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FRAMMENTI.
OPERE LOGICHE E FILOSOFICHE
Introduzione, traduzione e commento
di Marcello Zanatta
C L A S SIC I GR E C I E L AT I N I
Proprietà letteraria riservata
© 2010 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-64893-3
Note
1. Quella di Diogene Laerzio, risalente al III sec. d.C., è la biogra-
fia di Aristotele più antica che ci è pervenuta. Diogene, però,
«utilizzò una vita di Aristotele scritta verso la fine del III sec.
a.C., o da Aristone di Ceo, che fu scolara nel Peripato in quel
periodo, (...) oppure da Ermippo, che visse nello stesso tempo e
fu bibliotecario di Alessandria. Comunque Diogene Laerzio
utilizzò la cronologia dello Stagirita indicata nelle Cronache di
Apollodoro, da lui espressamente menzionate, uno storico vis-
suto ad Atene nel II sec. a.C.» (Zanatta, Introduzione, cit., p. 4).
2. Il numero 36 è Metaph., D; il 38 può essere una delle Etiche; 49-50 i
primi e gli Analitici Posteriori; 55 un’edizione dei Topici in sette li-
bri; alcuni libri dei Topici sono elencati come opere singole; il 74
può essere Pol. VII-VIII, il 75 la nostra Politica; il 78 Reth. III; 41-
45, 90, 91, 115 possono essere trattati singoli della nostra Fisica; il
102 un’edizione delle Storie degli animali in nove libri; 142-143 le
Categorie e il De Interpretatione.
3. Secondo la maggior parte degli studiosi (in proposito mi permetto
di rinviare a Zanatta, Lineamenti, p. 5), oggigiorno si propende a
individuare tale Tolomeo in un neoplatonico della scuola di Giam-
blico, del IV sec. a.C.
4. Porfirio la cita come Diai@resiv tw^n èAristotelikw^n suggramma@twn,
poiché a lui interessa il principio dell’ordinamento delle opere;
26 INTRODUZIONE
STUDI CRITICI
AVVERTENZA
INTRODUZIONE
Note
1
È da far presente che nella prima parte di questo catalogo così
com’è attualmente (1-25) compaiono dialoghi e altri scritti perduti.
Una interessante ricostruzione del catalogo è stata effettuata da
Baumstark (Syrien), per il quale l’ordine originario del catalogo corri-
sponde esattamente a quello delle divisioni conosciute dai commenta-
tori greci. Littig (Andronikos), dal canto suo, ha ritenuto che gli scritti
non dialogici presenti nella prima parte erano originariamente elenca-
ti in ordine alfabetico. Si trattava sempre di scritti ipomnematici di
dubbia autenticità, ai quali sarebbero stati aggiunti alcuni dialoghi in
seguito a un’interpolazione. Un correttore, ritenendo che alcune ope-
re del catalogo che Tolomeo aveva contestato (gli aèntilego@mena) in
realtà fossero opere autentiche, le avrebbe collocate in blocco dove si
trovano attualmente. Moraux (Listes, p. 300) ha contestato questa ri-
scostruzione, opponendo che soltanto il Peri# problema@twn g èe il
Mhcanikw^n problema@twn b èpossono essere classificati con certezza tra
le opere ipomnematiche. Sulla qualificazione di «ipomnematiche» da-
ta dagli antichi commentatori ad alcuni scritti di Aristotele e su quali
opere dello Stagirita furono così indicate si veda la nota n. 1 degli Ap-
punti.
2
Ossia, non sono materia di discussione (tale mi pare il significa-
to di «dialettici»), bensì di argomentazione e di classificazione (tale
mi sembra il senso, rispettivamente, di «discorsi», lo@goi, e di «divi-
sioni»). Altrimenti detto: i problemi quali quelli qui presi in consi-
derazione sono oggetto di analisi scientifica, scandita in argomenta-
zioni e in classificazioni, e non di discussioni intese a dibattere se
essi debbano o no essere indagati scientificamente e, in caso affer-
mativo, a quale scienza spetti la relativa indagine.
3
Cfr. An. po., II, 1, 89 b 23-24: «gli argomenti che sono oggetto di
ricerca, sono uguali di numero a quanti conosciamo. Cerchiamo quat-
tro cose: il “che”, il “perché”, “se è”, “che cos è”».
4
Giacché concernono, rispettivamente, la causa e l’essenza, e il ri-
cercare le cause e il definire l’essenza non appartengono alla dialetti-
ca, bensì all’eèpisth@mh.
DIVISIONI
INTRODUZIONE
Alex. Aphr., In Arist. Top., p. 242, 1-9: inoltre, ciò che per
sé è alquanto bello e alquanto degno d’onore e alquanto
lodevole. Come <strumento> più comune, ora fa uso dei
nomi, sia per ciò che è alquanto bello, sia per ciò che al-
quanto degno d’onore, sia per ciò che è alquanto lodevole.
Infatti, nella divisione dei beni afferma che, tra i beni, so-
no degni d’onore quelli più originari, come Dio, i genitori,
la felicità; sono invece belli e lodevoli le virtù e le attività
conformi a esse, e le facoltà delle quali è possibile fare un
uso buono e cattivo; sono poi utili quelli che sono atti a
produrre queste stesse cose e a queste sono finalizzati. E
ora sembra portare il bello, il lodevole e ciò che è degno
d’onore anche nei beni come facoltà.7
Note
1
Traggo notizie su questo studioso da Hambruch, Logischen Rege-
ln, p. 4, nonché da Rossitto, Divisioni, p. 30.
2
Alle esegesi di Gigon e di Moraux si riporta Vallejo Campos, il
quale nella sua edizione delle Divisioni si limita a riferire l’opinione di
entrambi gli studiosi, senza peraltro esprimersi in proprio (cfr. Vallejo
Campos, Fragmenta, pp. 339-341).
3
All’esegesi di Rossitto sembra aderire Berti nel suo recentissimo
studio aristotelico, ove riconosce che essa è costruita sulla base di
«buoni argomenti» (Berti, Sumphilosophein, p. 141)
4
Traggo anche queste informazioni da Hambruch, Logischen Re-
geln, p. 4, nonché da Rossitto, Divisioni, p. 30.
5
In proposito si veda anche Gaiser, Principi e Findlay, Plato.
6
«Il fatto [...] che l’illustre editore non abbia riprodotto per esteso
il testo – ha opportunamente scritto Rossitto (Divisioni, p. 35) –, ma si
sia limitato a segnalarne il luogo (come avviene anche per la sua tradu-
zione inglese), non significa che egli intendesse ridurne l’estensione,
perché così facendo egli riprodusse quasi alla lettera le indicazioni
dell’ultima raccolta di Rose, le quali rinviavano al testo completo del
codice Marciano pubblicato nell’Aristoteles pseudoepigraphus»
7
Sul bene e sulle relative divisioni si veda anche la nota seguente.
8
Queste le corrispondenti divisioni:
(*)
Divisione n. 5 Cod. Marc. (pp. 1, 5-2, 9 Mutschmann; pp. 84-85
Rossitto): «I beni si dividono in tre: infatti, alcuni di essi sono nell’ani-
ma, altri nel corpo, altri esterni. Quelli nell’anima sono la saggezza, la
giustizia, il coraggio, la moderazione e gli altri siffatti; quelli nel cor-
po sono la forza, la bellezza, la salute, la buona condizione e gli altri
siffatti; quelli esterni sono gli amici, la ricchezza, la buona reputazio-
ne, la felicità della patria. Pertanto, dei beni alcuni sono nell’anima,
altri nel corpo, altri esterni».
(*)
Divisione n. 36 Cod. Marc. (pp. 30, 13 – 31, 14 Mutschmann;
pp. 156-157 Rossitto), parallela alla divisione n. 23 di Diogene La-
erzio (III, 101-102; pp. 156-157 Rossitto):
DIVISIONI 55
(*)
Divisione n. 47 Cod. Marc. (pp. 57, 22 – 58, 12 Mutschmann;
pp. 180-181 Rossitto): «I beni propri e i beni in comune si dividono
in cinque. Di essi, infatti, alcuni sono propri di Dio, altri sono propri
dell’uomo, altri poi sono comuni a Dio e agli uomini, altri sono co-
muni agli uomini e agli altri viventi tranne Dio, altri sono comuni a
tutti i viventi. Ora, sono propri di Dio l’essere eterno e le cose sif-
fatte, sono propri dell’uomo l’essere moderato e giusto e le cose
siffatte, sono comuni a Dio e agli uomini l’essere dabbene, giacché
essere dabbene appartiene sia a Dio che all’uomo. <Bene> proprio
dell’uomo è la fortezza, la quale è atta ad allontanare qualche male,
invece sta bene dire che a Dio né succede né appartiene un male; e
<sono un bene proprio> le altre cose siffatte. È <un bene> comune
agli uomini e agli altri viventi tranne Dio il coraggio, giacché esso è
atto a resistere a qualche pericolo e paura. E lo sono tutte le cose
siffatte. <Bene> comune a tutte le cose, poi, è il bello».
(*)
Divisione n. 56 Cod. Marc. (pp. 60, 8 – 61, 14 Mutschmann;
pp. 198-201 Rossitto): «Somiglianza dei beni, quelli che concerno-
no l’anima, quelli che concernono il corpo e quelli esterni, è que-
sta: ora, ai termini primi sono simili le cose prime, ai secondi le
cose seconde, ai terzi le cose terze, ai quarti le cose quarte. E alcu-
ni <beni> sono nell’anima, altri nel corpo, altri esterni. Infatti, la
56 OPERE LOGICHE
(*)
Divisione n. 55 Cod. Marc. (p. 31, 16 – 32, 9 Mutschmann; pp.
196-197 Rossitto), parallela alla divisione n. 24 di Diogene Laerzio
(III, 102; pp. 196-197 Rossitto):
DIVISIONI 59
(*)
Divisione n. 27 Cod. Marc. (p. 48 2 –18 Mutschmann; pp. 136-
139 Rossitto): «Divisione delle cose migliori e delle cose peggiori,
delle cose più belle e più turpi, di cose più bianche e di cose più
nere. Ciascuna di queste si dice in tre modi: ché, <si dice> o del
contrario o dello stesso mezzo: per esempio, come una cosa mi-
gliore di una contraria è detto essere il bene del male, al modo in
cui la saggezza lo è della scellerataggine e della dissennatezza; co-
me cosa migliore del mezzo è detto essere il bene, per esempio, di
ciò che non è né buono né cattivo; come cosa migliore di se stessa
si dice, poi, un bene di un bene, se uno dei due sia <bene> in misu-
ra minore. Similmente anche il bello: infatti è detto essere sia più
bello di ciò che è turpe, sia più bello di ciò che non è né turpe né
bello, ed è detto essere più bello anche di ciò che è bello e di una
cosa minormente bella. In modo simile è detto anche “più bian-
co”: infatti il bianco è detto essere più bianco sia del nero, sia di
ciò che non è né nero né bianco, la qual cosa è un mezzo. Anche
delle altre cose che si dicono così, affermate che stanno nel mede-
simo modo. Pertanto, migliore e peggiore, più bello e più turpe,
più bianco e più nero si dicono in tre modi».
(*)
Divisione n. 23 Cod. Marc. (pp. 34, 9 – 35, 2 Mutschmann; pp.
128-129 Rossitto), parallela alla divisione n. 27 di Diogene Laerzio
(III, 104-105; pp. 128-129 Rossitto):
60 OPERE LOGICHE
(*)
Divisione n. 68 Cod. Marc. (pp. 65, 20 – 66, 13 Mutschmann; pp.
235-237 Rossitto): «I contrari si dividono in questo modo. Di alcuni
degli enti vi è qualcosa di contrario, di altri no. Infatti, all’oro, all’uo-
mo, al mantello e alle cose siffatte niente è contrario, mentre alla vir-
tù, al bene al caldo qualcosa è contrario. Ché, al bene è contrario il
male, alla virtù il vizio, al caldo il freddo. Ora, degli stessi contrari al-
cuni hanno qualcosa a mezzo, altri no. Infatti, fra bene e male vi è
qualcosa di mediano, mentre tra movimento e quiete non vi è niente
a mezzo. Ché, di necessità tutte le cose o sono in movimento o sono in
quiete. Anche tra la vita e la morte niente è a mezzo. Ché, di necessità
ciò che è atto ad accogliere la vita o vive o è morto. E i contrari stessi
si dicono in tre sensi: infatti, o come a un bene è contrario un male:
per esempio, alla giustizia l’ingiustizia, alla moderazione l’incontinen-
za e le cose siffatte; o come nessuna delle due cose è contraria a nes-
suna delle due cose: per esempio, [†], ché, nessuno di questi è né male
né bene; e come un male è contrario a un male: l’eccesso al difetto e
le cose dette per eccesso e difetto, come il raffreddarsi eccessivamen-
te al riscaldarsi eccessivamente. Queste cose, infatti, si dicono per ec-
cesso. Anche ciò che difetta di calore <è contrario> a ciò che difetta
di freddo. Infatti, anche queste cose sono contrarie per difetto».
(*)
Divisione n. 48 Cod. Marc. (pp. 23, 19 – 24, 12 Mutschmann;
pp. 182-183 Rossitto), parallela alla divisione n. 18 di Diogene
Laerzio:
DIVISIONI 61
(*)
Divisione n. 29 Cod. Marc. (p. 49, 7-16 Mutschmann; pp. 142-
143 Rossitto): «il divenire si divide in quattro. Una <specie> di
esso è mutare da non ente a sostanza: per esempio, chi non era
figlio, diventarlo e quella che non era una statua, diventarla e tut-
te le cose siffatte. Una <specie> è mutare da un luogo in un luogo
ed essere posto in un altro: per esempio, coloro che navigano, che
camminano e ogni cosa siffatta. Una <specie> è mutamento di
stato e di disposizione: per esempio, da soggetto senza educazio-
ne diventare soggetto educato, da giovane vecchio, da nemico
amico. Una <specie> è mutamento delle cose: per esempio, di-
ventare da ricco povero, da cittadino privato governante, da go-
vernante cittadino privato e altre cose siffatte».
(*)
Divisione n. 65 Cod. Marc. (p. 64, 8-27 Mutschmann; pp. 224-227
Rossitto): «“Anteriore” si dice in cinque sensi: in effetti, sarà detto o
per natura, o per il tempo, o per la potenza, o per la posizione o per
l’ordine. Ora, per posizione <è anteriore>, per esempio, ciò che siamo
soliti dire nel caso di ciottoli giacenti, come “questo è anteriore a que-
sto”. Per ordine, per esempio, il tassiarco <è anteriore> al locado, il lo-
cado al soldato semplice, la “a” alla “b”. Per potenza diciamo che è
anteriore il generale al soldato e, in senso assoluto, il governante al
cittadino privato. Per il tempo <è anteriore>, per esempio, il padre al
figlio e ciò che è più vecchio a ciò che è più giovane. Per natura è ante-
riore, per esempio, la monade alla diade, la parte all’intero, il genere
alla specie e, in senso assoluto, fra tutte quelle cose che non si elimina-
62 OPERE LOGICHE
INTRODUZIONE
FRAGMENTA
TESTIMONIANZE
FRAMMENTI
Note
1
Cfr. Zanatta, Dialoghi, Introduzione, p. 32. La classificazione di
Ammonio è la seguente: dapprima egli divide gli scritti dello Stagirita
in particolari (merika@), intermedi (metaxu@) e di carattere generale (ka-
qo@lou); indi, tra questi ultimi distingue quelli redatti in forma di ap-
punti (uépomnhmatika@) da quelli redatti in forma di trattati (suntagma-
tika@), nei quali comprende i dialoghi, qualificati anche come opere
essoteriche, e gli scritti «in prima persona» (auètopro@swpa), che defini-
sce anche acroamatici.
2
Su che cosa sia l’epicheirema cfr. la nota n. 4. Nel catalogo dioge-
niano delle opere di Aristotele sono indicati tre scritti aventi per tema
gli epicheiremi: gli uŒpomnh@mata eèpiceirhmatika#, in tre libri (Diog. Laer.,
63), gli ˆEpiceirhma@twn, in due libri (Diog. Laer., 65) e le Qe@seiv eèpi-
ceirhmatikai@, in 25 libri (Diog. Laer., 70). Ad avviso di Moraux (Listes,
pp. 94 s.), le tesi per l’argomentazione dialettica che erano raccolte in
quest’ultima opera, dal carattere pressappoco simile a quello degli altri
scritti di genere epicheirematico, presentavano tuttavia quest’aspetto
peculiare: si sarebbero fondate sull’opinione paradossale di un sapien-
te e non su una semplice opinione corrente. Rileva ancora lo studioso
che l’elevato numero di tesi lascia ragionevolmente pensare che la rac-
colta comprendeva una collezione completa delle tesi aristoteliche in
circolazione all’epoca della compilazione del catalogo.
3
Sono, infatti, opinioni notevoli (eòndoxa, ossia opinioni eèn do@xhj, «in
fama») quelle opinioni che «sembrano a tutti o alla massima parte o ai
sapienti e, se a questi, o a tutti o alla stragrande maggioranza o a quel-
li massimamente noti e illustri» (Top., I, 1,100 b 21-23).
4
L’«epicheirema», letteralmente «discorso rivolto contro qualcu-
no», è il sillogismo dialettico in generale, che può sia concludere che
non con la contraddizione, distinto dall’«aporema», ossia dal sillogi-
smo dialettico che conclude espressamente con la contraddizione del-
la tesi avversaria, vale a dire con la contradizione (Soph. El., VIII,11,
162 a 12-18, dove sono altresì indicati altri due tipi di sillogismo: il «fi-
losofema» o sillogismo scientifico e il «sofisma» o sillogismo eristico.
In realtà si tratta di un paralogismo, ossia di un discorso che ha l’appa-
renza di essere un sillogismo, ma di fatto non lo è). Sull’epicheirema si
veda anche Top., II, 4, 111 b 12; 5, 111, b 33; VI, 14, 151 b 23; VIII, 11,
162 a 16 ss.
5
Si tratta del Platonico che, assieme a Nicostrato (menzionato nei
frr. 5 e 6 dello scritto Sui contrari), fa parte degli oppositori di Aristo-
tele e, in particolare, delle dottrine logiche dello Stagirita (in proposito
cfr. Moraux, Aristotelismus, pp. 97 ss.).
6
Letteralmente, «dove» (pou^).
7
Per una discussione su che cosa Aristotele intenda per su@ndesmov
e per aòrqon, e perché si possa propendere per attribuire a questo se-
condo il significato di articolazione piuttosto che di articolo, e al primo
APPUNTI 73
INTRODUZIONE
(b) Amm., In Arist. Cat., p. 13, 20-25: si deve sapere che nelle
antiche biblioteche sono stati trovati quaranta libri degli
Analitici e due delle Categorie. Uno dei due ha quest’inizio:
«delle cose che sono, alcune si dicono omonime, altre sinoni-
me»; invece il secondo, che ora abbiamo <qui> presente, ha
questo tipo di descrizione: «si dicono omonime le cose delle
quali soltanto il nome è comune, ma la definizione dell’essen-
za è diversa».6 Questo viene preferito, nella convinzione che
sia superiore per ordine e trattazione e che dappertutto di-
chiari la paternità di Aristotele.
Note
1
Cfr. anche la testimonianza 1/b. Per la verità, non risulta che in al-
cun passo di altri suoi scritti lo Stagirita abbia menzionato il trattato
delle Categorie. Risulta, invece, che in più e più occasioni egli ha fatto
esplicito riferimento alle categorie, indicandole espressamente nella so-
stanza, nella qualità, nella quantità, nella relazione e via di seguito, ossia
in quelle stesse di cui tratta espressamente nell’omonimo scritto. Sinto-
matici, tra gli altri, i seguenti luoghi: Gen. corr., I, 3, 319 a 11-12 («queste
cose sono state determinate con le categorie. Alcune, infatti, significano
un certo questo, altre un quale, altre un quanto»); Eth. nic., I, 4. 1096 a
28-29 («infatti <il bene> non si direbbe in tutte le categorie»); Magna
Mor., I, 1, 1183 a 10-12 («poiché infatti affermiamo che il bene si dice in
tutte le categorie, ed effettivamente si dice nella sostanza, nella relazio-
ne, nel quando e in generale in tutte quante ecc.); Phys., V, 1, 225 b 6 «se
dunque le categorie si dividono nella sostanza, nella qualità, nel dove,
nel quando, nella relazione, nella quantità, nel fare e nel patire, ecc.»);
Metaph., VI, 1, 1026 a 33 ss. («ma poiché l’ente, enunciato in senso asso-
luto, si dice in molti sensi, uno dei quali, come s’è visto, è l’ente per acci-
dente, un altro l’ente come vero, e il non ente come il falso, e oltre a
questi vi sono le figure delle categorie, ossia il che cosa, il quale, il quan-
to, il dove, il quando, e se qualche altra <determinazione> significa in
questo modo»); Ivi, VII, 9, 1034 b 7 ss. («non soltanto in ordine alla so-
stanza il ragionamento mostra che la forma non si genera, ma il ragiona-
mento nel suo carattere comune riguarda, parimenti, tutte le cose prime,
come la quantità, la qualità e le altre categorie»); Ivi, IX, 10, 1051 a 34 s.
(«poiché l’ente e il non ente si dicono, da un lato secondo le figure delle
categorie, ecc.»); Ivi, XI, 12, 1068 a 3 («se dunque le categorie si dividono
in sostanza, qualità, luogo, agire, patire, relazione, quantità»).
2
Non pare vi possa essere dubbio che qui eènqu@mhma non assume il si-
gnificato tecnico di «entimema», ossia di sillogismo retorico, giacché le
Categorie non sono affatto, com’è noto, un trattato di retorica e in nessu-
na parte di esso si parla di entimemi. Il termine ha invece il senso generi-
co di pensiero, concetto, riflessine e simili (ovvero, ciò che è nel qumo@v).
3
Cfr. in proposito la nota n. 1.
4
Si tratta dei discepoli e, in generale, dei filosofi del Peripato, chia-
mati «compagni» (eétaoroi) perché assieme ad Aristotele percorrevano
la via della ricerca e dello studio.
5
Ossia: ha dato prova delle proprie prerogative autenticamente
aristoteliche. Tale il significato, qui, di «aver dato conto» (euèqu@nav de-
dwke@nai).
6
L’incipit delle Categorie aristoteliche è questo secondo.
7
Per «prologo» (to# prooi@mion) non è qui certo da intendersi un’«in-
troduzione», ché le Categorie non ne hanno affatto, sibbene, in senso
generale, l’incipit del trattato. E di «inizio» (aèrch@), in effetti, parla
espressamente Ps. Ammonio nel prosieguo.
SUI CONTRARI
INTRODUZIONE
Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 250, 17-19: per ciò che ri-
guarda il conoscere che quasi tutti i contrari si riconducono
all’uno e alla moltitudine come al loro principio,7 ci riman-
da alla Scelta dei contrari, sul presupposto d’averne trattato
particolarmente. Di una tale scelta ha parlato anche nel se-
condo libro dell’opera Sul bene8 .
FRAGMENTA
SUI CONTRARI 109
FRAMMENTI
Simpl., In Arist. Cat., p. 402, 26: Simpl., In Arist. Cat., 402, 26:
assurdamente <Nicostrato>,15 costruendo le argomentazio-
ni oppositive a partire dalle privazioni concernenti il costu-
me, sostiene di mutare anche la privazione nel possesso [...]
30: Invece Aristotele non assunse il possesso e la privazione
nelle argomentazioni oppositive che muovono dal caratte-
re, ma in quelle per natura, per le quali l’antitesi secondo il
possesso e la privazione si dice anche in senso principale.
Serviamoci dunque delle stesse tesi di Aristotele contro Ni-
costrato. Infatti, nello scritto Sugli opposti egli sostiene che
alcune privazioni si proferiscono delle cose secondo natura,
altre delle cose che si collocano nell’ambito del costume, al-
tre dei guadagni, altre di altri soggetti: la cecità fa parte del-
le cose per natura, la nudità di quelle che si collocano
nell’ambito del costume, la privazione di denaro di quelle
116 OPERE LOGICHE
SUI CONTRARI 117
Simpl., In Arist. Cat., 490, 15: alle cose dette sui contrari ag-
giunge queste [...] 17: che al bene è totalmente contrario un
male, ma al male talvolta è contrario un bene, talvolta un
male16 [...] 30: nell’opera Sugli opposti a questi modi dei
contrari ha aggiunto anche quello delle cose che non sono
né beni né mali in rapporto alle cose che non sono né beni
né mali, dicendo così che il bianco si oppone come contra-
rio al nero, il dolce all’aspro, l’acuto al pesante, la quiete al
movimento17 [...] 410, 25-30: Nicostrato <gli> muove un
rimprovero, che la distinzione dei contrari è imperfetta. In-
fatti, non ha aggiunto che anche un indifferente si oppone
come contrario a un indifferente.18 Ma in realtà questo nel
libro Sugli opposti lo aggiunge, dicendo che vi è un modo
dell’antitesi che è proprio delle cose che non sono né beni
né mali in rapporto alle cose che non sono né beni né mali,
come s’è detto prima.19 Queste cose non le ha chiamate in-
differenti, come ritengo, perché il nome di indifferente, po-
sto dagli Stoici, come si sa è più recente.
120 OPERE LOGICHE
Note
1
La prova decisiva che lo studioso adduce è che Alessandro non
cita il passo della Scelta dei contrari al quale Aristotele fa riferimento
nel Sul bene, ma si limita a richiamare l’allusione dello Stagirita; non
cita passi della Scelta dei contrari neppure là dove, nel corso del suo
commentario alla Metafisica, illustra le tesi aristoteliche in merito alla
dottrina platonica dei principi (chiaro riferimento, lasciato inesplicato
da Moraux, probabilmente a motivo della sua evidenza, al commento
di Metaph., I, 9). Ma Alessandro conosceva lo scritto Sul bene, e d’altro
canto non avrebbe mancato di citare i passi dell’opera aristotelica che
gli serviva per il commento, come si può facilmente desumere dal suo
usuale modo di procedere. Per cui, se la Scelta dei contrari coincidesse
con lo scritto Sul bene, che il commentatore aveva sotto gli occhi, non
si sarebbe limitato a menzionare il semplice rinvio dello Stagirita, ma
lo avrebbe citato direttamente.
2
Sulla dottrina aristotelica della contrarietà in Metaph., X,4 si ve-
da, tra gli altri, la lucida disamina di Rossitto, Opposizione.
3
Si dice, infatti, che sono contrarie (1) le cose, differenti per genere,
che non possono essere contemporaneamente presenti; (2) le cose più
distanti entro un medesimo genere; (3) le cose che entro un medesimo
soggetto atto ad accoglierle differiscono massimamente; (4) le cose
che cadono sotto la medesima facoltà e che differiscono massimamen-
te; (5) ciò che differisce massimamente (a) o in senso assoluto, (b) o
secondo il genere (c) o secondo la specie; (6) le cose che (a) possiedo-
no i contrari, (b) o sono atte a ricevere i contrari, (c) o sono atte a
produrre o a patire i contrari; (d) o producono o patiscono i contrari;
(e) sono perdite o acquisizioni di contrari; (f) possessi o privazioni di
essi (Metaph., V, 10, 1018 a 20- 38).
4
Cfr. Zanatta, Metafisica, nota n. 140 nel commento del libro deci-
mo, dove ho altresì presentato lo status quaestionis e le soluzioni che
altri studiosi hanno proposto
5
In proposito cfr. la nota n. 15.
6
Come le specie dell’ente sono da individuare nelle categorie, os-
sia nei significati in cui originariamente si divide l’ente in quanto ente,
così le specie dell’uno sono i significati che l’uno stesso assume origi-
nariamente, ossia nelle differenti categorie. E nella sostanza l’uno si-
gnifica l’identico, nella quantità l’uguale, nella qualità il simile (cfr.
Metah., X, 3, 1054 a 30-31). Ebbene, poiché l’uno e l’ente sono «la stes-
sa cosa e una sola natura» (cfr. Metaph, IV, 2, 1003 b 23), alla medesi-
ma, unica scienza che studia l’ente in quanto ente, ossia alla filosofia
prima in quanto ontologia, compete di studiare anche l’uno. E poiché
l’uno si dice in molti significati, a tale, unica scienza, competendo di
studiare che cos’è l’uno, compete eo ipso di studiare che cos’è l’identi-
co, che cos’è l’uguale, che cos’è il simile e così via. Non soltanto, ma vi
compete di studiare anche che cos’è ciascuno dei contrari di queste
SUI CONTRARI 121
SUI PROBLEMI
DIVISIONI
my, Berkeley and Los Angeles 1945; II ed., 1962; tr. it. di
L. Ferrero, L’enigma dell’Academia antica, Firenze, La
Nuova Italia 1974.
CL = Codex Leidensis Voss. Gr. Q 11.
Cod. Marc. = Codex Marcianus 257.
Dorandi, Ricerche = Dorandi T., Ricerche sulla trasmissione
delle «Divisioni Aristoteliche», in Aa. Vv., Polyhistorish
studies in the history and historiography of ancient philo-
sophy presented to Jap Mansfeld on his sixtieth birthday,
edited by K. A. Algra, P. W. Van der Host and T. D. Ru-
nia, Leiden – New York – Köln 1996, pp. 145-165.
Dorandi, La tradition manuscrite = Dorandi T., La tradition
manuscrite, in Goulet-Cazé, Vies et doctrines, pp. 33-39.
D. L. = Diogenes Laertius, Vitae philosophorum graecorum,
recognovit brevique adnotationje critica instruxit H. S.
Long, 2 voll., Oxford 1964 (le Divisiones, in numero di
32, sono riportate alla fine della Vita di Platone, libro III,
80-109); tr. it. Di M. Gigante, 2 voll., Bari, Laterza 1962;
II ed. accresciuta 1983.
D. L. 2 = Diogenis Laertii Vitae philosophorum edidit M.
Marcovich, 2 voll., Bibliotheca Scriptorum Graecorum
et Romanorum Teubneriana, Stutgardiae et Lipsiae
1999.
Findlay, Plato = Findlay J. N., Plato. The written and unwrit-
ten doctrines, with appendix 1, London 1974; tr. it. di R.
Davies, Platone. Le dottrine scritte e non scritte. Con una
raccolta di testimonianze antiche sulle dottrine non scrit-
te, introdotte e tradotte da G. Reale, Milano, Vita e Pen-
siero 1994.
Fortenbaugh, Emotion = Fortenbaugh W. W., Aristotle on
emotion, London 1975.
Gaiser, Ungeschreiebene Lehre = Gaiser K., Platons Unge-
schreiebene Lehre. Studien zur systematischen und ge-
schichtlichen Begründung der Wissenschaften in der plato-
nische Schule, Stuttgart, Klett 1963; II ed. 1968; tr. it. par-
128 OPERE LOGICHE
APPUNTI
CATEGORIE
Philosophie» 40, 1931, pp. 449-496; rist. in: Von Fritz K.,
Schriften zur griechischen Logik, vol. 2, Stüttgart, From-
mann-Holzboog 1978, pp. 9-61; rist. In Aa. Vv., Logik und
Erkenntnislehre des Aristoteles, hrsg. Von Fritz-Peter Ha-
ger, Darmstadt, Wissenschaftliche Buch-Gesellschaft
1972, pp. 76-103.
Zanatta, Categorie = Aristotele, Le Categorie, Introduzio-
ne, traduzione e commento di M. Zanatta, III edizione,
Milano, Rizzoli 2000.
Zekl, Kategorien = Aristoteles, Kategorien. Hermeneutik,
oder vom spraclichen Ausdruck (De interpretatione). He-
rausgegeben, übersetzt mit Einleitungen und Anmerkun-
gen versehen von H. G. Zekl, Hamburg, Meiner 1998.
Zemb, Prédicaments = Zemb J. M., Prédicaments, postpré-
dicaments et/ou prédicables, ‘Catégories’ thématiques,
rhématiques ou phématiques?, in Aa. Vv., Secunda Aris-
totelica, cit., pp. 366-37.
SUI CONTRARI
INTRODUZIONE
delle cose e (2) il primato delle Idee rispetto alle cose, ossia
che le Idee sono principi delle cose. Sono questi i momenti
decisivi dell’intera argomentazione, l’asse portante sul qua-
le essa si regge.
(1) Il primato del numero è provato attraverso la ridu-
zione delle cose a numeri, con il seguente ragionamento:
«rispetto ai corpi sono prime le superfici – infatti, sono pri-
me per natura le cose più semplici e quelle che non si di-
struggono assieme –, rispetto alle superfici, le linee, secon-
do il medesimo ragionamento, e rispetto alle linee, i punti,
che i matematici chiamavano segni ed essi monadi: realtà
che sono assolutamente incomposte e che non hanno nulla
prima di sé. Ma le monadi sono numeri; dunque, i numeri
sono i primi degli enti».
(2) A giustificazione del primato delle Idee rispetto alle
cose si porta il motivo principe sul quale si fonda la loro
stessa istituzione (nel passo del Fedone, ove il Socrate pro-
sopo narra d’aver compito una seconda navigazione, che si
è sopra richiamato), ossia il fatto che le cose «da esse han-
no l’essere». Si tratta – come si è detto – del motivo di prin-
cipe, e Aristotele, attraverso questa testimonianza di Ales-
sandro, sembra metterlo in luce facendo presente che in
realtà l’esistenza delle Idee era provata anche con altri ar-
gomenti («che esse esistano, <Platone> cerca di dimostrare
con più <argomenti>»), ma il motivo or ora richiamato rag-
giunge la loro stessa essenza e ne esprime la ragion d’esse-
re, ed è perciò quello basilare.
L’esito del ragionamento fin qui istituito è espresso dal-
la conclusione del seguente sillogismo: le cose prime sono i
numeri, ma le Idee sono le realtà prime, dunque le Idee
sono numeri («le forme sono numeri»).
(3) Il terzo momento discende da questa conclusione e
ne costituisce un corollario: se le Idee sono numeri, allora i
principi dei numeri sono eo ipso principi anche delle Idee;
ma principio del numero è l’uno (si tace in questa prima
SUL BENE 155
delle cose che sono, alcune <Platone> dice essere per sé (kaqˆ auéta@),
come uomo e cavallo, altre in relazione ad altre (pro#v eçtera), e
di queste alcune come in relazione a contrari (pro#v eènanti@a),
quali buono e cattivo, altre come relativi (pro@v ti), e di esse le
prime come definite (wérisme@na), le seconde come indefinite
(aèo@riosta)».6
Gli enti, dunque, risultano qui divisi in (1) per sé (kaqˆ auéta)@
e (2) in relazione ad altri (pro#v eçtera), suddivisi a loro vol-
ta in (2/a) in relazione a contrari (pro#v eènanti@a) e (2/b) re-
lativi (pro@v ti).
Quanto poi alla distinzione tra cose definite e cose inde-
finite, di cui si dice nell’ultima parte del passo, è importante
il prosieguo dell’esposizione di Ermodoro (Simpl., In Arist.
Phys., 248, 5-13),7 dove si afferma che (A) «le cose dette
come grande in relazione a piccolo hanno tutte il più e il
meno (to# ma^llon kai# hé^tton)», (B) invece «le cose dette co-
me l’uguale, l’immoto e l’adatto, non hanno il più e il meno,
mentre i loro opposti lo hanno». Ora, se si considera che
(A) col primo genere di cose si allude a quella specie degli
enti in relazione ad altri costituiti dai relativi (2/b), mentre
(B) al secondo genere appartiene l’altra specie degli enti in
relazione ad altri, ossia i contrari (2/a) e che, di questi,
(2/a/1) alcuni, come l’uguale, sono definiti, ossia non am-
mettono più e meno, invece (2/a/2) i loro opposti, come il
disuguale, sono indefiniti perché ammettono il più e il me-
no, ci si avvede che (A) tra le cose determinate si compren-
dono (1) gli enti per sé e (2/a/1) gli opposti come l’uguale e
l’immoto che non ammettono variazioni in più e in meno;
invece (B) tra le cose indeterminate si annoverano (2/b) i
relativi e (2/a/2) quei contrari che, come il disuguale e il
mobile, ammettono più e meno.
3.4.3 In ogni caso, ora possediamo tutti gli elementi per re-
perire la soluzione del problema che la terza giustificazio-
ne dei principi nella classificazione di Alessandro ha solle-
vato. Ché, se questa classificazione è congruente con quelle
di Ermodoro e di Sesto Empirico e in queste, nell’ultima in
particolare, come abbiamo mostrato, l’Uno e la Diade sono
da intendersi come principi di tutti gli enti e non già il pri-
mo di un certo tipo di enti e la seconda degli enti di un altro
tipo, allora lo stesso dovrà dirsi anche per ciò che attiene
alla classificazione aristotelica presentata da Alessandro.
Ora, la perfetta congruenza di questa classificazione con le
due sopra esaminate è lampante: (1) gli enti per sé (ta# kaqˆ
168 OPERE FILOSOFICHE
capita che <a> non sia prima la diade, ma il numero, <b> e che il
relativo sia prima del per sé, <c> e capiteranno tutte quelle cose
secondo le quali taluni che seguono le opinioni sulle Idee si sono
messi in contrasto con i principi (Metaph., I, 9, 990 b 17-22).
gli sembrava che la Diade fosse atta a dividere tutto ciò a cui
veniva riferita. Per questo la chiamava anche produttrice del
due. Infatti, duplicando ciascuna delle cose alle quali viene riferi-
ta, in qualche modo la divide, non permettendo che resti ciò che
era. E questa divisione è generazione di numeri. Come le mate-
rie plasmate e informanti, ossia gli stampi, rendono simili a sé
tutte le cose che sono state adattate dentro di essi, così anche la
Diade, come se fosse una materia plasmata e informante, diviene
atta a generare i numeri successivi a essa, rendendo due e dop-
pio ciascuno al quale venga riferita. Infatti, essendo riferita
all’uno, produsse i due (infatti, due è due volte uno), ed essendo
riferita ai due produsse i quattro (infatti, i quattro sono due volte
due), e d essendo riferita al tre produsse il sei, e similmente negli
altri casi (Alex., In Arist. Metaph., 57, 3-11 = fr. 2).
184 OPERE FILOSOFICHE
ciò che è uno per forma è primo rispetto agli enti che sono
in relazione a esso, e nulla è primo rispetto al numero, allo-
ra le forme sono numeri. Perciò sosteneva che i principi del
numero sono principi delle forme e che l’uno è principio di
tutte le cose.
Inoltre, le forme sono principi delle altre cose, e delle
Idee, che sono numeri, sono principi i principi del numero.
E sosteneva che principi del numero sono la monade e la
diade. Poiché, infatti, nei numeri vi sono l’uno e ciò che è
oltre l’uno, ossia molti e pochi, ciò che per primo è in essi
oltre l’uno, questo ponevano come principio dei molti e dei
pochi. Ma la diade è prima oltre l’uno, avendo in sé sia il
molto che il poco. Infatti, il doppio è molto, mentre il mez-
zo è poco, ed essi sono nella diade. Ed è contraria all’uno,
se veramente questo è indivisibile, mentre essa è divisa.
Inoltre, ritenendo di dimostrare che l’uguale e il disu-
guale sono principi di tutte quante le cose, sia di quelle
che sono per sé che di quelle contrarie – tutte, infatti, cer-
cava di ricondurre a questi, come se fossero le <determi-
nazioni> più semplici – poneva l’uguale sotto la monade e
il disuguale sotto l’eccesso e il difetto. Infatti, la disugua-
glianza consiste in due cose, nel grande e nel piccolo, i
quali sono eccedente e difettante. Per questo, la chiamava
anche Diade indefinita, perché nessuno dei due, né ciò
che eccede né ciò è ecceduto, in quanto tale, è definito, ma
indefinito e illimitato. Ma, dopo esser stata definita
dall’uno, la Diade indefinita diventa la diade che è nei nu-
meri, giacché la diade siffatta è un uno per la forma.
Inoltre, il primo numero è la diade,29 e principi di questa
sono ciò che eccede e ciò che è ecceduto, poiché nella pri-
ma diade si trovano il doppio e il mezzo. Infatti, il doppio e
il mezzo sono, <rispettivamente>, eccedente ed ecceduto,
mentre non sempre ciò che eccede e ciò che è ecceduto so-
no doppio e mezzo. Di conseguenza, questi sono elementi
del doppio; e poiché ciò che eccede e ciò che è ecceduto,
198 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 199
Simpl., In Arist. Phys., pp. 453, 25-454, 19: dicono, infatti, che
Platone affermava che l’Uno e la Diade indefinita sono prin-
cipi anche delle cose sensibili, ma, dopo aver posto la Diade
indefinita pure tra le cose intelligibili, sosteneva che è illimi-
tata, e sosteneva anche che il Grande e il Piccolo, che aveva
posti come principi, sono un illimitato, in quei discorsi Sul
bene32 avendo assistito ai quali Aristotele, Eraclide, Estieo e
altri amici di Platone misero per iscritto in forma enigmatica
le cose che erano state dette, nel modo in cui erano state
dette; invece Porfirio, annunciando di correggerle, di esse,
<trattate> nel Flebo, ha scritto queste cose: «egli (scil., Plato-
ne) pone il più e il meno, e l’intensamente e il dolcemente
sono propri della natura dell’illimitato. Infatti, dove questi
siano insiti procedendo nella direzione dell’accrescimento e
della diminuzione, ciò che partecipa di essi non s’arresta né
giunge a compimento, ma procede verso l’indefinito dell’illi-
mitatezza. Similmente stanno anche il maggiore e il minore
e le cose nominate da Platone in luogo di essi, ossia il Gran-
de e il Piccolo. Si abbia, infatti, una certa grandezza limitata,
per esempio un cubito; essendo questo diviso in due, se la-
sceremo uno dei due semicubiti indiviso e, tagliando invece
l’altro semicubito, lo aggiungessimo a poco a poco a quello
indiviso, il cubito avrebbe due parti: una che procede verso il
minore e l’altra che procede verso il maggiore, ininterrotta-
mente. Infatti, tagliando non giungeremmo mai a una parte
indivisibile: giacché il cubito è continuo, e il continuo si divi-
de in <parti> sempre divisibili. Ebbene, un tale ininterrotto
tagliare mostra una certa natura dell’illimitato racchiusa nel
cubito, o piuttosto più nature: una che procede verso il gran-
206 OPERE FILOSOFICHE
SUL BENE 207
Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 250, 17-20: per ciò che ri-
guarda il conoscere che quasi tutti i contrari si riconducono
all’uno e alla moltitudine come al loro principio, ci rimanda
alla Scelta dei contrari, sul presupposto d’averne trattato
particolarmente. Di una tale scelta ha parlato anche nel se-
condo libro dell’opera Sul bene.35
Note
1
Cfr. Cherniss, Plato.
2
Cfr. Ast, Platons, p. 390; Zeller, Darstellung, pp. 199-200; 295-300;
Techmuüller, Fehden, pp. 228-232; Shorey, Doctrina, pp. 31-39; Kluge,
Darstellung, pp. 65-74; Ritter. Platon; Natorp, Ideenlehre, pp. 384-456;
Isnardi Parente, Accademia platonica.
3
È questa la tesi della cosiddetta Scuola di Tubinga, portata avanti
da Krämer (Arete) e Geiser (Ungeschreiebene Lehre), ripresa di re-
cente da Szlezàk (Platon) e Reale (Nuova interpretazione), ma che già
in precedenza era stata proposta da Gomperz (System, pp. 426-431).
4
Tra i sostenitori di questa linea esegetica vanno ricordati Zeller
(Griechen, II, 1, pp. 985-986), Trendelenburg, Doct(rina), Susemhil
(Entwickelung, pp. 507-508), Jackson (Plato’s later theory; 10, 1881),
Burnet (Greek philosophy, I, pp.178, 214, 313), Taylor (Plato, pp. 10,
503, 504), Frank (Platon, pp. 93-95), Stenzel (Zaahl), Robin (Rapports,
pp. 134-136), Wilpert (Aristotelische Früschriften), De Voegel (Pro-
blems), Ross (Ideas, pp. 142-153), Mansion A. (Aristotelisme), Berti
(Primo Aristotele, pp. 202 ss.).
5
Anche il passo «poiché le Idee ... peculiare» è controverso, e anche
per esso non posso discutere analiticamente le interpretazioni che sono
state date, perché ciò equivarrebbe a discutere una bibliografia critica
che di fatto abbraccia l’intero volume degli studi sulle cosiddette dottri-
ne non scritte di Platone e il valore che in merito a esse va attribuito alla
ricostruzione aristotelica. La quale in questo passo, a proposito della ba-
silare questione dell’identità o meno delle Idee con i numeri ideali, lascia
aperta entrambe le possibilità, senza stringere in modo decisivo a favore
di una. Si veda a riguardo l’Introduzione a questo scritto, pp. 148 ss.
6
Simplicio, In Arist. Phys., 248, 2-5. Come ha puntualizzato Berti
(Primo Aristotele, p. 251, nota n. 128) con la precisione e la maestria
che contraddistinguono questo studioso, il frammento di Ermodoro,
messo in luce da E. Zeller, De Hermodoro Ephesio et Hermodoroi
platonico, Marburg 1859 e Griechen, II, 1, p. 982, nota n. 1 fu studiato
da Susemhil, Entwickelung, II, pp. 522 ss.; Heinze, Xenocrates, pp. 38-
40; P. Natorp, s.v. Hermodoros, in R. E. Pauly-Wissowa, V Suppl., 1861;
Robin, Théorie, pp. 645-647; Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp.
183-194; Id., Neue Fragmente, pp. 227-229; Cherniss, Plato, p. 89, nota
n. 60 e pp. 170-171; De Vogel, La dernière phase; Krämer, Arete, pp.
282-285.
7
Sulle difficoltà che intorno a questo testo sono state sollevate e
sulle relative soluzioni (quelle proposte da Heinze, cfr. Xernocrates,
pp. 37-40, innanzitutto, e da Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp.
229-236. Ma si veda anche C. De Vogel, Greek philosophy, Leiden,
Brill 1950, p. 277) cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 251, nota n. 131.
8
Cfr. Merlan, Baiträge, I; Wilpert, Neue Fragmente; De Vogel, La
dernière phase; Berti, Primo Aristotele., p. 214.
SUL BENE 215
9
Così Krämer, Arete, p. 260, nota n. 11.
10
Così, per esempio, Ross, Ideas, p. 186.
11
In questo modo ha pensato la distinzione qui a tema Berti,
aprendo così, al tempo stesso, la strada alla soluzione del problema, sì
che anche per quest’aspetto il suo contributo è illuminante e decisivo,
ma – forse – limitandone la portata. Ponendo, infatti, fortemente l’ac-
cento sull’«origine logica della classificazione degli enti, su cui giusta-
mente insiste Cherniss (Plato, pp. 169-170, nota n. 96)», così si è
espresso lo studioso: «è vero che a questa distinzione logica corri-
sponde una distinzione ontologica, come afferma Wilpert (Aristoteli-
sche Frühschriften, p. 184), ossia una distinzione fra aspetti della real-
tà, ma è anche vero che tali aspetti, distinti dal pensiero, si riconduco-
no tutti alle stesse realtà». Cosicché, conclude lo studioso, «i generi di
cui si fa questione sono generi di predicati, i quali nella realtà appar-
tengono tutti a uno stesso soggetto: ad esempio, di Socrate possiamo
dire che è uomo, nel qual caso gli avremo attribuito un predicato del
genere del per sé; che è giusto o ingiusto, nel qual caso gli avremo at-
tribuito un predicato del genere dei contrari; che è grande o piccolo,
nel qual caso gli avremo attribuito un predicato del genere dei relati-
vi. Alcuni predicati, ad esempio quello di uomo e di giusto, conferi-
scono determinatezza; altri, ad esempio quello di ingiusto, di grande o
piccolo, conferiscono invece indeterminatezza. Perciò in virtù dei pri-
mi un ente, ad esempio Socrate, dipende dal principio di determina-
zione, l’Uno; in virtù degli altri dipende dal principio di indetermina-
zione: la Diade indefinita. Dunque non è giusto dire che alcuni enti
dipendono da un principio e altri dal principio opposto, ma si deve
dire che ciascun ente, in virtù di alcuni suoi predicati dipende da un
principio e in virtù di altri suoi predicati dipende dal principio oppo-
sto» (Berti, Primo Aristotele, pp. 215 s.).
12
Può essere utile indicare in sinossi le tre classificazioni e così ri-
scontrarne la perfetta corrispondenza
Alessandro Ermodoro Sesto Empirico
kaqˆ auéta@ kaqˆ auéta@ kata# diafora@n =
uépokei@mena kaqˆ auéta@
{
pro#v eènanti@a kata# eènanti@wsiv
aèntikei@mena pro#v eçtera
pro@v ti pro@v ti
13
Cfr. Berti, Primo Aristotele., p. 219.
14
In proposito cfr. Reale, Nuova interpretazione, pp. 387 ss.
15
Così, per esempio, Stenzel, Zaahl, pp. 52 s.; Wilpert, Aristotelische
Frühschriften, p. 197; Krämer, Arete, p. 254.
16
Ciò è stato ben colto da Berti, Primo Aristotele, p. 220.
17
Nel citato passo di Metaph., I, 9, infatti, Aristotele, come quarta
critica alla teoria delle Idee oppone che «in generale, le argomentazio-
216 OPERE FILOSOFICHE
ni sulle Idee eliminano le cose che vogliamo che esistano più dell’esi-
stenza delle Idee», alludendo con ciò ai principi.
18
Questo l’intero commento di Alessandro, di cui solo una parte
(qui indicata in corsivo) è riportata da Ross come fr. 2: «ciò che ai
Platonici sta più a cuore e a cui tengono più che a ogni altra cosa è
l’esistenza dei principi, i quali sono per loro principi anche delle stesse
Idee. Principi sono l’Uno e la Diade indefinita, come egli (scil. Aristo-
tele) poco prima ha esposto [riferimento a Metaph., I, 6, 987 b 18-22] e
ha riferito nell’opera Sul bene. Ma a loro avviso (scil., dei Platonici),
questi sono principi anche del numero. Ebbene, Aristotele sostiene
che questi argomenti che dimostrano le Idee distruggono i principi».
19
È opportuno considerare, nel quadro complessivo dell’analogia
tra i due casi, il carattere redazionale di «appunti» (uépomnh@mata) per
l’insegnamento, comune ai passi in esame. Proprio perché erano anno-
tazioni di Aristotele per lo svolgimento di una lezione, non occorreva
mettere nuovamente e diffusamente per iscritto ciò che si era già
esposto in altra circostanza, in una specifica opera, ma bastava soltan-
to richiamarlo. Esattamente come si fa in una sorta di scaletta didatti-
ca. In tal senso e per questo motivo, il modo assolutamente brachilogi-
co che caratterizza questi passi di Metaph., I, 9 non denota affatto un
segno di inadeguatezza, neppure sotto il profilo stilistico.
20
Alex., In Arist. Metaph., 85, 21-86, 3: «<Premessa> Se, infatti, al di
sopra di tutte le cose di cui si predica il termine comune esiste un qual-
cosa di separato, vale a dire un’Idea, <a> e se anche della Diade inde-
finita si predica la diade, dovrebbe esserci qualcosa di anteriore a essa
e che è Idea: così la Diade indefinita non sarebbe più principio. <b> A
sua volta la diade non sarebbe più né prima né principio, perché, dac-
capo, anche di essa, in quanto Idea, si predica il numero. Le Idee, infat-
ti, sono considerate dai Platonici numeri; di conseguenza per loro il
numero, che è un’Idea, sarebbe la realtà prima. <c> Se le cose stanno
in questo modo, il numero sarà anteriore alla Diade indefinita, che per
loro è principio, e non viceversa. Posto ciò, la Diade non sarà più prin-
cipio, se è ciò che è per partecipazione a qualcosa»
21
In merito cfr. anche ante, p. 148.
22
Cfr., per esempio, Berti, Primo Aristotele, pp. 291 s. Differenti in-
terpretazioni sono state date da Trendelenburg e Swegler, per i quali si
tratta dei numeri ideali, in analogia con Metaph., XIV, 6, 1080 b 22; 7,
1081 a 4, 23, e da Taylor, che ritiene siano indicati i primi due numeri.
In proposito si vedano Ross, Metaph., I, pp. 173-173 e Robin, Théorie,
pp. 661 s. Il punto d’appoggio di coloro che nei «numeri primi» vedono
indicati i numeri dispari è – ancora una volta – il commento di Ales-
sandro (In Arist. Metaph., 57, 24-28), il quale attesta che così Aristotele
li concepisce in rapporto ai numeri pari.
23
Questo il passo: «Eppure le cose avvennero proprio in senso
contrario, giacché non era logico che <avvenissero> in quel modo.
Ché, dalla materia essi producono molte cose, mentre la forma genera
SUL BENE 217
INTRODUZIONE
Mansion (Peri# ièdew^n, pp. 182 s.), egli ritiene che l’uguale di
cui si parla nell’argomento sia l’uguale in sé, risulta allora
che le cose empiriche rientrano nel caso della non-omoni-
mia in senso derivato perché esse sono copie dell’uguale
in sé. Sicché dunque il motivo esegetico di fondo è il me-
desimo.
Un sostanziale accordo lungo un’identica linea esegetica
di fondo – quella, per l’appunto, secondo cui nelle critiche
di Aristotele si scorge l’attestazione da parte del filosofo
dell’assurdità delle Idee dei relativi nel quadro della mede-
sima teoria delle Idee – sussiste anche tra le interpretazioni
che i due studiosi hanno dato di queste critiche stesse. Lun-
go questa linea, la prima critica viene intesa – sé detto – co-
me denunzia di una contraddizione interna alla dottrina
delle Idee, essendo conseguente a essa che i relativi, in
quanto si definiscono in rapporto ad altro, ossia ai correla-
tivi, non possono essere Idee, le quali, essendo in sé sussi-
stenti, sono invece sostanze (e dunque autosufficienti).19 La
seconda critica contrappone – come abbiamo visto – all’uni-
cità dell’Idea la necessità che vi siano più Idee dell’uguale,
dal momento che i relativi ideali, non diversamente da
quelli empirici, sono tali in rapporto a un correlativo
(l’«uguale in sé» è uguale all’«uguale in sé»). La terza criti-
ca fa valere che la logica che postula le Idee esige che si
affermi l’esistenza anche dell’Idea del disuguale; il che se-
condo i Platonici stessi è assurdo, perché il disuguale è più
cose eterogenee e dunque non può essere ricondotto
all’unicità dell’Idea.
4.1.2 L’omonimia
L’altra questione esegetica, riguardante la nozione di
non-omonimia, si è, per così dire, aperta su due lati: in uno
ha impegnato gli studiosi a chiedersi se essa debba ritenersi
equivalente a quella aristotelica di sinonimia; nell’altro ha
SULLE IDEE 251
fatto riflettere in che senso nel secondo e nel terzo dei tre
casi indicati la predicazione è non-omonima.
È innanzitutto opportuno fare presente che, al fine di
ovviare alle difficoltà emerse dall’intendere la valenza in
cui tale nozione interviene nel secondo e nel terzo caso,
Robin (Théorie, pp. 19-21) ha creduto di ricorrere, oltre che
alla recensio vulgata, adottata da Hayduck nello stabilire il
testo di Alessandro, anche alla recensio altera, quella cioè
dei codici L e F, dove i due casi a tema vengono considerati
più o meno omonimi.
Si tratta, in tutta chiarezza, di un espediente molto po-
co convincente, e per questo rifiutato in termini perentori
da Wilpert, il quale ha mostrato come la versione dei co-
dici suddetti, calibrando i termini oémwnu@mwv e mh# oémonu-
mwv in un senso decisamente aristotelico e non platonico,
non possa derivare dal Sulle Idee. In specie, quanto al ter-
zo caso di non-omonimia, nel testo di Alessandro, Wilpert
riconosce che si tratta di un errore, anche se non di impor-
tanza fondamentale (Wilpert, Aristotelische Früschriften,
pp. 41-43).
Ad avviso di Cherniss (Plato, pp. 229-233), nel testo di
Alessandro oémwnu@mwv compare in due significati diversi,
uno, propriamente platonico, per il quale il termine indica
«in modo tale che il nome sia comune e la natura derivata»,
l’altro, squisitamente aristotelico, per il quale si chiama in
causa l’omonimia come equivocità. Comunque, secondo
Cherniss e Wilpert, l’argomento tende ad affermare la se-
conda possibilità della predicazione non-omonima, ossia
quella derivata.
Per S. Mansion (Peri# ièdew^n, pp. 181-181) la predicazione
nel secondo e nel terzo caso è considerata omonima perché
non riguarda to# iòson, bensì – come abbiamo visto – to# iòson
auèto@; e poiché l’argomento, a suo giudizio, si configura nei
termini di una reductio ad absurdum, l’uguale in sé può es-
sere predicato non-omonimamente in riferimento agli enti
252 OPERE FILOSOFICHE
FRAGMENTA
TESTIMONIANZE
FRAMMENTI
Note
1
In questo senso si sono espressi, tra gli altri, Karpp. Peri# ièdew^n;
Philippson, Peri# ièdew^n; Moraux, Listes anciennes, pp. 328-337; Al-
lan, Aristotle, pp. 16-21 (tr. it., pp. 18 ss.); Düring 1956; Berti 1962,
p. 200; Leszl, De ideis, pp. 348-352. Wilpert, Aristotelische Frü-
schriften, pp. 97-118 ha ritenuto che la composizione dello scritto
risalga al periodo immediatamente successivo alla morte di Plato-
ne. Jaeger, Aristoteles ammette la possibilità che il trattato sia sta-
to scritto durante il soggiorno di Aristotele nell’Accademia, nono-
stante asserisca l’adesione del filosofo alla teoria delle Idee.
2
Così Berti, Primo Aristotele, p. 200. Anche Düring, Aristotle
and Plato ha ritenuto di dover datare lo scritto in un tempo imme-
diatamente successivo alla composizione del Parmenide, ossia in-
torno al 360 a.C. Ma nell’Aristoteles (pp. 49, 245 s.) ha affermato
che esso era probabilmente anteriore al dialogo platonico. Una
tale datazione era già stata sostenuta in termini non dubitativi, ma
certi da Philipson, Peri# ièdew^n. Per questo studioso Aristotele scris-
se il Sulle Idee prima ancora del Parmenide, che, anzi, a suo avviso
sarebbe stato composto da Platone proprio nell’intento di sottrar-
si alle critiche dello Stagirita. Ma questa tesi è stata confutata con
validi e convincenti argomenti da Moraux, Listes anciennes, pp.
329-333 e da Cherniss, Aristotle’s criticism, pp. 538-539. Leszl, De
ideis, p. 79 sul punto concorda con questi due ultimi studiosi.
3
Si sono qui volutamente prese in considerazione alcune delle
più significative interpretazioni generali del Sulle Idee, sul presup-
posto e nella convinzione che soprattutto gli studi di quest’ordine
complessivo rivestano particolare utilità a fungere da base per un
orientamento di massima nelle intricate e difficili questioni che lo
scritto solleva. Si sono perciò volutamente tralasciati gli studi su
temi specifici del Sulle Idee. Tra essi vanno segnalati, per profondi-
tà d’indagine e importanza dei risultati, quello di Isnardi Parente,
Platone e la prima Accademia, ove si prende in esame il problema
degli artefacta e si mostra come il rifiuto di riconoscere l’esistenza
di Idee anche per questo tipo di enti aveva alla base una sorta di
disconoscimento di valore da parte degli Accademici e dello stes-
so Aristotele e il convincimento della loro inferiorità sul piano
ontologico rispetto agli enti naturali. Va poi ricordato il saggio di
Owen, Peri# ièdew^n dedicato all’argomento dei relativi, delle cui
Idee soltanto, ammesse dai Platonici, e non di quelle di ogni gene-
re di enti esso è volto a negare l’esistenza. A quest’argomento è
dedicato anche il saggio di Isnardi Parente, Per l’interpretazione,
che giunge a conclusioni opposte a quelle di Owen: i Platonici non
ammettevano l’esistenza di Idee di enti relativi e la critica di Ari-
SULLE IDEE 289
9
fh@si dh# tou^ton to@n lo@gon kai# tw^n fqeirome@nwn te kai# eèfqarme@nwn
kai# oçlwv tw^n kaq è eçkasta@ te kai# qfartw^n iéde@av kataskeua@zein,
oié^on Swkra@touv, Pla@twnov. Kai# ga#r tou@touv noou^men kai# fantasi@
av auètw^n fula@ssomen kai# mhke@ti oòntwn. fa@ntasma ga@r ti kai# tw^n
mhke@ti oòntwn sw@zomen. Aèlla# kai# ta# mhd èoçlwv oònta noou^men, wév
éIppoke@ntauron, Ci@mairan, wçste ouède# oé toiou^tov lo@gov iède@av eiè^nai
sullogi@zetai [ebbene, <Aristotele> dice che quest’argomento
istituisce Idee anche delle cose che si corrompono e che si corrup-
pero e, in generale, delle cose individuali e corruttibili, come di
Socrate e di Platone. E pensiamo anche costoro e di loro e delle
cose che non sono più custodiamo le rappresentazioni. Ché, sal-
viamo una qualche rappresentazione anche delle cose che non
sono più. Ma pensiamo anche le cose che non esistono affatto, co-
me l’Ippocentauro e la Chimera, per cui neppure il discorso siffat-
to argomenta che esistono Idee].
10
Così, per esempio, Cherniss, Plato, p. 3.
11
Berti, Primo Aristotele, p. 213 rileva che questa critica ricorda
chiaramente il passo del Parmenide (133 c-134 e) in cui si afferma
la correlazione tra le Idee dei relativi. Ma – osserva lo studioso –
«mentre là si avanzava come obiezione l’inconoscibilità delle Idee,
qui la conseguenza obiettata è un’altra, ossia che vi saranno più
Idee di una stessa cosa, per esempio più uguali in sé». Lugarini,
Categorie, pp. 45-46 connette questa critica a quella del «terzo uo-
mo», traendo motivo da tale connessione per illustrare il senso
che nell’argomento assume l’espressione mh# oémwnu@mwv. Per parte
mia, ritengo essenziale rimarcare la specificità dell’obiezione ari-
stotelica, e cioè che la moltiplicazione delle Idee di una stessa cosa
compromette la funzione paradigmatica dell’Idea stessa.
12
Così, per esempio, Cherniss, Plato, p. 3.
13
Su questa divisione accademica degli enti in kaq è auéta@ e in
pro@v ti si vedano, tra gli altri, Berti, Dalla dialettica, pp. 189-190;
Gercke, Ursprung, p. 426; Merlan, Poseidonios, p. 200; Eldesr, One,
pp. 25 ss.; Isnardi Parente, Kaq èauéta@ e duna@mei, pp. 130-131.
14
«È poco verisimile – ha scritto lo studioso –, stante l’argo-
mento dei pro@v ti, che Platone abbia negato che vi siano Idee di
relativi [...] ma, si dirà, poiché il relativo è ciò che è minormente
sostanza, mentre le Idee posseggono una sostanzialità assoluta,
Platone aveva serie ragioni per non sottostare a ciò che, comun-
que, poteva esigere la sua dottrina: poteva non attribuire al relati-
vo l’esistenza assoluta dell’Idea. È, com’è risaputo, la dottrina di
Aristotele: fra tutte le categorie, la relazione è quella che è minor-
mente sostanza; e forse è sulla base del riscontro di un’analoga
osservazione in Platone che Aristotele ha fondato la sua testimo-
nianza sulle Idee dei relativi. Tuttavia dal fatto che la sostanzialità,
SULLE IDEE 293
riferire le ragioni per cui gli Accademici ouèk eòlegon esservi Idee di
relativi, lascia intendere il vero significato di quest’espressione. La
ragione è costituita dal fatto che le Idee, qualora siano intese come
separate dalle cose, vengono a essere delle sostanze, e dunque esi-
stono per sé, mentre i relativi non possono che essere in relazione
ad altro. In altre parole, l’Idea separata di un relativo sarebbe con-
traddittoria, perché come Idea separata dovrebbe essere in sé, men-
tre come relativo dovrebbe essere in relazione ad altro. Questi rilie-
vi presuppongono chiaramente la divisione del reale in due generi:
gli enti kaq èauéta@ e gli enti pro@v ti, reciprocamente escludentisi. Si
tratta di una divisione schiettamente platonica e accademica [...] Si
comprende così il significato dell’espressione di Alessandro, secon-
do cui gli Accademici ouèk eòlegon esservi Idee di relativi. Essa indica
una conclusione indiretta, implicita, derivante come conseguenza
dalle stesse dottrine accademiche» (Berti, Primo Aristotele, p. 216).
Leszl, in diretta polemica con Isnardi Parente, mostra, sulla base di
rilievi filologici, l’impossibilità di intendere kataskeua@zwn del passo
di Alessandro come indicante che «la prova cui Aristotele allude
non vuole essere una dimostrazione dell’esistenza delle Idee di re-
altà relative, ma semplicemente una dimostrazione dell’esistenza di
Idee trascendenti, modelli separati, applicata a una realtà come
l’uguale» (Leszl, De ideis, p. 212). E cita a documentazione l’Index
aristotelicum di Bonitz a p. 347, 6 s. e il dizionario del Liddel- Scott,
s.v., p. 911. Quanto poi a ouèk eòlegon, anch’egli afferma in tutta chia-
rezza che l’espressione «indica un’implicazione degli argomenti de-
gli Accademici» (Ivi).
19
Cherniss (Plato, pp. 181-183) ha sostenuto che Aristotele in
questa critica confonde il significato ontologico con quello logico
di kaq èauéto@, col primo intendendosi una categoria che è opposta a
quella della relazione, col secondo invece la capacità di sussistere
in modo indipendente. Al che Berti (Primo Aristotele, p. 229) ha
obiettato che «la confusione tra il piano logico e il piano ontologi-
co è proprio ciò che Aristotele rimprovera all’argomento che di-
mostra Idee dei relativi, in quanto questo conferisce una sussisten-
za ontologicamente indipendente a proprietà distinguibili solo lo-
gicamente» (cfr. anche S. Mansion, Peri# ièdew^n, pp. 185 s.). Per parte
sua Leszl (De ideis, p. 232) precisa che l’errore che Aristotele attri-
buisce ai Platonici «non è quello di saltare dal piano logico a quel-
lo ontologico, ma quello di arrivare a un’ontologia sbagliata par-
tendo da una logica sbagliata, una logica che ammette che ci sia un
relativo, e cioè quello in sé, che però può essere concepito isolata-
mente da tutti gli altri termini relativi».
20
Cfr. Wilpert, Aristoteliche Frühschriften, pp. 92 s.: «nur der
Wechsel, der einmal logiche, das andere Lame in ontologischer ist,
SULLE IDEE 295
INTRODUZIONE
firio non distingua le une cose dalle altre, tuttavia dal pro-
sieguo della sua testimonianza è chiaro che le prime, come
abbiamo visto, sono gli dèi tradizionali; quanto alle secon-
de, così dice: «l’eco che si origina dal bronzo battuto è la
voce di uno dei demoni (tinov tw^n daimo@nwn) rinchiuso nel
bronzo» (fr. 6).
Qui il riferimento non è più agli dèi tradizionali, bensì ai
demoni, ossia alle divinità che trasmigrano in altri corpi do-
po la morte di quello attuale; divinità che, come abbiamo
letto, i Pitagorici ritenevano di poter effettivamente vedere
(fr. 3) e alle quali credevano appartenesse Pitagora, identi-
ficato con Apollo (fr. 2), nel quadro e sullo sfondo di un
modo magico di concepire il divino demonico. Esattamen-
te quel modo che – anche questo si è accertato – si lega al
carattere iniziatico delle credenze professate dai Pitagorici.
Tale carattere, a sua volta, porta all’osservazione di Aristo-
tele secondo cui la nozione del dio attinta dagli iniziati è il
risultato dello sconvolgimento emotivo provato da costoro
nella celebrazione dei misteri: una nozione, dunque, anco-
rata a una dimensione essenzialmente irrazionale, e ai mi-
steri erano iniziati i Pitagorici, e di «modo misterico» parla
Porfirio riferendosi alla credenza pitagorica del demone
che, racchiuso nel bronzo, emette voce quando il bronzo
viene percosso.
A questo punto il cerchio si chiude e dall’insieme di
questi riferimenti è possibile fare luce sull’ultima parte del-
la testimonianza di Porfirio e sulla sua connessione con la
prima. Nei termini seguenti: non v’è dubbio che la creden-
za secondo cui il risuonare del bronzo percosso rappresen-
ta l’emissione della voce da parte di un demone in esso pre-
sente sia l’interpretazione magica di un fenomeno natura-
le.6 Risulta pertanto che, (1) nel riferire «alcune cose» so-
stenute dai Pitagorici e registrate da Aristotele nel nostro
scritto, Porfirio assimila nella forma espositiva, ma distin-
gue nella sostanza dottrinale (a) le «cose» che quei filosofi
SUI PITAGORICI 309
FRAGMENTA
TESTIMONIANZA
FRAMMENTI
Diog. Laert., VIII, 1, 33-36 (19): agli dèi e agli eroi non si
devono tributare onori uguali, ma agli dèi sempre, con paro-
le benedicenti, coperti di bianchi mantelli ed essendo puri;
invece agli eroi dalla metà del giorno. La purezza è causata
dai riti della purificazione, dai lavacri, dalle abluzioni e dal
mantenersi puri da un cadavere, da una puerpera e da ogni
miasma, e dall’astenersi da porzioni di carne di <animali>
morti naturalmente come cibi, da triglie, da melanuri, da uo-
va e dagli animali ovipari, dalle fave e dalle altre cose che
prescrivono anche coloro che nei templi celebrano i riti mi-
sterici. E per ciò che riguarda le fave, Aristotele nell’opera
Sui Pitagorici afferma che egli (scil. Pitagora) proclama di
astenersi dalle fave, o perché sono simili ai sessi, o perché lo
sono alle porte dell’Ade (infatti sono la sola pianta non ar-
ticolata), o perché corrompono, o perché sono cosa simile
alla natura del tutto, o perché sono cosa tendente all’oligar-
chia (in effetti con esse si operano i sorteggi).38 Comandava
loro (scil. ai discepoli) di non raccogliere ciò che cade dalla
tavola, per il motivo di <voler> abituare a non mangiare in
modo incontinente o perché <caduto> a causa della morte
di qualcuno39 [...]; di star distante dal gallo bianco, perché è
sacro al Mese e suo supplice (il che, come sosteniamo, è pro-
prio dei buoni)40 e per il fatto di essere sacro al Mese, giac-
ché indica le ore. E il bianco è proprio della natura del bene,
mentre il nero di quella del male.41 Comandava di star lon-
tani dai pesci, quanti sono sacri. Infatti, non si devono ordi-
nare le stesse cose per gli dèi e per gli uomini, come neppu-
re per i liberi e per gli schiavi. Comandava di non spezzare il
340 OPERE FILOSOFICHE
SUI PITAGORICI 341
16
Note
1
Moraux (Listes anciennes, p. 107), sulla base del fatto cheAles-
sandro cita soltanto il Peri# tw^n Puqagorei@wn, ritiene che i due
trattati furono riuniti in una sola opera in due libri prima del II sec.
a.C. Lo studioso sottolinea poi, in modo del tutto persuasivo, come
sia del tutto logico e congruente ritenere che Aristotele scrisse un
trattato sui Pitagorici, giacché a esso rinvia in Metaph., I, 5, 986 a
12-13. E questo varrebbe quand’anche si dovesse ritenere che i
frammenti costituiscano degli pseudoepigrafi. Del resto, anche il
catalogo dell’Anonimo indica al n. 88 un’opera dal titolo Peri# tw^n
Puqagorei@wn.
2
Su questa distinzione tra «acusmatici» e «matematici» si veda
anche ciò che la studiosa dice in Pitagorici, I, p. 6, dove in modo
assai convincente ne rintraccia le radici nel modo d’insegnare di
Pitagora, connettendola al fatto che «Pitagora non diceva tutto a
tutti, ma a ciascuno quello che poteva capire». Ond’è che «il famo-
so segreto pitagorico questo valore appunto aveva, di divieto di
diffondere fra gli estranei, e all’interno della scuola fra i non abba-
stanza preparati, le dottrine più difficili e le più eterogenee rispet-
to al modo di pensare comune».
3
Ossia, sacrifici apotropaici.
4
Cfr. Synes., Dio, X, 48 a = fr. 15 Ross: «come ritiene Aristotele,
gli iniziati non devono imparare alcunché (maqei^n), ma provare
sentimenti e porsi in uno stato d’animo (paqei^n), essendone evi-
dentemente adatti». Per un commento mi permetto di rinviare a
Zanatta, Dialoghi, pp. 438 ss.
5
Delatte, Études, p. 278 ritiene che l’espressione «lacrima di
Crono» non costituisca un’allegoria, ma riproponga un antico mi-
to cosmogonico con cui si spiegava l’origine del mare, mito dal
quale l’espressione deriverebbe (in proposito cfr. Timpanaro Car-
dini, Pitagorici, III, pp. 244 s.). Per parte mia dissento dal discono-
scere valore anche allegorico (e metaforico) all’espressione in og-
getto. La sua valenza allegorica (e assieme metaforica) non esclu-
de quella di simbolo, ma fa tutt’uno con essa, in una strutturale
impossibilità di distinzione concettuale tra l’allegoria, la metafora
e il simbolo che ricalca il modo primigenio di intendere. In esso,
infatti, il dire la cosa non si separa ancora (o non si separa con la
nettezza della mentalità posteriore) dalla cosa stessa, ma l’espres-
sione verbale di una sua prerogativa fa tutt’uno con la prerogativa
stessa. Ond’è che anche il significare la cosa un’altra cosa (tale
propriamente il simbolo) non si distingue dal dire quella cosa per
un’altra cosa (tale propriamente l’allegoria) e dal trasferire la pre-
rogativa nominata in una cosa a un’altra cosa (tale propriamente
SUI PITAGORICI 361
12
Cfr. fr. 5: «Comandava [...] di star distante dal gallo bianco,
perché è sacro al Mese e suo supplice (il che, come sosteniamo, è
proprio dei buoni) e per il fatto di essere sacro al Mese, giacché
indica le ore. E il bianco è proprio della natura del bene, mentre il
nero di quella del male».
13
In questo propriamente «l’intero» (to# oçlon) differisce da «il
tutto» (to# pa^n), per il fatto cioè di essere un’unità organizzata in
modo tale che lo spostamento o il venir meno di una delle sue
parti comporta un’alterazione dell’insieme, che non è più lo stesso
di prima (cfr. Metaph., V, 26, 1024 a 1 ss.).
14
Precisa inoltre lo Stagirita che la metafora per analogia può
essere usata per denotare ciò che non ha un nome: per esempio,
non vi è un nome che designi il lanciare la fiamma da parte del
sole; ma l’analogia tra un tale lanciare e il sole, da un lato, e il lan-
ciare il grano e il grano stesso, dall’altro, permette di denotare
quel lanciare col nome con cui si indica il lanciare il grano, ossia
«seminare», e denotare perciò quell’anonimo lanciare come «se-
minare la fiamma da parte del sole». Precisa ancora il filosofo che
un quarto modo d’usare la metafora per analogia consiste nell’at-
tribuire alla cosa il nome proprio di un’altra secondo la relazione
base specificata in (a) e nel negare una delle determinazioni che
convengono alla seconda (per esempio, stante che Ares sta allo
scudo come Dioniso sta alla coppa, nel chiamare lo scudo «coppa»
– ossia il secondo termine col nome del quarto – ma precisando
che si tratta di una coppa «senza vino»).
15
In proposito si veda la nota n. 52.
16
Ad avviso di Diels e di Ross, si tratta degli atomisti Leucippo
e Democrito (nominati da Aristotele per ultimi nel precedente
Metaph., I, 4); invece, ad avviso di Timpanaro Cardini (Pitagorici,
III, pp. 57-58), si tratta di quei filosofi (citati dallo Stagirita a parti-
re da Metaph., I, 4, 983 b 6) che avvertirono la necessità di un’altra
causa oltre quella materiale per poter spiegare i fenomeni.
17
Come riferisce Reale (Metaph., III, pp. 45 s.), a quest’espressio-
ne «i cosiddetti Pitagorici» (che ricompare anche in Mertaph., 989 b
29; De caelo, 284 b 7, 13; 293 a 20) sono stati attribuiti fondamental-
mente tre diversi significati: (1) essa denoterebbe l’incertezza di
Aristotele nell’indicare la persona e la dottrina di Pitagora (così
Bonitz, Comm., p. 77; Ross, Metaph., I, p. 143; Tricot, Métaph., I, p. 41,
nota 4); (2) con essa lo Stagirita distinguerebbe i veri Pitagorici da
coloro che a partire dalla seconda metà del VI sec. a.C. si riunivano
in una sorta di setta orfica (Frankl); (3) con essa Aristotele mette-
rebbe in risalto il carattere di équipe della filosofia pitagorica, di
contro alla rilevanza personale di quella degli altri Presocratici
(Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, pp. 9 ss., in particolare p. 13).
SUI PITAGORICI 363
18
Cfr. Proclo, In Euclid., p. 65 Friedl. = Timpanaro Cardini, Pi-
tagorici, III, B 1, pp. 48-49.
19
Il dieci corrisponde alla somma dei primi quattro numeri, a
partire dai quali si formano tutti gli altri. Da qui la ragione della
sua «perfezione».
20
Com’è spiegato da Alessandro d’Afrodisia nel passo riporta-
to come fr. 13, i corpi che si muovono nel cielo sono le stesse fisse,
i cinque pianeti, il sole, la luna, la terra e, per l’appunto, l’antiterra.
21
Il riferimento non è certamente a De caelo, II, 13, 293 a 23 ss.,
come taluni hanno creduto, bensì proprio al trattato Sulle dottrine
pitagoriche (cfr. Reale, Metafisica, III, p. 49, nota 9; Timpanaro
Cardini, Pitagorici, III, pp. 61 s.; Bonitz, Comm., p. 79), coincidente
con ogni verosimiglianza con quello il cui titolo viene indicato co-
me Sui Pitagorici.
22
Si tratta di Epimenide, Aristea, Ermetico, Abaris e Ferecide,
accomunati dall’essere facitori di prodigi.
23
Cfr. Diogene Laurzio, I, 116 ss. = D. K. 7 A 1: «molte e mera-
vigliose cose si tramandano sul suo conto: che passeggiando lungo
la spiaggia di Samo, vedendo una nave che veleggiava con il vento
favorevole, disse che dopo non molto tempo sarebbe affondata.
Ed essa affondò davanti ai suoi occhi. Che, avendo bevuto dell’ac-
qua tratta da un pozzo, predisse che di lì a tre giorni vi sarebbe
stato un terremoto, e questo ci fu. Che, andando da Olimpia a
Messene, consigliò il suo ospite Perilao a sloggiare con tutta la fa-
miglia; questi si rifiutò e Messene fu conquistata». Porfirio, presso
Eusebio, Praep. Evang., X, 3, 6 (= D. K. 7 A 7) riferisce che Andro-
ne nello scritto Tripode (cfr. F. H. G., n. 347) racconta il medesimo
prodigio dell’acqua attinta dal pozzo e della predizione del terre-
moto, ma lo attribuisce a Pitagora. Riferisce inoltre che di questo
e altri prodigi compiuti da Pitagora parlò anche Teopompo (cfr.
Gr. Hist. F., 115 F 70 II 549), che tuttavia, onde evitare il rimprove-
ro d’averli derivati da Androne, li attribuì a Ferecide di Siro e
cambiò il luogo ove furono compiuti.
24
Città della Calabria, sullo Ionio.
25
Espressione equivalente a «in Italia».
26
A riguardo cfr. Diogene Laerzio, II, 46 = D. K. 58 A = Timpa-
naro Cardini, Pitagorici, I: Vita di Pitagora, test. 15, p. 55 e Iambl.,
V. P., 248 = D. K., 44 Aa e 46 = Timpanaro Cardini, Pitagorici, I:
Vita di Pitagora, test. 16.
27
È il nome del fiume che scorreva presso Metaponto (cfr.
Bacchilide, X, 119). Diogene Laerzio, VIII, 1, 11 (infra) indica in-
vece il fiume Nasso (Ne@ssov), in Tracia (cfr. Herod., VII, 126).
28
Come spiega Luciano in uno scolio (p. 124 Rabe), la coscia
d’oro di Pitagora era un segno della sua natura apollinea.
364 OPERE FILOSOFICHE
29
Il culto di Apollo è originario della regione iperborea, un
nord mitico le cui tracce si perdono lungo l’asse danubiano dell’età
del bronzo. Borea è il vento gelido che soffia dai monti della Tra-
cia e sua madre Eos è la splendida «Aurora dalle rosee dita».
30
Fu il marito di Timica di Sparta, filosofa greca vissuta nel IV
sec. a.C. e appartenente assieme a Millia alla scuola pitagorica di
Crotone. È citata da Clemente Alessandrino negli Stromata e da
Giambico nella Vita di Pitagora.
31
Cfr. Iambl., V. P., 142.
32
Nei racconti di Apollonio e di Eliano è invece indicato il fiu-
me Cosa (cfr. supra).
33
Sacerdote di Apollo. In effetti, la maggior parte dei miracoli
ascritti a Pitagora è legata ad Apollo, e questo attesta il loro carat-
tere divinatorio, ossia rivelatore. Ciò s’allinea perfettamente con
quanto dice Diog. Laert., VIII, 8, il quale riferisce la testimonianza
di Aristosseno secondo cui Pitagora ricevette la maggior parte dei
precetti morali dalla sacerdotessa deifica Temistoclea.
34
«Qui occorre dare un significato particolare al verbo aèfei@le-
to, dal momento che in verità la freccia fu donata da Abaris a Pi-
tagora e non sottratta da quest’ultimo. La cosa non cambia, perché
in ogni caso Pitagora privò involontariamente Abaris del benefi-
cio di quell’arnese. Del resto Abaris gliel’aveva consegnata, più
che regalata, perché lo identificava con Apollo Iperboreo» (F. Ro-
mano, in Giambico, Summa pitagorica, a cura di F. Romano, Mila-
no, Bompiani 2006, p. 291, nota n. 77).
35
Ossia, sacrifici apotropaici.
36
L’accordo consisteva nel fatto che Abaris sarebbe rimasto
presso di lui e con lui cooperasse in attività educative, ricevendo in
cambio insegnamenti di particolare importanza (cfr. Iambl., V. P.,
90-93).
37
È opportuno rilevare come doctrina e disciplina indichino il
medesimo oggetto, ossia un contenuto di sapere, ma dal punto di
vista di colui che lo insegna, la prima, e di colui che l’apprende, la
seconda.
38
Era usanza nei governi democratici sorteggiare i magistrati
con una fava bianca (si vedano le testimonianze antiche in propo-
sito in Pauly Wissowa, III, 620). La fava diviene perciò simbolo di
questi regimi, per cui l’astenersene è espressione dell’opposta ten-
denza oligarchica (cfr. Timpanaro Cardini, Pitagorici, III. P. 248).
39
Il significato di questa difficile espressione, che di proposito
si è voluto rendere in modo letterale, è che ciò che cade da tavola
può fungere da alimento a un morto (il quale, albergando nell’Ade,
che è «sotto» terra, abbisogna che il cibo «scenda». Ecco, dunque,
la metafora del cadere). La morte di qualcuno è così la causa della
SUI PITAGORICI 365
caduta del cibo. Un’idea, questa della morte come causa della ca-
duta, espressa da eèpi@ e il dativo (eèpi# teleuth^j tinov).
40
Contrariamente a Timpanaro Cardini (Pitagorici, III, p. 249),
che intende tw^n aègaqw^n come neutro e interpreta il rilievo nel
senso che l’essere supplici appartiene a quelli che, nella lista degli
opposti, sono i beni, propenderei per intendere tw^n aègaqw^n come
maschile: l’essere supplici è proprio delle persone dabbene. La co-
struzione del pensiero è più semplice e la motivazione più imme-
diata. Inoltre, non risulta alcun luogo in cui l’essere supplici sia
annoverato nella lista dei beni, mentre non c’è bisogno di reperire
uno specifico luogo per dar credito a un’affermazione così eviden-
te e generale com’è quella che risulta dall’esegesi proposta.
41
La sacralità del gallo bianco è dunque dovuta al suo stesso
essere bianco, colore che è simbolo della bontà, e al fatto che, co-
me il Mese, anch’esso, con il suo chicchirichì, scandisce le ore. In
tal senso si può anche dire che il gallo è simbolo del Mese, e per
questo gli è sacro. Delatte, Études, p. 290 richiama altresì la circo-
stanza che sulle urne mortuarie trovate a Locri è raffigurato un
gallo, che diviene perciò simbolo funerario. In quanto poi «sacro
(iéero@v)» al Mese (perché suo simbolo), il gallo è altresì suo «sup-
plice (ièke@thv)», giacché la consacrazione a qualcuno è in se stessa
una forma di devozione e di supplica verso costui. Questa seconda
prerogativa del gallo sembra, perciò, subordinata alla prima e
quasi un suo corollario.
42
Come segnala Timpanaro Cardini (Pitagorici, III, p. 249), il
divieto di non spezzare il pane impone di non sbriciolarlo e di-
sperderlo; «amici» (fi@loi) è espressione tecnica e denota propria-
mente la comunità degli adepti al credo pitagorico.
43
«Di Crono» (<Kro@nou>) è integrazione proposta da Stanley,
sulla base di Plutarco, de Is., 364 a e Clemente Alessandrino, Strom.,
V, 49, dove tuttavia si parla delle «lacrime di Zeus» (da@krua Dio@v),
che nel linguaggio simbolico degli Orfici simboleggiavano la piog-
gia (cfr. D. K., 1 B 22; cfr. anche 31 B 6, 3, nonché Timpanaro Car-
dini, Pitagorici, III, p. 244).
44
S’intende, la costellazione dell’orsa maggiore e dell’orsa mi-
nore.
45
Splendida endiadi. Letteralmente, infatti, «colui che è gonfio
ed è irato».
46
Misuratore di sostanze solide, per lo più di farina, o di orzo, o
di grano.
47
In proposito si veda anche Iambl., V. P., 84.
48
Qui, dunque, all’uno è attribuita la funzione di parimpari.
L’istanza non è esente dal porre problemi e, in particolare, solleva
la questione se siamo in presenza di una dottrina pitagorica, o
366 OPERE FILOSOFICHE
62
Ossia, la velocità del movimento è proporzionale all’ampiez-
za delle loro orbite.
63
Ossia, degli enti naturali.
64
L’unità (la monade) ha in sé la natura sia del pari che del di-
spari, ossia è entrambi (parimpari) perché con la sua aggiunta ge-
nera sia l’uno che l’altro. Come si vede, la natura dell’unità è rica-
vata dalla capacità che ha insita.
65
Vale a dire, negli accordi musicali.
66
Cfr. De caelo, II, 13 (293 a 23 ss.).
67
Ossia nei trattati della Metafisica che Alessandro sta com-
mentando.
68
Ossia le Opinioni dei Pitagorici, menzionate da Alessandro
poco prima, e come opera nella quale Aristotele espone le dottri-
ne pitagoriche «in modo più preciso» (aèkribe@steron).
69
Si tratta della hestia (il focolare), di cui si dice nel fr. 13.
70
È la stessa opera che prima è stata citata con il titolo di Sui
Pitagorici.
71
Ossia, nel De caelo, rispetto al quale Simplicio rileva la di-
screpanza indicata nel testo circa la dottrina della destra e della
sinistra che trova esposta nella Raccolta delle dottrine pitagoriche,
come, prima di lui, aveva evidentemente riscontrato Alessandro.
Accettando la soluzione proposta da costui, ossia che si tratti di
una cattiva trascrizione di qualche copista, egli salva l’esposizione
del De caelo dalla possibile accusa di essere erronea.
72
Concordo con Timpanaro Cardini (I Pitagorici, III, pp. 204-
205) nel ritenere improbabile che il riferimento sia ai «Pitagorici»
più recenti, tanto per la difficoltà di individuare chi potrebbero
mai essere, quanto – soprattutto – per la stranezza di ritenere che
essi avrebbero abbandonato la teoria pitagorica della luce per una
che non si vede in che cosa segni un progresso. Con la studiosa ri-
tengo perciò preferibile pensare che l’allusione sia agli Ionici, i
quali, a eccezione di Talete, ritenevano la luna dotata di luce pro-
pria.
73
Vissuto nel I sec. d.C. e autore di un Catalogo dei filosofi.
74
Si tratta con ogni probabilità del medesimo scritto citato da
Diog. Laert., I, 118 col titolo Su Pitagora e le sue dottrine (Peri#
PuqagÒrou kai# tw~n gnwri@mwn auètou^) (cfr. Timpanaro Cardini, I
Pitagorici, III, pp. 35-36)
75
I codici recano èAri@starcov (Aristarco), ma pare da preferir-
si la lezione èAristote@lhv, secondo la correzione proposta dal
Preller e accolta anche da Ross, sulla scorta di Thaeodoret, Graec.
affect. cur., I, 24, dove compare èAristote@lhv.
76
Così anche Herod., II, 51; Plat., Leg., 738 c.
SULLA FILOSOFIA
DEL TRATTATO DI ARCHITA
INTRODUZIONE
tou^ Timai@ou kai# tw^n èArcutei@wn non sarebbe che una sin-
tetica esposizione delle principali tesi di Timeo e Archita,
presentate sinotticamente attraverso citazioni dirette dal-
le loro opere. Donde, per l’appunto, il carattere di epitome
che compare nel titolo assieme a quello di su@noyiv. Va
inoltre ricordato che nel catalogo di Tolomeo, al n. 9, viene
indicato, in una lista comprendente dialoghi e altri scritti
di dubbia autenticità aristotelica (quelli che Baumstark
indica come scritti ipomnemonici), uno scritto intitolato
¿Arcu@tav.2
1 (R3 206)5
Note
1
Sulla connessione in Aristotele tra le dottrine del pitagorico
Timeo e quelle del pitagorico Archita cfr. supra, pp. 383 ss.
2
Moraux (Listes anciennes, p. 301), affiancando nel suo giudi-
zio questo scritto a quello Sui Pitagorici indicato al n. 18, 2° parte
del catalogo di Tolomeo, ritiene che si tratti di opere che, a torto o
a ragione, la pinacografia ha considerato essoteriche. Al tempo di
Tolomeo i dialoghi e le altre opere aristoteliche pubblicate tende-
vano a sparire dalla circolazione a vantaggio dei trattati di scuola.
L’attenzione di Tolomeo si rivolgeva primariamente a questi se-
condi, diversamente da Aristone, che s’interessava invece soprat-
tutto delle prime.
3
Ecco le precise parole di Cicerone: «nessun malanno più rovi-
noso la natura ha dato agli uomini del piacere corporeo, perché gli
appetiti, avidi di esso, spingono gli uomini a procurarselo senza
discernimento né freno. Da qui, diceva, nascono i tradimenti della
patria, da qui i sovvertimenti degli stati, da qui i colloqui clandesti-
ni coi nemici; non c’è, insomma, nessun delitto, non c’è mala azio-
ne al cui compimento non spinga la libidine del piacere. E, invero,
stupri, adulteri e ogni altro cotal malanno da nessun’altra lusinga
son provocati se non da quella del piacere. E mentre all’uomo è
stato dato, sia dalla natura, sia da qualche dio, un bene che non ha
l’uguale: la mente, a questo privilegio e dono nulla è tanto nemico
quanto il piacere. Né infatti, finché domina la libidine, c’è luogo a
temperanza, né in alcun luogo nel regno della volontà può dimo-
rar la virtù. E perché ciò potesse essere meglio compreso, egli con-
sigliava di immaginare un uomo in preda al massimo eccitamento
sensibile che si possa provare: nessuno, egli credeva, poteva essere
in dubbio che costui, finché godeva in tal modo, potesse intendere,
o ragionare, o pensare alcunché. Donde concludeva nulla essere
tanto detestabile e funesto quanto il piacere; che se mai fosse trop-
po intenso e prolungato, estinguerebbe ogni luce dell’anima».
4
Cfr. Stobeo, I, pr., p. 18, 8 Wachsmuth = B 4 Timpanaro Cardi-
ni: «la scienza del calcolo sembra avere, in rapporto alla sapienza,
una netta superiorità sulle altre discipline; poiché anche più effica-
cemente della geometria riesce a trattare ciò che vuole e dove la
geometria a sua volta si dà per vinta, la scienza del calcolo ne sa
fornire anche la dimostrazione, ed egualmente riguardo alle for-
me, ove si possa dare delle forme una qualche dimostrazione
scientifica».
5
Il passo da «Il fatto si è che» fino alla fine è accolto da Timpa-
naro Cardini, Pitagorici, II, pp. 404 s. come testimonianza n. 2b su
Timeo.
SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA 391
6
Il passo da «E Aristotele» alla fine è accolto da Timpanaro
Cardini, Pitagorici, II, pp.294 s. come testimonianza n. 13b su Ar-
chita.
7
Cfr. Phaed., 83 b.
8
Come ha indicato Zeller (Zeller-Mondolfo, II, p. 463, nota n.
2), che per questo riteneva inattendibile la notizia data da Dama-
scio, il riferimento ad Aristotele riguarderebbe Metaph., 1087 b 26,
dove lo Stagirita afferma che alcuni filosofi contrapponevano
all’uno (eçn) il diverso (eçteron) e l’altro (¥llo) come principio ma-
teriale. Notizia che lo Ps. Alessandro, ad loc. riferisce arbitraria-
mente ai Pitagorici, traendo così in errore Damascio. Ma, come ha
osservato Timpanaro Cardini (Pitagorici, II, p. 294), «il riferimen-
to del commentatore ai Pitagorici è in parte spiegabile, perché la
polemica di Aristotele 1087 b 26 non ha un bersaglio univoco, e
qualche allusione non è chiara».
9
Ad avviso di Timpanaro Cardini (Pitagorici, II, p. 295) il con-
cetto di aòllo come ciò che è sempre mutevole si può rintracciare
anche prima di Platone, e precisamente in Eraclito, il cui pensiero
sull’eterno divenire delle cose costituisce in un certo qual senso
l’ambito dove questo specifico motivo si pone. Ora, in questo mo-
tivo stesso della mutevolezza dell’aòllo si potrebbe individuare
addirittura l’origine storica e teorica di «quella dottrina che face-
va generare da un punto scorrente la linea, dalla linea scorrente la
superficie, da questa scorrente il solido (cfr. Erone, def. 2; Simpl.,
Phys., p. 722, 28; Procl., in Eucl., p. 97, 6)». Una dottrina che, relati-
vamente alla generazione della linea e della superficie, rispettiva-
mente, dal punto e dalla linea stessa, è attestata anche da Aristote-
le in De an., 409 a 4 con un generico «fasi@». Come soggetto del
quale, Sesto Empirico, Adv. Math., X, 281 indica in modo esplicito
i Pitagorici.
SU DEMOCRITO
INTRODUZIONE
zione che una tale natura si salvi sempre: come neppure di-
ciamo che Socrate né viene totalmente all’essere quando
diventi bello o musico, né si distrugge quando muti questi
stati, per il fatto che permane il sostrato, ossia Socrate stes-
so, così neppure alcuno degli altri <enti>. Infatti, esiste sem-
pre una certa natura, o una sola o più di una, dalla quale
vengono all’essere gli altri <enti>, mentre essa si salva. 4
(Metaph., I, 3, 983 b 6-18)
Note
1
I codici di Diogene Laerzio oscillano, infatti, tra Problh@mata
eèk tw^n Dhmokri@tou z è e Problh@mata eèk tw^n Dhmokri@tou b è (in
proposito cfr. Moraux, Listes anciennes, p. 280, nota n. 6). In due
libri lo riporta anche il catalogo dell’Anonimo, al n. 116, col titolo
Problema@t wn Dhmokritei@wn b @. Rose (Fragmenta) interpreta
«problemata duo non problematum libri duo, ut Hesychius», ma è
opinione poco condivisibile. Ancora Moraux (Ivi, pp. 210 s.) infor-
ma che i Problh@mata eèk tw^n Dhmokri@tou erano una collazione
d’excerpta tratti dalle opere filosofiche dell’Abderita. Da essi pro-
verrebbero gli oèli@ga eèk tw^n èAristote@louv peri# Dhmokri@tou para-
grafe@nta di cui parla Simplicio (294, 36), sulla base di una notizia
derivata da Alessandro, nel frammento qui riportato. Va da sé che
in tal caso peri# Dhmokri@tou non indicherebbe il titolo dell’opera
aristotelica, ma soltanto il complemento di argomento. Sempre ad
avviso di Moraux (Ivi, p. 121), all’esposizione delle tesi di Demo-
crito sarebbe stato dedicato anche lo scritto, in un libro, Parabo-
lai@, del quale dà notizia Diogene Laerzio al n. 126 del suo catalo-
go delle opere aristoteliche. Lo studioso, infatti, ritiene che para-
bolai@ qui non significhi «comparazioni», bensì «congiunzioni
d’astri», e poiché l’Abderita scrisse un’opera di astronomia mate-
matica intitolata Me@gav eèniauto#v hà ¢stronomi@h, para@phgma (cfr.
Diogene Laerzio, IX, 48) e d’altro canto l’interesse del Peripato
per l’astronomia democritea è attestato anche dall’esistenza di uno
scritto di Teofrasto su questo specifico tema, il Peri# th^v Dhmokri@-
tou ¢strologi@av (cfr. Diogene Laerzio, V, 43), ipotizza che le
Parabolai@ siano una raccolta di excerpta tratti dal para@phgma de-
mocriteo.
2
Mi riferisco alla classificazione di Phys., V, 1-2, dove Aristotele
divide il mutamento (metabolh@), da un lato in generazione e corru-
zione, dall’altro nel movimento (ki@nhsiv), distinto a sua volta
nell’alterazione, nell’aumento e nella diminuzione e nella trasla-
zione. In Phys., V,1, in particolare, egli giustifica l’impossibilità di
ascrivere la generazione e la corruzione – che sono mutamenti (me-
tabolai@) – al movimento (ki@nhsiv) con la ragione per cui esse com-
portano non-essere (si genera ciò che non è e si corrompe ciò che
cessa di essere), e il non-essere non è soggetto a movimento, così
come all’essere in quiete, in nessuno dei sensi in cui il non-essere si
dice: né secondo sintesi e diairesi, né secondo la potenza, né come
non-sostanza individuale. Movimenti (kinh@seiv) sono, invece, sol-
tanto i mutamenti da un sostrato a un sostrato (laddove generazio-
ne e corruzione sono mutamenti da un non-sostrato a un sostrato e
da un sostrato a un non-sostrato, ossia mutamenti secondo la con-
SU DEMOCRITO 407
rie delle loro dottrine a riguardo e formula alle loro ipotesi precise
e articolate critiche. Il giudizio in questione si comprende alla luce
non già della dottrina empedoclea quale Aristotele presenta, ma
alla luce della critica che lo Stagirita muove a tale dottrina. In ef-
fetti, a Empedocle, al quale peraltro in Metaph., I, 4, 985 a 29 ss.
riconosce il merito di aver introdotto come cause del movimento
non un solo principio, ma due principi opposti, egli obietta di aver
fatto derivare gli elementi l’uno dall’altro e perciò di avere mala-
mente indicato in essi i principi, perché il principio resta sempre il
medesimo. «Empedocle – scrive infatti lo Stagirita – afferma che
la materia consiste di quattro corpi. Infatti, necessariamente an-
che a costui capitano da un lato le stesse <conseguenze>, da un
altro <conseguenze> specifiche. Infatti, vediamo che <gli elemen-
ti> si generano gli uni dagli altri, come se il fuoco e la terra non
restassero sempre il medesimo corpo» (Metaph., I, 8, 889 a 22 ss.).
Evidentemente, questa critica, che prende concreta espressione
nella Metafisica, era già stata formulata dallo Stagirita al tempo
della stesura del Su Democrito. Essa, nel quadro tematico e per il
risvolto teorico che qui interessano, fa valere che Empedocle, pur
essendo un pluralista, ha tuttavia trattato le quattro radici alla ma-
niera monistica di concepire l’elemento primordiale. Su questa
base l’assimilazione della sua dottrina a quella di Eraclito è piena-
mente plausibile.
12
Si tratta, in tutta chiarezza, degli atomi, che è opportuno ri-
marcare che qui vengono denominati «sostanze» (ouèsi@ai) in virtù
del loro permanere, ossia dell’essere in sé, essendo questo il carat-
tere basilare della sostanza che interessa, nell’ottica di Aristotele,
la concezione presocratica dell’aèrch@. In parallelo con questa qua-
lificazione degli atomi si colloca quella di esprimere l’essere, di
contro al vuoto, che esprime il non-essere. La sostanza, infatti, per
Aristotele rappresenta il significato primo dell’essere ed è, dun-
que, perfettamente congruo che gli atomi, in quanto essere, siano
sostanze e, viceversa, in quanto sostanze siano essere.
13
Cfr. anche Aristotele, Phys., I, 5, 188 a 22 = D. K. 68 A 45:
«Democrito <pone come principi> il solido [scil., il pieno, ossia gli
atomi] e il vuoto, dei quali considera il primo come essere e il se-
condo come non-essere». In questa identificazione degli atomi
con l’essere e del vuoto con il non-essere è da riscontrarsi la pre-
senza della dimensione propriamente eleatica di Democrito. Spie-
ga bene Reale (Pensiero antico, p. 184 s.) in una pagina che chiama
direttamente in causa Leucippo, in quanto si riferisce in generale
all’atomismo, di cui Leucippo è l’iniziatore e il primo rappresen-
tante, ma che si adatta in tutto e per tutto anche a Democrito, anzi,
ancor più a questo pensatore. «L’intuizione fondamentale del si-
412 OPERE FILOSOFICHE
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SU DEMOCRITO
2
Vengono registrati i luoghi in cui il termine che compare è
«diade», anche se in alcuni casi si tratta della Diade indefinita (cui
è stata riservata un’apposita voce, sotto la quale si registrano i luo-
ghi in cui specificamente compare quest’espressione) o Diade di
Grande e Piccolo.
INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI 463
3
Cfr. la nota n. 2.
464 INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI
1
In questo indice sono stati introdotti anche quei nomi propri
che denotano nozioni.
490 GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI
yuch@: anima