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LA PROSPETTIVA DI LUTERO
Fulvio Ferrario*
«La vera teologia è pratica e il suo fondamento è Cristo, della cui morte ci appro-
priamo mediante la fede. Tuttavia, al giorno d’oggi tutti coloro che non sentono
come noi e non condividono la nostra dottrina, fanno teologia speculativa perché
non riescono a liberarsi dal concetto: chi fa il bene ecc. [sarà ricompensato]. Ma
non così che è scritto, bensì: “Colui che teme il Signore, alla fine riuscirà” [Sir.
1,13]. Pertanto la teologia speculativa appartiene al diavolo, all’inferno»1.
Non possiamo sapere con certezza assoluta se queste parole siano ipsis-
sima vox Lutheri, ma certo corrispondono bene al talento del riformatore per
la formulazione densa e sapida. In poche righe, abbiamo alcune coordinate
importanti della visione luterana dell’impresa teologica e del suo rapporto con
l’esistenza credente. Troviamo anzitutto una ruvida contrapposizione tra la
“vera teologia”, definita “pratica”, e una teologia “speculativa”, implicitamen-
te ma inequivocabilmente presentata come falsa; quest’ultima ha a che vedere,
a quanto pare, con una malriposta fiducia nella portata salvifica dell’umano
agire. In tal modo, Lutero prende con decisione le distanze dalla tradizione
scolastica: anche quest’ultima si poneva la domanda, ma rispondeva in modo
diverso, di solito mediante un et-et: la teologia è sia teoretica e speculativa,
sia pratica2. Il fondamento della teologia è Cristo, «della cui morte ci appro-
priamo mediante la fede»: il fondamento cristologico, cioè, è immediatamente
orientato nel senso di una teologia della croce, la quale, a sua volta, è declinata
in prospettiva soteriologica3 e agisce mediante la fede, caratterizzata come
*
Docente Ordinario di Teologia Dogmatica e disciplini affini, Facoltà Valdese di Teologia di Roma.
1
WATR, n. 153 (dicembre 1531 o gennaio 1532).
2
Cf. ad es. STh I,1,4: Tommaso, però, conclude che la teologia sia più speculativa che pratica. Cf.,
su questo tema, G. Ebeling, Lehre und Leben in Luthers Theologie, hrsg. von der Reinisch-Westphälische
Akademie der Wissenschaften, Westdeutscher Verlag, Opladen 1984, 21-30.
3
Non si può non pensare alla celebre espressione del discepolo Melantone: «Hoc est Christus cogno-
scere, beneficia eius cognoscere».
206 Fulvio Ferrario
1. Il theologus crucis
4
Per panoramiche generali sulla comprensione del pensare teologico da parte del Riformatore, cf. O.
Bayer, Theologie, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh, 1994, 35-126; D. Korsch, Theologische Prinzipien-
fragen, in A. Beutel (Hrsg.), Luther Handbuch, Mohr Siebeck, Tübingen 2005, 353-62; H.-M. Barth, Die
Theologie Martin Luthers. Eine kritische Würdigung, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2009, 105-136
(per la verità, queste pagine riguardano soltanto il rapporto tra teologia e filosofia; quello della concezione
generale della disciplina è piuttosto trasversale nei vari capitoli; ma, in misura diversa, ciò vale, ovviamente,
per tutti I lavori indicati); Ch. Axt-Piscalar, Was ist Theologie?, Mohr Siebeck, Tübingen 2013, 79-94.
5
Cf. J. Vercruysse, Gesetz und Liebe. Die Struktur der “Heidelberger Disputation” Luthers, in
Lutherjahrbuch 48 (1971) 7-43; molti contenuti di questo studio di grande rilievo sono ripresi in altri lavori
dello stesso autore: Luther’s Theology of the Cross at the Time of the Heidelberg Disputation, in Gregorianum
57 (1976) 523-548; Rilevanza per l’ecumenismo della “teologia della croce”, in La Civiltà Cattolica 140
(1989), IV, 16-29; per una valutazione storiograficamente aggiornata del dibattito sulla teologia della croce
in Lutero, cf. L. Vogel, La teologia della croce. Lettura teologica di un mondo sperimentato come secolare,
in Teologia 42 (2017) 396-422; per una ripresa in prospettiva dogmatica, F. Ferrario, Dio era in Cristo,
Claudiana, Torino 2016, 77-96; 173-200.
6
Tesi 19-21, M. Lutero, La disputa di Heidelberg, in Id., Scritti religiosi, a cura di V. Vinay, UTET,
Torino, 1967, 183.
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 207
7
Tesi 22-24, ibid.
8
Il che, però, non è in alcun modo una novità, cf. STh I,1,3: la teologia è una scienza “subalternata”
alla «conoscenza di Dio e dei beati», cioè alla rivelazione.
9
Il pensiero di Lutero su questo punto non ha alcun bisogno di precisazioni. Nel panorama contempo-
raneo, tuttavia, non scarseggiano i fraintendimenti di tale carattere frammentario e parziale, che lo scambiano
con l’ammissibilità, o addirittura la necessità, di un pensiero teologico poco rigoroso e banalmente associativo.
In realtà, ogni sconto sul rigore razionale dell’impresa teologica è radicalmente escluso: di nuovo, la questione
è l’orientamento di tale rigore, il tipo di uso che se ne fa.
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10
Cf. D. Korsch, Theologische Prinzipienlehre, 335 s.
11
Ora in G. Ebeling, Cognitio dei et hominis, Lutherstudien I, Mohr Siebeck, Tübingen, 1971, 221-272,
in part. 255-272. Lo studio sviluppa un’articolato confronto tra l’uso dell’espressione cognitio dei et hominis
da parte di Lutero e quella di Zwingli e di Calvino, aspetto che va al di là degli obiettivi del mio intervento.
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 209
12
WA 40 II, 327,11-328,2: «Cognitio dei et hominis est sapientia divina et proprie theologica. Et
ita cognitiodei et hominis, ut referatur tandem ad deus iustificantem et hominem peccatorem, ut proprie sit
subiectum Theologiae homo reus et perditus et deus iustificans vel salvator».
13
Cf. G. Ebeling, Cognitio dei et hominis, 271. Ciò sia detto con buona pace anche di Karl Barth,
sempre piuttosto sospettoso nei confronti della polarità relazionale che costituisce la struttura fondamentale
della teologia di Lutero e che il teologo, nella quale il teologo svizzero riconosce l’impianto, che egli ritiene di
dover rifiutare, della teologia bultmanniana. In realtà, la categoria di “rivelazione”, così centrale nel pensiero
di Barth, in tutte le sue fasi, è strutturalmente relazionale, almeno se non degenera in ciò che è stato chiamato
Offenbarungspositivismus.
14
Cf. G. Ebeling, Cognitio dei et hominis, 265: la teologia, tematizzando l’essere umano peccatore, non
si occupa «degli elementi parziali che inclusi, come entro una parentesi, nella vita, bensì del segno decisivo
che sta davanti a tale parentesi» e che, dunque, determina ogni aspetto.
210 Fulvio Ferrario
residui tra cristologia e soteriologia, bisogna almento dire che la parola della
giustificazione, che è soteriologia allo stato puro, costituisce l’evento originario
e strutturante di ogni pensiero cristologico. Nella sua radice, nella sua natura e
nella sua struttura, se non sempre nel linguaggio e nei generi letterari, la teologia
accademica è, secondo Lutero, intrinsecamente pastorale. Vorrei approfondire
tre aspetti di questa comprensione luterana del pensare teologico (o: della fede
pensata teologicamente), sulla scorta rispettivamente di due passi famosi, tratti
dai Catechismi del 1529, e di un elemento strutturale dei medesimi testi.
2.1. Iniziamo dal rapporto tra tra teologia e soteriologia, leggendo la
spiegazione del secondo articolo dell’Apostolico nel Piccolo Catechismo: il
paragrafo è intitolato, non a caso: La redenzione15. La “cristologia” in senso
stretto è concentrata nell’affermazione della vera divinità e della vera uma-
nità di Gesù, con riferimento alla nascita dal Padre, per un verso e da Maria,
dall’altro. La confessione di Cristo come Signore è già declinata sul versante
soteriologico. In uno scritto successivo, Tre simboli o confessioni della fede in
Cristo (1938), Lutero denuncia l’attacco di Satana contro questo articolo, che
verrebbe condotto da tre Heer – Spitzen, gruppi d’assalto: «uno non vuole che
Cristo sia Dio; il secondo non vuole che sia uomo; il terzo non vuole che egli
abbia fatto ciò che ha fatto [per noi]»16: qui però tutta l’attenzione è per il terzo
“commando”. Il momento soteriologico è poi agganciato a quello escatologi-
co, in prospettiva etica: la salvezza ottenuta, e che si compie nel regno, opera
l’appartenenza a Cristo e dunque la lieta obbedienza della fede. Davvero, non
solo per Melantone, ma anche per Lutero conoscere Cristo significa conoscere
i suoi benefici: cristologia, dunque, è predicazione del Dio che in Gesù Cristo
si manifesta come giustificante. In questo modello, non è pensabile alcuno
schema “in due tempi”: né quello, interno all’argomentazione teologica, tra
cristologia e soteriologia, né quello tra riflessione dogmatica e annuncio ec-
clesiale17. Non sarebbe difficile mostrare una struttura analoga nelle esegesi
luterane degli altri due articoli del Credo18.
15
M. Lutero, Piccolo Catechismo – Grande Catechismo, a cura di F. Ferrario, Claudiana, Torino
1998, 72: «Credo che Gesù Cristo, vero Dio nato dal Padre, è anche vero uomo nato dalla vergine Maria, è
il mio SIGNORE, che ha redento ne, perduto e dannato, mi ha acquistato, riscattato da tutti I peccati, dalla
morte e dal potere del diavolo: non con oro e argento, ma con il suo santo, prezioso sangue e con la sua
sofferenza e morte innocenti, affinché io gli appartenga e viva, a lui sottopoto, nel suo Regno, lo serva in
eterna giustizia, innocenza e beatitudine, come egli estesso è risorto da morte, vive e regna in eterno. Questo
è certamente vero».
16
WA 50,269,1.
17
La tradizione protestante ha rettamente individuato questo aspetto quando a deciso di elevare dei
catechismi (quelli del 1929 per la tradizione luterana; soprattutto quello di Heidelberg, per quella riformata)
al rango di testi simbolici.
18
Ho cercato di farlo, in estrema sintesi, ne Il futuro della Riforma, Claudiana, Torino 2016, 121-125.
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 211
2.2. Dedichiamo ora uno sguardo al tema del rapporto tra l’elemento an-
tropologico e la conoscenza di Dio, sulla base della celeberrima risposta del
Grande Catechismo alla domanda: «Che significa “avere un Dio” o “che cosa
è Dio”?»19.
In primo luogo è utile rilevare l’equivalenza, formulata dal riformatore,
tra le espressioni “avere un Dio” e “che cosa è Dio”20: si sarebbe tentati di
attribuire alla seconda una flessione più oggettivante, ma nella comprensione
di Lutero così non è. Il riformatore argomenta all’interno di una relazione, le
caratteristiche della quale, e in particolare il fatto che la realtà di Dio sia posta
in diretto rapporto con la fede dell’essere umano, si prestano, in particolare in
un quadro concettuale dominato dal pensiero oggettivante, ad essere equivo-
cate. Bisogna dire che Lutero non ha fatto molto per prevenire tali equivoci.
Egli invita l’essere umano, ad esempio, ad essere “facitore di Dio” (“Gott –
Macher”)21 e parla di una fede “creatrix divinitatis”22. Si tratta di formulazioni
estremamente audaci anche nel XVI secolo23, che poi nella modernità sono sta-
te interpretate come involontaria ammissione del carattere autoreferenziale (e
dunque falso) della fede cristiana. Secondo Ebeling, la corretta chiave di lettura
delle parole di Lutero parte dall’antropologia: il “cuore” umano va visto come
non autosufficiente e dunque costitutivamente rinviato alla relazione, la quale
a sua volta assume la struttura, implicita o esplicita, dell’affidarsi; da questo
19
Piccolo Catechismo – Grande Catechismo, 123: «“Dio” significa: ciò da cui il tuo cuore si deve
attendere ogni bene e presso il quale si deve cercare rifugio in ogni avversità. Dunque “avere un Dio” non
significa altro che confidare e credere in lui di cuore, come ho già spesso affermato, poiché fiducia e fede del
cuore rendono tali sia Dio, sia l’idolo. Se la fede e la fiducia sono ben riposte, allora anche il tuo Dio è quello
vero; e, viceversa, dove la fiducia è sbagliata e mal riposta, lì non è il vero Dio. Infatti le due cose, fede e Dio,
vanno insieme. Ciò da cui – dico – il tuo cuore dipende e a cui si affida, quello è, propriamente, il tuo Dio».
20
Naturalmente l’espressione «avere un Dio» è data dal testo del comandamento. G. Ebeling, «Was
heißt ein Gott haben oder was its Gott?». Bemerkungen zu Luthers Auslegung des ersten Gebots im Großen
Katechismus, ora in Wort und Glaube II, Mohr Siebeck, Tübingen 1969, 287-304, qui 292s., tuttavia, spiega
bene perché non ci si possa fermare a tale constatazione: «Anziché ridurre il discorso sull’essere di Dio
all’espressione “avere Dio”, egli [Lutero] apre l’espressione “avere Dio” alla domanda sull’essere di Dio.
Ovviamente non nel senso che il giudizio di esistenza sia legato a un rapporto con Dio dato per presupposto
[cioè: che dal rapporto di fede si passi al giudizio di esistenza]. Piuttosto, la formulazione “Che cosa significa
avere un Dio” va alla radice della questione sull’essere di Dio, in quanto invita a riflettere sul senso e sul
modo nel quale in generale sia possibile parlare di Dio».
21
Esortazione relativa al sacramento del corpo e del sangue di nostro Signore (1530), WA 30 II, 602,
39. È pur vero che, nelle righe seguenti, precisa: «non che tu debba fabbricare la sua natura divina, perché
essa è e rimane eternamente increata. Ma tu puoi fare in modo che egli sia Dio per te» (603,1-3).
22
Grande commentario a Galati, WA 40 I, 360,5. Precisazione: «non nella persona [di Dio], bensì
in noi».
23
«Se dunque io credo in un Dio, ho un Dio, ossia la fede in Dio è il Dio nell’uomo. Se Dio è ciò che io
credo e come io lo credo, la natura di Dio non si identifica con la natura della fede? […] Che Dio sia un essere
altro da te, è una pura apparenza, una supposizione gratuita»: L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, tr.
it. Feltrinelli, Milano 1971, 141.
212 Fulvio Ferrario
24
«Was heißt ein Gott haben oder was its Gott?», in part. 295-303.
25
«Was heißt ein Gott haben oder was its Gott?», 295.
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 213
gliere l’offerta di grazia di Dio, che la professione di fede riassume nei suoi ter-
mini dottrinali: si tratta del cosiddetto uso “teologico” o “elenchico” della leg-
ge (il secondo, nell’enumerazione classica della teologia evangelica)26, al quale
è assegnato il compito di caratterizzare la condizione umana nella sua realtà di
“distretta”, di strutturale, ma non per questo meno colpevole, inadeguatezza di
fronte all’esigenza di Dio. Dal punto di vista di Lutero, la corretta distinzione
tra legge ed evangelo costituisce ciò che propriamente rende tale il teologo27,
in quanto da essa dipende l’annuncio della giustificazione. I Catechismi evi-
denziano assai bene che cosa ciò significhi per la vita cristiana. L’esposizione
del Decalogo occupa, da sola, circa la metà del Grande Catechismo: essa ri-
prende le serie di predicazioni luterane sui comandamenti, con il loro intento
parenetico. Se l’uso teologico della legge presiede alla successione delle prime
due parti dei Catechismi, il contenuto dell’esegesi dei comandamenti mostra
che Lutero attribuisce un’enorme importanza alla dimensione etica e alla sua
mediazione pastorale. Il motivo conduttore dei Catechismi, del resto, risiede
precisamente nello sforzo di collegare una radicale teologia della grazia al tema
della disciplina della vita cristiana. Il rischio della “grazia a buon mercato” non
è stato scoperto per la prima volta da Bonhoeffer, semmai dall’apostolo Paolo
(Rom. 6,1.15). Ogni volta che l’evangelo della grazia risuona con potenza, esso
è esposto al pericolo di quel tipo di pervertimento che, all’epoca della Riforma,
è chiamato “antinomistico”. Lutero ne è consapevole, e reagisce.
La trattazione più articolata che Lutero dedica allo studio della teologia
in quanto tale è costituita dalla Prefazione all’edizione delle sue opere tede-
sche, il cui primo volume esce nel 153928. Il riformatore manifesta la propria
perplessità rispetto al proliferare di libri teologici, che minacciano di sottrarre
tempo ed energie allo studio della Scrittura. Egli dichiara perà di accettare
26
Ricordiamo che il primo uso della legge è quello politico: la legge pone argini al carattere belluino
della convivenza tra gli umani; il secondo è, appunto, quello teologico; il terzo è quello pedagogico, cioè
l’indicazione concreta di comportamenti che dovrebbero caratterizzare la nuova vita del credenti. Si discute
sulla presenza o meno del terzo uso in Lutero: esso sarebbe caratteristico prima di Melantone, poi della
traduzione riformata. In ogni caso, il contenuto del terzo uso, cioè la parenesi, è abbondantemente presente
nell’opera luterana.
27
«Chi sa ben distinguere evangelo e legge, ne ringrazi Dio e sappia che è un teologo» (Grande Com-
mentario a Galati, WA 40 1, 207,17s). Più in generale, Lutero può affermare che l’arte della distinzione in
quanto tale «fa il teologo»: cf. G. Ebeling, Lehre und Leben, 32.
28
Cf. WA 40, 657-661; tr. it. in J. Vercruysse, Martin Lutero. Prefazione al primo volume dell’edizione
di Wittenberg 1539. Un modo giusto per studiare teologia, in Studi ecumenici 17 (1999) 623-631.
214 Fulvio Ferrario
suo malgrado che le sue opere vengano ristampate, anche perché ritiene che,
superata la curiosità dei primi tempi, essi cadranno poi nel dimenticatoio, a
vantaggio della lettura biblica. L’autore afferma di volersi richiamare all’esem-
pio di Agostino che, appunto, nella sua opera, piuttosto che discutere gli altri
interpreti, si concentra sul testo biblico. Dopo questo preambolo, Lutero passa
all’esposizione del metodo di studio che egli ritiene di rinvenire nel Salmo 119
e che sarebbe comune, oltre che a Davide, ai patriarchi e ai profeti. Si tratta di
quello che oggi chiameremmo “esegesi teologica”, articolata nei tre momenti
dell’oratio, della meditatio e della tentatio.
Lo studio inizia con la preghiera personale e riservata (cf. Mt. 6,6): come
Davide (S. 119,26 s. 33 s.), anche il teologo deve chiedere l’illuminazione di
Dio, per non esporsi al pericolo di addomesticare la parola di Dio, comprimen-
dola all’interno dei prorpi schemi concettuali. La meditatio non è un atteggia-
mento soltanto interiore, ma consiste in un’accentuata attenzione alla parola
esteriore, in un “treiben und reiben”29, leggendo e rileggendo, senza pigrizia
e senza credere presuntuosamente di avere assimilato a sufficienza la lettera
biblica. Il teologo che non “medita” a sufficienza in questo senso (potremmo
semplicemente dire: che non è diligente), non coglierà il frutto maturo del
proprio lavoro. Quest’ultimo cresce nella consuetudine, nella convivenza con
la pagina biblica. Lutero si richiama qui all’andamento del salmo 119, dove
la meditazione della parola di Dio viene celebrata sempre di nuovo, in forma
insistita, ma non esattamente ripetitiva, perché attenta a evidenziare la continua
novità che scaturisce dal testo. «Dio non vuole donare il suo Spirito senza la
parola esterna»30: è la posizione sempre sostenuta da Lutero contro coloro che
egli chiama Schwärmer, cioè fanatici o entusiasti. La dimensione esteriore del-
la parola di Dio è decisiva e per questo «Dio non ha ordinato invano di scrivere,
predicare, insegnare, ascoltare, cantare e dire ecc. esternamente»31. Infine la
tentatio, “Anfechtung”. Si tratta, com’è noto, di una categoria centrale dell’e-
sperienza spirituale e del pensiero di Lutero32, tuttavia stupisce un poco, a tutta
prima, vederla citare in conclusione, quasi si trattasse del vertice del lavoro
teologico. Il fatto è che la tentazione non rientra nella patologia dell’esistenza
teologica, bensì ne costituisce una dimensione normale e tipica33. La sua fun-
29
WA 40 1, 659,23s. Vercruysse, 629, traduce con «trattare e macinare»: si tratta della ruminatio
monastica.
30
Prefazione al primo volume dell’edizione di Wittenberg, 629.
31
Ibidem.
32
Cf., per alcune coordinate bibliografiche, D.P. Scaer, The Concept of Anfechtung in Luthers Thought,
in Concordia Theological Quarterly 47 (1983) 15-30.
33
Cf. K. Barth, Introduzione alla teologia evangelica, tr. it. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990,
173-182. Il titolo del capitolo, tradotto con Prova è appunto, in tedesco, Anfechtung.
Teologia e pratica pastorale. La prospettiva di Lutero 215
34
Cf. Prefazione al primo volume dell’edizione di Wittenberg, 630.
35
Il Lutero maturo si colloca, su questo punto, sulla stessa lunghezza d’onda degli anni giovanili, cf.
Il noto passo WA 5, 163,28 (Operationes in Psalmos): «Vivendo, immo moriendo et damnando fit theologus,
non intelligendo, legendo aut speculando».
216 Fulvio Ferrario
secolare della religione tende a negare lo statuto critico alla teologia, sostan-
zialmente sulla base di ragioni analoghe a quelle addotte a suo tempo da Kant36.
Le situazioni di cui rispettivamente ai punti b) e c) producono pericoli op-
posti. La separazione drastica tra università secolare e facoltà teologica rischia
di determinare un’estraniazione poco feconda anche per la teologia. Ma la
convivenza, alla tedesca, di saperi secolari e teologia nello spazio universitario
della postmodernità scristianizzata, pone la teologia sotto quello che è stato
chiamato Rechtfertigungsdruck, cioè l’esigenza di giustificare la propria esi-
stenza, di fronte a un attecco su vari fronti: epistemologico (l’argomentazione
“kantiana” alla quale abbiamo accennato), quello politico (la società pluralista
rende difficile giustificare una particolare posizione delle chiese cristiane), ma
anche quello finanziario (la secolarizzazione favorisce la contrazione delle
chiese e la diminuzione dei ministri di culto, la formazione dei quali costituisce
il compito originario della facoltà teologica: ne consegue il calo del numero
degli studenti). In un simile quadro, il pericolo maggiore37 è che la teologia si
difenda tentando di assimilarsi alle scienze profane che studiano il fatto cri-
stiano: che cioè attui una autosecolarizzazione in qualche modo corrispondente
a quella che, su piani diversi, si registra a volte nelle chiese. Si tratta di una
tentazione spirituale, che reca con sé una confusione metodologica. La tenta-
zione è, molto semplicemente, l’incredulità, che in questo caso si manifesta
come parziale o totale incapacità di individuare l’importanza e la pertinenza
di un’indagine critica della fede cristiana condotta dal suo interno, che cioè si
costituisca, come accade in Lutero, come discepolato nella forma del pensiero.
La confusione comunemente associata a ciò consiste nel ritenere l’autoseco-
larizzazione della teologia un’esigenza dell’indagine critica. Chi ragiona in
tal modo accetta, a volte persino senza rendersene conto, un’idea di ragione
critica di carattere positivista, sacrificandole lo spessore teologico del pensiero.
Naturalmente esiste anche il pericolo speculare: che cioè il pensiero cre-
dente reagisca alla critica secolarista barricandosi in un ghetto religioso e ri-
nunciando alla riflessione critica, o addirittura condannandola come intrinseca-
mente corruttrice. La forma più comune di manifestazione di questa tendenza
è un cristianesimo antiteologico che, utilizzando la retorica della semplicità e
della concretezza, ritiene di potersi esimere dallo sforzo razionale di una fede
impegnata a pensare e dai rischi che, indubbiamente, esso implica.
Che non basti leggere Lutero per evitare simili alternative mortifere, è
ovvio. Tale lettura, però, aiuta. Le pagine del riformatore, infatti, immergono
36
Cf. I. Kant, Il conflitto delle Facoltà, ed. it. a cura di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia, 1994.
37
Che a mio giudizio riguarda il pensiero protestante assai più di quello cattolico e ortodosso: ma non
è possibile, in questa sede, approfondire le ragioni di questa differenza.
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Fulvio Ferrario
fulvio.ferrario@facoltavaldese.org
Facoltà Valdese di Teologia
via P. Cossa, 42
00193 Roma
38
Prefazione al primo volume dell’edizione di Wittenberg, 630.
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