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Francesco Lamendola

Se non si parla con Dio, è col Diavolo che si parla


La vita, abbiamo battuto e ribattuto questo concetto, non è una gita di piacere, ma una lotta, una
vera e propria guerra, una guerra del male contro il bene e del bene contro il male; una guerra nella
quale non è possibile rimanere neutrali, perché l’apparente neutralità favorisce una sola delle due
parti, una ben precisa, il male. Il male infatti si giova anche dell’ignavia e dell’accidia; il bene è
sempre attivo e generoso. Ne consegue che ogni pensiero che formuliamo, ogni parola che diciamo,
ogni azione che compiamo, non sono mai neutri, non sono mai indifferenti: hanno sempre una
valenza buona o cattiva. Conosciamo la reazione spazientita dell’uomo di buon senso, dell’uomo
moderno, razionale e ponderato, alieno da ogni eccesso, da ogni aut-aut: ma chi lo dice cos’è il
bene e cos’è il male? E chi lo dice cos’è il vero e cos’è il falso? E il giusto e l’ingiusto? E il bello e
il brutto? È la solita, trista tiritera del relativismo: mettere in dubbio ogni cosa, scalzare ogni
certezza dalle sue fondamenta, rendere tutto precario, effimero, inattendibile e illusorio. I signori
del relativismo, gli Eco, i Galimberti, se fossero seduti nell’aula di Tommaso d’Aquino, alzerebbero
la mano e direbbero, con aria di sfida: Non si può dire che questa è una mela. Al massimo si può
dire che sembra una mela, in certe condizioni di luce, e solo se si ha la vista perfetta, ad esempio se
non si è affetti da daltonismo, o da una forte miopia. Ma vista dagli ultimi banchi, non siamo più
sicuri che sia una mela: siete voi che lo dite, maestro, e noi siamo portati a credervi. Tuttavia, se
qualcuno non ci credesse? Non siete stato voi a insegnarci a riflettere e a decidere con la nostra
ragione, a non fidarci ciecamente di alcuno?
San Tommaso li guarderebbe con occhi penetranti, poi domanderebbe loro: E allora, che dite che
sia questo oggetto che ho posato sulla cattedra, se non è una mela? Una pera, forse? E quelli, con
aria compunta: Non sia mai! Noi non affermiamo una cosa simile. Solo, ci limitiamo a mettere in
dubbio che si possa dire, con tutta sicurezza, che è una mela. Che cosa sia, in realtà, resta da
vedere. E l’Aquinate, allora: Benissimo; e chi lo deciderà? E quelli: Le circostanze, senza dubbio; il
fatto che ci sia abbastanza luce e che la vista dei presenti sia abbastanza buona. E anche il fatto
che abbiano visto una mela e la possano confrontare con l’oggetto che si trova sulla cattedra. Se
un abitante degli Iperborei non ha mai visto una mela, ad esempio, non potrà mai concordare con
la vostra affermazione, a meno che vi creda ciecamente sulla parola, per sola fede. Ma per fede si
deve credere solamente a Dio. San Tommaso, a questo punto, li soppeserebbe con il suo sguardo
intenso, e direbbe piano, senza alterarsi: Vedo bene chi siete voi: siete lo spirito della negazione.
Non v’importa della verità; v’importa di distruggere la verità. Avete per scopo di distruggere la
credenza nella verità da parte degli altri. Volete dimostrare che nessuno può affermare alcunché;
volete paralizzare il pensiero, ma il vostro obiettivo è un altro; incrinare la fede. Perché il
pensiero, alla fine, è sempre pensiero di qualcosa, su qualcosa e per qualcosa, che non può essere
ulteriormente dimostrato: cioè una fede. Voi siete gli agenti del diavolo, perché avete in animo di
scalzare le basi della fede, distruggendo la validità del pensiero. E quelli, con studiata ipocrisia:
Voi ci fate torto, maestro. Noi applichiamo i Vostri insegnamenti, i vostri e quelli di Aristotele. Noi
adoperiamo la logica, e solamente la logica. Chi può dire che questa è una mela, se non si è mai
vista una mela? Certo, noi l’abbiamo vista e la conosciamo, perché la mela è un frutto che cresce
sugli alberi in questo clima, alle nostre latitudini. Ma il ragionamento deve essere universale; la
validità della logica deve prescindere dalle circostanze del luogo e del tempo. Se non è in grado di
farlo, allora la logica deve avere l’onestà di arrendersi, di riconoscere il proprio limite. Non è
forse questo che voi ci avete sempre insegnato, maestro: che la sola ragione, alla fine, deve
riconoscere il proprio limite?
San Tommaso allora li guarderebbe con un misto di disprezzo e di pietà: Io vi ho insegnato,
disgraziati, che la ragione deve cedere davanti a qualcosa che è più grande di lei, la fede; non già

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che deve arrendersi davanti al nulla, e girare a vuoto su se stessa. Non per questo Dio ci ha dato
l’uso della ragione, che ci distingue dai bruti: non perché noi ne distruggiamo stupidamente i
fondamenti, al solo scopo di creare il deserto. Il relativismo che voi suggerite è qualcosa di meno
della ragione, non qualcosa di più. Non si getta un tesoro d’argento per riempire le borse di terra,
ma si getta il tesoro d’argento se si è capaci di riempire le borse d’oro massiccio. Voi non avete
capito, perché non avete voluto capire: per vostra malizia avete preso quella parte del mio
insegnamento che faceva comodo ai vostri perversi disegni, e avete lasciato cadere l’altra parte, la
più importante. Io ho tentato d’insegnarvi che la ragione è una scala che conduce l’anima verso il
Cielo, non che è una scala sospesa sul vuoto e che non serve a nulla, se non a contraddire se stessa.
Ma la spirito di contraddizione, che è il vostro signore e padrone, vi ha suggerito di fare quest’uso
della vostra ragione, per gloriarvi della vostra finezza logica: ha fatto leva sulla vostra superbia
intellettuale, e voi vi siete caduti fin dall’inizio. Non avete capito che la ragione, se è un dono
inestimabile di Dio, comporta anche una immensa responsabilità: quella del suo retto uso. Voi
l’adoperate come uno strumento per scardinare l’edificio della verità; essa invece è stata data
all’uomo perché si inginocchi davanti a Colui che, nella sua perfezione, conosce tutti i pensieri e
guida le anime di buona volontà verso la loro destinazione naturale, il Bene. Ma a voi non importa
né del bene, né del vero; a voi importa solo della vostra gloria: volete divenire famosi per aver
fatto la grande scoperta, che nessuno può affermare la verità. Siete anime perse, e che Iddio abbia
pietà di voi, getti un poco di luce nelle tenebre della vostra superbia e vi faccia trovare le vie della
conversione; per intanto, uscite da quest’aula. Oggi voi negate che questa mela si possa definire
una mela; domani negherete ogni criterio di verità; e alla fine negherete anche Colui che
garantisce l’esistenza della verità, perché è la Verità stessa: Dio.

Ma ora torniamo al presente e domandiamoci di nuovo: se la vita è una guerra fra il bene e il male, e
noi, ciascuno di noi, nella sua vita, pensa, parla e agisce in un certo modo, non è forse vero che
combatte, pur non sapendolo, o per il bene, o per il male? Limitiamoci, per ragioni di brevità e di
semplicità, ai discorsi: quante parole diciamo nel corso della nostra vita! Ebbene, a chi parliamo,
quando non stiamo parlando con Dio? Secondo logica, se non si fa nulla che sia per il bene o per il
male, chi non parla con Dio, sta parlando col Diavolo, ispirato dal Diavolo, nell’interesse del
Diavolo. Vi sembra esagerata, una simile affermazione? Sa di medioevo? No, spiacenti: sa di
cristianesimo; il cristianesimo è questo: o prendere, o lasciare. Certo, i cristiani “moderni” trovano
che questo linguaggio sia troppo duro; ma la verità è che non esistono cristiani moderni o non
moderni; esiste il cristianesimo, ed esiste chi ha fede in Gesù Cristo; oppure si è fuori del
cristianesimo. Ascoltiamo quel che ha detto Lui stesso (Mt 5,37): Sia invece il vostro parlare sì, sì;
no, no; il di più viene dal maligno. È chiaro il concetto? Quel che non viene da Dio, viene dal
Diavolo: e non è un modo di dire, perché Gesù non parlava per modi di dire, ma è una espressione
precisa, da prendere con estrema serietà, in tutto il suo significato. Anche Léon Bloy e anche
Giovanni Papini erano di questo avviso: loro, dei cristiani che si trovavano a vivere nella modernità,
ma non erano cristiani moderni, erano cristiani e basta, o almeno cercavano di esserlo,
coerentemente e lealmente. Ecco cosa scriveva Papini nel suo libro Il diavolo. Appunti per una
futura diabologia (Firenze, Vallecchi, 1954, p. 197-199):

“Quand nous ne parlons pas à Dieu ou pour Dieu, c’est au Diable que nous parlons, et il nous
écoute dans un formidabile silence…”.
Queste parole furono scritte da Léon Bloy e non potevano essere scritte che dal “Pélerin de
l’Absolu”. Sono terribilmente vere. Per il cristiano non v’è che una sola essenza e una sola
esistenza: quella di Dio, di Colui che è. Non si può dunque parlare che a Lui o intorno a Lui o al
servizio di Lui. Ogni altro discorso, ogni discorso che non abbia per tema il Creatore e la sua
Creazione e la sua Redenzione, non può essere che un discorso su ciò che si contrappone a Dio,
cioè sul Male e sul Principe del Male. V’è chi parla sul nulla e intorno al nulla – il che avviene, più

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spesso che non si crede, agli oratori politici e ai ciarlatori metafisici – ma il Nulla è, in definitiva,
uno dei nomi del Demonio in quanto esso è lo spirito che nega e la forza che distrugge.
Questa paurosa verità illumina di paurosa luce la vita dei nostri tempi. Vu sono ancora, in tutte le
parti del mondo, dei sacerdoti che parlano di Dio, dei solitari che cercano di unirsi a Dio, degli
infelici che si rivolgono a Dio. Ma sono, a paragone della massa parlante, come alcioni sperduti
sopra un oceano furioso e muggente. I discorsi degli uomini – nelle case, nelle piazze, nei
parlamenti, nei teatri, nelle scuole, nei giornali – sono di tutt’altra materia e natura. Si parla
universalmente di affari e di piaceri, di denaro da guadagnare e da spendere, di macchine e di
tariffe, di stipendi e di dividendi, di armi e di guerre, di mezzi per vincere lo spazio e di mezzi per
distruggere ciò che esiste. Si discorre per ingannare le donne e per ingannare i popoli, per
accrescere la propria fortuna o la propria potenza, per placare i rivali o per minacciare i nemici,
per far ridere gli oziosi o per incantare i raffinati. Le parole umane, pronunciate o stampate,
collaborano ai fini più comuni degli uomini moderni: godere e possedere, sopraffare e sopprimere.
Bloy, dunque, ha ragione. Tutti questi discorsi sono, in realtà, discorsi intorno al Male, discorsi
rivolti al Diavolo o che si riferiscono al Diavolo, anche se il suo nome non è mai pronunciato dai
suoi inconsapevoli servitori. E Satana ascolta questi innumerevoli, ripetuti, quotidiani discorsi in
silenzio. Che cosa, infatti, potrebbe rispondere? Gli uomini parlano il suo linguaggio, parafrasano
i suoi principi, obbediscono ai suoi voleri. Il Diavolo non ha nulla da dire, nulla da replicare.
Hanno imparato bene la sua lezione, si occupano di lui e soltanto di lui, anche senza nominarlo. Il
Diavolo ascolta in silenzio, per non turbare la disciplina dei suoi allievi: la sua ora di parlare
verrà.

Osiamo affermare che quell’ora è venuta: ora il Diavolo è uscito dal suo silenzio e si è messo a
parlare. Parla per bocca dei teologi, dei cardinali e dei vescovi; parla per bocca di sacerdoti, frati e
suore; parla per bocca di catechisti, insegnanti di religiose, diaconi e semplici fedeli: tutti insieme a
dire cose che fanno piacere a lui solo, ma non possono assolutamente piacere a Dio. Si mostrano
possibilisti sull’aborto, l’eutanasia, le unioni omosessuali: e come potrebbero piacere simili discorsi
al Dio del Vangelo? Viceversa, piacciono al principe del mondo: è lui che parla, per mezzo dei suoi
ventriloqui. I cattolici “moderni”, che invocano sempre un non meglio precisato “spirito conciliare”,
cioè un cattolicesimo fatto a loro misura, manipolato e adulterato secondo i loro desideri, per
scusare le loro debolezze e giustificare i loro peccati, tutti costoro non sono che i miseri ventriloqui
del Diavolo. Sì, lo sappiamo: questo linguaggio è troppo duro, pare quello di Savonarola. Perfino
parlare del Diavolo è diventato inopportuno: né mancano gli eccellenti corifei del signore argentino,
come Sosa Abascal, il generale dei gesuiti, che dicono chiaro e tondo, e lo dicono ad un giornale
mondano, non in certo in chiesa, che il Diavolo non esiste, non è mai esistito, è solo un’allegoria del
male. Lo dicono così, bel bello, bruciando duemila anni di Magistero e, soprattutto, contraddicendo
frontalmente i Vangeli, nei quali si parla del Diavolo, eccome, e lo si vede a tu per tu con Gesù
Cristo. Tutta la vita di Gesù è stata una lotta contro il Diavolo; o meglio, una lotta del Diavolo
contro di Lui. Ha cercato di farlo morire nella culla, ispirando a Erode la strage degli innocenti; lo
ha tentato nel deserto, lo ha esortato al suicidio, ha provato in ogni modo a distoglierlo, a sviarlo;
poi è entrato nel cuore di uno dei dodici, e lo ha spinto a tradire il Maestro; era acquattato nell’orto
degli ulivi per indurlo alla disperazione, ed era lì, anche lui, ai piedi della croce, a godersi lo
spettacolo della Passione e a spiare se per caso Gesù, nell’ora suprema, avrebbe rinnegato il Padre
celeste, o se avrebbe maledetto i suoi aguzzini. Invece Gesù disse: Padre, perdona loro, perché non
sanno quello che fanno; e poi, prima di spirare: Padre, nelle tua mani rimetto il mio Spirito. Gesù
ha sconfitto il Diavolo; ma ora il Diavolo si sta prendendo la rivincita sugli apostati del Vangelo,
seminando false dottrine nel clero infedele, spingendo le anime nella confusione, nel turbamento e
nell’angoscia. Sta seminando di scandali la Chiesa, sta sospingendo monsignori e sacerdoti nelle
braccia della lussuria, li spinge a violentare i seminaristi, i giovani preti, le parrocchiane bisognose
di consiglio. Trionfa delle loro debolezze, e, quel che è peggio, li induce a dichiarare che il peccato
è abolito, che non c’è più, che Dio ci vuole tutti liberi e felici. Liberi e felici, sì: anche di dannarci?

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