Professional Documents
Culture Documents
Ebbe inizio allora quell’incrinatura intellettuale del mondo cattolico che portò più tardi alla
spaccatura partitica e all’inincidenza del pensiero cristiano nella società. Ma era nella logica delle
cose, una volta che la decisione e la guida dell’azione fossero lasciate a chi pensava e viveva da
marxista. A formare il suo pensiero e a determinare l’azione del marxista è una visione della storia
che non si concilia con la Rivelazione, e il cristiano che l’accetta non può che adattare ad essa anche
la Rivelazione. Lo stare in mezzo o volere mantenere con tale visione la Rivelazione é un’illusione,
un’ingenuità: è cercare un equilibrio impossibile, un ridursi all’irrilevanza e all’immobilismo. Come
poi è avvenuto. La ‘praxis’ è incisiva ed efficace nei fatti, e ogni critica e obiezione non possono che
apparire indecisione, non-volontà o boicottaggio. Ultimo esempio: il governo Prodi. Dove
l’insignificanza dei cattolici è apparsa completa, al di là dei proclami e dei programmi.
Ma c’era chi considerava questa ‘insignificanza politica’ un dato storico da accettare, senza tragedie,
perchè irreversibile. Era l’idea della Lega democratica, che il suo rappresentante di spicco, Pietro
Scoppola, espose nel libro del 1986 “La nuova cristianità perduta” - ed. Studium. Del Noce ne
contestò l’assunto, dal punto di vista cristiano, nell’articolo “Cristianità o precipizio” uscito su “Il
Sabato” del 26.7.86, criticando pure un editoriale della rivista dei gesuiti “Civiltà Cattolica”,
intitolato “Il futuro del Cristianesimo”, riecheggiante la stessa tesi e apparso il 7.6.86. (Cfr. A. Del
Noce: “Cristianità e laicità”, pp.93-99, ed.Giuffrè, 1998).
La posizione di Rodano però andava oltre. Non solo era da tollerare o da accettare, l’insignificanza
cattolica in politica era da perseguire. E restò tetragono in questa posizione nonostante la scomunica
di Pio XII, -nella quale Rodano rimase alcuni lustri- discutendo e scrivendo di continuo a progettare
l’incontro tra comunismo e cattolicesimo: il comunismo, il cattolico lo doveva abbracciare non
«nonostante» egli fosse un cattolico ma proprio «perché» cattolico. Era così convinto di questo che
non esitò a criticare anche la prima enciclica di Giovanni Paolo II, la “Redemptor hominis”, perché
non collimava con quella teologia -il molinismo- chiamata a dare il crisma teologico al suo progetto.
Del Noce prese sul serio Rodano, e all’inizio fu tentato di seguirlo, -tanto è accattivante la praxis
marxista- pur non vedendo in lui garanzie filosofiche. Ne trattò dettagliatamente nel 1972 nella
rivista diretta da Renzo de Felice “Storia contemporanea” con il saggio “Genesi e significato della
prima sinistra cattolica italiana postfascista”, poi pubblicato nel volume collettivo “Modernismo,
fascismo e comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici del ‘900” (Il
Mulino). Venne infine ripreso in forma più estesa e approfondita nel 1980 nel suo libro “Il cattolico
comunista” - Rusconi. (Dove si può trovare, alle pp. 154-163, anche la puntuale caratterizzazione del
pensiero e della posizione di Dossetti.)
In Rodano l’illusione circa il marxismo, viene corroborata e nascosta dalla posizione teologica
accennata. Cresciuto tra i gesuiti, egli rimase ‘segnato’ dalla teologia-filosofia ufficiale della
Compagnia, il molinismo: la forma di tomismo che dal ‘500 -con Suarez e Molino- fu la concezione
teologica più aperta nel confronti della natura umana, tanto da rasentare il pelagianesimo. Insistendo
sul principio ortodosso ‘gratia supponit naturam’ spingeva la sufficienza e l’autonomia della natura e
della volontà umane a un punto tale da compromettere la supremazia e l’indispensabilità della grazia.
Rodano, per evitare i compromessi che vedeva nella Chiesa lungo la storia, indicò nella politica
quell’autonomia umana che garantiva l’innesto genuino della grazia nell’uomo. Nella dottrina di
Marx vedeva l’espressione della schietta scienza politica, campo esclusivo della ragione, che non
ammetteva interferenze della rivelazione e di chi la rappresentava. Solo così, a suo dire, si evitava un
nuovo scontro tra fede e scienza, come nel caso Galileo. Per questo i pronunciamenti della Chiesa in
politica non lo lasciavano indifferente. In un campo esclusivamente razionale la fede non deve
entrare. Ed è la fede ad esigerlo, in quanto ‘gratia supponit, non perficit naturam’.
Che dire? Mi pare che in Rodano ci sia, oltre all’abbaglio sulla natura della praxis marxista,
un’astrattezza e una miopia. La prima è propria dell’intellettuale cui sfugge la concretezza della vita,
non avvertendo l’imprescindibilità dell’autorità ai fini dell’armonizzazione delle pluralità che
compongono la società. Lo spazio alla libertà di pensiero e alla decisione della coscienza -anche
dello studioso- non può spingersi fino a pretendere sempre l’ultima parola, in barba alle autorità
legittime, su cose di fondo e strutturali. Chi vive in una comunità e ne usufruisce dei servizi che gli
permettono vita e azione, deve accettare, finché resta in essa, che l’autorità legittima possa decidere
ciò che è essenziale per i componenti che intendono vivere in essa. Questo nella società umana.
Riguardo a quella cristiana, come è possibile essere seguaci di Cristo, ignorando la Scrittura che
‘expressis verbis’ (Lc.10,16) recita: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me”?
Almeno sulle cose di fondo, chiamate a decidere sono le autorità poste da Cristo. E quelle che
Rodano contestò, prima a Pio XII e poi a Giovanni Paolo II, non erano bruscoli! (9.10.09)
Terza parte
Del Noce parla da filosofo e trattando di teologia, non lo fa che per la parte che riguarda la ‘ragione’,
implicata -come è noto- nel lavoro di penetrazione e di comprensione della Rivelazione,
caratteristica proprio della teologia, in quanto ‘fides quaerens intellectum’.
Si sa quanto si è discusso nel secolo scorso sulla possibilità di una filosofia specificamente cristiana.
Del Noce ne traccia la storia, ancora poco e male conosciuta, in un saggio del 1980: AA.VV.,
“Esistenza, mito, ermeneutica” in “Archivio di Filosofia” Cedam, Padova, intitolato “Gilson e
Chestov”. Illuminante anche un suo intervento al VIII Congresso Tomistico Internazionale
“S.Tommaso nella storia del pensiero”, Editrice Vaticana 1982, dal titolo “Fede e filosofia secondo
Etienne Gilson”. Con la conclusione che non solo è legittima una ‘filosofia cristiana’ ma addirittura
necessaria, per il cristiano, come struttura di fondo conseguente ai concetti della Rivelazione,
secondo quanto auspicato da papa Leone XIII nel 1879 con l’enciclica “Aeterni Patris”.
Lasciando da parte la questione se una filosofia, chiamata a fornire i ‘praeambula fidei’, fosse
davvero obbligata a prescindere dalla Rivelazione, fermiamoci a considerare quanto Del Noce dice
sull’andazzo di certa teologia del post-Vaticano II, che nelle sue elucubrazioni non solo non parte
dalla Rivelazione, ma ne subordina l’interpretazione a visioni storico-filosofiche esclusivamente
razionali.
Del Noce non parla genericamente di ‘teologia della secolarizzazione’, ma fa anche i nomi di teologi
e ne analizza i pensieri. Li considera spesso in ritardo o datati nelle loro argomentazioni e in
posizione subalterna a laicisti e marxisti. Ciò non poteva che essere preoccupante, dato che il
pensiero cattolico doveva far fronte -lo diceva nel 1975- alla ‘crisi più grande che il cattolicesimo, e
vorrei dire il cristianesimo, abbia attraversato’ (A. Del Noce, “La riscoperta del tomismo in Etienne
Gilson e il suo significato presente” in id. “Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanera” (a cura
di Santorsola) Studium, Roma, p.33).
E su questo si trovava d’accordo con Paolo VI che, nello stesso periodo, parlando con lo filosofo
Guitton, constatava che lo stesso episcopato non avvertiva l’entrata di un pensiero ‘non-cattolico’
nella Chiesa.
La debolezza e l’impreparazione del pensiero cattolico, Del Noce le faceva risalire ad una carenza
storico-filosofica, che, per quanto riguarda i teologi, dipendeva -a suo parere- da un complesso
formatosi in loro nel periodo della formazione.
Uno dei teologi chiamati in causa con nome e cognome è don Italo Mancini, commentandone -il
13.10.69- un libro, inserito nella collana della Vallecchi denominata “I nuovi padri”. Il Mancini
presentava Bonhoeffer, come ‘teologo della Resistenza’ (A. Del Noce, “Vecchie novità teologiche”
in “Europa” n. 33, 13.10.69, p.44-45 ora in Id., “Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione” Giuffré,
Milano 1993, p. 49-52).
Dopo averne riconosciuta la “accuratezza e partecipazione all’argomento” (Ibidem, 49) -si parlava
della sessualità-, Del Noce esprimeva la sua sorpresa per la conclusione a cui il Mancini arrivava.
Questi aveva citato le seguenti frasi del teologo tedesco: “è nell’essenza del piacere stesso di alterarsi
se sottoposto a uno scopo”, “il senso della vita corporea non è mai esaurito nella sua finalità, ma
soltanto quando la rivendicazione e la gioia che gli è inerente è soddisfatta”. E concludeva: “la
rigorizzazione della vita pratica alla luce di questo principio, può avere conseguenze incalcolabili”,
tutte positive -secondo Mancini- al punto che si dovrebbe “lodare Dio per la liberalizzazione dagli
inceppamenti delle norme astratte delle remore legalistiche” (Ibd.50).
Del Noce sembra non credere ai propri occhi, al punto da domandarsi se “i mezzi di comunicazione”
su cui “i nuovi teologi” si informano non vadano rivisti, arrivando essi a “dare come notizie fresche
informazioni che risalgono a trent’anni fa” (Ibd.49). Talmente all’oscuro -il Mancini- dell’effettiva
situazione della ‘morale corrente’ da doverci proprio chiedere “se ancora non gliene sia pervenuta
notizia”. Difatti “quel che è a conoscenza di tutti resta misteriosamente ignoto soltanto ai nuovi
teologi”, riducendosi così a tanti don Chisciotte intenti a “battagliare contro un avversario invisibile
a tutti” (Ibd.51).
Per Del Noce le citazioni di Bonhoeffer sono fuori luogo. “Perfettamente valide… di fronte al
nazismo”, a proposito di un “fariseismo che riduceva l’etica religiosa alla pratica di virtù private”,
non però applicabili alla morale odierna. Le conclusioni di Mancini non sono pertitenti e risultano
poi perniciose per l’ambiente diverso in cui vanno a cadere, quando “si è tanto lontani dall’intendere
la sessualità come semplice mezzo di trasmetter la vita, che si è passati alle unioni di gruppo” (Ibd.
50-51).
Il Bonhoeffer, per i ‘nuovi teologi’, è uno dei ‘nuovi padri’ del ‘cristianesimo del nostro tempo’. Su
di lui, ‘teologo della Resistenza’, rimbalzano i riflessi deformanti di quella interpretazione
demonologica del fascismo, che non ha nulla a che vedere con il fascismo storico.
Lo svarione di Mancini sulla sessualità, discende da uno stravedere la storia, oggi molto diffuso,
sintonizzato sulla concezione laico-marxista. Ad essa i cattolici si accodano, per un complesso di
inferiorità, lasciando la concezione loro propria, creatasi, come le altre, come contraccolpo alla
Rivoluzione francese. Nel secondo dopoguerra, sulle forze partigiane, avvenne che “ad un’unità di
fatto” che aveva raccolto tutti coloro che “non volevano essere oppressi dalla Germania nazista”, si
sovrapponesse “in molti un’interpretazione chiaramente mitica; quella di una ‘unità ideale’ che
avrebbe accompagnato tutte le forze della resistenza in modo che esse avrebbero dovuto trasformarsi
profondamente per potersi conciliare: perciò un nuovo cristianesimo, un nuovo comunismo…”. Al
primo ci pensarono i nuovi teologi.
Mentre “l’indirizzo recente della storiografia migliore è quello di intendere storicamente fascismo e
nazismo, senza abbandonare affatto il giudizio di riprovazione morale, ma scartando quella veduta
‘demonologia’ che è il correlato dell’interpretazione mitica” (Ibd. 51), i nuovi teologi, “dalla veduta
mitica della Resistenza procedono coerentemente a qualcosa che rassomiglia a un dogma, illustrato
da un nuovo padre”, il Bonhoeffer, appunto. “I nuovi teologi muovono agli antichi l’accusa di
procedere… sacralizzando un particolare ordine storico… Ma essi procedono esattamente allo stesso
modo, anche se sacralizzando l’avvenire e demonizzando il passato… Le loro informazioni sono
ferme a un quarto di secolo fa” e “senza loro colpa, sono terribilmente conformisti rispetto al mondo
d’oggi” (Ibd.52).
Su una materia di delicatezza estrema, e mentre si sta diffondendo un pensiero libertino, certo non in
modo diffuso come avverrà in seguito, ma già ben presente alla fine degli anni ’60, non può non
sorprendere che non si tenga presente quanto scritto da altri sull’argomento; di quanto in particolare
il Del Noce disse nella conferenza: “Interpretazione filosofica del surrealismo” tenuta a Roma nel
1964 e pubblicata in “Rivista di estetica” nel 1965. Considerazioni che il Del Noce veniva
esponendo da tempo fin dal suo primo libro fondamentale “Il problema dell’Ateismo” e ripresentate
in AA.VV. “Via libera alla pornografia” Vallecchi 1970 con il saggio: “L’Erotismo alla conquista
della società”, pp. 11-48.
Ma oltre alla pornografia, che Del Noce vede dai nuovi teologi declassata a solo fatto di costume e
non come una vera contro-cultura (una rivoluzione atea più devastante di quella marxista), egli
affronta anche il pensiero politico dei teologi della secolarizzazione.
Essi incominciarono con il proposito di rivitalizzare il tomismo. I neo-tomisti pensavano che, come
S.Tommaso, “si trovò davanti a quella che sembrava la macchina di guerra del pensiero irreligioso,
l’aristotelismo, e la cristianizzò”, così bisognava continuarlo anche oggi nello sforzo di recupero del
pensiero moderno. Essere fedeli a lui significava “integrare alla verità del tomismo… quella di Kant
e dell’idealismo … di Heidegger… Feuerbach, Marx, Freud, gli analisti del linguaggio…” (“La
riscoperta del tomismo in Etienne Gilson e il suo significato presente”, p.33).
Tale tendenza ebbe un avversario fermissimo in Etienne Gilson, lo storico cattolico del pensiero
medievale, che la giudicò un’assurdità, un vero ‘ferro-di-legno’. Tanto che nel 1947 in un’analisi
“del cartesiano-tomismo o del kantismo-tomismo… a cui ci si abbandona in certi ambienti scolastici
contemporanei” suscitando “inquietudini” per i disordini che possono conseguire a tali “concordismi
filosofici”, arriva a dire che per capire a fondo tale fenomeno è costretto a fare “un saggio di
teratologia metafisica, il cui oggetto principale è chiarire il normale alla luce del patologico” (Ibd.
32). L’evocazione di mostri da parte di uno dei massimi storici del pensiero scolastico colpisce in
pieno anche l’opera di Karl Rahner, “il cui pensiero si basa sulle tesi del più rigoroso rielaboratore
del realismo critico, il Marechal” (Ibd.35), tendente a conciliare Kant col tomismo. Opera che un
altro studioso, tomista come Gilson, il religioso friulano Cornelio Fabro, criticò nei 2 volumi,
pubblicati da Rusconi nel 1974 “Svolta antropologica di K. Ranher” e “Avventura della teologia
progressista”. (1)
La ‘teologia politica’ ha caratterizzato tanta parte del pensiero teologico del dopo concilio. E fu il
discepolo prediletto del Rahner, J.B. Metz che ne trasse le estreme conclusioni, pubblicando il libro
“Sulla teologia del mondo” (1968) dedicato proprio al maestro e tradotto in Italia dalla Queriniana
nel 1969. Del Noce ne fa una dettagliata analisi nel saggio “Teologia della secolarizzazione e
filosofia”, sul volume collettivo del 1974 dedicato a “La filosofia della storia della filosofia. I suoi
nuovi aspetti” (pp. 125-167), a cura della rivista “Archivio di Filosofia”, Le sue 40 pagine, ci fanno
passare tra i meandri di una delle filosofie idealiste più astratte e astruse, come l’attualismo di
Giovanni Gentile. Giacchè è proprio lì, nell’idealismo del filosofo del fascismo, che va a finire -e
coerentemente secondo Del Noce- tutta la ricerca e l’esposizione teologica del discepolo di Rahner,
nella sua pretesa di configurare un cristianesimo all’altezza dei tempi moderni.
Quella di Metz, ricorda Del Noce, è una “teologia dopo Marx”: “Questa formula -teologia dopo
Marx- apertamente professata dai teologi della secolarizzazione può anche servire a definire la
situazione storica dell’attualismo di Gentile. Se molte sono le vie della sua ricostruzione, è anche
certo che lo si può ricomporre nella totalità delle sue tesi a partire dalla critica che egli ha svolto del
marxismo nella sua opera giovanile… Ma dove si può vedere la maggiore coerenza, nella teologia
della secolarizzazione o nell’attualismo? O addirittura, la teologia della secolarizzazione non sarebbe
che una brutta copia, ‘post litteram’ dell’attualismo?... La stessa svolta è al principio così della
filosofia di Gentile come nel pensiero dei nuovi teologi: così l’uno come gli altri muovono dall’aver
accolto tutte le negazioni pronunciate dal Marx filosofo; e poiché da Gentile furono commentate
nella sua fondazione filosofica prima, e dai nuovi teologi invece a rivoluzione già avvenuta e dopo
che il suo esito è quanto meno discutibile, non meraviglia neppure l’idea della brutta copia” (“La
filosofia della storia della filosofia. I suoi nuovi aspetti”, p.153-4).
“Nell’opera del più notevole dei discepoli… del più stretto discepolo del Rahner”, J.B. Metz, c’è il
“processo della nuova teologia… verso l’incontro con l’attualismo” -l’idealismo solipsistico
gentiliano- fino a trovare “in questa forma di filosofia la sua coerenza” (“La riscoperta del tomismo
in Etienne Gilson e il suo significato presente”, p.33). Nel libro di Metz “Sulla teologia del mondo”,
Del Noce vede riprodotta quella teologia di Gentile, che mira a non voler “ristabilire il culto del Dio
vivente, se non dopo aver accettato la morte di quel Dio che Feuerbach, Marx, Freud, ecc. hanno
negato” (Ibd.34). Infatti “l’oltrepassamento del marxismo coincide per Gentile… con la nuova
teologia cristiana, anzi cattolica, che è insieme l’acme del modernismo ‘il Cristianesimo dopo la
filosofia moderna’, e perciò in diritto di criticare le altre forme di modernismo: “La teologia dei
teologi non ha mai parlato di Dio -dice Gentile- poiché i teologi non hanno mai conosciuto Dio,
avendolo sempre presupposto, scambiandolo con la sua ombra… Io ho questa presunzione che non si
possa oggi essere cristiani profondamente, con l’animo sgombro dalle difficoltà che a una
concezione spiritualistica della vita sono via via sorte in seno alla riflessione filosofica e che questa
ha via via eliminato, senza battere la via aperta dall’attualismo”. In Gentile c’è la convinzione che
“con la sua filosofia, Dio è per la prima volta veramente affermato come Persona e che l’esigenza
della trascendenza di Dio vi trova pienamente soddisfazione, perché veramente distinta dalla
trascendenza della natura” (Ibd.39).
La “teologia dopo Marx” “caratterizza la teologia del nuovo modernismo”, quella teologia del
neomodernismo religioso che caratterizzò il pensiero teologico del dopo-concilio. “A suo
fondamento vi è una interpretazione della storia contemporanea, passivamente accettata piuttosto che
pensata, ma tuttavia determinante il contenuto del pensiero, in modo tale che da essa tutte le sue tesi
essenziali possono venir ridedotte. Il Del Noce spulcia dall’opera del Metz una serie di espressioni
che ne testimoniano la deviazione. L’irreversibile “svolta epocale” che medierebbe il passaggio dal
“mondo divinizzato al mondo ominizzato” non è rappresentata da altro che dalla rivoluzione
marxista, (Marx prende il posto di Cristo, lo spartiacque storico costituito dall’incarnazione é
sostituito dalla rivoluzione marxista) come guidata dall’idea del progetto del “passaggio dalla
contemplazione alla trasformazione del mondo”, dalla filosofia speculativa alla filosofia della prassi;
a tale rivoluzione, risultato dei secoli dell’età moderna, deve corrispondere una rivoluzione nella
teologia” (Ibd. 40). Nel “passaggio dalla veduta cosmocentrica all’antropocentrica” viene ripetuta la
“prospettiva storica di Gentile” nella “ricerca di interpretare la fede in una maniera che corrisponda
alla situazione storica del pensiero” determinatasi “grazie al cristianesimo, anche se non è stata
riconosciuta, o è stata osteggiata dal cristianesimo ufficiale” (Ibd.42). Nella “veduta
antropocentrica”, come esperienza del mondo nell’orizzonte della libertà creatrice dell’uomo e della
mondanizzazione connessa a questa consegna del mondo alla libertà umana”, Metz afferma “la
necessità di ripensare l’intera teologia… onde l’uomo non più soggetto, ma creatore del ‘nuovo
mondo’ - il primato categoriale del futuro e l’impegno per esso e non per il sovramondo - ‘la
pienezza che non sta sopra di noi’ ma ‘davanti a noi’ - il futuro che importa l’idea di un novum
assoluto, tale da non ridursi semplicemente a prolungamento evolutivo - l’abbandono della filosofia
speculativa centrata sul primato della contemplazione (e della subordinazione della pratica a un
ordine oggettivo e sovrapersonale…) e filosofia del primato del divenire (dell’azione, della prassi) -
la critica radicale della metafisica come caratterizzata dall’occultamento essenziale del futuro, della
storia (del non-ancora-ente), del ‘nuovo’ - anzi, persino retrocessione “di una distinzione di cui
facciamo un uso esagerato: la distinzione fra naturale e soprannaturale” (Ibd. 41).
L’elenco delle espressioni tra parentesi, fatto da Del Noce è più che sufficiente a mostrare la
deviazione della ‘nuova teologia’ nel passaggio dalla filosofia dell’essere a quella del divenire, dalla
contemplazione alla prassi. E il confluire oggettivo e coerente della teologia di Metz, in quella forma
estrema e solipsistica di idealismo che è l’attualismo di Gentile, è il perché di quei ‘disordini di
concordismo’ operati dai nuovi teologi, che giustificavano ‘l’inquietudine’ del Gilson.
Del teologo brasiliano Leonardo Boff non viene indicato il nome nell’articolo del 14.9.84 su “Il
Tempo”, ma è il suo pensiero che Del Noce analizza, prendendo lo spunto dall’intervento della
Congregazione per la dottrina della fede sulle “deviazioni ideologiche che si sono prodotte in forma
di pensiero che hanno monopolizzato il titolo di «teologia della Liberazione»… Su quella confusione
intellettuale capace di conseguenze perniciose sul piano religioso come sul sociale” (A. Del Noce,
“La condanna della teologia della liberazione” in id., “Pensiero della Chiesa e filosofia
contemporea”, cit. p. 126). Ignorando che nel marxismo ci sono degli “a priori ideologici presupposti
alla lettura della realtà sociale” che “la predeterminano”, i teologi della liberazione, finiscono per
accettare tali presupposti. E “per le loro abitudini intellettuali di teologi, piuttosto che di economisti,
finiscono con l’essere attratti soprattutto da tali aspetti” (Ibd. 127). Non vedono la gravità che “posto
il valore supremo in una rivoluzione che si attua attraverso la lotta di classe, l’idea di una verità
trascendente perde di significato, perché il pensiero è sempre pensiero di classe, e la verità, piuttosto
che essere, ‘si fa’, nel corso della lotta della classe rivoluzionaria. Ugualmente va per il carattere
trascendente della distinzione fra bene e male: l’etica viene totalmente dissolta nell’azione
rivoluzionaria… Dio viene identificato con la storia intesa come processo di auto-redenzione
dell’uomo mediante la lotta di classe”. Non si accorgono che “il senso di tutte le verità teologiche e
di tutte le pratiche liturgiche risulta trasfigurato: la fede diventa ‘fedeltà alla storia’, la speranza
‘fiducia nel futuro’, la carità ‘opzione per i poveri’, identificati col proletariato; l’Eucarestia
‘celebrazione del popolo in lotta’… Ogni affermazione della fede e della teologia viene subordinata
a un criterio politico… I teologi della liberazione sostituiscono l’ortoprassi all’ortodossia; col che
intendono elevare la prassi rivoluzionaria a criterio della verità teologica” (Ibd. 127-128). Alla
nozione scritturale del povero viene sostituita quella marxista del proletariato… La miseria del
povero è un male, un ingiustizia, la violazione del diritto a un minimo per la sussistenza… a cui si
deve porre rimedio; la miseria del proletariato è invece… una forza rivoluzionaria capace di creare
una nuova società… Di qui l’assoluto disprezzo di questi teologi per la dottrina sociale cristiana”
(Ibd. 128).
Ne segue così per questi teologi che “quella che voleva essere integrazione del marxismo nel
pensiero cristiano si rovescia nell’itinerario della conversione del cristianesimo al marxismo”. Sono
conseguenze da attribuire non si sa se a illusioni, o a ingenuità o a superficialità o a ignoranza. “Che
cattolici –così Del Noce nel 1977- che non hanno dedicato al lavoro intellettuale la loro professione
possano cadere in inganno e venir tratti a simpatie per il comunismo, è comprensibile; non lo è che
nel loro errore trovino incoraggiamento da parte di coloro che, come intellettuali, avrebbero il
compito di illuminare le coscienze. Il tema del «tradimento dei chierici», titolo di una fortunata opera
pubblicata mezzo secolo fa da Julien Benda, ritorna”. E continuava: “Che sia esistito, in un passato
abbastanza recente, un pensiero cattolico piuttosto acritico perché deformava le posizioni che
intendeva combattere, è vero; che esista oggi un pensiero cattolico maggiormente acritico nel suo
tentativo di benedire o battezzare le idee che non soltanto sono state presentate come avverse, ma lo
sono, è ugualmente vero. Non è detto che le deformazioni a sinistra… siano più valide delle
deformazioni a destra” (A. Del Noce, “Gramsci e la Religione” in “Rassegna di teologia” -
marzo.aprile, 1977, p. 106-107).
(1) Ho trovato in un libro appena apparso -settembre 2009- una serie di testi di K.Rahner riguardanti
l’intera dottrina del Cristianesimo. Già nell’immediato post Concilio mi ero affrettato ad acquistare
anch’io gli scritti che le Ed. Paoline venivano pubblicando nella traduzione fatta dai gesuiti di
Napoli. Non ne lessi molti, frenato forse anche da Padre Cornelio Fabro, che nel 1974 fece una
severa critica di Rahner in due libri, contestandogli la pretesa di muoversi “sotto l’egida di
S.Tommaso”. “Ma purtroppo non fu ascoltato”, scrive l’autore del recente libro, ma aggiunge, secco:
“Tutti i nodi vengono al pettine. E si sta avvicinando la resa dei conti”. Come sono in due Convegni,
nel 2007, uno in Roma a cura della Società Internazionale Tommaso d’Aquino, e l’altro a Firenze,
organizzato dai Francescani dell’Immacolata, col titolo: “Karl Rahner, un’analisi critica. La figura,
l’opera e la ricezione teologica di Karl Rahner”, Si fa strada la convinzione -per quanto possa
apparire sorprendente- che a Rahner il titolo di teologo stia proprio un po’ stretto. Forse gli si addice
di più quello di filosofo, sulla scia di Kant, Hegel e Heidegger, come del resto egli stesso si vantava
di seguire. (Vedi anche su “Avvenire” del 5.11.09 il servizio: “Concilio tradito? Disputa su Rahner”
con pareri discordanti dei teologi Rosino Gibellini, Piero Coda e Antonio Livi)
Non posso, perciò, che rallegrarmi di non essermi avventurato troppo in un autore tanto alla moda
quanto fuorviante. Allora Rahner era portato sugli scudi, e la rivista “Concilium”, a cui mi ero
abbonato, ne era un po’ la cassa di risonanza internazionale. Riviste e Centri culturali ne
propagavano la visione, specie quello di Bologna fondato da Dossetti; dal quale venne, a supporto
alla nuova mentalità, una storia del Vaticano II in più volumi. Nella «teologia trascendentale» del
Rahner la Tradizione e la Scrittura non vi entrano che in seconda battuta. La Rivelazione e la Chiesa
vi hanno al massimo la funzione di esplicitare o di portare a coscienza quello che, in modo implicito
e avviato, c’è già nella dimensione naturale del mondo e della storia. Di sopranaturale non ha senso
parlare. Rahner ebbe un grande numero di seguaci e la larga diffusione del suo pensiero -
inefficacemente contrastato mi pare da chi di dovere- determinò lo ‘sfarinamento’ dei concetti
cristiani fondamentali. Servendosi di termini ortodossi egli ha fatto bypassare significati nuovi e
sfuggenti (si stenta, davvero, a credere che parole e ragionamenti usate siano quelle di un navigato
teologo, finché non si leggono, nero su bianco, in giudizi che non fanno che ripetere, sia pur in forma
più articolata e colta, opinioni di un fedele comune, da cui non ci si può attendere precisione e rigore.
E da questo ‘sfarinamento’ di idee non potè che derivare uno sbandamento generale: quello
verificatosi all’interno della Chiesa, oltre all’insignificanza dei Cristiani nell’ambito sociale.