero si distingue dalla tradizione scolastica, sottolineando
che il tema della teologia non è, semplicemente, “Dio”, bensì, concretamente,
Dio nella sua relazione con l’essere umano. Ciò non ha nulla a che vedere con
qualcosa come un punto di vista antropocentrico: del resto, quanto a ciò, anche
l’essere umano può essere conosciuto solo nella sua relazione con Dio. A ben
vedere, siamo anzi agli antipodi di un pensiero antropocentrico. Alla pretesa spe-
culativa di conoscere un Dio “in sé”, corrisponde infatti l’immagine di un essere
umano che, almeno secondo la ratio cognoscendi, può essere considerato remoto
Deo13. La questione è altra: la conoscenza di Dio è possibile solo nella situazione
concreta nella quale l’essere umano si trova, che è quella del peccatore che in-
contra, nella parola, il Dio che giustifica in Cristo. Tale situazione non è iniziale
o provvisoria, bensì strutturale e gli aggettivi (rispettivamente: giustificante per
Dio e peccatore per l’essere umano) non sono specificazioni all’interno di un
genere più ampio, ma qualificano l’unica realtà della quale si può parlare teolo-
gicamente14. Non esiste un punto di vista teologico esterno rispetto alla relazione
concreta tra il Dio giustificante e l’essere umano peccatore. Detto in altri termini,
l’impresa teologica ha come tema specifico l’evento della giustificazione: come
abbiamo visto nella Tischrede citata in apertura, la soteriologia non può essere
separata (e spesso, in Lutero, nemmeno distinta) dal “resto” della teologia, pena
ricadere nel pensiero “speculativo”. In tale prospettiva, il rapporto tra l’impresa
teologica e la pratica pastorale non è di pura e semplice associazione, né può es-
sere illustrato secondo lo schema premesse-conseguenze. Se, per ragioni di cor-
rettezza dogmatica, non si vuole affermare, nero su bianco, la coincidenza senza

12 
WA 40 II, 327,11-328,2: «Cognitio dei et hominis est sapientia divina et proprie theologica. Et
ita cognitiodei et hominis, ut referatur tandem ad deus iustificantem et hominem peccatorem, ut proprie sit
subiectum Theologiae homo reus et perditus et deus iustificans vel salvator».
13 
Cf. G. Ebeling, Cognitio dei et hominis, 271. Ciò sia detto con buona pace anche di Karl Barth,
sempre piuttosto sospettoso nei confronti della polarità relazionale che costituisce la struttura fondamentale
della teologia di Lutero e che il teologo, nella quale il teologo svizzero riconosce l’impianto, che egli ritiene di
dover rifiutare, della teologia bultmanniana. In realtà, la categoria di “rivelazione”, così centrale nel pensiero
di Barth, in tutte le sue fasi, è strutturalmente relazionale, almeno se non degenera in ciò che è stato chiamato
Offenbarungspositivismus.
14 
Cf. G. Ebeling, Cognitio dei et hominis, 265: la teologia, tematizzando l’essere umano peccatore, non
si occupa «degli elementi parziali che inclusi, come entro una parentesi, nella vita, bensì del segno decisivo
che sta davanti a tale parentesi» e che, dunque, determina ogni aspetto.
210 Fulvio Ferrario

residui tra cristologia e soteriologia, bisogna almento dire che la parola della
giustificazione, che è soteriologia allo stato puro, costituisce l’evento originario
e strutturante di ogni pensiero cristologico. Nella sua radice, nella sua natura e
nella sua struttura, se non sempre nel linguaggio e nei generi letterari, la teologia
accademica è, secondo Lutero, intrinsecamente pastorale. Vorrei approfondire
tre aspetti di questa comprensione luterana del pensare teologico (o: della fede
pensata teologicamente), sulla scorta rispettivamente di due passi famosi, tratti
dai Catechismi del 1529, e di un elemento strutturale dei medesimi testi.
2.1. Iniziamo dal rapporto tra tra teologia e soteriologia, leggendo la
spiegazione del secondo articolo dell’Apostolico nel Piccolo Catechismo: il
paragrafo è intitolato, non a caso: La redenzione15. La “cristologia” in senso
stretto è concentrata nell’affermazione della vera divinità e della vera uma-
nità di Gesù, con riferimento alla nascita dal Padre, per un verso e da Maria,
dall’altro. La confessione di Cristo come Signore è già declinata sul versante
soteriologico. In uno scritto successivo, Tre simboli o confessioni della fede in
Cristo (1938), Lutero denuncia l’attacco di Satana contro questo articolo, che
verrebbe condotto da tre Heer – Spitzen, gruppi d’assalto: «uno non vuole che
Cristo sia Dio; il secondo non vuole che sia uomo; il terzo non vuole che egli
abbia fatto ciò che ha fatto [per noi]»16: qui però tutta l’attenzione è per il terzo
“commando”. Il momento soteriologico è poi agganciato a quello escatologi-
co, in prospettiva etica: la salvezza ottenuta, e che si compie nel regno, opera
l’appartenenza a Cristo e dunque la lieta obbedienza della fede. Davvero, non
solo per Melantone, ma anche per Lutero conoscere Cristo significa conoscere
i suoi benefici: cristologia, dunque, è predicazione del Dio che in Gesù Cristo
si manifesta come giustificante. In questo modello, non è pensabile alcuno
schema “in due tempi”: né quello, interno all’argomentazione teologica, tra
cristologia e soteriologia, né quello tra riflessione dogmatica e annuncio ec-
clesiale17. Non sarebbe difficile mostrare una struttura analoga nelle esegesi
luterane degli altri due articoli del Credo18.

15 
M. Lutero, Piccolo Catechismo – Grande Catechismo, a cura di F. Ferrario, Claudiana, Torino
1998, 72: «Credo che Gesù Cristo, vero Dio nato dal Padre, è anche vero uomo nato dalla vergine Maria, è
il mio SIGNORE, che ha redento ne, perduto e dannato, mi ha acquistato, riscattato da tutti I peccati, dalla
morte e dal potere del diavolo: non con oro e argento, ma con il suo santo, prezioso sangue e con la sua
sofferenza e morte innocenti, affinché io gli appartenga e viva, a lui sottopoto, nel suo Regno, lo serva in
eterna giustizia, innocenza e beatitudine, come egli estesso è risorto da morte, vive e regna in eterno. Questo
è certamente vero».
16 
WA 50,269,1.
17 
La tradizione protestante ha rettamente individuato questo aspetto quando a deciso di elevare dei
catechismi (quelli del 1929 per la tradizione luterana; soprattutto quello di Heidelberg, per quella riformata)
al rango di testi simbolici.
18 
Ho cercato di farlo, in estrema sintesi, ne Il futuro della Riforma, Claudiana, Torino 2016, 121-125.
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 211

2.2. Dedichiamo ora uno sguardo al tema del rapporto tra l’elemento an-
tropologico e la conoscenza di Dio, sulla base della celeberrima risposta del
Grande Catechismo alla domanda: «Che significa “avere un Dio” o “che cosa
è Dio”?»19.
In primo luogo è utile rilevare l’equivalenza, formulata dal riformatore,
tra le espressioni “avere un Dio” e “che cosa è Dio”20: si sarebbe tentati di
attribuire alla seconda una flessione più oggettivante, ma nella comprensione
di Lutero così non è. Il riformatore argomenta all’interno di una relazione, le
caratteristiche della quale, e in particolare il fatto che la realtà di Dio sia posta
in diretto rapporto con la fede dell’essere umano, si prestano, in particolare in
un quadro concettuale dominato dal pensiero oggettivante, ad essere equivo-
cate. Bisogna dire che Lutero non ha fatto molto per prevenire tali equivoci.
Egli invita l’essere umano, ad esempio, ad essere “facitore di Dio” (“Gott –
Macher”)21 e parla di una fede “creatrix divinitatis”22. Si tratta di formulazioni
estremamente audaci anche nel XVI secolo23, che poi nella modernità sono sta-
te interpretate come involontaria ammissione del carattere autoreferenziale (e
dunque falso) della fede cristiana. Secondo Ebeling, la corretta chiave di lettura
delle parole di Lutero parte dall’antropologia: il “cuore” umano va visto come
non autosufficiente e dunque costitutivamente rinviato alla relazione, la quale
a sua volta assume la struttura, implicita o esplicita, dell’affidarsi; da questo

19 
Piccolo Catechismo – Grande Catechismo, 123: «“Dio” significa: ciò da cui il tuo cuore si deve
attendere ogni bene e presso il quale si deve cercare rifugio in ogni avversità. Dunque “avere un Dio” non
significa altro che confidare e credere in lui di cuore, come ho già spesso affermato, poiché fiducia e fede del
cuore rendono tali sia Dio, sia l’idolo. Se la fede e la fiducia sono ben riposte, allora anche il tuo Dio è quello
vero; e, viceversa, dove la fiducia è sbagliata e mal riposta, lì non è il vero Dio. Infatti le due cose, fede e Dio,
vanno insieme. Ciò da cui – dico – il tuo cuore dipende e a cui si affida, quello è, propriamente, il tuo Dio».
20 
Naturalmente l’espressione «avere un Dio» è data dal testo del comandamento. G. Ebeling, «Was
heißt ein Gott haben oder was its Gott?». Bemerkungen zu Luthers Auslegung des ersten Gebots im Großen
Katechismus, ora in Wort und Glaube II, Mohr Siebeck, Tübingen 1969, 287-304, qui 292s., tuttavia, spiega
bene perché non ci si possa fermare a tale constatazione: «Anziché ridurre il discorso sull’essere di Dio
all’espressione “avere Dio”, egli [Lutero] apre l’espressione “avere Dio” alla domanda sull’essere di Dio.
Ovviamente non nel senso che il giudizio di esistenza sia legato a un rapporto con Dio dato per presupposto
[cioè: che dal rapporto di fede si passi al giudizio di esistenza]. Piuttosto, la formulazione “Che cosa significa
avere un Dio” va alla radice della questione sull’essere di Dio, in quanto invita a riflettere sul senso e sul
modo nel quale in generale sia possibile parlare di Dio».
21 
Esortazione relativa al sacramento del corpo e del sangue di nostro Signore (1530), WA 30 II, 602,
39. È pur vero che, nelle righe seguenti, precisa: «non che tu debba fabbricare la sua natura divina, perché
essa è e rimane eternamente increata. Ma tu puoi fare in modo che egli sia Dio per te» (603,1-3).
22 
Grande commentario a Galati, WA 40 I, 360,5. Precisazione: «non nella persona [di Dio], bensì
in noi».
23 
«Se dunque io credo in un Dio, ho un Dio, ossia la fede in Dio è il Dio nell’uomo. Se Dio è ciò che io
credo e come io lo credo, la natura di Dio non si identifica con la natura della fede? […] Che Dio sia un essere
altro da te, è una pura apparenza, una supposizione gratuita»: L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, tr.
it. Feltrinelli, Milano 1971, 141.
212 Fulvio Ferrario

punto di vista, la condizione umana va interpretata come “distretta” (Not), in


quanto non ha in se stessa la possibilità di garantire la propria sussistenza. Per
tale ragione, conclude Ebeling, Lutero non ha torto quando afferma che tutto
si decide in base al tipo di relazione: la fede, nel senso cristiano del termine, è
il tipo di relazione adeguato al vero Dio24, in quanto non consiste nell’“avere”,
cioè nel fondare la propria sussistenza su ciò che è disponibile, bensì in un
collocarsi fiduciale “fuori di sé”. Anche in questo caso si pone il problema
di una riduzione del teologico al soteriologico: il pro nobis come orizzonte
esclusivo del discorso su Dio. Ebeling riconosce che «l’orizzonte della parola
“Dio” va al di là del problema soteriologico. Tuttavia, non si può ammettere in
alcun caso che il significato di “Dio” possa essere determinato prescindendo
da tale problema»25.
Il testo del Grande Catechismo si rivela particolarmente istruttivo per il
nostro tema, in quanto precisa in termini teoreticamente assai radicali i rapporti
che ci interessano. Nella prospettiva di Lutero, la fede è concepita in termini
non del tutto riconducibili alla distinzione classica tra fides qua e fides quae
creditur. La sottolineatura della dimensione relazionale, certamente, rientra
nell’orizzonte della fides qua; la sua qualità cristiana, tuttavia, non costituisce,
per Lutero, una specificazione all’interno di un genus (l’“affidarsi in generale”,
inteso come struttura antropologica applicabile in linea di principio a diverse
relazioni concrete), bensì è presentata come qualitativamente diversa, in quan-
to adeguata al suo terminale, cioè al Dio di Gesù Cristo: la dimensione della
fides quae, dunque, è inclusa. Concretamente, come abbiamo più volte rilevato,
la relazione è quella tra l’essere umano peccatore e il Dio che giustifica, cioè
quella che si determina nell’evento della parola, la cui proclamazione costi-
tuisce la ragion d’essere della chiesa. Poiché il Dio giustificante si manifesta
come tale nella realtà della predicazione, la fede nella sua struttura intima, la
teologia e l’annuncio, dunque, sono certamente distinguibili in sede di analisi
teologica e di declinazione operativa, ma in re costituiscono aspetti diversi di
un’unica realtà.
2.3. Infine, è utile menzionare un elemento strutturale dei Catechismi.
Essi iniziano con l’interpretazione dei Dieci comandamenti e proseguono con
il Credo Apostolico: tale successione corrisponde alla dialettica tra legge ed
evangelo che per Lutero, com’è noto, costituisce la modalità nella quale si
presenta la parola di Dio e, dunque, il criterio decisivo del pensare teologico.
Il rapporto con il Decalogo manifesta all’essere umano la propria condizione di
peccato, rispetto alla quale egli non può confidare in se stesso, bensì solo acco-

24 
«Was heißt ein Gott haben oder was its Gott?», in part. 295-303.
25 
«Was heißt ein Gott haben oder was its Gott?», 295.
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 213

gliere l’offerta di grazia di Dio, che la professione di fede riassume nei suoi ter-
mini dottrinali: si tratta del cosiddetto uso “teologico” o “elenchico” della leg-
ge (il secondo, nell’enumerazione classica della teologia evangelica)26, al quale
è assegnato il compito di caratterizzare la condizione umana nella sua realtà di
“distretta”, di strutturale, ma non per questo meno colpevole, inadeguatezza di
fronte all’esigenza di Dio. Dal punto di vista di Lutero, la corretta distinzione
tra legge ed evangelo costituisce ciò che propriamente rende tale il teologo27,
in quanto da essa dipende l’annuncio della giustificazione. I Catechismi evi-
denziano assai bene che cosa ciò significhi per la vita cristiana. L’esposizione
del Decalogo occupa, da sola, circa la metà del Grande Catechismo: essa ri-
prende le serie di predicazioni luterane sui comandamenti, con il loro intento
parenetico. Se l’uso teologico della legge presiede alla successione delle prime
due parti dei Catechismi, il contenuto dell’esegesi dei comandamenti mostra
che Lutero attribuisce un’enorme importanza alla dimensione etica e alla sua
mediazione pastorale. Il motivo conduttore dei Catechismi, del resto, risiede
precisamente nello sforzo di collegare una radicale teologia della grazia al tema
della disciplina della vita cristiana. Il rischio della “grazia a buon mercato” non
è stato scoperto per la prima volta da Bonhoeffer, semmai dall’apostolo Paolo
(Rom. 6,1.15). Ogni volta che l’evangelo della grazia risuona con potenza, esso
è esposto al pericolo di quel tipo di pervertimento che, all’epoca della Riforma,
è chiamato “antinomistico”. Lutero ne è consapevole, e reagisce.

3. Oratio, tentatio, meditatio

La trattazione più articolata che Lutero dedica allo studio della teologia
in quanto tale è costituita dalla Prefazione all’edizione delle sue opere tede-
sche, il cui primo volume esce nel 153928. Il riformatore manifesta la propria
perplessità rispetto al proliferare di libri teologici, che minacciano di sottrarre
tempo ed energie allo studio della Scrittura. Egli dichiara perà di accettare

26 
Ricordiamo che il primo uso della legge è quello politico: la legge pone argini al carattere belluino
della convivenza tra gli umani; il secondo è, appunto, quello teologico; il terzo è quello pedagogico, cioè
l’indicazione concreta di comportamenti che dovrebbero caratterizzare la nuova vita del credenti. Si discute
sulla presenza o meno del terzo uso in Lutero: esso sarebbe caratteristico prima di Melantone, poi della
traduzione riformata. In ogni caso, il contenuto del terzo uso, cioè la parenesi, è abbondantemente presente
nell’opera luterana.
27 
«Chi sa ben distinguere evangelo e legge, ne ringrazi Dio e sappia che è un teologo» (Grande Com-
mentario a Galati, WA 40 1, 207,17s). Più in generale, Lutero può affermare che l’arte della distinzione in
quanto tale «fa il teologo»: cf. G. Ebeling, Lehre und Leben, 32.
28 
Cf. WA 40, 657-661; tr. it. in J. Vercruysse, Martin Lutero. Prefazione al primo volume dell’edizione
di Wittenberg 1539. Un modo giusto per studiare teologia, in Studi ecumenici 17 (1999) 623-631.
214 Fulvio Ferrario

suo malgrado che le sue opere vengano ristampate, anche perché ritiene che,
superata la curiosità dei primi tempi, essi cadranno poi nel dimenticatoio, a
vantaggio della lettura biblica. L’autore afferma di volersi richiamare all’esem-
pio di Agostino che, appunto, nella sua opera, piuttosto che discutere gli altri
interpreti, si concentra sul testo biblico. Dopo questo preambolo, Lutero passa
all’esposizione del metodo di studio che egli ritiene di rinvenire nel Salmo 119
e che sarebbe comune, oltre che a Davide, ai patriarchi e ai profeti. Si tratta di
quello che oggi chiameremmo “esegesi teologica”, articolata nei tre momenti
dell’oratio, della meditatio e della tentatio.
Lo studio inizia con la preghiera personale e riservata (cf. Mt. 6,6): come
Davide (S. 119,26 s. 33 s.), anche il teologo deve chiedere l’illuminazione di
Dio, per non esporsi al pericolo di addomesticare la parola di Dio, comprimen-
dola all’interno dei prorpi schemi concettuali. La meditatio non è un atteggia-
mento soltanto interiore, ma consiste in un’accentuata attenzione alla parola
esteriore, in un “treiben und reiben”29, leggendo e rileggendo, senza pigrizia
e senza credere presuntuosamente di avere assimilato a sufficienza la lettera
biblica. Il teologo che non “medita” a sufficienza in questo senso (potremmo
semplicemente dire: che non è diligente), non coglierà il frutto maturo del
proprio lavoro. Quest’ultimo cresce nella consuetudine, nella convivenza con
la pagina biblica. Lutero si richiama qui all’andamento del salmo 119, dove
la meditazione della parola di Dio viene celebrata sempre di nuovo, in forma
insistita, ma non esattamente ripetitiva, perché attenta a evidenziare la continua
novità che scaturisce dal testo. «Dio non vuole donare il suo Spirito senza la
parola esterna»30: è la posizione sempre sostenuta da Lutero contro coloro che
egli chiama Schwärmer, cioè fanatici o entusiasti. La dimensione esteriore del-
la parola di Dio è decisiva e per questo «Dio non ha ordinato invano di scrivere,
predicare, insegnare, ascoltare, cantare e dire ecc. esternamente»31. Infine la
tentatio, “Anfechtung”. Si tratta, com’è noto, di una categoria centrale dell’e-
sperienza spirituale e del pensiero di Lutero32, tuttavia stupisce un poco, a tutta
prima, vederla citare in conclusione, quasi si trattasse del vertice del lavoro
teologico. Il fatto è che la tentazione non rientra nella patologia dell’esistenza
teologica, bensì ne costituisce una dimensione normale e tipica33. La sua fun-

29 
WA 40 1, 659,23s. Vercruysse, 629, traduce con «trattare e macinare»: si tratta della ruminatio
monastica.
30 
Prefazione al primo volume dell’edizione di Wittenberg, 629.
31 
Ibidem.
32 
Cf., per alcune coordinate bibliografiche, D.P. Scaer, The Concept of Anfechtung in Luthers Thought,
in Concordia Theological Quarterly 47 (1983) 15-30.
33 
Cf. K. Barth, Introduzione alla teologia evangelica, tr. it. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990,
173-182. Il titolo del capitolo, tradotto con Prova è appunto, in tedesco, Anfechtung.
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 215

zione è duplice: da un lato esalta la forza di consolazione della parola di Dio,


dall’altro segnala la sua efficacia, in quanto l’agitarsi del diavolo nasce dalla
sua irritazione per quanto accade a causa del diligente studio della Scrittura.
Addirittuta Lutero ringrazia “i miei papisti” perché, mediante le angustie alle
quali l’hanno sottoposto, hanno contribuito a fare di lui un teologo34.
Ripetiamo: se si prescinde dagli accenni polemici, sarebbe più facile indi-
viduare il contesto vitale del discorso di Lutero nella lectio divina monastica
che in una lezione universitaria: apparentemente, si respira più l’aria della
teologia “sapienziale” che quella della teologia “scientifica”, com’è pensa-
ta a partire dalla fine del XII secolo. Qui si prega, si “rumina” il testo, si è
esposti alla tentazione che nasce dallo stretto contatto con la parola di Dio35.
Che tipo di scienza è questa? Si può osservare che Lutero, di fronte a un certo
tipo di accademismo teologico, condivide un genere di critica che si ritrova
nell’Umanesimo, o in ambienti che hanno di mira il rinnovamento della vita
ecclesiale, come quelli della Devotio moderna. Ciò è vero, ma non costitui-
sce l’elemento decisivo. Esso risiede, invece, nella collocazione, da parte di
Lutero, della scienza teologica all’incrocio di una serie di polarità. Alcune di
esse sono poste, per così dire, da Dio stesso: quella fondamentale tra essere
umano peccatore e Dio giustificante e quelle, ad essa strettamente connesse,
tra legge ed evangelo e tra fede e realtà di Dio; altre si collocano su di un piano
parzialmente diverso e hanno a che fare con lo svolgimento pratico (appunto)
del lavoro teologico: è il caso del campo di tensione tra lettura della Bibbia
ed esperienza, o dell’acquisizione della capacità di operare distinzioni, intesa
come caratteristica qualificante del teologo. Tra queste polarità non c’è quella
tra teologia accademica e agire ecclesiale. Lutero da un lato concepisce il pro-
prio ministero dottorale in chiave pastorale, dall’altro ritiene che ogni cristiano
che connosca, e proprio per questo continui a studiare, come fa egli stesso, il
catechismo sia un teologo.

4. Lutero e il dibattito attuale sullo statuto della teologia

Sembra più o meno obbligato, su questo punto, partire da un’osservazio-


ne che di solito è ritenuta ovvia: la situazione odierna, in una società post-
illuministica, pluralista e ampiamente secolarizzata, non è paragonabile a

34 
Cf. Prefazione al primo volume dell’edizione di Wittenberg, 630.
35 
Il Lutero maturo si colloca, su questo punto, sulla stessa lunghezza d’onda degli anni giovanili, cf.
Il noto passo WA 5, 163,28 (Operationes in Psalmos): «Vivendo, immo moriendo et damnando fit theologus,
non intelligendo, legendo aut speculando».
216 Fulvio Ferrario

quella di Lutero. Le conseguenze di questa constatazione generale per quanto


riguarda il rapporto tra teologia ed agire ecclesiale sono probabilmente meno
ovvie, ma una è assolutamente chiara: l’esperienza cristiana è oggi diventata
oggetto di un’indagine metodologicamente esterna ad essa, che la considera
una tra le diverse religioni e la studia, fenomenologicamente, in quanto tale.
Il cristianesimo è cioè oggetto di un’indagine storico-religiosa. Tale tipo
di ricerca è intrinsecamente secolare, applica l’ateismo metodologico che
caratterizza ogni scienza, e considera ogni manifestazione della fede cri-
stiana, nonché la storia del fenomeno, un oggetto di studio, rispetto al quale
lo studioso si pone da un punto di vista esterno. La problematica relativa al
circolo ermeneutico, che in ogni caso si costituisce in ogni indagine delle
scienze umane (e forse non solo umane), non può naturalmente essere elusa,
ma è in linea di principio analoga a quella che si pone ogni altro oggetto di
ricerca. È appena il caso di dire che, rispetto a ciò, è del tutto irrilevante che
lo studioso sia personalmente credente o meno.
Il pensiero di Lutero aiuta a chiarire perché la teologia sia una realtà com-
pletamente diversa: molto semplicemente, essa si colloca nel cuore dei campi
di tensione che costituiscono l’esperienza cristiana; li fa oggetto della pro-
pria riflessione, essendone però eminentemente partecipe. Non, dunque, uno
sguardo esterno, ma del tutto interno, tanto da mantenere una dimensione una
dimensione confessante e testimoniale. Naturalmente la teologia si serve am-
piamente di metodi e conoscenze condivise dalle discipline fenomenologico
religiose: dalle tecniche di indagine storico-critica a quelle sociologiche, an-
tropologiche, entnografiche eccetera. Lo fa, però, nell’orizzonte dell’autocom-
prensione della fede della chiesa. Lo specifico teologico nell’applicazione di
questi metodi non consiste, evidentemente, in una sorta di “supplemento” che
aprirebbe orizzonti preclusi all’indagine secolare, bensì nell’orizzonte erme-
neutico, quello determinato dalla fede, entro il quale tali metodi sono applicati.
In base a una simile presentazione della questione, certamente semplifi-
cata, ma non credo arbitraria, le due prospettive potrebbero felicemente con-
vivere. In realtà, diverse ragioni rendono difficili i rapporti tra i due ambiti
disciplinari. Ne menzioniamo alcune.
a) Le discipline secolari che hanno come oggetto le religioni nascono sto-
ricamente in ambito teologico e spesso (non sempre a torto) vivono la propria
costituzione come disciplina autonoma come un processo di emancipazione
dalla tutela ecclesiastico-teologica. b) In paesi come l’Italia, nei quali si è pro-
dotta un’emarginazione piuttosto drastica della teologia dal dibattito culturale,
manca, nel mondo accademico, persino l’informazione di base sulla natura del
lavoro teologico. c) Ma in altre situazioni, come quella tedesca, la convivenza
dei due approcci può produrre situazioni concorrenziali, nelle quali la scienza
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 217

secolare della religione tende a negare lo statuto critico alla teologia, sostan-
zialmente sulla base di ragioni analoghe a quelle addotte a suo tempo da Kant36.
Le situazioni di cui rispettivamente ai punti b) e c) producono pericoli op-
posti. La separazione drastica tra università secolare e facoltà teologica rischia
di determinare un’estraniazione poco feconda anche per la teologia. Ma la
convivenza, alla tedesca, di saperi secolari e teologia nello spazio universitario
della postmodernità scristianizzata, pone la teologia sotto quello che è stato
chiamato Rechtfertigungsdruck, cioè l’esigenza di giustificare la propria esi-
stenza, di fronte a un attecco su vari fronti: epistemologico (l’argomentazione
“kantiana” alla quale abbiamo accennato), quello politico (la società pluralista
rende difficile giustificare una particolare posizione delle chiese cristiane), ma
anche quello finanziario (la secolarizzazione favorisce la contrazione delle
chiese e la diminuzione dei ministri di culto, la formazione dei quali costituisce
il compito originario della facoltà teologica: ne consegue il calo del numero
degli studenti). In un simile quadro, il pericolo maggiore37 è che la teologia si
difenda tentando di assimilarsi alle scienze profane che studiano il fatto cri-
stiano: che cioè attui una autosecolarizzazione in qualche modo corrispondente
a quella che, su piani diversi, si registra a volte nelle chiese. Si tratta di una
tentazione spirituale, che reca con sé una confusione metodologica. La tenta-
zione è, molto semplicemente, l’incredulità, che in questo caso si manifesta
come parziale o totale incapacità di individuare l’importanza e la pertinenza
di un’indagine critica della fede cristiana condotta dal suo interno, che cioè si
costituisca, come accade in Lutero, come discepolato nella forma del pensiero.
La confusione comunemente associata a ciò consiste nel ritenere l’autoseco-
larizzazione della teologia un’esigenza dell’indagine critica. Chi ragiona in
tal modo accetta, a volte persino senza rendersene conto, un’idea di ragione
critica di carattere positivista, sacrificandole lo spessore teologico del pensiero.
Naturalmente esiste anche il pericolo speculare: che cioè il pensiero cre-
dente reagisca alla critica secolarista barricandosi in un ghetto religioso e ri-
nunciando alla riflessione critica, o addirittura condannandola come intrinseca-
mente corruttrice. La forma più comune di manifestazione di questa tendenza
è un cristianesimo antiteologico che, utilizzando la retorica della semplicità e
della concretezza, ritiene di potersi esimere dallo sforzo razionale di una fede
impegnata a pensare e dai rischi che, indubbiamente, esso implica.
Che non basti leggere Lutero per evitare simili alternative mortifere, è
ovvio. Tale lettura, però, aiuta. Le pagine del riformatore, infatti, immergono

36 
Cf. I. Kant, Il conflitto delle Facoltà, ed. it. a cura di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia, 1994.
37 
Che a mio giudizio riguarda il pensiero protestante assai più di quello cattolico e ortodosso: ma non
è possibile, in questa sede, approfondire le ragioni di questa differenza.
218 Fulvio Ferrario

in una passione di fede che accende il pensiero, e in un pensiero tumultuoso


che inquieta la fede fin nelle profondità e, in tal modo, la aiuta a maturare.
Soprattutto, però, la scuola di Lutero aiuta il credere che pensa e il pensare che
crede a mantenere la retta umiltà: che non è quella della pigrizia mentale o della
demagogia che si spaccia per pastorale, bensì l’atteggiamento del cuore che,
proprio perché accetta le sfide spirituali e quelle intellettuali, mantiene acuto il
senso del limite: se credi di essere un vero «teologo e pensi di averlo raggiunto
[un tale traguardo] e ti lusinghi con i tuoi propri librettini, di insegnare o scri-
vere, come se l’avessi fatto molto squisitamente e avessi predicato in modo
eccellente, e ti piace molto anche che ti lodino più degli altri, perfino vorresti
essere lodato, altrimenti saresti triste o smetteresti: se sei a questo punto, mio
caro, allora prendi da solo le tue orecchie e afferrale bene e troverai un bel
paio di orecchie d’asino, grandi, lunghe e pelose. Paga ampiamente il prezzo
e adornale con sonagli d’oro affinché, là dove vai, la gente possa sentirti, indi-
carti a dito e dire: Guarda, guarda quel bell’animale, che è capace di scrivere
libri preziosi e predicare in modo eccellente»38.

Fulvio Ferrario
fulvio.ferrario@facoltavaldese.org
Facoltà Valdese di Teologia
via P. Cossa, 42
00193 Roma

38 
Prefazione al primo volume dell’edizione di Wittenberg, 630.
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