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André Breton

Antologia dello hu: 11 tour nero


Nuovi Coralli 18 6
Titolo originale Anthologie de Vhumour noir

Copyright © 1966 Jean-Jacques Pauvert éditeur, Paris

Copyright © 1970 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino


Le traduzioni dei brani compresi in questa antologia sono di Mariella Rossetti e
Ippolito Simonis, salvo alcuni casi che il lettore troverà espressamente indicati

Prima edizione in «Einaudi Letteratura», 1970


Seconda edizione, 1971
Prima edizione nei «Nuovi Coralli», 1977
André Breton
Antologia dello humour nero

A cura di Mariella Rossetti e Ippolito Simonis

Einaudi
L ’edizione attuale, riveduta, aggiunge a quella prece­
dente qualche correzione di scarso rilievo. Deliberatamen­
te non è stata aumentata, anche a rischio di deludere Pat-
tesa di qualche lettore. Nel corso di questi ultimi anni l’au­
tore ha avuto indubbiamente l ’occasione di veder sorge­
re, nella prospettiva iniziale di quest’opera, alcune nuo­
ve figure che richiederebbero di essere poste nella mede­
sima luce. In particolare ha dovuto resistere alla tentazio­
ne di inserirvi Oscar Panizza, Georges Darien, G . I. Gur-
djieff (quale lo rivela il suo magistrale Eveil du penserypo­
sto a introduzione dei Récits de Belzébuth à son petit-fils),
Eugène Ionesco, Joyce Mansour, ma vi ha rinunciato per
evidenti ragioni. Questo libro, pubblicato per la prima
volta nel 1939 e ristampato, con alcune aggiunte, nel
1947, ha segnato, cosi com’è, un’epoca. Basti ricordare che
quando esso fu stampato le parole «humour nero» non
facevano significato (quando non suggerivano addirittura
una forma di umorismo tipica dei «negri»! ). Solo da allo­
ra questa espressione è entrata nel dizionario: sappiamo
quale fortuna ha avuto la nozione di humour nero. Tutto
sta ad indicare che essa continua ad essere in piena effer­
vescenza, e che si diffonde tanto per via orale (le storie del
tipo «macabro») quanto attraverso l’espressione plastica
(specialmente a livello di disegno in certi settimanali) e
il cinema (almeno quando si pone ai margini della produ­
zione commerciale). Proprio il fatto che la presente opera
6 PREM ESSA

resti in presa diretta sulPepoca attuale non meno che su


quella precedente, induce a non permettere che la si possa
assimilare ad un qualsiasi annuario da tenere costantemen­
te aggiornato e le impedisce infine di assumere un aspetto
di derisorio libro d ’oro che contrasterebbe radicalmente
con la sua destinazione originaria. Si consideri dunque
questo volume l’edizione definitiva de\¥Antologia dell*hu­
mour nero.

Parigi, 16 maggio 1966.


Parafulmine

La prefazione potrebbe avere per titolo: il parafulmine


LICHTENBERG
«Perché si abbia comicità, cioè emanazione, esplosione,
liberazione del comico - dice Baudelaire - occorre...»
Emanazione, esplosione: è sorprendente trovare il me­
desimo accostamento di queste due parole in Rimbaud, e
proprio in una delle sue poesie piu ricche di humour nero
(si tratta, in effetti, dell’ultima poesia di Rimbaud che ci
sia giunta, in cui «Pespressione burlesca e smarrita in som­
mo grado» risorge, condensata al massimo, altissima, dagli
sforzi che hanno avuto come scopo prima la sua afferma­
zione, poi la sua negazione):
Rêve
On a faim dans la chambrée,
C'est v r a i.............................
Emanations, explosions,
Un génie: Je suis le gruère! \

Incontro, reminiscenza involontaria, citazione? Biso­


gnerebbe, per poter risolvere il problema, che l ’esegesi di
questa poesia, la piu difficile della lingua francese, fosse
stata condotta a fondo, mentre questo lavoro non è stato
nemmeno iniziato. Una simile coincidenza verbale non è
per questo già di per sé meno significativa. Rivela, nei
due poeti, una stessa preoccupazione delle condizioni per1

1 [Sogno : Hanno fame nella camerata, È vero... [ Emanazioni, espio-


sioni, | Un genio: Io sono il gniviera! |
IO ANDRÉ BRETON

cosi dire atmosferiche nelle quali può verificarsi tra gli


uomini il misterioso scambio del piacere umoristico; scam­
bio cui, da un secolo e mezzo, si attribuisce un valore cre­
scente, che oggi tende a farne la base dell’unico commer­
cio intellettuale di gran lusso. Diventa sempre piu lecito
pensare, viste le esigenze specifiche della sensibilità mo­
derna, che le opere poetiche, artistiche, scientifiche, i si­
stemi filosofici e sociali privi di questa specie di humour,
lascino molto a desiderare e che siano condannati a perire
più o meno rapidamente. Infatti non si tratta solo di un
titolo in maggiore ascesa rispetto agli altri, ma di un titolo
capace per giunta di assoggettarseli tutti, fino a impedire
a un buon numero di essi di essere ancora universalmente
quotati in borsa. Abbiamo a che fare con un soggetto scot­
tante, avanziamo su un terreno infuocato, abbiamo di vol­
ta in volta tutto il vento della passione favorevole o con­
trario, dal momento in cui pensiamo di sollevare il velo
su quelPhumour di cui riusciamo tuttavia, con immensa
soddisfazione, a individuare i prodotti evidenti nella lette­
ratura, nell’arte e nella vita. Abbiamo infatti la sensazione
più o meno chiara dell’esistenza di una gerarchia il cui gra­
do più alto sarebbe conferito all’uomo dal possesso inte­
grale dell’humour: proprio in questa stessa misura ci sfug­
ge e ci sfuggirà senz’altro a lungo ogni definizione globale
delPhumour, e ciò in virtù del principio per cui « l’uomo
tende per natura a deificare ciò che si colloca al limite del­
la sua comprensione». Allo stesso modo che «la grande
iniziazione, quella cui giunsero soltanto alcuni spiriti pri­
vilegiati, come ultimo postulato della Grande-Scienza, ar­
riva appena a far capire come si possa cogliere la Divinità
tramite la ragione» 1 (la Grande-Cabala, riduzione sul pia­
no terrestre della Grande-Scienza, è tenuta gelosamente
segreta dai grandi iniziati), cosi non si può nemmeno pen-1

1 armand petitjean , Imagination et réalisation, Denoel et Steele,


1936.
PREFAZIONE II

sare di spiegare Phumour e di servirsene a fini didattici.


Sarebbe come voler trarre dal suicidio una morale della
vita. «Non vi è niente, è stato detto, che un humour intel­
ligente non possa risolvere in uno scoppio di risa, neppure
il Nulla..., il riso, in quanto una delle piu sontuose prodi­
galità delPuomo, e anche la dissolutezza, sono sulle spon­
de del nulla, ci danno il nulla in garanzia» \ Si può imma­
ginare quali risorse Phumour sarebbe in grado di trarre,
segnatamente, dalla sua definizione stessa e soprattutto
da questa definizione.

Date queste premesse, non c’è da stupirsi se le nume­


rose inchieste sulPhumour nero hanno dato, fino ad oggi,
i più modesti risultati. Ecco la risposta di Paul Valéry a
una di esse, d ’altronde molto mal condotta, sulla rivista
«Aventure» nel novembre 1921: «La parola humour è
intraducibile. Se non lo fosse, i francesi non la userebbe­
ro. Ma la usano proprio a causa dell’indeterminatezza che
le attribuiscono, e che ne fa una parola perfettamente ap­
propriata a dimostrare che tutti i gusti sono gusti. Ogni
frase in cui questa parola è inserita ne modifica il senso;
tanto che questo stesso senso non è, a rigore, che l ’insie­
me statistico di tutte le frasi che la contengono e che po­
tranno contenerla». Questo partito preso di assoluta reti­
cenza è tuttavia, in fin dei conti, sempre preferibile alla
prolissità di Aragon che, nel Traité du style> sembra vo­
lersi assumere il compito di esaurire l ’argomento (come an­
negare un pesce); ma l ’humour non gli ha perdonato e, in
seguito, lo ha piantato in asso nel modo più radicale ed
esemplare: «Vorreste le altre parti anatomiche dell’hu-
mour? Ebbene! Signore? prendete la mano alzata per
chiedere l’autorizzazione di parlare e avrete la chioma. G li
occhi due cialde per gelato. Le orecchie padiglioni di cac-1

1 p ie r r e piOBB, Les mystères des D ieux. Vénus, Daragon, 1909.


12 ANDRÉ BRETON

eia. Il destro chiamato simmetria rappresenta il palazzo di


giustizia, il sinistro è il braccio di un monco dal braccio
destro. È ciò che manca alle minestre, alle galline, alle or­
chestre sinfoniche. A l contrario, non manca ai lastricatori,
agli ascensori, ai gibus... L ’hanno segnalato nella batteria
da cucina, ha fatto un’apparizione nel cattivo gusto, d ’in­
verno alloggia nella moda... Dove corre? A ll’effetto otti­
co. La sua casa? Il Petit Saint-Thomas. I suoi autori pre­
feriti? Un certo Binet-Valmer. Il suo debole? I crepuscoli
quando son come uova al tegamino. Non sdegna la nota
seria. Assomiglia molto, tutto sommato, al mirino sul fu­
cile», ecc. Buon compito da liceale primo della classe, che
si è proposto questo tema come un altro qualsiasi, e che
ha delPhumour una visione soltanto esteriore. Tutta que­
sta fumisteria non è altro, ancora una volta, che un modo
di rifiutare Postacolo. Raramente si è andati tanto vicino
al nocciolo del problema quanto con Leon Pierre-Quint
che, nella sua opera Le comte de Lautréamont et D ieu,
presenta l ’humour come un modo di affermare al di là del­
la «rivolta assoluta dell’adolescenza e della rivolta inte­
riore dell’età adulta», una rivolta superiore dello spirito.

Perché vi sia humour... il problema rimane aperto. Tut­


tavia, si può dire che l’humour ha fatto un decisivo passo
avanti nel campo della conoscenza, quando Hegel giunse
alla concezione di uno humour oggettivo. « L ’arte romanti­
ca - egli dice - aveva per principio fondamentale la con­
centrazione dell’anima in se stessa, che, non trovando una
rispondenza perfetta tra il mondo reale e la sua natura in­
tima, restava indifferente di fronte ad esso. Questo con­
trasto si è sviluppato nel periodo dell’arte romantica, al
punto che noi abbiamo visto l’interesse fissarsi ora sugli
accadimenti del mondo esterno, ora sui capricci della per­
sonalità. Ma adesso, se questo interesse giunge a far si che
lo spirito si assorba nella contemplazione esteriore e, nel­
PREFAZIONE 13
lo stesso tempo, a far si che l ’humour, pur conservando il
suo carattere soggettivo e riflesso, si lasci cattivare dal-
Voggetto e dalla sua forma reale, noi otteniamo in questa
compenetrazione intima uno humour in certo qual modo
oggettivo». D ’altra parte1 noi abbiamo annunciato che la
sfinge nera dell’humour oggettivo non poteva non incon­
trare, sulla strada scintillante, la strada dell’avvenire, la
sfinge bianca del caso oggettivo, e che ogni successiva crea­
zione umana sarebbe stata il risultato del loro amplesso.

Osserviamo di passaggio che la gerarchia stabilita da


Hegel per le varie arti (la poesia, in quanto sola arte uni­
versale, prevale su tutte le altre e, in quanto unica a poter
rappresentare le situazioni successive della vita, regola il
loro passo sul proprio) è sufficiente a spiegare come la spe­
cie di humour che ci interessa abbia fatto la sua comparsa
in poesia molto prima, ad esempio, che in pittura. Infatti
l ’intento satirico, moralistico, esercita su quasi tutte le
opere pittoriche del passato, che potrebbero in qualche
modo richiamarsi a questo humour, un’influenza degra­
dante, e le mette in condizione di cadere nella caricatura.
T u tt’al più si sarebbe tentati di fare un’eccezione per una
parte delle opere di Hogarth e di Goya, e di non pronun­
ciarsi rispetto a qualche altra dove l’humour si lascia più
che altro intravvedere, dove lo si può soltanto ipotizzare,
come nella quasi totalità dell’opera pittorica di Seurat. Ma
il trionfo dell’humour allo stato puro e manifesto pare do­
versi situare, sul piano delle arti plastiche, molto più vi­
cino a noi nel tempo, e può riconoscere come suo primo e
geniale artefice l’artista messicano José Guadalupe Posada
che, in mirabili incisioni su legno di carattere popolare, ci
fa partecipi di tutti i sommovimenti della rivoluzione del

1 Position politique du surréalisme , 1935: Position surrealiste de


l’objet.
14 ANDRÉ BRETON

1910 (unitamente a queste composizioni bisognerebbe in­


terrogare, su ciò che può essere il passaggio dell’humour
dalla speculazione pura all’azione, le ombre di Villa e di
Fierro, tanto piu il Messico, coi suoi splendidi giocattoli
funebri, si afferma come la terra di elezione delPhumour
nero). Dopo di allora Phumour si è comportato in pittura
come un vincitore in un paese conquistato. La sua erba
nera non ha smesso di crepitare dovunque è passato il ca­
vallo di Max Ernst, La mariée du vent\ N ell’ambito del
libro, non esiste nulla a questo proposito di piu completo
e di piu esemplare dei suoi tre romanzi a collages: La fem­
me 100 têtes, Rêve d'une petite fille qui voulut entrer au
Carmel, Une semaine de bonté ou les sept éléments ca­
pitaux.

Il cinema, nella misura in cui non solo rappresenta, co­


me la poesia, le situazioni successive della vita, ma preten­
de inoltre di render conto del loro concatenarsi, e nella
misura in cui, per suscitare emozioni, è condannato a pro­
pendere verso soluzioni estreme, doveva incontrare Phu­
mour quasi di primo acchito. Le prime commedie di Mack
Sennett e certi film di Chaplin (Chariot evaso, Il pellegri­
no) gli indimenticabili Fatty e Picratt stanno a capo della
linea che col massimo rigore sfocerà in quelle nevi sciolte
al sole di mezzanotte che sono One Million Dollar Legs e
Animal Crackers e in quelle escursioni in piena grotta
mentale, tanto di Fingai che di Pozzuoli, che sono Le
chien andalou e L'âge d'or di Bunuel e Dali, passando per
Entr'acte di Picabia.

« Sarebbe ora — dice Freud — di familiarizzarsi con cer­


te caratteristiche delPhumour. L ’humour non solo ha qual-1

1 [Les mariées du vent è il titolo di alcuni quadri di Max Ernst negli


anni 1926-27].
PREFAZIONE 1 5

cosa di liberatorio, analogamente allo “ spiritoso ” e al co­


mico, ma ha inoltre qualcosa di sublime e di elevato, aspet­
ti che non si ritrovano in quegli altri due modi di acquisi­
zione del piacere attraverso un'attività intellettuale. Il su­
blime dipende evidentemente dal trionfo del narcisismo,
dairinvulnerabilità dell'io che si afferma vittorioso. L'io
rifiuta di lasciarsi scalfire, di lasciarsi imporre la sofferenza
dalla realtà esterna, si rifiuta di ammettere che i traumi del
mondo esterno possano toccarlo; anzi dimostra che que­
sti stessi traumi possono diventare per lui occasioni di pia­
cere». Freud ne dà un esempio grossolano ma sufficiente:
il condannato a morte, trascinato al patibolo un lunedi,
che esclama: «Ecco una settimana che comincia bene!»
Sappiamo che al termine dell'analisi da lui condotta sul-
l'humour, Freud ha dichiarato di riconoscere in esso un
modo del pensiero che tende a risparmiare il dispendio re­
so necessario dal dolore. «Noi attribuiamo a questo tenue
piacere - senza troppo saperne il perché - un grande va­
lore, lo sentiamo come particolarmente adatto a liberarci
e ad esaltarci». Secondo lui il segreto dell'atteggiamento
umoristico risiederebbe nell’estrema possibilità che certe
persone hanno, in caso di grave allarme, di spostare l'ac­
cento psichico dall'io al super-io, considerando geneti­
camente quest'ultimo come l'erede dell'istanza parentale
(«tiene spesso l'io sotto una severa tutela, continuando a
trattarlo come una volta i genitori, o il padre, trattavano
il loro figlio»). Ci è parso interessante confrontare con
questa tesi un certo numero di atteggiamenti particolari
che rientrano nell'ambito dell'humour e un certo numero
di testi dove questo humour è stato portato, dal punto di
vista letterario, al suo piu alto livello di espressione. Fa­
cendo salve le riserve che occorre formulare a proposito
della distinzione forzatamente artificiale tra esy io e su­
per-io impiegata da Freud, abbiamo pensato di poterci va­
lere, per maggiore comodità, nel nostro esposto, della ter­
minologia freudiana, allo scopo di poter ridurre gli atteg­
16 ANDRÉ BRETON

giamenti e i testi in questione a un unico comun denomi­


natore.

Non ci difenderemo dall'accusa di grande parzialità nel­


la scelta dei testi, tant'è vero che un simile atteggiamento
ci pare l'unico idoneo per un compito di tale fatta. Il timo­
re più grande, l'unico motivo di rammarico, potrebbe esse­
re tutt'al piu il non esserci dimostrati abbastanza difficili.
Per prendere parte al torneo nero dell'humour, bisogna
infatti aver superato numerose prove eliminatorie. L'hu-
mour nero è limitato da troppe cose, quali la stupidità, l'i­
ronia scettica, la facezia senza peso... (enumerarle tutte
sarebbe lungo) ma è soprattutto il nemico mortale di quel
sentimentalismo dall'aria eternamente braccata — quel sen­
timentalismo sempre all'acqua di rose — e di una certa fan­
tasia di corto respiro, che troppo spesso si spaccia per poe­
sia, che insiste inutilmente nel voler sottoporre lo spirito
ai suoi artifici caduchi, e che non potrà ancora piu a lungo
levare verso il sole, confusa tra gli altri mille steli di papa­
veri, il suo collo mercenario di gru coronata.I

I 939-
Antologia dello humour nero
Jonathan Swift
1665-1745

Tutto concorre a designarlo come il vero iniziatore dell’hu-


mour nero. In effetti, non è possibile, prima di Swift, tracciare un
qualsiasi coordinamento delle fuggevoli manifestazioni di tale hu­
mour, che pure sono presenti per esempio in Eraclito o nei cinici o
nell’opera dei poeti drammatici inglesi del ciclo elisabettiano. L ’in­
discutibile originalità di Swift, l ’assoluta coerenza della sua produ­
zione, quando la si considera sotto l’angolo visuale dell’emozione
specialissima e quasi senza precedenti che ci procura, e il carattere
insuperabile, sempre da questo punto di vista, dei piu svariati esiti
della sua opera, giustificano storicamente la precedenza che in que­
sta sede gli si vuol dare. Il fatto è che, nonostante il giudizio di Vol­
taire, egli non ha niente del «Rabelais perfezionato». Di quest’ulti­
mo non condivide per nulla il gusto della battuta ingenua e greve, e
il costante buonumore da stomaco sazio; a Voltaire poi l ’oppone to­
talmente il diverso modo di reagire allo spettacolo della vita, come
testimoniano in maniera cosi esplicita i tratti dei loro visi: l ’uno in
preda a un perpetuo sogghigno, proprio dell’uomo che ha colto le
cose con la ragione e mai col sentimento e che si è chiuso nello scet­
ticismo, l ’altro invece impassibile, glaciale, il volto dell’uomo che le
ha affrontate nell’opposta disposizione mentale, e ne è senza tregua
indignato. Si è fatto notare che Swift «provoca il riso ma senza par­
teciparvi»* è precisamente a questo prezzo che l ’humour, nel sen­
so in cui noi lo intendiamo, può esteriorizzare l ’elemento sublime,
che secondo Freud gli è inerente, e trascendere le forme del comi­
co. Ancora a questo titolo, Swift può a buon diritto essere conside­
rato l’inventore della facezia feroce e funebre. La sua singolarissi­
ma forma mentale gli ha ispirato una serie di apologhi e di rifles­
sioni come la Filosofia dei vestiti e la Meditazione su un manico di
scopa, che partecipano in misura sconvolgente dello spirito piu mo­
derno, e che bastano a far si che non vi sia forse opera meno logo­
rata dal tempo.
20 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Pare che gli occhi di Swift fossero cosi cangianti da passare dal
celeste al nero, dal candido al terribile. Questa instabilità si accor­
da a meraviglia con il suo modo di sentire: «Ho sempre detestato
tutte le nazioni, le professioni, le comunità, non posso amare che
degli individui. Aborro e odio soprattutto queir animale che porta
il nome di uomo, mentre amo con tutto il mio cuore Giovanni, Pie­
tro, Tommaso, ecc.». Disprezza piu di ogni altro il genere umano, e
tuttavia è assillato da un bisogno frenetico di giustizia. Fa la spola
fra i palazzi di Dublino e la sua piccola canonica di Laracor, ansioso
di comprendere se è destinato a coltivare i suoi salici e a godersi i
guizzi delle sue trote, o invece a occuparsi degli affari di stato. Qua­
si suo malgrado, se ne occupa a piu riprese, nel modo più attivo ed
efficace. «Quest’irlandese - è stato detto - che si considera come un
esiliato nella sua terra, non riesce a fissare altrove la sua residenza;
quest’irlandese, sempre pronto a dir male dellTrlanda, mette a re­
pentaglio per essa i suoi beni, la sua libertà, la vita, e la salva, per
quasi un secolo, dalla schiavitù di cui lTnghilterra la minaccia».
D ’altra parte questo misogino, l ’autore della Lettera a una giovane
sul suo matrimonio, è destinato nella vita alle peggiori complicazio­
ni sentimentali. Tre donne, Varina, Stella e Vanessa, si contendono
il suo amore e, se rompe in termini insultanti con la prima, è con­
dannato a vedere le altre due straziarsi a vicenda e morire senza
avergli accordato il loro perdono. Questo ecclesiastico è l ’uomo cui
una d’esse scrive: «Se fossi molto pia, tu saresti il Dio che adore­
rei». Da un capo all’altro della sua vita, solo la sua misantropia non
incontra alcun correttivo e non trova smentita negli avvenimenti.
Un giorno, indicando un albero colpito dal fulmine, aveva detto;
«Io sono come quell’albero, comincerò a morire dalla cima». Come
se si fosse augurato di giungere a «quel livello di felicità sublime
che si chiama facoltà di essere ben ingannato, alla condizione pla­
cida e serena che consiste nell’essere un pazzo tra i furfanti», nel
1736 si vede precipitare in un intorpidimento intellettuale, di cui
potrà osservare i progressi, con atroce lucidità, durante dieci anni.
Lascia in eredità diecimila sterline per la creazione di un ospedale
per alienati.
JONATHAN SWIFT 21

IS T R U Z IO N I P E R I D O M E S T IC I

I padroni e le padrone di solito brontolano con i ser­


vitori perché non si chiudono la porta alle spalle; ma né
i padroni né le signore considerano che quelle porte devo­
no essere aperte prima di poter essere chiuse, e che la fa­
tica di aprirle e chiuderle è doppia; perciò la soluzione mi­
gliore, la più rapida e la più spicciativa è di non fare nes­
suna delle due cose; ma, se non vi danno pace al punto di
non potervene scordare, allora datele, alla porta, una tale
sbatacchiata neiruscire da far tremare tutta la stanza e far
crepitare tutto quello che c’è dentro, cosi rammenterete
al vostro padrone e alla signora che vi attenete ai loro co­
mandi.
Se vi accorgete che state entrando nelle grazie del vo­
stro padrone o della signora, cogliete qualche occasione
per dar loro molto educatamente il preavviso. E quando
ve ne chiederanno la ragione, e sembreranno dispiaciuti
di perdervi, rispondete che preferireste stare con loro piut­
tosto che con qualunque altro padrone, ma che non si può
far colpa a un povero servitore se cerca di migliorare la
propria condizione; che il servizio non è una eredità; che
avete un compito faticoso mentre il salario è molto mode­
sto. Se ha un briciolo di generosità, il padrone vi aumen­
terà la paga di cinque o dieci scellini al trimestre piutto­
sto che lasciarvi andare; ma, se non ne cavate niente e non
avete intenzione di andarvene, fategli dire da qualche al­
tro servitore che lui vi ha persuaso a restare.
Qualunque bocconcino riusciate a sgraffignare di gior­
no, tenetevelo da parte per far baldoria con i vostri colle­
ghi la sera, e invitate anche il maggiordomo, a patto che
tiri fuori da bere.
22 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Scrivete il vostro nome e quello della vostra amorosa


con fumo di candela sul soffitto della cucina o della stan­
za da pranzo della servitù per dimostrare che siete istruito.
Se siete un giovanotto ben portante, tutte le volte che
bisbigliate qualcosa alla vostra padrona a tavola, sfioratele
la guancia col naso, o, se avete Palito sano, respiratele be­
ne in faccia; quest’abitudine so che ha prodotto eccellenti
risultati in alcune famiglie.
Non arrivate mai finché non siete stati chiamati tre o
quattro volte; perché nessuno, salvo i cani, viene al primo
fischio; quando il padrone grida «Chi c’è di là», nessun
servitore è tenuto a presentarsi; perché nessuno risponde
al nome di «Chi c’è di là».

Alcune signore delicate che hanno paura di raffreddarsi,


avendo osservato che al pianterreno le domestiche e i ser­
vitori spesso dimenticano di chiudersi la porta dietro quan­
do escono o quando entrano dal cortile, hanno trovato che
si può sistemare una puleggia e una corda con un grosso
pezzo di piombo all’estremità, in modo che la porta si chiu­
da da sé e ci voglia una mano robusta per aprirla; e questa
è una grossa fatica per i servitori, il cui lavoro può costrin­
gerli a entrare e uscire cinquanta volte in una mattinata.
Ma l ’ingegnosità può fare molto: i domestici accorti han­
no scoperto infatti un rimedio efficace contro questo in­
sopportabile disturbo, rimedio che consiste nel legare la
corda alla puleggia in modo tale che il peso del piombo non
serva a niente; comunque, per parte mia preferirei tenere
la porta sempre aperta fermandola in basso con una pesan­
te pietra.
I candelieri dei servitori in genere sono rotti, perché
niente dura in eterno. Ma voi potete ricorrere a molti espe­
dienti: potete infilare comodamente la candela in una bot­
tiglia, oppure attaccarla ai pannelli della stanza mediante
un pezzo di burro, metterla in un corno da polvere da spa-
Jonathan Swift
24 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

ro, in una vecchia scarpa, in un bastone spaccato, nella


canna d’una pistola, oppure fissarla col suo stesso grasso
su un tavolo, o cacciarla in una tazza da caffè, in un bic­
chiere, in un barattolo di corno, una teiera, un tovagliolo
attorcigliato, un vaso di mostarda, un calamaio, un osso-
buco, un pezzo di pasta; altrimenti potete fare un buco in
una pagnotta di pane e ficcarcela dentro.
Quando la sera invitate in casa, a far bisboccia con voi,
i servitori dei vicini, insegnategli un modo particolare di
picchiettare o di grattare contro i vetri della finestra di cu­
cina, in modo da udire voi e non il vostro padrone o la pa­
drona, che dovete stare attenti a non disturbare o spaven­
tare in ore cosi inopportune.
Date la colpa di tutto al cagnolino, al gatto preferito,
alla scimmia, al pappagallo, alla pica, al bambino o all’ul-
timo servitore che è stato licenziato. Seguendo questa re­
gola, vi scuserete senza far torto a nessuno, e risparmiere­
te al vostro padrone o alla signora il disturbo e l ’irritazio-
ne della sgridata.
Quando vi mancano gli strumenti adatti per un lavoro
che state facendo, ricorrete a qualsiasi espediente vi riesca
di escogitare piuttosto che lasciare l ’opera incompiuta. Per
esempio, se Pattizzatoio non è al suo posto o è rotto, attiz­
zate il fuoco con le molle; se le molle non sono a portata
di mano, usate la punta del soffietto, l ’estremità opposta
della paletta per il fuoco, oppure il manico della spazzola
del caminetto, o della scopa o la canna da passeggio del
vostro padrone. Se avete bisogno di carta per strinare un
pollo, strappate il primo libro che vi capita a tiro. Pulitevi
le scarpe, in mancanza d’uno straccio, col lembo d ’una ten­
da, o con un tovagliolo damascato. Strappate i pizzi della
livrea per far vene giarrettiere. Se il maggiordomo ha bi­
sogno d’un vaso da notte, può in caso di necessità usare
la grande coppa d’argento.
V i sono diverse maniere di spegnere le candele, e voi
dovreste conoscerle tutte. Potete strusciare il lucignolo
JONATHAN SWIFT 2^

della candela accesa contro le boiseries della stanza, e cosi


la spegnete immediatamente. Potete posarla sul pavimen­
to e pestarne col piede il lucignolo; potete tenerla capo­
volta finché resta soffocata dal suo stesso grasso, o schiac­
ciarla nel bocciolo del candeliere. Potete rotearla finché
non si spegne. Quando andate a letto, dopo aver fatto ac­
qua, potete immergere la candela nelPorinale; potete spu­
tarvi sull’indice e sul pollice e poi pizzicare il lucignolo
in modo che si spenga. La cuoca può tuffare la punta della
candela nel mastello della farina, lo stalliere nel corbello
deir avena, o in un fascio di fieno o in un mucchio di stra­
me. La serva di casa può strusciare la candela su uno spec­
chio, che nulla pulisce meglio della smoccolatura d ’una
candela. Ma di tutti i modi il piu spiccio e il migliore è
quello di soffiarci sopra col fiato, che lascia la candela net­
ta e più pronta ad accendersi.

U M I L E P R O P O S T A P E R IM P E D IR E CH E I B A M B IN I
D E L L A P O V E R A G E N T E S IA N O D I P E S O
A I G E N IT O R I O A L L A N A Z IO N E ,
E P E R R E N D E R L I U T IL I A L L A C O M U N IT À

È un triste spettacolo per chi passeggia nella nostra


grande città \ o viaggia in campagna, quello che offrono le
vie, le strade e le porte dei casolari: frotte di mendicanti
di sesso femminile, circondate da tre, quattro o addirittu­
ra sei cenciosi bambini, molestano ovunque i passanti chie­
dendo l ’elemosina. Queste madri, invece di guadagnarsi
la vita onestamente, sono costrette a girovagare senza tre­
gua, questuando il sostentamento per i figlioli privi di as-1

1 Dublino.
26 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

sistenza, che una volta adulti diventeranno anch’essi ladri


per mancanza di lavoro, oppure lasceranno la diletta terra
natale per andare a combattere a favore del pretendente
in Spagna, o per vendersi nelle isole Barbados.
Tutti convengono, credo, che questo prodigioso nume­
ro di bambini, in braccio o sulle spalle o alle calcagna del­
le madri, e spesso dei padri, è, nell’attuale miserevole sta­
to del regno, un altro gravissimo malanno, e perciò chiun­
que scoprisse un metodo onesto, pratico ed economico di
fare di questi fanciulli membri sani e utili della colletti­
vità, diverrebbe cosi benemerito dei suoi concittadini che
gli si dovrebbe erigere una statua come a un salvatore del­
la nazione.
Ma la mia proposta non concerne soltanto i figli dei
mendicanti; essa è molto piu ambiziosa, e vuol provvedere
a tutti i bambini di una certa età, i cui genitori non siano
in grado di mantenerli meglio di quanto non facciano quel­
li che chiedono la carità per la strada.
Dopo aver infatti per tanti anni riflettuto su questo im­
portante problema e aver attentamente esaminato le molte
proposte che sono state avanzate al riguardo, sono arriva­
to alla conclusione che i calcoli su cui questi suggerimenti
si fondano sono grossolanamente sbagliati.
Un bambino, appena uscito dal ventre materno e per
un intero anno solare, abbisogna soltanto di latte, inte­
grato da pochi alimenti del valore di due scellini al mas­
simo (che la madre può facilmente procurarsi, in contanti
o in natura, esercitando la sua legittima professione di
mendicante). Compiuto un anno, i bambini, secondo la
mia proposta invece di esser di peso ai genitori o alle par­
rocchie e mancare poi di cibo e di abiti, per tutta la vita,
dovrebbero contribuire all’alimentazione, e in parte al ve­
stiario, di molte migliaia di cittadini.
Il mio piano presenta anche il grande vantaggio di eli­
minare gli aborti volontari e bom bile consuetudine di uc­
cidere i figli bastardi, cosi frequente, purtroppo, tra le no­
JONATHAN SWIFT 27
stre donne, che sacrificano i poveri piccoli innocenti, piu,
temo, per paura della spesa che della vergogna: cosa che
muoverebbe al pianto e alla compassione il cuore più sel­
vaggio e spietato.
Si ritiene in genere che vi siano in Irlanda un milione
e mezzo di anime. Io calcolo perciò che vi siano circa due­
centomila coppie le cui femmine sono fattrici; da questo
numero ne sottraggo trentamila che sono in grado di man­
tenere i loro figli, sebbene mi sembri improbabile che, nel­
la presente, difficile situazione del regno, esse siano cosi
numerose; supponendo però che la cifra sia esatta, riman­
gono centosettantamila fattrici. Sottraggo ancora cinquan­
tamila femmine che abortiscono o i cui figli muoiono di in­
cidenti o di malattia entro il primo anno d’età. Restano
soltanto centoventimila bambini che annualmente nasco­
no da genitori poveri; allevarli e provvedere ai loro biso­
gni è, come ho già detto, assolutamente impossibile nelle
presenti circostanze e con i metodi sinora proposti. Non
possiamo infatti trovar loro un’occupazione né come arti­
giani né come agricoltori, visto che non costruiamo case
(parlo di case in campagna) né coltiviamo la terra.
Solo eccezionalmente questi bambini, eccettuati 1 pre­
coci, possono, rubacchiando, sgranellare cibo sufficiente
prima dei sei anni. Anche se i rudimenti dell’arte — devo
ammetterlo —li apprendono molto prima, quando a rigore
non possono essere considerati che tirocinanti; almeno a
giudicare dalle informazioni che ho avuto da un noto gen­
tiluomo della contea di Cavan, il quale mi ha dichiarato di
conoscere solo un paio di casi di ladruncoli d’età inferiore
ai sei anni, perfino in quella regione del regno cosi rino­
mata per la precocità con cui si diventa esperti in questo
genere di attività.
I nostri mercanti mi assicurano che fanciulli o fanciulle
non sono merce smaltibile prima dei dodici anni, e anche
quando raggiungono questa età, non rendono più di tre
sterline, tre sterline e mezza corona al massimo, cifra che
28 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

non può ripagare i genitori o il Regno delle spese sostenu­


te per l ’alimentazione e gli stracci, che sono state almeno
quattro volte maggiori.
Esporrò ora umilmente le conclusioni cui sono giunto,
confidando che non diano luogo a obiezioni di sorta.
Un americano che ho conosciuto a Londra mi ha assicu­
rato, da buon intenditore, che un bambino d ’un anno, sano
e ben allevato, è cibo squisitissimo, nutriente e salutare
sia stufato che arrosto, al forno o bollito; e altrettanto sa­
porito deve essere - ne sono certo — in fricassea o al ragù.
Perciò umilmente sottopongo airattenzione pubblica
la seguente proposta: che ventimila dei sopracalcolati cen­
toventimila bambini siano destinati alla riproduzione, e di
questi solo un quarto maschi (percentuale superiore a quel­
la degli ovini, bovini e suini, che riserviamo a tale scopo);
e ciò perché questi bambini sono raramente frutto del ma­
trimonio, formalità di cui i nostri selvaggi non tengono
gran conto; un maschio basterà quindi a quattro femmi­
ne; propongo inoltre che i rimanenti centomila bambini,
all’età di un anno, siano offerti in vendita ai nobili e ai ric­
chi di tutto il regno, raccomandando sempre alle madri di
lasciarli poppare abbondantemente nelPultimo mese per­
ché arrivino sulla tavola ben tondi e polposi. Un bambino
sarà sufficiente per due pietanze se si hanno ospiti a cola­
zione; se invece il pasto si consuma in famiglia, il quarto
anteriore e quello posteriore formeranno delle discrete
porzioni. Condito con un po' di pepe e sale, potrà essere
servito lesso anche dopo quattro giorni, e conservarsi ot­
timo, specialmente d'inverno.
Ho calcolato che in media un bambino appena nato pe­
sa dodici libbre, e sale a ventotto in un anno solare, se con­
venientemente allevato.
Questa carne sarà alquanto cara, lo ammetto, e perciò
indicatissima per i proprietari terrieri, i quali, avendo già
divorato gran parte dei genitori, sono i più qualificati a fa­
gocitare i figli.
JONATHAN SWIFT 2 9

Una persona assai rispettabile, sinceramente devota al


paese e da me stimatissima, s’è compiaciuta ultimamente,
discorrendo della proposta, di consigliare un ulteriore per­
fezionamento. Molti signori irlandesi hanno negli ultimi
tempi distrutto i loro cervi, e il gentiluomo in questione
suggerisce di sopperire alla mancanza di selvaggina con la
carne di fanciulli e fanciulle tra i dodici e i quattordici
anni; numerosissimi essendo quelli d’ambo i sessi che, pa­
tendo in ogni paese la fame per mancanza di lavoro o di
servizio, potrebbero dai genitori, se in vita, o da altri pa­
renti, essere proficuamente venduti. Ma col dovuto rispet­
to per un cosi buon amico e un patriota tanto degno, non
posso del tutto condividere la sua opinione. I maschi infat­
ti, se devo credere a quanto afferma per diretta e ripetuta
esperienza il mio conoscente americano, sono per il molto
moto, di carne generalmente tenace e filacciosa come quel­
la dei nostri scolari, e il loro sapore è sgradevole. Ingras­
sarli non vale quindi la spesa. Quanto alle femmine, fac­
cio umilmente osservare che ucciderle sarebbe di danno al­
la comunità perché, lasciandole in vita, esse possono pre­
sto diventare a loro volta fattrici. Delle anime scrupolose
potrebbero inoltre osservare, anche se del tutto a torto,
che una simile politica rasenterebbe la crudeltà: obiezione
che infirmerebbe, a mio avviso, qualsiasi progetto, anche
se ispirato dalle migliori intenzioni.

Credo che i vantaggi di questa proposta siano evidenti,


e molti anche della massima importanza.
Anzitutto, essa comporta, come ho già osservato, una
sensibile riduzione del numero dei papisti, dai quali siamo
di anno in anno sempre più soverchiati. Essi sono infatti
i nostri più pericolosi nemici e, al tempo stesso, i princi­
pali riproduttori della nazione: se restano in patria è col
30 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

fine recondito di consegnare il regno al pretendente, ap­


profittando dell’assenza di tanti buoni protestanti, i quali
hanno preferito abbandonare il paese piuttosto che restar­
sene in patria e pagare contro coscienza le decime a un cu­
rato idolatra della Chiesa episcopale.
Secondo: i contadini più poveri disporranno in proprio
di beni di un certo valore, che saranno per legge suscet­
tibili di sequestro. Con tali beni si garantirà al padrone il
pagamento del canone fondiario anche dopo la confisca di
tutto il grano e il bestiame dei contadini: quando per loro
il denaro non sarà più che un ricordo.
Terzo: considerato che il mantenimento di centomila
bambini dai due anni in su non può essere calcolato me­
no di dieci scellini Tanno a testa, le risorse della nazione
avranno un incremento di cinquantamila sterline Tanno,
senza contare il vantaggio di un nuovo piatto che arricchi­
rà la mensa di tutte le persone facoltose e dai gusti deli­
cati; e il denaro resterà nelle nostre mani, essendo questa
merce interamente prodotta e confezionata in casa nostra.
Quarto: le fattrici a periodicità regolare, oltre al guada­
gno di otto scellini Tanno in moneta buona che ricaveran­
no dalla vendita dei figli, si libereranno dalle spese di man­
tenimento dopo il primo anno di vita.
Quinto: questa vivanda accrescerà notevolmente la
clientela delle taverne, poiché gli osti saranno certamente
cosi avveduti da procurarsi le migliori ricette per prepa­
rarla alla perfezione; e di conseguenza i loro locali saranno
frequentati da tutti i signori alla moda, i quali giustamen­
te tengono a essere reputati dei buongustai. Un abile cuo­
co, che sappia soddisfare i suoi clienti, troverà modo di
rendere il piatto quanto più costoso piacerà a lor signori.
Sesto: questa iniziativa sarebbe di grande incentivo al
matrimonio, istituto che presso tutti i popoli saggi è stato
sempre incoraggiato con premi o reso obbligatorio con leg­
gi e sanzioni. E le madri, ormai sicure della definitiva siste­
mazione che la comunità offrirebbe ai poveri piccoli, dive-
JONATHAN SWIFT 3 1

nuti fonte di guadagno invece che dì spesa, prodighereb­


bero maggiori cure e tenerezze ai loro figlioli. Presto ve­
dremmo nascere un'onesta emulazione tra le donne sposa­
te, che cercherebbero tutte di portare al mercato i bam­
bini più grassi; e gli uomini manifesterebbero alle loro
mogli, durante la gravidanza, la stessa tenera sollecitudine
che solitamente riservano alle cavalle pregne, alle vacche
che aspettano il vitellino e alle scrofe prossime a figliare;
e per timore di provocare un aborto si asterrebbero dal
picchiarle o dal prenderle a calci, come troppo spesso suc­
cede.

M E D I T A Z I O N E S U U N M A N I C O D I S C O P A lI

Il povero manico che oggi vedete ingloriosamente gia­


cere in quell'angolo dimenticato, io so che un giorno fu
fiorente in una foresta; era pieno di linfa, pieno di foglie,
pieno di rami; ma ora invano il solerte artificio dell’uomo
tenta di gareggiare con la natura, legando quel fastello di
ramoscelli secchi al suo arido tronco; nella migliore delle
ipotesi esso è ora il rovescio di quello che era un tempo,
un albero capovolto con i rami a terra e le radici per aria;
maneggiato da qualunque sudicia donnetta, e destinato a
eseguire il suo faticoso lavoro, deve, per capriccio della
sorte, far pulite le altre cose e sporcare se stesso; infine,
ridotto a un moncherino dalle serve, viene buttato fuori
dalla porta o condannato come ultimo uso ad accendere
il fuoco. Quando io mi accorsi di ciò guardai bene e dissi
fra me: certamente l’ uomo è un manico di scopa. La na­
tura lo ha creato forte e vigoroso, in floride condizioni,
con i capelli in testa, che sono rami appropriati a questo
vegetale ragionevole, finché Lascia deH’intemperanza non
32 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

gli ha tagliato via i verdi rami e non lo ha ridotto un arido


tronco. Allora egli ricorre all’arte e si mette una parrucca,
stimandosi in base a un innaturale fastello di capelli, tutto
coperto da una polvere che mai la sua testa produsse; e
adesso questo nostro manico di scopa vorrebbe comparire
in scena, orgoglioso di quelle spoglie di betulla che mai
aveva portate, e tutte coperte di polvere, sebbene spazza­
ta e raccolta dalla camera della signora piu raffinata; e noi
osiamo anche deridere e disprezzare la sua vanità, giudici
parziali come siamo delle nostre squisite virtù, e dei di­
fetti altrui.
Ma una scopa è il simbolo di un albero che sta in piedi
sulla testa: mentre un uomo che cosa è, di grazia, se non
una creatura capovolta, con le facoltà animali che conti­
nuamente scavalcano le razionali, con la testa al luogo dei
piedi, un essere che striscia in terra, e pure si erge, con
tutti i suoi difetti, a universale riformatore e correttore
degli abusi, a oppressore delle angherie; che fruga in ogni
sudicio angolo della natura, portando alla luce le corru­
zioni nascoste, e una gran polvere dove prima non c’era,
prendendo intensamente e incessantemente parte proprio
a quelle porcherie che pretende di spazzar via? I suoi ul­
timi giorni sono spesi al servizio delle donne, e general­
mente delle meno degne. Finché, ridotto al moncone, co­
me la sua sorella scopa, non sarà messo a calci fuori la por­
ta, o adoperato per accendere il fuoco, al quale altri pos­
sono scaldarsi.

P E N S IE R I SU VARI A R G O M EN TI

Se un uomo si guarda intorno mentre cammina per la


strada, troverà, credo, le facce più allegre nelle carrozze
dei funerali.
JONATHAN SWIFT 33
Venere, una bella signora di buon carattere, era la dea
dell’amore; Giunone, una terribile bisbetica, la dea del
matrimonio; e furono sempre mortali nemiche.

Apollo, dio della medicina, provocava le malattie. Si


trattava in origine di un unico mestiere. Ed è ancora og­
gi cosi.

I vecchi e le comete sono stati venerati per gli stessi


motivi: le lunghe barbe, e i pretesi presagi.

Si racconta in Pausania di un complotto per tradire la


città svelato dal raglio di un asino; lo schiamazzo delle
oche salvò il Campidoglio; e la congiura di Catilina fu sco­
perta da una prostituta. Per quanto io ricordi, questi sono
i soli tre animali rimasti famosi nella storia come delatori
e spie.

Se un uomo mi tiene a distanza, la mia consolazione è


che anche lui ci si tiene.

Eccellente osservazione, dico, quando leggo un passo


d ’un autore, dove la sua opinione va d ’accordo con la mia.
E quando io non sono d’accordo, sentenzio che lui si è
sbagliato.

Un uomo che offrisse di mostrare, per tre pence, come


si può infilare un ferro ardente in un barile di polvere da
sparo senza farlo esplodere avrebbe pochi spettatori.

Domanda : le chiese non sono dormitori per i vivi come


per i morti?

La gelosia come il fuoco può accorciare le corna, ma le


fa puzzare.
34 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Il cappello di un servo si deve togliere davanti a tutti.


Per questo, Mercurio, che era il servo di Giove, aveva ali
sul berretto.

La visione è l ’arte di vedere le cose invisibili.

Ho chiesto a un povero come viveva. Come un pezzo


di sapone: sempre diminuendo, mi disse.

Si dice dei cavalli nella Visione, che la loro forza era


nelle bocche e nelle code. Lo stesso può dirsi delle donne.

G li elefanti sono sempre disegnati più piccoli che in


natura, le pulci più grandi.

Nessuno accetta consigli, tutti accettano denaro, Quin­


di il denaro è meglio dei consigli.

A Windsor feci osservare a Lord Bolingbroke che la


torre dove abitavano le damigelle d’onore (che a quell’e­
poca non erano molto belle) era frequentata dai corvi. M i­
lord disse che ci andavano perché sentivano odore di pu­
trefazione.
D.-A.-F. de Sade
I74O-1814

Non si può pretendere di sottoporre all’ottica particolare che


ispira questa raccolta un’opera i cui molteplici orizzonti cominciano
a chiarirsi solo ai giorni nostri.
In realtà, non esiste opera piu seria, e ciò nella misura in cui, in
piena società «civile», continua a pesare su di essa il tabù di una
censura quasi totale. C ’è voluta tutta l’intuizione dei poeti per sal­
vare dalla notte senza fine cui l ’ipocrisia la votava, l’espressione di
un pensiero considerato fra tutti sovversivo, il pensiero del marche­
se de Sade, colui che Guillaume Apollinaire definì «lo spirito piu
libero che mai sia esistito». E per porre in evidenza le aspirazioni
fondamentali di questo pensiero, c’è voluta tutta la volontà che ani­
ma i veri analisti di estendere, al di là di tutti i pregiudizi, il domi­
nio della conoscenza umana: compito cui successivamente si dedi­
carono, nel 1887, con un opuscolo anonimo dal titolo La vérité sur
le Marquis de Sade, Charles Henry, futuro direttore del Laborato­
rio di fisiologia delle sensazioni alla Sorbona, all’inizio del secolo
il dottor Eugène Duehren {Le Marquis de Sade et son temps) e, dal
1912 ai giorni nostri, Maurice Heine, le cui ricerche sistematiche
rievocano una serie ininterrotta di conquiste. Grazie a Maurice
Heine la vera portata dell’opera sadiana è oggi fuori discussione:
dal punto di vista della psicologia, può considerarsi come la piu au­
tentica anticipazione dell’opera di Freud e di tutta la psicopatologia
moderna; dal punto di vista sociale tende addirittura a un risultato
sempre differito di rivoluzione in rivoluzione, cioè a fondare una
vera e propria scienza morale.
Se pensiamo che sul manoscritto dei Contes Sade volle scrivere
«non vi è racconto o romanzo in tutte le letterature europee in cui il
genere nero raggiunga una cosi alta intensità di effetti terrificanti e
patetici», restiamo meno sorpresi all’idea che egli si sia compiaciuto
di sacrificare, sia pure in modo episodico, all’humour nero.
Gli stessi eccessi dell’immaginazione cui lo trascina la sua ge-
36 A N T O L O G IA D E L L O H U M O U R N E R O

nialità naturale e lo dispongono i lunghi anni di prigionia, il folle


e orgoglioso partito preso con cui egli pone i suoi eroi, sia nel pia­
cere che nel delitto, al di sopra di ogni sazietà, la sua palese preoc­
cupazione di variare all’infinito, rendendole se non altro sempre più
complicate, le circostanze propizie al mantenimento della loro sre­
golatezza, fanno si che dal racconto scaturisca qualche passaggio di
una violenza cosi estrema e manifesta, da distendere il lettore insi­
nuandogli il sospetto che l’autore ne sia consapevole.
Per un attimo, il fantastico riprende possesso dell’opera di Sade:
il reale, il plausibile sono deliberatamente trasgrediti. Una delle
maggiori qualità poetiche di quest’opera consiste nel saper situare
l’affresco delle iniquità sociali e delle perversioni umane nella luce
fantasmagorica dei terrori infantili, correndo magari il rischio di
confondere questi e quelle, come nell’episodio dell’Orco degli Ap­
pennini, che abbiamo scelto per questa raccolta.
Ma vi sono anche altri e più validi motivi per cui Sade può con­
siderarsi l’incarnazione stessa di ciò che noi chiamiamo l’humour
nero: egli sembra aver inaugurato nella vita, d'altronde atrocemen­
te a sue spese, quel tipo di sinistra mistificazione che confina con
1’«assassinio divertente» nel senso in cui lo intenderà più tardi
Jacques Vaché. I delitti che gli valsero i primi anni di carcere furo­
no di gran lunga meno orribili di quanto è stato detto \ Quest’acca-
nito spregiatore della famiglia, questo mostro di crudeltà, è lo stes­
so uomo che per salvare i suoceri dal patibolo, come comunemente
si crede, ma soprattutto, e senza dubbio, per convincimento disin­
teressato e profondo, si schiera con coraggio durante il Terrore con­
tro la pena di morte, ed è messo in ceppi da quella stessa rivoluzio­
ne che aveva servito con entusiasmo fin dal primo giorno.
Liberato dopo il 9 termidoro, viene di nuovo arrestato nel 1803,
per aver pubblicato un libello contro il primo console e i suoi acco­
liti, e trasferito come pazzo dalla prigione all’ospedale di Bicétre,
poi all’ospizio di Charenton, dove muore.
È lecito scorgere la manifestazione d’un altissimo humour in
quest’ultimo paragrafo del suo testamento, in contraddizione stri­
dente con i ventisette anni passati in carcere per le sue idee, sotto
tre regimi e in undici prigioni, e con il fatto di essersi appellato, con
la più drammatica delle speranze, al giudizio dei posteri:
«Proibisco che il mio corpo venga sezionato, qualunque pretesto1

1 Cfr. MAURICE heine , Lfaffaire des bonbons cantharidés du Marquis


de Sade, documents inédits («Hippocrate», marzo 1933), Le Marquis de
Sade et Rose Keller ou Vaffaire d'Arcueil devant le Parlement de Paris
(«Annales de Méderine légale», marzo 1933).
D.-A.-F. DE SADE 37
possa sorgere. Domando, con la più viva insistenza, che lo si con­
servi quarantott’ore nella camera in cui morrò, dentro una bara di
legno che verrà inchiodata solo allo spirare delle quarantott’ore an-
zidette, trascorse le quali detta bara sarà inchiodata: in questo lasso
di tempo sarà spedito un espresso al signor Lenormand, mercante
di legname, Boulevard de l ’Egalité, n. io i, Versailles, per pregarlo
di venire lui stesso, con un carro, a prendere il mio corpo e a tra­
sportarlo sotto sua scorta nei boschi della mia tenuta di Malmaison,
comune di Mance, vicino a Epernon, dove voglio che venga posto
senza alcuna formalità nel primo cespuglio che si trova a destra nel
bosco ora detto, entrandoci dal lato del vecchio castello attraverso
il grande viale che lo interseca. La mia fossa sarà scavata in questo
cespuglio dal fattore della Malmaison, sotto l ’ispezione del signor
Lenormand, che non lascerà il mio corpo se non dopo averlo posto
in detta fossa: potrà farsi accompagnare a questa cerimonia, se lo
vorrà, da quei miei parenti o amici che, senza alcun fronzolo, avran
voluto darmi quest’ultima prova di attaccamento. Una volta rico­
perta la fossa, vi si semineranno sopra delle ghiande, affinché in se­
guito, quando il terreno di detta fossa sarà di nuovo erboso e il ce­
spuglio spesso com’era prima, le tracce della mia tomba scompaia­
no dalla superficie della terra, come io mi auguro che la mia memo­
ria scompaia dalla mente degli uomini.
«Fatto a Charenton-Saint-Maurice, sano di mente e di corpo, il
30 gennaio 1806.
«Firmato: D.-A.-F. Sade».

« Sade - dice Paul Eluard - ha voluto ridare all’uomo moderno


la forza dei suoi istinti primitivi, ha voluto liberare l’immaginazio­
ne amorosa dai suoi propri oggetti. Ha creduto che da ciò, e da ciò
soltanto, possa nascere la vera eguaglianza. Poiché la virtù porta in
se stessa la sua felicità, egli s’è sforzato, in nome di tutto ciò che
soffre, di abbassarla e di umiliarla, di imporle la legge suprema del­
la sventura, contro ogni illusione, contro ogni menzogna, perché
possa aiutare coloro che essa condanna a costruire sulla terra un
mondo alla misura immensa dell’uomo»1

1 Vévidence poétique.
38 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

JU L IE T T E

Abbandonata la piana vulcanica di Pietra-Mala, risalim­


mo, con un'ora di cammino, un'alta montagna sita sulla
destra, dalla cui cima ci apparvero abissi profondi oltre
duemila tese, nella direzione ove ci portava la nostra mar­
cia. Questo lato della montagna era cosparso di boschi co­
si fitti, cosi prodigiosamente folti, che a mala pena si po­
teva scorgere il cammino. Dopo una ripida discesa di circa
tre ore, giungemmo sulle sponde di un vasto stagno. Nel
mezzo di questa distesa d'acqua vi era un'isola, dove si po­
teva scorgere il torrione del castello che serviva di rifugio
alla nostra guida: le mura che lo circondavano erano cosi
alte che se ne poteva distinguere solo il tetto. Cammina­
vamo ormai da sei ore, senza aver incontrato la piu pic­
cola traccia di abitazione..., non un solo individuo era
apparso ai nostri occhi. Una barca nera come le gondole
di Venezia ci aspettava sul ciglio dello stagno. Da quel
punto potemmo osservare la raccapricciante conca in cui ci
trovavamo: da ogni lato era circondata a perdita d’occhio
da montagne, con le cime e le pendici ricoperte di pini,
larici e cerri. Era impossibile vedere uno spettacolo più
agreste e insieme piu tetro; ci pareva di essere ai confini
dell'universo. Montammo in barca: il gigante la governa­
va da solo. Trecento tese separavano ancora il castello dal
porto; arrivammo ai piedi di una porta di ferro che si
apriva nella spessa muraglia che circondava il castello; là,
ci trovammo di fronte a fossati larghi sei piedi; li attraver­
sammo su un ponte levatoio, che scomparve subito dopo il
nostro passaggio: poi un secondo muro, una seconda por­
ta di ferro, e ci trovammo in mezzo a una vegetazione cosi
folta da farci pensare che fosse impossibile proseguire. Co­
D.-A.-F. DE SADE 39
si era in realtà, poiché questo bosco di rovi non presentava
altro che spuntoni aguzzi, e non lasciava intravvedere al­
cun passaggio: esso nascondeva l'ultima cinta di mura del
castello, spessa dieci piedi. Il gigante solleva un masso tal­
mente enorme che solo lui poteva maneggiarlo: si presen­
ta ai nostri occhi una scala tortuosa: il masso si richiude e
attraverso le viscere della terra raggiungiamo (sempre nel­
le tenebre più fitte) il centro dei sotterranei del castello,
dai quali risaliamo alla superficie passando attraverso un'a­
pertura sbarrata da un altro macigno, simile a quello di cui
già abbiamo parlato. Eccoci infine in un salone dal soffitto
basso, tutto tappezzato di scheletri: gli sgabelli che vi si
trovavano erano fatti di ossa umane, e nostro malgrado do­
vemmo usare crani a guisa di sedili; ci parve di udir scatu­
rire dalla terra grida spaventose, e sapemmo ben presto
che nella volta del salone erano scavate le celle, dove ge­
mevano le vittime di quel mostro. Appena ci fummo sedu­
ti egli parlò: - Siete nelle mie mani, siete in mio potere;
posso fare di voi ciò che mi garba. Ma non abbiate timore:
vi ho visto compiere azioni tanto consone al mio modo di
pensare che vi reputo degni di conoscere e dividere con me
i piaceri di questo mio rifugio. Ascoltatemi, mentre prepa­
rano la cena ho ancora il tempo d'inf ormarvi. Sono nato
in Moscovia, in una piccola città sulle rive del Volga, mi
chiamo Minski. Alla morte di mio padre ereditai ricchezze
favolose, e la natura volle adeguare le mie facoltà fisiche
e Ì miei istinti ai doni con cui la fortuna mi aveva favorito.
Non mi sentivo fatto per vegetare nei recessi di un'oscura
provincia come quella che mi diede i natali, e mi misi a
viaggiare; l'universo intero non mi pareva abbastanza va­
sto per soddisfare la portata dei miei desideri: mi poneva
dei limiti e io non volevo averne. Sono nato libertino, em­
pio, dissoluto, sanguinario e feroce; ho percorso il mondo
solo per conoscerne i vizi, e quelli che conobbi li adottai
per perfezionarli. Cominciai con la Cina, il Mogol e la ter­
ra dei Tartari: poi tutta l'Asia; risalendo verso la Kam-
40 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

catka, sono entrato in America passando per il famoso ca­


nale di Bering. Ho percorso questa vasta parte del mondo,
fermandomi di volta in volta presso i popoli civili e quelli
selvaggi, imitando i delitti degli uni, i vizi e le atrocità de­
gli altri. Rientrato nella vostra Europa, ho dato prova di
tendenze tanto perverse che mi condannarono al rogo in
Spagna, ad essere squartato in Francia, impiccato in In­
ghilterra e mazzolato in Italia: ma le mie ricchezze mi ga­
rantirono sempre l ’impunità.
— Passai in Africa, dove compresi che ciò che voi chia­
mate, nella vostra follia, depravazione, altro non è che la
condizione naturale delPuomo, e più spesso ancora il frut­
to dell'ambiente naturale. Quei bravi figli del sole risero
di me, quando volli rimproverarli della barbarie con cui
trattavano le loro donne. E che cos’è una donna, mi rispon­
devano, se non un animale domestico che la natura ci for­
nisce per soddisfare insieme i nostri bisogni e le nostre vo­
glie. Che diritti ha per pretendere da noi qualcosa di più
degli animali da cortile. Anzi, la sola differenza, mi rispon­
devano quei popoli saggi, è che gli animali domestici pos­
sono essere meritevoli di qualche indulgenza per la loro
docilità e sottomissione, mentre le donne, con la loro in­
dole eternamente malvagia, ingannatrice, perfida, non me­
ritano che durezza e atrocità...
— ... Io ho conservato queste tendenze; gli avanzi di ca­
daveri che vedete sono i resti delle creature che divoro;
mi nutro solo di carne umana, e spero sarete soddisfatti
del banchetto che sto per offrirvi...
— ... H o due harem. Nel primo vi sono duecento bam­
bine, dai cinque ai ventanni, che io divoro dopo averle
mortificate a forza di lussuria; nel secondo duecento donne
dai venti ai trentanni: vedrete poi quale trattamento ri­
servo loro. Cinquanta servitori d ’ambo i sessi sono al ser­
vizio di questo considerevole numero di oggetti di lubri­
cità, cento agenti sparsi in tutte le grandi città del mondo
lavorano per me a scopo di reclutamento. Ebbene, col trai-
D.-A.-F. DE SADE 41

fico incredibile che tutto ciò comporta, sapete che Punico


ingresso a quest’isola consiste nella strada che avete or ora
percorso? Nessuno può immaginare quante creature pas­
sino per quel misterioso sentiero.
- Mai saranno strappati i veli che io stendo su tutto ciò.
Non è che io abbia molto da temere: siamo negli stati del
Granduca di Toscana, e tutti conoscono l’irregolarità della
mia condotta, ma il denaro che spargo a dritta e a manca
mi mette al riparo da ogni pericolo...
- . . . I mobili che vedete, —ci dice il nostro ospite, - sono
viventi: al piu piccolo cenno, si muoveranno Minski
fa un gesto, e la tavola prende ad avanzare, da un angolo
del salone fin giusto nel mezzo; cinque poltrone le si di­
spongono tutt’attorno, due lampadari scendono dal sof­
fitto fin sopra la tavola. - Questo meccanismo è semplice,
— dice il gigante, facendoci osservare da vicino la composi­
zione dei mobili. - Vedete che questa tavola, questi lam­
padari, queste poltrone sono composti da gruppi di gio­
vinette artisticamente disposte: sulle loro reni poggeremo
i piatti bollenti...
- Minski, - obiettai al nostro Moscovita, - il compito
di queste ragazze è estenuante, soprattutto se si sta a lun­
go a tavola. - Male che vada, - risponde Minski, — ne cre­
pa qualcuna, ma è una perdita che si ripara facilmente e
non vai la pena di preoccuparsene neppure per un attimo...
- ... Amici miei, —dice il nostro ospite, —vi ho avvertito
che qui non si mangia altro che carne umana; tutti i piatti
che vedete contengono simile vivanda. - Li proveremo, —
dice Sbrigani; - la ripugnanza è un’assurdità, che nasce so­
lo dalla mancanza di abitudine: tutte le carni sono fatte
per esser di sostentamento all’uomo, la natura ce le forni­
sce tutte per quest’unico scopo, e mangiare un uomo non
è più strano che mangiare un pollo —. Ciò dicendo, il mio
sposo piantò la forchetta in un quarto di bambino che gli
pareva ben cucinato e, mettendosene nel piatto almeno
due libbre, lo divorò. Io l ’imitai. Minski ci incoraggiava
42 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

e, poiché il suo appetito era pari a tutte le sue altre pas­


sioni, vuotò ben presto una dozzina di piatti.
Minski beveva quanto mangiava: era già alla trentesi­
ma bottiglia di Bourgogne quando servirono i dolci che in­
naffiò di Champagne; con la frutta ingollammo Aleatico,
Falerno e altri preziosi vini d ’Italia.

La fortuna postuma di Sade, quasi dovesse compensare, per


qualche misteriosa ragione, il folle e severo destino che accompagnò
la sua vita, consiste non soltanto nelFattirare su di lui, a cosi grande
distanza di tempo, Fattenzione degli esegeti piu degni, ma anche
nello spingere gli indagatori più dotati a scoprire nuovi preziosi fi­
loni in quel terreno fulminato - propizio a indicare dirottamenti di
vita - che è la sua opera. Dopo la morte di Maurice Heine, nel 1940,
che coincise col duecentesimo anniversario della nascita di Sade,
Gilbert Lély si assunse il compito di dargli il cambio nel nobile la­
voro: e ora, assecondato a sua volta dalla fortuna più fausta nel suo
amore e nel suo zelo, si accinge a fornirci numerose opere e docu­
menti, finora sottratti alla nostra conoscenza, alcuni dei quali get­
tano nuova luce su un aspetto, il più segreto, del marchese. L ’Aigle,
Mademoiselle, che inaugura questa serie di pubblicazioni, ci porta,
come per la prima volta, alle brucianti fonti della sua passione e ci
permette, sul piano umano, di risalire fino al suo principio origina­
rio. Nello smarrimento di questo istante, di cui la lettera che qui
riproduciamo segna il parossismo, vedremo che Fhumour reclama
la parte delFaquila, soprattutto nella segreta architettura di quelle
operazioni aritmetiche cui Sade attribuiva un valore di «segnali»,
operazioni che, secondo Gilbert Lély, «costituiscono una sorta di
reazione della sua psiche, una lotta inconscia contro la disperazione,
nella quale la sua ragione avrebbe potuto naufragare senza il soc­
corso di un tale diversivo».

A L L A SIG N O R A D E S A D E

Questa mattina ho ricevuto una vostra lettera lunga a


non finire. Non siate cosi prolissa, ve ne prego: pensate
ch’io non abbia altro da fare che leggere le vostre rumina-
D.-A.-F. DE SADE 43
zioni? Dovete avere del bel tempo da perdere, per scrivere
lettere di quella mole, e devo averne io per rispondervi,
non ho ragione? Tuttavia, poiché l ’oggetto di questa mia
è di grande importanza, leggetela a mente lucida e a sangue
freddo.
Ho trovato tre segnali di grande bellezza. Mi riesce im­
possibile tenerveli celati. Sono cosi sublimi da indurmi a
pensare che, leggendoli, applaudirete vostro malgrado alla
grandezza del mio genio e alla ricchezza del mio sapere.
Si potrebbe dire della vostra combriccola ciò che Piron di­
ceva dell’Académie: siete in quaranta e avete cervello per
quattro. La vostra cricca, è lo stesso: siete in sei e avete
cervello per due. Ebbene, malgrado tutto il vostro genio e
benché siano solo dodici anni che lavorate alla grande ope­
ra, son pronto a scommettere, doppio contro semplice\ se
volete, che i miei tre segnali valgono piu di tutto ciò che
avete fatto. Un momento, mi sto sbagliando, ce ne sono,
in fede mia, quattro... Va bene, sono tre o quattro, voi
sapete che il tre-quattro è di grande potenza.

i° segnale inventato da me,


Christophe de Sade12:

Il primo taglio o ferita che avrete da segnalarmi, biso­


gnerà tagliare i c... a Cadet de la Basoche (Albaret) e spe­
dirmeli in una scatola. Io aprirò la scatola, getterò un gri­
do e dirò: Ah Dio mio, ma che cos’è questo? - Jacques, il
suggeritore, che sarà là dietro, risponderà: Non è nulla,
Signore; non vedete che è un 19? - Eh no, vi dico io... -
Non per vantarmi, ne avete uno buono come questo?

1 Eh! doppio contro semplice: bella questa. V i piacerebbe averla


pensata voi? [Noia di Sade].
2 [Secondo Lély, Sade ha forse voluto paragonare sarcasticamente il
proprio supplizio con quello di Cristo].
44 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

2° segnale, dello stesso:

Quando volete segnalare il 2, il doppio, il duplicato, il


secondo te stesso, il pagare due volte, ecc. \ ecco come do­
vete comportarvi: Bisognerà sistemare in posizione in ca­
mera mia una bella creatura (il sesso non importa; ho un
po’ il carattere della vostra famiglia, io, non guardo tanto
per il sottile; e d ’altronde cane arrabbiato ecc.), bisognerà
dunque, dicevo, piazzare nella mia camera una bella crea­
tura nell’attitudine della Callipigia farnese, là, che lo met­
ta bene in mostra. Io non odio quella parte: penso, come
il presidente, trovo che è più carnosa del resto e che, di
conseguenza, per uno cui piaccia la carne, è sempre meglio
di ciò che è piatto... Entrando, dirò al suggeritore, o al sug­
gerito: Ma che è dunque quest’infamia? — (per la forma,
esclusivamente) e il suggeritore risponderà: Signore, è un
duplicato.

3° segnale,
sempre dello stesso :

Quando vorrete fare un grande arco, come quest’esta­


te, con il fulmine e il conduttore (effetto atroce, per poco
non ne muoio di convulsioni) bisognerà appiccare il fuoco
al magazzino delle polveri (è verticalmente orientato verso
la camera dove dormo): sarà un effetto sublime.

O h! ecco il più bello,


nevvero?
Per il 40 infine:

Quando (statemi bene a sentire) vorrete fare un 16 a


9, dovrete prendere due teste di morto {due, mi capite be-1

1 [Sempre secondo Lély, si tratta probabilmente di un’immagine della


sodomia eterosessuale].
D.-A.-F. DE SADE 45
ne; avrei potuto dire sei, ma, benché abbia servito nei dra­
goni, sono modesto e dico e ripeto due) e, mentre sono in
giardino, farete sistemare il tutto nella mia camera in mo­
do che, al mio rientro, trovi la decorazione bella e pronta.
Oppure mi direte che è giunto per me un pacchetto dalla
Provenza: io l’aprirò in gran fretta e sarà quello - e avrò
molta paura (perché la mia indole è estremamente timida,
devo averlo dimostrato due o tre volte in vita mia).
Ah, brava gente, brava gente! credetemi, non inventa­
te, perché per inventare cose cosi piatte, stupide e facili
da indovinare, non vai neanche la pena di darsi da fare.
Ci sono tante altre cose da fare oltre a inventare, e quando
non se ne ha la capacità, tanto vale fare scarpe o cannucce,
piuttosto che inventare in modo sciocco, goffo e stupido.

Questo 19, e partito il 22.

A proposito, speditemi la mia biancheria; e dite a quel­


li che giudicano che non è aliar mio, che loro giudicano
molto male, perché il signor Direttore di Rougemont, che
giudica benissimo, ha giudicato che la mia stufa aveva un
gran bisogno di riparazioni, e adesso le fa fare. Cosi, una
volta nella vita, se è possibile, tirate l ’aratro insieme, per­
ché, per quanto carogne siate tutti, bisogna almeno cercare
di non esserlo al punto di tirare sempre a destra quando
l’altro tira a sinistra. Tirate come il signor Direttore di
Rougemont; è un uomo di buon senso che tira sempre dal­
la parte giusta — o che si fa tirare quando non tira lui.
Il mio servo si raccomanda che ricordiate alla presiden­
tessa che gli aveva promesso di fargli fare sergente il fi­
glio, se avesse eseguito bene il segnale.
G eorg Christoph Lichtenberg
1742-99

Credere o non credere, questo dilemma non fu mai affrontato in


modo tanto geniale e patetico, quanto da un uomo estremamente
dotato, come Lichtenberg, del senso della qualità intellettuale; tale
ci appare, nelPatto di analizzare, dal proscenio di un teatro londi­
nese, la recitazione del grande Garrick nel monologo di Amleto.
«... con grande dignità, egli guarda di lato verso terra. Poi, toglien­
do il braccio destro dal mento, ma (mi ricordo benissimo) conti­
nuando a sostenerlo con il sinistro, pronuncia le parole To be or
not to be ecc., a voce bassa, ma udibile dappertutto a causa del gran
silenzio (e non per una sua dote particolare, come si legge perfino
in alcuni scritti su di lui». La voce di Lichtenberg è impostata in
modo altrettanto ammirevole, e il suo interrogativo personale sul
piano della conoscenza riesce a trarre partito nel modo piu sorpren­
dente dalla sua disgrazia fisica (era gobbo) e nello stesso tempo a
sprofondare in un silenzio senza pari destinato a crescere, a tendere
all’oblio totale fino ai giorni nostri.
Sarebbe poco piu che semplice vanità dare peso a questo silen­
zio, raramente rotto dopo la sua morte, se gli uomini che si son ri­
fatti a Lichtenberg non fossero, proprio ed esclusivamente, alcuni
di coloro con cui i posteri hanno dovuto fare i conti. Nonostante al­
cuni non disprezzabili motivi di rancore che poteva nutrire contro
di lui, ecco le parole di Goethe: «Possiamo servirci degli scritti di
Lichtenberg - afferma Goethe - come di una mirabile bacchetta da
rabdomante. Là dove egli fa uno scherzo è nascosto un problema».
Kant, verso la fine della sua vita, collocava Lichtenberg su un pie­
distallo e, sulla sua copia personale degli Aforismi, aveva sotto-
lineato in rosso e in nero diversi passaggi. Schopenhauer vede in
lui il pensatore per eccellenza, colui che pensa per se stesso e non
per gli altri. Nietzsche colloca gli Aforismi, accanto ai Colloqui di
Goethe con Eckermann, al centro del «Tesoro della prosa tedesca».
Wagner, nel 1878, crede di scoprire nella sua opera un’anticipazio­
ne del proprio pensiero. Tolstoj, nel 1804, S1 dichiara influenzato
GEORG CHRISTOPH LICHTENBERG 47
da Lichtenberg ancor più che da Kant, e si stupisce dell’ingiustizia
che la sorte postuma gli ha riservato: «Non capisco come i tedeschi
di oggi trascurino tanto questo scrittore, mentre vanno pazzi per
quello scribacchino vanesio che è Nietzsche».
La vita di Lichtenberg è ricca come quella di Swift di contraddi­
zioni appassionanti, tanto piu appassionanti in quanto concernono
in questo caso uno spirito eminentemente raziocinante. Ateo con
assoluta consapevolezza, non solo pensa che il cristianesimo sia «il
piu perfetto sistema per favorire la pace e la felicità nel mondo»,
ma gli accade anche, nello smarrimento sentimentale, di abbando­
narsi alla vita mistica degli altri, fino a «pregare con fervore». Dopo
aver scritto: «La rivoluzione francese è il risultato della filosofia,
ma quale abisso tra il cogito ergo sum e il grido di “ Alla Bastiglia! ”
che riecheggiava al Palais Royal! » e dopo aver ammesso il Terrore,
si commuove per la morte di Maria Antonietta. Malgrado il suo di­
sprezzo per l’amore alla Werther, nel 1777 si innamora di una ra­
gazzina di dodici anni: «... a partire dalla Pasqua del 1780 - scrive
sei anni dopo al pastore Amelung - restò sempre con me... Erava­
mo costantemente insieme. Quando lei era in chiesa mi sembrava
di aver mandato via con lei i miei occhi e tutti i miei sensi. - In una
parola - essa era mia moglie senza la benedizione del prete (mi scu­
si, amico carissimo, quest’espressione)... Santo Iddio, questa cele­
stiale fanciulla mi è morta il 4 agosto 1782 all’ora del tramonto».
Benché, come uomo dei «lumi», sia un avversario convinto del mo­
vimento Sturm und Drang che irrompe allora nella letteratura tede­
sca, dentro di sé è il piu entusiasta e pronto ammiratore di Jean
Paul. In lui convivono, nella piu perfetta comunione di spirito, lo
sperimentatore (professore di fisica all’Università di Gottinga e
maestro di Humboldt, ha scoperto che l’elettricità positiva e quel­
la negativa non si propagano nello stesso modo nelle materie iso­
lanti) e il sognatore (il razionalista Lichtenberg ha fatto l’elogio di
Jacob Böhme, è stato il primo a penetrare il senso profondo dell’at­
tività onirica e il meno che si possa dire è che il suo punto di vista
sull’argomento resta ancor oggi di piena attualità). Egli dev’essere
celebrato come il profeta stesso del caso, di quel caso che Max Ernst
definirà «signore dell’humour». A questo riguardo nulla è piu sin­
tomatico che vederlo dedicare le sue prime lezioni al calcolo delle
probabilità nel gioco. «Uno dei tratti piu singolari del mio carattere
è certo la strana superstizione con cui io traggo da ogni cosa una
presignificazione e in un giorno trasformo cento oggetti in altret­
tanti oracoli. Non ho bisogno di descriverlo perch’io mi capisco an­
che troppo bene. Ogni strisciare di insetto mi serve per dare delle
48 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

risposte a domande sul mio destino. Non è singolare per un profes­


sore di fisica? »
Né negare né credere... «Io mi vanto - egli dice ancora - di di­
mostrare che talvolta si crede a qualcosa e che tuttavia non ci si
crede affatto. Non vi è nulla di piu insondabile del sistema che re­
gola i moventi delle nostre azioni».
Nel cono bianco della sua famosa «candela accesa», ritroviamo
con emozione, nel pastello di Abel, il piu fine dei sorrisi, quello del
precursore in ogni campo, quasi un Paul Valéry prima maniera, de­
finitivamente riveduto e corretto da Monsieur Teste (ma Valéry
non deve nulla a Lichtenberg, se non l ’arte di numerare i quaderni).
Ecco uno dei più grandi maestri dell’humour: l’inventore di que­
sto sublime scherzo filosofico, che rappresenta, per mezzo dell’as­
surdo, il'capolavoro dialettico dell’oggetto: «Un coltello senza la­
ma cui manca il manico». Nella sua solitudine, è giunto a qualcosa
di meglio che variare, come fanno gli uomini, le posizioni dell’amo­
re: ha descritto 62 maniere di appoggiare la testa alla mano.

A F O R IS M I

Ho studiato Pipocondria, mi ci sono messo a fondo. La


mia ipocondria è in sostanza Labilità di spremere fuori da
ogni accadimento della vita, comunque si chiami, la mas­
sima quantità possibile di veleno a mio uso e consumo.

Non è la forza dello spirito ma quella del vento che ha


portato quest’uomo all’altezza del suo posto.

Era uno di quelli che vogliono fare le cose sempre me­


glio di quanto richiesto. È una qualità orribile in un servo.Il

Il grado più alto a cui possa elevarsi uno spirito medio­


cre ma dotato di esperienza è la capacità di scoprire le de­
bolezze degli uomini migliori di lui.
GEORG CHRISTOPH LICHTENBERG 49
Per rendersi ben conto di quello che l ’uomo potrebbe
fare se volesse, basta pensare alle persone che sono evase
o che avrebbero voluto evadere di prigione. Con un sem­
plice chiodo hanno fatto quanto avrebbero fatto con un
ariete.

L ’uomo ama la compagnia: anche se è solo quella di


una candela che fuma.

C ’è gente incapace di prendere una decisione se non ci


ha dormito sopra. Bene, solo che esistono dei casi in cui si
rischia di essere fatti prigionieri con tutto il letto.

Quando si è giovani si sa appena di vivere, la sensazio­


ne della salute si acquista solo attraverso la malattia. Quan­
do facciamo un salto in aria l’attrazione della terra la no­
tiamo sbattendo nella ricaduta. Entrando nella vecchiaia
lo stato di malattia diviene una specie di stato di sanità e
non ci si accorge piu di essere malati. Se non rimanesse il
ricordo del passato, si noterebbe poco il cambiamento.
Credo perciò che gli animali divengono vecchi solo ai
nostri occhi. Uno scoiattolo che nel giorno della sua morte
conduce la vita dell’ostrica non è più infelice dell’ostrica.
Ma l ’uomo che vive in tre luoghi, nel passato, nel presente
e nel futuro, può essere infelice quando uno di questi tre
luoghi non serve più a nulla. La religione ne ha aggiunto
anche un quarto, l ’eternità.

Una delle situazioni più spiacevoli è la seguente: pren­


dere delle precauzioni esagerate per prevenire un acciden­
te e fare in questo modo tutto il possibile per attirarselo;
mentre senza alcuna precauzione si sarebbe stati perfetta­
mente al sicuro. Ho visto qualcuno rompere un vaso pre­
zioso per volerlo togliere dal posto dove sarebbe stato
tranquillamente almeno altro mezzo anno, in quanto ave­
va paura che un giorno potesse essere rovesciato.
5 ° ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Crescendo, la sua biblioteca non gli stava più: cosi co­


me non sta piu bene un panciotto troppo stretto. Le biblio­
teche possono divenire in genere troppo strette o troppo
larghe rispetto alPanima.

Poiché oggi tutti scrivono libri per bambini sarebbe una


buona idea che una volta tanto un bambino scrivesse un
libro per gli adulti. Ma la cosa è difficile, se si vuole man­
tenerne il carattere.

Sarebbe cosa eccellente inventare un catechismo o un


piano di studi grazie al quale gli uomini potessero essere
trasformati dal terzo stadio in una sorta di castori. Non
conosco animali migliori sul creato : mordono solo se ven­
gono presi, sono amanti al massimo dello stato matrimo­
niale, sono abili nel lavoro e la loro pelle è eccellente.

Quest’uomo aveva tanta intelligenza che nel mondo non


lo si poteva quasi utilizzare in niente.

Se ben conosco la genealogia della signora scienza, l ’i-


gnoranza è la sua sorella maggiore, e cosa c’è di tanto scan­
daloso nel prendere la sorella maggiore quando uno ha an­
che a sua disposizione la minore? Da tutti coloro che l ’han­
no conosciuta ho sentito che la maggiore ha le sue attratti­
ve, che è una brava ragazza grassotta, e che appunto perché
in genere dorme più che essere sveglia, è un’ottima moglie.

Faceva le sue scoperte pressappoco come i cinghiali e i


cani da caccia scoprono le sorgenti salate e le acque mine­
rali.

Quest’uomo lavorava a un sistema di storia naturale nel


quale aveva classificato gli animali a seconda della forma
degli escrementi. Distingueva tre categorie: i cilindrici, gli
sferici e quelli a forma di torta.
Georg Christoph Lichtenberg
5 2 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Questa teoria psicologica equivale secondo me alla teo­


ria, ben nota in fisica, che spiega il fenomeno dell’aurora
boreale con il riflesso delle aringhe nell’acqua.

M i piace la gente che ha nervi grossi come corde da


quattro soldi.

Si stupiva che i gatti avessero due fessure nella pelle,


proprio al posto degli occhi.

Se fate dipingere un bersaglio alla porta del vostro giar­


dino potete stare sicuri che ci tireranno sopra.

A: Perché non venite in aiuto di vostro suocero? B:


Perché? A: È povero. B: Si ma ha voglia di lavorare, ed io
non ho bastante denaro per farne un fannullone.

Ho conosciuto il garzone di un mugnaio che non si to­


glieva mai il berretto di fronte a me se non quando aveva
un asino che gli camminava accanto. Per lungo tempo non
sono riuscito a spiegarmi questo fatto. Finalmente ho ca­
pito che egli considerava la presenza dell’asino come umi­
liante per lui e domandava scusa; pareva che con questo
volesse sfuggire al minimo paragone tra lui e il suo com­
pagno.

Ci sono moltissimi uomini che sono più infelici di te:


questo non ti dà un tetto sotto al quale abitare, d ’accordo:
ma la frase è sufficiente perché vi si possa trovare riparo
durante un temporale.

Da lungo tempo penso che la filosofia finirà con il divo­


rare se stessa. La metafisica, in parte, si è già autofagoci­
tata.

Aveva dato un nome ad ognuna delle sue pantofole.


GEORG CHRISTOPH LICHTENBERG 53
Darei volentieri qualcosa per sapere esattamente per
chi sono state effettivamente compiute le azioni di cui pub­
blicamente si dice che siano state compiute per la patria.

Una forca con un parafulmine.

Autobiografia. Non dimenticare che una volta lasciai


nel solaio di Graupner un biglietto con la domanda — Che
cosa è l’aurora boreale? - indirizzata a un angelo, e che il
giorno dopo andai di soppiatto a cercarlo, timido timido.
Ah, se ci fosse stato un mattacchione che avesse risposto
a quel biglietto?

Nella notte dal 9 al io febbraio 99 ho sognato di man­


giare durante un viaggio in un’osteria, più propriamente
in una baracca molto strana, in cui si stava giocando ai da­
di. Di fronte a me era seduto un uomo ben vestito, dall’aria
un po’ svanita, il quale, senza badare a chi gli stava attor­
no, mangiava la mia minestra, però ogni due o tre cucchia­
iate ne lanciava in aria una, la ripigliava con il cucchiaio e
poi l ’inghiottiva. Ciò che rende particolarmente notevole
questo sogno ai miei occhi è che io facevo in esso la mia
solita osservazione che roba simile non la si può inventare,
bisogna viverla (cioè non c ’è romanziere cui possa venire
in mente), eppure quello l ’avevo proprio inventato in quel
momento. Là dove si giocava ai dadi stava seduta una spi-
lungona che faceva la maglia. Le chiesi che cosa si potesse
vincere; essa rispose «nulla», e quando le chiesi se si po­
tesse perdere qualche cosa, rispose «no!». Questo gioco
mi pareva importante.

Trad, di Nello Sàito, Einaudi, Torino 1966.


Charles Fourier
I772-í 837

I critici più benevoli e perfino i seguaci piu entusiasti del suo si­
stema economico e sociale sono d’accordo nel deplorare in Fourier
il divagare delFimmaginazione: non sanno come comportarsi per
nascondere le «stravaganze» di cui si compiace, sorvolano sull’a­
spetto «capriccioso e bizzarro» del suo pensiero, spesso cosi splen­
didamente controllato. Come spiegare la coesistenza, nella stessa
mente, dei piu alti attributi razionali e di un gusto del vaticinio
spinto agli estremi? Marx e Engels, cosi severi con i loro precursori,
hanno reso omaggio al genio dimostrato da Fourier in materia di
sociologia, il primo facendo osservare, a proposito delle «serie pas­
sionali» che costituiscono la pietra angolare della sua opera, che
«tali costruzioni, esattamente come il metodo hegeliano, non sono
criticabili che con la dimostrazione di come bisogna farle, provando
cosi che le si domina» l, il secondo presentandolo come «uno dei
più grandi scrittori satirici che sia mai esistito»2, accompagnato da
un dialettico senza pari. Come ha potuto Fourier soddisfare tali e-
sigenze e, al tempo stesso, sconcertare quasi tutti coloro che hanno
voluto accostarsi alla sua opera con le sue vertiginose ascese nel re­
gno deU’incontrollabile e del meraviglioso? La sua storia naturale
- dove si vuole che la ciliegia sia ü prodotto della copula della terra
con se stessa, e l’uva della copula terra-sole - è stata considerata co­
me nettamente aberrante, e cosi pure la sua cosmologia, dove la
terra occupa il posto insignificante di un’ape in un alveare formato
da un centinaio di migliaia di universi siderali, il cui insieme forma
un bi-universo, che a sua volta, insieme ad altre migliaia, costituisce
un tri-universo e cosi via, dove la creazione procede per tappe e ten­
tativi successivi, dove la nostra esistenza individuale è ridotta a12

1 karl m arx , Opere filosofiche.


2 Friedrich engels , Socialismo utopistico e socialismo scientifico.
CHARLES FOURIER 55

1260 reincarnazioni che corrispondono a 54000 anni nell’altro


mondo e a 27 000 in questo, ecc.
Tuttavia, nel xix secolo la cosmologia di Fourier, responsabile
delle sue piu inquietanti divagazioni, arriva a far sentire la sua eco
nello spirito dei poeti e di Victor Hugo in particolare. Quest’ultimo
ne resta impregnato, grazie a Victor Hennequin e, senza dubbio,
tramite la lettura delle opere di Eliphas Lévy (l’ex abate Constant)
«che, sulla strada che va dal seminario alla magia, incontra la libre­
ria del falansterio e pone sotto il patrocinio di Rabelais la teoria
delle serie e quella delle attrazioni proporzionali ai destini» \ Sa­
rebbe tempo di stabilire con precisione quanto questa cosmologia,
come le altre tesi insolite professate da Fourier, sia stata influenza­
ta dalla filosofía ermetica, se pensiamo che la Théorie des quatre
mouvements raccoglie probabilmente le «minute» delle conferenze
che il suo autore tenne nelle logge massoniche sotto il Consolato.
Resta il fatto che queste tesi assumono uno straordinario rilievo per
la loro costante interferenza con i piu arditi piani di trasformazione
sociale, piani la cui giustezza e vitalità risultano in gran parte dimo­
strate. Volerle espurgare dal suo messaggio sociale per renderlo piu
comprensibile, equivale a tradire Fourier, facendo finta di dimenti­
care che nel 1818 questi affermò l’assoluta necessità «di rifare il
pensiero umano e dimenticare tutto ciò che si è appreso»2 (esigen­
do quindi che venga posto in discussione il consenso universale e
che la si faccia finita una volta per tutte col presunto «buon senso»).
Baudelaire ha dato prova, a due riprese, di vedute molto ristret­
te nel giudicare Fourier, rifiutandosi di rendergli gli onori cui ha
diritto. «Fourier - scrive ne U art romantique - è venuto un gior­
no, in pompa magna, a rivelarci i misteri delYanalogia. Io non vo­
glio negare il valore di alcune delle sue minuziose scoperte, benché
pensi che il suo cervello fosse troppo preoccupato dell’esattezza ma­
teriale per non commettere errori e per arrivare di colpo alla cer­
tezza morale dell’intuizione... D ’altronde Swedenborg, che aveva
un’anima ben piu grande (?) ci aveva già insegnato che il cielo è un
grandissimo uomo\ che ogni cosa, numero, forma, movimento, pro­
fumo, sia nello spirituale che nel naturale, è significativo, reciproco,
converso, corrispondente». (Occorre rileggere tutto il contesto).
Nella lettera del 21 gennaio 1856 ad Alphonse Toussenel, il suo
partito preso giunge fino a fargli contestare, contro ogni evidenza,
che il delizioso autore del Monde des oiseaux fosse in qualche modo
debitore di Fourier: «Senza Fourier, sareste stato ugualmente ciò12

1 Victor Hugo et les Illuminés de son temps, p. 73.


auguste viatte ,
2 Publication des Manuscrits de Fourier, t. IV, p. 327.
5 6 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

che siete. L'uomo dotato di ragione non ha atteso l’avvento sulla


terra di Fourier per capire che la natura è un verbo, un’allegoria,
uno stampo, un lavoro di sbalzo, se cosi preferite. Noi lo sappiamo,
e non perché Fourier ce lo ha insegnato, ma Io sappiamo tramite noi
stessi, e tramite i poeti». (Poiché ai giorni nostri Swedenborg e
Claude de Saint-Martin son caduti ancor piu nell’oblio che ai suoi
tempi, l’accusa di aver usurpato le loro idee madri, supponendo che
essi stessi a loro volta non le abbiano ricevute in eredità, potrebbe
altrettanto falsamente ritorcersi contro Baudelaire).
Senza dubbio il modo di recepire e di propagare queste idee è
stato ben diverso in Fourier da un lato, in Nerval e Baudelaire dal­
l’altro: ciò che in questi ultimi vale a rafforzare il concetto immu­
tabile che essi hanno del sacro, nello spirito sostanzialmente profa­
no di Fourier finisce per scatenare un principio di turbolenza che
non si riconosce altro fine che la conquista della felicità. Il contra­
sto — che nel sistema di Fourier è la prima condizione « seriale » che
garantisce la soddisfazione della «papillonne» - si identifica nella
Minerva in armi che di slancio scaturisce da quella testa, dove 11-
perlucidità e l ’estremo rigore sul piano della critica sociale si allea­
no, sul piano trascendentale, alla sfrenatezza del congetturare.
«Forse, è stato suggerito, si potrebbe scrivere una buona tesi su
Fourier umorista e mistificatore». È fuor di dubbio che uno hu­
mour ad altissima tensione, costellato dalle scintille che scambie­
rebbero i due Rousseau (Jean-Jacques e il Doganiere) aureola que­
sto faro, uno dei piu luminosi che io conosca, la cui base sfida il tem­
po mentre la sua cima si abbarbica alle nubi.

CORONA B O R E A L E

Quando il genere umano avrà sfruttato il globo fino ol­


tre i sessanta gradi di latitudine nord, la temperatura del
pianeta sarà assai piu mite e regolare: l’esercizio del sesso
si intensificherà; Paurora boreale, divenuta frequentissi­
ma, si fisserà sul polo, svasandosi in forma d ’anello o di
corona. Il fluido, che oggi è soltanto luminoso, acquisterà
una nuova proprietà: quella di diffondere il calore insie­
me con la luce.
CHARLES FOURIER 57
La corona sarà di dimensioni tali da aver sempre qual­
che punto di contatto col sole, i cui raggi saranno neces­
sari per infuocare il contorno dell’anello: essa quindi do­
vrà presentargli un arco, anche quando l ’asse della terra
avrà la massima inclinazione.
L ’influenza della corona boreale si farà intensamente
sentire fino a un terzo del suo emisfero; sarà visibile a Pie­
troburgo, Ochotsk e in tutte le regioni del sessantesimo
parallelo.
Dal sessantesimo parallelo fino al polo, il calore andrà
via via aumentando, di modo che il punto polare godrà
pressappoco della temperatura delPAndalusia e della Si­
cilia.
A quell’epoca l ’intero globo sarà coltivato, ciò che pro­
vocherà un addolcimento della temperatura di cinque o
sei gradi, a volte perfino dodici, nelle latitudini ancora in­
colte come la Siberia e l’alto Canada.

In attesa del verificarsi di questo futuro avvenimento,


osserviamo alcuni indizi che già l’annunciano: per prima
cosa, la differenza di conformazione tra le terre prossime
al polo australe e quelle prossime al polo boreale: i tre
continenti meridionali terminano con una punta acuta, in
modo da allontanare il commercio umano dalle latitudini
polari. Una forma del tutto opposta si nota nei continenti
settentrionali; sono svasati in vicinanza del polo, e si rag­
gruppano intorno al polo stesso per raccogliere i raggi del­
l ’anello che dovrà un giorno fargli corona; i grandi fiumi
scorrono in questa direzione, come per attirare il commer­
cio umano sul mare glaciale. Ora, se Dio non avesse pro­
gettato di dare la corona fecondante al polo boreale, ne
seguirebbe che la disposizione dei continenti che circon­
dano questo polo sarebbe un fenomeno incongruo; e Dio
sarebbe tanto più ridicolo ad aver cosi operato dal mo­
mento che al punto opposto, sui continenti meridionali,
5 8 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

la sua opera è stata improntata ad estrema saggezza; in­


fatti egli ha dato loro dimensioni del tutto convenienti,
intorno a un polo che mai potrà avere una corona fecon­
dante.
Si potrebbe deplorare solo che Dio abbia spinto troppo
in là la punta magellanica, il che è causa di un momentaneo
intralcio; ma è sua intenzione che questa strada venga ab­
bandonata e che si costruiscano negli istmi di Suez e di
Panama canali navigabili dai grandi vascelli. Questi lavori
e altri ancora, la cui prospettiva spaventa le genti civili,
altro non saranno che trastulli puerili per le armate indu­
striali della gerarchia sferica. Altra prova e indizio della
corona ci è data dalla posizione difettosa delibasse del glo­
bo: se supponiamo che la corona non debba mai venire al­
la luce, l ’asse dovrebbe, nell’interesse dei due continenti,
essere ribaltato di un ventiquattresimo, o di sette gradi e
mezzo, sul meridiano di Sandwich e Costantinopoli, in mo­
do che questa capitale si troverebbe al trentaduesimo pa­
rallelo boreale: di conseguenza la longitudine 225 dell’iso­
la del Ferro, e quindi lo stretto del Nord, e le due punte
dell’Asia e dell’America, si inoltrerebbero in ugual misura
nei ghiacci del polo boreale: ciò significherebbe sacrificare
il punto più inutile del globo per valorizzare gli altri punti.

Questa osservazione sull’inopportunità dell’asse non si


è punto fatta, poiché lo spirito filosofico ci allontana da
ogni critica ragionata sull’operare di Dio, e ci spinge a
partiti estremi, dubitare della provvidenza o tributarle una
venerazione stupida e cieca; come quei sapienti che ammi­
rano perfino il ragno, perfino il rospo e altri esseri immon­
di, in cui nuli’altro si può vedere che un motivo di vergo­
gna per il creatore, fino a quando non siano note le ragio­
ni di questo pessimo operare. Cosi è per l ’asse del globo, la
cui posizione viziata doveva indurci a disapprovare Dio,
e a presagire il sorgere della corona, che fornirà la giusti-
CHARLES FOURIER 59
Reazione di questa apparente topica del creatore. Ma poi­
ché le nostre esagerazioni filosofiche e la nostra smania
d ’ateismo o di venerazione ci hanno distolti dall’emettere
un giudizio imparziale sull’operato di Dio, non abbiamo
saputo né determinare i correttivi necessari alla sua ope­
ra, né prevedere le rivoluzioni materiali e politiche per
mezzo delle quali egli effettuerà questi correttivi.

M E T O D O D ’U N I O N E D E I S E S S I
N E L S E T T I M O P E R I O D O ( E N O N N E L L ’O T T A V O )

Si possono distinguere, nel mondo cornuto, nove gradi


di cornificazione, sia fra gli uomini che fra le donne, poiché
le donne sono ben più cornificate degli uomini; e se il ma­
rito ne porta di alte quanto i rami del cervo, si può ben
dire che quelle della moglie si alzano al livello dei rami
dell’albero.
Mi limiterò a citare le tre classi principali, cioè: il Cor­
nuto, il Cornuto Contento, il Becco \
i ) Il Cornuto propriamente detto è un geloso pieno di
dignità, che ignora la sua sventura e che crede di essere
l’unico signore della sua donna. Fintantoché la gente man­
tiene viva la sua illusione con una lodevole discrezione,
non siamo autorizzati a canzonarlo: potrebbe egli forse
adontarsi di un’offesa che ignora? Il ridicolo è tutto nel
seduttore, che lo adula e che s’inchina davanti a colui con
il quale scientemente divide la bella.1

1 [II quadro completo comprende 64 specie progressivamente distri­


buite in classi, ordini e generi, dal cornuto in erba fino al cornuto postu­
mo; ne ho descritto qui solo tre specie, poiché su questo argomento, come
su tanti altri, voglio sondare quali sviluppi conviene dare al Trattato\
6o ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

2 ) Il Cornuto Contento è un marito sazio degli amori


casalinghi e che, volendo cogliere altrove i suoi piaceri,
chiude gli occhi sulla condotta della moglie e l ’abbandona,
senza nulla più, agli spasimanti, col patto che essa non ab­
bia a generare. Uno sposo siffatto non si presta punto alla
beffa; anzi egli ha il diritto di malignare sulle corna altrui,
come se egli stesso ne fosse esente.
3 ) il Becco è un geloso ridicolo, sgradito alla sposa e
informato della sua infedeltà; è un furibondo che recalci­
tra contro il volere del destino, ma che, con i suoi goffi
tentativi di resistenza, diviene un oggetto di scherno per
le precauzioni inutili, la rabbia e gli scoppi di collera. In
materia di becchi, il George Dandin di Molière è un mo­
dello esemplare.

D E T T A G L IO D I C R E A Z IO N E
IN C H IA V E IP O -M A G G IO R E

Sarebbe per noi cosa vana la conoscenza del sistema del­


la natura, se non ci fornisse i mezzi atti a correggere il male
presente e sostituire ai prodotti scissionari, agli esseri no­
civi, dei contro-stampi o servitori utili all'uomo.
Che ci varrebbe conoscere in quale ordine ogni astro
operò il suo intervento nella creazione: il sapere che il ca­
vallo e l'asino furono creati da Saturno in una certa modu­
lazione; la zebra e il quagga da Proteo (stella non ancora
scoperta ma pur esistente, dal momento che se ne scorge
l'opera in ogni direzione e genere); che in quella modula­
zione Giove diede il bue e il bisonte; e Marte il cammello
e il dromedario? Da queste nozioni particolari potremmo
solo trarre la sgradevole certezza che gli astri, che qualifi­
CHARLES FOURIER 6 1

chiamo sfaccendati peripatetici, hanno invece operato sul


nostro globo sette volte troppo, procurandoci un’apparec­
chiatura i cui sette ottavi sono cagione di male.
Sommamente preziosa ci sarà, invece, l ’arte di richia­
marli sulla scena della creazione con un lavoro di contro-
stampo, per mezzo del quale chi ci diede il leone ci darà
in contro-stampo un superbo e docile quadrupede, un’ela­
stica cavalcatura, I ’ a n t i l e o n e , atto a tali poste per cui un
cavaliere, partendo la mattina da Calais o da Bruxelles,
farà a Parigi la prima colazione, pranzerà a Lione e cene­
rà a Marsiglia, meno stanco per questa giornata che uno
dei nostri corrieri lanciati a spron battuto: poiché il caval­
lo è cavalcatura rude e semplice (solipede) che starà al-
l ’antileone come la carrozza senza sospensioni a quella che
ne è fornita.
Lasceremo il cavallo ai tiri a quattro e alle parate, quan­
do avremo a disposizione la famiglia delle cavalcature ela­
stiche, antileoni, antitigri, antileopardi, che avranno di­
mensioni triple degli stampi attuali. Cosi un antileone a
ogni balzo radente coprirà con facilità quattro tese, e il
cavaliere sul suo dorso sarà a proprio agio come su una
berlina. Sarà bello abitare questo mondo, quando potre­
mo valerci di simili servitori.
Le nuove creazioni di cui possiamo vedere l’inizio da­
ranno entro cinque anni ricchezze a profusione in ogni re­
gno, cosi nei mari come sulle terre. Invece di creare balene
e squali, ippopotami e coccodrilli, sarebbe forse costato di
più creare servitori preziosi come:
Antibalene che rimorchiano i vascelli durante la bo­
naccia;
Antisquali atti a cacciare il pesce;
Antiippopotami che spingono i battelli nei fiumi;
Anticoccodrilli o aiutanti di fiume;
Antifoche o cavalcature di mare?
Tutti questi brillanti prodotti saranno l’effetto neces­
sario di una creazione che avverrà in aromi contromodel­
62 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

lati, iniziando da un bagno aromatico sferico, che purghi i


mari dai bitumi ivi contenuti.
Sorvoliamo sul quadro di queste prossime meraviglie:
la prospettiva, ben lungi dal soddisfare il lettore, turba
una generazione educata all’empietà, al dubbio circa la
Provvidenza e che, nell’imperfezione del suo spirito, im­
magina che Dio non abbia pari potere per fare il bene che
per fare il male; male che Egli dovette organizzare in mi­
sura sette volte maggiore in creazioni sovversive, cosi co­
me dovrà organizzare il bene in misura sette volte maggio­
re in creazioni armoniche.

D IM O S T R A Z IO N I F A M I L I A R I D E L L A C A T A R A T T A

In armonia, una delle prime operazioni consisterà nel


radunare un congresso di grammatici e naturalisti allo sco­
po di comporre una lingua unitaria, il cui sistema dovrà
reggersi sull’analogia con le grida degli animali e altri do­
cumenti di natura. Questo lavoro sarà appena terminato
allo scadere di un secolo: allo scopo di perfezionarlo, ci si
varrà di una bussola dal sicuro funzionamento, che ancora
non è tempo di render nota.

Punteggiatura

Oltre all’alfabeto delle lettere, sarà d’uopo creare quel­


lo della punteggiatura, che dovrà comprendere un ugual
numero di segni: esso è a tal punto ignoto che i francesi
si valgono solo di sette segni di punteggiatura, cioè , ; : .
! ? ) . La parentesi quadra, che più non entra nell’uso, era
l ’ottavo. Quanto agli accenti é è è è, essi stanno ad indi­
CHARLES FOURIER 63

care differenza di vocali e non di punteggiatura. Lo stesso


per l ’apostrofo, che richiederebbe un segno speciale e non
il semplice innalzamento di una virgola. La nostra lingua
è cosi povera che siamo obbligati ad usare o il punto, o i
due punti, creando una gran confusione.
Io avevo iniziato un lavoro sulla gamma della punteg­
giatura, portandola a venticinque segni, mostrando con
esempi l’ambiguità di quelli attuali: ma il lavoro andò
smarrito prima che lo terminassi, e in seguito non lo ri­
presi. Osserviamo a questo proposito che il primo e il piu
semplice dei nostri segni, la virgola, si deve differenziare
per lo meno in quadruplice forma, perché si possano ap­
prezzare i suoi differenti significati, le accezioni che, va­
riando all’infinito, sono confusamente espresse da un solo
segno: il che determina un estremo disordine. Lo stesso
vale per gli altri segni, in cui si trovano accumulati insie­
me tre o quattro significati: la punteggiatura civilizzata è
un vero caos, come l ’ortografia, che varia per ciascuna del­
le tipografie parigine. L ’Accademia, col principio oscuran­
tista di non permettere correzione alcuna degli errori piu
vistosi, ha irritato a tal punto gli animi che ne risulta una
ribellione generale, un’anarchia universale nella gramma­
tica.

L 'E L E F A N T E , I L C A N E ...

Cominciamo col distinguere una virtù reale da una fal­


sa, mettendo a raffronto l’Elefante e il Cane, l’uno come
emblema di amicizia nobile e l ’altro di amicizia menzo­
gnera.
1) L ’amicizia. È nobile nell’Elefante; si concilia sem­
pre con l ’onore. Non ha la bassezza del Cane che, battuto
64 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

talvolta senza ragione, non serba alcun rancore. L ’Elefante


tollera le sanzioni giustificate, ma non si lascia maltrattare
senza motivo; non perdona le offese; del resto, la sua ami­
cizia è inalterabile e devota quanto quella del Cane. Que­
sta nobile amicizia produce legami collettivi e corporativi,
mentre quella servile del Cane favorisce solo il despoti­
smo, il regime civile e barbarico in cui certo non regnano
nobili passioni, quali invece vediamo albergare nelPEle-
fante. I despoti vogliono l’amicizia del Cane, che, ingiu­
stamente maltrattato e offeso, continua ad amare e servire
il suo persecutore.
2) L ’amore. N ell’Elefante esso è discreto e fedele: nel
Cane, che in amore è il piu ignobile dei quadrupedi, è scan­
daloso e criminale, poiché a questa passione associa ogni
genere di vizi, cosi come gli uomini civili nei cui amori
prevalgono l ’astuzia, la frode, l’oppressione.
3) La paternità. N ell’Elefante è saggia e onorevole.
Quando è in schiavitù si astiene dal procreare, non volen­
do dar vita a creature destinate all’infelicità. Serva ciò di
lezione agli uomini civili, assassini dei loro figli, poiché li
generano in tal numero da non poterne assicurare il be­
nessere. La morale, o teoria di falsa virtù, li spinge a fab­
bricare carne da cannone, formicai di coscritti che saranno
obbligati a vendersi per miseria. Questa improvvida pa­
ternità è falsa virtù, egoismo del piacere. La natura ha pre­
servato da questo vizio l ’Elefante, che è il prototipo delle
quattro passioni affettive, considerate in senso veramente
sociale e in accordo coi vincoli generali. Il Cane, emblema
delle false virtù, è dotato di quella falsa paternità che ge­
nera formicai, figliate di undici (primo dei numeri antiar-
monici), mucchi di figli di cui tre quarti moriranno sotto il
ferro, il dente o gli stenti.
4) L ’onore. È la quarta virtù impressa nello stampo
dell’Elefante; ma non si tratta di quell’onore morale che
predica il disprezzo delle ricchezze e pretende che si beva
nel cavo della mano, come Diogene. L ’Elefante non solo
CHARLES FOURIER 65

esige un buon nutrimento (80 libbre di riso al giorno) ma


predilige il lusso dei paramenti, dei cibi, del vasellame,
delle bevande; lo umiliano le stoviglie d’argilla, se è abi­
tuato a cibarsi in stoviglie d ’argento.
Se l ’elefante è un modello delle quattro virtù sociali, de­
ve anche rappresentare, per essere fedele al quadro gene­
rale, il destino della virtù schernita in regime di Civiltà.
Perciò la natura lo ha vestito di fango. Egli stesso predi­
lige la polvere, di cui si cosparge, a immagine dell’uomo
virtuoso che ama imboccare la via della miseria, invece
d ’inseguire una fortuna cui giungerebbe solo attraverso
la pratica di ogni sorta di vizi, furti, bassezze, venalità,
ingiustizie, traffici, aggiottaggi, accaparramenti, usura. La
natura avrebbe potuto fornire a questo animale un mantel­
lo ricco quanto quello della tigre; ma sarebbe stata una
contraddizione, un falso ritratto, perché nella nostra socie­
tà la virtù reale e veramente dignitosa porta soltanto alla
miseria; parlo della virtù reale e non delle virtù filosofi-
che, saggezza del camaleonte che a ogni infamia si presta
purché conduca alla fortuna.

La natura ha dotato l ’Elefante di difese in avorio, armi


opulente, in analogia al nostro stato sociale, che destina
il lusso al potere, alla classe improduttiva e dominante.
Cosi, la proboscide, che è insieme arma e strumento e quin­
di produttiva, è poveramente vestita, poiché l’Elefante de­
ve rappresentare la condizione del lavoro e della virtù, vit­
time di ingiustizia e di scherno. Emblematica dei destini
della virtù è la sua parte posteriore, ridicola nel contrasto
tra la schiena possente e la coda sgraziata ed esile.

L ’estrema piccolezza degli occhi è in flagrante contrasto


con l’immensità del corpo. Specchio delle ristrette pro­
spettive dell’uomo virtuoso... Le orecchie sono l ’opposto
66 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

degli occhi : la loro grande dimensione e la forma schiac­


ciata raffigurano la sofferenza dell’uomo virtuoso, che al­
tro non ode che voci ipocrite e perverse, nella nostra so­
cietà, ove gli uni predicano la virtù senza praticarla e gli
altri esaltano sfrontatamente i benefici del vizio. L ’uomo
giusto è oppresso e schiacciato da questo duplice linguag­
gio di depravazione: le sue orecchie si piegano sotto la fal­
sità. Questa ingrata situazione è riflessa nelle orecchie del­
l’Elefante.
Thom as D e Q uincey
1784-1859

Dice Baudelaire che De Quincey è essenzialmente digressivo;


l’espressione humourist gli si addice meglio che a chiunque altro; in
un punto della sua opera paragona il suo pensiero a un tirso, nudo
bastone che trae fisionomia e grazia dal groviglio di foglie che lo ri­
veste. Nelle due famose memorie (1827 e *839), raccolte sotto il ti­
tolo L 1assassinio considerato come una delle belle artiy si sforza di
afferrare il delitto non piu, come dice egli stesso, «per il suo manico
morale» ma in modo extrasensibile, tutto intellettuale, e di consi­
derarlo unicamente in funzione delle doti piu o meno notevoli che
mette in gioco. Facendo astrazione dall’orrore fin troppo conven­
zionale che suscita, Tassassimo, secondo De Quincey, richiede una
trattazione estetica e un apprezzamento qualitativo come un’opera
plastica o un caso clinico. Diventando cosi oggetto di pura specula­
zione, avrà valore nella misura in cui, prima di tutto, appaga deter­
minate esigenze: mistero, indeterminatezza dei moventi, difficoltà
superate, grandezza e smalto dei risultati. D ’altronde si può consi­
derare sufficiente il soddisfare anche una sola di queste condizioni:
«Vi è... un progetto incompiuto di Thurtell, di assassinio di un uo­
mo per mezzo di una coppia di pesi da sollevamento, che ammiro
molto». Uno dei personaggi del libro "Toad in thè Hole ” convulso
e inquietante personaggio, s’identifica col «Vecchio della Montagna,
precursore e maestro del genere», «luce scintillante» che esalterà in
seguito Alfred Jarry L ’autore, in un post-scriptum del 1854 al suo
libro dedicato al resoconto di tre assassini! esemplari, giustifica la
stravaganza volontaria del suo procedere con la preoccupazione di
non tagliare i ponti, in una materia cosi scabrosa, con ogni traccia di
comicità e si richiama a lungo al precedente di Swift.
« Il lettore - dice in un altro punto De Quincey - penserà forse
che voglio ridere, ma io sono da tempo abituato a scherzare nel do­

1 Cfr. Les jours et les nuitsy Mercure de France, 1897.


68 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

lore» \ Poche esistenze furono cosi patetiche come la sua, poche vi­
cende cosi crudeli e meravigliose. Meno che diciassettenne fugge
dalla scuola di provincia dove vogliono costringerlo i suoi tutori:
vive di espedienti, girovaga per il Galles, nutrendosi di more e di
bacche selvatiche; giunge tuttavia a Londra, dove trova asilo in una
grande casa abbandonata, rifugio nelle ore dei pasti di un uomo
d’affari dal viso di faina, e di una timida ragazzina di dieci anni che
vi abita giorno e notte facendo da serva a questo enigmatico perso­
naggio. Il suo ospite gli lascia per pranzo qualche crosta di pane, e
la ragazzina dorme stringendosi a lui sul nudo pavimento. Nel cor­
so delle sue peregrinazioni per Londra, il giovane De Quincey, che
si fa un principio filosofico di parlare familiarmente con ogni essere
umano che incontra, uomo donna o bambino, si innamora platonica­
mente di una prostituta di sedici anni, Anna, adorabile creatura te­
nera e innocente. Baudelaire ha sognato di strappare «una penna
dalle ali di un angelo» per dipingere il loro legame insieme di pover­
tà e di amore. «La povera Anna, - racconta Marcel Schwob,- si pre­
cipitò verso Thomas De Quincey... barcollante e quasi svenuto nella
Oxford Street, sotto i grandi lampioni accesi. Gli occhi umidi, acco­
stò alle sue labbra un bicchiere di vino dolce, lo abbracciò e lo acca­
rezzò. Poi scomparve nella notte. Forse mori poco dopo. Dice De
Quincey che tossiva, l ’ultima volta che la vide. Forse vagava ancora
per le strade: ma per quanto si accanisse a cercarla, per quanto sfi­
dasse il riso di coloro cui si rivolgeva, Anna fu persa per sempre.
Piu tardi, quando ebbe una casa calda, pensò sovente con le lacrime
agli occhi che la povera Anna avrebbe dovuto vivere là, vicino a lui,
mentre se l’immaginava ammalata o moribonda, disperata, nell’or­
rore di un b... di Londra, lei che aveva portato via, con sé, tutto l’a­
more e la pietà della sua anima»12.
Perduta per sempre? No: dato che, almeno, essa ritornò dicias­
sette anni dopo a popolare i suoi sogni di mangiatore d’oppio (co­
minciò soltanto nel 1812 ad usare la droga per vincere le sofferenze
lasciategli dalla fame troppo a lungo patita). La sua luminosa appa­
rizione placa ancora una volta le angosce della perdizione totale che
sono in De Quincey il terribile rovescio della «piu straordinaria,
complessa e splendida visione».
Nessuno più di De Quincey mostrò tanta profonda compassione
per la miseria umana. Il suo senso della fraternità universale lo spin­
ge nel 1819 a entusiasmarsi alla lettura dei Prìncipi di economia po­
litica di Ricardo e a sforzarsi di contribuire allo sviluppo di quella

1 Confessioni di un mangiatore d ’oppio.


2 L e livre de M onelle.
THOMAS DE QUINCEY 69

nuova scienza (Prolegomeni per ogni sistema futuro di economia


politica). Conseguenza di questa stessa compassione fu il suo asso­
luto disprezzo per ogni fama consolidata: «In generale, i pochi in­
dividui che in questo mondo eccitarono il mio disgusto, furono per­
sone abbienti e di buona reputazione. I bricconi che ho conosciuto,
e non son pochi, li ricordo invece tutti, senza eccezione, con piacere
e con affetto».

L’ASSASSINIO COME UNA DELLE BELLE ARTI

Ma è giunto il momento di spendere qualche parola sui


principi degassassimo, non già per dirigere la vostra prati­
ca, ma il vostro modo di giudicare. Le vecchierelle, e la fol­
la in genere dei lettori di giornali, si accontentano di tutto,
purché ci sia abbastanza sangue. - Parliamo dunque, pri­
ma di tutto, del tipo di persone meglio adatte agli scopi
deir assassino; secondariamente del luogo dove agire; ter­
zo, del tempo in cui, —e di altre circostanze di minor conto.
Quanto alla persona, mi par evidente che debba essere
un uomo dabbene, perché, se no, potrebbe anche lui — tut­
to è possibile! — star pensando a compiere un assassinio
proprio in quel momento; e zuffe simili, in cui «un dia­
mante taglia un diamante», per quanto abbastanza diver­
tenti quando non ci sia niente di meglio in vista, non sono
comunque quel che un critico può permettersi di chiama­
re degli assassinii. Potrei citare delle persone (non faccia­
mo nomi) che sono state trucidate da altre in un vicolo
oscuro: e fin qui tutto può parere abbastanza corretto; ma,
approfondendo la questione, il pubblico si è avvisto che
anche la vittima stava progettando, nello stesso istante, di
derubare almeno almeno il proprio assassino, — e forse di
ucciderlo, se gliene fosse bastata la forza. Ogniqualvolta
7o ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

le cose stanno in questi termini, o tali si suppongono, ad­


dio effetti genuini dell’arte.
Infatti lo scopo finale dell’assassinio, dal punto di vista
delle arti belle, è precisamente il medesimo di quello della
tragedia nella definizione di Aristotile: «purificare gli ani­
mi per mezzo della pietà e del terrore». Ora, terrore può
esserci, ma come può esserci pietà per una tigre sbranata
da un’altra tigre?
È ovvio del pari che la persona scelta non dovrebb’esse-
re un personaggio pubblico. Nessun artista di giudizio, ad
esempio, avrebbe tentato di assassinare Abraham New-
land1. Infatti il caso era questo: tutti avevano tanto letto
di Abraham Newland, e tanti pochi l ’avevano veduto, che,
per la maggioranza, egli era una pura idea astratta. Mi ri­
cordo che una volta, per aver detto incidentalmente che
avevo mangiato in un caffè con Abraham Newland, tutti
mi guardarono con sprezzo, come se avessi finto d’aver
giocato a biliardo con Prete Gianni o di avere avuto una
questione d’onore col papa.
A proposito: il papa sarebbe un individuo pochissimo
indicato per un assassinio; egli possiede, come padre della
cristianità, una tale ubiquità spirituale, e, come il cuculo,
è cosi spesso udito e in pari tempo mai visto, da farmi
sospettare che infinite persone stimino un’idea astratta an­
che lui. - Quando invece un uomo pubblico ha l ’abitudine
di dar pranzi «con tutte le primizie della stagione», ecco
che il caso è diverso : ciascuno è ben certo ch’egli non sia
un’idea astratta, e quindi non ci può esser scorrettezza nel-

1 Abraham Newland (cassiere-capo della Banca d’Inghilterra, morto


nel 1807) è ora completamente dimenticato. Ma, quando queste pagine
furono scritte (1827), il suo nome non aveva cessato di risuonare alle
orecchie britanniche, come il piu familiare e significativo che sia forse mai
esistito. Era il nome che si trovava su tutti i biglietti della Banca d’In­
ghilterra, grandi o piccoli che fossero; ed era stato, per piu di un quarto
di secolo (specialmente durante tutta la rivoluzione francese) un’espres­
sione stenografica indicante «carta moneta» nella sua forma piu sicura
[Nota di D e Quincey].
Thomas De Quincey
7 2 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

l’ucciderlo. Soltanto che il suo assassinio rientrerà nella


classe degli assassinii politici, di cui non ho ancora par­
lato.
Terzo. Il soggetto scelto deve godere buona salute, es­
sendo assolutamente barbaro Tassassimo di un ammalato,
che in genere non si trova affatto in grado di sopportarlo.
In omaggio a questo stesso principio non si dovrebbe mai
scegliere un sarto di piu che venticinque anni, perché, pas­
sata quell’età, diventa certamente dispeptico. O almeno,
se proprio si vuol cascare li, si dovrà reputare doveroso di
uccidere, secondo la vecchia formula, un multiplo di 9: il
18, per esempio, il 27, o il 36.
E qui, in questa caritatevole sollecitudine per il bene
degli ammalati, riconoscerete il consueto effetto di ogni ar­
te bella nel raddolcire e raffinare i sentimenti. General­
mente il mondo, oh signori, è sanguinario; e tutto quel che
pretende in un assassinio è un abbondante spargimento
di sangue: fatene uno spreco vistoso, e gli basta. Ma il co­
noscitore illuminato ha gusti più raffinati: e dall’arte no­
stra — come da tutte le altre arti liberali, ove sien posse­
dute a fondo - risulta un ingentilirsi dell’animo. Tanto è
vero che Ingenuas didicisse fideliter artes,
Emollit mores; nec sinit esse feros.

Un filosofo amico mio, ben noto per la sua filantropia


e per la costante bontà, consiglia che il soggetto scelto ab­
bia anche una tenera figliolanza, la cui vita dipenda per in­
tero dal lavoro di lui; cosi da rendere più profondo il pa­
thos. E, senza dubbio, si tratta di un avviso giudizioso.
Ma io non insisterei troppo su questa condizione. Un per­
fetto buon gusto la richiede senz’altro; nondimeno, se un
uomo fosse incensurabile quanto a morale ed a salute, non
mi terrei con tanto scrupolo ad una restrizione che potreb­
be aver l ’effetto di limitare il campo d ’azione dell’artista.

Trad. di Corrado Pavolini, Formiggini, Roma 1926.


Pierre-Frangois Lacenaire
1800-836

Dice Lacenaire: «Arrivo alla morte per una cattiva strada, ci ar­
rivo salendo una scala».
Disertore e falsario in Francia, assassino in Italia, poi ancora la­
dro e assassino a Parigi, occupato senza tregua, come dice egli stes­
so, a «meditare sinistri progetti contro la società», Lacenaire dedica
i pochi mesi che precedono l’esecuzione a redigere le sue Mémoires,
révélations et poésìes e si adopera in ogni modo per fare del suo pro­
cesso uno spettacolo. Le ombre delle sue vittime, dello Svizzero di
Verona, di un suo vecchio compagno di cella, Chardon, e della ma­
dre di quest’ultimo, come pure l’immagine dell’esattore che cercò
di derubare e uccidere, non lo distolgono neanche per un attimo
dall’atteggiamento distratto e insieme divertito che conserva fino
alla fine delle udienze. Per nulla preoccupato di salvarsi la testa, si
concede un ultimo gioco crudele, infierendo contro i suoi complici
intenti a difendersi, e si limita, per quanto lo riguarda, a cercar di
fornire una giustificazione materialista dei suoi delitti. Dal punto
di vista morale, sembra non esservi mai stata coscienza piu tran­
quilla di quella di questo bandito.
Alla vigilia della morte, prende in giro i preti che lo importu­
nano, i frenologi e gli anatomisti impazienti di esaminare il suo ca­
so, e confessa di essere soggetto a « qualche piccola crisi di malinco­
nia» che lo «diverte»; la notte, attraverso le sbarre della cella,
«quasi quasi faccio cucu al secondino».
Un critico, nel celebrare recentemente il centenario di una famo­
sa opera di Balzac, ha potuto scrivere: «Nel 1836, quando il libro
esce, è accolto freddamente e quasi denigrato dalla stampa; la gra­
zia del Lys dans la vallee non viene immediatamente apprezzata dal
pubblico, ancora follemente infatuato di Lacenaire, l ’elegante as­
sassino in finanziera blu, poeta di corte d’assise e teorico del “ di­
ritto al crimine” ».
74 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

SOGNI DI UN CONDANNATO A MORTE

Quanta felicità in un sogno!...


Senza dormire, bello è sognare
E in men di un'ora terminare
Il romanzo più lieto.
Creo un mondo a mio riguardo,
Le sorti migliori sono per me,
Cosi mai io mi azzardo
A scegliere quella di re.

Nel mio solitario rifugio,


Non mi curo delPavvenire,
Mi nutro di una chimera
Nella memoria m'indugio;
Freschi sogni di gioventù,
Che il fato non può sfiorire,
Allietate la mia tarda età:
Son vecchio perché sto per morire.

A volte in un gaio castello,


Raduno mille e mille beltà;
Più spesso nell'erba mi sdraio,
Lisa sola al mio fianco sta;
Il velo che il seno solleva
Mio malgrado mi invita a sognare.
Gran peccato che questo sogno
Solitario debba terminare.

Talora in una capanna,


Padre felice e dolce sposo,
Ho presso di me la mia mamma
E i miei bimbi nel braccio riposo.
PIERRE-FRANÇOIS LACENAIRE 75
A ll’ombra di un fitto ramo
Vivo, leggo, a volte scrivo;
Ma ahimè! vien l ’uragano,
Sogno, sei già cosi lontano.
Christian Dietrich Grabbe
180I-36

L ’odiosa fama che accompagna la vita di Grabbe non risparmia


neppure la sua infanzia. Nessun autore fu cosi aspramente maltrat­
tato dai suoi biografi, nessuno ha fornito maggiori appigli alla cri­
tica meno scientifica e piu vana, quella del moralista. Ci dicono che
sia cresciuto sotto le piu funeste influenze: il padre dirigeva un ri­
formatorio, la madre gli trasmise il vizio del bere. A diciott’anni,
mentre studiava legge a Berlino, compose il suo primo dramma, Il
Duca di Gothland\ si riposero in lui per qualche tempo le speranze
della scuola romantica, ma ben presto deluse l ’attesa del pubblico,
non resistendo al suo bisogno di urtarlo, anzi di scandalizzarlo. Per­
fino Heine e Tieck, che gli erano amici, non sopportarono a lungo il
suo carattere scontroso e la sua estrema sregolatezza. Dopo aver ten­
tato di fare l’attore, ritorna agli studi di legge, esercita per qualche
tempo la professione legale e in seguito quella di avvocato in un
tribunale militare nella sua città natale. Nel frattempo si sposa, ma
poco dopo abbandona la moglie, ed è destituito dal suo incarico. Il
direttore del teatro Immermann lo assume come copista, ma egli
non si adatta per nulla a questa nuova esistenza e, distrutto total­
mente dall’alcool, si rifugia di nuovo, in attesa della morte, presso
la moglie, la sola persona ancora disposta ad accoglierlo.
Nella produzione drammatica di Grabbe occupa un posto a par­
te la commedia tradotta da Jarry con il titolo Les Silènes e che nel­
l’originale tedesco s’intitola Scherzo, satira, ironia e significato pro­
fondo \

! Dopo che è stata scritta questa presentazione, Robert Valan^ay ha


dimostrato che occorre fare le piu ampie riserve circa l’attribuzione a
Jarry dell’insieme del testo francese di Les Silènes: « Il poema iniziale
e i passaggi erotici di cui quest’opera è costellata, non figurano in nessuna
edizione tedesca di Grabbe. Sono forse di Jarry? Supponiamo piuttosto
che siano di mano dell’editore, abile imitatore che li ha aggiunti per tirar
CHRISTIAN DIETRICH GRABBE 77
Un’analisi sommaria potrebbe solo far intravvedere i meriti di
un’opera insuperabile per genio e vis comica, che si stacca prepoten­
temente dal suo tempo e che è legata al nostro, piu di ogni altra, da
innumerevoli prolungamenti.

I SILENI

I.
Un giorno d ’estate, caldo e luminoso. Il Diavolo, se­
duto su una montagnola di terra, rabbrividisce dal fred­
do.

il diavolo Fa freddo, freddo. - A ll’inferno fa più cal­


do! A dire il vero, la mia satirica nonna mi ha fatto in­
dossare — poiché sette è il numero che più volte si ri­
pete nella Bibbia — sette giustacuori di pelliccia, sette
mantelli di pelliccia e sette berretti di pelliccia. Ma fa
freddo, freddo! Che Dio mi porti, ma fa proprio fred­
do? Se soltanto potessi rubare della legna o dar fuoco a
una foresta! Per tutti gli angeli! Sarebbe buffa davvero,
se il diavolo dovesse morire assiderato! Rubare legna -
dar fuoco foresta - dar fuoco - rubare. (Rimane con­
gelato).

2.

Entra, botanizzando, un botanico.

il naturalista Davvero in questa regione si trovano


vegetali molto rari; Linneo, Jussieu... Signor mio Ge-

acqua al suo mulino». Non ci resta quindi che rimandare airottima tra­
duzione di Valan^ay, Raillerie, satire, ironie, e t c Coll. L ’Age d’or, Fon-
taine, 1945.
7» ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

su Cristo, chi c ’è qui, sdraiato per terra? Un uomo mor­


to e, come si può chiaramente vedere, congelato! Ebbe­
ne, è in ogni caso stupefacente! Un miracolo, se esi­
stesse qualcosa come un miracolo! Oggi è il 2 d’agosto,
il sole fiammeggia nel cielo, è il giorno più caldo che io
abbia mai visto; e quest’uomo osa, ha la faccia tosta,
contro tutte le regole e contro tutte le esperienze degli
uomini di scienza, di gelare. - No; è impossibile, assolu­
tamente impossibile! Adesso mi metto gli occhiali! (Si
mette gli occhiali).
Incredibile, stupefacente! Mi son messo gli occhiali, e
questo bel tipo continua a essere gelato! Stupefacente
al massimo grado! Lo porterò ai miei colleghi. (Prende
il diavolo per la collottola e lo trascina via).

3-
Una sala nel castello. Il Diavolo è coricato sulla tavola
e i quattro naturalisti stanno in piedi intorno a lui.

primo naturalista Mi concedete, signori, che la fac­


cenda di questo cadavere è un caso ingarbugliato?
secondo naturalista Se vogliamo! L ’unico guaio è
che i suoi abiti sono cosi labirinticamente annodati che
perfino Cook, che ha fatto il giro del mondo, non sa­
prebbe sbrogliarli.
terzo naturalista Senz’altro! Ha cinque dita e nien­
te coda.
quarto naturalista L ’unico punto da risolvere è que­
sto: che specie di uomo è?
primo naturalista Perfetto! Ma poiché le precauzio­
ni non sono mai troppe, proporrei, prima di metterci al
lavoro, di accendere una lampada, benché il giorno sia
ancora chiaro.
terzo naturalista Troppo giusto, signor collega!
Christian Dietrich Grabbe
8o ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Accendono una lampada e la mettono vicino al Diavolo,


sulla tavola.

primo naturalista (dopo che tutti e quattro hanno esa­


minato il Diavolo con la massima attenzione) Signori,
sono persuaso ormai di vederci chiaro, riguardo a que­
sto misterioso cadavere, e spero di non sbagliarmi. Que­
sto naso rovesciato, questa bocca larga e tumida — no­
tate, vi dico, questa ineguagliabile divina volgarità im­
pressa su tutto il volto, e non avrete piu dubbi: quello
che sta sdraiato davanti a voi è uno dei nostri critici
contemporanei, e a colpo sicuro uno di quelli autentici.
secondo naturalista Caro collega, non posso condi­
videre fino in fondo il vostro parere, peraltro straordi­
nariamente acuto. Anche tralasciando il fatto che i no­
stri critici d ’oggi, soprattutto quelli teatrali, sono più
ingenui che grossolani, non riesco ugualmente a scor­
gere in questo defunto viso nemmeno uno dei caratteri
che ci avete graziosamente enumerato. A l contrario,
garantisco nel modo più assoluto che in questo viso vi
è alcunché di leggiadro, degno di una giovinetta! le so­
pracciglia folte, a strapiombo, indicano quel delicato
pudore femminile che si sforza di celare perfino gli
sguardi, e il naso, che voi definite rovesciato, sembra
piuttosto essersi cortesemente scostato, per lasciare più
spazio ai baci del sospiroso amante... Basta cosi: se tutti
questi segni non m’ingannano, quest’essere umano con­
gelato è la figlia di un pastore.
terzo naturalista V i devo confessare, signore, che
vi è qualcosa di azzardato nella vostra ipotesi. Per quan­
to figlia di pastore, una figlia di pastore mostrerebbe
pur sempre le fattezze proprie in generale di quelle crea­
ture divine che chiamiamo donne, il movimento noncu­
rante della nuca, la flessuosità musicale delle vertebre,
il netto rigonfiamento delle cosce (dal latino coxa) e io
opino che, nel luogo ove abitualmente si trovano le lab-
CHRISTIAN DIETRICH GRABBE 8l

bra (dal greco ninfé) il soggetto in questione deve es­


sere invece provvisto di un'appendice a forma di tri­
dente. Cosi, io presumo che si tratti del Diavolo.
primo e secondo naturalista È ab initio impossibi­
le, poiché il Diavolo non si adatta in alcun modo al no­
stro sistema.
quarto naturalista Non litigate, miei stimati colle­
ghi! Adesso vi dico il mio parere, e scommetto che sa­
rete subito d'accordo. Considerate l’immensa bruttezza
che ci fa strillare l'un contro l'altro su ogni tratto di
questo viso, e sarete senza fallo obbligati ad ammettere
con me che una tal caricatura non potrebbe neppure esi­
stere, se non vi fossero al mondo le donne di lettere,
i tre altri naturalisti Si, è una letterata: cediamo
alla forza dei vostri argomenti.
quarto naturalista V i ringrazio, colleghi: ma che
cosa succede? Vedete che la morta, da quando le ab­
biamo messo il lume davanti al naso, ha incominciato
a muoversi? Adesso agita le dita - adesso scuote la te­
sta - apre gli occhi - è viva!
il diavolo (rizzandosi sulla tavola) Dove sono? Ahi!
Sto ancora gelando. (Ai naturalisti) V i prego, signori,
chiudete dunque quelle due finestre là in fondo, non
posso sopportare le correnti d'aria!
primo naturalista (chiudendo la finestra) Abbiamo
certamente un polmone debole.
il diavolo (scendendo dalla tavola) Non sempre! Se
son seduto in una stufa ben imbottita di fiamme, no!
secondo naturalista Come! V i sedete in una stufa
ben imbottita di fiamme?
il diavolo Sì , ho l ’abitudine, talvolta, di sedermici
dentro.
terzo naturalista Rimarchevole abitudine. (Prende
un appunto).
quarto naturalista Vero, signora, che siete una don­
na di lettere?
82 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

il diavolo Donna di lettere? Che cosa significa ciò?


Quelle donne, il Diavolo le tormenta, ma che esse siano
il Diavolo stesso - Dio ne liberi!
tutti i naturalisti Come? Ma allora è il Diavolo?
Il Diavolo? (Vogliono scappare).
il diavolo {a parte) Ah! per una volta, posso levarmi
la voglia di mentire! {Forte) Signori, dove correte?
Calmatevi. Non fuggirete via solo per questo scherzet­
to che ho fatto giocando sul mio nome (I naturalisti ri­
tornano).
Mi chiamo Diavolo, ma non è che lo sia veramente.
primo naturalista Con chi abbiamo l ’onore di par­
lare?
il diavolo Con Teofilo Cristiano Diavolo, canonico
minore al servizio del duca di * * * , membro onorario
di una società per rincoraggiamento del cristianesimo
presso gli Ebrei, e cavaliere dell’ordine pontificio al me­
rito civile, titolo che mi è stato conferito dal papa recen­
temente, nel medioevo, per aver mantenuto il volgo in
uno stato di timore durevole.
quarto naturalista Allora dovete già aver raggiun­
to un’età di tutto riguardo?
il diavolo V i sbagliate, ho soltanto undici anni.
primo naturalista {al secondo) È il piu grande sacco
di menzogne che abbia mai visto!
secondo naturalista {al terzo) In questo caso avrà
molto successo con le signore.

Il Diavolo si è avvicinato sempre più alla lampada e,


senza volerlo, ha immerso un dito nella fiamma.

primo naturalista Signore Iddio! Che cosa fate, si­


gnor canonico? Mettete il dito nella lampada?
il diavolo (sconcertato, ritirando il dito) Io... a me
piace mettere il dito nella lampada!
CHRISTIAN DIETRICH GRABBE 83

terzo naturalista Bizzarra passione! (Prende un ap­


punto).

Il Diavolo propone al margravio Tual, nella cui casa lo hanno


appena trasportato, assiderato in pieno agosto, di procurargli la
giovane baronessa Liddy, a due condizioni: che Tual faccia studiare
filosofìa al suo figlio maggiore, e che faccia uccidere tredici artigiani
sarti.

il margravio E perché proprio degli artigiani sarti?


il diavolo Ma perché sono i più innocenti.

Mercanteggiano sul numero di artigiani sarti, e si mettono d’ac­


cordo su dodici, col patto che il tredicesimo non sarà ucciso, ma che
tuttavia gli verranno spezzate le costole.
Il Diavolo compera la giovane donna dal suo fidanzato du Val
per 19 999 scudi, 18 soldi e 2 liardi, cifra calcolata in base a una
giusta stima delle sue doti fisiche e morali (si ottiene cosi una ridu­
zione di prezzo basata sul fatto che essa è intelligente). Decidono
di persuadere il poeta Morte-ai-Topi a trasportare la ragazza nella
piccola casa di Schallbrunn.
Trovano il poeta Morte-ai-Topi occupato a cercare intorno a sé
dei soggetti di ispirazione. Ecco un giovanotto che si apparta per
soddisfare un bisogno naturale, situazione che non può fare al suo
caso. Ecco invece un vecchio che morde una crosta di pane e Morte-
ai-Topi scrive, neH’entusiasmo, questi tre versi:

Ero seduto al mio tavolo e masticavo la penna


Cosi come il leone, quando l ’alba sbianca di terrore
Mastica il cavallo sua rapida penna...

Entra il Diavolo.

il diavolo Non spaventatevi, ho letto le vostre opere.

Non vi è nulla di straordinario in ciò perché, gli confida, una


delle grandi consolazioni dei dannati consiste nel dilettarsi con la
peggiore letteratura che esista: la letteratura tedesca.
84 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

morte-ai-topi Eh! se la letteratura tedesca è la vostra


occupazione principale, devono essere ben bizzarre quel­
le secondarie!
il diavolo Oh, sapete, nei ritagli di tempo costruiamo
vetri per finestre o per occhiali, servendoci di spiriti
invisibili: Paltro giorno appunto il curioso capriccio di
penetrare l ’essenza della virtù si mise sul naso i due fi­
losofi Kant e Aristotele; ma, poiché grazie ad essi ci ve­
deva sempre meno chiaro, li sostituì con un occhialetto
fatto con due contadini di Pomerania, e cosi potè veder­
ci tanto bene quanto desiderava.

Perché il Diavolo è venuto sulla terra? «Perché in Inferno stan


facendo le pulizie generali». Tutti i personaggi irreprensibili, eroi­
ci o geniali di cui Morte-ai-Topi chiede notizie, sono allTnferno:
il marchese Posa, il pittore Spinarosa, come il Wallenstein di Schil­
ler, Hugo di Miller come Shakespeare, Dante, Orazio - quest’ulti­
mo ha sposato Maria Stuarda - Schiller, Ariosto - Ariosto si è com­
prato da poco un ombrello nuovo - Calderón, ecc.

Tra le quinte un incredibile maestro di scuola alla Groucho


Marx, regna, dall’alto della sua vertiginosa facondia, su alcuni biz­
zarri individui, veri e propri «paliottini» ante-litteram.

il maestro di scuola (a Moriroc) Signor Monroc! So­


no incantato di questa sorpresa. Come vi siete trovato
in Italia, il paese dove le pietre parlano? Ancor nessun
segno di vecchiaia sulla Venere dei Medici? Spero che il
papa non avesse camminato nella sporcizia, quando gli
baciaste il piede? Io...
il maestro di scuola Avete saputo, signor Tobies,
che un’ora fa è arrivato all’albergo un dentista, che
strappa i denti senza farsi pagare?
tobies Non m’interessa! Io, vedete, ho due file di den­
ti cosi sani che potrei usarli per affilarci i miei forconi
da fieno.
il maestro di scuola E che cosa importa? V e li strap-
CHRISTIAN DIETRICH GRABBE 85

pera gratis. Bisogna approfittare di una simile occa­


sione.
tobies Si, è giusto. Non bisogna trascurare nessuna oc­
casione di guadagno, per quanto piccolo esso sia. Ora
vado, e mi faccio strappare tutti i molari. (Esce).

Volendosi impadronire del Diavolo, il maestro di scuola si con­


geda dai suoi interlocutori, e si dirige barcollando verso la foresta.
Dopo aver sistemato qualche libro erotico in una gigantesca gab­
bia che si era portato sulle spalle, va ad appostarsi in un angolo.
Il Diavolo entra annusando l ’aria.

il maestro di scuola Eccolo già qui. Come gli stuz­


zicano il naso!
il diavolo Fiuto due specie di cose qui. A sinistra,
qualcosa di impudico...; a destra, qualcosa di sbronzo,
che si occupa di bambini.
il maestro di scuola Purché questa allusione non
sia rivolta a me!

Ciò malgrado, il Diavolo resta vittima dello stratagemma. Chiu­


so dentro la gabbia, è liberato solo grazie all’intervento di sua non­
na - una donna giovane e fiorente in tenuta da inverno in Russia -
che giunge accompagnata da Nerone e Tiberio (Nerone se ne sta^vi-
cino alla grande scala a pulire gli stivali del cavallo, il «camerata
Tiberio» è nella lavanderia e fa asciugare i suoi panni).
Tutti gli ubriaconi della commedia, in compagnia della giovane
baronessa Liddy, si ritrovano nella casetta di Schallbrùnn.

morte -ai-topi (alla finestra) Ma chi arriva laggiù, con


una lanterna, attraverso la foresta! Sembra che stia ve­
nendo da questa parte.
il maestro di scuola (seduto alla finestra) Il diavolo
se lo porti! Quel bel tomo arriva cosi tardi nella notte
per darci una mano a tracannare il punch. È quel male­
detto delTautore, o, per chiamarlo nel modo più appro­
priato, il minuscolo autore, Fautore della commedia. È
stupido come una scarpa, sbava su tutti gli scrittori ed
86 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

è un buono a nulla anche lui, ha una gamba storpia, gli


occhi strabici e una faccia da scimmia che non sa di nien­
te. Sbattetegli la porta sul naso, signor barone, chiude­
tegli la porta in faccia.
L’autore {dal di fuori, dietro la porta) Oh! Dannato
maestro di scuola! Smisurato sacco di menzogne!
il maestro di scuola Chiudetegli la porta in faccia,
signor barone, sbattetegliela sul naso!
liddy Maestro di scuola, come siete amaro nei confron­
ti di un uomo che vi ha inventato! {Bussano). Entrate.

Entra Fautore, con una lanterna accesa.


Pétrus Borei
1809-59

«Yo soy que soy» (Io sono ciò che sono), fu il motto di Pétrus
Borei e fu anche l’ultima frase pronunciata da Swift tre anni prima
di morire: mentre si guardava in uno specchio, pieno di compassio­
ne per se stesso, qualcuno s’affrettava a far scomparire un coltello
che aveva a portata di mano. E un pugnale compare nella mano di
Pétrus Borei, rivolto verso il suo petto, nel ritratto che si trova sul
frontespizio del suo volume di versi, Rapsodies. In Champavert,
contes immorauXj «libro senza equivalenti, lugubre mistificazione,
scherzo di un’immaginazione feroce», trionfa la «parola sinistra»,
insieme beffarda e ripugnante (Jules Claretie); in Madame Putiphar
soffia un vento rivoluzionario fra i piu possenti (Jules Janin, molto
ostile, lo paragona nei «Débats» alle opere del marchese di Sade):
in entrambi abbondano situazioni che muovono insieme al riso e al
pianto, passaggi in cui la sincerità più dolorosa è unita a un senso
acuto della provocazione, a un bisogno irresistibile di sfida. « “ Son
qui per domandarvi un favore, - cosi si rivolge al boia uno degli eroi
di Borei, Passereau lo scolaro, — vorrei umilmente pregarvi, ve ne
sarei tanto riconoscente, di farmi l’onore e la cortesia di tagliarmi la
testa...” “ Che significa ciò?” “ Brucerei dal desiderio che mi ghi­
gliottinaste! ” » Lo stile dello scrittore, cui più che a ogni altro si ad­
dice l ’epiteto «frenetico», e la sua ortografia attentamente barocca
sembrano voler provocare nel lettore una certa resistenza verso la
stessa emozione che gli si vuol far provare, resistenza basata sull’e­
strema singolarità della forma, e senza la quale il messaggio fin
troppo allarmante dell’autore non potrebbe umanamente essere re­
cepito.
Una litografia di Célestin Nanteuil, da un ritratto di Louis Bou-
langer, ci tramanda l’espressione di quei «grandi occhi tristi e bril­
lanti», di cui parla Théophile Gautier, aggiungendo: «Si sente che
non è del nostro tempo, che non ha nulla dell’uomo moderno, ma
che viene dal fondo del passato». In effetti nasce una certa ambi-
88 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

guità dal contrasto fra questa espressione e il portamento spettrale


del personaggio che, in piedi, tiene la mano sul capo del suo cane, di
quel cane che sarebbe morto per averne troppo a lungo condiviso la
miseria. Fu una miseria cosi nera che, dopo la pubblicazione di
Champavert, Borei dovette adattarsi a redigere in serie discorsi
d’occasione per cerimonie ufficiali. Nel 1846, logorato da questo la­
voro mercenario, invecchiato fisicamente e col morale quasi irrico­
noscibile, accetta la raccomandazione di Gautier per il posto va­
cante d’ispettore coloniale a Mostaganem. Appena in carica lo desti­
tuiscono, poi gli ridanno il posto a Costantina, dove viene di nuovo
destituito: ridotto alla disperazione, deve mettersi a fare il contadi­
no. Fino alla fine quest’uomo cosi provato dalla vita, conserva intat­
ta la fiducia nelle forze della natura. Sotto il solleone dice: «Non
mi coprirò il capo; la natura fa bene ciò che fa, e non spetta a noi
modificarla. Se mi cadono i capelli, significa che ora la mia fronte è
fatta per restare nuda». Muore in pochi giorni di insolazione.

RAPSODIE1

Chi vorrà giudicarmi da questo libro, e giudicandomi


dispererà di me, sbaglia; chi vorrà attribuirmi un grande
talento, anch’egli sbaglia. Non è falsa modestia, perché
contro coloro che mi accuseranno di metagrabolizzare vi
è la mia convinzione di poeta, e una risata.
Non ho altro da dire, se non che avrei potuto valermi,
come introduzione, di un paraninfo, oppure della mia e to­
pea, oppure ancora di un lungo trattato ex professo sul­
l ’arte; ma vendere prefazioni mi disgusta; e poi, non sa­
rebbe ridicolo dire tante cose a proposito di cosi poco?
Tuttavia, a pensarci bene: qualche mia pagina è macchia­
ta di politica: mi scaglieranno contro anatemi, uggioleran­
no al repubblicano? Per prevenire ogni possibile interro­
gatorio dico subito francamente: si, sono repubblicano!

1 Introduzione.
PETRUS BOREL 89

Andate a domandarlo al duca d ’Orléans padre, se si ricorda


di quella voce che senza tregua gli gettava in faccia le gri­
da di Libertà e Repubblica, mentre andava a giurare il
9 agosto alla ex Camera, tra le acclamazioni di una plebe
circuita.
Si, sono repubblicano, ma fin dalPinfanzia; questa gran­
de idea non s’è schiusa in me al sole di luglio; e non di
quei repubblicani con la giarrettiera rossa o blu cucita sul­
la carmagnola, predicatori da fienile e piantatori di pioppi;
sono repubblicano come potrebbe esserlo un lupo manna­
ro: il mio repubblicanesimo è la licantropia!
Parlo di Repubblica perché questa parola rappresenta
per me la più ampia indipendenza che il vivere civile e as­
sociato possa consentire. Sono repubblicano, perché non
posso essere Caribi; ho bisogno di una somma immensa
di libertà: potrà darmela la Repubblica? non ho l ’espe-
rienza per affermarlo. Ma quando questa speranza sarà de­
lusa, come tante altre illusioni, vi è il Missouri che mi
aspetta!... Quando, come me, si è su questa terra straziati
dai dubbi, inaciditi da tanti mali, si sogni pure l’uguaglian-
za, s’invochi la legge agraria, ancora non ci si merita altro
che applausi.
Quelli che diranno: questo libro è l ’opera di un pazzo,
d’uno di quei caproni romantici che hanno riportato di
moda l ’anima e il buon Dio, che secondo i barbitonsori si
nutrono di poppanti e scaldano l’acquavite nei crani. Quel­
li, so come evitarli, ho i loro connotati.
Fronte schiacciata o strozzata come dal forcipe, capelli
filacciosi, sulle guance due strisce di cotenna pelosa, la te­
sta sepolta nel collo della camicia che forma un doppio
triangolo di tela bianca, cappello a tubo di stufa, abito a
fischietto e parapioggia.
Quanto a quelli che diranno: è l ’opera di un san-simo-
niaco!... a quelli che diranno: è l ’opera di un repubblicano,
di un basileofago: bisogna ucciderlo!, quelli là devono es­
sere dei bottegai senza clientela: i rivenditorucoli senza
90 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

clienti sono delle tigri!... o dei notai che con una riforma
avrebbero tutto da perdere: il notaio è filippista quanto
un passamanaio! Dev'essere di quella brava gente che ve­
de la Repubblica nella ghigliottina e negli assegnati!
La Repubblica è per loro una questione di potatura di
teste. Non han capito niente della nobile missione di Saint-
Just, gli rimproverano quel poco che fu costretto a fare, e
poi ammirano le carneficine di Buonaparte — Buonaparte!
- e i suoi otto milioni di cadaveri!
A quelli che diranno: in questo libro c’è un sentore di
suburbio che ripugna, risponderemo che effettivamente
l ’autore non rincalza le coltri al re. D ’altronde non è egli
forse all’altezza di un’epoca che ha per governanti degli
stupidi trafficanti, mercanti di fucili, e per monarca un uo­
mo che ha per motto: «Dio sia lodato, e con lui le mie bot­
teghe! »
Per fortuna, per consolarci di tutto ciò, ci resta l’adul­
terio! il tabacco del Maryland! e del papel español por ci-
garitos.

MERCANTE E LADRO SONO SINONIMI

Un poveraccio che per necessità ruba il più vile degli


oggetti, lo spediscono in galera; ma i mercanti han licenza
di aprire botteghe lungo le strade, per rapinare i passanti
che vi si avventurano. Questi ladri non hanno chiavi false
0 grimaldelli, ma hanno bilance, registri, mercerie, e nes­
suno esce di là senza dirsi: sono stato spogliato. Questi
ladri a poco a poco, finiscono per arricchire e diventano
proprietari, e appena posson dirsi proprietari, insolenti.
Al minimo rivolgimento politico, si radunano e si armano,
urlando che li si vuol saccheggiare, e vanno a massacrare
1 cuori generosi che insorgono contro la tirannia.
Petrus Borei
92 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Rigattieri idioti! tocca proprio a voi parlare di proprie­


tà, e linciare come saccheggiatori quei coraggiosi che si son
ridotti in miseria ai vostri banchi! Difendete, difendete
le vostre proprietà! brutti bifolchi! Ve ne siete venuti via
dalle campagne, e, come un branco di corvi e di lupi affa­
mati, siete calati sulla città per succhiarne la carogna! di­
fendete dunque le vostre proprietà! sporchi ruffiani! Ma
quali proprietà potreste vantare, senza i vostri barbari sac­
cheggi? quali? se non vendeste ottone al posto d ’oro, ac­
qua sporca al posto di vino? avvelenatori!

Non credo che si possa raggiungere la ricchezza se non


si è di indole feroce, un uomo sensibile non riuscirà mai
ad accumulare.
Per arricchirsi, bisogna avere un’idea soltanto, un’idea
fissa, dura, incrollabile, la voglia di radunare un grosso
mucchio d’oro; e per riuscire a farlo diventare sempre più
cospicuo, bisogna essere usurai, imbroglioni, inesorabili,
ricattatori e assassini! e soprattutto maltrattare i deboli e
gli indifesi!
Poi, quando questa montagna d ’oro raggiunge il suo
culmine, ci si può arrampicare sopra e dall’alto, col sor­
riso sulle labbra, contemplare la valle di miserabili che si
è stati capaci di creare.

Il grande commercio depreda il negoziante, il nego­


ziante depreda il bottegaio, il bottegaio depreda l ’artigia­
no, l ’artigiano depreda l’operaio e l’operaio muore di fa­
me. Non sono quelli che lavorano con le loro mani che rie­
scono ad emergere, ma gli sfruttatori di uomini.

Preferisco tacere a proposito della pena di morte: già


messa sotto accusa da tante voci eloquenti, a partire da
Beccaria; ma mi scaglierò, ma getterò l ’anatema contro il
testimonio a carico, lo coprirò di vergogna! Come si può
concepire di essere testimonio a carico?... che orrore! solo
PETRUS BOREL 93
gli uomini possono offrire simili esempi di mostruosità!
V i è al mondo una barbarie più raffinata, più civile, della
testimonianza a carico?

In Parigi, vi sono due tane, una di ladri, l’altra di assas­


sini; quella dei ladri è la Borsa, quella degli assassini è il
Palazzo di Giustizia.

IL BECCAMORTO

State fumando allegramente con degli amici, mentre


aspettate che vi portino qualche rinfresco e — toc! toc! —
bussano alla porta: - Chi è? — Sono io, Signore, vi porto
la birra. — È chiara? - Si, Signore. - Bene, lasciatela pure
nel corridoio, e passate domani a ritirare le bottiglie —.
L ’uomo obbedisce e se ne va. Ma quale sorpresa quando,
andando a vedere, vi trovate faccia a faccia con una cassa
orrenda! \
Ogni scherzo e ogni antitesi a parte, se l ’antica gioco­
sità francese con la sua grancassa panciuta e i suoi zufoli
sottili fiorisce ancora in qualche angolo del globo, ebbene
credetemi, vi dico il vero, questo luogo è le pompe fune­
bri. Là si trova ancora in magazzino il palco di Tabarin: è
l’unico posto al mondo dove Momo agita ancora i suoi so­
nagli.
Cosi, i signori appaltatori dell’impresa (poiché, dopo il
decreto dell’anno xii , i morti sono in appalto come i ta­
bacchi), che voi siete portati a immaginare affogati nella
tristezza e imbottiti di epigrafi! in nome di Dio e dell’Ono-1

1 [Gioco di parole intraducibile fra «birra» e «bara», in francese


bière per entrambe].
94 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

re! sono invece tutt’altro: giocondi buontemponi, allegri


compari, vitaioli spavaldi che prendono il mondo per il
giusto verso. Son tutti, piu o meno, simpatici canzonetti­
sti, tutti o quasi adorabili rivistaioli! cosi hanno insieme
il monopolio del boulevard, del Palais-Royal, della fiera e
delle catacombe. La sera, ci fanno morire dal ridere; l’in-
domani, ci sotterrano.
Il giorno dei Morti è la festa delle Pompe, il carnevale
del beccamorto! Come passa in un lampo, quel giorno do­
po Ognissanti, ma quanta allegria in quelle ore!...
Di buon mattino, tutta la corporazione si riuniva con gli
abiti della festa, e mentre i signori appaltatori, nel lutto
più civettuolo, col mantello a cappuccio gettato distratta-
mente sulle spalle, dispiegavano la loro munificenza, tut-
t’intorno giravano boccali e bicchieri, e si scolava in un ba­
leno una botte intera.
Poi, un araldo intonava il buttasella, e allora si preci­
pitavano nelle carrozze, e partivano ventre a terra, a gran
galoppo, sbarcavano in un battibaleno al «Fuoco d'infer­
no», osteria in gran voga ai bei tempi. Là, in un giardino
solitario, sotto un magnifico catafalco, era apparecchiata
una tavolata immensa (la tovaglia era nera, cosparsa di la­
crime d ’argento e di ossa ricamate a croce di Sant’Andrea)
e tutti si mettevano a sedere. Veniva servita la minestra
in un cenotafio — l’insalata in un sarcofago — le acciughe
dentro dei feretri ! — Si stava sdraiati sulle tombe — seduti
sui cipressi; — le coppe erano urne — si beveva b irre1 di
ogni sorta, si mangiavano frittelle12, e sotto il nome di gela­
tine al naturale, di embrioni alla béchamelle, di ragù di or-
fanelli, di civet di vegliardo, di suprème di corazzieri, si
deglutivano le vivande più delicate e sontuose. Dapper­
tutto e in gran profusione montagne di cibo!
In confronto, le nozze di Camaccio furon quaresima, e

1 [Prosegue il gioco di parole tra biere (birra) e bière (bara)].


2 [Gioco di parole tra i due significati di crèpe: frittella e gramaglie].
PETRUS BOREL 95
la Kermesse di Rubens è una scena desolata. Mentre gli
animi via via si accendevano esaltandosi e sprizzando mille
scintille, da ogni parte infine ecco uno scatenarsi di burle
- un piovere a dirotto di facezie - una scorpacciata di lazzi.
Tutti cantavano, gridavano, levavano il calice ai defun­
ti, brindavano alla Morte, e si scatenava Forgia piu smo­
data, Forgia piu sfrenata! Tutto per aria, tutto a soqqua­
dro, tutto sconquassato! Tutto era sottosopra. Da far pen­
sare a una fossa comune svegliata di soprassalto dalle trom­
be del giudizio universale. Poi, quando questo primo tu­
multo si era un poco calmato, si dava fuoco all'acquavite :
alla luce delle sue fiamme infernali, qualche beccamorto
tendeva budelli su feretri vuoti, costruiva archetti con le
chiome e flauti tibicini con le tibie: una spaventevole or­
chestra s'improvvisava, e la folla in un immenso girotondo
girava senza tregua su se stessa, gettando orrende grida
come una sarabanda di dannati.
Edgar Poé
1809-49

Benché, come sappiamo dalla sua «Filosofia della composizio­


ne», l’ambizione suprema di Edgar Poe fosse di far dipendere la
realizzazione dell’opera d’arte da una preliminare e metodica orga­
nizzazione dei suoi elementi ai fini dell’effetto desiderato, è gioco­
forza tuttavia ammettere che egli tralasciò sovente questa rigorosa
impostazione per dare, nella sua opera, libero corso alla fantasia.
Checché se ne dica, la predilezione per l ’artificiale e lo straordinario
dovette prevalere in piu di un’occasione sulla volontà di analisi: sa-,
rebbe incomprensibile che questo seguace del Caso non avesse vo­
luto fare i conti con i casi dell’espressione. Ci viene alla memoria
quella speciosa distinzione tentata da Paul Valéry, in una conversa­
zione di circa vent’anni fa, tra coloro che egli definiva gli «strani»,
e i «bizzarri». Solo i primi riscuotevano il suo favore, e Poé natu­
ralmente veniva incluso in questa categoria. Agli altri, a Jarry ad e-
sempio, rimproverava di volersi distinguere esteriormente. Ma in
colui che Mallarmé cosi descrisse fisicamente, «demone in piedi! la
sua tragica civetteria nera, inquieta e appartata», è lecito ricono­
scere, come già fece dal canto suo Apollinaire, «il meraviglioso u-
briacone di Baltimora»: «Rancori letterari, vertigini dell’infinito,
infelicità familiari, insulti della miseria, Poe - racconta Baudelaire -
sfuggiva a tutto ciò calandosi nelle tenebre dell’alcool come in
quelle di una tomba: non beveva da goloso infatti, ma da barbaro...
A New York, nella stessa mattina in cui la rivista “ W hig” pubbli­
cava Il corvo, quando il suo nome era su tutte le bocche e tutti si
strappavano di mano il suo poema, attraversava Brodway barcollan­
do e inciampando contro ogni muro». Basterebbe questa contrad­
dizione a creare un terreno propizio per l ’humour, sia che esploda
nervosamente dal conflitto tra le eccezionali capacità logiche, la alta
tensione intellettuale e le nebbie dell’ubriachezza (L ’angelo del biz­
zarro) sia che, nella sua forma piu tenebrosa, vada aggirandosi tra
EDGAR POE 97

le umane incoerenze messe in luce da certi stati morbosi (Il demone


della perversità).

L’ANGELO DEL BIZZARRO

Faceva freddo, quel pomeriggio di novembre. Avevo


appena finito di consumare un pranzo un po’ più sostan­
zioso dell’ordinario, Telemento meno importante del qua­
le non era certo stato il dispeptico tartufo, ed ero solo nel­
la mia sala da pranzo seduto coi piedi sul parafuoco e il go­
mito appoggiato a un tavolinetto che m’ero situato accan­
to con alcune bottiglie di vini e liquori di diverse qualità.
Durante la mattina avevo letto il Leonida di Glover;
VEpigoniade di W ilkie; il Pélerinage di Lamartine; la Co-
lombiade di Barlow; la Sicilia di Tuckermann; e le Curio­
sità di Griswold; sicché, e lo confesso volentieri, mi senti­
vo leggermente istupidito. Cercai di scuotermi a forza di
bere Lafitte, e, non riuscendovi, mi buttai per disperazione
sopra un giornale che mi capitò a portata di mano. Letto
che ebbi con ogni cura la colonna delle case d’affittare,
quella dei cani smarriti, e le due delle donne e commesse
scappate, passai ad attaccare con energica risoluzione la
parte propriamente giornalistica, letta anche la quale, dal
principio alla fine senza averne capita una sillaba, mi ven­
ne in mente che poteva essere scritta in cinese e la rilessi,
dalla fine al principio stavolta, senza però ottenere miglior
risultato. Disgustato, ero già sul punto di buttar via
L ’in-folio di quattro pagine, felice scritto
che la critica non scende a criticare,

quando mi sentii un tantino interessato dal paragrafo di


cui appresso:
«Le vie che conducono alla morte sono numerose e stra­
ne. Un giornale di Londra dà notizia del decesso d ’un uo-
98 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

mo dovuto a una causa singolare. Quest’uomo stava gio­


cando a p u f f t h è darty che consiste nel soffiare sopra un
bersaglio, attraverso un tubo di stagno, un lungo ago tutto
fasciato di lana. Egli infilò l’ago nel tubo dalla parte sba­
gliata, e nel raccogliere il fiato per poi soffiare con tutta la
sua forza, si attirò l ’ago nella gola. L ’ago penetrò nei pol­
moni, e in pochi giorni l ’imprudente giocatore se ne andò
all’altro mondo».
La lettura del fatto, senza ch’io sapessi esattamente per­
ché, mi mandò su tutte le furie.
— Questa notizia, — esclamai, — è di una vergognosa fal­
sità, è una papera della piu miserabile specie; sicuro, è la
feccia della fantasia di qualche infimo scribacchino da un
soldo al rigo, di qualche pietoso fabbricante di avventure
al paese di Cuccagna. Certo, quei tipi, conoscono la pro­
digiosa credulità del nostro secolo, e si adoperano in tutti
i modi a immaginare le più improbabili possibilità, gli ac­
cidenti bizzarri, come li chiamano; ma per uno spirito ri­
flessivo (come me, aggiunsi tra parentesi, appoggiandomi,
senza volerlo, la punta delPindice alla punta del naso), per
una intelligenza contemplativa come quella di cui sono do­
tato io, risulta evidente a prima vista che il miracoloso
moltiplicarsi in questi ultimi tempi dei cosiddetti acciden­
ti bizzarri è di gran lunga il più bizzarro di tutti. Per conto
mio, io ho deciso di non credere ormai più a nulla di tutto
quello che può avere qualcosa di bizzarro!
— Mein Gott! pisogna proprio essere pestia, ber tire
guesto! — rispose una delle più curiose voci ch’io avessi
mai udite.
Dapprima la presi per un ronzio alle orecchie come tal­
volta capita a chi sta diventando ubriaco; ma, riflettendo,
trovai che il rumore somigliava piuttosto a quello che pro­
duce un barile vuoto quando lo si percuote con un basto­
ne; e, a dire il vero, mi sarei contentato di spiegarmelo
cosi se non avessi anche distinte delle sillabe e delle parole.
Io non sono affatto di temperamento nervoso, e i pochi
EDGAR POE 99
bicchieri di Lafitte centellinati servivano non poco a in­
fondermi coraggio, tanto che non provai nessuna trepida­
zione, ma, alzati gli occhi con semplice naturalezza, esa­
minai accuratamente ogni parte della stanza, onde scopri­
re l’intruso. Non riuscii, però, a veder nessuno.
— Hum! — riattaccò la voce, intanto ch’io badavo alla
mia ricerca, - pisogna ghe ziate umbriaco fradizo ber non
fetermi setuto qui ficino a foi.
Pensai allora di guardar dritto davanti al mio naso; e
cosi, quasi dirimpetto a me, allato del tavolino, vidi un
personaggio che, per quanto non proprio indescrivibile,
mai era stato descritto. Il suo corpo consisteva di una bot­
ticella da vino o da rum o d ’altro che fosse; veramente fal-
staffiano all’aspetto. Due lunghi barili aggiustati in basso
sembravano avere l’ufficio di gambe. A l posto delle brac­
cia venivano fuori dalla parte superiore due bottiglie d’una
considerevole lunghezza, il collo delle quali figurava da
mani.
Quanto alla testa, il mostro non possedeva altro che uno
di quei porta-bottiglie di Hesse, che hanno forma di tabac­
chiere, con un buco al centro del coperchio. Questo porta-
bottiglie, sormontato da un imbuto come un elmo da cava­
liere calato sugli occhi, si trovava posato sul piano della
botticella col buco dalla mia parte; e dal buco, tutto grin­
zoso e storto come la bocca di una vecchia zitella cerimo­
niosa, lo strano personaggio emetteva quei sordi brontolìi
che voleva evidentemente presumere per un linguaggio in­
telligibile.
— Tico, - diceva, - ghe tofete essere umbriaco fradizo,
ber non fetermi setuto qui ficino a foi, e ghe tofete essere
anche una pestia piu crossa di un’oga, ber non cretere le
coze stampate nello stampato. È la ferità, la ferità, parola
ber parola.
— Scusatemi, chi siete voi? - feci io gravemente, seb­
bene fossi un po’ sconcertato, - e come siete entrato qui?
Cos’è che andate mormorando?
IOO ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

- Gome sono entrato qui, - mi rispose il mostro, - non


è una coza ghe fi ricuarda, e quanto a ciò ghe fado mommo-
ranto, io mommoro quel ghe mi pare e piaze, e in quanto
poi a ciò ghe zono, ber l ’appunto zono venuto berché lo fe-
tiate foi stesso.
- Siete un miserabile d ’ubbriacone, ecco quello che sie­
te, - dissi io, - e chiamerò il mio domestico per farvi cac­
ciar fuori a pedate.
- Hi, hi, hi! - replicò il mariuolo, - hu, hu, hu! Questo
poi non botete farlo!
- Non posso farlo? - dissi io. - Che dite? Che cosa non
posso fare?
- Zuonare il cambanello! - spiegò il mariuolo abboz­
zando una smorfia con la sua piccola bocca ripugnante.
Volli mettere allora la mia minaccia in esecuzione, e cer­
cai di alzarmi; ma quella birba, chinandosi attraverso la
tavola, mi colpi alla fronte col collo di una delle sue botti­
glie, e mi ributtò in fondo alla poltrona, dalla quale mi ero
per metà sollevato. Rimasi del tutto stordito, incapace di
pensare a qual partito appigliarmi. E intanto quello conti­
nuava a parlare.
- Gome fetete, - disse, - è meglio ghe stiate trangugio;
e ora zaprete ghi zono. Guardatemi! Io zono l ’Anghelo tei
Pizzarro.
- Abbastanza bizzarro, difatti, - osai replicare, - ma
io credevo che un angelo dovesse avere le ali.
- Le ali! - esclamò quello, su tutte le furie. - Coza do-
frei farmene telle ali? Mi prentete ber un pollo?

Trad, di Elio Vittorini, Mondadori, Milano 1936.


Xavier Forneret
l8lO-8j)

Xavier Forneret, o l’Uomo Nero, o l’Ignoto del Romanticismo.


Dice nel 1840: «Gli Annali letterari di questa parte del diciannove­
simo secolo consisteranno in un volume zeppo di un’infinità di nomi
(eccetto il mio) di cui voi conoscete già i principali. Non dimenti­
chiamo la copertina; vi leggeremo sia metà dell’Accademia sia Scri-
be. Sapete bene che la copertina di un libro che si fa rilegare, si
butta via». In effetti, non avremmo alcuna notizia di questa perso­
nalità, sotto piu aspetti cosi appassionante, senza l’articolo che gli
dedicò a suo tempo Charles Monselet sul «Figaro», del quale sono
stati raccolti alcuni estratti nel catalogo di vendita redatto da Mon­
selet stesso (Catalogne détaillé, raisonné et anecdotique d’un Hom-
me de lettres bien connu). D ’altra parte questo articolo è tale da ec­
citare la nostra curiosità e non da soddisfarla. Noi non esitiamo a
sostenere che esiste un caso Forneret, la cui persistente oscurità giu­
stificherebbe ancor oggi ricerche pazienti e sistematiche: ci si do­
manda come mai l’autore di una ventina di opere tanto singolari sia
passato quasi del tutto inosservato; come si spieghi l’estrema dise­
guaglianza della sua produzione, dove l’invenzione piu autentica
confina con il peggior luogo comune, dove il sublime si batte con il
banale, dove la costante originalità del linguaggio lascia spesso tra­
sparire la povertà del pensiero; ci si domanda ancora chi fosse quel­
l’uomo, il cui comportamento sembra essere stato rivolto ad attira­
re l’attenzione del gran pubblico che il suo modo di scrivere non po­
teva che allontanare, chi fosse quell’uomo tanto orgoglioso da far
pubblicare nei giornali questo annuncio di uno dei suoi libri: «La
nuova opera del signor Xavier Forneret verrà consegnata solo a co­
loro che si prenoteranno presso l’editore Duverger, rue de Verneuil,
previo esame della loro richiesta da parte dell’autore» e, al tempo
stesso, tanto umile da scusarsi della propria incapacità e da chiedere
Vindulgenza del lettore, come leggiamo in calce a molti suoi libri.
Sotto più di un aspetto questo modo di fare non manca di rivelare
102 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

sconcertanti analogie con quello che adotterà piu tardi Raymond


Roussel. D ’altronde lo stile di Forneret è tra quelli che fanno pre­
sagire Lautréamont, cosi come il suo repertorio di immagini del tut­
to nuove ed audaci anticipa Saint-Pol-Roux; una poesia come Jeux
de mère et d’enfant in Vapeurs ni vers ni prose, anticipa con scon­
certante ingenuità l’illustrazione clinica delle teorie psicanalitiche
attuali,
«Digione - scriveva Monselet — si ricorda ancora della prima
rappresentazione de L ’homme noir, dramma in prosa in cinque atti.
Si era nel 1834 o nel 1835. L ’autore era un borgognone, uomo gio­
vane e abbiente, ma di abitudini estranee alla vita borghese e pro­
vinciale, che avevano il dono di suscitare la diffidenza dei suoi con­
terranei. Tanto per cominciare, aveva il torto di non vestirsi come
loro. Prediligeva i velluti, le cappe, aveva un cappello di forma inso­
lita e una canna bianca e nera. Si raccontavano cose strane sul suo
conto: che abitava in una torre gotica dove suonava il violino tutta
la notte. Per queste e altre ragioni i digionesi stavano sulle loro e
diffidavano di Xavier Forneret; cosi, la loro curiosità fu brusca­
mente svegliata quando fu annunciata la presentazione de Ukotn-
me noir. Xavier Forneret non aveva badato a spese; il giorno prima
della rappresentazione, alabardieri e araldi in costume medievale
andarono su e giu per le strade della città, agitando bandiere recan­
ti a grandi lettere il titolo della commedia. Se non proprio su un
buon successo, si poteva contare almeno su un buon incasso.
«La sala dello spettacolo era in effetti gremita, ma Uhomme
noir non ebbe alcun successo; crediamo perfino che non sia giunto
nemmeno alla fine; vi furono mormorii, disturbi. Xavier Forneret
fece stampare il suo dramma con una copertina simbolica: lettere
bianche su fondo nero. Fece anche di meglio, adottò il soprannome
di Uomo Nero, firmandosi cosi in parecchi volumi. Contempora­
neamente si rifugiava piu che mai in un modo di vivere singolaris­
simo. La sua personalità, cosi spiccata ma senza risvolti offensivi,
ha irritato per ventanni gli abitanti di Digione e di Beaune. I gior­
nali locali non resistettero alla tentazione di divertirsi alle sue spal­
le: divenne il personaggio originale del luogo, cercarono di spie­
garsi il suo isolamento; vi furono scandali e processi a non finire.
Ma Xavier Forneret tenne duro».
Dopo aver accennato alle stravaganze che contraddistinguono
la veste tipografica delle sue opere (stampa a grossi caratteri, uso
smodato del bianco: due o tre righe per pagina, o il testo stampato
soltanto sul «recto», la parola fine che non interrompe necessaria­
mente il libro, il quale talvolta continua con una «dopo-fine», Tin-
serimento in mezzo alle altre di una poesia eccezionalmente stam-
XAVIER FORNERET 103
pata in caratteri rossi, titoli singolari (d’altronde quasi sempre fra
i più felici), Monselet fa acutamente notare: «Siamo dunque certi
di esserci imbattuti in uno scrittore umorista» e continua: «Ma
proprio qui sta il guaio. In Francia non sono mai mancati scrittori
umoristi, ma vi sono apprezzati meno che in ogni altro paese... Si è
molto parlato delle audacie di Petrus Borei, il licantropo, e delle
divagazioni di Lassailly: ebbene, Xavier Forneret va molto oltre».
Monselet, piu coraggioso in questo dell’intera critica degli ultimi
cento anni, non esita ad ammirare in Forneret ciò che vi è da am­
mirare: «Temps perdu! - e noi stessi sottoscriviamo formalmente
questa opinione - contiene un capolavoro, Le diamant de Vherbe,
un racconto di non più di venti pagine. Il singolare, il dolce, il mi­
sterioso, il terribile, non si sono mai sposati, sotto la stessa penna,
con eguale intensità».
Il suo autore sottovaluta i propri mezzi, quando dichiara: «Tut­
to è sentito dentro di me, senza mai ben sortire». Vi son buone ra­
gioni per credere che Monselet abbia visto giusto e che i posteri
saranno d’accordo con questo suo giudizio: «Xavier Forneret si
esagera la sua incapacità; vale più lui, nei suoi sforzi e nelle sue
febbrili aspirazioni, che cento scrittori nella loro stupida e serena
abbondanza. Vi è un temperamento in lui. Sotto la zappa del cri­
tico, questo terreno inesplorato lascia a volte brillare un filone di
metallo puro».
Osserviamo ancora che sarebbe vano cercare di squalificare l ’au­
tore di Sans titre sostenendo che egli era più o meno incosciente
e irresponsabile degli echi che suscita una lettura attenta e impar­
ziale delle sue opere: lui che mise per epigrafe al suo libro questa
frase di Paracelso: «Spesso non vi è nulla in superficie, tutto è
sotto, scavate».

U N P O V E R O V E R G O G N O SO

L ’ha cavata
Da una tasca bucata,
Sotto gli occhi l’ha messa
L ’ha guardata ben bene
Dicendo: «Infelice!»
io 4 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

L'ha soffiata
Con la bocca umettata;
Aveva quasi paura
Di un tremendo pensiero
Che lo colse nel cuore.

L'ha bagnata:
Una lacrima ghiacciata
Che per caso sgelò;
La sua stanza è tarlata
Ancor piu di un bazar.

L'ha strofinata,
Ma non l'ha riscaldata;
Non sentendola quasi
Che, contratta dal freddo,
G li voltava la schiena.

L'ha pesata
Sull'aria appoggiata,
Come si pesa un'idea;
Con del filo di ferro
L'ha poi misurata.
L'ha sfiorata
Con la bocca aggrottata. -
Con terrore improvviso
Essa allora gridò:
Baciami, addio!

L'ha baciata,
E poi l'ha incrociata
Sull'orologio del corpo,
Che mal caricato
suonava cupo e sordo.

L'ha palpata
Con mano ostinata
A farla morire.
Xavier Forneret
io 6 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

— Si, questo boccone


Nutrire mi può.
L ’ha piegata
Spezzata
Sistemata
L ’ha tagliata
Lavata
Portata
Rosolata,
L ’ha mangiata.
Quando non era ancora grande, gli avevano detto: - Se hai fa­
me, mangiati una mano.

SEN ZA T IT O L O E AN CO RA
U N ANNO S E N Z A T IT O L O

Si può camminare senza testa.

V i sono cuori che assomigliano a una bottiglia piena


che si avvolge in un panno bagnato e si espone in pieno
sole. - Il panno diventa bollente, Pinterno della bottiglia
gelato.

La promessa e la verità sono come palloncini che gli


uomini si lanciano l ’un l ’altro e che restano in aria.

L ’abete, con il quale si fanno le bare, è un albero sem­


preverde.

Oh! che disgrazia che la donna mangi, sia pure fragole


nel latte!

Non vi è un i più vero di un 2 che fa un 3.


XAVIER FORNERET IO7

Amo troppo la donna per non confessarle una verità:


- Che essa è talvolta una scellerata - . Mi perdoni questa
battuta: è un osso sorridente uscito dal mio cimitero.

Una piccola città è un grosso buco, - e le sue grandi


idee, un piccolo topo.

Ho visto una cassetta postale in un cimitero.

Riderei, se tutte le cose che afferriamo si attaccassero


alle mani come tante verruche, perché allora al Mondo vi
sarebbero soltanto venditori di pietre infernali.

Nelle esposizioni del Louvre e dei negozi, quanti grandi


ritratti in piccolo , quante statuette in gesso , alle quali
manca un nome, come manca la gamba di una M per riu­
nire due parole, precedenti, e fare quella che, secondo PA-
cadémie, indica la cosa che adoperava Figaro su degli oc­
chi malati \

tutto o niente. - Queste tre parole sono un paio di


occhiali da mandare alla donna che dice di saper leggere
solo nel nostro cuore, tutto e niente saranno le due len­
ti, e o ciò che glieli terrà sul naso.

I minuti d ’albergo sono le ali senza l ’uccello.

Come sono spaventose le belle mani con le loro grandi


unghie12.

1 [Gioco di parole intraducibile tra en piatre (in gesso) e emplâtre


(impiastro), cioè la cosa che Figaro usa sugli occhi malati].
2 Capita che queste parole abbiano in questa sede cambiato mese, e
sarebbero invecchiate se le belle mani innanzitutto, e poi le belle unghie,
non fossero di tutti i tempi.
io8 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

giornale: Che bella carta la terra; quali caratteri il


Giorno; che inchiostro la Notte! — Tutti stampano, tutti
leggono; nessuno capisce.

Non è che si sia buoni; si è contenti.

Per pensare amaramente, non occorre altro che vedere


una serratura toccata da una mano viva, — e un cimitero
dove le mani morte non sono occupate .
Charles Baudelaire
1821-67

L ’humour di Baudelaire fa parte integrante della sua conce­


zione del dandysmo. Per lui «la parola dandy implica una quintes­
senza di carattere e una comprensione sottile del meccanismo mo­
rale del mondo». Nessuno piu di lui si è preoccupato di caratteriz­
zare l’humour in contrapposizione all’allegria triviale o al sarcasmo
sogghignante in cui lo «spirito francese» ama riconoscersi. Colloca
Molière a capo delle «ridicole religioni moderne»; Voltaire, è
«l’antipoeta, il re dei babbei, il principe dei superficiali, l’antiarti-
sta, il predicatore delle portinaie, il babbo Gigogne dei redattori
del Siècle». Il dandy è diviso tra la cura narcisistica dei suoi atteg­
giamenti e dei suoi gesti («Egli deve aspirare a essere sublime senza
sosta. Deve vivere e morire davanti allo specchio») e il desiderio
di suscitare al suo passaggio lunghi mormorii di disapprovazione
(«ciò che è inebriante nel cattivo gusto è il piacere aristocratico di
dispiacere»). In Baudelaire, la cura del vestire potrebbe testimo­
niare da sola questo partito preso destinato a trionfare su ogni vi­
cissitudine della fortuna, dai guanti rosa pallido della sua fastosa
gioventù, passando attraverso la parrucca verde che esibiva al Café-
Riche, fino al boa di ciniglia scarlatta, addobbo supremo dei giorni
di disgrazia. I suoi improvvisi interventi, le stravaganti confidenze
in pubblico, nascono da una necessità di stupire, disgustare e sba­
lordire (a bruciapelo a Nadar: «Non sei d’accordo con me che il
cervello dei bambini deve avere un sapore come di nocciola?»; a
un passante che si rifiuta di dargli del fuoco per non far cadere
la cenere del sigaro: «Mi scusi, signore, vorrebbe avere l’infinita
compiacenza di dirmi il suo nome? - Vorrei ricordare il nome del­
l’uomo che desidera conservare la sua cenere»; a un borghese che
vantava i meriti delle sue due figlie: «E quale delle due giovani
avvierete alla prostituzione?»; a una giovane donna in una birre­
ria: «Signorina, voi che, incoronata di spighe d’oro, mi ascoltate
con quei bei denti, vorrei mordere la vostra carne... Vorrei legarvi
IIO ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

le mani e appendervi per i polsi al soffitto della mia camera; mi


metterei allora in ginocchio e bacerei i vostri piedi nudi»). Si sforza
di lasciare agli uomini comuni un'immagine da incubo della sua
vita: «I suoi amori - cosi scrive “ Le Gaulois” del 30 settembre
1866 - hanno avuto per oggetto donne fenomeno. Passava dalla
nana alla gigantessa, e rimproverava la Provvidenza di negare spes­
so la salute a quegli esseri privilegiati. Aveva perso qualche gigan-
tessa di tisi e due nane di gastrite. Raccontando questi episodi so­
spirava, s’immergeva in un profondo silenzio, e finiva col mormo­
rare filosoficamente: “ Una di queste nane aveva solo settantadue
centimetri di statura. Non si può aver tutto a questo mondo” ».
Volenti o nolenti, occorre ammettere che Baudelaire ha dedi­
cato una cura tutta particolare a questo lato del suo personaggio e,
ciò che piu conta, che proprio questo lato sembra essere miracolo­
samente sfuggito al naufragio finale; anzi, negli anni di affievoli-
mento mentale che precedettero la sua morte, sembra in qualche
modo sublimarsi: «Quando si guardò allo specchio, non si riconob­
be e salutò»; le sue ultime parole, dopo un silenzio di molti mesi,
furono per chiedere a tavola con la massima tranquillità di passar­
gli la senape. L ’humour nero, in Baudelaire, rivela cosi la sua ap­
partenenza al fondo organico delPessere. Significa non capir nulla
del suo genio ostentare indifferenza verso questa disposizione elet­
tiva, o perdonargliela con indulgenza. Essa conforta la concezione
estetica su cui appoggia la sua opera; in stretto rapporto con essa,
si sviluppa sul piano poetico un insieme di norme destinate a scon­
volgere tutta la sensibilità moderna.
«Narrare pomposamente cose comiche. - L ’irregolarità, cioè l’i­
natteso, la sorpresa, lo stupore, sono una parte essenziale e la ca­
ratteristica della bellezza. - Due qualità letterarie fondamentali:
soprannaturalismo e ironia. - La combinazione del grottesco e del
tragico riesce gradevole alla mente, cosi come le discordanze sono
gradite a un orecchio raffinato. - Studiare una trama per una farsa
lirica e fiabesca, per una pantomima, e tradurre il tutto in un ro­
manzo serio. Immergere il tutto in un’atmosfera anormale e di so­
gno, nell’atmosfera dei grandi giorni... Regione della poesia pura» h

1 Fusées.
CHARLES BAUDELAIRE III

I L C A T T I V O V E T R A IO

Ci sono nature puramente contemplative e totalmente


negate all’azione, le quali tuttavia, sotto un misterioso sti­
molo ignoto, agiscono a volte con una rapidità di cui loro
stesse si sarebbero credute incapaci.
Uno che per tema di trovare dalla portinaia una brutta
notizia gironzola vigliaccamente un'ora davanti alla porta
senza il coraggio di entrare; uno che si tiene in tasca quin­
dici giorni una lettera senza aprirla, o che soltanto in capo
a sei mesi si rassegna a compiere un passo necessario da un
anno: a volte si sentono improvvisamente scagliati verso
Fazione da una forza irresistibile, come la freccia d'un ar­
co. Il moralista e il medico, che pretendono di sapere tut­
to, non possono spiegare da dove provenga cosi a un tratto
una si folle energia a codeste anime pigre e voluttuose; e
come, incapaci di compiere le cose più semplici e necessa­
rie, a un certo momento trovino tanto lusso di coraggio da
mandare a effetto le più assurde e spesso pericolose azioni.
Un amico mio, il più innocuo sognatore del mondo, una
volta appiccò il fuoco a una selva per vedere, diceva, se il
fuoco attacca con la facilità che si dice. Dieci volte di fi­
la l'esperienza falli, ma l'undecima riuscì anche troppo
bene.
Un altro accenderà un sigaro accanto a un barile di pol­
vere, cosi, per vedere, per sapere, per tentare il destino,
per costringersi a dar prova d'energia, per rischiare come
il giocatore, per sperimentare i piaceri dell'ansia, per nien­
te, per capriccio, per non saper che fare.
È una specie di energia che scaturisce dalla noia e dalla
fantasticheria; coloro nei quali si manifesta cosi impensa­
tamente sono in generale, come ho detto, gli esseri più in­
dolenti e sognatori del mondo.
112 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Un altro, timido a segno da chinar gli occhi anche da­


vanti allo sguardo degli uomini, a segno da dover radu­
nare tutta la sua povera volontà per entrare in un caffè o
per passare davanti al botteghino d'un teatro, dove i bi­
glietti gli paiono investiti della dignità di Minosse, di Eaco
e di Radamante, eccolo a un tratto saltare al collo d'un vec­
chio che gli passa accanto e abbracciarlo con entusiasmo
davanti alla folla stupita.
Perché? Perché... perché quella fisionomia gli riusciva
irresistibilmente simpatica? Forse; ma è più fondato sup­
porre che nemmeno lui sa perché.
Più d'una volta sono stato vittima di codeste crisi e di
codesti slanci, che ci autorizzano a credere che Dèmoni ma­
liziosi si insinuano in noi, e a nostra insaputa ci fanno com­
piere le loro più assurde volontà.
Una mattina m'ero alzato di malumore, triste, stanco
d'oziare e spinto, mi pareva, a fare qualcosa di grande,
un'azione illustre; e, ahimè! aprii la finestra.
(Vi prego di osservare che lo spirito di mistificazione
il quale, in certe persone, non deriva da un lavoro o da una
combinazione, ma da una fortuita ispirazione, partecipa
molto, non foss'altro che per l'ardore del desiderio, di
quell'umore che i medici dicono isterico, satanico quelli
che pensano un po' meglio dei medici: il quale ci spinge
inevitabilmente verso una quantità di azioni pericolose e
sconvenienti).
La prima persona che scorsi in strada fu un vetraio, il
suo grido acuto e stridulo s'alzò fino a me attraverso la
greve e sudicia atmosfera parigina. Per altro non saprei af­
fatto dire perché fui preso da un odio improvviso e dispo­
tico per codesto poveruom o.
— Ehi! ehi! — e gli gridai che salisse. Frattanto riflette­
vo, non senza una certa allegria, che siccome la camera era
al sesto piano e le scale molto strette, l'uomo doveva pe­
nare un poco nell’ascensione e impigliarsi spesso con gli
angoli della sua fragile merce.
CHARLES BAUDELAIRE 1 13

Finalmente comparve; esaminai curioso tutti i vetri e


gli dissi:
— Ma come! non avete vetri colorati? dei vetri rosa, ros­
si, azzurri, vetri magici, vetri paradisiaci? Spudorato! ave­
te la sfrontatezza di girare per i quartieri poveri, e non
avete nemmeno vetri che fanno vedere la vita in bellezza!
E lo spinsi vigorosamente verso le scale, dove inciampò
brontolando.
M ’accostai al balcone e afferrai un vasetto di fiori, e
quando l’uomo risbucò dalla porta lasciai cadere a perpen­
dicolo il mio arnese di guerra sull’orlo posteriore del suo
carico; rovesciato dall’urto, il vetraio fini di infrangere
sotto la schiena tutta la sua povera ricchezza ambulante,
che rese il fragore sonoro d’un palazzo di cristallo spaccato
dal fulmine.
E, ubbriacato dalla pazzia, gli urlai furioso:
— La vita in bellezza! la vita in bellezza!
Codesti scherzi nervosi non vanno esenti da pericolo,
spesso bisogna pagarli cari. Ma cosa conta l ’eternità della
dannazione, per chi ha trovato in un attimo l’infinito del
piacere?

Trad. di Piero Bianconi, Rizzoli, Milano 1955.


Lew is Carroll
1832-98 ¡

Un pastore anglicano che è, per di piu, un eccellente professore


di matematica e un logico specializzato; tanto basta perché il non-
sense faccia la sua comparsa nella letteratura, o quanto meno una
clamorosa ricomparsa (le piu sorprendenti poesie di Lewis Carroll
presentano un certo rapporto di parentela, senza dubbio inconscia,
con certi poemi «incoerenti» francesi del x m secolo, noti sotto il
nome di fatrasies, ai quali è rimasto legato un solo nome, quello di
Philippe de Beaumanoir). L ’importanza del non-sense in Lewis
Carroll deriva dal fatto di costituire per lui la soluzione vitale di
una profonda contraddizione, da un lato fra l’accettazione della fe­
de e l’esercizio della ragione, dall’altro tra l’acuta coscienza poli­
tica e i rigorosi doveri professionali. La caratteristica di questa
soluzione soggettiva è di riflettersi in una soluzione oggettiva, pre­
cisamente d’ordine poetico: lo spirito, alle prese con difficoltà di
ogni genere, può trovare una via d’uscita ideale n¿[{'assurdo. Il gu­
sto dell’assurdo riapre all’uomo il regno misterioso dell’infanzia.
Il gioco dell’infanzia, come mezzo ormai smarrito di conciliazione
tra l’agire e il sognare ai fini della soddisfazione organica, a co­
minciare dal semplice «gioco di parole», si trova cosi riabilitato e
nobilitato. Le potenze che presiedono al «realismo», all’animismo
e all’artificialismo infantili e che combattono per una morale senza
costrizioni, dopo essersi assopite tra i cinque e i dodici anni, sono
passibili di un ricupero sistematico che minaccia il mondo severo
e spento in cui siamo obbligati a vivere.
La mano destra come sulla maniglia di una porta di uscita (di
rientrata), in realtà chiusa su un’arancia: ecco l’atteggiamento di
una bambina che il poeta Lewis Carroll, - in realtà il degno Mr
Dodgson che si cela sotto quello pseudonimo - ha appena condotto
davanti a uno specchio e che, per spiegare che vede se stessa te­
nere il frutto con la mano sinistra, mentre sente di tenerlo sempre
con la destra, suppone di tenerlo con la mano giusta, la destra,
LEWIS CARROLL 11^

«dall’altra parte dello specchio». (Questo tema dell’attraversamen­


to dello specchio sarà ripreso in forma tragica da Jacques Rigaud
in Lord Patchogue).
Senza dubbio alcuno si ha qui il presentimento di un «a ritro­
so» dei piu autentici. Non si può negare che nell’occhio di Alice
un mondo di distrazione, di inconseguenza, e, piu propriamente,
di sconvenienza, gravita vertiginosamente al centro del vero.
Humour rosa? Humour nero? è senz’altro difficile precisarlo.
Dice Aragón: «La caccia allo snark esce contemporaneamente ai
Chants de Maldoror e a Une saison en enfer. Stretta nelle catene
vergognose di quei giorni di massacri in Irlanda, di oppressione
infame nelle fabbriche dove prendeva corpo l’ironica contabilità
del piacere e del dolore preconizzata da Bentham, mentre da Man­
chester si levava come una sfida la teoria del libero scambio, che
ne era della libertà umana? Stava tutt’intera nelle fragili mani di
Alice, dove questo curioso uomo l’aveva collocata». Sembra però
stranamente abusivo presentare Lewis Carroll come un refrattario
«politico» e prestare alla sua opera intenzioni satiriche contingen­
ti. Si commette una soperchieria pura e semplice insinuando che
la sostituzione di un regime a un altro varrebbe a metter fine a ri­
vendicazioni di un tale ordine. Si tratta della resistenza radicale che
il bambino opporrà sempre a coloro che pretendono di plasmarlo
e poi di condizionarlo, limitando piu o meno arbitrariamente il suo
meraviglioso campo di esperienza. Tutti coloro che conservano in
sé il senso della rivolta riconosceranno in Lewis Carroll il loro pri­
mo maestro di scuola marinata.

L A Q U A D R IG L IA D E L L E A R A G O S T E

La Finta Tartaruga tirò un profondo sospiro e si passò


una pinna sugli occhi. Quindi guardò Alice e cercò di par­
lare, ma per qualche minuto i singhiozzi le soffocarono la
voce. - Singhiozza come se avesse un osso in gola, — disse
il Grifone, cominciando a scuoterla e a batterle forte sulla
schiena. Finalmente la Finta Tartaruga riacquistò la sua
voce e, con le lacrime che le scorrevano giù sulle guance,
continuò:
- Tu forse non hai vissuto molto in fondo al mare -
1 16 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

(« infatti non ho vissuto» disse Alice) — e forse non sei mai


stata presentata ad una Aragosta... — (Alice cominciò a di­
re: «una volta l’ho assaggiata», ma subito si corresse e
disse invece: «no, mai») — sicché non puoi avere idea di
quanto sia deliziosa una Quadriglia di Aragoste!
- No, infatti, - disse Alice. - Che genere di danza è
mai questa?
- Ecco, - disse il Grifone, - per prima cosa ci si dispone
in una lunga fila sulla spiaggia...
- Due File! — interruppe la Tartaruga. — Foche, tarta­
rughe, salmoni e cosi via; poi, una volta che tutta la spiag­
gia è stata ripulita dalle meduse...
- Questo lavoro di solito prende un po' di tempo, - in­
terruppe il Grifone.
- ... si avanza di due passi...
- E ognuno ha un’aragosta per dama, - urlò il Grifone.
- Naturalmente, — disse la Finta Tartaruga: — si avanza
di due passi, a tempo con la propria dama...
- ... si scambiano le Aragoste, e ci si ritira nel mede­
simo ordine, - continuò il Grifone.
- Poi, - continuò la Finta Tartaruga, - si scagliano le...
- Le aragoste! — urlò il Grifone, facendo un gesto in
aria.
- ... il più lontano possibile nel mare...
- Poi si nuota dietro a loro! - strillò il Grifone.
- ... e si fa una capriola nell’acqua! — esclamò la Finta
Tartaruga, saltellando qua e là come una cavalletta.
- ...e si scambiano di nuovo le aragoste! — strepitò il
Grifone.
- Quindi si ritorna a riva, ed è finita la prima figura, -
disse la Finta Tartaruga, abbassando improvvisamente la
voce. E qui i due animali, che avevano saltellato come paz­
zi per tutto il tempo, si sedettero rivolti verso Alice, assu­
mendo nuovamente quell’aria triste e quieta di prima.
- Deve essere proprio una bella danza, — disse Alice ti­
midamente.
LEWIS CARROLL II7

- T i piacerebbe vederne un saggio? - rispose la Finta


Tartaruga.
- Davvero moltissimo, - disse Alice.
- Su, proviamo la prima figura! - disse la Finta Tarta­
ruga al Grifone. - Possiamo fare anche senza aragoste. Chi
canta ?
- Oh, tu canti, - disse il Grifone. — Ho dimenticato le
parole.
Cosi cominciarono a danzare solennemente intorno ad
Alice, pestandole i piedi di tanto in tanto, quando le pas­
savano troppo vicino e agitando le zampe anteriori per bat­
tere il tempo, e la Finta Tartaruga cantava lentamente e
con fare triste questa canzone:

- Vuoi camminare un po’ piu forte? - disse un merluzzo ad


una lumaca.
- C ’è un delfino proprio dietro di noi che mi sta calpestando
la coda!
- Guarda con quanta bravura aragoste e tartarughe procedono
insieme!
Ci stanno aspettando sulla spiaggia - vuoi venire con me e unir­
ti alla danza?
Vuoi, non vuoi, vuoi, non vuoi, vuoi unirti alla danza?
Vuoi, non vuoi, vuoi, non vuoi, vuoi unirti alla danza?
- Tu non puoi davvero immaginare come sarà divertente
Quando ci prenderanno e ci getteranno a mare insieme con le
aragoste!
Ma rispose la lumaca: - Troppo lontano, troppo lontano! -
guardando un poco di traverso.
Disse che ringraziava di cuore il merluzzo, ma che non voleva
unirsi alla danza.
Non voleva, non poteva, non voleva, non poteva, non voleva
unirsi alla danza.
Non voleva, non poteva, non voleva, non poteva, non voleva
unirsi alla danza.
- Che importa quanto lontano camminiamo, - rispose il suo
amico squamoso.
- C ’è un’altra spiaggia, per certo, per certo, dall’altra parte.
E più lontana sarà dall’Inghilterra, piu vicina sarà alla Francia,
118 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Adesso non diventar pallida, mia cara lumaca, ma vieni e unia­


moci alla danza.
Vuoi, non vuoi, vuoi, non vuoi, vuoi unirti alla danza?
Vuoi, non vuoi, vuoi, non vuoi, vuoi unirti alla danza?

- Grazie, è una danza molto interessante a vedersi, —


disse Alice contenta che finalmente fosse finita: - e mi pia­
ce tanto quella curiosa canzone sul merluzzo!
- Oh, quanto ai merluzzi, — disse la Finta Tartaruga, —
essi... oh! naturalmente li avrai visti qualche volta?
- Si, - rispose Alice, — ne ho spesso visti a pran... - e
subito s'interruppe.
- Non so dove sia Pran, - replicò la Finta Tartaruga, —
ma se ne hai visti spesso, certamente saprai come sono
fatti.
- Credo di si, - rispose Alice pensierosa. - Hanno la
coda in bocca... e sono tutti ricoperti di pane grattugiato.
- Ti sbagli riguardo al pane grattugiato, - disse la Fin­
ta Tartaruga, - perché il mare glielo toglierebbe subito di
dosso. Ma quanto alla coda, è vero che Yhanno in bocca
e la ragione è... - A questo punto la Finta Tartaruga sba­
digliò e cominciò a socchiudere gli occhi, poi, rivolgendosi
al Grifone, aggiunse: - O h, digliela tu la ragione e tutto
il resto.
- La ragione è, - spiegò il Grifone, - che avevano l'a­
bitudine di andare a ballare con le aragoste e cosi finivano
sempre scagliati in mare. E durante il lungo volo si mette­
vano rapidamente la coda in bocca senza in seguito tirarla
fuori. Ecco tutto.
- Grazie, - disse Alice, - è veramente interessanté.
Non ho mai saputo tante cose in una volta sola sui mer­
luzzi.
- Potrei continuare ancora se queste cose ti piacciono,
—disse il Grifone. — Sai perché i lucci hanno questo nome?
- Non ci ho mai pensato, - disse Alice. - Perché?
- Perché lucidano scarpe e stivali, - rispose il Grifone
con aria solenne.
Lewis Carroll
120 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Alice era più sbalordita che mai. — Lucidano scarpe e


stivali! - continuò a ripetere per qualche istante.
- E dimmi, come sono state pulite le tue scarpe? - dis­
se il Grifone. - Volevo dire: che cosa le fa brillare a quel
modo?
Alice guardò le sue scarpe e rimase a riflettere per un
po' prima di rispondere; poi disse: - Oh, credo che siano
state pulite con il lucido nero.
- No! No! Scarpe e stivali in fondo al mare, - continuò
il Grifone con voce profonda e solenne, — si puliscono sol­
tanto con l’inchiostro di seppia. Ora lo sai.
- E di che cosa sono fatte? - domandò Alice in tono di
grande curiosità.
- Sono fatte di Sogliole e Tacchigliole, naturalmente, -
rispose il Grifone piuttosto spazientito: - qualunque gam­
bero di buon senso avrebbe saputo dirti queste cose.
- Se fossi stata il merluzzo, — disse Alice che pensava
ancora alla canzone, — avrei detto al delfino: «sta’ indie­
tro, per favore non ti vogliamo con noi! »
- M a erano obbligati ad accettarlo, - disse la Finta
Tartaruga: - nessun pesce saggio andrebbe contro il vole­
re del suo delfino.
- Davvero non lo farebbe? - esclamò Alice in tono di
grande sorpresa.
- Certo che no, - rispose la Finta Tartaruga: - se un
pesce venisse da me e mi dicesse che è in procinto di met­
tersi in viaggio, io gli direi: «Se cosi vuole il tuo delfino».
- Non volete dire per caso «destino»? — osservò Alice.
- Io volevo dire esattamente quello che ho detto, — ri­
spose la Finta Tartaruga in tono offeso. Poi il Grifone ag­
giunse: - Suvvia, sentiamo un po’ il racconto delle tue av­
venture.
- Potrei raccontarvi le mie avventure... a cominciare da
questa mattina, — disse Alice timidamente: — ma è inutile
raccontarvi quelle di ieri, perché allora ero una persona di­
versa.
LEWIS CARROLL 12 1
- Spiega tutta questa faccenda! - esclamò la Finta Tar­
taruga.
- No! no! Le avventure prima, - disse il Grifone con
voce impaziente: — le spiegazioni portano via sempre trop­
po tempo.
E Alice allora cominciò a raccontare loro le sue avven­
ture dal momento in cui aveva scorto il Bianco Coniglio.
Dapprima si senti un poco a disagio perché i due animali,
uno da una parte Taltro dall’altra, le si erano fatti molto
vicini e stavano entrambi con occhi e bocca spalancati; ma
poi guadagnò coraggio e continuò il suo racconto. I due
ascoltatori stettero in perfetto silenzio fino al momento in
cui Alice descrisse come aveva ripetuto al Bruco la fila­
strocca Tu sei vecchio, babbo Guglielmo e come le parole
le erano venute tutte diverse; quindi la Finta Tartaruga
trasse un profondo sospiro e disse: — Tutto molto curioso.
- Tutto stranissimo quanto mai, - disse il Grifone.
- La filastrocca ti è venuta tutta diversa! - ripetè al­
quanto turbata la Finta Tartaruga. - Mi piacerebbe sentir­
la provare e ripetere qualcosa adesso. Dille di comincia­
re —. E dicendo questo si era voltata verso il Grifone, for­
se pensando che costui avesse qualche autorità su Alice.
- Alzati e ripeti Questa è la voce del fannullone, - dis­
se il Grifone.
«È incredibile come qui ogni animale dia ordini e fac­
cia ripetere le lezioni a questo modo! — pensò Alice; — è
esattamente come se fossi a scuola». Comunque si alzò e
cominciò a recitare la filastrocca, ma la sua testa era tanto
piena della Quadriglia delle Aragoste che a malapena riu­
scì a capire quello che stava dicendo. E le parole che le
uscirono suonavano davvero strane:
Questa è la voce delPAragosta; e Pho sentita dichiarare
- Mi avete arrostita un po’ troppo, ora dovrò inzuccherarmi
i capelli.
Cosi come un’anitra, essa rassetta per bene col naso ben saldo
cintura, bottoni e butta fuori i piedi.
122 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

- Ma è diversa da come la recitavo io quando ero bam­


bino, — esclamò il Grifone.
- Beh, io non l’ho mai sentita prima, - disse la Finta
Tartaruga; - e mi sembra di una insolita assurdità.
Alice non disse nulla; si era seduta con il viso tra le ma­
ni chiedendosi se qualcosa mai sarebbe ancora accaduta in
modo normale.
- Mi piacerebbe che qualcuno me la spiegasse, - disse
la Finta Tartaruga.
- Lei non può spiegartela, - s’affrettò a dire il Grifone.
- Continua con la seconda strofa.
- Ma come teneva i piedi? - insistè la Finta Tartaruga.
- Come poteva girarli all’infuori con il naso?
- È la prima posizione della danza, - disse Alice, ma
era terribilmente confusa da tutta la storia e non desidera­
va altro che cambiare argomento il più presto possibile.
- Continua con la seconda strofa, — ripete il Grifone
con impazienza: - mi pare cominci cosi: Son passata per
il giardino.
Alice non osava disobbedire e, malgrado fosse certa che
la filastrocca le sarebbe venuta tutta sbagliata nuovamen­
te, cominciò con voce tremante:
Son passata per il giardino e ho notato, con un occhio, in che
modo il Gufo e la Pantera stavano dividendosi la torta.

- Ma a cosa serve ripetere tutta questa roba, — inter­


ruppe la Finta Tartaruga, — se non ce la spieghi a mano a
mano che vai avanti ? È sicuramente la poesia più confusa
che abbia mai sentito!
- Si, credo che sia meglio rinunciare, - disse il Grifone;
e Alice, che non aspettava altro, fu molto contenta di smet­
terla.
- Perché non proviamo un’altra figura della Quadriglia
delle Aragoste? —propose il Grifone. — Oppure vuoi che la
Finta Tartaruga ti canti una canzone?
- Oh, una canzone. Si; per favore, se la Finta Tartaru­
LEWIS CARROLL 1 2 3

ga è tanto gentile da cantarcene una, - rispose Alice cosi


premurosamente, che il Grifone, in tono piuttosto offeso,
disse: - Uhm! I gusti non si discutono! Cantale La Zup­
pa della Tartaruga; eh, vuoi vecchia mia?
La Finta Tartaruga trasse un’ennesimo sospiro e con
voce a tratti soffocata dai singhiozzi cominciò a cantare
cosi:
Magnifica Zuppa, cosi ricca e verde,
che ci aspetti in una calda zuppiera!
Chi non farebbe una sosta per tale leccornia?
Zuppa della sera, magnifica Zuppa!
Zuppa della sera, magnifica Zuppa!
Magni - fica Zup - pa!
Magni - fica Zup - pa !
Zup - pa della se - ra,
Magnifica, magnifica Zuppa!
Magnifica Zuppa! Che ce ne importa del pesce,
dei giochi o di qualunque altro piatto?
Chi non darebbe tutto quello che ha per due
soldi soltanto di questa magnifica Zuppa?
Per due soldi soltanto di questa magnifica Zuppa?
Magni - fica Zup - pa!
Magni - fica Zup - pa !
Zup - pa della se - ra,
Magnifica, magni - fica zuppa !

— Il coro ancora! - urlò il Grifone, e la Finta Tartaruga


aveva appena cominciato a ripeterlo, quando in lontanan­
za si udì un grido: — Il processo ha inizio!
— Su, vieni, — gridò il Grifone, e afferrata Alice per una
mano volò via senza aspettare la fine della canzone.
— Di che processo si tratta? - chiese ansimando Alice,
durante la corsa: ma il Grifone si limitò a rispondere. -
Su, vieni! — e affrettò la corsa, mentre giungevano sempre
piu deboli e melanconiche le parole della canzone portate
dalla brezza:
Zup - pa della se - ra,
Magnifica, magnifica Zuppa!

Trad. di Alfonso Galasso e Tommaso Kemeni, Sugar, Milano 1967.


V illiers de PIsle-Adam
184O-89

Crollano sordamente lembi di muro. Lo scoiattolo della folgore


balza di ramo in ramo nelle foreste. Un dubbio fondamentale strin­
ge d’assedio il principio di realtà, mira a spogliare le forme presenti
della vita del carattere dispotico che in generale rivestono, in mo­
do che l’esistenza umana sia colta nel suo divenire senza cessa.
Questo atteggiamento strettamente hegeliano di Villiers non può
che provocare in lui un certo disamore verso il suo tempo e spezza
l ’equilibrio filosofico a vantaggio del non attuale. Il passato e il fu­
turo si accaparrano tutte le facoltà sensibili e intellettuali del poe­
ta, distaccato dallo spettacolo immediato; divengono due filtri di
pura trasparenza, una volta che non ci si lasci piu ipnotizzare dal
torbido precipitato che nasce dal mondo di oggi. Qui la possibilità
è sentita come «altrettanto terribile» che la realtà e naturalmente,
per quell’idealista assoluto che è Villiers, non vi è identità fra il
ceppo che si getta nel camino e lo stesso ceppo in fiamme: «dov’è
la sostanza? tra i vostri due sopraccigli!» Cosi, la maggior parte
dei suoi personaggi spalanca verso l’esterno occhi di nuvola, quan­
do addirittura non cela questi occhi che più non vedono dietro im­
mensi «occhiali d’azzurro», come la bella Claire Lenoir. Questa
chiaroveggenza cercata a qualsiasi costo (anche a prezzo della ce­
cità), come in Maeterlinck che volle dichiarare: «Tutto ciò che ho
fatto lo devo a Villiers», non ha mai trovato peggior nemico del
senso comune, la cui caricatura tragica e vendicativa è rappresentata
dal personaggio di Tribulat Bonhomet, «archetipo del suo secolo».
Senso comune che Villiers de lTsle-Adam non cessò di sfidare
lungo quello che Mallarmé chiamò «il simulacro della sua vita». Si
può credere che fu lo stesso processo mentale a spingerlo a cercar
di far valere i suoi diritti al trono di Grecia, e a fargli sposare in
extremis la sua povera e ignorante domestica. «Nel temperamento
di Villiers - dice Huysmans - vi era un lato di comicità nera e di
caricatura feroce: non più le paradossali mistificazioni di Edgar
VILLIERS DE L ’ISLE-ADAM I2 5
Poe, ma uno schernire lugubre e comico, lo stesso dei furori di
Swift».

L ’ U C C I S O R E D I CIGNI

A forza di consultare tomi di storia naturale, il nostro


illustre amico, il dottor Tribulat Bonhomet, aveva finito
per scoprire che, «il cigno canta prima di morire». In real­
tà (ci confessava ancora di recente), da quando gli era acca­
duto di ascoltare quella musica, essa soltanto poteva or­
mai aiutarlo a sopportare le delusioni della vita, e ogni al­
tra gli sembrava solo del fracasso, del «Wagner»
- Come aveva potuto procurarsi questo piacere da raf­
finato? -E c c o :
Nei dintorni dell'antica città fortificata dove abitava,
in un parco secolare ormai abbandonato, l'industrioso ve­
gliardo aveva un bel giorno scoperto, all'ombra di grandi
alberi, un vecchio stagno sacro, sulle cui acque cupe scivo­
lavano dodici o quindici di quei placidi uccelli; ne aveva
studiato con cura meticolosa le vie d'accesso e le distanze,
facendo soprattutto attenzione al cigno nero, il loro guar­
diano, che dormiva' smarrito in un raggio di sole.
Questi se ne stava vigile, ogni notte, ad occhi spalan­
cati, con un ciottolo levigato chiuso nel lungo becco rosa
e, al minimo segno di pericolo per i suoi protetti, era pron­
to, con un rapido movimento del collo, a gettare brusca­
mente nel mezzo del bianco cerchio dei compagni dormien­
ti, la pietra del risveglio; a quel segnale il branco sarebbe
fuggito, dietro la sua stessa guida, attraverso l'oscurità di
viali profondi, verso qualche praticello lontano, o una fon­
te dove si specchiano grige statue, o qualche altro rifugio
ben noto alla loro memoria.
Bonhomet li aveva osservati a lungo, in silenzio, quasi
126 a n t o l o g ía d e l l o h u m o u r n e r o

sorridendo. Non sognava forse, da raffinato amatore, di


saziare il suo udito con il loro ultimo canto?
Talvolta dunque, quando i dodici tocchi suonavano in
una notte autunnale senza luna, Bonhomet, travagliato
dalPinsonnia, tutto a un tratto si alzava e, per il concerto
che sperava di riascoltare, indossava un abbigliamento spe­
ciale. L ’ossuto e gigantesco dottore, dopo aver cacciato le
gambe dentro smisurati stivaloni di gomma chiodati, pro­
paggine ininterrotta di un ampio giaccone impermeabile
debitamente foderato di pelliccia, infilava le mani in un
paio di guanti d’acciaio riccamente lavorato, che proveni­
vano da qualche armatura medievale (guanti che si era
concesso il piacere di comperare al prezzo di trentotto sol­
di — una pazzia! — da un antiquario). Fatto ciò, si calcava
sul capo il suo grande cappello moderno, soffiava sulla
lampada, scendeva e, una volta messosi in tasca le chiavi di
casa, s’incamminava con dignitoso contegno verso il limi­
tare del parco abbandonato.
Subito s’avventurava per oscuri sentieri verso il rifugio
dei suoi cantori preferiti, lo stagno dall’acqua poco profon­
da che egli sapeva, avendone accuratamente esplorato ogni
tratto, non giungergli oltre la cintola. Quindi, sotto le vol­
te di frasche contigue alle sponde, attutiva il passo, calpe­
stando con cautela i rami morti.
Arrivato ai margini dello stagno, lentamente, molto
lentamente, - e senza il minimo rumore! — arrischiava pri­
ma un passo, poi l ’altro, e procedeva nell’acqua con pre­
cauzione inaudita, talmente inaudita che osava a mala pe­
na respirare. Come un melomane in attesa della sospirata
cavatina. Tanto che, per compiere i venti passi che lo se­
paravano dai suoi cari virtuosi, impiegava di solito da due
ore a due ore e mezzo, preoccupato com’era di non allar­
mare l’acuta vigilanza del nero guardiano.
L ’alito del cielo senza stelle scuoteva lamentosamente
le cime degli alberi, nelle tenebre che circondavano lo sta­
gno: ma Bonhomet, senza lasciarsi distrarre da quel miste­
VILLIERS DE L ’ISLE-ADAM 127

rioso sussurro, continuava insensibilmente ad avanzare, fi­


no a trovarsi, invisibile, verso le tre del mattino, a mezzo
passo dal cigno nero, senza che questi avesse avvertito il
benché minimo indizio della sua presenza.
Allora, sorridendo nell’ombra, il buon dottore gratta­
va dolcemente, molto dolcemente, sfiorava con la punta
del suo medioevale indice la superficie abolita dell’acqua,
davanti al guardiano!... E grattava con tanta delicatezza
che questi, benché perplesso, non riusciva a considera­
re questo vago allarme abbastanza preoccupante da fargli
buttare il ciottolo. Ascoltava. Alla lunga, il suo istinto era
oscuramente penetrato dalYidea del pericolo, e il suo cuo­
re, oh! il suo povero cuore ingenuo!, si metteva a battere
all’impazzata: ciò riempiva di gioia Bonhomet.
Ed ecco che i bei cigni, uno dopo l’altro, turbati da quel
rumore nel profondo del loro sonno, svolgevano il capo
flessuoso da sotto le pallide ali d ’argento e, sotto il peso
dell’ombra di Bonhomet, entravano poco a poco in una
confusa angoscia, coscienti in qualche oscura maniera del
mortale pericolo che li minacciava. Ma, nella loro infinita
delicatezza, soffrivano in silenzio, come il loro guardiano
- e non potevano fuggire, perché la pietra non era stata
gettata\ I cuori di quei bianchi esiliati si mettevano a bat­
tere rintocchi di sorda agonia - comprensibili e chiari al­
l ’orecchio rapito dell’eccellente dottore che — ben conscio,
lui, degli effetti morali provocati dalla sua sola vicinanza
— gioiva in pruriti incomparabili della orrenda sensazione
che la sua immobilità faceva loro subire.
«Come è bello incoraggiare gli artisti!» si ripeteva
tra sé.
Durava tre quarti d ’ora circa quest’estasi, che egli non
avrebbe barattato con un intero reame. D ’improvviso, il
raggio della Stella del mattino, scivolando di ramo in ra­
mo, illuminava Bonhomet, le acque scure, i cigni dagli oc­
chi ancora pieni di sogni! A quella vista il guardiano, paz­
zo di terrore, buttava la pietra... Troppo tardi!... Con un
128 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

grido terribile, in cui sembrava smascherarsi il suo dolcia­


stro sorriso, Bonhomet si precipitava a braccia avanti, sfo­
derando gli artigli, in mezzo alla schiera degli uccelli sacri!
Rapida era la stretta delle ferree dita di questo moderno
eroe: gli immacolati colli color di neve di due o tre can­
tori venivano trafitti e spezzati, prima che gli altri uccelli-
poeti potessero alzarsi nel loro volo radioso.
Allora, Tanima dei cigni morenti, dimentica del buon
dottore, si esalava in un canto di immortale speranza, di
liberazione e di amore verso Cieli ignoti.
Il razionale dottore sorrideva di tanta sentimentalità e
si degnava di assaporarne, da serio conoscitore, questo so­
lo elemento - il timbro . Apprezzava musicalmente solo
la singolare dolcezza del timbro di quelle simboliche voci,
che vocalizzavano la Morte come una melodia.
Bonhomet, a occhi chiusi, ne aspirava nel suo cuore le
armoniose vibrazioni: poi, barcollando come in uno spasi­
mo, naufragava sulla sponda e si lasciava cadere sull’erba,
supino, nei suoi vestiti ben caldi e impermeabili.
E là, questo Mecenate dei tempi nostri, smarrito in un
voluttuoso torpore, assaporava ancora una volta, attingen­
dolo dal fondo di se stesso, il ricordo di quel canto deli­
zioso — anche se esaltato da un sublime un po' fuori moda,
a suo gusto.
Poi, riassorbendo quell’estasi comatosa, ne ruminava
contegnosamente la squisita sensazione, fino al sorgere del
sole.
Charles Cros
1824-88

Je sais faire les vers perpétuels. Les hommes


Sont ravis à ma voix qui dit la vérité.
La suprême raison dont j’ai, fier, hérité
Ne se payerait pas avec toutes les sommes.
J’ai tout touché: le feu, les femmes, et les pommes;
J’ai tout senti: l’hiver, le printemps et l’été;
J’ai tout trouvé, nul mur ne m’ayant arrêté.
Mais, Chance, dis-moi donc de quel nom tu te nommes? \

Potè presentarsi cosi, e senza alcuna esagerazione: la sua opera


poetica apre un «paradiso mattutino», il suo cuore ancor oggi non
fa che un mazzo dei lillà del monte Valérien. Se ancora è lontano
dall’avere il posto che gli spetta, lo deve senza dubbio al suo genio,
che lo fa cadere, come nessun altro, nel gioco di luci e ombre di
molteplici sfere.
Le dita di Charles Cros, come quelle di Marcel Duchamp, sono
guidate da farfalle color della vita, che si nutrono del nettare dei
fiori ma che possono essere attratte solo dalla fonte luminosa del­
l’avvenire. Sono dita di un eterno inventore. Frementi sempre tra
l’oggetto e il progetto, corrono volteggiando dalla pagina in cui,
al tempo stesso, s’architettano i piani e si dispongono in ordine i
versi, fino agli umili materiali dal cui piu o meno logico conca­
tenarsi può scaturire una conquista per tutta l’umanità, Charles
Cros ha visto nelle parole stesse dei «procedimenti», procedimenti1

1 [Io so fare i versi eterni. Gli uomini | Sono rapiti dalla mia voce che
dice il vero. | La suprema ragione che, fiero, ereditai | Nessuna somma
la potrebbe pagare. || Ho tutto toccato: il fuoco, le donne e le mele; | Ho
tutto sentito: Tinvemo, la primavera e l’estate; | Ho tutto trovato, poiché
nessun muro mi ha fermato. | Ma, fortuna, dimmi, con quale nome ti chia­
mi?].
130 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

che egli ha amato tanto quanto quelli che segnano, con la loro sco­
perta e la successiva applicazione, le tappe del progresso scienti­
fico. Si tratta in entrambi i casi di strappare alla natura una parte
dei suoi segreti: ecco ciò da cui deriva l’unità della sua vocazione
di poeta e di scienziato. Nasce da questo fatto, per esempio, la sor­
prendente orchestrazione di certi suoi poemi in prosa {Sur trois
aquatintes de Henri Cros) che preparano le lUuminations, e la pro­
dezza di far girare a vuoto la macina poetica in Uhareng-saur. La
freschezza della sua intelligenza fa si che tutto ciò che è passi­
bile di desiderio non gli sembri a priori utopistico e che, meno di
chiunque altro, avverta pesare la proibizione su ciò che non è (ai
suoi occhi ciò che non è ancora) in funzione di ciò che è. Ha rea­
lizzato per primo la sintesi artificiale del rubino; ha «immaginato,
descritto, precisato tutte le caratteristiche del radiometro che Sir
William Crookes utilizza per misurare il vuoto e l’imponderabile,
come pure del “ fotofono ” che Graham Bell aveva sognato di usare
per far parlare la luce e raccogliere gli echi del sole». Si deve a lui
il principio della fotografia a colori, ed è provato che, otto anni e
mezzo prima che Edison inventasse il fonografo, Cros aveva depo­
sitato all’Accademia delle Scienze un plico sigillato in cui descri­
veva un apparecchio quasi del tutto simile. Emil Gauthier, che si
è dedicato alla causa di fargli rendere giustizia su questo punto,
ricorda ancora «gli studi di Charles Cros sull’elettricità, di cui la­
mentava curiosamente le “ snervanti lentezze” e la “ costituzione
vischiosa” , il suo stenografo musicale realizzato poi da altri sotto
il nome di “ melotropo” , il suo telegrafo automatico, il crono­
metro, il vertiginoso progetto di telegrafia ottica interplanetaria,
ecc...»
La prodigiosa avventura mentale di Charles Cros ebbe come
risvolto le modestissime condizioni economiche in cui dovette sem­
pre dibattersi. Dalla sua soffitta fino allo «Chat-noir», dove cree­
rà il genere del monologo, non gli toccò in sorte altro che alternare
la povertà alla bohème. Ciò significa che l’humour nasce in lui co­
me sottoprodotto di quella «filosofia amara e profonda» che gli at­
tribuisce Verlaine, senza il cui conforto non avrebbe potuto so­
cialmente rassegnarsi. La giocosità pura di certe parti tutte stra­
vaganti della sua opera non deve far dimenticare che alcune fra le
piu belle poesie di Cros hanno un revolver puntato contro il cuore.
CHARLES CROS I3I

L 'A R I N G A A F F U M I C A T A

Era un grande muro bianco - nudo, nudo, nudo,


Contro il muro era una scala - alta, alta, alta,
Per terra un’aringa affumicata - secca, secca, secca.
Viene e stringe nelle mani - sporche, sporche, sporche,
Un martello e un grande chiodo - aguzzo, aguzzo, aguzzo,
Un gomitolo di spago - spesso, spesso, spesso.
Sale allora sulla scala - alta, alta, alta,
E il chiodo a punta pianta - toc, toc, toc,
Su nel grande muro bianco - nudo, nudo, nudo.
Il martello lascia andare - che cade, cade, cade
Lo spago attacca al chiodo - lungo, lungo, lungo,
Allo spago l ’aringa affumicata - secca, secca, secca.
Scende giù da quella scala - alta, alta, alta,
Porta via scala e martello - grosso, grosso, grosso,
E poi se ne va altrove - lungi, lungi, lungi.
Allora l ’aringa affumicata - secca, secca, secca,
Che pende giù dalla corda - lunga, lunga, lunga,
Si dondola piano piano - sempre, sempre, sempre.
Ho composto questa storia - facile, facile, facile,
Per fare arrabbiare i grandi - seri, seri, seri,
E divertire i bambini - piccini, piccini, piccini.

L A SC IE N ZA D E L L 'A M O R E

Ancora giovane, mi trovai con molto denaro e la pas­


sione della scienza. Non di quella scienza campata in aria
13 2 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

e piena di pretese, che crede di poter creare il mondo di


sana pianta e svolazza nelPazzurra atmosfera dell’immagi­
nazione.
Ho sempre pensato, d’accordo coi ranghi compatti de­
gli scienziati moderni, che Puomo non è che uno stenogra­
fo dei fatti grezzi, un segretario della natura tangibile;
che il vero, considerato non come qualche futile universa­
lità, ma come un volume immenso e confuso, può essere
parzialmente attinto solo da chi sappia grattare, rifilare,
frugare, procacciare e immagazzinare fatti reali, constata-
bili, innegabili; in una parola, che bisogna esser formica,
che bisogna essere acaro, rotifero, infusorio, che bisogna
essere nulla! per arrecare il proprio atomo alPinfinità di
atomi che compongono la maestosa piramide delle verità
scientifiche. Osservare, osservare, e soprattutto mai pen­
sare, mai sognare o immaginare: qui sta la magnificenza
del metodo moderno.
Nutrito di questa sana dottrina, feci il mio ingresso nel­
la vita; e, mentre ancora muovevo i primi passi, mi venne
in mente un progetto meraviglioso, un’autentica bazza
scientifica.
Imparavo la fisica, e mi sono detto:
Si è studiato il peso, il calore, l’elettricità, il magneti­
smo, la luce. L ’equivalente meccanico di queste forze è o
sarà determinato, senza dubbio alcuno, in modo rigoroso.
Ma tutti coloro che lavorano all’identificazione di questi
elementi del sapere futuro, hanno, nel nostro mondo, un
ben misero ruolo.
V i sono altre forze che l’osservazione sagace e paziente
deve sottomettere al pensiero dello studioso. Non starò a
fare classificazioni generali, perché le considero deleterie
per lo studio e poi non ci capisco niente. Per farla breve,
mi sono trovato (il come e il perché lo ignoro) a intrapren­
dere lo studio scientifico dell’amore.
Ho un fisico non del tutto sgradevole, non sono né trop­
po alto né troppo piccolo, e nessuno ha mai affermato che
Charles Cros
1 3 4 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

io fossi bruno o biondo. Solo gli occhi sono un po’ piccini,


non tanto vivaci, e mi danno un aspetto ebete che mi torna
utile negli ambienti eruditi, ma mi nuoce in società.
D ’altronde, malgrado tanti sforzi metodici, non ho una
conoscenza sicura di questa società, ed è stato un vero ca­
polavoro di sangue freddo l ’essere riuscito a perseguirvi
la mia meta austera senza dare troppo nell’occhio
Mi ero detto: Voglio studiare l ’amore, non come i Don
Giovanni che si divertono senza scrivere, non come i let­
terati che nebulosamente sentimentalizzano, ma come gli
scienziati seri. Per constatare l’effetto del calore sullo zin­
co, si prende una sbarra di zinco, la si riscalda nell’acqua
a una temperatura rigorosamente determinata col miglior
termometro possibile: si misura poi con precisione la lun­
ghezza della sbarra, la sua resistenza, sonorità, capacità ca­
lorica, e si compiono quindi le stesse operazioni a un’altra
temperatura, non meno rigorosamente determinata.
Mi proposi dunque di studiare l’amore attraverso pro­
cedimenti altrettanto esatti (progetto notevole in cosi te­
nera età: venticinque anni appena). Impresa difficile.

Ci scambiammo le nostre fotografie. La mia era stam­


pata su smalto e chiusa in una cornicetta dorata; una mi­
nuscola catenella permetteva di portarla sotto le vesti.
Questo ritratto conteneva, nascosti fra una piastra d’a­
vorio e lo smalto, due termometri a massima e a minima,
due capolavori di precisione, in cosi esigue dimensioni.
Potevo in tal modo verificare gli scarti rispetto alla tem­
peratura normale in un organismo affetto da amore.
Inventando qualche scusa (non sempre facile da trova­
re) mi facevo restituire il medaglione per qualche ora e,
dopo aver preso nota della temperatura a una certa data,
predisponevo di nuovo i termometri.
Una sera che avevo ballato due volte con una piccola
signora bruna, ricordo di aver constatato un abbassamen­
CHARLES CROS 1 3 5

to di temperatura di quattro decimi, seguito o preceduto


(nulla ha potuto chiarirmi bordine dei due fenomeni) da
un aumento di sette decimi. Questi sono fatti.
Sia quel che sia, una volta apprestata ogni cosa, presi
le seguenti misure: dissi al signor D.: «La proprietà è un
furto» (non è mia, non è nuova, ma funziona sempre); al­
la signora D., che aveva avuto un aborto e non faceva al­
tro che parlarne, dissi: «La donna, dal punto di vista eco­
nomico e sociale, può e deve essere considerata una fabbri­
ca di feti»; e canticchiai, sull’aria di Vicino a una culla,
qualche verso di una canzoncina di W ., dal titolo Vicino
a un boccale.
... Lo vedevo col bianco colletto
Sostituto dalle degne pose...
Se non fosse neU’alcool costretto,
Avrebbe fatto grandi cose!

Poi feci scivolare nelle mani di Virginia questo bi­


glietto:
«Vi spiegherò tutto, più tardi. Disaccordo assoluto fra
i vostri genitori e me. L ’ideale, il sogno, il prisma dell’im­
possibile, ecco ciò che ci attende. Per vivere bisogna ama­
re... c’è una vettura, da basso: vieni, o m’uccido e sarai
dannata».
Fu cosi che la rapii.
Ero ancora stupito della facilità con cui avevo portato
a termine la mia impresa quando, sul treno, guardai que­
sta ragazza, educata in un ambiente tranquillo, probabil­
mente destinata a qualche mediocre impiegato: ora mi se­
guiva, grazie a una serie di formule sentimentali, che del
resto non avevo inventato io, e di cui non avrei saputo
fornire una spiegazione sufficiente.
Andavamo da qualche parte, si suppone.
In realtà, avevo da tempo predisposto, con la mia abi­
tuale sagacia, un delizioso e metodico apparato, di cui ve­
dremo più oltre lo scopo.
136 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Il viaggio in ferrovia durava tre ore, un tempo ben lun­


go per lo sgomento, i singhiozzi, i palpiti. Per fortuna non
eravamo soli nello scompartimento.
Avevo preliminarmente studiato il meglio possibile la
situazione, quale si presenta nei romanzi:
« Tu... voi mi sacrificate tutto... Come ringraziarvi...»
Poi, dopo un silenzio: «Ti amo... V i amo... Oh! Viaggia­
re con la donna amata! L ’orizzonte si accende a sera, o il
mattino s’imperla all’aurora, e, dopo lo svago o il sonno,
trovarsi con gli occhi negli occhi in paesi dai profumi
nuovi».
Mi ero fatto preparare la frase dal mio amico, il poe­
ta W .
Arriviamo, lei come un pulcino bagnato, io felice del
successo iniziale delle mie ricerche. Infatti, senza lasciar­
mi prendere dalle vacuità romanzesche di questo rapimen­
to, nel corso del viaggio, mentre rassicuravo la povera ra­
gazza sconvolta, ero riuscito ad applicare abilmente tra la
decima e l ’undicesima costola un cardiografo dal funzio­
namento prolungato, talmente esatto che lo stesso dottor
Morey, autore della sua descrizione ideale, vi aveva rinun­
ciato per economia.
Alla stazione ci aspettava una vettura. Terrore, imba­
razzo, ebbrezza irrequieta della signorina. I miei abbracci,
debolmente respinti, permettevano al cardiografo di regi­
strare le espressioni viscerali della situazione.
E nel delizioso salottino dove, coprendosi gli occhi con
le mani, essa si rimproverava quella rottura definitiva
con le esigenze della morale e dell’opinione corrente, po­
tei felicemente procedere alla determinazione esatta del
peso del suo corpo (il momento era di capitale importan­
za). Ecco come:
Si era lasciata cadere su un divano, perduta nei suoi
pensieri. Soffermandomi, commosso e rapito, a contem­
plarla, schiacciai col tacco il pulsante del campanello elet­
trico sistemato sotto il tappeto; e li accanto, in una stan-
CHARLES CROS 137
zetta segreta, Jean (il mio affezionato domestico, preven­
tivamente istruito) poté rilevare il peso della fanciulla ve­
stita sul braccio della bilancia di cui il divano costituiva
l’altra estremità.
Mi gettai ai suoi piedi e le prodigai ogni possibile con­
solazione, carezze, baci, massaggio, ipnotismo, ecc., con­
solazioni tuttavia non definitive, secondo il piano delle
mie ricerche.
Sorvolo sui vari passaggi che mi portarono a far cadere
i suoi ultimi indumenti, sempre sul divano, e a trascinarla
nell’alcova dove essa dimenticò famiglia, reputazione e so­
cietà.
Nel frattempo Jean pesava gli abiti abbandonati sul di­
vano, calze e stivaletti compresi, in modo da ottenere, per
sottrazione, il peso netto del corpo della donna.
Del resto, nella camera dove ebbra d’amore essa si ab­
bandonava ai miei trasporti fittizi (non avevo certo del
tempo da perdere), si era come in una storta. Le pareti ri­
vestite di rame impedivano qualsiasi comunicazione con
l ’atmosfera, e l ’aria veniva rigorosamente analizzata, pri­
ma all’entrata, poi all’uscita. Le soluzioni di potassio de­
gli apparecchi ad ampolla rivelavano ora per ora, a una
schiera di esperti chimici, la presenza quantitativa dell’a­
cido carbonico. Ricordo a questo proposito alcuni dati cu­
riosi, ma che mancavano della precisione necessaria alle
tavole comparative, poiché il mio respiro, di non innamo­
rato, si mescolava a quello di Virginia, innamorata vera.
Basti far menzione di un certo eccesso di carbonio nel cor­
so delle notti tumultuose, in cui la passione raggiungeva il
maximum di intensità e di espressione numerica.
Cartine di tornasole accortamente nascoste nelle fode­
re dei suoi vestiti mi hanno rivelato la reazione sempre
piuttosto acida del sudore. Poi, nei giorni seguenti, nelle
notti seguenti, quante cifre da registrare sull’equivalente
meccanico delle contrazioni nervose, sulla quantità delle
secrezioni lacrimali, sulla composizione della saliva, sulla
I 38 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

variabile igroscopia dei capelli, sulla tensione dei singhioz­


zi inquieti e dei sospiri di voluttà!
I risultati del contatore di baci sono particolarmente
curiosi. Lo strumento, di mia invenzione, non è più in­
gombrante di quegli apparecchi che i saltimbanchi si met­
tono in bocca per far parlare Pulcinella, e che vanno sotto
il nome di pivetta. Appena il dialogo si faceva tenero e la
situazione si annunciava favorevole, mi mettevo fra i den­
ti, di nascosto, beninteso, l'apparecchio già preparato.
Fino allora avevo sempre riso di quelle espressioni tipo
«mille baci», che si mettono in fondo alle lettere d'amore.
Sono, mi dicevo, iperboli passate nel linguaggio comune e
tratte da certi poeti di cattivo gusto, come Jean Second
per esempio. Ebbene, sono lieto di poter recare una con­
ferma sperimentale a quelle formule istintive che tanti stu­
diosi, prima di me, avevano considerato assolutamente
chimeriche. Nello spazio di un'ora e mezzo all'incirca, il
mio contatore aveva registrato novecentoquarantaquattro
baci.
Lo strumento piazzato nella bocca m'infastidiva; ero
tutto preso dalle mie ricerche, e poi le attività fittizie non
eguagliano mai quelle reali. Tenuto conto di tutto questo,
è chiaro che questa cifra di novecentoquarantaquattro può
essere spesso superata da persone ardentemente innamo­
rate.
Friedrich N ietzsche
1844-1900

È significativo che Nietzsche abbia attirato su di sé la vigile at­


tenzione degli psichiatri firmando la mirabile lettera del 6 gennaio
1889, lettera in cui si può essere tentati di ravvisare il punto liri­
camente piu alto della sua opera. L ’humour non ha mai raggiunto
un tal grado di intensità, e nello stesso tempo non si è mai urtato
contro cosi impervi ostacoli. L ’impegno tutto di Nietzsche tende
in effetti a rafforzare il «Superio», come accrescimento e dilatazio­
ne dell’io (il pessimismo presentato come fonte di buona volontà,
la morte come forma della libertà, l ’amore sessuale come realizza­
zione ideale dell’unità dei termini contraddittori: «Annullarsi per
riimmettersi nel divenire»). SÌ tratta in sostanza di restituire al­
l’uomo tutta la potenza che egli ha saputo applicare al nome di d i o .
Forse a questa temperatura l’io dovrà dissolversi («Io è un altro»,
dirà Rimbaud, e non si vede perché non dovrebbe trattarsi per
Nietzsche di una serie «di altri», scelti secondo il capriccio del­
l ’ora e designati per nome). È vero che l’euforia fa qui la sua appa­
rizione: esplode a guisa di stella nera nell’enigmatico «Astu» che
è il corrispettivo del «Baou!» di Rimbaud nella poesia Dévotion
e prova che, a questo punto, i ponti di comunicazione sono crollati.
Ma i ponti di comunicazione c o n c h i , se si è tutti, tutti in uno solo,
dalla stessa parte? «Tutte le morali - ci dice Nietzsche - sono sta­
te utili, in quanto hanno dato inizialmente alla specie una stabi­
lità assoluta: ma una volta raggiunta questa stabilità, la meta può
essere spostata piu in là. Uno dei movimenti è incondizionato: il li­
vellamento dell’umanità, i grandi formicai umani, ecc. L ’altro mo­
vimento, il mio movimento, è invece l’accentuazione di ogni con­
trasto, di ogni abisso, l ’abolizione dell’eguaglianza, la creazione di
esseri onnipotenti». Si delira solo agli occhi degli altri, e le sue
idee deliranti di grandezza Nietzsche le offerse solo a dei piccoli
uomini.
14 0 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

L E T T E R A A JACOB BURCKH ARDT

6 gennaio 1889
[timbro postale: Torino, 5 gennaio 1889]

Caro professore, alla fin fine preferirei moltissimo es­


sere professore a Basilea piuttosto che Dio; ma non ho
osato spingere il mio egoismo privato fino al punto di o-
mettere, per causa sua, la creazione del mondo. Lei vede,
bisogna fare dei sacrifici, dovunque e comunque si viva.
Ma io mi sono riservato una cameretta da studente che è
posta di fronte al Palazzo Carignano (in cui sono nato col
nome di Vittorio Emanuele) e inoltre permette di ascol­
tare dal proprio tavolo di lavoro la splendida musica che si
suona sotto di me, alla Galleria Subalpina. Pago 25 frs.
servizio compreso, provvedo da solo al mio tè e a tutte le
compere, soffro perché ho gli stivali rotti e ringrazio il cie­
lo ogni momento del vecchio mondo, per cui gli uomini
non sono stati abbastanza semplici e tranquilli. — Dato che
sono condannato a divertire la prossima eternità con catti­
ve freddure, mi sono messo qui a scribacchiare in un modo
che non lascia proprio nulla a desiderare, molto carino e
nientaffatto faticoso. La posta è a cinque passi di distanza,
imbuco io stesso le lettere per fare la parte del grande
feuilletoniste del grand monde. Naturalmente ho stretti
rapporti con il «Figaro», e affinché lei abbia un’idea di
quanto posso essere innocuo, stia a sentire le mie prime
due cattive freddure:
Non prenda troppo sul serio il caso Prado. Io sono Pra-
do, sono anche Prado padre, oso dire che sono anche Les-
seps... Volevo dare ai miei parigini, che amo, un concet­
to nuovo — quello del delinquente dabbene. Sono anche
Chambige - altro delinquente dabbene.
FRIEDRICH NIETZ S CHE 141

Seconda freddura. Saluto gli Immortali. Monsieur Dau-


det fa parte dei Quarante. Astu.
Ciò che è spiacevole e mette a dura prova la mia mode­
stia è che in fondo io sono ogni nome della storia; anche
per i figli che ho messo al mondo, le cose stanno cosi che
io mi chiedo con qualche diffidenza se tutti coloro che en­
trano nel «Regno di Dio» non vengano anche da Dio.
Quest’autunno, vestito il più scarsamente possibile, sono
stato presente due volte ai miei funerali, prima come con­
te Robilant ( - no, questi è mio figlio, in quanto io sono
Carlo Alberto, la mia natura sotto) ma Antonelli ero io
stesso. Caro professore, dovrebbe vedere questo edificio;
essendo io del tutto inesperto nelle cose che creo, ogni cri­
tica spetta a Lei, io gliene sarò grato, senza poterLe pro­
mettere di trarne profitto. Noi artisti siamo incorreggibili.
- Oggi mi sono visto un’operetta - genialmente moresca - ,
e in questa occasione ho pure constatato con piacere che
adesso sia Mosca che Roma sono faccende imponenti. V e­
de, anche per il paesaggio non mi si contesta il talento. -
Ci rifletta, faremo una bellissima chiacchierata, Torino
non è distante, per il momento non ci sono seri impegni
professionali, un bicchiere di vino della Valtellina si fa
presto a procurarselo. La tenuta prescritta è il négligé.
Con cordiale affetto, suo
Nietzsche

Vado dappertutto nella mia palandrana da studente,


qua e là do un colpo sulla spalla a qualcuno dicendo: sia­
mo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura
Domani arriva mio figlio Umberto con la graziosa Mar­
gherita, che io però riceverò anche lei solo qui in maniche
di camicia.1

1 [In italiano nel testo].


14 2 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Il resto per la signora Cosima... Arianna... D i tanto in


tanto si fanno incantesimi...
Può fare di questa lettera qualsiasi uso che non mi fac­
cia scadere nella considerazione dei basilesi.

Trad, di Cesare Cases.


Isidore Ducasse conte di Lautréamont
1846-70

Bisogna ricorrere ai colori di cui si valse Lewis nel Monaco per


dipingere Vapparizione dello spirito infernale sotto i lineamenti di
un giovane stupendo, nudo e dalle ali cremisi, con le membra rac­
colte nelPorbita dei diamanti sotto un alito antico di rose, la stella
impressa sulla fronte e lo sguardo segnato da una selvaggia malin­
conia ; e a quelli cui ricorse Swinburne per poter tratteggiare l’au­
tentico aspetto del marchese di Sade: «Nel fuoco e nel frastuono
dell’epopea imperiale si vede fiammeggiare questa testa folgorata,
questo ampio petto solcato dai fulmini, l’uomo-fallo, profilo augu­
sto e cinico, smorfia di gigante orrendo e sublime; nelle sue pa­
gine maledette corre un brivido di infinito, sulle sue labbra bru­
ciate vibra un soffio di tempestoso ideale. Avvicinatevi e sentirete
palpitare in questa carcassa di sangue e di fango le arterie dell’ani­
ma universale, le vene gonfie di sangue divino. Questa cloaca è tut­
ta impastata di cielo...» Occorre, affermiamo, ritrovare questi co­
lori per situare nell’atmosfera, a dir poco extraletteraria, che le si
addice, la figura splendente di luce nera del conte di Lautréamont.
Agli occhi di certi poeti d’oggi, i Chants de Maldoror e le Poésies
scintillano di una luce senza pari; sono l ’espressione di una rivela­
zione totale che sembra andare al di là delle possibilità umane.
Tutta la vita moderna, tutto ciò che in essa vi è di specifico, viene
d’un tratto a sublimarsi. La sua scena scorre sui sostegni degli an­
tichi soli, che lasciano intravvedere il pavimento di zaffiro, il lume
dall’argenteo becco, alato e sorridente, che avanza sulla Senna, le
membrane verdi dello spazio e i negozi di rue Vivi enne, preda dei
raggi cristallini che sgorgano dal centro della terra. Un occhio di
pura verginità scruta e sorveglia il progredire scientifico del mon­
do, passa oltre il carattere scientemente utilitario di questo progre­
dire, lo situa, con tutto il resto, nella luce stessa dell’apocalisse.
Apocalisse definitiva quest’opera in cui si smarriscono e si esaltano
i grandi impulsi istintivi a contatto d’una gabbia d’amianto in cui
I 44 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

è rinchiuso un cuore al calor bianco. Tutti i pensieri e le azioni


piu audaci che si compiranno nei secoli, hanno trovato qui una
formulazione preliminare nella loro legge magica. Il verbo, non piu
lo stile, subisce con Lautréamont una crisi fondamentale, segna il
momento di un reinizio. Ecco liquidati i limiti che costringevano
i rapporti tra parola e parola, tra cosa e cosa. Un principio di per­
petua mutazione si è impadronito degli oggetti come delle idee,
e tende alla loro totale liberazione, implicante quella delFuomo.
A questo riguardo, il linguaggio di Lautréamont è insieme un sol­
vente e un plasma creativo senza eguali.
A proposito di tale opera sono state impiegate, cioè riprese,
parole come follia, prova per assurdo, macchina infernale: ciò di­
mostra soltanto che ogni volta che la critica le si è avvicinata ha
dovuto presto o tardi desistere dal suo scopo. Il fatto è che, rap­
portata alla scala umana, quest’opera, che è il luogo stesso di tutte
le interferenze mentali, costringe la sensibilità a un clima tropi­
cale. Léon Pierre-Quint, nel suo lucidissimo studio Le comte de
Lautréamont et Dieu ha tuttavia individuato alcuni dei caratteri
piu cocenti di questo messaggio, che può essere ricevuto solo con
guanti di fuoco: i) poiché il «male», per Lautréamont (come per
Hegel) è la forma in cui si presenta la forza motrice dello sviluppo
storico, è necessario rafforzarlo nella sua ragion d’essere, e questo
può essere fatto nel modo migliore solo radicandolo nei desideri
proibiti, inerenti all’attività sessuale primitiva, come si manifesta­
no in modo particolare nel sadismo; 2) l ’ispirazione poetica, in
Lautréamont, si presenta come il risultato della rottura tra il buon
senso e l’immaginazione, rottura consumata per lo piu a favore di
quest’ultima e ottenuta grazie all’accelerazione volontaria e verti­
ginosa del flusso verbale (Lautréamont parla dello «sviluppo estre­
mamente rapido» delle sue frasi: è noto che dall’organizzazione
sistematica di questo modo d’espressione prende le mosse il sur­
realismo); 3) la rivolta di Maldoror non sarebbe in modo definitivo
la Rivolta se dovesse risparmiare una forma di pensiero a spese di
un’altra; è dunque necessario che, con le Poésies, essa sprofondi nel
suo proprio gioco dialettico.
Il flagrante contrasto offerto, dal punto di vista morale, da que­
ste due opere, non ha bisogno di altre spiegazioni. Ma se si va ol­
tre e si cerca ciò che può costituire la loro unità, la loro identità dal
punto di vista psicologico, si scoprirà che questa è fondata anzitut­
to sull’humour: le varie operazioni che derivano dall’abdicare del
pensiero logico e del pensiero morale, poi dei due nuovi pensieri
definiti per opposizione a questi ultimi, non ammettono in defini­
tiva altri fattori comuni: rilancio oltre l’evidenza, richiamo al caos
ISIDORE DUCASSE 145
delle similitudini più ardite, affossamento del solenne, montaggio
a rovescio, o di traverso, dei «pensieri» o massime celebri, ecc.:
tutto ciò che a questo riguardo F analisi rivela circa i procedimenti
in gioco, cede in interesse alla rappresentazione infallibile che Lau-
tréamont ci ha indotto a farci delFhumour quale egli lo prospetta,
delFhumour che giunge con lui alla sua suprema potenza e ci sotto­
mette fisicamente, nel modo più totale, alla sua legge.

I C A N T I DI M A L D O R O R

Due pilastri, che non era difficile e ancor meno impossi­


bile prendere per baobab, si scorgevano nella vallata, più
grandi di due spilli. Infatti, erano due torri enormi. E, ben­
ché due baobab, a prima vista, non somiglino a due spilli, e
nemmeno a due torri, tuttavia, ricorrendo abilmente alle
astuzie della prudenza, si può affermare, senza timore d ’a­
ver torto (invero, se quest’affermazione fosse accompagna­
ta da una sola particella di timore, non sarebbe più un’af­
fermazione; per quanto un medesimo nome esprima que­
sti due fenomeni dell’anima, che presentano caratteri ab­
bastanza netti da non esser confusi alla leggera), che un
baobab non è tanto diverso da un pilastro da vietare il pa­
ragone fra due forme architettoniche... o geometriche... o
l ’una e l ’altra... o né l’una né l ’altra... o piuttosto forme al­
te e massicce. Ho trovato dunque, non pretendo di dire il
contrario, gli epiteti adatti ai sostantivi pilastro e baobab:
si sappia bene, lo voglio, che non è senza una gioia fram­
mista d’orgoglio ch’io lo faccio notare a coloro che, levate
le palpebre, hanno preso la lodevolissima risoluzione di
scorrere queste pagine, mentre la candela arde, se è notte,
mentre il sole rischiara, se è giorno. E inoltre, quand’an­
che una potenza superiore ci ordinasse, nei termini più
chiaramente precisi, di respingere negli abissi del caos il
giudizioso paragone che ognuno ha certamente potuto as-
146 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

saporare impunemente, anche allora, e anzi soprattutto al­


lora, non si perda di vista questo assioma principale, le
abitudini contratte con gli anni, i libri, i contatti coi propri
simili, e, inerente a tutti, il carattere che si sviluppa in ra­
pida efflorescenza, imporrebbero allo spirito umano l ’irre-
parabile stimmata della recidiva, nell’uso criminale (cri­
minale, se ci si mette momentaneamente e spontaneamen­
te dal punto di vista della potenza superiore) d’una figura
retorica che parecchi disprezzano, ma che molti incensano.
Se il lettore trova questa frase troppo lunga, accetti le
mie scuse, ma non s’aspetti bassezze da parte mia. Posso
confessare le mie colpe; ma non renderle piu gravi con la
viltà. I miei ragionamenti urteranno talvolta contro i so­
nagli della pazzia e la seria apparenza di ciò che in fin dei
conti è soltanto grottesco (benché, secondo alcuni filosofi,
sia abbastanza difficile distinguere il buffo dal melanconi­
co, essendo la vita stessa un dramma comico o una com­
media drammatica); e tuttavia, è lecito a chiunque ucci­
dere mosche e anche rinoceronti, per riposarsi ogni tanto
da un lavoro troppo arduo. Per uccidere mosche, ecco il
modo piu sbrigativo, benché non sia il migliore: si schiac­
ciano fra le due prime dita della mano. La maggior parte
degli scrittori che hanno trattato a fondo questo argomen­
to ha calcolato, con grande verisimiglianza, che è preferi­
bile, in parecchi casi, tagliar loro la testa. Se qualcuno mi
rimprovera di parlare di spilli, come d’un argomento ra­
dicalmente frivolo, costui noti senza preconcetti che gli ef­
fetti piu grandi spesso sono stati prodotti dalle piu piccole
cagioni. E, per non scostarmi di piu dal quadro di questo
foglio di carta, non è chiaro che il laborioso brano di lette­
ratura che sto componendo dall’inizio di questa strofa,
sarebbe forse meno apprezzato se prendesse lo spunto da
uno spinoso problema di chimica o di patologia interna?
Del resto, tutti i gusti sono naturali; e quando, all’inizio,
ho paragonato i pilastri agli spilli con tanta esattezza (non
pensavo certo che un giorno qualcuno sarebbe venuto a
ISIDORE DUCASSE 147
rimproverarmelo), mi sono basato sulle leggi dell’ottica,
le quali hanno stabilito che, più il raggio visivo è lontano
da un oggetto, più l ’immagine si riflette diminuita nella
retina.
Cosi, ciò che l ’inclinazione del nostro spirito alla burla
prende per una miserabile spiritosaggine, è, per lo più,
nel pensiero dell’autore, solo un’importante verità procla­
mata con maestà! Oh! quell’insensato filosofo che scoppiò
in una risata vedendo un asino mangiare un fico! Non in­
vento nulla: i libri antichi hanno raccontato con i parti­
colari più ampi questa volontaria e vergognosa abdicazio­
ne dell’umana nobiltà. Non so ridere, io. Non ho mai po­
tuto ridere, per quanto abbia tentato più volte di farlo.
È molto difficile imparare a ridere. O , piuttosto, credo che
un senso di repugnanza nei riguardi di questa mostruosità
sia il segno essenziale del mio carattere. Ebbene, io sono
stato testimone di qualcosa di più straordinario, ho visto
un fico mangiare un asino! Eppure, non ho riso; franca­
mente, nessuna parte della mia bocca s’è mossa. Il biso­
gno di piangere s’impadronì di me con tanta forza, che
i miei occhi lasciarono cadere una lacrima. - Natura! Na­
tura! - esclamai singhiozzando, - lo sparviero dilania il
passero, il fico mangia l’asino, e la tenia divora l ’uomo! -
Senza prendere la decisione di procedere oltre, mi chiedo
se ho parlato del modo in cui s’uccidono le mosche. Si, non
è vero? Ed è altrettanto vero che non avevo parlato della
distruzione dei rinoceronti! Se certi amici volessero pre­
tendere il contrario, io non darei loro retta, e mi ricorderei
che la lode e la lusinga sono due grandi pietre d’inciampo.
Eppure, per soddisfare il più possibile la mia coscienza,
non posso impedirmi di far notare che questa dissertazio­
ne sul rinoceronte mi porterebbe oltre le frontiere della
pazienza e del sangue freddo, e, da parte sua, s c o r g e r e b ­
be probabilmente (abbiamo, anzi, il coraggio di dire cer­
tamente) le generazioni presenti. Non aver parlato del ri­
noceronte dopo la mosca! Come scusa passabile, avrei al-
148 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

meno dovuto menzionare prontamente (e non l’ho fattoi)


quest’omissione non premeditata, che non stupirà chi ab­
bia studiato a fondo le contraddizioni reali e inspiegabili
che risiedono nei lobi del cervello umano. Nulla è inde­
gno per un’intelligenza grande e semplice: il piu piccolo
fenomeno della natura, se c’è in esso mistero, diverrà, per
il saggio, inesauribile argomento di riflessione. Se qualcu­
no vede un asino mangiare un fico o un fico mangiare un
asino (queste due circostanze non si presentano spesso,
tranne in poesia), siate sicuri che, dopo aver riflettuto due
o tre minuti per sapere quale comportamento adottare,
abbandonerà il sentiero della virtù e si metterà a ridere co­
me un gallo! Fra l’altro, non è stato ancora dimostrato con
esattezza che i galli aprono apposta il becco per imitare
l ’uomo e fare una smorfia tormentata. Chiamo smorfia nei
volatili ciò che ha il medesimo nome nell’umanità! Il gal­
lo non esce dalla sua natura, meno per incapacità che per
orgoglio. Insegnate loro a leggere, e si ribellano. Un pap­
pagallo, sicuramente, non si estasierebbe cosi davanti alla
sua debolezza, ignara o imperdonabile! Oh! avvilimento
esecrabile! Come somigliamo a una capra quando ridia­
mo! La quiete della fronte è scomparsa per far posto a
due enormi occhi di pesce che (non è deplorevole?)...
che... che si mettono a brillare come fari! Spesso, m’acca­
drà d’enunciare solennemente le proposizioni piu buffo­
nesche; io non trovo che ciò sia un motivo perentoria­
mente sufficiente per allargare la bocca! Non posso impe­
dirmi di ridere, mi risponderete voi; accetto quest’assurda
spiegazione, ma allora, sia un riso malinconico. Ridete,
ma nello stesso tempo piangete. Se non potete piangere
con gli occhi, piangete con la bocca. Se è ancora impossi­
bile, urinate; ma v ’avverto che un liquido qualsiasi è, in
questo caso, necessario per attenuare l ’aridità che il riso,
dai tratti spaccati all’indietro, si porta nei fianchi. In quan­
to a me, non mi lascerò sconcertare dal ridicolo chioccare
e dagli originali muggiti di quelli che trovano sempre qual-
ISIDORE DUCASSE 1 4 9

cosa da ridire in un carattere che non somiglia al loro, per­


ché esso è una delle innumerevoli modificazioni intellet­
tuali che Dio, senza scostarsi da un tipo primordiale, creò
per governare le ossee carcasse. Fino ai tempi nostri, la
poesia ha battuto una strada falsa; innalzandosi fino al
cielo, o strisciando fino a terra, ha misconosciuto i prin­
cipi della propria esistenza, ed è stata, non senza ragione,
costantemente dileggiata dalla gente per bene. Non ha a-
vuto modestia... la qualità più bella che debba esistere
in un essere imperfetto! Voglio mostrare le mie qualità,
io; ma non sono abbastanza ipocrita per nascondere i miei
vizi! Il riso, il male, l’orgoglio, la pazzia, faranno la loro
apparizione, a volta a volta, fra la sensibilità e Tamore
della giustizia, e serviranno d ’esempio alla stupefazione
umana; ognuno vi si riconoscerà, non quale dovrebbe es­
sere, ma quale è. E, forse, questo semplice ideale, conce­
pito dalla mia immaginazione, sorpasserà tuttavia tutto
ciò che la poesia ha trovato finora di più grandioso e di
più sacro. Infatti, se lascio trasparire i miei vizi in queste
pagine, si crederà ancor più alle virtù che vi faccio riful­
gere, la cui aureola sarà posta da me tanto in alto che i più
grandi geni dell’avvenire testimonieranno per me una sin­
cera gratitudine. Cosi, l ’ipocrisia sarà dunque decisamen­
te scacciata dalla mia dimora. V i sarà, nei miei canti,
un’imponente prova di potenza, se in essi disprezzo in tal
modo le opinioni bell’e fatte. Egli canta solo per sé, e non
per i suoi simili. Non pone la misura della sua ispirazione
sulla bilancia umana. Libero come la tempesta, è venuto
ad incagliarsi, un giorno, sulle spiagge indomabili della
sua terribile volontà! Non teme nulla, tranne se stesso!
Nei suoi combattimenti sovrannaturali, attaccherà l ’uomo
e il Creatore, e avrà la meglio, come quando il pesce spa­
da affonda il suo brando nel ventre della balena: sia ma­
ledetto dai suoi figli e dalla mia mano scarna, chi persi­
ste nel non capire gli spietati canguri del riso e gli audaci
pidocchi della caricatura!... Si scorgevano due torri enor-
IJO ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

mi nella vallata; l ’ho detto all’inizio. Moltiplicandole per


due, il prodotto era quattro... ma non afferrai molto bene
la necessità di quest’operazione aritmetica. Proseguii per
la mia strada, col volto febbricitante, e di continuo escla­
mavo: - No... no... non afferro molto bene la necessità di
quest’operazione aritmetica! — Avevo udito uno strider di
catene, e gemiti dolorosi. Nessuno ritenga possibile, quan­
do passerà in quel luogo, moltiplicare le torri per due,
perché il prodotto sia quattro! Alcuni sospettano ch’io
ami l ’umanità come se fossi una madre e l ’avessi portata
nove mesi nei miei fianchi profumati; è per questo che
non ripasso più nella vallata dove s’innalzano le due unità
del moltiplicando!

Prima d ’entrare in argomento, trovo stupido che sia ne­


cessario (penso che tutti non saranno del mio parere, se
mi sbaglio) ch’io ponga accanto a me un calamaio aperto,
e qualche foglietto di carta non pesta. In tal modo, mi sa­
rà possibile cominciare con amore, in questo sesto canto,
la serie delle poesie istruttive che sono impaziente di pro­
durre. Drammatici episodi di spietata utilità! Il nostro
eroe s’accorse che, frequentando le caverne, e prendendo
a rifugio i luoghi inaccessibili, trasgrediva le regole della
logica, o compiva un circolo vizioso. Che, se, da un lato,
egli favoriva cosi la propria repugnanza per gli uomini,
grazie al compenso della solitudine e della lontananza, e
circoscriveva passivamente il proprio limitato orizzonte,
fra arbusti intristiti, rovi e lambrusche, dall’altro, la sua
attività non trovava più nessun alimento per nutrire il mi-
notauro dei suoi istinti perversi. Di conseguenza, egli de­
cise di riavvicinarsi agli agglomerati umani, persuaso che
fra tante vittime già bell’e pronte, le sue varie passioni
avrebbero trovato ampiamente di che soddisfarsi. Sapeva
che la polizia, scudo della civiltà, lo ricercava con perseve­
ranza, da molti anni, e che un vero e proprio esercito d’a-
ISIDORE DUCASSE 151
genti e di spie gli stava di continuo alle calcagna. Senza
tuttavia riuscire a incontrarlo. Tanto la sua sbalorditiva
abilità sventava, con suprema eleganza, le insidie piu indi­
scutibili dal punto di vista del loro successo, e le disposi­
zioni della più sapiente meditazione. Aveva una facoltà
speciale per assumere forme irriconoscibili agli occhi più
esperti. Travestimenti superiori, se parlo da artista! Fogge
ridicole, e d'effetto realmente mediocre, quando penso al­
la morale. In questo, egli sfiorava quasi la genialità. Non
avete notato la gracilità d'un bel grillo, dai movimenti vi­
vaci, nelle fogne parigine? Non c'è che quello: era Mal-
doror! Magnetizzando le capitali fiorenti con un fluido
pernicioso, egli le porta a uno stato letargico in cui sono
incapaci di sorvegliarsi come dovrebbero. Stato tanto più
pericoloso in quanto insospettato. Oggi è a Madrid; do­
mani sarà a Pietroburgo; ieri, si trovava a Pechino. Ma af­
fermare esattamente il luogo attualmente terrorizzato dal­
le imprese di questo poetico Rocambole, è lavoro che su­
pera le forze possibili del mio opaco raziocinio. Quel ban­
dito è, forse, a settecento leghe da questo paese; forse, è
a un passo da voi. Non è facile far perire interamente gli
uomini, e ci son leggi; ma si può, con pazienza, sterminare
a una a una le formiche umanitarie. Orbene, dai giorni in
cui sono nato, quando vivevo coi primi avi della nostra
razza, ancora inesperto nel tendere i miei agguati; dai tem­
pi remoti, situati al di là della storia, in cui, sottilmente
metamorfosato, io devastavo, in epoche varie, le contrade
del globo con le conquiste e la carneficina, e seminavo la
guerra civile fra i cittadini, non ho già schiacciato sotto i
miei talloni, membro per membro o collettivamente, inte­
re generazioni, di cui non sarebbe difficile concepire l'in­
numerevole cifra? Il passato radioso ha fatto brillanti pro­
messe all'avvenire: le manterrà. Per ripulire le mie frasi,
impiegherò per forza il metodo naturale, regredendo fino
ai selvaggi, perché mi diano lezioni. Gentlemen semplici
e maestosi, la loro bocca graziosa nobilita tutto ciò che co-
IJ2 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

la dalle loro labbra tatuate. H o appena provato che nulla


è risibile su questo pianeta. Comico pianeta, ma splen­
dido. Impossessandomi d’uno stile che alcuni giudiche­
ranno ingenuo (invece è molto profondo), io me ne ser­
virò per interpretare idee che, purtroppo, forse non sem­
breranno grandiose! Con ciò stesso, spogliandomi dei mo­
di leggeri e scettici della conversazione corrente, e abba­
stanza prudente per non assumere pose... non so piu quel
che avevo intenzione di dire, giacché non ricordo l ’inizio
della frase. Ma sappiate che la poesia si trova dovunque
non sia il sorriso, stupidamente sarcastico, dell’uomo dal­
la faccia di papera. Prima di tutto, mi soffierò il naso, per­
ché ne ho bisogno; e poi, potentemente aiutato dalla mia
mano, riprenderò la penna che le mie dita avevano lasciato
cadere. Come ha potuto serbare la costanza della sua neu­
tralità, il ponte del Carrousel, quand’ha udito le grida la­
ceranti che il sacco pareva cacciare?

LETTERA

22 maggio 1869
Egregio signore,
Proprio ieri ho ricevuto la sua lettera che porta la data
del 21 maggio; era la sua. Ebbene, sappia che purtroppo
non posso lasciar passare cosi l ’occasione di farle le mie
scuse. Ecco perché: se lei m’avesse annunciato l’altro gior­
no, ignaro di ciò che può accadere di spiacevole nelle cir­
costanze in cui è posta la mia persona, che i fondi stavano
esaurendosi, io mi sarei ben guardato dal toccarli; ma, cer­
tamente, avrei provato tanta gioia a non scrivere queste
tre lettere quanta lei ne avrebbe provato a non leggerle.
Lei ha posto in vigore il deplorevole sistema di diffidenza
ISIDORE DUCASSE *5 3
vagamente prescritto dalla bizzarria di mio padre; ma ha
indovinato che il mio mal di testa non m'impedisce di con­
siderare con attenzione la difficile situazione in cui Pha po­
sto sinora un foglio di carta da lettera giunto dall'America
del Sud, il cui principale difetto era la mancanza di chia­
rezza; io non prendo infatti in considerazione la sgarba­
tezza di alcune melanconiche osservazioni, facilmente per­
donabili in un vecchio, che mi sono sembrate, a prima let­
tura, aver avuto Paria d'imporle, forse in avvenire, la ne­
cessità d'uscire dalla sua precisa funzione di banchiere,
nei riguardi d'un signore che viene a stare nella capitale»..
... Mi scusi, egregio signore, ho una preghiera da rivol­
gerle: se mio padre mandasse altri fondi prima del primo
settembre, epoca in cui il mio corpo farà un'apparizione
dinanzi alla porta della sua banca, potrà avere la genti­
lezza di farmelo sapere? Del resto, io sono in casa a qual­
siasi ora del giorno; ma basterebbe che lei mi scrivesse
due righe, ed è probabile che allora io le riceverei quasi nel
medesimo tempo della signorina che tira il cordone, oppu­
re molto prima, se mi capita d'essere nel vestibolo...
...E tutto ciò, ripeto, per un’insignificante quisquiglia
formale! Presentare dieci unghie secche invece di cinque,
che grossa faccenda: dopo averci pensato sopra a lungo,
confesso che m'è sembrata colma d'una notevole quantità
d’importanza zero...

Trad, di Ivos Margoni, Einaudi, Torino 1967.


Joris-Karl Huysmans
1848-I9O7

«Questo scrittore - dice di se stesso Huysmans, in una presun­


ta intervista apparsa sotto la firma di A. Meunier ma in realtà re­
datta interamente da lui - è un inesplicabile amalgama di un pari­
gino raffinato e di un pittore olandese. È proprio questa fusione,
cui si può ancora aggiungere un pizzico di humour nero e di ru­
vida comicità inglese, che dà l’impronta alle opere di cui ora ci oc­
cupiamo» (si trattava in quella circostanza delle sue prime opere,
fino a A rebours incluso). Questo tipo di humour, che nella frase
citata viene raccomandato come se si trattasse di una spezia, sem­
bra essere per Huysmans, almeno fino al 1892, data in cui appare
En route e cessa il nostro interesse per lui, la condizione stessa per
conservare l ’appetito mentale. Il suo eccedere nei colori cupi, la
sua abituale esasperazione, al di là di un certo punto critico, delle
situazioni abbiette, la prefigurazione minuziosa, insistita, delle de­
lusioni che ogni specie di scelta, sia pure nelle alternative più ba­
nali, comporta ai suoi occhi, lo portano al risultato paradossale di
liberare in noi il principio del piacere. La realtà esteriore, presen­
tata sistematicamente sotto il suo aspetto più meschino, aggressivo
e oltraggioso, impone al lettore di Huysmans il compito costante di
ricostruire la propria energia vitale, insidiata dal cumulo dei fa­
stidi quotidiani, che gli vengono resi d’un tratto insopportabilmen­
te evidenti. La grande originalità dell’autore di En ménage con­
siste nel fatto che egli sembra rinunciare, per se stesso, ai piaceri
deirumorismo, come a esclusivo beneficio dei lettori, e di non sco­
starsi mai, per parte sua, da un atteggiamento di spossatezza e di
prostrazione che ci lascia in qualsiasi momento Lillusione di essere
su di lui avvantaggiati. Si tratta di una precisa intenzione, di un
ponderato metodo terapeutico, di un'astuzia, destinata a farci su­
perare la nostra propria miseria. «E - si legge in En ménage - le
sere in cui tetri umori lo angustiavano, si ritirava di buon’ora, an­
dava su e giù davanti alla sua biblioteca, cercando un libro che si
JORIS-KARL HUYSMANS 155
adattasse ai pensieri che lo agitavano. Avrebbe voluto trovarne uno
atto a consolarlo, e a rafforzare al tempo stesso la sua amarezza,
uno che narrasse di sventure piu gravi ma della stessa natura delle
sue, uno che lo consolasse per confronto. Ovviamente non ne tro­
vava nessuno».
Lo stile di Huysmans, stupendamente modellato per comuni­
care attraverso la sensibilità nervosa, è il prodotto del rimaneg­
giamento di più vocabolari, il cui combinarsi suscita già di per sé
un riso spasmodico, perfino quando le circostanze del racconto me­
no lo giustificano. Proprio per una di quelle beffe che egli ha il se­
greto di farci apprezzare, la vita di questo grande fantastico è tra­
scorsa rassegnatamente tra le scartoffie di un ministero (i rapporti
dei suoi superiori gerarchici lo descrivono come un funzionario mo­
dello). In perfetto accordo con la maniera desolante-esaltante di
questo scrittore, è proprio là che, nelle ore libere dal suo lavoro,
con qualche libro tecnico a portata di mano e un manuale di cu­
cina sempre spalancato davanti, Huysmans formulò di sana pianta,
con una chiaroveggenza senza pari, la maggior parte delle leggi che
reggeranno l’affettività moderna, che penetrò per primo la costi­
tuzione istologica del reale e si innalzò, con En rade, ai vertici del­
l’ispirazione.

IN F A M I G L I A

Aveva fame. La stanchezza e il cammino avevano come


smussato la sua pena. Era quasi di buon umore quando
scorse una bettola, con una vetrina dietro la quale mar­
civa un melone cresciuto nell’alcool.
Delle file di bottiglie con le loro capsule di piombo e
delle stelle accese sul ventre formavano un semicerchio,
che racchiudeva due strati di formaggini acciaccati, dei
piattini di lesso freddo in salsa verde, certi stufati alle ra­
pe rappresi e dei dolci mezzo bruciacchiati, sommersi in
una loro melma giallastra.
Un rimasuglio di riso al latte tremolava in una gamella
15 6 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

di ferro; un'antipastiera traboccava di uova violacee, e


la carcassa color cinabro slavato di un coniglio, aperto so­
pra un piatto, esibiva, con le quattro zampe in aria, il ros­
siccio vischioso del suo fegato. Un muro di tazze incastra­
te l ’una nell'altra, e una torre di piattini dal bordo blu tro­
neggiavano di fronte ai riquadri della vetrina, dietro a un
vecchio boccale di prugne sotto spirito, colmo d'acqua,
dove si maceravano i gambi di un mazzo di gladioli afflo­
sciati.
André si sedette a un tavolo vuoto. Mentre aspettava
che gli portassero la minestra diede un'occhiata alla sala.
Era una stanza assai grande, decorata con becchi a gas e
paralumi verdi, con una stufa di ghisa, un banco di falso
mogano dipinto, con le sue venature, sul quale posavano
un vaso di vetro blu colmo di fiori, una piramide di misu­
rini di stagno, una cassetta di nichel, e un calamaio. Die­
tro il mobile, alcuni scaffali con bottiglie già incominciate,
una teiera di porcellana, tazze bianche con tre piedi e il
manico scarlatti, su cui spiccava un monogramma dorato
sporco e sbiadito. Uno specchio incastrato nella scaffala­
tura rifletteva la parte superiore del mazzo di fiori, in di-
sfacimento nel vaso blu, lo zigzagare del tubo della stufa,
tre attaccapanni vuoti appesi al muro, la fodera lisa di un
cappotto, il luccicume di un cappello bisunto. Su una pic­
cola tavola, in un angolo, un formaggio di Borgogna mez­
zo sbocconcellato si sbriciolava sotto l ’attacco di un nu­
golo di mosche; vicino agli scaffali dove si pigiavano un
mucchio di tovaglioli muniti dei loro anelli, una madia era
stipata di pagnotte gracili e molli, che arrivavano quasi a
toccare una gabbietta appesa al soffitto. Questa gabbia era
vuota a causa di un decesso, e l'abitava un osso di seppia,
sospeso all'estremità di un filo.
Il locale era una via di mezzo tra una locanda di cam­
pagna e una latteria della Parigi povera. Il padrone, in
maniche di camicia, con lo stomaco prominente come una
gobba e il naso all'insu, ciondolava qua e là, col suo tova-
JORIS-KARL HUYSMANS 1 5 7

gliolo sul braccio, trascinando in una melma di sputi e se­


gatura un paio di pantofole tappezzate di figure del domi­
no e carte da gioco.
Rumori di vasellame e di pentole, misti al canto del
fritto e al lamento del burro rosolato, si sprigionavano dal­
la porta continuamente sbattuta della cucina. A tratti
giungeva lo sfrigolio furioso della carne «saltata» sulla
stufa e di qualche bistecca che spremeva il suo sugo sulla
griglia, accompagnato da improvvisi vapori rossi e da fe­
tidi fumi azzurrini. A ogni istante si udivano sorde dispu­
te, e le secche ingiunzioni dei padroni ai domestici stor­
diti.
Una cameriera gracile, pallida, dall’aria dolorante e
stolida, barcollava qua e là, minata da inarrestabili per­
dite bianche. Un’altra faceva la spola tra la cucina e il
servizio rimorchiando come una sonnambula pile di piat­
ti, senza dar segno di rendersi conto dell’importanza del
compito affidatole.
André cominciava a spazientirsi; stava sempre aspet­
tando la sua minestra. Era stufo di guardare la gente che
lo circondava; si conoscevano tutti; era finito in una spe­
cie di pensione familiare, in una greppia dove uno strano
mondo veniva a rimpinzarsi. V i erano dei gruppetti discre­
ti, che parlavano a voce bassa, soffocando le risate nei to­
vaglioli; ve n’erano altri di chiacchieroni, che vomitavano
ad alta voce facezie grossolane, accaparrandosi l’attenzio­
ne generale con i loro scherzi.
Il padrone, in grande familiarità con i suoi clienti, ri­
dacchiava, sbraitando: Ah! questa si che è buona! poi,
subito ricomposto, gridava: un fricandò al sugo, un filet­
to salsa pomodoro, uno!
André inghiottiva i vermicelli che si erano infine decisi
a servirgli. Alla sua sinistra, due comari si davano da fare
intorno a un piatto di trippe, poi attingevano a una tabac­
chiera vuotando un bicchiere dopo l’altro. Con i gomiti
appoggiati sulla tavola, si facevano a vicenda mille salame-
158 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

lecchi per una cucchiaiata di salsa, chiacchieravano da


buone massaie, sparlavano di una vicina; compiangevano
la loro portinaia cui si era enfiato il ventre per aver man­
giato troppe cozze.
André cominciava a sentirsi meglio, ma un gruppo di
avventori piazzato vicino alla stufa faceva tanto chiasso
da annullare il brusio generale.
Teneva banco un parrucchiere, proclamando verità di
questo calibro: — Quando si han dei soldi, son tutti li a
cavarsi il cappello; ma senza quelli, quando uno, come me,
mette tutto il suo malloppo in fondi che non rendono, ec­
co che ti cantano: «Maria, inzuppa il pane, Maria, inzup­
pa il pane». D ’altronde, tutte le volte che ho comperato
delle azioni, ribassavano il giorno dopo; non saprei farne
a meno però, ho bisogno di emozioni, io.
I suoi compari erano estasiati, gli versavano da bere, e
lui, con gli occhi stralunati, con quell’aria di imbecillità
trionfante, ricominciava: - A me il sesso piace; per poter­
ne fare a meno dovrei essere come il merlo che, una volta
nati i piccoli, fischia —; e, alludendo al suo mestiere con
un gioco di parole, aggiungeva: — Ma non sarei mica un
merlo vivace, sarei un merlo lento \
Esplosioni di gioia, incomprensibili esultanze salutaro­
no questa bordata di scemenze.
André non vedeva l ’ora di prendere il cappello e scap­
parsene via, ma il servizio era lento. Aveva sbocconcellato
la metà di un roastbeef durissimo, lasciando il resto nel
piatto; ora voleva un’insalata che non arrivava mai. D o­
mandò al padrone che ridacchiava stupidamente se aveva
un giornale. «Il Siècle» era in lettura, e gli portarono Les
petites affiches. Cercò allora di immergersi nella lettura,
di isolarsi dall’allegria degli altri tavoli, di tapparsi le orec-1

1 [Gioco di parole tra merle lent (merlo lento) e merlati (merluzzo).


Quest’ultimo era, nel xviii e xix secolo, un nomignolo spregiativo dato
ai parrucchieri che, incipriati com’erano, rassomigliavano al merluzzo
fritto cosparso di farina].
Joris-Karl Huysmans
i6 o ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

chie per non udire il cicaleccio stridente di tutti quegli im­


becilli; ma non poteva fare a meno di sentirli. Si costrinse
a leggere tre pagine del giornale, e si fermò a un annuncio
che offriva, come occasione superba, in seguito a una li­
quidazione familiare, una dote di diciottornila franchi e
un'orfana; rimase pensieroso. La parola urgente che figu­
rava tra parentesi sotto l’annuncio, gli suggeriva una pro­
spettiva infinita di miserie. V i si potevano intuire rapide
successioni di parti, ventri che si gonfiavano dopo un mese
di matrimonio. Pensò alle prove amare cui andava incontro
l'onesto babbeo che si sarebbe lasciato accalappiare. A ve­
va buone probabilità di sposare una vergine abituata a
ogni turpitudine fin dalla più tenera età! E pensava: è già
difficile non essere presi in giro quando uno conosce la fa­
miglia e ha frequentato per mesi la fidanzata. Chi avrebbe
mai potuto credere che sua moglie, ad esempio, l'avrebbe
tradito? Una volta ancora, era ritornato al punto di parten­
za dei suoi pensieri, alle miserie della sua vita familiare.
Volle a ogni costo cacciare via questi ricordi. Si costrin­
geva adesso a guardare i suoi vicini, ad ascoltarli.
Un'acuta voce in falsetto gli trapanava le orecchie. Non
si era accorto che il parrucchiere se n'era andato. Ora, al
suo posto, era seduto un signore con una barba rossa e un
paio di occhiali d'oro inforcati sul naso, e stava spiegando
i misteri della dentatura a un giovanotto che l'ascoltava
devotamente a occhi sbarrati, certo ansioso di sistemarsi
in quella professione.
- 1 guadagni più facili, - diceva il signore, - sono quan­
do si mettono i denti finti. Si fabbricano in Inghilterra, e
li vendono al passage Choiseul. C'è un bel guadagno, sa,
può farli pagare dieci franchi l'uno, e costano dieci soldi
senza gengiva in caucciù, e un franco con la gengiva.
- Ce ne sono di rosa e di scure, vero? - interruppe timi­
damente il giovane. — Io preferisco quelle rosa.
— Guarda un po'! Mica stupido lui! Quelle scure, sono
JORI S -KARL HUYSMANS 161

le gengive dei poveri! Costano meno care, ma se ne ven­


dono di più, - riprese l ’altro.
Il giovane adepto se ne stava a bocca spalancata dallo
stupore. - E le dentiere d ’ippopotamo? - azzardò.
L ’uomo dagli occhiali d’oro alzò le braccia al cielo. -
Quella è scultura! Pensi un po’ , bisogna intagliare il dente
nell’avorio, mettere delle montature d’oro, costa una cifra
pazzesca! - e continuava a spiegare i maneggi del suo me­
stiere, confessava di praticare operazioni inutili sulle ra­
dici dei suoi malati, e di approfittare dello stordimento
causato dal dolore per vendere i suoi dentifrici a caro
prezzo.
André pensò che ne aveva abbastanza di tali squallide
rivelazioni. Aveva finito l’insalata. Insistè accanitamente
per avere il conto, rifiutò la frutta, pagò un franco e qua­
ranta; stava aprendo la porta per andarsene, mentre dal
fondo della sala, dove alcune persone si attardavano da­
vanti a un bicchiere, una voce diceva semplicemente, in to­
no convinto:
— Le donne, non sono poi un gran che!
André chiuse la porta, pensando con una certa melanco­
nia che, tra tutte le insulse chiacchiere che aveva udito,
quel pensiero era forse l ’unico profondo, l ’unico vero.

IN R A D A

Un articolo lo colpi e lo indusse a lunghe fantasticherie.


Che magnifica cosa, si disse, la scienza! Ecco che il profes­
sor Selmi, di Bologna, scopre nella putrefazione dei cada­
veri un alcaloide, la ptomaina, che si presenta allo stato
di olio incolore, e spande un lento ma tenace sentore di
162 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

biancospino, di muschio, di gelsomino, di fior d’arancio e


di rosa.
Solo questi profumi, finora, si son potuti trarre da que­
sti succhi di un’economia marcescente, ma altri ancora
senza dubbio ne verranno; nell’attesa, per soddisfare le ri­
chieste di un secolo cosi pratico che, a Ivry, seppellisce la
povera gente a macchina, e che utilizza tutto, dai liquidi
residui ai fondi di tinozza, dalle budella delle carogne al­
le vecchie ossa, si potrebbero trasformare i cimiteri in sta­
bilimenti per fornire su richiesta, a uso delle famiglie ric­
che, estratti di antenati, essenze di figlioli, aromi di geni­
tori.
Sarebbe quello che nel commercio viene chiamato «ar­
ticolo di lusso»; ma, per soddisfare i bisogni delle classi
lavoratrici, che non si devono assolutamente trascurare,
perché non affiancare a questi laboratori specializzati po­
tenti officine per la fabbricazione di profumi all’ingrosso?
Si potrebbe distillare con i resti della fossa comune, che
nessuno viene a reclamare; l’arte della profumeria sarebbe
impostata su nuove basi, alla portata di tutti, e l ’articolo
comune, la profumeria da grande magazzino, potrebbe es­
sere venduto a buon mercato, data l ’abbondanza della ma­
teria prima e il suo basso costo, che consisterebbe, per cosi
dire, solo nelle spese di manodopera degli esumatoti e dei
chimici.
Ah! quante donne del popolo conosco che sarebbero
ben liete di poter acquistare per pochi soldi interi barattoli
di brillantina, oppure pani di sapone, all’essenza di prole­
tario!
E poi, quale continuo alimento per i ricordi, quale eter­
na freschezza di memoria, non si otterrebbero da queste
emanazioni sublimate di morti! A i giorni nostri, quando
muore uno di due esseri che si amarono, l ’altro può solo
serbare la sua fotografia e visitarne la tomba il giorno dei
Morti. Grazie all’invenzione delle ptomaine, sarà ormai
possibile tenere presso di sé la donna adorata, mettersela
JORI S-KARL HUYSMANS 1 6 3

perfino in tasca, allo stato volatile e spirituale, tramutare


la beneamata in un flacone di sali, condensarla in un succo,
conservarla sotto forma di cipria in un sacchetto ricamato
con un dolente epitaffio, respirarla nei giorni di angoscia e
fiutarla nei giorni felici, su un fazzoletto.
Senza contare che, dal punto di vista delle facezie car­
nali, saremmo forse finalmente dispensati dall’udire, nel-
Pattimo cruciale, Pimmancabile «appello alla madre», dal
momento che la degna signora potrebbe assistere alla sce­
na e posare sul seno della figliola sotto forma di un neo
finto o mescolata al belletto quando questa cade in deliquio
e la chiama in suo aiuto proprio perché è ben sicura che
essa non può venire.
Le ptomaine, che oggi sono ancora dei temibili tossici,
potranno con Paiuto del progresso essere in futuro ingerite
senza pericolo alcuno; e allora perché non arricchire con
le loro essenze Paroma di certe vivande? perché non usare
quest’olio odoroso, come ci si serve della cannella e della
mandorla, della vaniglia e del garofano, per rendere più
squisita la pasta di certi dolci? cosi come per la profume­
ria, una nuova strada insieme economica e cordiale si apri­
rebbe anche per Parte del pasticciere e del confettiere.
Infine, gli augusti vincoli della famiglia, che in questi
tempi gretti e irrispettosi vanno allentandosi e rilassando­
si, potrebbero certamente risultare rinsaldati per effetto
delle ptomaine. Grazie ad esse, si avrebbe come un rinser­
rarsi freddoloso degli affetti, un fianco a fianco di tenerez­
za sempre viva. Esse creerebbero di continuo le circostanze
propizie per richiamare alla memoria la vita dei defunti e
per citarla a esempio ai fanciulli, che, nella loro golosità,
ne manterrebbero un ricordo perfettamente lucido.
La sera del giorno dei Morti, la famiglia è seduta nella
piccola sala da pranzo ammobiliata con una credenza di le­
gno chiaro a fregi scuri, sotto la luce della lampada che il
paralume riflette sulla tavola. La madre è una brava donna,
il padre è cassiere in una ditta commerciale o in una banca,
164 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

il bambino, ancora piccolo, ha appena superato la crosta


lattea e la tosse asinina; domato dalla minaccia di restare
senza dolce, il moccioso ha finalmente consentito a non
sbattere il cucchiaio nella minestra e a mangiare la carne
con un po’ di pane.
Immobile, guarda i genitori assorti e silenziosi. Entra
la domestica, portando una crema alle ptomaine. Quella
stessa mattina, la madre ha aperto la scrivania impero, di
mogano, ornata di una serratura a forma di trifoglio, e ne
ha rispettosamente estratto la fiala dal tappo smerigliato
che contiene il prezioso liquido ricavato dalle viscere de­
composte del nonno. Con un contagocce, ha versato con
le sue stesse mani qualche lacrima di quel profumo che
adesso dà il suo aroma alla crema.
G li occhi del bimbo brillano; ma, prima di essere servi­
to, deve ascoltare Pelogio del vegliardo, che probabilmen­
te gli ha lasciato in eredità, insieme a certi tratti della sua
fisionomia, quel gusto postumo di rosa che tra poco potrà
assaporare.
- Ah! era un uomo di buon senso, un uomo coraggioso
e saggio, il nonno Jules! Era arrivato a Parigi con gli zoc­
coli ai piedi, e sempre ha messo da parte qualcosa, perfino
quando guadagnava solo cento franchi al mese. Non era
certo il tipo da prestare soldi senza interesse e senza garan­
zie! mica cosi stupido; gli affari prima di tutto, niente per
niente; e poi, come rispettava i ricchi! Cosi, se ne è morto
riverito dai suoi figli, lasciando degli investimenti sicuri,
e dei valori di tutto riposo!
- Te lo ricordi* il nonno, caruccio?
- Si, si, il nonno! - strilla il piccolo mentre si impia­
striccia le guance e il naso con la crema ancestrale.
- E la nonna! Te la ricordi la nonna, amoruccio mio?
Il bambino riflette. N ell’anniversario della morte di
quella cara signora, gli danno un dolce di riso profumato
con l ’essenza corporea della defunta che, per uno strano
JORIS'KARL HUYSMANS l6 j

fenomeno, puzzava di tabacco da fiuto finché era in vita, e


da morta spande un aroma di fiori d ’arancio.
- Si, si, anche la nonna! - esclama il piccolo.
- E a chi volevi più bene, alla nonna o al nonno?
Come tutti gli infanti che preferiscono ciò che non han­
no a ciò che già possiedono, il bimbo pensa al dolce futuro
e confessa di preferire la nonna; ma intanto tende il suo
piatto verso la crema del nonno.
Temendo un’indigestione d’amor filiale, la madre pre­
vidente fa portar via il dolce.
Che deliziosa e toccante scenetta di famiglia! si disse
Jacques stropicciandosi gli occhi. E si domandò, nello sta­
to mentale in cui si trovava, se non avesse sognato nel dor­
miveglia, col naso sulla rivista in cui aveva letto, alla pagi­
na scientifica, la notizia della scoperta delle p tomaine.
Tristan C orbière
1845-75

Tutto il mare, ma soprattutto quello degli scogli notturni, il


mare donna fatale, e non solo tutto il mare ma tutta la campagna
nella sua luce piu remota, dove a ogni passo si levano i miti da sot­
to le piante spinose, le apparizioni all’orizzonte dei sentieri infos­
sati, i poveri gesti millenari attorno agli armenti e davanti ai massi
sgrossati a vaga immagine di quei santi protettori di Bretagna, dai
miseri attributi: tale è il palinsesto - ben poco diverso per Jarry -
al quale Corbière sovrappone la sua scrittura tutta lampi ed ellissi.
Il dandysmo di Baudelaire si traspone qui in piena solitudine mo­
rale, nell’ombra dell’ossario di Roscoff, dove il poeta, afflitto da
una terribile deformazione del corpo e soprannominato dai mari­
nai an Ankou (la Morte) vaga in compagnia del suo cane, che vol­
le chiamare Tristan, come si chiamava egli stesso. Il contrasto tra
la disgrazia fisica e la sensibilità di prim’ordine non può fare a me­
no di suscitare, in Corbière scrittore, l’humour come meccanismo
di difesa, e di spingere Corbière uomo alla ricerca sistematica del
«cattivo gusto». Si traveste da marinaio, le cosce nude e le gambe
vacillanti dentro enormi stivali. Inchioda un rospo disseccato sullo
specchio del suo caminetto. «Prendi, ecco il mio cuore!» e getta
a una donna un cuore sanguinolento di montone. Ma quanta ammi­
revole semplicità saprà dispiegare nel meccanismo della seduzione
per un’altra donna, la bella creatura di passaggio, che nel 1871
amerà e da cui saprà miracolosamente farsi amare!
Senza dubbio con gli Amours jaunes l’automatismo verbale fa
il suo ingresso nella poesia francese. Corbière è forse il primo in or­
dine di tempo a essersi lasciato trasportare dall’onda delle parole
che, indipendentemente da ogni direzione cosciente, batte ogni i-
stante al nostro orecchio, e a cui l’uomo comune oppone la diga del
senso immediato. Per esserne certi, basta ricordare il suo terribile
«Io parlo sotto di me». Tutte le risorse offerte dagli accostamenti e
raggruppamenti di parole sono qui sfruttati senza scrupolo, a co-
TRISTAN CORBIÈRE 167

minciare dal calembour, utilizzato, corne più tardi da Nouveau,


Roussel, Duchamp e Rigaut, non certo con lo scopo di «divenire»,
anzi, quando occorre, con lo scopo contrario: trasportato quasi mo­
rente alla casa di cura Dubois, Tristan Corbière scrive alla madre:
«Je suis à Dubois dont on fait les cercueils» l.

L I T A N I A D E L SONNO
(Frammento)

sonno! ascolta: ti parlerò con voce lieve:


Sonno. Cielo del letto di chi non lo possiede!

Tu che plani con PAlbatro delle nere tempeste


E leggero ti posi sulle notturne cuffie oneste!
sonno! Riposo bianco di vergini sfiorite!
E valvola di sfogo di vergini scaltrite!
Morbido materasso al dorso tormentato
Sacco dove il fuggiasco può nascondere il capo!
Vagabondo del boulevard esterno! prosseneta!
Paese dove il muto si ridesta profeta!
Metrica del verso, e rima del poeta!
sonno! Lupo Mannaro grigio! Sonno! Nero di fumo!
sonno! Bautta di velluto, di pizzo e di profumo!
Abbraccio dellTgnota, e abbraccio dell’Amata!
sonno! Ladro notturno! Brezza estasiata!
Profumo che sale al cielo da un’urna profumata!
Carrozza delle fate che donnacce raccatti!
Osceno Confessore delle smorte bigotte!

Tu vieni e come un cane lecchi la piaga antica


Del martire che la morte si prende con fatica!

1 [Dove Dubois, va letto come du bois, cioè del legno. Come dire:
« Sono a Collegno col quale si fanno le bare »].
i68 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Faticoso sorriso della crisi strozzata!


sonno! Vento aliseo! Aurora annuvolata!

Rutto dell’esistenza, e Strofinaccio passato


A l caffè della vita , su ogni piatto usato!
Grano di noia che la noia degli spazi invia!
Cosa che corre ancora, senz’orma e senza scia!
Ponte sui fossati! Varco tra le piu strette vie!

sonno! Camaleonte di stelle rilucente!


Vascello Fantasma a gonfie vele errante!
Donna di bordello, celata dietro un velo!
sonno! Ragno crudele! Tendi su me il tuo telo!

sonno aureolato! Magica Apoteosi,


Che arricchisci il giaciglio ove il fallito posa!
E ascolti paziente delPincompreso il pianto!
Rifugio del peccatore, del puro che non osa!

Domino! Diavoli blu! Angelo custode rosa!


Voce mortale che vibra con immortali onde!
Risveglio di morte echi e di cose profonde!
Giornale della sera: «Siècle», «Temps» e «Revue des
Deux Mondes»!

Fontana di Gioventù e Brama pacificata!


Tu che vieni a saziare la fame insaziata
Tu che a sciogliere vieni Panima rapita,
E d ’aria pura la inondi al largo della vita!

Tu che, a scena finita, molli la funicella,


Del commissario, del gatto, del Pulcinella,
Del violoncellista e del suo violoncello,
E la lira di quelli cui la Musa è pulzella!

Gran Dio, Signor del tutto! Signor della mia Amante


Che m’inganna con te — l ’amorosa Mollezza -
O h Bagno di piacere, Ventaglio di carezze!
TRISTAN CORBIÈRE 169

sonno! Onestà dei ladri! Chiarore della luna


A gli occhi abbacinati! Ruota della Fortuna
Per ogni sventurato! Spazzino del rancore!

O h corda d’impiccato del Pianeta pesante!


Accordo d’arpa che il sordo orecchio incanta!
Racconta, o Narratore, la storia che addormenta!
sonno! Focolare di quelli la cui fascina è spenta!

Focolare di quelli il cui fuoco si smorza!


Chiave per chi è rimasto fuor dalla sua porta!
Faccia di bronzo pei creditori e la lor sorta!
Riparo del marito contro la moglie accorta!

Leggerezza dei profondi, profondità degli imbecilli!


Nutrice del soldato e soldato di nutrici!
Giudizio dei giudici! Sbirro degli sbirri!
sonno! Bella-di-notte che schiude la corolla!
Lucciola, Crisalide e notturno Supplizio!
Pozzo di verità del Signor di La Palisse!

Spiraglio delle altezze! Polvere impalpabile


Che smorza del giorno la lanterna implacabile!

sonno! ascolta, ti parlerò con voce lieve:


T)elVEssere 0 non essere, oh crepuscolo breve!
G erm ain N ouveau
1852-1920

Perfino l ’immaginazione piu duttile stenta a veder riuniti nella


stessa persona il giovane ventunenne dalla voce di sole e dagli oc­
chi di miraggio che conquista subito l’amicizia di Rimbaud (que­
sti, preceduto da una pessima reputazione, era appena entrato al
Tabourey dove tutti fan finta di non riconoscerlo: Nouveau, spro­
nato da un’ammirazione senza limiti, corre da lui, e l’indomani par­
tiranno insieme per l’Inghilterra); questo giovane è il mendicante
che trentanni dopo si trascina sotto il portico di Saint-Sauveur
d’Aix, e al quale ogni domenica, andando a messa, Paul Cézanne
darà uno scudo in elemosina. Un assoluto non-conformismo im­
pronta dunque la sua vita, dall’inizio alla fine. «L’autore di Va­
lentines - dice il suo amico Ernest Delahaye - non era un uomo
indisponente, aveva anzi uno spirito di contraddizione tranquillo,
sorridente, talvolta piacevolmente ironico. Esso nasceva dal suo bi­
sogno costante di costruire le idee facendo “ la casa dal tetto” , e
anche dalla sua tendenza a cercare continuamente nuovi aspetti nel­
le cose. Le cose semplici per lui erano il contrario di ciò che fanno
e dicono i comuni mortali». Benché il meccanismo della sovver­
sione intellettuale, che egli, insieme a Cros, Rimbaud e anche Ver-
laine, aveva fin dall’inizio contribuito a mettere a punto, gli sia
scoppiato un giorno fra le mani (la sua prima crisi mistica, nel
1879, lo sorprese il venerdì santo mentre mangiava una bistecca
che si era voluto tagliare personalmente in una macelleria) non
cessò mai di applicare, tanto al «bene» quanto al «male», lo stes­
so zelo inquietante, la stessa totale mancanza di misura. Impiegato
in un ministero, dovette rassegnare le dimissioni in seguito a un
duello per burla con un collega. Professore di disegno a Janson-de-
Sailly, cade in ginocchio ai piedi della cattedra e intona un cantico.
Dopo un breve ricovero all’ospizio di Bicétre e due pellegrinaggi
a piedi, l’uno a Roma, l’altro a San Giacomo di Compostella, si
sente in dovere, per umiltà, dì distruggere la sua opera, e passa gli
GERMAIN NOUVEAU 1 7 1

ultimi quindici anni della sua esistenza vagando per le chiese della
Provenza, inquietante spettro di Benedetto Labre, il santo dalla co­
rona di vermi che si era scelto come modello.

IL P E T T IN E

La salvietta è una servente


Il sapone un servitore,
E la spugna una sapiente;
Ma il pettine è un gran signore.

Si, è un gran signore, Signora,


Per il nobile lignaggio
E per l ’onestà del cuore,
Si, il pettine è un gran signore!

Che? s’osa dire a voce fonda


Sporco come... Di chi Terrore?
Con il cuore si risponda!
Ma il pettine è un gran signore!

Se non è netto alla bisogna


Di chi Terrore? dell’autore?
No, piuttosto è della rogna!
Perché... il pettine è un gran signore.

Appassire nella sporcizia


Lo si lascia: qui è Terrore.
È uno sbaglio di... pigrizia.
Lui, il pettine è un gran signore.

Si; la mano è al suo servizio,


E se è sporco, per disgrazia,
Se n’infischia del suo vizio,
Perché il pettine è un gran signore.
7 2 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Pulirà il capo tutto contento


Sol se la mano con tanto amore
G li farà i denti con lo strumento,
Si il pettine è un gran signore.

Senz’arroganza o canzonatura
È proprio, il pettine, un gran signore,
Che ha per motto: «chi se ne cura»
Perché il pettine è un gran signore.

Gran signore il suo sdegno sfavilla,


Porta lo stocco con buonumore,
Questo stocco sarà una spilla,
Solo se il pettine è un gran signore.

Questa spilla svelta e carina,


Fresco e pulito lo fa come un fiore,
Sotto le mani della bambina
Di cui il pettine è un gran signore.

O r che tu dica o se io dico


C h ’egli è sporco, non si dà cuore
Di tal sciocchezze, mio caro amico,
Perché il pettine è un gran signore.

Per mio conto, non voglio dirlo:


Ciò mancherebbe... di sapore
Io non voglio infastidirlo;
No... il pettine è un gran signore.

Sui denti fini e senza traccia,


Ogni mattina io ho l ’onore,
Pettine mio, di porre un bacio,
E di esser vostro servitore.
A rth u r Rim baud
1854-91

L ’elemento sconvolgente magnifico e agghiacciante dell’humour,


quale noi lo consideriamo, ciò che in esso ci turba, la facoltà di
reazione paradossale ultradisinteressata che presuppone, è ben lon­
tano dal trovare in Rimbaud un terreno propizio. Uno humour sif­
fatto non arriva a esprimersi nella sua opera che in modo occasio­
nale, e, per di piu, in modo da non rispondere che in parte all’idea
d’insieme che noi ne abbiamo. L ’aspetto fisico di Rimbaud, quale
ci è rivelato dalla fotografia di Carjat o da quelle di Etiopia, sareb­
be sufficiente a dissipare ogni dubbio a questo proposito. Lo sguar­
do filtrante del visionario, e quello quasi spento dell’avventuriero,
non lasciano trasparire nulla della profonda malizia che non manca
mai negli occhi degli umoristi nati. Forse è proprio qui il suo pun­
to debole: la concezione poetica e artistica dei nostri giorni, nella
misura in cui le esigenze di un’epoca possono determinarla ed es­
serne superdeterminate, concede all’humour un’importanza che fi­
nora gli era stata negata. Tutta la sensibilità attuale ne resta ecci­
tata, e non si può proprio dire che Rimbaud possa, come per esem­
pio Lautréamont, soddisfarla sotto questo punto di vista. Innan­
zitutto in lui l’uomo esteriore e quello interiore non hanno mai tro­
vato una conciliazione, ma si alternano e, perfino nella prima parte
della sua vita, si sopraffanno continuamente l ’un l ’altro. Non pren­
diamo neppure in considerazione la seconda parte della sua vita,
dove la marionetta ha ormai preso il sopravvento e dove un pietoso
pagliaccio fa tintinnare a ogni piè sospinto i suoi sonagli: pensiamo
soltanto al Rimbaud del i 8 j i - j z yautentico dio della pubertà, qua­
le non è dato trovare in nessuna mitologia. Il trauma affettivo of­
fre qui alla sublimazione delle risorse cosi ricche che, d’un tratto,
il mondo esterno viene ad assumere un’importanza non maggiore
di quanta ne abbia agli occhi scaglionati di tutti gli zelatori della
setta Zen in Giappone. «L’uomo dalle suole di vento» non può
non richiamarci alla memoria quei «tappeti volanti» che vengono
1 7 4
ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

dall’Oriente e che permettono, cosi si dice, di battere a piedi, nella


castità e nel digiuno, tutti i primati automobilistici ed altri anco­
ra. È possibile, non è possibile: ambedue i termini sono veri, cosi
come Rimbaud che scrive le sue poesie e che vende mazzi di chiavi
sui marciapiedi di rue de Rivoli. I soli lampi di humour che abbia
avuto Rimbaud, queste sole illuminazioni di altro tipo al di là
delle Illuminations (non dimentichiamo che agli occhi di un «umo­
rista di professione» - nel senso in cui si dice un «rivoluzionario
di professione» - come Jacques Vaché, egli appare un puerile sec­
catore) sono quasi sempre oscurati dalle macchie di un’ironia di­
sperata, quanto vi è di piu contrario all’humour; in Rimbaud l’io,
gravemente minacciato, non è di solito capace di quel balzo verso
il «Super-io» che potrebbe permettere lo spostamento dell’accento
psichico; insiste a difendersi con i suoi propri mezzi, con le armi
fornitegli dalla miseria morale e intellettuale di coloro che lo cir­
condano. Di fronte alla propria sofferenza se la prende con gli al­
tri, invece di risolversi in essi. Perde cosi la sola occasione di domi­
narla e di apparirci intatto.
Queste riserve, per rigorose che siano, non vogliono togliere
valore - tutt’altro! - a certe sconvolgenti professioni àe\YAlchi­
mie du verbe : «Mi piacevano i quadri stupidi, soprapporte, scene e
tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; mi piaceva la let­
teratura fuori moda, il latino di chiesa, i libri erotici sgrammati­
cati», e a quella poesia Rêve del 1875, fra tutte ammirevole, che
costituisce il testamento poetico e spirituale di Rimbaud.

UN CU O R E SO T T O UN A TO N A C A

Riaprii debolmente gli occhi...


Cesarino e il sagrestano fumavano entrambi un sigaro
sottile, con tutte le smancerie possibili, cosa che li rende­
va spaventosamente ridicoli: la signora sagrestana se ne
stava seduta sulPorlo della seggiola, col petto incavato
chino in avanti e con le pieghe del vestito giallo che, da
dietro, le arrivavano a sbuffi fino al collo, e con Punico vo­
lani aperto a ventaglio tutt*attorno; sfogliava delicata-
ARTHUR RIMBAUD *75
mente una rosa, mentre un orrendo sorriso le socchiudeva
le labbra facendo risaltare sulle gengive magre due denti
scuri, gialli come la ceramica di una vecchia stufa. Tu, Ti-
motina, tu eri bella, col tuo collettino bianco, gli occhi
bassi e i capelli lisci sul capo.
- È un giovane che farà strada, il suo presente fa ben
presagire del futuro, - diceva il sagrestano, buttando fuo­
ri uno sbuffo di fumo grigio.
- Oh, il signor Léonard farà onore alTabito che porta! -
disse con voce nasale la sagrestana mettendo in mostra i
due denti.
Dal mio canto, io arrossivo come un ragazzino dabbe­
ne; mi accorsi che scostavano le seggiole da me e che sus­
surravano qualcosa sul mio conto.
Timotina aveva sempre gli occhi sulle mie scarpe; quei
due orribili denti mi minacciavano... il sagrestano rideva
ironico; io tenevo sempre la testa china!
- È morto Lamartine... - disse improvvisamente Tim o­
tina.
Cara Timotina! Era per il tuo adoratore, per il tuo po­
vero poeta Léonard, che buttavi nella conversazione quel
nome; allora io rialzai il capo, sentivo che la sola idea della
poesia avrebbe rifatto una verginità a tutti quei profani, e
sentivo le mie ali palpitare, e dissi raggiante, fissando T i­
motina:
- Aveva splendide gemme nella sua corona, Fautore
delle Meditazioni poetichel
- Il cigno dei versi non è piu, - disse la sagrestana.
- Si, ma ha cantato il suo canto funebre, - ribattei con
entusiasmo.
- Ma, - esclamò la sagrestana, — anche il signor Léo­
nard è un poeta! L ’anno scorso, sua madre mi ha mostrato
un saggio della sua musa...
Giocai d’audacia: - Oh! Signora, non ho portato né la
mia lira né la mia cetra, ma...
- Oh, la vostra cetra sarà per un altro giorno...
17 6 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

- Ma tuttavia, se non è cosa sgradita alla stimatissima


compagnia - e tirai fuori di tasca un pezzo di carta - vi
leggerò qualche verso... Li dedico alla signorina Timotina.
- Si! si! Giovanotto! molto bene! recitate! recitate!
Mettetevi in fondo alla sala...
Feci qualche passo indietro. Timotina guardava le mie
scarpe... La sagrestana faceva la Madonna; i due signori si
chinavano l ’un verso P altro... Io arrossii, diedi un colpo di
tosse e dissi con voce tenera e cantante;
Nel suo rifugio di cotone
Dorme lo zefiiro dal dolce respiro
Nel suo nido di lana e di seta
Dorme lo zefiiro dal gaio sorriso.

Tutti quanti scoppiarono in una risata: i due signori si


chinavano l ’un verso l ’altro facendo grossolani giochi di
parole; ma soprattutto spaventoso era Patteggiamento del­
la sagrestana che, gli occhi levati al cielo, faceva la mistica
e sorrideva con i suoi denti orrendi! Timotina, Timotina
crepava dal ridere! Mi sentii trafitto da un colpo mortale,
Timotina si teneva la pancia dalle risate!...
- Un dolce zefiiro dentro del cotone, è soave, è soave!...
- diceva tirando su dal naso papà Cesarino.
Mi parve di accorgermi di qualcosa... ma quello scoppio
di risa non durò che un attimo: scoppiettava ancora di
tanto in tanto mentre tutti cercavano di darsi un contegno.
- Continuate, giovanotto! Va bene, va bene!
Quando lo zefiiro solleva Tala
Nel suo rifugio di cotone,...
Quando corre dove lo chiama il fiore,
Il suo alito ha un buon odore...

Questa volta una fragorosa risata scosse il mio uditorio;


Timotina guardò le mie scarpe: avevo caldo, i piedi mi
bruciavano sotto il suo sguardo e nuotavano nel sudore;
mi ripetevo infatti: queste calze che porto da un mese, so­
no un dono del suo amore, questi sguardi che getta sui
ARTHUR RIMBAUD 177

miei piedi sono una testimonianza del suo amore: essa mi


adora.
Ed ecco che un certo qual misterioso sentore mi parve
uscire dalle mie scarpe: oh! compresi allora le orrende risa
delPassemblea! Compresi pure che, smarrita in quella mal­
vagia società, Timotina Labinette, Timotina, non avrebbe
mai potuto dar libero sfogo alla sua passione! Compresi
che anche a me toccava consumare in me stesso quelPamo-
re doloroso che si era schiuso nel mio cuore un pomerig­
gio di maggio, nella cucina dei Labinette, davanti alle con­
torsioni posteriori della Vergine della ciotola!
La pendola del salotto suonava le quattro, l’ora del rien­
tro; smarrito, arso d ’amore e pazzo di dolore, afferrai il
mio cappello e fuggii rovesciando una seggiola, attraversai
il corridoio mormorando: «Adoro Timotina»; e scappai al
seminario senza fermarmi...
Le falde nere del mio abito svolazzavano dietro di me,
nel vento, come uccelli sinistri!

LETTERA

14 ottobre 75
Caro amico,

Ricevuto il Postcard e la lettera di V . 1 otto giorni fa.


Per semplificare, ho detto al Fermo posta2di mandarmi a
casa le lettere, di modo che puoi scrivermi qui, se non vi è
ancora nulla al Fermo posta. Non commento le ultime vol­
garità del Loyola3, e attualmente non ho più da darmi da
1 [Verlaine].
2 [Per evitare di dover dare sedazioni alla madre, Rimbaud si faceva
spedire la corrispondenza al Fermo posta. Ma presto vi rinuncia, in se­
guito ad alcuni inconvenienti. Vedasi il post-scriptum di questa lettera
dove Rimbaud accenna alla corrispondenza «en passepoil»].
3 [Sempre Verlaine: allusione alle sue ultime poesie cristiane].
1/8 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

fare a quel riguardo poiché pare che il secondo «scaglio­


ne» del «contingente» della «classe» 74 sarà chiamata il
3 novembre prossimo o venturo: la camerata di notte:

Sogno

Hanno fame nella camerata -


È v e r o .............................................

Emanazioni, esplosioni,
Un genio: Io sono il gruviera!
Lefebvre: Keller!
Il genio: Io sono il Brie!
I soldati tranciano sul loro pane:
È la vita!
II genio: Io sono il roquefort!
- Sarà la nostra morte.
- Io sono il gruviera
E il brie... ecc..

Valzer

Ci han messo insieme, Lefebvre e me... ecc...!

Tali preoccupazioni non permettono che di immergerci-


si. In ogni caso, rispedire cortesemente, alPoccorrenza, le
«Loyola»12che dovessero arrivare.
Un piccolo favore: vuoi dirmi preciso e conciso — in co­
sa consiste attualmente la licenza in scienze, materie clas­
siche, e mate, ecc... - Dovresti dirmi a che punto di ogni
materia bisogna arrivare: Mate, fis., chim., ecc.; e anche
qualche titolo essenziale, e il modo di procurarsi i libri
usati per esempio nella tua scuola per questa licenza, a me­
no che non cambi nelle diverse università: in ogni caso da
professori o allievi al corrente, informati da questo punto
di vista. M ’interessano soprattutto delle cose precise, poi-

1 [Riguardo la letteratura].
2 [Le lettere di Verlaine].
ARTHUR RIMBAUD * 7 9

che si tratterebbe di comperare questi libri tra poco. Ser­


vizio militare e licenza, vedi, mi farebbero due o tre stagio­
ni divertenti! A l diavolo d’altronde questa «gentil fatica».
Soltanto sii cosi bravo da indicarmi il meglio possibile in
che modo ci si può regolare.
Qui nulla di nulla.
- Mi piace pensare che il Petdeloup1 e gli appiccicosi
pieni di fagioli patriottici o no, non ti diano più distrazioni
di quante te ne occorra. Almeno, non c’è odor di neve co­
me q u i12.
A te «nella misura delle mie deboli forze».
Scrivi:

A. R IM BAU D
3 1 , rue Saint-Rarthélemy
Charleville (Ardennes), naturalmente.

PS. La corrispondenza: «en passepoil» arriva a que­


sto, che il «Hémery » 3aveva affidato i giornali del Loyola a
un agente di polizia per portarmeli!

1 [Pet-de-loup: nome di un personaggio creato da Nodar nel 1849.


Sta per professore d’università ridicolo e anziano].
2 [«sa ne chlingue pas la neige» argot, le virgolette sono nel testo.
Nel senso che Charleville, da dove Rimbaud scrive, non sa di nulla, non
vi è niente che lo interessi].
3 [Hémery era un compagno di scuola di Rimbaud].
Alphonse A llais
1854-1905

Sarà forse perché i vasi della farmacia dove Alphonse Allais


trascorse la sua infanzia non riflettevano nulla di cupo - sopra di
essi il cielo di Honfleur, come lo dipingerà, più tenero di qualsiasi
altro cielo, Eugène Boudin, assiduo quanto Courbet e Manet del
laboratorio di suo padre - è raro comunque che quest’opera, tutta
imperniata sulPhumour, tradisca qualche grave preoccupazione,
sveli la minima riserva mentale. Se malgrado tutto lo poniamo ac­
canto agli autori, di gran lunga più velenosi, che dànno il tono
a questa raccolta, non è tanto per la materia, limpida e quasi sem­
pre primaverile, dei suoi racconti dal profumo raramente amaro,
quanto per l’ingegnosità con cui ha perseguitato, sotto le loro più
svariate forme, la meschinità e Pegoismo piccolo-borghese, giunti
al culmine nel suo tempo. Non solo non si lascia sfuggire nessuna
occasione di mettere in ridicolo il penoso ideale patriottico e reli­
gioso esasperato nei suoi concittadini dalla disfatta del 1871, ma è
bravissimo nel mettere in difficoltà l’individuo soddisfatto, abba­
gliato dai luoghi comuni e sicuro di sé che egli incontra ogni gior­
no per la strada. In compagnia del suo amico Sapeck egli eccelle in­
fatti in una forma di attività fino ad allora pressoché sconosciuta,
la mistificazione. Si può dire che con loro la mistificazione giunge
a livello di arte: si tratta né più né meno che di esercitare un’atti­
vità di terrorismo intellettuale che, sotto innumerevoli pretesti,
denuncia il conformismo, logoro fino alla corda, dell’uomo medio,
che stana in lui la bestia sociale coi suoi vistosi limiti, e la perse­
guita estraniandola poco a poco alla sfera dei suoi sordidi inte­
ressi. Vi è qui un richiamo alla ragion d’essere che equivale a una
condanna a n>orte: «Come Ì suoi antenati sulle loro barche risa­
livano il corso dei fiumi - dirà Maurice Donnay - cosi egli risale
sui suoi racconti il corso dei pregiudizi».
L ’ombra di Baudelaire non è lontana e, in effetti, i biografi ci
ricordano che il poeta, quando viene a trovare sua madre a Hon-
ALPHONSE ALLAIS l8l

fleur, si reca pure dal padre di Alphonse Allais, e, senza dubbio, la­
scia la sua impronta sul bambino (Alphonse Allais abiterà, verso la
fine della sua vita, «casa Baudelaire»). L ’esistenza di Alphonse
Allais è legata all’astro, destinato ben presto a tramontare, di quel­
le imprese eccentriche che furono successivamente gli Hydropates,
gli Hirsutes e lo Chat-noir, con le quali il pensiero ancora misterioso
di questo declinante xix secolo si spoglia del cappello a cilindro.
Si è tentato invano fino ad oggi di fare il conto delle invenzioni
perfettamente gratuite dell’autore di A se tordre, prodotti di un’im­
maginazione poetica che sta tra quella di Zenone di Elea e quella
dei bambini: il fucile del calibro di un millimetro, caricato ad aghi,
che può trapassare, infilare, legare ed impacchettare insieme quin­
dici o venti uomini; pesci viaggiatori destinati a rimpiazzare i pic­
cioni per il trasporto dei dispacci; acquario in vetro smerigliato
per pesci rossi timidi; intensificazione del focolaio luminoso delle
lucciole; oliatura dell’oceano per rendere inoffensive le onde; ca­
vatappi azionato dalla forza delle maree; essiccatrice tascabile; ca­
sa-ascensore che sprofonda nel suolo fino a raggiungere il piano vo­
luto; treno lanciato su dieci lame sovrapposte che corrono ognuna
a venti miglia all’ora, ecc. ecc.
È chiaro che l ’edificazione di questo castello di carte mentale
esige innanzitutto una conoscenza profonda di tutte le risorse del
linguaggio, sia dei suoi segreti che delle sue trappole: «Era un
grande scrittore», dirà alla sua morte il severo Jules Renard.
i 8 2 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

U N D R A M M A T U T T O P A R IG IN O

Capitolo 4.

Dove si potrà constatare come coloro che si immischiano


in ciò che non li riguarda farebbero assai meglio a restar­
sene tranquilli.

È straordinario come sta diventan­


do cattiva da un pò* di tempo, la
gente!
(Detto dalla mia portinaia la mat­
tina dello scorso lunedi).

Un mattino, Raoul riceve la seguente missiva:


«Se per caso vi interessa vedere, una volta tanto, vostra
moglie darsi bel tempo, recatevi giovedì al Ballo degli In­
coerenti, al Moulin Rouge. Vostra moglie ci sarà, masche­
rata e travestita da Piroga congolese. A buon intenditor...

Un amico».

Lo stesso mattino, Marguerite ricevette la seguente


missiva:
« Se per caso vi interessa vedere, una volta tanto, vostro
marito darsi bel tempo, recatevi giovedì al Ballo degli In­
coerenti, al Moulin Rouge. Vostro marito ci sarà, masche­
rato e travestito da Templare di fine secolo. A buon inten­
ditor...
U n’amica».

Questi biglietti non caddero nel vuoto.


ALPHONSE ALLAIS 183

Giunto il giorno fatale, dissimulando a meraviglia i lo­


ro propositi:
- Mia cara, - disse Raoul con la sua aria più innocente,
- mi vedo obbligato a lasciarvi fino a domani. Affari della
massima importanza richiedono la mia presenza a Dun-
kerque.
— Meno male, - rispose Marguerite con delizioso can­
dore, - perché ho ricevuto or ora un telegramma di zia
Aspasie che è molto malata e mi vuole al suo capezzale.

Capitolo 5.

Dove si vede la folle gioventù d}oggigiorno turbinare tra i


più chimerici e turbinosi piaceri, invece di pensare all’e­
ternità.

Mai vouéli vièure pamens:


La vido est tant bello!
AUGUSTE MARIN.

Le cronache del «Diavolo Zoppo» sono state unanimi


nel dichiarare che quell’anno il Ballo degli Incoerenti fu
brillante come non mai.
Molte spalle nude, e gambe in abbondanza, senza con­
tare gli accessori.
Due degli intervenuti non sembravano partecipare alla
follia generale: un Templare di fine secolo e una Piroga
congolese, entrambi ermeticamente mascherati.
Verso le tre del mattino il Templare si avvicinò alla Pi­
roga e la invitò a recarsi a cena con lui.
Per tutta risposta, la Piroga appoggiò la manina sul
braccio vigoroso del Templare, e la coppia s’allontanò.
18 4 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Capitolo 6.

Dove lasituazione s’ingarbuglia

I say, don’t you think thè rajah laughs at us?


Perhaps, Sir.
HENRY O’MERCIER.

— Andate pure per il momento, — disse il Templare al


cameriere del ristorante, - vi chiameremo dopo aver scelto
il menu.
Il cameriere si ritirò e il Templare chiuse accuratamen­
te a chiave la porta del salottino.
Poi, con un movimento brusco, si tolse il proprio copri­
capo e strappò la maschera della Piroga. Entrambi getta­
rono, all’unisono, un grido di stupore: non si riconosceva­
no né l’uno né l ’altra.
Lui, non era Raoul.
Lei, non era Marguerite.
Si chiesero reciprocamente scusa e, con l ’aiuto di una
cenetta, non tardarono a stringere conoscenza; altro non
vi dico.

PIACERI D’ E ST A T E

La tenuta nella quale passo la buona stagione è conti­


gua a una modesta dimora abitata dalla piu odiosa strega
di tutta la costa.
Vedova di un ispettore stradale che aveva fatto morire
di dolore, questa megera univa un’acidità fuor del comu­
ne alla piu sordida avarizia, il tutto nascosto sotto la ma­
schera di una devozione spinta all’eccesso.
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Alphonse Allais
i8 6 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

È morta, riposi in pace!


È morta, e mi sono fatto delle belle risate quando l’ho
vista annaspare con le lunghe braccia scarne e afflosciar­
si sull’erba stenta del suo ridicolo giardinetto troppo cu­
rato.
Infatti io ho assistito al suo trapasso; per meglio dire,
ne sono stato la causa, e credo che questa piccola avventura
resterà uno dei miei ricordi migliori.
Doveva d’altronde finire cosi, perché ero arrivato a non
poter più dormire, tanto mi ossessionava il solo pensiero
di quelParpia.
Donna orribile! veramente orribile!
Ottenni il mio funebre risultato grazie a un certo nu­
mero di scherzi; tutti di pessimo gusto ma che, bisogna am­
metterlo, rivelano nel loro autore un’astuzia pari all’impla­
cabile perseveranza.
Volete udire un breve riassunto delle mie macchina­
zioni?

La mia vicina aveva la mania del giardinaggio: non c’e­


ra in tutto il paese insalata paragonabile alla sua insalata,
e i suoi cespi di fragole erano tutti cosi belli che veniva vo­
glia di inginocchiarcisi davanti.
Contro le erbacce, contro gli insetti nocivi, contro i ver­
mi più voraci, conosceva, e usava senza stancarsi mai, mil­
le astuzie di un’efficacia più che temibile.
La caccia alle lumache era tutto un poema, avrebbe po­
tuto dire Coppée in un verso immortale.
Ed ecco che cosa architettai un giorno che il temporale
aveva imperversato sul paese:
Convocai una miriade di ragazzini (miriade è un modo
di dire) e dissi loro, consegnando a ciascuno un sacco:
- Andate, miei piccoli amici, andate per i viottoli della
campagna, e portatemi più lumase che potete. Quando tor­
nerete ci sarà qualche soldo per voi.
ALPHONSE ALLAIS 18 7

(Nella regione in cui abito, lumache si pronuncia, in


modo peraltro scorretto, liìmase).
I miei monelli si misero in caccia.
Li attendeva un copioso bottino: mai, infatti, tante lu­
mache avevano lasciato sul terreno le loro scie iridescenti.
Radunai a congresso tutti questi molluschi in una im­
mensa cassa ben chiusa, dove furono invitati a digiunare
per una settimana.
Dopo di che, in una radiosa sera d'estate, liberai Finterò
branco nel giardino della vecchia.
L ’alba venne ben presto a illuminare quella Waterloo.
Delle lattughe, delle cicorie, delle fragole già cosi rigo­
gliose, non restava ormai altro che poche nervature sini­
stre e cincischiate.
Ah, se non avessi riso tanto, come mi avrebbe straziato
un simile spettacolo di devastazione!
La megera non credeva ai suoi occhi.
Intanto, rimpinzate ma non sazie, le mie lumache con­
tinuavano la loro opera di distruzione.
Dal mio piccolo osservatorio potevo vederle arrampi­
carsi risolutamente all’assalto dei peri.
... In quel momento suonò la campana per la messa del­
le dieci, e la mia vicina scappò a raccontare le sue pene al
buon Dio.

Un racconto dettagliato delle burle feroci che inflissi a


quella perfida femmina che era la mia vicina sarebbe no­
ioso.
Non parlerò di tutti i pezzi di carburo di calcio impuri
che gettavo nella piccola vasca situata davanti alla sua ca­
sa: nessuna penna umana saprebbe descrivere il fetore
d ’aglio che spandeva allora il suo stupido zampillo.
E la megera (particolare che venni a sapere in seguito
e che mi riempi di gioia) provava appunto un’invincibile
avversione per l’odore dell’aglio.
i88 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

A i piedi del muro che separa il suo giardino dal mio, es­
sa coltivava una superba pianta di prezzemolo. Un prezze­
molo veramente magnifico!
A piene mani, senza risparmio, cosparsi il terreno alla
sua base di semi di cicuta, pianta il cui aspetto assomiglia
a quello del prezzemolo tanto da trarre in inganno.
(Compiango i nuovi affittuari del giardino, se non si ac­
corgono deiringanno).
Arriviamo alle due supreme facezie, l’ultima delle quali
provocò, come già ho accennato prima, l ’improvviso tra­
passo dell’orribile vecchia.
A forza di osservarla, conoscevo a perfezione il meschi­
no tran-tran della nostra megera.
Levatasi alle prime luci dell’alba, ispezionava con oc­
chio carico di sospetto ogni minimo particolare del suo
giardino, schiacciando una lumaca qui, là strappando una
erbaccia.
A l primo tocco della messa delle sei, la devota filava via,
poi, compiuto il dovere religioso, ritornava e prendeva
dalla cassetta delle lettere il giornale «La Croix», alla cui
edificante lettura si dedicava centellinando il suo caffè e
latte.
Bene, una mattina, lesse cose assai strane sul suo gior­
nale favorito. L ’articolo di fondo, per esempio, cominciava
con questa frase :
«Quando la faremo finita con questi maledetti preta­
stri?» e il resto dell’articolo continuava sullo stesso tono.
Dopo di che, si leggeva questo trafiletto:
« Avviso ai nostri lettori.

«Non saranno mai troppe le precauzioni che potremo


raccomandare a quei nostri lettori che si vedono costretti,
per una qualsivoglia ragione, a introdurre degli ecclesia­
stici nella loro dimora.
«Lunedi scorso, per esempio, il curato di Saint-Lucien,
chiamato presso uno dei suoi parrocchiani per sommini-
ALPHONSE ALLAIS 189

strargli gli ultimi Sacramenti, ha creduto bene di portarsi


via, andandosene, l’orologio d’oro del moribondo e una
dozzina di posate d’argento.
«Questo episodio è lungi dal costituire un caso isolato,
ecc. ecc.».
E la cronaca, poi!
Si raccontava ad esempio che il Nunzio del Papa era sta­
to arrestato la sera prima, al ballo del Moulin Rouge, per
ubriachezza, schiamazzi, e insulti agli agenti debordine.
Strano giornale !
Forse è superfluo aggiungere che questo curioso foglio
era stato redatto, illustrato, composto e stampato, non da
un gruppo di signore come il giornale « La Fronde », ma dal
vostro servitore, con la complicità di un amico tipografo,
del quale non potrò mai lodare abbastanza la squisita cor­
tesia dimostrata in quell’occasione.

Una delle burle che posso raccomandare con piena fidu­


cia alla mia elegante clientela è la seguente. Non brilla né
per sottile intelligenza né per tatto squisito, ma la sua ese­
cuzione procura all’autore una viva allegria.
Beninteso, non mancai di propinarla alla mia odiosa vi­
cina.
A partire dal mattino, e a diverse ore del giorno, inviai
telegrammi, recanti la firma e l’indirizzo della vecchia, a
persone che abitavano nei più disparati angoli della Fran­
cia.
Ogni telegramma, con risposta pagata, consisteva in
una richiesta d’informazioni su un argomento qualsiasi.
Non è facile farsi un’idea dello stupore misto a spaven­
to che la vecchia signora ebbe a provare ogniqualvolta il
fattorino del telegrafo le consegnava un foglietto azzurro
che ostentava frasi della più strampalata assurdità.
Venendo subito dopo la lettura del numero speciale de
19 0 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

«La Croix» fabbricato da me, questi telegrammi precipi­


tarono la mia odiosa vicina in uno stato quanto mai comico
di allucinazione.
Alla fine, rifiutò di aprire al postino, e arrivò perfino a
minacciare il povero impiegato di prenderlo a colpi di sco­
pa, se mai fosse tornato alla carica.
Installato alla finestra del mio granaio e munito di un
ottimo binocolo, io non avevo mai riso tanto.

Frattanto venne la sera.


Secondo una sua vecchia abitudine, il gatto della brava
donna, un gran gatto nero, magro ma superbo, sul finir del
giorno venne a girovagare nel mio giardino.
Con Paiuto di mio nipote (un ragazzo che promette be­
ne) Tanimale fu ben presto catturato, e con altrettanta pre­
stezza lo cospargemmo copiosamente di solfuro di bario.
(Il solfuro di bario è uno di quei prodotti che hanno la
proprietà di rendere luminosi gli oggetti nel buio. Lo si
trova in qualsiasi negozio di prodotti chimici).

Avvenne nella notte opaca, una notte senza stelle e sen­


za luna.
Preoccupata perché non aveva visto rientrare il suo mi­
cio, la vecchia chiamava:
- Polyte, Polyte! Vieni, mio piccolo Polyte!
(Che razza di nome per un gatto! )
Quando alPimprovviso lo liberammo, Polyte schizzò
via pazzo di rabbia e di paura, si arrampicò sul muro in
meno tempo di quanto ne occorra per raccontarlo, e si pre­
cipitò verso la sua casetta.
Avete mai visto un gatto luminoso balzare dalle tenebre
della notte? È uno spettacolo che vai la pena di vedere, e,
per mio conto, il più fantastico che conosca. Era veramen­
te troppo.
ALPHONSE ALLAIS I9 I

Udimmo delle grida, degli urli.


- Belzebù! Belzebù! strillava la vecchia. È Belzebù!
Poi, la vedemmo abbandonare la candela che teneva in
mano e crollare sull’erba.
Quando alcuni vicini, richiamati dalle sue grida, accor­
sero per risollevarla, era troppo tardi. Non avevo più una
vicina.
Jean-Pierre Brisset

Se la più che notevole opera di Brisset merita di essere esami­


nata nei suoi rapporti con l ’humour, non può in nessun modo pas­
sare per umoristica la volontà che la informa. Infatti Fautore non
si scosta mai, in nessuna occasione, dall’atteggiamento più serio e
più austero. Soltanto dopo aver esaurito un processo di identifica­
zione pari a quello che è richiesto dall’esame di qualsivoglia siste­
ma filosofico o scientifico, il lettore sarà indotto a trovare per pro­
prio conto un rifugio nell’humour. Gli è infatti indispensabile ri­
sparmiarsi una scossa affettiva troppo radicale, quale risulterebbe
dall’accettazione di una scoperta che scuote le basi stesse del pen­
siero, e annulla ogni acquisizione anteriore rimettendo in questione
i principi più elementari della vita sociale. Una tale scoperta è con­
siderata a priori impossibile e, nell’incredibile evenienza che si do­
vesse verificare, i manicomi sono costruiti apposta perché nulla ne
possa trasparire. Questo istinto di conservazione della società sem­
bra essersi manifestato in modo meno immediato nel caso di Bris­
set, ed ebbe come unico risultato di fargli affibbiare, nel 1912, da
parte di una combriccola di scrittori, l’appellativo ironico di prin­
cipe dei pensatori. Dignità derisoria che varrà a danneggiarlo solo
presso coloro che chiudono gli occhi nel passare davanti alle più
grandi singolarità della mente umana. Lo scaricarsi emotivo del lin­
guaggio di Brisset in uno humour tutto di ricezione (in opposizione
allo humour di emissione della maggior parte degli autori che ci in­
teressano) pone in specialissima evidenza alcuni caratteri costitu­
tivi di questo humour. L ’autore si presenta come depositario di un
segreto di portata tale da far considerare come nullo e non avvenu­
to tutto ciò che è stato pensato prima della sua rivelazione. Attra­
verso la sua persona, ci troviamo di fronte al ritorno all’infanzia di
tutta la specie umana, e non più soltanto del singolo individuo.
(Qualcosa di analogo avviene nel caso del doganiere Rousseau).
Il flagrante contrasto che si produce fra la natura delle idee comu-
JEAN-PIERRE BRIS SET 19 3

nemente accettate e l’affermazione, nello scrittore o nel pittore, di


questo primitivismo integrale, genera uno humour di grande stile,
cui il protagonista resta estraneo.
L ’idea centrale di Brisset è la seguente: «La parola che è Dio
ha conservato nelle sue pieghe la storia del genere umano fin dagli
inizi, e in ogni idioma la storia di ogni popolo, con una sicurezza
e un’irrefutabilità che confonderanno i semplici e i dotti». L ’ana­
lisi delle parole gli consente, di primo acchito, di concludere che
l’uomo discende dalla rana. Questo reperto, che egli tende dappri­
ma a giustificare, poi a sfruttare in un gioco d’associazioni verbali
di straordinaria ricchezza, convalida, per lui, la constatazione ana­
tomica che « l’aspetto del seme umano, visto al microscopio, è quel­
lo di una pozza d’acqua piena di girini il cui sembiante e forma ri­
cordano in pieno quello dei piccoli corpi contenuti nel seme». Si
sviluppa cosi, su un fondo pansessualista di grande potere alluci-
natorio, e sotto l ’egida di una rara erudizione, una serie vertiginosa
di equazioni verbali di impressionante rigore, e prende forma una
dottrina che pretende d’essere la chiave certa e infallibile del libro
di vita. Brisset non nasconde di essere egli stesso abbagliato dallo
splendore del dono che offre all’umanità e che deve conferirle l’on­
nipotenza divina. Non vuol riconoscersi altri predecessori che Mo-
sè e i profeti, Gesù e gli apostoli; presenta se stesso come il settimo
angelo dell’Apocalisse e l’Arcangelo della resurrezione.
È ovvio che una comunicazione di questa specie doveva riservar­
gli, sul piano umano, le peggiori delusioni. «La grammaire logique
pubblicata nel 1883 - egli dice - si è ragionevolmente diffusa nel
mondo erudito. L ’abbiamo presentata all’Accademia per un con­
corso, ma il signor Renan volle respingerla. Nel 1891, non trovando
un editore, pubblicammo a nostre spese Le mystère de Dieu, con
affissione di manifesti c due conferenze pubbliche a Parigi. Questo
libro suscitò un’ondata di emozione tra gli studenti di Angers, dove
avevamo organizzato tutto per tenere una conferenza, ma le auto­
rità municipali fecero fallire il nostro progetto. Nel 1900 abbiamo
pubblicato La Science de Dieu e un foglio tirato a mille esemplari,
La Grande Nouvelle, dove venivano riassunti tutti i nostri lavori.
I nostri strilloni erano come paralizzati, e non riuscivano affatto
a vendere questa grande novella: allora la facemmo distribuire
gratuitamente a Parigi e la spedimmo, insieme col libro, un po’
per tutto il mondo. In seguito alla distribuzione del foglio si riuscì
a vendere l ’edizione, come venimmo a sapere solo dopo il falli­
mento del nostro distributore. Queste due pubblicazioni fecero ab­
bastanza rumore da spingere il “ Petit Parisien ” a dedicarci in mo­
do indiretto un articolo di prima pagina (29 luglio 1904) dal ti-
194 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

tolo Chez les fous. Ecco ciò che direttamente ci concerne. Si cita
tra l’altro un alienato “ che, con un sistema di allitterazioni e ti­
ritere, aveva preteso di fondare un intero trattato di metafisica in­
titolato La science de Dieu. Per lui infatti la Parola è tutto. E le
analisi delle parole esprimono i rapporti tra le cose. Mi manca lo
spazio per citare qualche passaggio di questa inquietante filosofia,
la cui lettura genera d ’altronde un reale turbamento: i miei let­
tori mi saranno grati di averglielo voluto risparmiare“ . L ’alienato
- prosegue Brisset, che apparteneva alla polizia giudiziaria e il cui
modo di scrivere non aveva nulla da spartire con l’oscuro vanilo­
quio di cui sopra - fu tuttavia ben contento della critica e ringra­
ziò perfino. La science de Dieu fu, alla sua pubblicazione, la set­
tima tromba dell’Apocalisse, e nel 1906 abbiamo pubblicato Les
prophéties accomplies. Un lungo prospetto, tirato a duemila copie,
fu spedito a diversi indirizzi e, poiché dovevamo ancora far sentire
la nostra voce, tenemmo una conferenza all’Hótel des Sociétés Sa-
vantes, il 3 giugno 1906. Ci scontrammo contro molta cattiva vo­
lontà e i manifesti, preparati per essere affissi in tutta Parigi, fu­
rono collocati solo nei dintorni dell’Hotel. Vennero una cinquan­
tina di persone ad ascoltarci, e affermammo, nella nostra indigna­
zione, che nessuno d’ora in poi avrebbe piu udito la voce del set­
timo angelo».
Una seconda edizione della Science de Dieu (interamente rin­
novata) appare tuttavia nel 1913 con il titolo di Les origines hu-
maines. L ’autore dichiara che, sentendosi vecchio e stanco, teme
di non poter condurre a termine il suo più alto progetto: un dizio­
nario di tutte le lingue.
Se consideriamo l’opera di Brisset dal punto di vista dell’hu-
mour, essa trae la sua importanza dalla sua situazione unica, a capo
della linea che congiunge la patafisica di Alfred Jarry o «scienza
delle soluzioni immaginarie, che accorda simbolicamente ai linea­
menti le proprietà degli oggetti descritti nella loro virtualità» al-
Vattività paranoico-critica di Salvador Dali o «metodo spontaneo di
conoscenza irrazionale basato sull’associazione interpretativo-criti-
ca dei fenomeni deliranti». Non può non colpirci il fatto che l’ope­
ra di Raymond Roussel e l’opera letteraria di Marcel Duchamp si
siano situate, a loro insaputa o meno, in stretta connessione con
quella di Brisset, che stende la sua influenza fino ai più recenti espe­
rimenti di smembramento poetico del linguaggio («Rivoluzione del­
la parola»): Léon-Paul Fargue, Robert Desnos, Michel Leiris, Hen­
ri Michaux, James Joyce e la giovane scuola americana di Parigi.
Jean-Pierre Brisset
19 6 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

L A G R AN D E L E G G E O L A C H IA V E D E L L A P A R O L A

Sono insite nella parola numerose Leggi, rimaste igno­


te fino ad oggi; la più importante è che un suono o una se­
rie di suoni identici, chiari e percepibili, possono espri­
mere cose differenti, in seguito a una modifica nel modo
di scrivere o di intendere quei nomi o quelle parole. Tutti
i concetti enunciati con suoni simili hanno una stessa ori­
gine e si richiamano tutti, nel loro principio, a uno stesso
oggetto. Prendiamo i seguenti suoni:

Les dents, la bouche. [I denti, la bocca.


Les dents la bouchent, I denti sbarrano la bocca,
Paidant la bouche. con l’aiuto della bocca.
L ’aide en la bouche. L ’aiuto nella bocca.
Laides en la bouche. Brutti nella bocca.
Laid dans la bouche. Brutto nella bocca.
Lait dans la bouche. Latte nella bocca.
L ’est dam le à bouche. È danno alla bocca.
Les dents-là bouche. Quei denti là chiudi] \

Se io dico: dents, la bouche (denti, la bocca)12 ciò ri­


chiama alla mente immagini del tutto familiari: i denti
sono nella bocca. Si arriva cosi ad afferrare soltanto la su­
perficie del libro di vita nascosto nella parola e sigillato da
sette sigilli. Ora noi leggeremo in questo libro, oggi spa­
lancato, ciò che era nascosto sotto le parole: les dents, la
bouche.
I denti sbarrano l ’ingresso della bocca e la bocca è d ’aiu­
to e contribuisce a questa occlusione: Les dents la bou-

1 [Tutte queste frasi hanno in francese la medesima pronuncia. La tra­


duzione italiana può solo consentire una lettura letterale].
2 [Si può anche leggere: dans la bouche {dentro la bocca)].
JEAN-PIERRE BRISSET I9 7

chent, Vaidant la bouche (i denti la sbarrano, con l ’aiuto


della bocca).
I denti sono Vaide (l’aiuto), il sostegno en la bouche
(nella bocca) e troppo spesso sono anche laides en la bou­
che (brutti nella bocca), e questo è anche laid (brutto). A l­
tre volte, è invece lait (latte): sono bianchi come lait dans
la bouche (latte nella bocca).
L'est dam le à bouche si deve intendere: è un dam
(danno), male o danno, qui nella bocca; o più semplice-
mente: Ho mal di denti. Si vede al tempo stesso che il pri­
mo dam ha un dent (dente) alla sua origine. Les dents-là
bouche sta per: chiudi o nascondi quei denti, cioè chiudi
la bocca.
Tutto ciò che è in questo modo scritto nella parola e vi
si legge chiaramente, è vero di una verità ineluttabile; è
vero su tutta la terra. Ciò che è detto in una sola lingua è
detto per tutta la terra: su tutta la terra, i denti sono d’aiu­
to e insieme sono brutti nella bocca, benché le altre lingue
non lo dicano alla stessa maniera della lingua francese; ma
dicono cose altrettanto importanti, sulle quali la nostra
lingua non si pronuncia. Le lingue non si sono punto ac­
cordate tra loro; lo Spirito dell’Eterno, creatore di tutte le
cose, ha predisposto da solo il suo libro di vita. Come ha
potuto nascondere a tutti gli uomini, su tutta la terra, una
scienza tanto semplice?
Questa è la chiave che apre i libri della parola.

LA FO R M A ZIO N E D E L S E S S O *

Cominciamo con l ’osservare che si può cambiare l’ordi­


ne dei vocaboli di una frase senza modificarne il significa-1

1 [Di questo brano, al confine deirintraducibile, ci limitiamo a dare


uno stralcio, rimandando il lettore all’edizione originale].
198 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

to: La porte est ouverte (la porta è aperta) e porte est ou­
verte là (porta è aperta là) significano comunque: ouverte
est la porte (aperta è la porta)...
Ammesso ciò, noi leggiamo1: ai que ce? che valeva:
ce qu ai? oppure: qu’ ai ce? = qu’ai-je? Le domande: ai que
ce? est que ce? significavano: ai oppure est quoi ici? (che
cos’ho, oppure che cos’è, qui?) e crearono la parola exeyil
primo nome del sexe (sesso)123 . Gli uni pronunciavano éqce,
gli altri èqceysecondo la frase creatrice: ai que ce? est que
ce? Per cui sexe si pronuncerà, secondo il caso: sécqce,
sèqce. Ec, èque, oppure ek, formato da: ai que? è anche un
primo nome del sesso: éque-ce valeva ce èque, ec o ek, e
divenne exe.
Ci si domandò in seguito: ce exe, sais que ce? «=ce
point, sais-tu quoi c’est? (questo punto, sai che cos’è? ) che
si trasformò in: sexe. - Sais que c’est? ce exe est, sexe est,
ce excès. Ce excès (questo eccesso) è il sesso. - Si vede qui
che il sesso fu il primo eccesso. Non vi è alcun eccesso da
temere da coloro che non hanno sesso.

Je ne sais que c’est. ]eune sexe est \ (Non so che cos’è.


Giovane sesso è). La prima cosa che fu notata dal progeni­
tore, e che gli era sconosciuta, era un sesso giovane in for­
mazione. In questo caso, i più lucidi sono ancora indotti a
dire a volte: Je ne sais que c’est (non so che cosa è). Jeune
sexe estyvale: sexe est jeune (sesso è giovane) e: jeune est
sexe (giovane è sesso). La parola giovane può essere consi­
derata come un nome. Ne risulta che giovane designa e de­
signò coloro che assumevano il sesso. I giovani sono i bam­

1 [La dimostrazione di Brisset si basa su una serie di modificazioni


della formula francese est-ce-que che introduce le frasi interrogative, e
della frase qu’ai-je (che ho?); si basa inoltre sull’assonanza tra ai (ho) e
est (è) e di quella tra ce (ciò, questo, quello) e je (io)].
2 [ai que ce e est que ce si pronunciano entrambe exe].
3 [Assonanza tra je ne e jeune ; e inoltre tra sais que c}est e sexe est].
JEAN-PIERRE BRIS SET 1 9 9

bini il cui sesso non ha ancora raggiunto tutto il suo vigore,


a causa del suo lento sviluppo.
Tu sais que c’est bien ( tu sai che è bene ), da cui : Tu sexe
est bien. La parola tu, come la parola giovane, indicò an­
che il sesso. È un termine infantile: nascondi il tuo tu, il
tuo tutu. Tu tu = il tuo sesso. Tu relues tu tu = tu guardi
[reluques] il tuo sesso. Turlututu ripeteva indispettito chi
era sottoposto a questa indiscreta constatazione...
On sait que c’est (si sa che cos’è), da cui: On sexe est. Il
pronome on designò il sesso e aveva il valore di en (in), en
ce lieu (in questo luogo), en ce Vyeu — en cet ceil-là (in
quell’occhio) \ Il sesso si presentò sotto forma di yeu cioè
di occhio. Fu una piccola apertura. Il pronome on è indefi­
nito e tutte le parole che può sostituire sono in primo luo­
go riferite al sesso, Porigine di ogni parola vivente: Pietro,
Giovanni, Giulia, ecc., sait que c’est bien (sa che è bene)
e sexe est bien (sesso è bene). Tutto ciò che può sapere
qualcosa è a rigore, in origine, un sesso, un membro della
famiglia umana o divina.
Je sais que c’est bien (io so che è bene). Je (io) oppure
jeu (gioco) sexe est bien. Il primo gioco era il sesso. Di qui
la passione del gioco. Il prudente celava il suo gioco. Il
pronome je designa anche il sesso, e quando je parla, è un
sesso, un membro virile del Padre Eterno che agisce per
sua volontà o suo consenso. Parlando del suo sesso il pro­
genitore si accorse di parlare della sua propria persona, di
se stesso.1

1 [Il plurale di œil è yeux\ da cui Brisset trae il singolare yeu].


200 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

L E CΠUR (IL C U O R E )

Que heure! (Che ora!) Que heurt! (Che colpo!)1 Leur-


re-leur Vheure. (Attira loro la fortuna). Vheure (Fora),
dando le heurt (il colpo), dà Vheure (la fortuna)123 . È con
Vheure (Fora) che si attirava la fortuna. Chi aveva Vheure
(Fora) era heureux, heure euxycioè felice, fortunato. Fin­
ché Fora non giungeva, si mancava di cuore. Il cuore è an­
che: Le qu’eust reyle queue re \ Il sesso sotto il nome di
cuore colpi e diede per primo Vheure (Fora, e anche la fe­
licità). Fu lui che diede cuore al ventre. Le queue relevé
(il membro rialzato) indicava le cœur élevé (il cuore no­
bile), Si chiamava senza cuore colui che non era sessuato.
Il cuore prese il significato di cosa centrale, di cosa in mez­
zo, e cosi questa parola indicò il centro del regno del san­
gue; ma, in senso figurato, il cuore è sempre il sesso. Quan­
do il nostro antenato aveva male al cuore4, ispirava disgu­
sto e ripugnanza, e lo stesso quando lo sollevava e l ’offriva
all’adorazione di coloro che ne erano disgustati. Quel cuo­
re era la chiave dei cuori che possono aprirsi. Ciò che noi
oggi chiamiamo cœur (cuore) non può né aprirsi, né mo­
strarsi, né darsi, e mai lo potè. Tuttavia, Fespressione ap­
pare naturale e non scandalizza: ma lo spirito degli scioc­
chi è scandalizzato dal fatto che la donna fu presa da una
queue haute (membro eretto), o côte (costola)5dell’uomo.

1 [.Que heure, que heurt e cœur hanno una pronuncia simile].


1 [In francese antico eur, eure e, anche in certe espressioni del fran­
cese moderno, heur, hanno il significato di fortuna, felicità, caso. Si ritie­
ne che Brisset abbia mantenuto Fonografia heure intendendola però in
questa accezione].
3 [Le qu’eust re, e le queue re, si pronunciano in modo simile a cœur,
ma l’autore intende per queue : la queue, volgare per il membro maschile.
4 [Avoir mal au cœur (lett. aver male al cuore) significa anche aver la
nausea].
5 [Queue haute e côte hanno una pronuncia simile].
JEAN-PIERRE BRIS SET 201
Si poneva sul cuore, e dentro il proprio cuore, ciò che
si aveva di piu prezioso; e allora diventava sacro. Ce à
cœur ai (ciò a cuore ho), ce à creux ai (ciò nel profondo
ho) \ Ce à creux ai cœur, ci mostra l ’unione dei cuori, cosi
come le Sacré-Cœur (il Sacro Cuore)12è trafitto da frecce. Si
tratta di un abominio simile a quello dei bramini, che ado­
ravano Tunione sessuale sotto il nome di lìngam. I cuori
consacrati e tutti i medaglioni sono dei tabu, delle imma­
gini del sesso. I demoni hanno sempre il loro cuore in boc­
ca, il loro buon cuore: il loro cuore cosi tenero e tuttavia
pieno di durezza, il loro cuore adorabile e altre infamie.
Adorano il Cuore di Gesù e insultano cosi colui che solo
deve essere adorato: Dio.

1 [Ce à cœur ai e ce à creux ai hanno una pronuncia simile a sacre


(sacro)].
2 [Ce à creux ai cœur e Sacré-Cœur hanno una pronuncia simile].
O. Henry
1862-1910

O. Henry, con un cappello a cilindro sul capo, andò a vedere le


cascate del Niagara e, ascoltandone il rumore, affermò di esser riu­
scito a individuarne il timbro: «Il suono che fanno le cascate è pres­
sappoco 60 centimetri al di sopra del sol piu basso del piano» l. Il
grande umorista popolare porta con sé, lungo Parco della sua opera,
un passato lirico che evoca gli occhi chiari degli inizi del cinema
americano, le strofe ardenti di L ’emigrant de Landor Road di Apol-
linaire e i grandi appelli di Jacques Vaché alla vocazione comune a
tutta una generazione: «Sarò anche cacciatore di pellicce, o ladro,
o minatore, o cercatore d'oro, o scandagliatore. Bar dell'Arizona...»
Fu cosi che O. Henry, puro prodotto di quel Texas dove compì i
suoi studi, ai confini del Messico e del territorio indiano dell’Okla-
homa, divenne di volta in volta cow-boy, cercatore d’oro, commesso
di drogheria, disegnatore presso un’agenzia immobiliare, prima di
essere messo in prigione per falso e poi riconosciuto innocente, e
diventare editore di un giornale satirico. Il suo humour («gebro-
chener» Humour) è pieno di tenerezza come quello del primo Cha-
plin, e non pretende di modificare la struttura del mondo. «Tutti
noi - egli dice - siamo in qualche modo costretti a prevaricare, men­
tire, essere ipocriti, e non solo di tanto in tanto, ma ogni giorno del­
la nostra vita. Se facessimo altrimenti, la macchina sociale cadrebbe
a pezzi nello spazio di una giornata. È necessario agire cosi, l ’uno ri­
spetto all’altro, come è necessario indossare gli abiti. Noi facciamo
per il meglio». Ciononostante, la sua benevolenza e la sua commos­
sa simpatia, cosi come in Thomas De Quincey, vanno per scelta elet­
tiva alle «canaglie», ai fuorilegge. Le grandi piste poetiche che per­
corre a tutta andatura in racconti come La voce della città sono di
quelle che solo uno splendido cavaliere riesce a descrivere. «I passi

1 [Gioco di parole intraducibile tra sol, «suolo» e sol, «nota musi­


cale »].
O. HENRY 203

di un uomo perduto nella neve disegnano anche suo malgrado una


circonferenza perfetta». D ’altra parte, lo mette al riparo da ogni
amarezza il senso dell 'amore stupefatto, e il dono, che egli possie­
de, di sapersi piegare a volontà sopra il pozzo d’illusione dell’infan­
zia. Dalla campagna scrive alla sua nipotina: «Qui è estate, e le api
sono in fiore; i fiori cantano, gli uccelli fanno il miele... A quando le
feste di Pasqua e le uova di coniglio? Ma tu hai certo imparato a
scuola che i conigli non fanno le uova; esse crescono invece su certi
arbusti».

M E N T R E L ’A U T O A S P E T T A

Puntuale, al cader del crepuscolo in quell’angolo quie­


to del piccolo quieto parco, ecco venire la ragazza in gri­
gio. Siede su una panchina e si mette a leggere un libro,
giacché c’è ancora una mezz’ora di luce sufficiente.
Ripeto: la sua veste era grigia e semplice abbastanza da
mascherare l’impeccabilità dello stile e del taglio. Una ve­
letta a larghe maglie imprigionava un turbante e un volto
raggiante di calma e ignara bellezza. Era venuta anche il
giorno avanti, e due giorni prima, e c’era chi lo sapeva.
Il giovane che sapeva si aggirava nei pressi levando pre­
ci alla grande dea Fortuna. La sua pietà fu ricompensata
quando, voltando pagina, il libro le sfuggi di mano e cadde
a un buon mezzo metro dalla panchina.
Il giovanotto si slanciò avanti con avidità repentina
e riportò il libro alla proprietaria con quell’aria, propria
di chi frequenta i parchi e in genere i luoghi pubblici, fat­
ta d ’un misto di galanteria e speranza temperate dal rispet­
to per il probabile poliziotto di turno. Con voce gradevole
arrischiò una banale osservazione sul tempo (pretesto re­
sponsabile di tanta infelicità umana) e rimase in attesa del
suo destino.
La ragazza ispezionò a lungo, senza fretta, l’abito or­
204 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

dinato e senza pretese e il volto scarsamente espressivo


del giovane.
- Sieda, se lo desidera, — disse. Aveva una voce da con­
tralto, piena e fonda. — Dico sul serio; mi farebbe piace­
re. La luce è troppo fioca per leggere e preferirei conver­
sare.
Il devoto della Fortuna scivolò con evidente soddisfa­
zione sulla panca.
- Sai, - disse, pronunciando la formula di apertura de­
gli incontri nel parco, — che sei la ragazza piu straordinaria
che abbia visto da un pezzo? Non sapevi mica, tesoro, che
c’era qualcuno ch’era rimasto ammaliato da quei tuoi oc­
chioni radiosi?
- Chiunque lei sia, - rispose gelida la ragazza, - cerchi
di ricordare che sono una signora. Posso perdonare ciò
che ha detto, giacché è un errore senza dubbio comprensi­
bile nel suo ambiente. Ma se il mio invito a sedere signi­
fica che devo diventare il suo tesoro, lo consideri pure an­
nullato.
- Le chiedo sinceramente perdono, - disse il giovane,
fattosi da baldanzoso, umile e pentito. - È stata colpa mia,
ma sa, nei parchi si incontrano certe ragazze... cioè, no,
certo, lei non lo sa, ma....
- Cambiamo argomento, se non le spiace. Certo che lo
so. Parliamo piuttosto di questa gente che passa nei viali.
Dove vanno? e perché cosi in fretta? sono felici?
Il giovane, abbandonato rapidamente il tono frivolo,
cercava di indovinare il ruolo che gli sarebbe toccato.
- È molto interessante osservare la gente, - rispose,
assecondandola. — Il meraviglioso teatro della vita: alcu­
ni vanno a casa per cena e altri a... beh, in altri posti.
Viene voglia di sapere la storia di ognuno.
- A me no, - disse la ragazza. - Non sono cosi indi­
screta. Vengo qui unicamente perché è Punico luogo dove
riesco a star vicina al grande, pulsante cuore dell’umanità.
La vita mi ha assegnato un ruolo che mi tiene lontana da
O.HENRY 205

quei battiti. Riesce a immaginare perché le ho parlato,


Mr...?
- Parkenstacker, — disse il giovane, e attese impazien­
te e fiducioso.
- No, - disse la ragazza, e levando un dito sottile con
un lieve sorriso. — Il mio nome lo riconoscerebbe subito;
è impossibile sfuggire alla stampa; del resto riconoscereb­
be anche il mio viso. Questo cappello e il velo della mia
domestica mi assicurano in qualche modo l’incognito. A-
vrebbe dovuto vedere come li guardava l ’autista, quando
credeva che non me ne accorgessi. Insomma, per farla bre­
ve, vi sono cinque o sei nomi che appartengono al sancta
sanctorum, e il mio è tra questi. Le ho rivolto la parola,
Mr Stackenpot...
- Parkenstacker, - corresse umilmente il giovane.
- Mr Parkenstacker, perché desideravo parlare per una
volta con un uomo qualunque, incontaminato dal meschi­
no scintillio della ricchezza e della cosiddetta superiorità
sociale. Ah, non può immaginare quanto ne sia stufa: de­
naro, denaro, denaro! E gli uomini che mi circondano,
queste marionette tutte uguali. Stufa dei piaceri, dei gioiel­
li, dei viaggi, della vita di società, dei lussi.
- Avevo sempre pensato, — tentò il giovane timidamen­
te, — che il denaro fosse una cosa apprezzabile.
- Certo, il necessario è sempre auspicabile. Ma quando
si hanno tanti milioni che... — concluse la frase con un ge­
sto di disperazione. - È la monotonia che nausea, - dis­
se, — gite, pranzi, teatri, balli, cene, tutto indorato da que­
sta ricchezza superflua. A volte il tintinnio del ghiaccio
nella mia coppa di champagne mi porta sull’orlo della paz­
zia.
A questo punto Mr Parkenstacker mostrò un sincero
interesse.
- Mi è sempre piaciuto, - disse, - leggere ciò che ri­
guarda la gente di mondo. Forse sono uno snob, ma mi
piace conoscere con precisione i minimi particolari. Ora,
20 6 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

a me era parso di capire che lo champagne viene ghiaccia­


to nella bottiglia e non mettendo il ghiaccio nei bicchieri.
— Dovrebbe sapere, — disse con una sfumatura di inef­
fabile indulgenza la ragazza, - che per la gente oziosa co­
me noi uno dei maggiori divertimenti sta nell’inedito. In
questo momento è di moda mettere il ghiaccio nello cham­
pagne. L ’idea parti da un principe tartaro durante una ce­
na al Waldorf. Tra poco verrà fuori qualche altro capric­
cio. Per esempio a una cena in Madison Avenue questa
settimana, avevano messo accanto al piatto di ciascun ospi­
te un guanto di capretto verde da usare per mangiare le
olive.
— Capisco, — ammise umilmente il giovane, — natural­
mente questi passatempi della cerchia degli eletti non pos­
sono giungere all’orecchio del grosso pubblico.
— A volte, - disse la ragazza, accettando questo rico­
noscimento con un leggero cenno del capo, — penso che
se mai dovessi amare, amerei un uomo di condizione so­
ciale modesta. Un lavoratore, non un fannullone. Purtrop­
po, le esigenze di casta e di ricchezza saranno più forti del­
le mie inclinazioni. A l momento sono assediata da due uo­
mini; uno è un granduca di un principato tedesco, credo
che abbia o abbia avuto una moglie in qualche posto, im­
pazzita per le sue intemperanze e crudeltà. L ’altro è un
marchese inglese, cosi freddo e mercenario che quasi pre­
ferisco le diavolerie del duca. Ma perché racconto a lei
queste cose, Mr Packenstacker?
— Parkenstacker, - bisbigliò il giovane. — Non può im­
maginare quanto io apprezzi le sue confidenze.
La ragazza lo considerò con occhi calmi, impersonali
quali convenivano alla loro differente condizione sociale.
— Quale è la sua attività, Mr Parkenstacker? - chiese.
— Una attività molto umile, ma spero di farmi strada.
Diceva proprio sul serio quando affermava che potrebbe
amare un uomo di umili condizioni?
— Certo. Ma ho detto «potrei». Ci sono il granduca e
O. HENRY 207

il marchese, ricorda? Si, nessun mestiere potrebbe parer­


mi troppo umile se l'uomo fosse quale desidero.
- Io, — disse Mr Parkenstacker, — lavoro in un risto­
rante.
La ragazza rabbrividì leggermente.
- Non come cameriere? - chiese, quasi implorante, -
tutti i lavori nobilitano, ma, lei capisce, il servizio...
- Non sono un cameriere. Sono cassiere, - una grossa
insegna ristorante brillava sulla strada che cingeva il
lato opposto del parco, - sono cassiere in quel ristorante.
Come a un segnale, la ragazza consultò il piccolo orolo­
gio da polso montato su un braccialetto barocco e si alzò
in fretta. Sistemò il libro in una reticella che portava ap­
pesa alla cintura, troppo piccola per contenerlo, e chiese:
- Come mai non è al lavoro?
- Faccio il turno di notte, - disse il giovane, - ho an­
cora un'ora prima di cominciare. Posso sperare di vederla
ancora?
- Non lo so. Forse... può darsi che non mi prenda piu
questo capriccio. Ora ho fretta. Ho una cena e un palco a
teatro, Dio mio! la solita giostra! Forse avrà notato un'au­
tomobile all'entrata del parco quando è venuto. Un'auto­
mobile bianca.
- Con fregi rossi? — chiese il giovane corrugando le so­
pracciglia come per ricordare.
- Si. Adopero sempre quella per venire qui. Pierre mi
aspetta li. Crede che stia facendo spese nel grande magaz­
zino dall'altro lato della piazza. Pensi che schiavitù una
vita in cui si è costretti a mentire perfino al proprio auti­
sta. Buonanotte.
- Ma è buio ora, - disse Mr Parkenstacker, — e il par­
co è pieno di gentaglia. Non posso accompagnarla...?
- Se ha il minimo rispetto per i miei desideri, — disse
la ragazza in tono fermo, — lei resterà su questa panchina
per dieci minuti dopo che sarò andata via. Non ho inten­
zione di offenderla, ma saprà che le automobili recano il
208 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

monogramma del proprietario sullo sportello. Di nuovo,


buona notte.
Rapida e altera scomparve nelPombra. Il giovane rima­
se ad osservarne la svelta figura mentre raggiungeva il mar­
ciapiede esterno del giardino e svoltava verso Vangolo do­
ve si trovava l’automobile. Poi di soppiatto, senza esita­
zione, cominciò a correre ripiegato su se stesso tra alberi
e cespugli, seguendo una strada parallela a quella di lei
e senza perderla un attimo di vista.
Raggiunto l ’angolo, la ragazza lanciò un’occhiata all’au­
tomobile, la sorpassò e attraversò la strada. Protetto da
una carrozza parcheggiata il giovane ne segui i movimenti
da presso con gli occhi. Muovendo lungo il marciapiede
della strada dirimpetto al parco, entrò nel ristorante dal
segnale luminoso. Era uno di quei locali sfacciatamente
chiassosi, tutto vernice bianca e vetri, dove si può mangia­
re a poco prezzo. La ragazza entrata nel ristorante scom­
parve in qualche ripostiglio donde emerse rapidamente
senza cappello e veletta.
La cassa era assai vicina all’entrata. Una ragazza dai
capelli rossi scese dallo sgabello guardando intenzional­
mente l ’orologio. La ragazza in grigio prese il suo posto.
Il giovane si ficcò le mani in tasca e ritornò lentamente
sui suoi passi. A ll’angolo colpi col piede un libretto non
rilegato, mandandolo a finire sull’orlo del marciapiede.
Dalla copertina colorata riconobbe il libro della ragazza.
Lo raccolse senza curiosità e, visto che si trattava di Le
nuove mille e una notte di un certo Stevenson, lo lasciò ri­
cadere sull’erba. Poi, rimasto un attimo in forse, entrò
nell’automobile, si adagiò sui cuscini e disse all’autista:
- Club, Henry.

Trad, di Giuliana Scudder.


A nd ré G id e
1869-1951

La vera questione in sospeso fra le due generazioni che per una


ragione o per l ’altra hanno creduto di potersi richiamare all’opera
di André Gide, è rappresentata dall’humour nero. Volenti o nolenti
bisogna riconoscere che la pubblicazione di Les caves du Vatican
alla vigilia della guerra segna il culmine del malinteso fra queste
due generazioni. Dal momento stesso in cui apparve sulla «Nouvelle
Revue Française», quest’opera suscita due correnti di giudizio in
netto contrasto fra loro: mentre da un lato la maggior parte degli
ammiratori e amici dell’autore rimangono sconcertati e s’affrettano
ad affermare che egli si è sviato (l’accusano di indulgere al romanzo
d’appendice, di cadere nella parodia, di che cosa non si sa ma in ogni
caso alla parodia, gli rimproverano di mancare, per la prima volta,
di serietà), dall’altra i giovani si esaltano, non tanto a dire il vero
per la trama, d’altronde più che accettabile nella sua levità, e per lo
stile, non scevro di residui estetizzanti, quanto per la creazione ba­
silare del personaggio di Lafcadio. Questo personaggio, totalmente
incomptensibile per i primi, appare ai secondi pieno di significato,
destinato a una straordinaria progenie; rappresenta ai loro occhi
una tentazione e una giustificazione di prim’ordine. Negli anni di
sfacelo intellettuale e morale della guerra ’14-18, l ’importanza di
questo personaggio non fece che aumentare: rappresentò l’incarna­
zione del non-conformismo sotto tutti i suoi aspetti, con un sorriso
che i tapirs 1 trovarono di comune accordo affascinante, benché fos­
se impercettibilmente obliquo e crudele. Con lui nasce una specie
di «obiezione di incoscienza» ben più seria dell’altra e che non ha
ancora detto la sua ultima parola. Le idee di famiglia, di patria, di
religione e perfino di società, escono terribilmente malconce dall’at­
tacco sferrato da un adolescente, con la sua noia per nulla rassegna­
ta e i suoi tutt’altro che sedentari ozi. «L’opera d’arte per me è solo

1 [Giovani studenti, matricole].

8
210 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

un ripiego - dichiarerà a Gide nel 1919 un giovane tedesco che era


andato a trovarlo - io preferisco la vita... ecco (e, nota Fautore delle
Nourritures terrestre*, stende il braccio con un gesto elegante) io
provo piu felicità a stendere semplicemente un braccio che a scri­
vere il piu bel libro del mondo. L ’azione, è questo che io voglio;
si, l’azione più intensa... intensa... fino all’assassinio...» È facile ve­
dere in questo atteggiamento, e in quello di Lafcadio, lo sbocco lo­
gico, attivo, moderno, della concezione del dandysmo. A l «fronte»,
Jacques Vaché, che pure era in molte cose ostile a Gide, sogna di
piazzare il suo cavalletto fra le linee francesi e quelle tedesche per
dipingere il ritratto di Lafcadio. Qualche anno prima Arthur Cra-
van, nipote di Oscar Wilde, e Lafcadio parziale ante-litteram, ave­
va fatto notare, con la massima severità e col massimo garbo, la di­
stanza che separa André Gide dal suo personaggio. Cionondimeno
a più riprese Gide ha scavalcato il principio di realtà, e poiché - hu­
mour a parte - tra tutti gli autori contemporanei egli è quello che si
dà maggiormente da fare per durare, siamo più d’uno a credere che
in ciò consista la parte meno peritura della sua opera.

I L P R O M E T E O M A L E IN C A T E N A T O IV
.

IV.

Nella sala delle Lune Nuove, alle 8 precise, la folla en­


trò.
Coelite si sedette al centro sinistro; Damocle al centro
destro; il resto del pubblico nel mezzo. Uno scoppio d'ap­
plausi salutò l'entrata di Prometeo; egli sali gli scalini del
palco, posò l'aquila accanto a sé e riprese il controllo. Nel­
la sala un silenzio fremente...

La petizione di principio.

- Signori, - cominciò Prometeo, - non avendo la pre­


tesa, ahimè, di interessarvi con quello che sto per dire ho
avuto l'avvertenza di portare con me quest'aquila. Dopo
ANDRÉ GIDE 2 11

ciascun passo noioso del mio discorso essa farà qualche


giochetto. Ho portato anche delle fotografie oscene e dei
razzi: nei momenti più gravi del mio discorso procurerò
di distrarre con queste cose il pubblico. Oso dunque spe­
rare, signori, un po’ d’attenzione.
- A ogni nuovo punto del discorso avrò Ponore, signo­
ri, di farvi assistere a un pasto delPaquila - perché, signo­
ri, il mio discorso ha tre punti; non ho creduto di dover
rigettare questa forma che piace al mio spirito classico.
E questo che ho detto potendo servire come esordio, vi
dirò ora, anticipatamente e senza trucchi, quali sono i due
primi punti del mio discorso.
- Primo punto: Bisogna avere un’aquila.
- Secondo punto: Del resto ne abbiamo tutti una.
- Temendo che voi mi accusiate, signori, di partito pre­
so; temendo pure di nuocere alla libertà del mio pensiero,
io non ho preparato il mio discorso che per i due primi
punti: il terzo scaturirà naturalmente dagli altri due; e
cosi lascio alla passione tutta la sua libertà. In guisa di
conclusione l ’Aquila, signori, farà la questua.
- Bravo! Bravo! - grida Coelite.
Prometeo bevve una sorsata d’acqua. L ’aquila fece, pi­
roettando, tre volte il giro di Prometeo poi salutò. Pro­
meteo guardò nella sala, sorrise a Damocle e a Coelite, e
vedendo che non si notava ancora nessun segno di noia,
rimise a più tardi i razzi e riprese:

v.

- Per quanta abilità rettorica vi adoprassi non potrei,


signori, dinanzi ai vostri spiriti chiaroveggenti, prestidi-
gitarvi la fatale petizione di principi che mi aspetta alle so­
glie del mio discorso.
— Signori avremo un bel fare ma non sfuggiremo alla
petizione di principio. Cos’è una petizione di principio?
212 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Signori, mi arrischio a dirlo: ogni petizione di principio


è un’affermazione di temperamento perché, dove i prin­
cipi mancano, s’afferma il temperamento.
- Quando io dichiaro: Bisogna avere un’aquila, voi po­
treste esclamare: Perché? cosa volete che vi risponda che
non si possa riportare a questa formula in cui s’afferma il
mio temperamento: Io non amo gli uomini; amo ciò che li
divora.
- Il temperamento, signori, è ciò che si deve affermare.
Nuova petizione di principio, direte voi. Ma vi ho dimo­
strato ora che ogni petizione di principio è un’affermazio­
ne di temperamento e siccome sostengo che bisogna affer­
mare il proprio temperamento (perché ciò importa) io ri­
peto: Non amo l ’uomo; amo ciò che lo divora. Ma chi è
che divora l ’uomo? La sua aquila. Dunque, signori, biso­
gna avere un’aquila. Io ritengo che questo punto sia di­
mostrato abbastanza.
Prometeo bevve una sorsata d’acqua. L ’aquila piroettò
tre volte intorno a Prometeo e salutò. Prometeo riprese.
- Signori, io non ho conosciuto sempre la mia aquila.
Ciò mi fa supporre, in forza d ’un ragionamento che ha un
nome particolare, di cui non mi ricordo più, nella logica
che io studio, del resto, da soli otto giorni - ciò mi fa sup­
porre, dicevo, che malgrado il fatto che la sola aquila qui
presente sia la mia, voi dovete avere, signori, tutti quanti
un’aquila.
- Ho taciuto fino ad ora la mia storia; d ’altra parte,
fino a questo momento, non la capivo troppo bene. E se
mi decido a parlarvene è perché essa, grazie alla mia aqui­
la, mi appare ora meravigliosa.

vi.

- Signori, ve l ’ho già detto: io non ho visto sempre la


mia aquila. Prima ero incosciente e bello, felice e nudo
ANDRÉ GIDE 213

senza saperlo. Giorni incantevoli! Sui fianchi grondanti


del Caucaso, felice e nuda anch’essa la lasciva Asia mi ba­
ciava. Si ruzzolava insieme nelle valli; sentivamo Paria
cantare, l ’acqua ridere, odorare i piu semplici fiori. Spes­
so ci si coricava sotto le ampie fronde, fra i fiori dove
sciami mormoranti si sfiorano. Asia mi sposava, piena di
risa; poi dolcemente il brusio degli sciami, dei fogliami,
dove si fondeva quello dei numerosi ruscelli, c’invitava al
più dolce dei sonni. Intorno a noi tutto permetteva, tutto
proteggeva la nostra solitudine inumana, — improvvisa­
mente, un giorno Asia mi disse: dovresti occuparti degli
uomini.
- Mi toccò per prima cosa cercarli.
- Fui contento d ’occuparmi di loro; ma era averne
pietà.
- Erano male illuminati; inventai per essi dei fuochi;
e da allora cominciò la mia aquila. Da quel giorno mi ac­
corgo d’esser nudo.
A questo punto, degli applausi partirono da diversi
punti della sala. Bruscamente, Prometeo scoppiò in sin­
ghiozzi. L ’aquila batté le ali, tubò. Con un gesto atroce
Prometeo si apri il panciotto e porse il suo fegato doloroso
all’uccello. G li applausi raddoppiarono. Poi l’aquila fece
piroettando tre volte il giro di Prometeo; il quale bevve
un sorso d’acqua, si riprese e continuò il suo discorso in
questi termini:V I.

V II.

— Signori, la mia modestia ha avuto la meglio. Scusate­


mi: è la prima volta che parlo in pubblico. Ma ora prevale
la mia franchezza: signori, mi sono occupato degli uomini
assai più di quel che ho detto. Signori, ho fatto molto per
gli uomini. Signori, ho amato appassionatamente, perdu­
tamente e deplorevolmente gli uomini. - E ho fatto tanto
2 14 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

per loro che potrei dire d ’averli fatti — perché, prima, che
cos’erario? Esistevano ma non avevano coscienza d’esiste­
re. Come un fuoco per illuminarli, signori, io feci questa
coscienza con tutto il mio amore. La prima coscienza che
ebbero fu quella della loro bellezza, e fu questa che per­
mise la propagazione della specie. L ’uomo si prolungò
nella sua posterità. La bellezza dei primi si ripete, eguale,
indifferente, e senza storia. E ciò avrebbe potuto durare
a lungo. Pensoso, allora, e portando digià in me senza sa­
perlo l ’uovo della mia aquila, volli più e meglio. Questa
propagazione, questo prolungamento frazionato mi parve
indicare in essi un’attesa — mentre, in verità, soltanto la
mia aquila aspettava. Io non sapevo; questa attesa la cre­
devo nell’uomo; questa attesa la riponevo nell’uomo. E
poi, avendo fatto l ’uomo a mia immagine, io capisco ora
che in ciascun uomo qualcosa di non sbocciato attendeva;
in ognuno di loro era l’uovo d’aquila... E poi non so nul­
la; non posso spiegarmi. Ma so che non soddisfatto di dar
loro la coscienza del loro essere io volli dare anche la ra­
gione d’essere. E detti a loro il fuoco, la fiamma, e tutte le
arti che s’alimentano con la fiamma. Scaldando i loro spi­
riti vi feci sbocciare la divorante fede nel progresso. E
stranamente mi rallegravo che la salute dell’uomo si con­
sumasse per generarla. Non più credenza nel bene bensì
morbosa speranza del meglio. La fede nel progresso, si­
gnori, era la loro aquila. La nostra aquila è la nostra ra­
gion d’essere, signori.
— La felicità dell’uomo scemò, scemò, e non m’impor­
tava: l’aquila era nata, signori! Io non amavo più gli uo­
mini, amavo invece ciò che si nutriva di loro.
- Finita, per me, l ’umanità senza storia... la storia del­
l ’uomo è la storia delle aquile, signori.

Trad, anonima, Vallecchi, Firenze 1920.


John M illington Synge
I87I-I9O 9

Se si volesse racchiudere in un talismano il singolare potere di


dominio su se stessi e sugli altri che l’humour è in grado di confe­
rire, tale talismano dovrebbe contenere un po’ di terra irlandese:
John Millington Synge, con la sua opera poetica e drammatica, ci
offre appunto e soprattutto un sacchetto di questa terra, in ciò che
essa ha di più fresco e di più profumato. Al vertice della sua ope­
ra si colloca 1 1 furfan fello dell’ovest, che non solo ci appare, come
disse George Moore, «la commedia più significativa degli ultimi
due secoli», ma ha inoltre il potere di sollevare sul teatro del futu­
ro, quale esso dovrà essere, il velo di mille sipari. Con questa com­
media infatti si verifica una rottura definitiva con le formule anti­
quate di cui ci si vale ai giorni nostri nel tentativo di ricreare quel
mezzo di espressione che un Eschilo, uno Shakespeare o un Ford
hanno innalzato al di sopra di tutti gli altri, ma che oggi ha dietro
di sé secoli di avvilimento. Si tratta, come ha osservato Antonin
Artaud, di «ritrovare il segreto di una poesia oggettiva basata sul-
Thumour, alla quale il teatro ha rinunciato abbandonandola al mu­
sic-hall, e che il cinema ha saputo poi sfruttare». Questo segreto è
chiuso nelle mani di Synge, e Guillaume Apollinaire ha saputo pre­
sagirlo, in una nota alPindomani della rappresentazione del Furfan-
tello a Parigi: «Da questo realismo di una perfezione sempre ina­
spettata scaturisce una poesia cosi forte e di cosi rara qualità che
non mi stupisce affatto lo scandalo che ha suscitato». La commedia
era stata fischiata a Dublino, e a New York le rappresentazioni fini­
vano in sommosse. «A Parigi - aggiunge Apollinaire - tutti rima­
sero indifferenti, salvo i poeti che furono vivamente colpiti da que­
sta tragicità cosi nuova; il fatto è che i poeti hanno sempre più o
meno cercato di uccidere il padre; ma è cosa ben difficile, ne è testi­
mone il Furfantello, e guardando la sala il giorno della prova gene­
rale, dicevo tra me e me: troppi padri e non abbastanza figli». Que­
sta interpretazione del significato dell’opera, per quanto felice essa
216 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

sia, non ne esclude parecchie altre, e la caratteristica di questa


«commedia» sta proprio nelFaverne fatte nascere tante e cosi di­
sparate. Per i puritani di New York che, volontariamente o meno,
si limitarono ciecamente ai suoi contenuti più immediati, essa cade­
va «per quattro motivi» sotto la sferza della legge che vieta la rap­
presentazione di opere «lascive, sacrileghe, oscene o indecenti». Per
un critico irlandese, nota Maurice Bourgeois, autore della bella
traduzione francese, essa era semplicemente la versione drammatica
della beffa di Baudelaire, che entra in un ristorante parigino escla­
mando ad alta voce «Dopo che ebbi assassinato il mio povero pa­
dre...» lasciando sbigottiti gli astanti. Per i traduttori tedeschi rap­
presentava la lotta della «giovane Irlanda» contro la «vecchia Ir­
landa». Per altri ancora, niente di meno che la lotta della materia
contro lo spirito. Vi è bisogno di sottolineare che, benché finora
non se ne sia parlato, le componenti immediate della commedia si
potrebbero spiegare in modo più che soddisfacente ricorrendo sem­
plicemente al complesso di Edipo? L ’importante è che la ricerca del
«contenuto latente» ci mette di fronte a una rosa di significazioni
che tendono a essere valide, nello stesso tempo, su più piani e per
tutti, come se, col Furfantello, s’avesse a che fare con un precipita­
to del sogno universale.
Synge che, prima di ritirarsi in Irlanda e affrontare il teatro, ave­
va viaggiato in Germania e in Italia e aveva soggiornato a lungo in
Francia, s’era fatta un’idea molto chiara dello scoglio su cui rischia­
vano di infrangersi, in letteratura e in arte, entrambe le tendenze
antagoniste del suo tempo: «La letteratura moderna delle città ot­
tiene qualche risultato solo in uno o due libri molto tormentati
che sono ben lontani dai profondi e comuni interessi della vita. Da
un lato vi sono Mallarmé e Huysmans che producono appunto que­
sta letteratura, e dall’altra Ibsen e Zola che trattano della vita reale
in termini disincantati e incolori». Synge ha trovato il modo di ri­
solvere questa contraddizione nel linguaggio ultra-concreto e insie­
me perdutamente magico del popolo irlandese, ridotto a chiudersi,
per ragioni geografiche ed economiche, nella propria indole, e nel-
l’immaginazione bruciante con cui questo popolo di pastori e pe­
scatori, di ostesse e di stagnai nomadi, cerca di liberarsi dalla
«schiavitù delle colline». La straordinaria luce dell’opera di Synge
sta nell’aver saputo denudare per noi, fino alla linfa, questo magni­
fico albero primitivo.
JOHN MILLINGTON SYNGE 217

I L F U R F A N T E L L O D E L L 'O V E S T

A t t o II.

Sara E..., vi domando scusa, siete voi Puomo che ha


ammazzato suo padre?
christy ( venendo avanti di sghimbescio verso il chiodo
dov’era appeso lo specchio) Sono io si, il cielo mi per­
doni.
SARA (mostrandogli le uova che ha portate) Allora ab­
biate il mio grazioso saluto, signore. Son venuta di cor­
sa sin quassù a portarvi un paio d’uova di anitra per la
vostra cena di oggi... Le anitre di Pegeen non fanno
uova, ma queste qui sono di ottima qualità. Allungate
la mano e sentite se dico bugie.
chris ty (avanzando timidamente verso di lei, soppesan­
do le uova con la mano sinistra) Sono grosse si, e di un
bel peso.
susanna Ed io v ’ho portato una formella di burro, eh ’è
davvero una triste cosa v ’abbiate a nutrire a patate sec­
che dopo che avete percorsa tanta strada dacché avete
ammazzato vostro padre.
chris ty Grazie di cuore.
onorina Ed io vi ho portato una fetta di focaccia. D o­
vete aver lo stomaco ai calcagni voi dopo tanto scor­
razzare che avete fatto.
nelly Ed ecco qua una pollastrina da ova, cotta a les­
so, e tutto. È rimasta schiacciata l’altra sera sotto la
carrettella del curato. Toccatele il petto, signore, sen­
tite com’è grasso!
christy Grasso da scoppiare, proprio. (Tocca il petto
2l8 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

della pollastra col dorso della mano nella quale tiene


i regali).
Sara Datele anche una palpatina, di grazia... La vostra
mano è poi una cosa cosi santa che non si degna di farlo?
{Gli scivola dietro) Ha in mano uno specchio:... Ah,
ah, parola che non ho mai visto un uomo che tenesse
uno specchio dietro al dorso. Quelli che uccidono i loro
babbi, han da esser gente un po’ vanesia.

Le ragazze sghignazzano.

christy (sorridendo con aria innocente e ammonticchian­


do i doni sopra lo specchio) Grazie, grazie di cuore
a tutte quante.
la vedova {entra come un colpo di vento e si sofferma
sulla porta) Sara Tansey, Susanna Bray, Onorina
Blake! Che diavolo fate qui a quest’ora?
ragazze {ridacchiando) C ’è qui l’uomo che ha ammaz­
zato suo padre.
la vedova {andando verso loro) Lo so bene ch’è lui:
ed io sono venuta su appunto per vedere di iscriverlo
alle gare sportive che han luogo quest’oggi laggiù alla
spiaggia: saltare, correre, lanciare il disco, e Dio sa
che cosa!
Sara {vivace) Bene la Vedova. Ci scommetto la mia do­
te ch’egli subisserà il mondo intiero.
la vedova Allora abbiate cura di mantenerlo in forze
e ben nutrito. {Prendendo i doni) Avete il ventre pie­
no o digiuno, figliolo?
chris ty Digiuno, se non vi spiace.
la vedova {forte) Bene, ora vi sazieremo... Su, ragaz­
ze, movetevi e preparategli da colazione. (A Christy)
Intanto venite qua giovanotto. {Lo fa sedere sulla pan­
ca accanto a lei mentre le ragazze preparano il tè e la
colazione) E raccontateci tutta la vostra storia avanti
che Pegeen ritorni.
John Millington Synge
220 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

christy (con una certa compiacenza) Oh, è una storia


un po’ lunga... vi struggereste a sentirla.
la vedova Via, non siate cosi schivo: un ragazzo astu­
to e traditore della vostra sorte!... Fu in casa vostra
che gli avete spaccata la testa?
christy (timidamente ma lusingato) No, non fu là... si
stava a vangare le patate nel suo campiciattolo a tra­
montana, sassoso, tutto in monte...
la vedova E m ’immagino che gli avrete domandato
quattrini o vi sarete messo a dire di volere sposare
qualche ragazza che non gli andava a genio.
christy No, niente affatto... Io ero là che vangavo van­
gavo, e lui mi fa: «Tu, sguercio d ’un idiota, va’ giù
dal prete e digli che fra una ventina di giorni sposerai
la vedova Casey».
la vedova Che tipo di donna era questa vedova Casey?
christy (con orrore) Uh, il Babau in persona quando
va a spasso per le colline! Con un paio di dozzine d ’an­
ni per gamba o giù di li, dugentocinque libbre di peso
in bilancia; zoppa da una gamba, sguercia da un occhio
e poi una donna di pessima condotta ch’era notorio se
la faceva coi vecchi e coi giovani.
ragazze (che si radunano intorno a lui e lo servono)
Mammamia!
la vedova E per qual motivo voleva costringervi a spo­
sarla? {Si piglia su un’ala di pollo).
christy (mangiando con crescente soddisfazione) Mah,
diceva ch’avevo bisogno d ’una persona che mi proteg­
gesse contro le insidie del mondo; ma in realtà, egli
voleva beccarsi la sua capanna per starci lui, e il de­
naro per trincarselo.
LA vedova Eh, si può star peggio di cosi, con un foco­
lare spento, una vecchia femmina e un bicchiere da be­
re, le sere? Eh, dite un po’, fu allora che gli siete zompa­
to addosso?
christy {eccitandosi sempre piu) No. «Io non la vo-
JOHN MILLINGTON SYNGE 22 X
glio sposare», dico io. «Già tutti sanno eh ’è stata lei
ad allattarmi per sei settimane quando venni al mondo,
e poi una vecchia strega di quella sorta che nemmeno
i gabbiani e le cornacchie le andrebbero a gittar ombra
sull’orto per paura della sua maledizione».
la vedova Bella compagnia sarebbe stata la sua.
sara (vivacemente) E voi, allora lo avete accoppato.
christy «Gli è una donna troppo fina per un gaglioffo
come te», dice lui. «Bene, o tu la sposi, o ti spiaccico
come un verme cui è passato sopra un carro», «Tu non
lo farai se io mi ci metto», fo io. «O tu la sposi», ri­
pete lui, «o stanotte chiamo il demonio che farà delle
tue membra un mazzo di legacce!» «Tu non lo farai
s’io mi ci metto», fo io. {S'alza da sedere e brandisce
la tazza).
sara Eravate nel vostro diritto.
chris TY ( cercando di fare impressione ) E con questo il
sole spuntò su dalla collina e brillò, livido, sulla mia
faccia!... «Dio abbia pietà dell’anima tua!» grida egli
alzando la falce. «O della tua piuttosto!» rispondo io
levando la vanga.
susanna G li è pur una magnifica storia!
onorina E come la racconta bene.
chris ty {lusingato pieno di confidenza, agitando l'osso di
pollo) Egli allora balzò su di me con la falce brandita,
ma io feci un salto avanti. Poi trinciai una giravolta
voltando il dorso a sinistra e gli rigirai una vangata sul­
la cima del capo che in un amen te lo stese là netto stec­
chito col cranio spaccato fino alla bozza del gorgozzule.
{Con la punta dell'osso indica il suo pomo d'Adamo).
susanna Ah, Cielo benedetto!
sara V oi si che siete un uomo.
onorina Voi siete un eroe!

Trad, di Carlo Linati, Studio Editoriale Italiano, Milano 1917-


A lfred Jarry
1873-1906

Come egli disse: «Redon - quello che mistero» o «Lautrec -


quello che manifesto», bisognerebbe dire: «Jarry, quello che rivol­
tella». «È un grande piacere di... proprietario - scrive a Madame
Rachilde Tanno stesso della sua morte - poter sparare con la rivol­
tella nella propria camera da letto». Una sera, mentre in compagnia
di Guillaume Apollinaire, assiste a uno spettacolo del circo Bo-
stock, terrorizza i vicini agitando una rivoltella, nell’intento di con­
vincerli della propria abilità di domatore. «Jarry - dice Apollinaire
- non mi nascose la soddisfazione provata nello spaventare i buoni
borghesi e, ancora con l ’arma in pugno, sali sulTimperiale dell’om­
nibus diretto a Saint-Germain-des-Prés. Di lassù mi salutava agitan­
do ancora il suo cannone». Un’altra volta, in un giardino, si diverte
a stappare le bottiglie di champagne a colpi di rivoltella. Alcuni
proiettili finiscono oltre il muro di cinta, e provocano l ’irruzione di
una signora i cui figli giocavano nel giardino accanto. « “ Ma se li
colpivate, pensate un po’] ” “ Eh! - dice Jarry, - se è solo per que­
sto, signora, ve ne faremo degli altri” ». Un’altra volta, durante una
cena, spara sullo scultore Manolo, reo, secondo lui, di avergli fatto
delle proposte sconvenienti: gli amici lo trascinano via, ed egli e-
sclama: «Mica male come letteratura, vero?... Ma, ho dimenticato
di pagare il conto». Negli ultimi giorni della sua vita si reca ogni
sera, con un cappello di pelliccia e in pantofole, dal dottor Saltas
(lo stesso che, avendogli chiesto, in punto di morte, cosa avrebbe
potuto fargli piacere, si senti rispondere: uno stuzzicadenti) por­
tando due rivoltelle alla cintura e armato, per di piu, di una robusta
canna piombata.
Questa inseparabile alleanza di Jarry e della sua rivoltella, pro­
prio come per André Marcueil, l ’eroe del Surmàle e della Machine
à inspirer Vamour, può essere considerata come la chiave risolutiva
del suo pensiero. La rivoltella è il paradossale legame tra il mondo
esteriore e quello interiore. Nel piccolo oggetto a forma di paralle-
ALFRED JARRY 223

logrammo che si chiama il caricatore dormono, già bell’e pronte,


un’infinità di soluzioni, di vie di conciliazione: «Sulla disputa tra il
segno Più e il segno Meno, il R. P. Ubu, della Compagnia di Gesù,
ex re di Polonia, farà ben presto un gran libro che avrà per titolo
César Antechrist, dove si trova la sola dimostrazione pratica dell’i-
dentità dei contrari, per mezzo di quel congegno meccanico detto
bastone da fisica».
Con Jarry la letteratura si sposta pericolosamente su un terreno
minato. L ’autore si impone in margine alla sua opera; il trovarobe,
seccante quanto si vuole, passa e ripassa senza tregua davanti all’o-
biettivo, fumando un sigaro; impossibile cacciar via dalla casa oi>
mai finita questo operaio che si è messo in testa di piantar su di
essa la bandiera nera. Noi affermiamo che con Jarry, ancor più che
con Wilde, viene a trovarsi contestata, e finirà poi annullata nelle
sue stesse basi, la distinzione fra arte e vita che a lungo si era rite­
nuta necessaria. Dopo la prima rappresentazione di Ubu voi, ci di­
cono, Jarry intraprende un processo di identificazione a qualsia­
si costo con la sua creazione: ma in realtà, di quale creazione si
tratta? Ammesso che l ’humour rappresenti la rivincita del princi­
pio del piacere legato al super-io sul principio di realtà legato al­
l ’io, quando quest’ultimo si trova in cattive acque, non avremo più
alcuna difficoltà a scoprire nel personaggio di Ubu l’incarnazione
magistrale dell’ex nietzschiano-freudiano che indica l’insieme delle
forze sconosciute, inconsce, represse, di cui l’io non è che l ’emana­
zione consentita, tutta subordinata alla prudenza: «L ’io — dice
Freud - ricopre l’es solo con la sua superficie formata dal sistema P
(= percezione, in opposizione a C = coscienza) press’a poco come il
disco germinale copre l ’uovo». Nella fattispecie l’uovo è proprio
Ubu, trionfo dell’istinto e dell’impulso istintivo, come dichiara egli
stesso: «Simile a un uovo, a una zucca, o a una sfolgorante meteo­
ra, rotolo su questa terra dove farò ciò che mi parrà. Donde nascono
questi tre animali (i pallottini) dalle orecchie imperturbabili rivolte
al nord, e dai nasi vergini, simili a trombe che non hanno ancora
suonato». Sotto il nome di Ubu, Ves si arroga il diritto di castigare
e punire, diritto che in realtà spetta al super-io, ultima istanza psi­
chica. L *est promosso al supremo potere, procede immediatamente
alla liquidazione di tutti i nobili sentimenti («Avanti, gettate i no­
bili nella botola!»), del senso di colpa («Nella botola i magistra­
ti! »), del senso di dipendenza sociale («Nella botola i finanzieri! »).
L ’aggressività del super-io ipermorale nei confronti dell’/o viene
cosi trasferita allVr, totalmente amorale, concedendo ogni licenza
alle sue tendenze di distruzione. L ’humour, inteso come processo
che permette di eludere gli aspetti più penosi della realtà, si esercì-
2 2 4 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

ta qui quasi esclusivamente a spese degli altri. Siamo nondimeno,


senza tema di smentita, alle fonti stesse di questo humour, come di­
mostra il suo continuo sgorgare.
Questo è, secondo noi, il significato profondo del carattere di
Ubu e, al tempo stesso, è questa la ragione per cui egli va oltre
ogni singola interpretazione simbolica. Come Jarry si è fatto pre­
mura di dichiarare: «Non si tratta esattamente del signor Thiers,
né del borghese, né dello zotico. Piuttosto sarà l’anarchico perfetto,
ma con questo a impedire che noi diventiamo l’anarchico perfetto:
che si tratta di un uomo, di qui codardia, sporcizia, ecc.». Ma la
caratteristica essenziale di questa creazione è la volontà di assogget­
tarsi le forme piu varie dell’attività umana, a cominciare da quelle
collettive. Ne deriva che lo stesso Ubu sarà pronto a rinunciare al
tornaconto personale che neW U bu roi costituiva il suo unico stimo­
lo, per rientrare nella massa umana di cui tenderà a impersonare le
emozioni, tanto piu contagiose quanto piu sono grossolane. Alla vo­
lontà di dominio a tutta prova di U bu roi} U bu enchaîné contrappo­
ne una pari volontà di servilismo. Il super-io si è liberato dall’av­
ventura solo per ricomparire sotto un aspetto stereotipo, deprimen­
te, che sarà proprio, allo stesso livello, d el fascista e dello stalinista.
Bisogna riconoscere che gli avvenimenti degli ultimi ventanni con­
feriscono al secondo Ubu un valore profetico eccezionale, sia che si
pensi alle esercitazioni militari degli «uomini liberi» trasmesse fino
a noi attraverso tutti gli schermi del mondo al grido più che mai en­
tusiasta e unanime di «Viva l’armerdra! », sia che ci riporti col pen­
siero all’atmosfera dei «processi di Mosca»: «Padre Ubu (al suo di­
fensore): Signore, scusi! Stia zitto! Lei dice delle menzogne e im­
pedisce il racconto delle nostre imprese. Sissignori, aprite le orec­
chie e non fate chiasso... Noi abbiamo massacrato un’infinità di per­
sone... il nostro sogno è sgozzare, assassinare, scorticare; ogni do­
menica mattina su una collinetta in periferia diamo pubblico spet­
tacolo di scervellamento, tra cavallucci di legno e bancarelle di coc­
co fresco... queste vecchie faccende sono archiviate, perché noi sia­
mo molto ordinati... ecco perché chiediamo ai signori giudici di
condannarci alla pena piu grave che son capaci di immaginare, affin­
ché essa sia alla nostra altezza; tuttavia, non a morte... Ci vedrem­
mo bene come forzati, con un bel berretto verde, nutriti a spese del­
lo Stato e passando il tempo in piccoli lavoretti».
ALFRED JARRY 225

E P IL O G O

Nella foresta triangolare, dopo il crepuscolo.

I l coro.
La sua voce, dapprima quasi spenta ancora e che poi
mormora, poi sempre più tonante e sonora.

I cappelli a cilindro dei neri Yankees


Affidano al cielo smarrito
I tre sostegni della clessidra.
La siesta dei lunghi femori incrocia
Le bianche X filosofali.
La punta delle nostre barbe si sfilaccia nella raffica.
Che la sfera dei nostri cappucci,
Riflesso rosa al sangue che scorre
La morte rintracci, mummia nell’oro del crepuscolo;
E le clessidre capovolte
La sabbia in alto, donino al dannato
La notte intera prima degli Ebrei erranti nella notte
inetta.
Ricolma d ’alabastro la clessidra,
II cuore che piange non batte.
Come lui sotto i tassi i nostri passi d’ibis sul salmastro
Pioverà la luce futura
Sui piombi dei vetri delle selve
Sul nostro compito di necrofori abituale.
Sul lamento delle mandragore
E sulla pietà delle passiflore
II bianco funebre lombrico esce dal suo foro.
22Ó ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Il Coro, che non si è mai visto, sbianca il fondo della


sua alba solforata ad ogive. Comparendo:

Il bianco funebre lombrico esce dal suo foro.

L A CANZONE D E L L O S C E R V E L L A M E N T O

Fui per lungo tempo operaio ebanista


In via Campo di Marte, parrocchia d’Ognissanti.
La mia sposa di mestiere era modista,
C ’era mai mancato niente a tutti quanti.
Le domeniche serene e senza vento
Ci mettevamo gli abiti da festa
E s’andava a vedere lo scervellamento
In via dello Scottato, a passare un bel momento.
Guarda, guarda la macchina girare,
Guarda, guarda il cervello saltare,
Guarda, guarda i Redditieri tremare;

Coro.
Urrah, corni al culo, viva il Padre Ubu!

I nostri cari marmocchi, col volto impiastricciato,


Agitando con gioia bambole di pezza,
Salivano con noi in cima alla carrozza
E s’andava felici in via dello Scottato.
Ci precipitiamo in frotte allo steccato,
per essere primi ci riempiam di botte;
Io salgo sempre su un mucchio di mattoni
Per non sporcarmi di sangue gli scarponi.
Alfred Jarry
228 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Ritornello

Mia moglie e io siamo bianchi di cervello,


I pupi ne son pieni, si gode tutti un mondo
Vedendo il Paliottino maneggiare il coltello,
E le ferite e i numeri di piombo.
D ’un tratto presso l’arnese nel cantone,
Vedo il grugno d’un tale che non mi piace affatto,
Riconosco il tuo muso, vecchio mio, gli sbatto
Tu m’hai fregato e io mica ti perdono.

Ritornello

Mi sento tirare la giacca dalla sposa:


Razza di fesso, dice, acchiappa l’occasione,
Buttagli sul muso un bel mucchio di busa
Ora che il Pallottino ci volge il groppone.
N ell’udire questo ragionamento fino
Di colpo afferro il coraggio a due mani
E butto al Redditiero una merdra immane
Che si schiaccia sul muso del Pallottino.

Ritornello

Subito mi lanciano oltre lo steccato,


La folla furiosa mi sbatte tutto attorno,
E a testa prima sono scaraventato
Nel gran buco nero da cui non vi ha ritorno.
Ecco che capita la domenica a passeggiare
In via dello Scottato a veder scervellare
Con il Pinza-Porci o lo Squinterna-Corpi:
Si parte da vivi e si ritorna morti.

Ritornello
ALFRED JARRY 229

U B U IN C A T E N A T O

A t t o p rim o .

scena seconda II Campo di Marte.

I TRE UOMINI LIBERI, IL CAPORALE Noi siamo gli uo­


mini liberi e questo è il caporale. - Viva la libertà, la
libertà, la libertà! Noi siamo liberi. - Non dimenti­
chiamo che il nostro dovere è di essere liberi. Andiamo
piu adagio, potremmo arrivare in tempo. La libertà è
non arrivare mai in tempo - mai, mai! alle nostre eser­
citazioni di libertà. Disobbediamo tutti insieme... No!
non insieme: un, due, tre! il primo all'uno, il secondo
al due, il terzo al tre. Ecco dov'è la differenza. Inven­
tiamoci ciascuno un tempo diverso, anche se ci costa
fatica. Disobbediamo individualmente al caporale degli
uomini liberi!
il caporale Adunata! (Si sparpagliano). Voi, uomo li­
bero numero tre, mi farete due giorni di rigore per es­
servi messo in riga con il numero due. La teoria dice:
siate liberi! - Esercitazioni individuali di disobbedien­
za... L'indisciplina cieca e continua è la forza essenziale
degli uomini liberi. - Spali... arm!
1 tre uomini liberi Parliamo nei ranghi. - Disobbe­
diamo. - Il primo all'uno, il secondo al due, il terzo al
tre. — Un, due tre!
il caporale A l tempo! Numero uno, dovevate posare
l'arma a terra; numero due, dovevate sollevarla con il
calcio in alto; numero tre, dovevate gettarla sei passi
indietro e poi cercare di assumere un atteggiamento li­
bertario. Rompete le file! Un, due! Un, due!

Si radunano ed escono facendo attenzione a non cam­


minare al passo.
230 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

GLI E M E R A L O P I

Sengle ebbe una licenza di quindici giorni «a titolo di


convalescenza» per Parigi. Di nuovo nei panni del fantoc-
cino rosso e blu, si avviò, attraverso tutta la città, verso la
stazione.
Incrociò parecchi ufficiali che si guardò bene dal salu­
tare, ma essi non lo rimproverarono. D ’altronde, per pro­
vare a se stesso la sua buona volontà di deferenza militare,
sei passi prima e sei dopo, alzò la mano nel saluto regola­
mentare per:
Due postini;
Sette studenti;
Un esattore;
Un conducente di omnibus, che passeggiava in alta uni­
forme in un giardino pubblico. E poiché vi gironzolavano
anche parecchi ciclisti, che avevano lasciato le biciclette
appoggiate ai cespugli, si mise allora, naturalmente, a cer­
care la rimessa degli omnibus.
Salutò uno dei ciclisti perché portava, a sinistra, un or­
rendo piccolo distintivo di club tutto contorto.
Entrò nella cattedrale, andò in cerca dello Svizzero per
rendergli omaggio in ginocchio; quindi, secondo quanto
gli offriva il caso lungo il cammino, si umiliò davanti a:
La targa di zinco di un lavatoio;
Un Pulcinella insegna di un bazar;
Parecchi facchini, a causa della loro targhetta;
Un marmittone, pensando che forse poteva essere un
graduato e che dissimulasse i suoi gradi sotto la somiglian­
za della tenuta di servizio e di quella di corvée.
Col calare della notte, quando le possibilità di salutare
si fecero meno onorevoli, si avvicinò alle luci scintillanti
della stazione.
ALFRED JARRY 231

Lungo il viale incontrò un gruppo di soldati, che si con­


torcevano in gesti bizzarri. Non erano degli ubriachi, i
quali, come innaffiando si tracciano dei simboli d ’infinito,
sono respinti da un rigagnolo all’altro e seguono esatta­
mente nei loro zig-zag le leggi della rifrazione. Quei solda­
ti strisciavano lungo il muro tastandolo con le mani, fino
a urtare dolorosamente il primo passante o a inciampare
nel gradino del marciapiede: sembravano dei ciechi che si
stessero guidando a vicenda verso la fossa, dei Breughel
in uniforme.
Sengle poté udire qualche frase smozzicata e ricostruire
cosí i loro lamenti:
«Non troveremo mai l ’ospedale. Sono già tre volte che
facciamo il giro della città. L ’ospedale è crollato. Come
l ’anno scorso, quando il maggiore, alla visita serale, trovò
soltanto i muri, poiché si era dimenticato di avvisare il ge­
nio. Il tetto crollò sui tifoidei, e dovettero evacuarli in un
ospedale per partorienti. Tant’è vero che un malato si ri­
mise cosi in salute. Ma crollano tutti gli anni gli ospedali,
in questa città, per l’incuria dei maggiori? »
E ripartirono barcollando per un quarto giro.
Sengle capi la loro allucinazione vedendo la matricola.
In una piccola guarnigione vicina, su un’altura, si molti­
plicavano i casi di cecità notturna a causa dell’altitudine.
Il maggiore, passando la sua visita mattutina, li mandava
al pronto soccorso, ma si aspettava poi di formare un con­
voglio e lo si spediva giu senza guida dopo il rancio della
sera. Arrivavano nella città dov’era l ’ospedale quando il
sole era già tramontato e, poiché l ’amaurosi impediva loro
di vedere le luci artificiali, quei poveri diavoli vagavano
barcollando nel buio piu completo. Ormai ci si era fatta
l’abitudine: ecco perché gli ufficiali non si erano scanda­
lizzati della mancanza di cortesia militare da parte di Sen-
gle.
Possa questo capitolo far capire alla folla, la grande
emeralopa, in grado di scorgere soltanto le luci a lei note,
232 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

che altri possono considerarla come un’eccezione morbo­


sa, e calcolare le ascensioni rette e le declinazioni di una
notte per lei senza astri; possa farle perdonare ciò che es­
sa troverà di sacrilego verso i suoi idoli in questo libro,
perché insomma noi affermiamo: che non capita tutti i
giorni agli ospedali militari di crollare per Pincuria dei
maggiori medici, e anzi è perfino possibile che il fatto sia
piuttosto raro; che da parecchi anni non è piu successo;
che si trattava forse di un avvenimento isolato; che, mal­
grado la sua autenticità (vedi certi giornali dell’estate del-
P89) noi abbiamo la gentilezza di descriverlo solo come al-
lucinatorio.
Sengle, rispettoso della parola del Vangelo, pensò dap­
prima di cercare una fossa o una vetrina, per farci roto­
lare dentro i momentanei ciechi; ma, preoccupato di non
perdere il treno, si contentò di dir loro:
«Sono il Generale; cercate di assumere un atteggiamen­
to militare».

I L S U P E R M A S C H IO

- State a vedere, adesso ucciderò la bestia, - disse Mar-


cueil con grande calma.
- Quale bestia? Sei ubriaco, vecchio mio,., anzi mio
giovane amico, — disse il generale.
- La bestia, - disse Marcueil.
Davanti a loro, sotto la luna, se ne stava accovacciata
una cosa tozza di ferro, con delle specie di gomiti appog­
giati alle ginocchia, e delle spalle, senza testa, che le face­
vano da corazza.
- Il dinamometro! - esclamò divertito il generale.
- Adesso lo uccido, - ripete con ostinazione Marcueil.
ALFRED JARRY 233

- Mio giovane amico, - disse il generale, - quando ave­


vo la vostra età e anche meno, e studiavo matematica allo
Stanislas, mi è capitato spesso di staccare delle insegne,
scardinare vespasiani, rubare .bottiglie del latte, chiudere
degli ubriachi negli androni, ma non mi è ancora successo
di scassinare un distributore automatico! È proprio sbron­
zo... Ma fa’ attenzione, là dentro non c’è niente per te,
mio giovane amico !
«È pieno, pieno di forza, e pieno, pieno di numero,
là dentro», diceva tra sé Marcueil.

- E va bene, - accondiscese il generale, - voglio aiutar­


ti a romperlo, ma come? Lo prendiamo a calci, a pugni?
Non vorrai che ti presti la mia sciabola per spaccarlo in
due!?
- Spaccarlo? O h no, - disse Marcueil: - io lo voglio
uccidere.
- Attento alla multa, allora, per effrazione di monu­
mento di pubblica utilità! - esclamò il generale.
-U ccidere... ma con un’autorizzazione, - disse Mar­
cueil. Frugò nel taschino del gilè e ne trasse una moneta
francese da dieci centesimi.
La fessura verticale del dinamometro scintillava.
- È una femmina, - disse con serietà Marcueil... - Ma
è molto robusto.
La moneta fece scattare un meccanismo, come se la
macchina si fosse messa subdolamente in guardia.
André Marcueil afferrò quella specie di poltrona di me­
tallo per i due braccioli e, senza sforzo apparente, tirò:
- Venite, signora, - disse.
La sua frase terminò in un terribile rumore di ferraglia,
le molle spezzate si contorcevano al suolo come le viscere
di una bestia; il quadrante fece una smorfia e la lancetta
impazzita fece due o tre giri come una creatura braccata
in cerca di una via di scampo.
- Filiamocela, - disse il generale: - quest’animale, per
2 34 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

sbalordirmi, è andato a scegliere una macchina che non


era solida.
Ora erano tutti e due lucidissimi, benché Marcueil non
avesse pensato a gettare le due maniglie che brillavano co­
me due cesti da pugilatore; scavalcarono di nuovo la can­
cellata e risalirono il viale, verso la carrozza.
Sorgeva l’alba, come la luce di un altro mondo.

L A P A S S I O N E C O N S ID E R A T A
C O M E U N A C O R S A IN S A L I T A

Barabba, che era stato ingaggiato, dichiarò forfait.


Lo starter Pilato, estraendo il Suo cronometro ad ac­
qua - o clessidra - e bagnandosi cosi le mani, a meno che
non vi avesse semplicemente sputato sopra, diede il se­
gnale della partenza.
Gesù scattò a tutta velocità.
A quei tempi vi era l ’abitudine, secondo il bravo cro­
nista sportivo san Matteo, di fustigare alla partenza gli
sprinters ciclisti, come fanno i vetturini con i loro ippo-
motori. La frusta è uno stimolante e insieme un massaggio
igienico. Dicevamo dunque che Gesù, in ottima forma, si
produsse in uno scatto, ma subito vi fu Pincidente del
pneumatico. Una pianticella di spino gli si piantò tutt’at-
torno alla ruota anteriore; ai nostri giorni possiamo vede­
re l ’esatto simulacro di questa vera e propria corona di
spine nelle vetrine dei negozi di biciclette, come reclame
dei tubolari a prova di foratura. Quello di Gesù, un co­
mune tubolare da pista, non lo era.
I due ladroni, che se Pintendevano tra loro, passarono
in vantaggio.
Non è vero che vi siano stati dei chiodi. I tre che com­
paiono in certe immagini non sono altro che la leva di
smontaggio per pneumatici detta «Pistantanea».
ALFRED JARRY 235

Ma è opportuno innanzi tutto dare un resoconto detta­


gliato delle cadute. Incominciamo col descrivere in qual­
che modo la macchina.
Il telaio è un'invenzione relativamente recente. Le pri­
me biciclette a telaio si videro nel 1890. Prima di questa
data, il corpo della macchina era composto da due tubi
saldati perpendicolarmente l ’uno all’altro: quest’insieme
veniva chiamato bicicletta a corpo retto o a croce. Gesù,
quindi, dopo l ’incidente del pneumatico, si arrampicò a
piedi per la salita, portandosi sulle spalle il suo telaio o,
se vogliamo, la sua croce. Scena che è riprodotta da inci­
sioni dell’epoca, tratte da fotografie.
Ma pare che lo sport ciclistico, in seguito al famoso in­
cidente che concluse in modo cosi spiacevole la corsa della
Passione, e che è reso d ’attualità, quasi nel suo anniversa­
rio, dall’incidente similare occorso al conte Zborowski
sulla salita della Turbie, pare dunque che questo sport sia
stato proibito per un certo periodo di tempo per decreto
prefettizio. Tutto ciò vale a spiegare perché i giornali illu­
strati, nel riprodurre la celebre scena, rappresentassero
delle biciclette piuttosto bizzarre. Essi confusero la croce
del corpo della macchina con un’altra croce, quella del
manubrio. Rappresentarono infatti Gesù con le mani pro­
tese sul manubrio, e notiamo a questo proposito che Gesù
pedalava sulla schiena per offrire meno resistenza all’aria.

Notiamo anche che il telaio o la croce della macchina


era di legno, come lo sono ancor oggi certi cerchioni.
Alcuni hanno erroneamente insinuato che la macchina
di Gesù fosse una draisina. Strumento ben poco idoneo
ad essere montato in una corsa in salita. Secondo i vecchi
agiografi ciclofili, santa Brigida, Gregorio di Tours e Ire­
neo, la croce era munita di un dispositivo che essi chia­
mano «suppedaneum». Non occorre certo essere dei lati­
nisti per tradurre questa parola con «pedale».
236 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Giusto Lipsio, Giustino, Bosio ed Ericio Puteano de­


scrivono un altro accessorio che si ritrova ancora, come
scrisse nel 1634 Cornelio Curtius, in certe croci del Giap­
pone: una sporgenza della croce o telaio, di legno oppure
di cuoio, sulla quale il ciclista si mette a cavalcioni: trat­
tasi evidentemente della sella.
Queste descrizioni, d’altronde, non sono più infedeli
della definizione della bicicletta che danno i cinesi ai gior­
ni nostri: «Piccolo mulo che si guida per le orecchie e che
si manda avanti a forza di calci».
Riassumeremo ora il resoconto della corsa, raccontata
nei minimi particolari in opere specializzate, e rappresen­
tata dalla pittura e dalla scultura in monumenti «ad hoc».
Sulla salita assai dura del Golgota, vi sono quattordici
curve: fu nella terza di queste curve che Gesù cadde per
la prima volta. Sua madre in tribuna cominciò a preoccu­
parsi.
L ’allenatore Simone di Cirene, che, senza Pincidente
delle spine, avrebbe avuto il compito di «tirare» e di ta­
gliargli Paria, gli portò la bicicletta.
Gesù, anche se non portava niente, si mise a sudare.
La notizia che una spettatrice gli abbia asciugato il viso
non è certa, è invece esatto che la giornalista Veronica
gli prese un’istantanea con la sua Kodak.
La seconda caduta ebbe luogo nella settima curva, su
un tratto di selciato sdrucciolevole. Poi, Gesù cadde per la
terza volta scivolando su un binario nell’undicesima.
Schierate sul bordo dell’ottava curva, le mondane d’I ­
sraele agitavano i loro fazzoletti.
Il deprecabile incidente che tutti conosciamo si verifi­
cò al dodicesimo tornante. Gesù era in quel momento te­
sta a testa con i ladroni. È ben noto anche che egli con­
tinuò la corsa da aviatore... ma questo esula dal nostro
tema.
Raymond Roussel
1877-1933

La difficoltà che s’incontra a distinguere, da una certa distanza,


un automa vero da uno falso, ha eccitato per secoli la curiosità degli
uomini. Dal portiere androide di Alberto il Grande che introduce­
va i visitatori pronunciando qualche parola, fino al giocatore di
scacchi celebrato da Poe - passando attraverso la mosca di ferro di
Jean Müller che dopo aver volato tornava a posarsi sulla sua mano,
e la celebre anatra di Vaucanson, senza dimenticare gli omuncoli,
da Paracelso a Achim d’Arnim - fra la vita animale, soprattutto
quella umana, e il suo simulacro meccanico, ha sempre regnato Pam­
biguità piu sconcertante. Caratteristica della nostra epoca è l’aver
spostato il luogo di quest’ambiguità, facendo passare l’automa dal
mondo esteriore a quello interiore, e invitandolo a manifestarsi li­
beramente alPinterno stesso dello spirito. La psicanalisi infatti ha
scoperto la presenza, nella zona piu recondita della mente, di un
manichino anonimo, «senza occhi, naso ed orecchie», molto simile
a quelli che Giorgio de Chirico dipingeva verso il 1916. Questo ma­
nichino, una volta ripulito dalle ragnatele che lo nascondevano e lo
paralizzavano, si è rivelato di una mobilità estrema, «sovrumana»
(proprio dal bisogno di togliere ogni freno a questa mobilità è nato
il surrealismo). Questo personaggio straordinario, spogliato dai ca­
ratteri mostruosi che sconciano la creazione del mirabile Franken­
stein di Mary Shelley, ha la facoltà di spostarsi, senza il minimo at­
trito, nel tempo e nello spazio, e di annullare con un balzo quel fos­
sato invalicabile che si ritiene separi il sogno dall’azione. La cosa
meravigliosa è che questo automa sia in grado di liberarsi alPinter­
no di ogni uomo: basterà aiutare quest’ultimo a riconquistare, sul-
Pesempio di Rimbaud, il senso della sua totale innocenza e delia sua
potenza assoluta.
È noto che P«automatismo psichico puro», nel significato che si
dà oggi a questa parola, vuole solo indicare uno stato limite che esi­
gerebbe dall’uomo la perdita integrale del controllo logico e morale
238 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

delle sue azioni. Senza che questi consenta ad arrivare cosi lonta­
no, o piuttosto a restarvi, da un certo punto in poi gli accade di tro­
varsi azionato da un motore di forza insospettata, e di obbedire ma­
tematicamente a un movimento d’apparenza cosmica, che gli sfugge.
L ’interrogativo che nasce a proposito di questi e degli altri automi,
è di sapere se in essi è celato un essere cosciente. E fino a che pun­
to cosciente? ci si può domandare di fronte all’opera di Raymond
Roussel. Certo, quando egli era vivo, certuni avevano presagito che
la sua prodigiosa ricchezza inventiva fosse dovuta alla scoperta e
alluso di un qualche metodo, ed erano convinti che egli si valesse
di una tavola immaginativa (cosi come esistono le tavole sinotti­
che). Oggi sappiamo che questo metodo, che egli stesso volle divul­
gare dopo la sua morte nell’opera intitolata Comment fa i écrit cer-
tains de mes livres>consisteva nel comporre, tramite vocaboli omo­
nimi o sensibilmente omofoni, due frasi dal significato il piu possi­
bile diverso, e nel disporle come pilastri del racconto (prima e ulti­
ma frase). La fabulazione doveva rincorrersi dall’una all’altra tra­
mite un nuovo lavoro da compiersi su ciascuno dei vocaboli che
costituiscono le due frasi: legare ogni parola dal doppio significato
a un’altra parola dal doppio significato con la preposizione «a». Co­
me dice lo stesso Roussel: «La caratteristica del procedimento con­
siste nel creare delle specie di equazioni di fatti che occorre poi ri­
solvere logicamente». Una volta introdotta la massima arbitrarietà
nel soggetto letterario, si trattava di dissiparla, di farla scomparire
per mezzo di una serie di passaggi in cui il razionale tempera e limi­
ta costantemente l’irrazionale.
Roussel è, con Lautréamont, il piu grande ipnotizzatore dell’e­
poca moderna. In lui l’uomo cosciente, quanto mai laborioso («San­
guino - egli dice - su ogni frase»; confida a Michel Leiris che ogni
verso delle Nouvelles impressions d’Afrique gli è costato circa
quindici ore di lavoro) è sempre alle prese con l ’uomo inconscio e-
stremamente sbrigativo (è sintomatico che sia rimasto fedele per
. circa quarantanni a una tecnica filosoficamente ingiustificabile,
senza cercare di modificarla o di sostituirla). L ’humour, volontario
o no, di Raymond Roussel, sta tutto in questo gioco di equilibri
sproporzionati: «La macchina infernale collocata da Lautréamont
sui gradini dello spirito - dice Jean Lévy - fa udire il suo lugubre
tic-tac (in Roussel), e molti di noi salutano con ammirazione le sue
esplosioni liberatrici».
Lo stesso critico ha fatto molto giustamente notare che si è an­
cora lontani dall’aver chiarito quale parte abbia in quest’opera l ’hu-
mour, quale l ’ossessione e la repressione. Infatti Raymond Roussel
ha avuto a che fare con la psicopatologia, tant’è vero che il suo caso
RAYMOND ROUSSEL 239

è stato oggetto di una comunicazione del dottor Pierre Janet, dal


titolo: «I caratteri psicologici dell’estasi», e il suo suicidio (?) ha
confermato l’opinione che, durante tutto il ciclo della sua produ­
zione, sia sempre stato un anormale. A diciannove anni, mentre
terminava il poema La doublure, ha conosciuto l’estasi finale di
Nietzsche: «Ci si rende conto, da qualche segno particolare, d’aver
compiuto un capolavoro, di essere un prodigio... Ero pari a Dante e
a Shakespeare, avevo le stesse sensazioni che Victor Hugo ebbe a
settantanni, sentivo ciò che Napoleone sentiva nel 1811, sognavo
i sogni di Tannhauser nel Venusberg. Ciò che scrivevo sprigionava
luce e dovevo chiudere le tende per il timore che il minimo spira­
glio potesse far filtrare all’esterno i raggi luminosi che uscivano dal­
la mia penna, poiché io volevo abbassare lo schermo all’improvviso
e illuminare il mondo. Se avessi lasciato sparse quelle carte, i raggi
di luce sarebbero giunti fino in Cina e la folla sconvolta si sarebbe
precipitata sulla mia casa».
Fino in Cina... Questo fanciullo che adorava Jules Verne, que-
st’appassionato del teatro dei burattini, quest’uomo ricchissimo che
si era fatto costruire per i suoi viaggi la roulotte più lussuosa del
mondo, resterà fino all’ultimo il dispregiatore più accanito del viag­
gio reale. «A Pechino - dice Michel Leiris - dopo una visita som­
maria della città non uscirà più dalla sua stanza»; cosi come, mentre
aveva l’occasione di vedere per la prima volta Tahiti, se ne resta per
più giorni a scrivere nella sua cabina.
La stupenda originalità dell’opera di Roussel dà un’importante
e significativa smentita e infligge un affronto definitivo a quelli che
predicano un antiquato realismo primario, che si qualifichi o meno
come «socialista». «Martial - sotto questo nome l’autore di Locus
solus viene presentato nell’analisi di Pierre Janet - ha un’interes­
santissima concezione della bellezza in letteratura; bisogna che l’o­
pera non contenga alcun elemento reale, nessuna descrizione del
mondo e del pensiero, ma solo combinazioni affatto immaginarie:
sono già idee di un mondo extraumano».
240 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

IM P R E S S IO N I D ’A P R IC A

Il do vibrava ancora in lontananza quando Fuxier avan­


zò verso di noi, tenendo stretto contro il petto, con la ma­
no destra aperta e tesa, un vaso di terra da cui spuntava
un ceppo di vite.
La mano sinistra reggeva un boccale cilindrico e tra­
sparente, munito di un largo tappo di sughero traversato
da un tubo metallico; nella parte bassa si vedeva un muc-
chietto di sali chimici sotto forma di graziosi cristalli.
Deposti a terra i due fardelli, Fuxier estrasse di tasca
una piccola lanterna cieca e la distese in senso orizzontale
sulla superficie di terra che affiorava fra i bordi del vaso
di grès. All'improvviso una corrente elettrica, messa in
azione all’interno della lampada portatile, proiettò un fa­
scio abbagliante di luce bianca, diretto verso lo zenit da
una lente potente.
Allora Fuxier, sollevando il boccale senza modificarne
la posizione orizzontale, girò una chiave posta all’estremi­
tà del tubo metallico, e l’orifizio, rivolto con cura verso
una parte stabilita del ceppo, lasciò uscire un gas prima
violentemente compresso. Da una breve spiegazione del­
l ’operatore venimmo a sapere che il fluido, messo a con­
tatto con l’atmosfera, provocava un calore intenso che,
unito a talune proprietà chimiche ben precise, avrebbe fat­
to maturare sotto i nostri occhi un grappolo d’uva.
Aveva appena terminato il suo discorso, che il fenome­
no annunciato si rivelò ai nostri sguardi sotto forma di un
impercettibile racemo. Disponendo del potere che la leg­
genda attribuisce a certi fachiri indiani, Fuxier compiva
per noi il miracolo dello sboccio improvviso.
RAYMOND ROUSSEL 241

Per effetto dell’azione chimica i chicchi si svilupparo­


no rapidamente e tosto sul lato del ceppo vedemmo pen­
dere, ben distinto, un grappolo d’uva bianca, pesante e
maturo.
Dopo aver chiuso il tubo con un nuovo giro di chiave,
Fuxier depose il boccale a terra. Poi richiamò la nostra at­
tenzione sul grappolo e ci mostrò alcuni minuscoli perso­
naggi, prigionieri alPinterno dei diafani globi.
Eseguendo in precedenza sul germe un’opera di model­
lamento e di coloritura ancora più minuziosa del compi­
to impostogli dalla preparazione delle pastiglie azzurre o
rosse, Fuxier aveva deposto in ciascun chicco la genesi di
un grazioso quadro, la cui messa a punto seguiva imme­
diatamente le fasi della maturazione ottenuta con tanta fa­
cilità.
Ci avvicinammo e attraverso la buccia dell’uva, di una
straordinaria finezza e trasparenza, potemmo vedere sen­
za difficoltà i diversi gruppi, illuminati dal basso dal fascio
di luce elettrica.
Le manipolazioni operate sul germe avevano portato
all’eliminazione dei vinaccioli, e nulla offuscava la purez­
za delle statue lillipuziane, traslucide e colorate, la cui ma­
teria era data dalla stessa polpa.

- Uno squarcio della Gallia antica, — disse Fuxier toc­


cando col dito un primo chicco in cui si vedevano numero­
si guerrieri celti nell’atto di accingersi al combattimento.
Ciascuno di noi ammirava la finezza dei contorni e la
ricchezza dei colori, messi bene in rilievo dagli effluvi lu­
minosi.

- Eude segato da un demonio nel sogno del conte Valt-


guire, - continuò Fuxier, additando un secondo chicco.
Ora si distingueva, dietro il delicato involucro, un uo­
mo chiuso nella sua armatura addormentato ai piedi di un
albero; una nuvola di fumo che gli usciva dalla fronte,
242 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

forse a raffigurare un sogno, conteneva nei suoi leggeri


bioccoli un demone armato di una lunga sega, i cui denti
affilati si conficcavano nel corpo di un dannato, contratto
dalla sofferenza.

Un altro chicco, illustrato da una spiegazione somma­


ria, mostrava il Circo romano: lo occupava una folla nume­
rosa, eccitata da un combattimento di gladiatori.

— Napoleone in Spagna.
Le parole di Fuxier si riferivano a un quarto chicco, in
cui Pimperatore, nel tradizionale abito verde, cavalcava
vincitore in mezzo a una calca che col suo atteggiamento
minaccioso sembrava vituperarlo.

- Un episodio del Vangelo di san Luca, - prosegui Fu­


xier, sfiorando di fianco, in un unico stelo a tre ramifica­
zioni, tre chicchi gemelli ove erano raffigurate tre scene
popolate dai medesimi personaggi.
In primo luogo si vedeva Gesù nell’atto di stendere la
mano verso una ragazzina che, le labbra semiaperte, lo
sguardo fisso, sembrava cantare un sottile e prolungato
trillo. Vicino, su un tavolaccio, un ragazzo immobile nel
sonno della morte teneva ancora fra le dita un lungo ra­
moscello di vimini; accanto al funebre giaciglio il padre e
la madre, affranti, piangevano in silenzio. In un angolo,
una bimba gobba e mingherlina, si teneva umilmente in
disparte.
Nel chicco di mezzo Gesù, volto verso il tavolaccio,
guardava il giovane morto che, reso miracolosamente alla
vita, intrecciava da abile panieraio il ramoscello di vimini
leggero e flessibile. La famiglia, stupita, manifestava con
gesti estatici la sua gioiosa meraviglia.
L ’ultimo quadro, con lo stesso scenario e gli stessi per­
sonaggi, glorificava Gesù nell’atto di toccare la giovane
inferma che di colpo si raddrizzava e acquistava bellezza.
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Raymond Roussel
244 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Passando oltre la breve trilogia, Fuxier alzò la parte


inferiore del grappolo e ci mostrò un chicco superbo, che
commentò con queste parole:
- Hans il boscaiolo e i suoi sei figli.
Un vecchio eccezionalmente robusto portava sulle spal­
le un enorme carico di legna, costituito da tronchi intieri
commisti a fasci di ciocchi legati da liane. Dietro di lui sei
giovani si curvavano tutti sotto un fardello della stessa
specie, infinitamente più leggero. Il vecchio volgeva indie­
tro il capo e sembrava farsi beffe dei ritardatari di lui me­
no resistenti e vigorosi.

Nel penultimo chicco, un adolescente in costume Lui­


gi XV guardava con emozione, pur fingendo di passare di li
a caso, una giovane donna vestita di un abito rosso acceso,
ferma sulla soglia della sua casa.
- La prima sensazione amorosa de\VEmilio di Jean-
Jacques Rousseau, - spiegò Fuxier e, muovendo le dita,
fece giocare i raggi elettrici fra i riflessi rosso-vivo dell’a-
bito smagliante.

Il decimo e ultimo chicco racchiudeva un duello so­


vrumano, che Fuxier ci presentò come la riproduzione di
un quadro di Raffaello. Un angelo, librandosi a poca al­
tezza da terra, conficcava la punta della spada nel petto di
Satana, che barcollando lasciava cadere la propria arma.

Dopo aver passato in rassegna tutto il grappolo, Fuxier


spense la lanterna cieca, la rimise in tasca, poi si allontanò
portando ancora con sé, come quando era arrivato, il vaso
di terra e il recipiente cilindrico.

Trad. di Laura Lovisetti Fuà, Rizzoli, Milano 1964.


RAYMOND ROUS SEL 242

P O L V E R E DI SO L I

Q u a d r o s e d ic e s im o .

Un luogo spoglio e piatto. Sul fondo una ringhiera di


ferro dietro la quale si staglia una croce. A destra, una
tavola da giardino, dove è seduta la Ricevitrice che sta
cucendo.

SCENA DECIMA

Blache, Réard, la ricevitrice.

réard Si, signor Blache... Piu ci penso, piu mi convin­


co che siamo sempre sulla buona strada.
blache Cosi, secondo voi, questi tre asterischi sottoli­
neati, tra tanti altri, sul francobollo ocleatico trovato
nella collezione di mio zio...
réard Non possono che indicare le tre stelle incise su
questa croce.
blache Chi vi è sepolto, uno sconosciuto?...
réard N o . Anzi, un morto il cui nome, François Patrier,
è ben noto a noi tutti. Vedete, laggiù ci sono delle sab­
bie mobili, che una volta, prima che ci fosse questo stec­
cato, erano segnalate solo da un semplice cartello; un
giorno, un ragazzo sbadato a caccia di farfalle non lo
vide, e una sfinge qualsiasi lo trascinò fino alle sabbie;
alle grida deirimprudente accorre François Patrier, un
pescatore, che, per strapparlo alla stretta mortale finisce
per restarne vittima egli stesso.
blache Sprofondò ?...
réard ...E rapidamente, purtroppo! E ben presto do-
246 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

vette tener sollevato il ragazzino sopra la sua testa, men­


tre le loro grida si confondevano invano. La sabbia gli
sfiorava già la bocca quando finalmente apparve alPoriz-
zonte un gruppo di persone che venivano in loro soc­
corso.
b lâche Per fare il resto della strada, dovettero per for­
za impiegare parecchi minuti!
réard Cosi, sentendo che per lui i soccorsi sarebbero
arrivati troppo tardi, François Patrier fece al ragazzo
un’estrema raccomandazione. Preoccupato di chiarire
che il suo gesto non era stato per nulla motivato da un
desiderio di gloria, volle che sulla croce che avrebbe se­
gnato il luogo dove era stato inghiottito, si incidessero
soltanto tre stelle.
blache E quando arrivarono i soccorsi?
réard Emergevano ormai solo due mani che tenevano
sollevato il bambino; essi lo poterono afferrare forman­
do con le mani strettamente avvinte una lunga e solida
catena, mentre François Patrier scompariva per sempre.
blache II bambino riferì la sua ultima volontà?...
réard (indicando la croce) ...Che eseguimmo fedel­
mente.
blache Già... Tre stelle... Senza nemmeno la data.
réard Ma ben presto fummo letteralmente costretti a
soddisfare, tanto era imperiosa, la sete generale di ren­
dere onore a un simile eroe. Poiché il suo breve testa­
mento verbale non prevedeva che la croce, pensammo
che non sarebbe stata una disubbidienza innalzargli una
statua in città.
blache E si apri una sottoscrizione?...
réard ... Che è ancora aperta. Particolare commovente,
è proprio qui che si raccolgono le offerte che affluisco­
no ogni giorno in quest’urna. Il minimo è stato fissato
in cinque franchi, cifra che può essere superata solo da
un’altra cifra che rappresenti una delle sue potenze.
blache Cosi, chi vuole offrire piu di cinque franchi?...
RAYMOND ROUSSEL 247
réard ...D eve scegliere tra venticinque franchi, cento-
venticinque oppure seicento venticinque, ma nulla im­
pedisce che si arrivi a tremilacentoventicinque, o quin-
dicimilaseicentoventicinque, 0... ma fermiamoci qui!
Abbiamo sperato, con questa progressione, di suggerire
delle grosse cifre ai sottoscrittori più ricchi.
blache Bisognerebbe sapere se mio zio... Come chiede­
re a questa donna...
réard Volete cominciare col sottoscrivere?...
blache Certo... ben volentieri.
réard (avvicinandosi alla ricevitrice) Ecco il signor
Blache che desidera partecipare...
la ricevitrice «Blache»... Ho già questo nome in uno
dei registri delle offerte. {Riflettendo) Nel cinque al
quadrato... o al cubo... al cubo credo...
réard (a Blache) Vedete... le offerte sono smistate scru­
polosamente... C ’è una serie di registri, tutti adorni
della cifra cinque, che figurà solitaria sul primo mentre
sugli altri mostra ordinatamente la gamma delle sue po­
tenze, fermandosi alla sesta.
blache E i registri, come è logico, sono via via piu sot­
tili, partendo dal primo fino all’ultimo.
la ricevitrice (dopo aver sfogliato uno dei registri)
Ah! Ecco il nome! Proprio sul terzo registro!
blache (estraendo il portafogli) Ebbene, per pietà fa­
miliare seguo il buon esempio, e scelgo di sottoscrivere
la cifra che lo farà comparire di nuovo sullo stesso regi­
stro.
248 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

NUOVE IM P R E S S IO N I D ’A F R IC A 1

(((((Tali: - A mezzogiorno, l ’ombra sul quadrante so­


lare,
Indicando lo stomaco che la paga reclama;
- Quando gela, è innegabile, il metro campione;
- A sfidare lo sterco, un rimboccato calzone;
- Sulla grata del cesso, i fogli di un giornale;
- Lo stivale da aggiustare col tacco consumato;
- Ciò che attento scappuccia a colpi d ’unghia un rab­
bino;
- Quando appresta il coperto, i piatti di un garzone;
- Se il barbiere lo muove, un tiepido schienale;
- Il metro che alla sveglia un veterano ha in mano;
- A l gran gala di Ejur, Giulietta con Romeo
Da due mimi bambini fatti gratis pro Deo;
- La sciabola sconfitta che in scena un prode spezza;
- Il pane che salivando porge uno svizzero a messa;
- L ’asparago buttato dopo il morso del dente;
- Sotto la vanga, un verme per mortale incidente;
- La lama a mezzo sguainata quando falso è l’allarme;
- Lo scranno troppo alto con lo spartito aperto;
- Quando il bambino pianista cresce, il seggiolino a
vite;
- Il vecchio calendario che un tempo era massiccio;
- La lampada che si solleva a minestra finita;
- La striscia di cerotto quando ci si ferisce;

1 [Roussel dà in questi versi una serie di esempi di cose che « rimpic­


cioliscono», cosi come « l’homme... ses défauts... par ses yeux complai-
sants ils sont rendus petits». Si rimanda il lettore curioso a Jean ferry ,
Une étude sur Raymond Roussel, Arcanes 1953].
RAYMOND ROUSSEL 249

- Dove l'alito intacca, lo specchio che intristisce;


- A l primo lampo che conta, la vela ripiegata;
- Il tavolo dopo la cena di nuovo arrotondato;
- L'arco dove gonfia un'acqua che si spia;
- Sotto il mefitico soffio di chi fuma, l'esca;
- La coda nuova in sangue del botolo piccino;
- Quando il «dressage» è buono, l'ozioso finimento;
- Quando la testa cade, il fiammifero spento;
- Il tubo mezzo sfatto che un pittorastro avvolge;
- Quando il bottone schizza, l'elastico da ombrello;
- Quando rimpiazza la culla il letto, il corsello;
- Il soffione che il fiato disperde crudelmente;
- Finite le sue punte, la ballerina coi lustrini;
- A detta dell’avvocato, l'atto di un delinquente;
- Il getto della pompa se il giardiniere ha sete;
- Il filo che oscilla mentre il ragno lo scala;
- A i bordi del tappeto un gruzzoletto onesto;
- Un sigaro ridotto a mo' di mozzicone;
- Il disco del sole nel cielo di Nettuno;))))),
Francis Picabia
1878-1935

Il Picabia polemista, non sempre sorretto dall’ispirazione, ha


sovente nociuto al pittore e al poeta. Il suo spiccato senso dell’hu-
mour mal s’accorda con quell’atteggiamento critico, diffidente e ag­
gressivo da lui adottato nei confronti dei suoi contemporanei, che
egli attaccò spesso e volentieri sul piano personale. Ma questo è
forse il necessario risvolto di un’opera che più di ogni altra volle
essere aderente alla vita e la cui maggior preoccupazione consisteva,
secondo la parola d’ordine di Rimbaud, nell’essere «assolutamen­
te moderna». La volontà di scandalo alla quale fu improntata per
un lungo periodo (dal 1910 al 1925) ne ha fatto il bersaglio dell’ir­
ritazione o per meglio dire del furore di tutti i difensori della nor­
ma e del buon gusto. «Tutto ma non Picabia» è il patto che è stato
offerto ai novatori in arte di questi ultimi vent’anni. Patto indegno
ma che generalmente veniva accettato e che non può non accresce­
re la grandezza di Picabia. Un ostracismo di questa portata non è
comune ai nostri giorni, ed egli fece sistematicamente il contrario
di ciò che avrebbe dovuto fare per scongiurarlo. Questo convinto
detrattore di tutte le convenzioni morali ed estetiche è uno dei più
grandi poeti del desiderio, del desiderio senza tregua condannato a
rinascere ogni volta diverso dalla sua stessa realizzazione. L ’amore
e la morte sono naturalmente gli estremi di questa linea, tra i quali
si sposta zigzagando un punto sensibilissimo all’immagine dell’at­
timo presente.
Picabia è stato il primo a capire che tutti gli accostamenti di pa­
role, senza eccezione, sono leciti, e che la loro virtù poetica è tanto
più grande quanto più appaiono a prima vista gratuiti o irritanti.
Tutto il periodo eroico della sua pittura mostra non tanto il biso­
gno di reagire contro la banalità dei soggetti e delle tecniche o il
desiderio di sbalordire gli imbecilli, quanto il sogno disperato, ne­
roniano, di ottenere una sempre maggior festosità per se stesso:
«Fougère royale - mi scrisse un giorno — è un quadro grandissimo,
FRANCIS PICABIA 2^ 1

di tre metri per due e cinquanta. È composto di duecentosessantun


cerchi neri su fondo color fragola schiacciata. In un angolo c’è un
grande burattino d’oro. Quanto alle scritte, preferisco lasciarvi la
sorpresa».

L 'O C C H IO F R E D D O

Dopo la nostra morte dovrebbero metterci in una boc­


cia, in una boccia di legno dai molti colori. La si farebbe
rotolare fino al cimitero, e i becchini incaricati di questo
compito dovrebbero portare guanti trasparenti, perché
negli amanti riaffiori il ricordo delle carezze.
Per chi volesse arricchire il proprio arredamento col
piacere oggettivo della persona amata, vi sarebbero bocce
di cristallo nella cui trasparenza si potrebbe scorgere la
nudità definitiva del nonno o del fratello gemello!
Scia deirintelligenza, lampada steeple-chase; gli umani
assomigliano a quei corvi dall’occhio fisso, che spiccano il
volo al di sopra dei cadaveri, e tutti i pellerossa sono capi­
stazione.

IN T E R M E Z Z O DI C IN Q U E M IN U T I

Avevo un amico svizzero, si chiamava Jacques Dingue


e viveva in Perù a 4000 metri d ’altezza; partito qualche
anno prima per esplorare quelle regioni, aveva subito lag­
giù il fascino di una strana indiana, che l ’aveva reso com­
pletamente folle con i suoi rifiuti. Poco a poco si era inde­
bolito e non usciva nemmeno più dalla capanna in cui si
era sistemato. Un dottore peruviano, che l ’aveva accompa­
2J2 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

gnato fin là, lo assisteva per guarirlo di una demenza pre­


coce che giudicava incurabile.
Una,notte, sulla piccola tribù d ’indiani che ospitava
Jacques Dingue, si abbatté un’epidemia di influenza; tut­
ti, senza eccezione, ne furono colpiti, e su duecento indi­
geni centosettantotto morirono in pochi giorni; il medico
peruviano, terrorizzato, era ritornato in tutta fretta a Li­
ma... Il mio amico, anche lui, fu colpito dal tremendo ma­
le, e immobilizzato dalla febbre.
Orbene, tutti gli indiani morti possedevano uno o più
cani, i quali ben presto non ebbero altra risorsa per so­
pravvivere che mangiare i loro padroni, facendone a pezzi
i cadaveri; uno di questi cani portò nella capanna di Din­
gue la testa dell’indiana di cui egli era innamorato... La
riconobbe sull’istante e senza dubbio fu colpito da un’e­
mozione vivissima, tanto che guari immediatamente dalla
sua pazzia e dalla febbre; gli ritornarono le forze e allora,
strappando la testa della donna dalle fauci del cane, si di­
verti a lanciarla all’altra estremità della stanza, incitando
l’animale a riportargliela; tre volte il gioco ricominciò, il
cane riportava la testa tenendola per il naso, ma la terza
volta Jacques Dingue la lanciò con troppa forza e la testa
si ruppe contro il muro: con grande gioia del giocatore di
bocce che potè constatare come il cervello fuoriuscito pre­
sentasse una sola circonvoluzione e assomigliasse, tanto
da potercisi ingannare, a un paio di chiappe.

I L B A M B IN O

L ’autunno è offuscato
dal fanciullo
che amavamo.
Come un avvoltoio
FRANCIS PICABIA 253

su una carogna
diminuisce la sua famiglia
poi scompare
come una farfalla.
G uillaum e A pollinaire
1880-1918

Cosi numerose sono le strade che s'incrociano nell’opera di Guil­


laume Apollinaire che un solo aspetto della sua personalità può en­
trare nell’orizzonte di questo libro, dove si esaurisce, si potrebbe
dire, un solo ramo della sua stella. Un mondo intero lo divide dai
protagonisti a tutto tondo, insieme provocatori e raziocinanti, del-
l’humour moderno: un Lafcadio, un Jacques Vaché, o quello straor­
dinario Gino Pieri che fu per qualche tempo il suo segretario e che,
col nome di Barone d’Ormesan, divenne il protagonista de UAm-
phion faux-messie, l’ultimo racconto dzWHérésiarque et Cie. Per
quanto la sua grande curiosità naturale lo spingesse a nutrire una
simpatia elettiva per persone di questa specie, egli non si mostra
poi in grado di affascinarle a sua volta e di legarle a sé. Quando, per
causa loro, gli capita di avere qualche attrito, sia pure di poco con­
to, con la società, cade in atteggiamenti infantili e, per discolparsi,
non esita a sfiorare il ridicolo, finisce per far ridere di se stesso. Nel
1913 si trova implicato nel furto della Gioconda, vittima dell’inte­
resse che aveva nutrito per Gino Pieri al punto di nascondere due
statuette fenice che quest’ultimo aveva sottratto al Louvre: eccolo
allora lamentarsi, scrivere brutti versi piagnucolosi, sollecitare da­
gli amici testimonianze di onorabilità. Per contro, come nota il pre­
fatore anonimo delle Onze mille Verge5 nella ristampa del 1931,
rimangono le lettere del «Baron d’Ormesan», dove precisava la
parte da lui avuta nella faccenda: «Nulla può meglio chiarire la
differenza che vi è fra l’uomo che mette il suo humour nella vita e
quello che fa delPhumour, fra un avventuriero e uno che ha il gu­
sto dell’avventura». Stesse contestazioni con Arthur Cravan che,
avendo scritto in un articolo «l’ebreo Apollinaire», ebbe la sorpre­
sa di ricevere i padrini di quest’ultimo: «Non perché - dichiara
Arthur Cravan — io abbia paura della grande sciabola di Apolli­
naire, ma perché ho pochissimo amor proprio, sono pronto a fare
tutte le rettifiche del mondo, e a dichiarare che... il signor Gufi-
GUILLAUME APOLLINAIRE 255

laume Apollinaire non è affatto ebreo ma cattolico romano. Per evi­


tare anche in futuro ogni possibile equivoco, voglio aggiungere che
il signor Apollinaire, che è ben panciuto, assomiglia piu a un rino­
ceronte che a una giraffa, e che, come aspetto, ricorda piu il tapiro
che il leone, e tende piu all’avvoltoio che alla cicogna dal lungo
becco».
Fatte queste riserve, è innegabile che Apollinaire sia riuscito
meglio di chiunque altro a introdurre nell’espressione, il solo cam­
po in cui eccelleva, alcuni tra gli atteggiamenti piu tipici dell’hu-
mour odierno. Se il senso dell’humour gli fece totalmente difetto
in certi casi della vita in cui sarebbe stato piu che necessario (ci rife­
riamo alla sua credulità e al suo attivismo nei confronti della guer­
ra, lo rivediamo sul letto di morte alla vigilia dell’armistizio con­
templare con aria rapita il suo képi sul quale era stato appena ag­
giunto un secondo gallone), seppe invece magnificamente immet­
terlo nelle sue poesie e nei suoi racconti. «Una coscienza chiarissi­
ma - è stato detto - del nesso tra poesia e sessualità, una coscienza
di profanatore e di profeta, ecco ciò che colloca Apollinaire a un
punto chiave della storia». Trascinato poeticamente da un vento
furioso, nello scatenarsi dell’immaginazione e dell’immaginazione
sola, al limite estremo della sua volontà di liberazione di tutti i ge­
neri letterari, gli è accaduto di incontrare il grande humour: pen­
siamo al soggetto di léximal Jélimite nel Poète assassinò. Apolli­
naire, quando si passeggiava per la strada, si volgeva volentieri ver­
so le vecchie vagabonde collezioniste che si possono talora incontra­
re la sera, a Parigi, sulla riva sinistra, mentre si dirigono verso i
quais. Le guardava un po’ come si guarda la storia letteraria, e il
suo occhio pareva annegarvisi per un attimo. In tutt’altre occasioni,
la sua risata faceva lo stesso rumore della prima raffica di grandine
sui vetri.

D R A M M A T U R G IA

I teatri.

Giovanotto, vi racconteremo ora qualche soggetto di


commedia. Se fossero firmati da nomi famosi, noi li rap­
presenteremmo, ma si tratta invece di capolavori di ignoti,
che ci sono stati affidati e che, per la fiducia che il vostro
aspetto ci ispira, ora vi elargiamo.
256 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

commedia A tesi II principe di San Meco trova un


pidocchio sulla testa della moglie, e le fa una scenata. La
principessa, da sei mesi, è andata a letto solo col visconte
di Dendelope. G li sposi fanno una scenata al visconte che,
essendo andato a letto soltanto con la principessa e con la
signora Lafoulue, moglie di un segretario di Stato, fa cade­
re il ministero e riversa sulla signora Lafoulue tutto il suo
disprezzo.
La signora Lafoulue fa una scenata a suo marito. Tutto
si chiarisce con l ’arrivo del signor Bibier, deputato. Egli si
gratta la testa. Lo rapano. Egli accusa i suoi elettori di es­
sere dei pidocchiosi. Finalmente ogni cosa ritorna al suo
posto. Titolo: II parlamentarismo.

commedia di carattere Isabelle Lefaucheux pro­


mette a suo marito di essergli fedele. Si ricorda allora di
aver promesso la stessa cosa a Jules, il garzone di bottega.
Soffre di non poter conciliare la sua parola e il suo amore.
Nel frattempo Lefaucheux mette alla porta Jules. Que­
sto fatto determina il trionfo dell’amore e ritroviamo Isa­
belle cassiera in un grande negozio dove Jules fa il com­
messo. Titolo: Isabelle Lefaucheux.

dramma storico II famoso romanziere Stendhal è


Panima di un complotto bonapartista che culmina nella
morte eroica di una giovane cantante, durante una rappre­
sentazione del Don Giovanni alla Scala di Milano. Stend­
hal, che si cela sotto uno pseudonimo, si trae brillantemen­
te d ’impaccio.
Grandi sfilate, personaggi storici.

opera L ’asino di Buridano esita a soddisfare la pro­


pria fame e la propria sete. L ’asina di Balaam profetizza
che l ’asino morirà. Arriva l ’asino d’oro, mangia e beve.
Pelle d’Asino mostra la sua nudità a questo gregge asini-
Guillaume Apollinaire
2^8 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

no. Passando da quelle parti, l’asino di Sancho pensa che


darebbe prova del suo vigore rapendo l ’infanta, ma il tra­
ditore Melo avverte il genio della Fontana. Questi procla­
ma la sua gelosia e impone il basto all’asino d ’oro. Meta­
morfosi. Il principe e l ’infanta fanno il loro ingresso a ca­
vallo. Il re abdica in loro favore.

dram m a II governo svedese intenta


p a t r io t t ic o

causa alla Francia per contraffazione dei fiammiferi svede­


si. A ll’ultimo atto, si esumano i resti di un alchimista del
x iv secolo che inventò questi fiammiferi a La Ferté-Gau-
cher.

CO M M ED IA V A U D E V IL L E .

Il bell’automedonte
Gridava alla vicina:
Se mi fai vedere il tuo salone
Ti farò veder la mia cucina.

Ecco di che alimentare una vita intera di drammaturgo,


signore.

IN C O N T R I

Mentre correva dietro Tristouse Ballerinette, Cronia-


mantal continuò la sua educazione letteraria.
Un giorno, mentre passeggiava per Parigi, si trovò d ’un
tratto sulle rive della Senna. Attraversò un ponte e cam­
minò ancora per qualche minuto quando, all’improvviso,
vedendo di fronte a sé François Coppée, Croniamantal si
dispiacque che quel passante fosse morto. Ma non vi è nul­
la in contrario a una chiacchierata con un defunto, e l ’in­
contro era piacevole.
GUILLAUME APOLLINAIRE 2 59
«Via, via, - si disse Croniamantal, - per essere un pas­
sante lo è, anzi è l'autore stesso del Passante \ È un bravo
rimatore, abile ed ingegnoso, e ha il senso della realtà.
Parliamo con lui della rima».
Il poeta del Passante fumava una sigaretta nera. Era
vestito di nero, il suo viso era nero: se ne stava installato
in modo bizzarro su un blocco di pietra, e Croniamantal si
accorse, dalla sua aria pensierosa, che stava componendo
dei versi. L'abbordò, e dopo averlo salutato gli disse a bru­
ciapelo:
- Caro maestro, come siete scuro.
Egli rispose gentilmente:
- Il fatto è che la mia statua è di bronzo. Ciò mi espone
continuamente a dei malintesi. Per esempio l'altro giorno:
Passandomi qui accanto il negro Sam Mac Vea
Vedendomi di lui piu nero s’affliggea.

- Notate l'ingegnosità di questi versi. Adesso sto perfe­


zionando la rima. Avete osservato come il distico che vi ho
recitato rima bene alla vista?
- In effetti, - rispose Croniamantal, - poiché si pro­
nuncia Sam Mac Vi, cosi come si dice Shekspire.
- Ecco allora qualcosa che vi piacerà di piu, — continuò
la statua:
Passandomi qui accanto il negro Sam Mac Vea
Scrisse questi tre nomi li per lì.

- Vi è qui una sottigliezza che non mancherà di sedurvi,


la rima ricca all’udito.
- Mi avete chiarito la questione della rima, - disse
Croniamantal. - Son ben lieto, caro maestro, di avervi in­
contrato cosi, da passante a passante.
- È il mio ultimo successo, - rispose il poeta metalli-1

1 [Il Passante , commedia in versi in un atto di François Coppée


(1842-1908), rappresentata per la prima volta nel 1869].
2Ó0 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

co. — Tuttavia, ho appena composto un piccolo poema dal­


lo stesso titolo: vi è un signore che passa, il Passante, at­
traverso il corridoio di un treno; intravvede una deliziosa
signora con cui, invece di andare semplicemente fino a
Bruxelles, si ferma alla frontiera olandese:
Passarono almeno otto giorni a Rosendal
Egli gustava Videai, essa amava il reai
Tra essi in ogni cosa vi era differenza
E per conseguenza fu vero amore che conobbero i
lor cuori.

— Richiamo la vostra attenzione sugli ultimi due versi


che, malgrado la ricchezza della rima, contengono una dis­
sonanza che introduce un delicato contrasto tra il suono
pieno delle rime maschili e quello morbido delle femmi­
nili.
— Caro maestro, — ripresi a voce piu alta, - parlatemi
del verso libero.
— Viva la libertà! - esclamò la statua di bronzo.

LA FOCA

Ho gli occhi di un vero vitello marino


Della signora Ygreco ho l ’andatura
Mi si incontra in ogni raduno
Io fo ’ della letteratura
Io so’ foca per mia natura
E poiché il matrimonio è nelParia
Un bel giorno Lota sposare mi tocca
Dalla mattina alla sera l’Otaria
Mamma Papà
Pipa tabacco sputacchiera caffè-concerto
Lai Tou
GUILLAUME APOLLINAIRE 2 ÔI

C A P P E L L O -A V E L L O

Lo han cacciato
Dentro al suo avello
L'appollaiato
Sul tuo cappello
Era vissuto
Sul continente
Questo pennuto
Or
nitologico
Or
Basta cosi
V o ’ a far pipi.

UN A P O E S IA

È entrato
Si è seduto
Non guarda il pirogeno
dai rossi capelli
Il fiammifero s'accende
Se n’è andato.
P ablo Picasso
nato nel 1881

«L’humour - dirà Jacques Vaché - deriva talmente da una sen­


sazione da essere difficilmente esprimibile. Io credo che sia una
sensazione». Nulla può aiutare a chiarire tale sensazione, se di sen­
sazione si tratta - piu che il vederla prodursi in congiunzione con
un’altra: a questo proposito l ’opera di Picasso è forse la piu signi­
ficativa, poiché in essa la facoltà visuale è potenziata al massimo, e
si presenta allo stato di «rivoluzione permanente». «Credete - egli
dice - che m’importi qualcosa che questo quadro raffiguri due per­
sonaggi? Questi due personaggi sono esistiti, non esistono piu. La
loro vista mi ha dato un’emozione iniziale, poco a poco la loro pre­
senza reale si è stemperata, son diventati per me una finzione, per
poi sparire o meglio trasformarsi in problemi di ogni genere». Que­
sta volontà di trasferire l’oggetto dal particolare al generale e di
sopprimere il dettaglio aneddotico, ciò che traduce l’intento fonda-
mentale del cubismo, non può non essere in rapporto con la preoc­
cupazione di trascendere a qualsiasi costo gli accidenti dell’io,
preoccupazione che si esprime nel ricorso all’humour. Questi acci­
denti restano tuttavia quanto mai necessari - nulla più di quest’ar­
te è in contrasto con l ’impassibilità - ma, data l’estrema mobilità
dell’emozione, non si può far altro che cercarla all’interno dell’o­
pera stessa anziché porla come suo soggetto precostituito, ciò che
equivarrebbe a bloccarla arbitrariamente: «In fondo, ogni cosa di­
pende da se stessi. È un sole nel ventre, dai mille raggi. Il resto è
nulla». È chiaro che si tratta del super-io, che agisce come conden­
satore di luce, come corazza rivolta verso l’interno.
L ’atto lirico ininterrotto che è l ’opera plastica di Picasso non
può quindi darsi miglior garante dell’humour, quale deve risultare
dall’emozione coltivata per se stessa e portata al suo culmine. Un
fremito unico percorre l’intervallo oscuro che separa le cose natu­
rali dalle creazioni umane. Un interrogativo palpitante, instancabi­
le, corre dalle une alle altre, tentando di far scaturire, in virtù solo
PABLO PICASSO 263
dello strumento interposto, Puomo dal suo canto, se lo strumento è
una chitarra, la donna dalla sua nudità, se è uno specchio. Il volto
umano in particolare si propone come l’eterno, rinestinguibile gio­
co di pazienza, come il luogo elettivo di tutti Ì turbamenti. Il mon­
do esterno altro non è che la ganga di questo volto eternamente
ignoto e mutevole, in cui tutto alla fine dovrà ritrovarsi; altro non
è che il mondo metaforico in cui si fondono le emozioni, stampo
che ha valore solo in quanto è comune a tutti gli uomini e in quan­
to si basa sulla loro esperienza quotidiana: «I quadri - dice Picas­
so - si fanno sempre come Ì principi fanno i figli: con le pastorelle.
Non si fa mai il ritratto del Partenone; non si dipinge mai una pol­
trona Luigi XV. Si fanno i quadri con una bicocca del Mezzogiorno,
con un pacchetto di tabacco, con una vecchia sedia».
Le poesie recenti di Picasso permettono di comprendere tutto
Pabbandono e tutta la patetica ritrosia di un tale modo di procede­
re, che egli ha seguito per più di trentanni e che ha sconvolto tutta
Pottica moderna.

P O E S IE

Ragazza correttamente vestita con un mantello beige


a paramenti violenti 13 0 0 0 0 -3 0 0 — 22 — 93 centesimi
sottoveste madapolam riveduta e corretta alludendo a pel­
licce d’ermellino 143 — 6 0 - 3 2 un reggiseno slacciato, gli
orli della piaga scostati da pulegge a mano fanno il segno
della croce profumato al formaggio reblochon 1300 —73
- 0 3 —49 —317 0 0 0 -2 3 centesimi aperture a giorno ag­
giunte un giorno su due sulla pelle incrostate da brividi al­
larmati da silenzio mortale color esca tipo Lola di Valen­
za 103 più sguardi languidi 310 — 313 più 3 000 0 0 0 -8 0
franchi - 13 centesimi per un’occhiata smarrita sul como­
dino — penalità incorse nel corso delPincontro — lancio del
disco tra le gambe con una sequenza di fatti che senza al­
cuna ragione giungono a farsi un nido e a trasformarsi in
certi casi nell’immagine ragionata del taglio 380 - 11 più
264 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

le spese ma il disegno cosi accademico misura di tutta la


storia dalla nascita fino a stamane non scrive nemmeno
se si cammina sulle dita indicanti Puscita ma sputa il suo
profumo con il bicchiere da bibita che Podore formato da
reggimenti e che sfila bandiera in testa che se il solletico
del desiderio non scopre il luogo adatto a trasformare la
sardina in pescecane la lista delle compere si allunga sol­
tanto a partire da questo momento senza Pinevitabile so­
sta a tavola alPora di colazione per poter scrivere in mez­
zo a tante iperboli mischiate con il formaggio e il pomo­
doro.

Lingua di fuoco ventaglio la sua faccia nel flauto il ta­


glio che cantandogli rosicchia la pugnalata del blu cosi vi­
vace che seduto nelPocchio del toro inscrive nella sua te­
sta ornata di gelsomini aspetta che la vela rigonfi il pezzo
di cristallo che il vento avviluppato nella cappa del man­
doble sgocciolante carezze distribuisca il pane alla cieca e
alla colomba color lillà e stringa con tutta la sua malvagi­
tà contro le labbra del limone fiammeggiante il corno tor­
so che terrorizza con i suoi gesti d'addio la cattedrale che
vien meno tra le sue braccia senza un applauso intanto che
nel suo sguardo esplode la radio svegliata dall'alba che fo­
tografando nel bacio una cimice di sole mangia Paroma
dell’ora che cade e attraversa la pagina che vola disfa il
profumo che porta via tutto impellicciato tra Pala che so­
spira e la paura che sorride il coltello che sobbalza di pia­
cere lasciando anche oggi ondeggiante a suo modo e poi
non importa come nel momento preciso e necessario dal­
l'alto del pozzo il grido della rosa che la mano gli getta co­
me una piccola elemosina.
Arthur Cravan
1881-I92O

Dall’aprile 1912 all’aprile 1915 appaiono e scompaiono Ì cinque


numeri, oggi introvabili, di «Maintenant», la piccola rivista diretta
da Arthur Cravan. Egli ostenta una concezione del tutto nuova
della letteratura e dell’arte, simile a quella che potrebbero avere,
nel campo del bello spettacolo, un lottatore da fiera o un doma­
tore. In odio alle librerie soffocanti dove tutto diventa confuso e,
ancora nuovo, cade subito in polvere, Cravan spinge davanti a sé
la pila delle copie di «Maintenant» su un carretto da fruttivendolo
ambulante: venticinque centesimi al numero! A distanza di tempo
quest’impresa, pur cosi breve e limitata, sembra aver avuto un ef­
fetto rinfrescante di prim’ordine. È impossibile non intravvedervi i
segni precursori di Dada, benché la soluzione al disagio intellet­
tuale vi sia cercata in tutt’altra direzione. Cravan si propone di ria­
bilitare il temperamento, nel senso quasi fisico della parola: regres­
sione non piu verso l’infanzia dell’uomo ma verso quella del mon­
do, la preistoria; amore verso lo zio, nella fattispecie Oscar Wilde,
descritto negli anni della vecchiaia come un pachiderma: «L’adora­
vo perché assomigliava a un grosso animale». Per descrivere se stes­
so il poeta trova questi accenti lirici: «Avevo ripiegato i miei due
metri nell’auto, dove con le ginocchia spingevo avanti due mondi
trasparenti; potevo scorgere sul selciato, che diffondeva il suo arco­
baleno, le cartilagini granata incrociare le bistecche verdi».
Nella misura stessa in cui Cravan proclama che «ogni grande ar­
tista ha il senso della provocazione», i suoi sistemi preferiti sono la
confessione cinica e l’insulto. Ciò che Rimbaud obietta con toni di
pianto: «Io non capisco le leggi; non ho senso morale, sono un
bruto... Sono una bestia, un negro», Cravan lo trasferisce sul piano
dell’apologià, della rivendicazione totale: «Tutti possono capire
che io preferisca un grosso San Bernardo ottuso alla signorina Fron­
zolo col suo passo di gavotta, e, in ogni caso, meglio un giallo che un
bianco, un negro che un giallo, e un negro pugile che un negro stu­
266 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

dente». A prescindere dagli apprezzamenti erronei cui lo porta, in


pittura, la sua innata simpatia per pugili, nuotatori, e altri speciali­
sti della muscolatura, Cravan ha firmato, nel numero 4 di «Mainte-
nant», un resoconto del Salón des Indépendants che resta il capo­
lavoro deirhumour applicato alla critica d’arte: «Come siamo lon­
tani dagli incidenti ferroviari: Maurice Denis dovrebbe dipingere
in cielo, dal momento che ignora lo smoking e la puzza di piedi.
Non che io trovi particolarmente audace dipingere un acrobata o
uno che fa Ì suoi bisogni, anzi penso che una rosa fatta in modo
nuovo è molto più diabolica... Se avessi la fama di Paul Bourget mi
esibirei ogni sera in puntino in qualche spettacolo di rivista, e vi
assicuro che farei un pienone».
Durante la guerra, non contento di esser riuscito a farsi diserto­
re in diversi paesi, Cravan si sforza ancora di attirare su di sé l’at­
tenzione e la piu violenta disapprovazione. Invitato a New York
per tenervi una conferenza suirhumour, entra in scena compieta-
mente ubriaco e incomincia a svestirsi, aspettando che la sala si
vuoti e che la polizia venga a prelevarlo; in Spagna sfida il cam­
pione del mondo Joe Johnson, e si fa mettere knock-out alla prima
ripresa; nel 1919 si segnala il suo passaggio a Città del Messico co­
me professore di ginnastica nella locale Accademia atletica: prepa­
ra una conferenza sull’arte egizia. Le sue tracce si perdono poco
dopo nel golfo del Messico, dove, una notte, si era imbarcato su uno
scafo dei piu leggeri.

A N D R É G ID E

Sognavo febbrilmente, dopo un lungo periodo della


peggior pigrizia, di diventare molto ricco (Dio mio, quan­
te volte ci pensavo! ), e poiché ero arrivato alla fase degli
eterni progetti e mi scaldavo progressivamente all’idea di
conquistare la ricchezza in modo disonesto, e inatteso, con
la poesia — ho sempre cercato di considerare l ’arte come
un mezzo e non come un fine - mi dissi allegramente:
«Dovrei andare a trovare Gide, è milionario. Ma si, fac­
ciamoci due risate, vediamo di infinocchiare quel vecchio
letterato! »
ARTHUR CRAVAN 267

E subito, che cosa non può l’eccitazione?, mi conce­


devo una prodigiosa capacità di successo. Scrivevo un bi­
glietto a Gide, valendomi della mia parentela con Oscar
W ilde; Gide mi riceveva. Una sorpresa per lui la mia sta­
tura, le mie spalle, la mia bellezza, le mie stranezze, le mie
trovate. Gide impazziva per me, io lo trovavo gradevole.
Siamo già in viaggio verso l'Algeria — lui ripeteva il viag­
gio di Biskra e io l’avrei portato fino alle coste dei Somali.
Mi veniva subito un bell’aspetto abbronzato, poiché mi
sono sempre un po’ vergognato di essere bianco. E Gide
pagava carrozze di prima classe, nobili cavalcature, alber­
ghi di lusso, amori. Potevo finalmente realizzare qualcuna
delle mie innumerevoli personalità. Gide pagava, pagava
sempre; oso sperare che non m’intenterà causa chieden­
domi danni e interessi, se gli confesso che nelle malsane
sfrenatezze della mia immaginazione galoppante gli ave­
vo fatto vendere perfino la sua solida fattoria normanna,
per soddisfare fino in fondo i miei capricci di adolescente
moderno.
Ah! mi rivedo ancora come m’immaginavo allora, con
le gambe allungate sui sedili del rapido mediterraneo,
sballandole grosse per divertire il mio mecenate.
Forse diranno di me che ho dei costumi da Androgide.
Lo diranno?
Del resto, i miei piccoli progetti di sfruttamento sono
riusciti cosi male che devo vendicarmi. Per non allarmare
oltre misura i nostri lettori di provincia, aggiungerò che
il signor Gide cominciò a starmi veramente sullo stomaco
il giorno in cui mi resi conto, come ho già fatto capire in
precedenza, che non sarei riuscito a spillargli neanche un
centesimo; in compenso, quel mezze-maniche ebbe l’impu­
denza di stroncare, per motivi di prestigio, quel cherubino
nudo che si chiama Théophile Gautier.
Volevo dunque andare a trovare il signor Gide. Mi ri­
cordo che a quell’epoca non possedevo una marsina, e an­
cor oggi lo rimpiango, perché mi sarebbe stato facile sba­
268 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

lordirlo. Appena giunto vicino alla sua villa, mi ripetei


le frasi sensazionali che mi ripromettevo di inserire nel
corso della conversazione. Un istante dopo suonai alla por­
ta. Mi venne ad aprire una governante (il signor Gide non
ha camerieri). Mi fece salire al primo piano e mi pregò di
aspettare in una specie di sgabuzzino in fondo a un corri­
doio piegato ad angolo retto. Passando, avevo gettato
un'occhiata curiosa in alcune stanze, cercando di cogliere
in anticipo qualche informazione sulle camere degli ospi­
ti. Adesso me ne stavo seduto nel mio angolino. Delle
vetrate, che io trovavo piuttosto racchie, illuminavano
uno scrittoio su cui erano sparsi dei fogli ancora freschi
d'inchiostro. Naturalmente non rinunciai a commettere la
piccola indiscrezione che immaginate. E sono in grado di
informarvi che il signor Gide corregge e ricorregge terri­
bilmente la sua prosa e che al tipografo deve mandare al­
meno la quarta stesura.
La governante venne a chiamarmi e mi riportò al pian­
terreno. Stavo per entrare nel salotto quando dei botoli
turbolenti si misero ad abbaiare. Ci si doveva aspettare
qualche inconsulta grossolanità? Ma il signor Gide stava
per arrivare. Tuttavia ebbi tutto il tempo di darmi un'oc­
chiata intorno. Alcuni mobili moderni e poco azzeccati in
una stanza spaziosa; niente quadri, muri nudi (un'inten­
zione di semplicità o un'intenzione un po' semplice) e so­
prattutto un puntiglio tutto protestante nell'ordine e nel­
la pulizia.
Per un attimo mi vennero i sudori freddi all'idea che
forse avevo insudiciato i tappeti. Avrei probabilmente
spinto la mia curiosità un poco oltre, o avrei ceduto alla
squisita tentazione di ficcarmi in tasca qualche oggettino,
se non avessi avuto la irrefrenabile sensazione che il signor
Gide si stesse documentando da qualche buchetto segreto
della tappezzeria. Se ho sbagliato, prego il signor Gide di
voler accettare le scuse pubbliche e immediate che devo
alla sua dignità.
Arthur Cravan
270 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Finalmente Puomo apparve. (Ciò che mi colpi maggior­


mente a partire da quell’istante fu che non mi offri assolu­
tamente nulla, a parte una seggiola; mentre tutti sanno
che verso le quattro del pomeriggio una tazza di tè, se si
tiene proprio all’economia, o meglio ancora qualche liquo­
re orientale, sono giustamente considerati, nella società
europea, atti a suscitare quella disposizione di spirito che
le è necessaria per essere talvolta brillante).
- Signor Gide, - incominciai, - mi sono permesso di
venirvi a trovare, e tuttavia penso che sia meglio dichia­
rarvi senza indugi che preferisco per esempio di gran lun­
ga la boxe alla letteratura.
— Eppure, - rispose seccamente il mio interlocutore, -
la letteratura è il solo piano su cui potremmo incontrarci.
Pensai: l’illustre buontempone!
Parlammo dunque di letteratura, e poiché stava per far­
mi la domanda che doveva essergli particolarmente cara:
«Che cosa avete letto di mio?», io sillabai senza batter
ciglio, con lo sguardo piu schietto del mondo: - Ho paura
di leggervi —. Immagino che il signor Gide dovette alquan­
to sobbalzare.
Arrivai allora, poco a poco, a piazzare nel discorso le fa­
mose frasi che mi ero preparato, pensando che il roman­
ziere dovesse essermi grato di poter utilizzare, dopo lo zio,
anche il nipote. Gettai dapprima con noncuranza: - La
bibbia è il più grande successo editoriale —. Un attimo do­
po, poiché era cosi gentile da interessarsi dei miei genitori:
- Mia madre e io, - dichiarai allegramente, - non siamo
nati l ’uno per l ’altra.
Quando l ’argomento letteratura ritornò sul tappeto, ne
approfittai per parlar male di almeno duecento autori vi­
venti, degli scrittori ebrei in generale e di Charles-Henri
Hirsch in particolare, e aggiunsi: — Heine è il Cristo de­
gli scrittori ebrei moderni —. Di tanto in tanto lanciavo
qualche occhiatina discreta e maliziosa al mio ospite, che
mi ricompensava con risolini soffocati, ma che, dovrò pur
ARTHUR CRAVAN 271

dirlo, era ben in ritardo rispetto a me, e che pareva con­


tentarsi di registrare, perché non aveva probabilmente
preparato nulla.
A un certo punto, troncando una conversazione filoso­
fica e cercando di somigliare a un Budda che schiuda le sue
labbra una volta ogni diecimila anni, mormorai: - La gran­
de Pagliacciata, è nell’Assoluto —. A l momento di conge­
darmi, con un tono molto stanco e molto vecchio, pregai:
— E col tempo, signor Gide, a che punto siamo col tem­
po? — Saputo che erano le sei meno un quarto, mi alzai,
strinsi affettuosamente la mano dell’artista e me ne andai,
portandomi nella mente il ritratto di uno dei nostri più fa­
mosi contemporanei, ritratto che ora cercherò di schizza­
re, se i miei cari lettori vorranno accordarmi ancora un mi­
nuto della loro benevola attenzione.
Il signor Gide non ha l’aria di un trovatello, né di un
elefante, e nemmeno di tanti altri uomini: ha l’aria di un
artista; gli farò un solo complimento, del resto poco pia­
cevole, constatando che la sua piccola pluralità deriva dal
fatto di poter essere facilmente scambiato per un guitto.
La sua ossatura non ha nulla di notevole; ha le mani di
un fannullone, bianchissime, vi giuro! N ell’insieme è un
piccolo personaggio. — Il signor Gide deve pesare circa
cinquantacinque chili e misurare pressappoco un metro e
sessantacinque. Il suo modo di camminare tradisce un pro­
satore che non potrà mai scrivere un verso. Con tutto ciò,
l’artista ha un viso malaticcio, da cui si staccano, verso le
tempie, delle pellicine un po’ più grandi di quelle della
forfora, inconveniente che viene descritto volgarmente
dal popolo con la frase: «quello spela».
Tuttavia l ’artista non ha affatto l’aria nobilmente deva­
stata del prodigo che dilapida ricchezza e salute. No, cen­
to volte no: l ’artista sembra voler provare al contrario che
si cura meticolosamente, che bada all’igiene, e prende le
sue distanze da un Verlaine, che portava la sifilide come
si porta il mal sottile; sono inoltre persuaso, salvo sua
2J2 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

smentita, di non rischiare troppo affermando che non fre­


quenta né donne di facili costumi né luoghi di perdizio­
ne; tutti questi segni ci danno il piacere di constatare, co­
me ne avremmo avuto spesso l ’occasione, che egli è un uo­
mo prudente.
Vidi il signor Gide una volta sola per la strada: stava
uscendo da casa mia, e gli mancavano pochi passi prima di
svoltare e di scomparire alla mia vista; lo vidi fermarsi
davanti a una bancarella di libri: e dire che c’era un nego­
zio di strumenti chirurgici e una pasticceria.
Dopo d’allora, il signor Gide mi scrisse una vo lta1, e
non lo rividi mai più.
Ho fatto vedere l’uomo, ed ora avrei mostrato volen­
tieri anche la sua opera, se vi fosse almeno un solo punto
in cui non fossi obbligato a ripetermi.

1 La lettera autografa del signor Gide può essere ritirata nei nostri
uffici al prezzo di franchi 0,15.
Franz Kafka
1883-1924

Sulla trama dell’uomo medio dei nostri giorni, del passante che
s’affretta parallelo ai rovesci di pioggia, in una luce dai colori smor- .
ti come le stoffe di un campionario, Kafka fa passare come una raf­
fica l’interrogativo capitale di ogni tempo: dove andiamo, a chi sot­
tostiamo, qual è la legge? L ’individuo uomo si dibatte al centro di
un gioco di forze il cui senso generalmente gli sfugge, e la sua rinun­
cia a cercarlo, la sua mancanza totale di curiosità sembrano essere
la condizione stessa per adattarsi alla vita sociale: è ben raro che il
mestiere di ciabattino o di ottico siano compatibili con una medita­
zione profonda sui fini dell’agire umano. Il pensiero di Kafka sposa
ogni fascino, ogni sortilegio della stupenda Praga, la sua città nata­
le: benché segni l ’attimo presente, esso gira simbolicamente a ritro­
so con le lancette dell’orologio della sinagoga, regola a mezzogiorno
il dibattersi dei gabbiani sulla Moldava, risveglia al tramonto, per
sé solo, i forni spenti della piccola strada degli Alchimisti, vero
quartiere riservato dello spirito. Questo pensiero, profondamente
pessimista, non nasconde le sue affinità con quello dei moralisti
francesi: pensiamo in particolare all’ultimo, uno tra i piu grandi di
essi, Alphonse Rabbe, secondo il quale «Dio ha sottoposto il mon­
do all’azione di certe leggi secondarie che operano in vista di uno
scopo a noi ignoto, annunciandoci tuttavia, tramite la voce potente
dell’istinto morale, il mondo invisibile delle riparazioni solenni,
dove tutto sarà svelato, e sarà chiarito». Ma gli eroi di Kafka si sca­
gliano invano contro la porta di questo mondo: l’uno, nell’ango­
sciosa ignoranza di ciò di cui è accusato, sarà giustiziato senza pro­
cesso; l’altro, convocato in un castello, non potrà scoprirne l’in­
gresso, malgrado gli sforzi più sfibranti. Il problema che qui è po­
sto in tutta la sua portata, è quello dell’oscura necessità naturale, in
quanto essa si contrappone alla necessità umana o logica, rendendo
chimerica ogni aspirazione profonda alla libertà.
Il sogno ha fornito a Kafka una soluzione provvisoria di questo

IO
27 4 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

conflitto. Gli oggetti virtuali che lo popolano cessano infatti di es­


sere estranei all’uomo immerso nel sonno; la loro presenza è sem­
pre giustificabile, la fiamma delibo li illumina da ogni lato e, uscen­
do dal corpo umano inerte, può giungere a percorrerli interior­
mente.
«Io» mi confondo con ciò da cui, durante la veglia, tutto mi se­
para. Nessuno come Kafka ha saputo innervare con la propria sen­
sibilità le cose inanimate, nessuno ha saputo riprendere in modo
piu flagrante l’insegnamento dei Vers dorés di Gerard de Nerval.
Impiegato in Austria nell’amministrazione delle acque, possiamo
illuderci che fosse in suo potere far correre e guidare quelle acque
attraverso la foresta delle condutture cosi come, con la sua sola so­
stanza emozionale, egli seppe tessere una tela che annulla ogni solu­
zione di continuità tra i regni e le specie, fino all’uomo, e che tut-
t’intera vibra al minimo contatto.
Nessuna opera si schiera con maggior vigore contro l’accettazio­
ne di un principio sovrano che sia al di fuori del soggetto pensante:
«Nella marmitta di Kafka, è stato detto, ciò che bolle è l ’uomo.
Cuoce a fuoco lento nel brodo tenebroso dell’angoscia, ma l’hu-
mour fa saltare il coperchio e traccia nell’aria, in lettere blu, formu­
le cabalistiche».

LA M ETAM O R FO SI

Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni in­


quieti, si trovò mutato, nel suo letto, in un insetto mo­
struoso. Era disteso sul dorso, duro come una corazza, e
alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre bruno
convesso, solcato da nervature arcuate, sul quale si man­
teneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra.
Una quantità di gambe, compassionevolmente sottili in
confronto alla sua mole, gli si agitava dinanzi agli occhi.
«Che mi è accaduto? » pensò. Non era un sogno. La sua
camera, una camera normale da essere umano, soltanto un
po’ troppo piccola, aveva il solito aspetto fra le quattro
note pareti. A l di sopra del tavolo, su cui era spiegato un
FRANZ KAFKA 2 7 5

campionario di stoffe - Samsa era commesso viaggiatore -


era appesa una fotografia che egli stesso aveva ritagliato
qualche giorno prima da un giornale illustrato e incorni­
ciato con una bella cornice dorata. Rappresentava una si­
gnora con un berretto e una sciarpa di pelliccia, che sede­
va rigida e levava verso il riguardante un enorme manicot­
to in cui le scompariva tutto l’avambraccio.
Lo sguardo di Gregorio si levò allora alla finestra e il
cielo tetro - si sentivano battere le gocce di pioggia sul da­
vanzale di lamiera - fini di renderlo malinconico. «Se dor­
missi ancora un poco e dimenticassi tutte queste pazzie? »
pensò; ma fu assolutamente impossibile; era abituato a
dormire sul lato destro, e nel suo stato attuale non gli riu­
scì di mettersi in quella posizione. Per quanto tentasse con
tutta la sua forza di gettarsi sul fianco, oscillava sempre
e ricadeva in posizione dorsale. Lo tentò piu di cento vol­
te, a occhi chiusi per non vedere tutte quelle gambe guiz­
zanti, e rinunziò soltanto quando incominciò a sentire nel
fianco un dolore leggero, sordo, non ancora mai provato.
«Dio mio! - pensò, - che mestiere gravoso ho mai scel­
to! Ogni giorno viaggiare! Preoccupazioni d’affari molto
più gravi che quando avevamo negozio noi, e per di più
questo tormento del viaggiare; l’affanno delle coinciden­
ze, i pasti cattivi a ore irregolari, e coi propri simili delle
relazioni che mutano sempre, che non durano mai, che non
divengono mai cordiali. Al diavolo tutto questo! » Senti un
leggero prurito al ventre; si spostò adagio sulla schiena
verso la testiera del letto, per poter alzare meglio il capo;
trovò il punto che gli prudeva, coperto di puntini bian­
chi, di cui non seppe cosa pensare, e volle tastarlo con una
zampina, ma la ritirò tosto perché al contatto brividi di
freddo lo avvolsero.
Scivolò nuovamente nella posizione primitiva. «Que­
sto alzarsi presto istupidisce proprio, — pensò. - L ’uomo
ha bisogno di dormire. Eppure ci sono viaggiatori di com­
mercio che vivono come donne in un harem. Se mi accade
276 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

per esempio di rientrare in albergo prima di mezzogiorno


per trasmettere le ordinazioni ricevute, trovo questi signo­
ri che fanno appena la prima colazione. Provassi io col mio
principale, mi caccerebbe sui due piedi. Chi sa del resto se
non sarebbe una fortuna per me. Se non mi frenassi per
amore dei miei genitori, già da un pezzo mi sarei licen­
ziato, sarei andato dal principale e gli avrei detto quel­
lo che penso, senza peli sulla lingua. Giù dalla scrivania
avrebbe dovuto piombare! Già è una mania curiosa quel­
la sua di sedersi sulla scrivania e di parlare di lassù all’im­
piegato, che per di più, sordo com’è il principale, deve ve­
nirgli fin sotto il naso... Ma, la speranza non è ancor per­
duta. Quando avrò potuto racimolare tanto denaro da pa­
gargli il debito dei miei genitori - ci vorranno ancora cin­
que o sei anni - lo faccio, oh, se lo faccio! Rottura defini­
tiva! Intanto però bisogna che mi alzi, perché il mio treno
parte alle cinque».

Per prima cosa voleva alzarsi tranquillo e indisturbato,


vestirsi e soprattutto far colazione, e poi pensare al resto,
poiché, di questo si rendeva ben conto, finché restava a
letto le sue riflessioni non avrebbero avuto una conclusio­
ne ragionevole. Si ricordava di aver sentito sovente, stan­
do coricato, qualche leggero dolore provocato dalla posi­
zione cattiva, che poi nell’alzarsi risultava pura immagina­
zione, e aspettava con curiosità di veder dissolversi a poco
a poco le sue fantasie d’oggi. Che il cambiamento di voce
non fosse se non il presagio di un violento raffreddore, la
malattia professionale dei viaggiatori di commercio, di
questo egli non aveva il menomo dubbio.
Gettare la coperta fu semplicissimo; gli bastò gonfiarsi
un poco e quella cadde da sé. Ma il resto divenne difficile,
soprattutto perché egli era divenuto cosi smisuratamente
largo. Braccia e mani sarebbero state necessarie per tirar­
si su; invece egli non aveva che le innumerevoli zampine
Franz Kafka
2/8 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

ininterrottamente vibranti e che non sapeva dominare. Se


ne voleva piegare una gli toccava stirarsi tutto; e se gli riu­
sciva finalmente di eseguire il movimento voluto, tutte le
altre gambe, scatenate, lavoravano frattanto con febbrile,
dolorosa eccitazione. «Inutile restare a letto per nulla», si
disse Gregorio.
Dapprima voleva uscir dal letto con la parte inferiore
del corpo, ma questa parte che egli del resto non aveva
ancor veduto e di cui non si faceva un’immagine esatta, si
dimostrò troppo difficile a smuovere; la manovra era cosi
lenta; e quando egli, infine, inferocito, si spinse avanti a
tutta forza senza riguardo, scelse male la direzione, urtò
con violenza contro il fondo del letto, e l’acuto dolore pro­
vato gli insegnò che appunto la parte inferiore del suo cor­
po era per il momento la più sensibile.
Tentò dunque di estrarre dal letto prima il tronco e vol­
se cautamente il capo verso la sponda. Questo gli riuscì
facilmente e nonostante la sua larghezza e il suo peso, tut­
ta la massa del corpo fini per compiere la stessa conver­
sione. Ma quando potè finalmente tenere la testa al di fuo­
ri del letto, sospesa nel vuoto, la paura lo colse; perché se
egli si lasciava cadere a quel modo si sarebbe certo fracas­
sato la testa, a meno di un miracolo. E a nessun costo a-
vrebbe voluto perdere i sensi proprio adesso; piuttosto
sarebbe rimasto a Ietto.
Ma quando, con rinnovata fatica e con molti sospiri,
si fu rimesso a giacere come prima e vide di nuovo le sue
zampine lottare l’una contro l’altra con accanimento an­
cor maggiore e non intravvide alcuna possibilità di por­
tare la pace e l’ordine in quell’anarchia, tornò a dirsi che
era impossibile restare a letto e che bisognava sacrificare
tutto alla speranza, fosse pur lieve, di togliersi di li. Né
trascurò di ammonire se stesso che una calma e tranquilla
deliberazione valeva molto di più di una risoluzione di­
sperata. In simili frangenti egli soleva cercare ispirazione
guardando fuori della finestra, ma oggi purtroppo, data
FRANZ KAFKA 279
la nebbia mattutina che velava persino il lato opposto del­
la strada stretta, quella vista non gli diceva proprio nulla.
«Già le sette, - si diss'egli al nuovo suono della sveglia, -
già le sette e ancora tanta nebbia». E per un momento
giacque fermo, col respiro leggero, come se attendesse dal­
la calma completa il ritorno alla situazione normale.
Poi si disse: «Prima che siano le sette e un quarto, bi­
sogna assolutamente che io abbia lasciato il letto. Frattan­
to verrà certo qualcuno della ditta a chiedere di me, poi­
ché l'ufficio si apre prima delle sette». E si accinse a roto­
larsi fuori del letto con tutto il corpo simultaneamente.
Lasciandosi cadere cosi, la testa, tenuta ben sollevata, sa­
rebbe probabilmente rimasta illesa. La schiena pareva so­
lida e la caduta sul tappeto non le farebbe alcun male. La
preoccupazione maggiore era il fracasso inevitabile, che
susciterebbe dietro a ogni porta se non il terrore almeno
una certa apprensione. Ma era necessario osare.
Quando Gregorio si fu sporto per metà dal letto - il
nuovo metodo era piuttosto un gioco che uno sforzo, egli
non aveva che da muoversi oscillando, a scosse - gli venne
in mente quanto sarebbe stata facile Pimpresa se qualcu­
no gli fosse venuto in aiuto. Sarebbero bastate due per­
sone forti, per esempio suo padre e la domestica; facendo
passare le braccia sotto il suo dorso arcuato, lo avrebbero
sgusciato dal letto e non avrebbero avuto che da chinarsi
col peso e lasciarlo cautamente eseguire la sua conversio­
ne sul pavimento, dove c'era da augurarsi che le zampine
avrebbero acquistato qualche utilità. Ma, a parte il fatto
che le porte erano chiuse a chiave, avrebbe fatto bene a
chiamare aiuto? A questo pensiero, nonostante la difficol­
tà in cui si trovava, non potè reprimere un sorriso.
Era già tanto avanti che alle oscillazioni piu forti riu­
sciva a malapena a mantenere Pequilibrio, e presto avreb­
be dovuto decidersi perché mancavano cinque minuti alle
sette e un quarto, quando suonarono alla porta di casa.
«Qui c'è qualcuno della ditta», egli disse, e si senti ag-
28o ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

ghiacciare il sangue mentre le sue zampette danzavano an­


cor più sollecite. Per un minuto tutto restò quieto. «Non
aprono», si disse Gregorio in preda a chi sa quale assurda
speranza. Poi, come sempre, la domestica andò alla porta
con passo fermo, e apri. A Gregorio bastò di udire la pri­
ma parola di saluto del visitatore per sapere chi era: il ge­
rente in persona. Perché mai Gregorio era condannato a
servire in una ditta dove la più piccola mancanza dava luo­
go ai più gravi sospetti? G li impiegati erano forse tutti
mascalzoni dal primo all’ultimo, non ci poteva esser fra
loro una creatura fedele e devota che per aver sottratto
al suo lavoro anche soltanto un paio d ’ore mattutine am­
mattiva dal rimorso e non era neppur più in grado di al­
zarsi dal letto? Non bastava mandare un apprendista — se
era proprio necessario mandar qualcuno - doveva venire
il gerente in carne e ossa, per mostrar bene all’intera fa­
miglia (che non c’entrava affatto) che l’inchiesta su una
faccenda cosi sospetta non poteva essere affidata se non al
senso del gerente? E Gregorio, più che per l’eccitazione
in cui fu messo da queste considerazioni, che per una vera j
decisione, si buttò a tutta forza fuori del letto. Fu un col­
po forte, ma non il fragore che aveva temuto. La caduta
fu in parte attutita dal tappeto, e la schiena era più elasti­
ca di quel che Gregorio si era immaginato, perciò il rumo­
re fu sordo e non troppo allarmante. Soltanto non aveva
sollevato abbastanza la testa e l ’aveva battuta sul pavi­
mento; la volse in qua e in là soffogandola sul tappeto
per la rabbia e il dolore.

Per schiarirsi il più possibile la voce in vista delle immi­


nenti spiegazioni, egli tossicchiò un poco, sforzandosi però
di smorzare anche questo rumore che probabilmente suo­
nava esso pure diverso dalla tosse umana; tuttavia egli non
osava giudicarne da sé. Nella camera attigua s’era fatto si­
lenzio. Forse i genitori erano seduti col gerente intorno al-
FRANZ KAFKA 281

la tavola e parlavano sottovoce, forse erano tutti dietro alla


porta a origliare.
Gregorio si spinse lentamente con la seggiola fino alla
porta, lasciò la seggiola e si gettò contro la porta mante-
nendovisi ritto — sulle estremità delle sue zampine c’era
una sostanza attaccaticcia —e si riposò un istante dallo sfor­
zo. Poi si accinse con la bocca a far girare la chiave nella
serratura. Purtroppo, a quel che sembrava, egli era sprov­
visto di veri e propri denti - come afferrare la chiave? -
ma in compenso le mandibole erano molto solide e, serven­
dosi di quelle, egli riuscì a mettere in moto la chiave, senza
por mente al male che si faceva. Infatti un liquido bruno
gli usciva dalla bocca, scorreva sulla chiave e gocciolava a
terra. « Ascoltate, — disse il gerente nell’altra camera, — egli
gira la chiave». Questo fu per Gregorio un incoraggiamen­
to; avrebbe desiderato che tutti, anche il padre e la ma­
dre, gli gridassero: «Coraggio, Gregorio, avanti, dagli con
quella chiave!». E immaginando che tutti seguissero con
ansia i suoi sforzi, radunando tutta la sua energia e quasi
demente, egli diede di morso nella chiave. Seguendo il pro­
gresso della chiave che si volgeva nella serratura, egli vi
ballonzolava attorno, rimanendovi appeso per la bocca, e,
secondo il bisogno, ora tirava in giù la chiave e ora vi pre­
meva sopra con tutto il peso del suo corpo. Il suono chiaro
e metallico che fece la serratura scattando finalmente, ri­
svegliò del tutto Gregorio. Con un sospiro di sollievo egli
si disse: «Ho fatto a meno del fabbro» e appoggiò il capo
alla maniglia per tirare a sé il battente.
In quel momento la porta era già spalancata prima che
egli fosse visibile. Dovette girare pian piano attorno al bat­
tente con molta cautela per non ricadere goffamente supi­
no proprio sulla soglia. Era ancora occupato in quella com­
plicata manovra e non aveva tempo di badare ad altro,
quando udì il gerente emettere un lungo «oh! » — pareva il
vento quando sibila — e subito lo vide (poiché era il più vi­
cino alla porta) premersi la mano sulla bocca aperta e indie-
282 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

treggiare lentamente, come se una forza invisibile e costan­


te lo ricacciasse indietro. La madre, che nonostante la pre­
senza del gerente aveva ancora i capelli sciolti e arruffati,
guardò il padre, le mani giunte, poi fece due passi verso
Gregorio e cadde a terra, fra le sottane che le si allargavano
intorno, il viso tanto chino sul petto che non lo si scorgeva
piu. Il padre serrò i pugni con un’espressione ostile, quasi
volesse respingere Gregorio nella sua camera, poi si guar­
dò intorno incerto, si adombrò gli occhi colle mani e pian­
se, col petto poderoso scosso dai singhiozzi.
Gregorio non avanzò nella stanza ma si appoggiò di den­
tro al battente ancor chiuso, cosi che non restavano visibili
altro che metà del suo corpo e la testa inclinata da un lato
per spiare gli altri. Intanto s’era fatto chiaro, dall’altro lato
della strada si vedeva nitidamente una fetta della casa di
fronte, grigia, indefinita - era un ospedale - con le sue fine­
stre rigide e regolari che tagliavano la facciata; la pioggia
continuava a cadere, ma in grosse gocce distinte che piom­
bavano a terra a una a una. Sulla tavola era servita una co­
lazione complicata, poiché per il padre la prima colazione
era il pasto più importante della giornata, che egli prolun­
gava per ore e ore accompagnandolo con la lettura di vari
giornali. Alla parete opposta era appesa una fotografia di
Gregorio al tempo del servizio militare; era in divisa di te­
nente, la mano alla sciabola, un sorriso spensierato sulle
labbra, con l ’aria di esigere rispetto per il suo contegno e
per la sua uniforme. La porta verso l’ingresso era aperta
e quella dell’appartamento pure, lasciando scorgere il pia­
nerottolo e un primo tratto di scala.
FRANZ KAFKA 283

U N IN C R O C IO

Posseggo una strana bestiola, metà gattino metà agnel­


lo. Proviene dall’eredità paterna. Però si è sviluppata da
quando è con me, prima era piu agnello che gattino. Ora
invece ha tanto delPuno quanto dell’altro. Del gatto ha la
testa e gli artigli, dell’agnello la grossezza e la figura; di
entrambi gli occhi sfavillanti e selvaggi, la pelliccia mor­
bida e attillata, i movimenti ora saltellanti ora striscianti.
Sul davanzale al sole si acciambella e fa le fusa, sul prato
corre come ammattita e non si lascia acchiappare. Fugge
davanti ai gatti, vuol gettarsi addosso agli agnelli. Nelle
notti di luna la grondaia è la sua passeggiata prediletta.
Non sa miagolare e ha orrore dei topi. È capace di stare
in agguato per ore e ore vicino al pollaio, ma non ha mai
sfruttato un’occasione d ’uccidere.
Io la nutro con dolce latte, è la cosa che più le si ad­
dice. A lunghi sorsi lo succhia attraverso i suoi denti di
animale da preda. Naturalmente per i bambini è un vero
spettacolo. La domenica mattina è il giorno di ricevimen­
to. Io ho la bestiola in grembo e tutti i bambini del villag­
gio mi stanno intorno.
Allora vengono fatte le domande piu stupefacenti, a
cui nessuno può rispondere: perché ce n’è soltanto una di
simili bestiole, perché la posseggo proprio io, se ce ne so­
no mai state delle altre, e come sarà quando sarà morta, se
si sente solitaria, perché non ha dei piccoli, come si chia­
ma, eccetera.
Io non mi affanno a rispondere, e mi accontento di mo­
strare quel che posseggo, senza altre spiegazioni. A volte
i bambini portano dei gatti con sé; un giorno portarono
addirittura due agnelli. Ma contrariamente a quel che s’a­
spettavano non vi furono scene di riconoscimento. Le be-
284 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

stie si guardarono tranquille coi loro occhi di bestie, ed


era chiaro che consideravano reciprocamente la loro esi­
stenza come un fatto divino.
Sulle mie ginocchia la bestiola non conosce terrori né
bramosia di caccia. Ben stretta contro di me si sente me­
glio che in qualunque luogo. Essa è attaccata alla famiglia
che l’ha allevata. Non si tratta di una fedeltà eccezionale,
ma del giusto istinto d ’una bestia che ha sulla terra innu­
merevoli affini, ma forse neppure un consanguineo, e cui
perciò la protezione che ha trovato presso di noi è sacra.
Sovente non posso trattenere il riso quando mi gira in­
torno annusandomi, mi si attorciglia alle gambe e non si
vuol piu staccare da me. Non le basta essere agnello e gat­
to, vuole anche essere un cane.
Un giorno che io, come può succedere a ognuno, non
sapevo piu come districarmi nei miei affari, e volevo man­
dar tutto al diavolo, e in questo stato d ’animo me ne stavo
sdraiato sulla sedia a dondolo, con l ’animale sulle ginoc­
chia, guardando giu per caso vidi stillare delle lacrime sui
peli dei suoi enormi baffi. Erano le sue lacrime? Erano le
mie? Questo gatto con l ’anima d’agnello aveva anche am­
bizioni umane? Non ho ereditato grandi cose da mio pa­
dre, ma di quest’eredità sono abbastanza fiero.
Essa ha in sé le due inquietudini, quella del gatto e
quella dell’agnello, per quanto diverse esse siano. Perciò
si sente a disagio nella sua pelle. A volte salta sulla seggio­
la vicino a me, appoggia le zampe anteriori alle mie spalle
e tiene il muso presso il mio orecchio. Sembra che mi dica
qualcosa e infatti si piega in avanti e mi guarda in viso per
osservare l ’impressione che la notizia datami ha fatto su
di me. E per esser compiacente io faccio mostra di aver
capito e accenno di si. Allora essa balza a terra e mi sal­
tella intorno.
Forse il coltello del macellaio sarebbe una liberazione
per questo animale, ma avendolo ereditato bisogna che io
gliela neghi. Perciò dovrà aspettare fin tanto che il respiro
FRANZ KAFKA 28 5

gli si arresti spontaneamente, anche se qualche volta mi


guarda con ragionevoli occhi umani che mi invitano a una
ragionevole azione.

IL PO N TE

Ero rigido e freddo; ero un ponte, gettato sopra un


abisso. Da questa parte erano conficcate le punte dei piedi,
dalFaltra le mani; avevo i denti piantati in un’argilla fria­
bile. Le falde della mia giacca svolazzavano ai miei fianchi.
Giù nel profondo rumoreggiava il gelido torrente dove
guizzano le trote. Nessun turista veniva a smarrirsi in
quelle alture impervie, il ponte non era ancor segnato sulle
carte. Cosi giacevo e aspettavo, dovevo aspettare. Una
volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte
senza precipitare.
Un giorno verso sera - fosse la prima, fosse la millesi­
ma, non saprei dire - i miei pensieri erano un guazzabu­
glio, e facevano una ridda. Verso sera, d’estate, più cupo
scrosciava il torrente, ecco che udii un passo umano! A me,
a me! Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spal­
letta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibil­
mente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti co­
noscere e lancialo sulla terra come un Dio montano.
Egli venne, mi percosse con la punta ferrata del suo ba­
stone, poi sollevò le falde del mio abito e me le depose
in ordine sul dorso. Infilò la punta del bastone nei miei ca­
pelli folti e ve la mantenne a lungo; probabilmente egli
si guardava d ’intorno con aria feroce. Poi a un tratto - io
stavo appunto seguendolo trasognato per monti e valli -
saltò a piedi giunti nel mezzo del mio corpo. Rabbrividii
per l ’atroce dolore, del tutto inconscio. Chi era? Un fan­
ciullo? Un sogno? Un grassatore? Un suicida? Un tenta­
286 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

tore? Un distruttore? E mi volsi per vederlo. Il ponte che


si volta! Non ero ancora voltato e già precipitavo, preci­
pitavo ed ero già dilaniato e infilzato dai ciottoli aguzzi
che mi avevano sempre fissato cosi pacificamente attraver­
so l’acqua scrosciante,

Trad. di Anita Rho, Frassinella Milano 1968.


Jacob van Hoddis
1884-1921

Una banderuola canta nel cielo di Berlino, una pompa incantata


ride sotto il ghiaccio nella campagna: è un piccolo libro di poesie
che non vuol bruciare, che si rifiuta di subire la sorte di tante altre
opere che la dittatura hitleriana ha votato all’autodafé, nella spe­
ranza di arrestare la marcia ininterrotta del pensiero rivoluzionario.
Siamo alla punta estrema della poesia tedesca: la voce di Van Hod­
dis ci giunge dal ramo più alto e più sottile deir albero folgorato.
L’uomo, che per un attimo si accompagna ad Arp, si segnala per il
suo comportamento bizzarro: invitato a cena, batte a tutto spiano
il cucchiaio, per far rumore, e poco ci manca che, come Harpo Marx,
tenda la gamba alle signore. Alla svolta storica rappresentata dalla
fine della guerra, che si fece cosi crudelmente sentire in Germania,
scompare in una casa di cura. Belle canzoni dei manicomi, dove si
esalta il sentimento di una libertà totale - i raduni, militari o no, si
spezzano contro i loro muri - noi siamo con esse nel paese stesso
deirhumour nero, lo riconosciamo dal suo aspetto immutabile, sim­
bolico, misterioso: sciami bianchi di mosche, tappeti di fiori, gatti
che germogliano verde.

L ’U O M O C H E SOGNA

Notte verdazzurra, i muti colori ardono.


È minacciato dal rosso raggio delle lance
e da brutali corazze? Sfilano qui gli eserciti di Satana?
Le macchie gialle natanti nell’ombra
sono occhi di grandi vacui cavalli.
288 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Il suo corpo è nudo e pallido e senza difesa.


Un rosa pallido suppura dalla terra.

TOH UB

Tre ometti cantano lassù


quest'orrida canzone:
Se cimici, pulci, pidocchi hai tu,
il tempo ti passerà presto.

Hai sempre qualcosa da schiacciare,


ti prude qua, ti prude là.
Puoi acchiappare e puoi pizzicare...
Ossignore! Alleluiali!

Perché mai devi annoiarti


quando vai nobilmente in malora.
Il minuto ti diventa ora,
tu vedi solo il tempo e poi brontoli.

Sul cranio senti i capelli,


ti cresce l'erba dietro le orecchie,
la mascella ti si fa raganella
che geme faticosamente negli anni
su e giù senza mai requie.

Tre ometti cantano lassù


quest'orrida canzone:
Se cimici, pulci, pidocchi hai tu,
il tempo ti passerà presto.

Salirono su nell'aurora
e cantarono giorno e notte,
JACOB VAN HODDIS 289

e disturbarono pranzo e cena


e aria e terra scoppiano.

IL V IS IO N A R R 1

Lampada non belare.


Dalla parete usci un sottile braccio di donna.
Era pallido e venato d’azzurro.
Le dita erano scarabocchiate di anelli preziosi.
Quando baciai la mano, mi spaventai:
era viva e calda.
La faccia mi fu tutta graffiata.
Presi un coltello da cucina e tagliai qualche vena.
Un gattone leccò graziosamente il sangue sul
pavimento.
Frattanto un uomo con i capelli rizzati sulla testa
strisciò su per un manico di scopa appoggiato di
traverso alla parete.

Trad, di Cesare Cases.

1 [Invece di Visionar (visionario), per incrocio con Narr (pazzo)].


Marcel Duchamp
1887-1968

Una volta varcato il fosso che separa le idee particolari da quelle


generali, cosa già peculiare delle grandi menti, il genio di Marcel
Duchamp consiste forse nell’averle a loro volta abbandonate per
andare incontro a quelle che si possono chiamare le idee generali
particolareggiate: cosi come ci si domanda se Maurice Scève, sotto
il nome di Delie abbia cantato una determinata donna, l ’ideale fem­
minile o semplicemente «ridea» (astratta da ogni rappresentazione
femminile) Vidée di cui Delie è l’anagramma.
Scavalcati deliberatamente i principi correnti della conoscenza e
deir esistenza, con Duchamp per la prima volta si è arrivati a «dare,
sempre o quasi sempre, il perché della scelta tra du^o piu soluzioni
(per causalità ironica)» cioè a fare intervenire il piacere perfino nel­
la formulazione delle leggi cui la realtà deve obbedire (esempi: «un
filo orizzontale cade da un metro d’altezza su un piano orizzontale
deformandosi a suo piacimento, e dà una nuova configurazione al-
l W t à di lunghezza», «per condiscendenza un peso è più pesante
in discesa che in salita», le bottiglie di marca (tipo Bénédictine) ob­
bediscono a un «principiodi densità oscillante»). In ciò risiede P«i-
ronia di affermazione», come Duchamp la chiama, che si contrappo­
ne all’«ironia di negazione che dipende solo dall’ilarità», ironia di
affermazione che sta all’humour come il fior di farina sta al grano.
Il mugnaio, nella fattispecie colui che, al termine di tutto il pro­
cesso storico di sviluppo del dandysmo ha accondisceso a vestire i
panni, secondo la definizione di Gabrielle Buffet, del « tecnico be­
nevolo», il nostro amico Marcel Duchamp insomma, è senz’altro
l’uomo più intelligente e (per molti) il più preoccupante di questa
prima parte del secolo ventesimo. Il problema del rapporto tra real­
tà e possibilità, problema che resta la grande sorgente dell’angoscia,
è risolto qui nel modo più audace: «La realtà possibile (si ottiene)
dilatando un poco le leggi fisiche e chimiche». Verrà senz’altro il
giorno in cui ci si dovrà preoccupare di stabilire rigorosamente l’or-
MARCEL DUCHAMP 29I

dine cronologico delle scoperte effettuate da Marcel Duchamp, se­


guendo questo metodo, nel campo delle arti plastiche, e la cui enu­
merazione va oltre i limiti di questa nota: il futuro dovrà sistemati­
camente risalire il corso di queste scoperte, esplorarne con precau­
zione i meandri, alla ricerca di quel tesoro nascosto che fu lo spirito
di Duchamp e, attraverso ciò che esso ha di piu raro e di piu prezio­
so, lo spirito stesso del nostro tempo, È in gioco tutta l’iniziazione
profonda al modo di sentire piu moderno, di cui l’humour si presen­
ta, in quest’opera, come la condizione implicita.
Dopo un fulmineo passaggio nella pittura (Jeune homme triste
dans un train, Nu descendant un escalier, Le roi et la reine entourés
de nus vîtes, Le roi et la reine traversés par des nus vites, Vierge,
Le passage de la Vierge à la Mariée, Mariée), Duchamp, mentre si
dedica, dal 1912 al 1923, a quella specie di «anti-capolavoro»: La
mariée mise à nu par ces célibataires même, che resta la sua opera
fondamentale, firma, come atto di protesta contro la sprovvedutez­
za, la mancanza di fantasia, e la vanità in arte, una serie di manufatti
(ready made) nobilitati a priori in virtù della sua sola scelta: attac­
capanni, pettine, portabottiglie, ruote di bicicletta, orinatoio, pala
da neve, ecc. In attesa di passare ai ready made reciproci («usare
un Rembrandt come asse da stiro») si dedica, sempre in questa di­
rezione, ai ready made corretti: Gioconda abbellita da un paio di
baffi, gabbia per uccelli piena di pezzetti di marmo bianco a imita­
zione di zollette di zucchero e attraversata da un termometro, ecc.
Troveremo qui di seguito, insieme a un certo numero di «ar­
rière-pensées» inedite e tipiche della sua maniera, una serie abba­
stanza completa di frasi costruite con parole sottoposte al «regime
della coincidenza»; frasi in cui questi oggetti hanno trovato il loro
accompagnamento ideale, e che brillano della luce stessa del loro
compenetrarsi, dimostrando ciò che ci si può aspettare, sul piano
del linguaggio, dal «caso in conserva», grande specialità di Marcel
Duchamp.
292 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Etrangler l’étranger \ Strangolare lo straniero12.

Eglise, exil. Chiesa, esilio3.

Des bas en soie... la chose Calze in se-ta... la cosa anche4,


aussi.

Un mot de reine, des maux Parola di regina, mali di reni5.


de reins.

Nous livrons des mousti- Consegnarne zanzare domestiche


ques domestiques (demi- (metà stock)6*
stock).

1 [Poiché la traduzione italiana dei testi che seguono deve necessaria­


mente limitarsi al loro significato letterale, ed è quindi ben lungi dal poter
chiarire la portata di quel « regime della coincidenza » di cui parla Breton,
si è ritenuto opportuno mantenere il testo originale, corredato da una
traduzione letterale e da una succinta nota che non vuol offrire altro che
una possibile chiave di lettura].
2 [Anagramma].
3 [Falso anagramma basato sull’assonanza tra il suono della x e quel­
lo del gruppo consonantico gs].
4 [Gioco di parole tra soie * seta e soi - sé].
5 [Gioco di parole basato suU’omofonia di mot - parola e maux =
mali, e sull’assonanza tra reine = regina e reins « reni].
6 [Falsi anagrammi fonetici ottenuti mediante spostamenti di vocali
e gruppi sillabici].
MARCEL DUCHAMP 293

*
Rrose Sélavy et moi esqui­ Rrose Sélavy, ed io schiviamo le
vons les ecchymoses des ecchimosi degli Esquimesi dal­
le parole squisite \
Esquimaux aux mots ex­
quis.
*
Le système métrite par un Il sistema metrite con un tempo
temps blennorrhagieux. blenorragico123
.

Fossettes d’aisance. Fossette di comodo \


*
My nice is cold because my Mia nipote è fredda perché le mie
knees are cold. ginocchia sono fredde 4.

A coups trop tirés. A colpi troppo sparati5.


*
Parmi nos articles de quin­ Tra Ì nostri articoli di chincaglieria
caillerie paresseuse nous pigra, raccomandiamo il rubi­
netto che smette di colare quan­
recommandons le robi­ do non lo si ascolta.
net qui s’arrête de couler
quand on ne l ’écoute pas.

1 [Gioco di parole complesso in cui Rrose Sélavy si legge come Rose,


c’est la vie, ed è uno degli pseudonimi usati da Marcel Duchamp; si ha
poi una serie di assonanze che culminano nella contrepèterie finale tra
Esquimaux e mots exquis].
2 [Il gioco di parole è basato sulla sostituzione di métrite = metrite,
malattia delle vie urinarie, a métrique - metrico, e sull’invenzione del­
l’aggettivo blénnorrhagieux, composto da blennorrhagique = blenorragi­
co, e orageux ** temporalesco].
3 [Sostituzione della parola fossettes = fossette delle guance, alla pa­
rola fosses, nell’espressione fosses d’aisances = pozzi neri].
4 [Assonanza tra niece e knees].
5 [Letta senza la r di trop, la frase si trasforma nell’espressione idio­
matica à couteau tiré = ai ferri corti].
294 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Avez-vous déjà mis la moel­ Avete già messo il midollo della


le de Pépée dans le poil spada nel pelo deiramata? *.
de P aimée?
*

Matin et soir: bains de gros Mattina e sera: bagni di grosso thè


thé pour grains de beau­ per nei senza troppo Bengué2.
té sans trop de Bengué.
*

Une nymphe amie d’en­ Una ninfa amica d’infanzia \


fance.
*

Physique de bagage : Fisica da viaggio:


Calculer la différence entre Calcolare la differenza tra i volumi
les volumes d ’air déplacé d’aria spostati da una camicia
pulita (stirata e piegata) e la
par une chemise propre stessa camicia sporca.
(repassée et pliée) et la
même chemise sale.
*
Il y a celui qui fait le pho­ C’è quello che fa il fotografo e
tographe et celle qui a de quella che ha il fiato di sotto4.
l ’haleine en dessous.
*

Inceste ou passion de fa­ Incesto o passione di famiglia.


mille.

1 [Contrepèterie non rigorosa tra moelle de l’épée e poil de Vaimée\


2 [Doppia contrepèterie, di cui la prima rigorosa e la seconda no].
3 [Si può leggere come: une infamie d’enfance ~ un’infamia d’infan­
zia].
4 [Photographe si può anche leggere faux autographe = falso autogra­
fo, e a de Vhaleine si può leggere a de la laine, cioè « ha della biancheria
di lana»].
Marcel Duchamp
296 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

*
...U n incesticide doit cou­ ... Un incesticida deve andare a let­
cher avec sa «parente» to con la sua « genitrice» prima
di ucciderla; le cimici sono di
avant de la tuer; les pu­ rigore.
naises sont de rigueur.
*

Paroi parée de paresse de Parete parata di pigrizia di par­


paroisse. rocchia \

A charge de revanche et à A buon rendere e a verga di ricam­


verge de rechange. bio 2.

Sacre du printemps, crasse Sagra della primavera, sudiciume


du tympan. del timpano3.

Oh! crever un abscès au pus Oh! far scoppiare un ascesso dal


lent! pus lento!4.

*
Ajustage de coïncidence d'o­ Sistemazione di coincidenza d’og­
bjets ou partie d'objets; getti o parte d’oggetti; la ge­
rarchia di questo tipo di siste­
la hiérarchie de cette mazione è direttamente pro­
sorte d'ajustage est en porzionale al «contrasto».
raison directe du « dispa­
rate».

1 [Paresse e paroisse vengono ottenute rispettivamente da parée e


parai con l’aggiunta dello stesso suffisso].
2 [Il gioco consiste nel far nascere, con una delle solite « false » con-
trepèteriesy l’espressione à verge de rechange dalla frase idiomatica à
cbarge de revanche].
3 [Altra falsa contrepèterie\
4 [Si legga au pus lent come opulent, e la frase diventa: Oh, far scop­
piare un ascesso opulento!].
MARCEL DUCHAMP 297

Robe oblongue dessinée ex­ Vestito oblungo disegnato esclu­


clusivement pour dames sivamente per signore afflitte
da singhiozzo.
affligées du hoquet.
*

«Sa robe est noire», dit Sa- «Il suo vestito è nero», dice Sa­
rah Bernhardt. rah Bernhardt \

Une boîte de suédoises Una scatola di svedesi piena è piu


pleine est plus légère leggera di una incominciata per­
ché non fa rumore.
qu'une boîte entamée
parce qu’elle ne fait pas
de bruit.
*

Une 5 C V qui rue sur pi­ Una 5 CV che scalcia su pignonez.


gnon.
*

Du dos de la cuillère au cul Dal rovescio del cucchiaio al culo


de la douairière. della vedova3.

Daily Lady cherche démêlés Daily Lady cerca grane con Daily
avec Daily Mail. Mail \

1 [Gioco di assonanze],
2 [Il gioco consiste nell’inversione della frase idiomatica pignon sur
rue, che significa (aver) beni al sole. (Da pignon = pignone, termine ar­
chitettonico)].
3 [Altra falsa contrepèterie].
4 [Serie di contrepèteries ottenute attraverso un « pastiche» linguisti­
co tra francese e inglese; Daily Mail è la testata di un quotidiano].
298 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Faut-il réagir contre le pa­ Bisogna reagire contro la pigrizia


resse des voies ferrées delle rotaie tra due passaggi di
treni?
entre deux passages de
trains?
*
Transformateur destiné à Trasformatore destinato a utilizza­
utiliser les petites éner­ re le piccole energie sprecate
come:
gies gaspillées comme:
l'excès de pression sur un la pressione eccessiva su un pul­
bouton électrique, sante elettrico.
l'exhaltation de la fumée de l’esalazione del fumo di tabacco.
tabac.
la poussée des cheveux, des la crescita dei capelli, dei peli e
poils et des ongles, delle unghie.
la chute de l'urine et des la caduta delle urine e degli escre­
excréments. menti.
les mouvements de peur, i moti di paura, di stupore, di noia,
d'étonnement, d 'ennui, di collera.
de colère,
le rire. il riso.
la chute des larmes, la caduta delle lacrime.
les gestes démonstratifs des i gesti indicatori delle mani, dei
mains, des pieds, les tics, piedi, i tic.
les regards durs, gli sguardi duri.
les bras qui en tombent du le braccia che cadono dal corpo.
corps.
l ’étirement, le bâillement, 10 stirarsi, lo sbadigliare, lo starnu­
l'éternuement, tire.
le crachement ordinaire et gli sputi normali o sanguinolenti.
de sang.
les vomissements. 11 vomito.
l'éjaculation. l’eiaculazione.
les cheveux rébarbatifs, i capelli ispidi, la spiga.
1wepi.•
MARCEL DUCHAMP 299

le bruit de mouchage, le il rumore di una soffiata di naso, il


ronflement, russare.
l’évanouissement. lo svenire,
le sifflage, le chant, i fischi, il canto,
les soupirs, etc... i sospiri, ecc...
H ans A rp
1888-I966

Supponendo che si possa fare uno spaccato del pensiero poetico


dei nostri tempi, scopriremmo che le sue radici penetrano nel pro­
fondo dellVx, che rappresenta per lo spirito umano ciò che il sub­
strato geologico rappresenta per le piante. Sono sepolte nell’ex le
tracce mnemoniche, residuo delle innumerevoli esistenze indivi­
duali anteriori. L ’automatismo non è altro che lo strumento impie­
gato dallo spirito per penetrare, dissolvere e quindi sfruttare que­
sto suolo, l ’equivalente cioè dell’azione meccanica con cui le radici
vegetali riescono a spostare le pietre e a sconnettere gli strati duri.
L ’io, come parte differenziata dell’ex destinata a subire l’influenza
del mondo esterno, ha il compito di trasformare la libido sessuale
che si accumula precisamente nell’ex: sappiamo che ciò diviene pos­
sibile solo dopo aver superato il complesso di Edipo e la bisessuali­
tà costituzionale dell’individuo. Il super-ioy che presiede alla riu­
scita di quest’ultima operazione, può essere paragonato allo strato
di humus che, dopo la caduta delle foglie, ricopre il suolo e rende
attivi gli elementi fertilizzanti della terra. L ’humour, nel senso in
cui noi Io intendiamo, costituirebbe, come abbiamo visto, un mezzo
latente di sublimazione: sarebbe cioè la possibilità, per la pianta,
di cadere in bellezza, di adagiarsi sull’humus per poter ripristinare,
a benefìcio di tutte le altre piante, la sua energia vitale quando è
gravemente compromessa.
Come ci piaceva, da bambini, estrarre senza sforzo dal soffice
tappeto del bosco il pallido castagno alto pochi centimetri alla cui
base la castagna riflette ancora la luce dei soleggiati mobili del pas­
sato, mentre conserva tutta la sua presenza e testimonia già concre­
tamente della sua potenza di mani verdi, di ombra, di aeree pirami­
di bianche o rosa, di balli... e di castagne future che, sotto i giovani
germogli, saranno scoperte da mani perdutamente meravigliate d’al­
tri bambini 1 In questa prospettiva si situa l’opera di Arp, che fu,
meglio di chiunque altro, capace di realizzare quello spaccato di cui
HANS ARP 301

parlavamo; in tutta la sua poesia, sia plastica che verbale, egli sep­
pe valersene per renderci sensibile il mondo, in piccola parte aereo
e in gran parte sotterraneo, che lo spirito, come la pianta, esplora
per mezzo di antenne. Si è dedicato a tracciare, ogni mattina, lo
stesso disegno, per sorprenderne le variazioni; ha voluto proporre
come organizzazione dei frammenti di cartone tagliati, colorati, me­
scolati e poi fissati una volta esaurito il loro movimento (oggetti
messi insieme secondo la legge del caso). Arp è entrato, con la parte
più viva di se stesso, nel segreto di quella vita germinativa dove an­
che il minimo dettaglio assume la massima importanza e dove inve­
ce la distinzione stessa fra gli elementi perde il suo valore, diffon­
dendo uno humour sotterraneo, permanente, tra i più singolari.
«L'aria è una radice. Le pietre sono colme di visceri. Bene, bene.
Le pietre sono rami d’acqua. Sulla pietra che prende il posto della
bocca fiorisce una spiga. Bene. Le pietre hanno i tormenti della car­
ne. Le pietre sono nuvole... Bene. Bene».
Quando, durante l’altra guerra, lo convocarono al consolato te­
desco di Zurigo, Arp che, come confessa egli stesso, era un po’ emo­
zionato, si fermò davanti al ritratto di Hindenburg e si fece il segno
della croce. Qualche tempo dopo, quando uno psichiatra gli chiese
di scrivere la sua data di nascita, egli la scrisse ripetendola su tutto
il foglio, poi tirò una riga e, senza badare troppo all’esattezza della
somma, presentò un totale di parecchie cifre.

B E S T IA R IO SEN ZA N OM E

L ’elefante è innamorato del millimetro

la lumaca è fiera
col copricapo d’oro
il cuoio calmo
il riso di flora
ed anche col suo fucile di gelatina

l’aquila ha gesti di vuoto presunto


la sua mammella rigurgita di lampi
302 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO
il leone ha baffi
in puro gotico fiammeggiante
e scarpe pallide e purgate
come un neo-soldato
dopo una disfatta lunare

l ’aragosta scende dall’asta


cambia la canna con una bacchetta
e risale col suo bastone
lungo il tronco dell’albero

la mosca con uno sguardo enfatico


riposa il naso su uno zampillo d’acqua

la vacca prende il sentiero della cartapecora


che si perde in un libro di carne
ogni pelo del libro
pesa una libbra

il serpente sobbalza con prudore e prudore


attorno a bacinelle d’amore
colme di cuori trafitti

il pavone impagliato
diventa un papavone impapagliato

l ’usignolo fratello della sfinge


innaffia stomaci cuori cervelli e trippe
cioè gigli rose garofani e lillà

la pulce si mette il piede destro


dietro l ’orecchio sinistro
e la sua mano sinistra
nella mano destra
e salta sul piede sinistro
sopra il suo orecchio destro
Alberto Savinio
1891-1952

Tutta la mitologia moderna ancora in formazione ha le sue fonti


nelle due opere, quasi indiscernibili nello spirito, di Alberto Savi­
nio e di suo fratello Giorgio De Chirico, opere che raggiunsero il lo­
ro punto più alto alla vigilia della guerra del 1914. Essi sfruttano
simultaneamente tutte le risorse visive e auditive ai fini della crea­
zione di un linguaggio simbolico, concreto, universalmente intelli­
gibile in quanto tende a testimoniare col massimo rigore la realtà
specifica dell’epoca (l'artista che si offre come vittima del suo tem­
po), e l ’interrogativo metafisico proprio di quest'epoca (il rapporto
tra gli oggetti nuovi di cui essa è portata a servirsi e quelli vecchi,
abbandonati o meno, è tra i più inquietanti, nella sua esasperazione
del senso della fatalità). «La tendenza destinata a prevalere nel mo­
mento attuale - scrive Savinio nel 1914 - si caratterizza soprattutto
per la sua forma austera e cupa e per l ’apparenza rigida e ben mate­
rializzata della sua metafisica... A differenza di quelle età in cui l’a­
strazione regnava sovrana, la nostra epoca sarebbe portata a far sca­
turire dalle materie stesse (dalle cose) i loro elementi metafisici
completi. Videa metafisica passerebbe cosi dallo stato di astrazione
a quello sensoriale. Si tratta cioè della totale valorizzazione degli
elementi che informano 1 il tipo dell’uomo pensante e sensibile».
Ci troviamo qui nel cuore stesso del mondo sessuale simbolico,
quale l’hanno descritto Volkelt e Scherner prima di Freud. Nei pri­
mi quadri di De Chirico il gioco delle torri e delle arcate - le prime
giustificano i titoli che vertono intorno alla nostalgia, le seconde
i titoli che insistono su\Yenigma - esprime il rapporto tra il sesso
maschile e il sesso femminile. Allo stesso modo, nei Chants de la
Mi-Mort di Savinio (1914) vediamo sfilare 1’«uomo-calvo», imma­
gine del padre, come De Chirico l’ha dipinto nel Cerveau de VEn-1

1 [La sottolineatura è di Breton].


304 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

fant, con un viso che ricorda vagamente «certe fotografie di Napo­


leone III e di Anatole France all’epoca del Lys rouge, quel signore
che vi guarda ridendo sotto i baffi è sempre lui, il diavolo tentato-
re»; sfilano «l’uomo giallo» mosso da un dio-amore invisibile
(molto probabilmente l’io, anch’esso sotto il fuoco incrociato dei
suoi lumi), e «Daisyssina» l ’Eterno femminino, la «madre di pie­
tra» sotto la cui maschera è impossibile non riconoscere l’altera e
dura baronessa De Chirico, nella cui ombra il figlio Giorgio si è tan­
te volte dipinto e inabissato (l’uomo giallo «uccide la madre, poi la
bacia; la lancia in alto e la riprende al volo; la getta per terra e la
calpesta. Grandi scoppi di risa»); poi vediamo passare gli «uomini
di ferro battuto» che formano la cancellata tutta ornamentale della
società, «due angeli, un re pazzo, gli uomini-bersaglio»; e non di­
mentichiamo il « ragazzetto » il cui ingresso sintomatico «in camicia
da notte, con una candela in mano. Con la suola della pantofola
schiaccia un ragno che si arrampica sul muro; poi tremante osserva
la bestia schiacciata che agita un’antenna», basta a situare tutta l’a­
zione ai confini misteriosi dell ’io e del super-io; quest’ultimo è rap­
presentato in tutta la sua potenza, come in De Chirico, da statue di
solito equestri, «sparse un po’ dappertutto» e che, all’occorrenza,
si mettono a galoppare.
Nei due fratelli l’humour scaturisce da una intermittente ma
acutissima presa di coscienza delle loro repressioni: entrambi ad
esempio conservano vivamente la credenza primitiva che le pro­
prietà della cosa mangiata passino a chi l ’ha ingerita e formino il suo
carattere, credenza da cui nascono ogni sorta di tabù: Hebdome-
ros, protagonista di un libro di De Chirico, distingue le vivande in
«morali e immorali». Riprova formalmente che ci si nutra di mollu­
schi o di crostacei. «Considerava estremamente immorale prendere
il gelato in un caffè e, più in generale, mettere il ghiaccio nelle bi­
bite... Considerava la fragola e il fico i più immorali tra i frut­
ti». Freud ha sottolineato il rapporto che esiste tra il persistere di
questa credenza, cioè che l’ingestione orale possa provocare gravi
conseguenze, e l’angoscia in occasione della scelta dell’oggetto ses­
suale.
Alberto Savinio aveva previsto un accompagnamento musicale
ai Chants de la Mi-Mort. «Non possiamo tacere - scrive il critico
musicale delle “ Soirées de Paris ” - del modo in cui Savinio inter­
preta le sue opere al piano. Esecutore di abilità e forza incompara­
bili, questo giovane compositore, che odia la giacca, sta in piedi da­
vanti allo strumento in maniche di camicia, ed è uno spettacolo
singolare vederlo dimenarsi, urlare, fracassare la pedaliera, descri­
vere mulinelli vertiginosi, pestare coi pugni nel tumulto scatenato
ALBERTO SAVINIO 3 0 5

delle passioni, della disperazione, della gioia... Dopo ogni pezzo bi­
sognava pulire i tasti dal sangue che li macchiava».
Due mesi dopo, scoppiava la guerra.

IN T R O D U Z IO N E A U N A V I T A D I M E R C U R IO

Allo scopo di agevolare la circolazione delle navi di


grosso tonnellaggio ed anche per incoraggiare la consegna
a domicilio, casa1 Rana non aveva né gradini né soglia.
Ciò malgrado fu tra la più completa indifferenza che il pi­
roscafo, spingendo la porta con un orgoglioso colpo di
prua, penetrò sibilando fino in mezzo al salone.
La famiglia Rana era ai completo, ivi compreso Rober­
to Danesi, il postulante tragico.
Dopo gli insulti d’uso, i due ospiti furono gentilmente
invitati dal padrone di casa a lasciarsi prendere a calci nel
sedere. I Rana, gente di gran lignaggio, avevano il culto
delle belle maniere.
La signora Giulia Rana, la padrona di casa, indossava
un magnifico abito da sera a grandi arabeschi verdi, che
le stava a meraviglia.
Mister Pard, che le si era avvicinato per sputarle in
faccia, come è d ’uso nella migliore società, si accorse che
quel vestito non era altro che un’illusione.
Figlia di barraci, ranocchia lei stessa, la signora Giulia
Rana si teneva sulla pelle gli stessi ornamenti che abbelli­
vano Pepidermide anfibia del suo signor padre. Inutile ag­
giungere che, sotto i suoi arabeschi congeniti, la signora
Giulia era completamente nuda. Quanto al suo ventre,
tutto bianco, paffuto e di una delicatezza addirittura irri-

1 [In italiano nel testo].


306 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

tante, si schiacciava come un palloncino da bambini con­


tro il bordo della tavola.
Disgustato da questa ulteriore prova dell’instabilità del
carattere umano, il console si sedette in un angolo e, a
gambe incrociate, incominciò ad accarezzarsi con gesto af­
fettuoso la punta dell’appendice che gli spuntava dai pan­
taloni di metallo.
Il signor Luigi Rana, marito di Giulia e presidente ono­
rario della Società per l ’Incoraggiamento della pederastia
nelle Famiglie, agitava in un irrigatore un cocktail di am­
moniaca ed escrementi vari. Quanto al capitano Tullio Ra­
na, grande mutilato di guerra e fratello di Luigi, saltella­
va nel salone con gesti da sagoma di tiro al bersaglio, poi­
ché il suo corpo, avendo opposto una valida resistenza al­
la pressione delle Sturmtruppen, si era ridotto allo spesso­
re di una pastiglia.
Grandi stelle asmatiche e palesemente fuori luogo era­
no sistemate contro i muri. Del loro antico splendore con­
servavano solo una luce vaga e livida, che ammiccava de­
bolmente sull’estremità delle loro zampe, un tempo cosi
radiose. Dalla finestra si scopriva la città, tutta bianca e
rotonda nel cerchio delle mura, simile a una «charlotte»
alla russa affogata nella sua crema.
La seduta stava per aprirsi come un fiore. Tutti circon­
darono la bella signora Rana, colei che, in virtù della sua
grazia ineguagliabile, serviva da foro di scarico alle rive­
lazioni dell’occulto.
Benché casa Rana fosse totalmente priva di sedie, tutti
i partecipanti a quella memorabile riunione se ne stavano
tranquillamente seduti intorno alla tavola, con le mani ab­
bandonate sul tappeto, la schiena ben ritta e il sedere nel
vuoto.
Roberto Danesi prese la parola. Poiché, dopo il suo fa­
moso tentato suicidio con la stricnina, era diventato cato-
blefarico, si era abituato a rivolgere la parola a chi lo ascol­
tava solo volgendogli la schiena. Disse:
ALBERTO SA VINI O 307

— Nel novembre del 1918, decidemmo di lasciare la


Svizzera per ritornare in Europa. Ci imbarcammo, la si­
gnora Danesi, mio figlio Temistocle ed io, su una nave-
lavanderia. La guerra era finita, ero ansioso di porre il mio
braccio al servizio della patria. Ma questo è solo un parti­
colare. A Parigi, alPaltezza del numero 24 di rue Jacob, la
nostra nave fu silurata per la sbadataggine di alcuni pesca­
tori che pescavano con la dinamite in quei paraggi. Strin­
gendo mio figlio Temistocle fra le braccia, riuscii ad ag­
grapparmi alla cassaforte di bordo, che, essendo vuota,
stava a galla come una zucca. Ci portò sani e salvi davanti
alla casa di tolleranza della zona. Dopo quella tragica not­
te, non ebbi più notizie di mia moglie fino a ieri, undici
settembre, quando un fisarmonicista di Tel-Aviv mi tele­
grafò gentilmente che la signora Danesi è più viva di voi
e di me, e che attualmente è ricoverata in una grande fab­
brica di carne congelata a Londra, dove i più grandi spe-
cialisti del paese sono all'opera per far scomparire i suoi
tatuaggi. Signori, - continuò il postulante tragico con voce
più grave, - ecco il perché della nostra riunione di stasera.
Io desidero sapere per bocca di questa schifezza di Giulia
Rana, grazioso commissario dell’al di là, e in presenza del­
l'immondo Mister Pard, console d'Inghilterra, se il mio
caro Temistocle, carne e sangue del ventitreesimo amante
della mia adorata moglie, può ancora pronunciare il dolce
nome di madre.
Dopo la dichiarazione di Roberto Danesi, la signora Ra­
na, in profondo raccoglimento, apri smisuratamente l'om ­
belico e con voce cremosa pronunciò:
- Spirito! È vero che la signora Danesi è attualmente
ricoverata in una grande fabbrica di carne congelata a Lon­
dra dove si è all'opera per far scomparire i suoi tatuaggi?
Rispondi subito, te lo ordino!
Qualche istante dopo che il silenzio estatico ebbe as­
sorbito l'eco della preghiera ombelicale, un orribile spasi-
308 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

mo scosse ¡’ombelico della signora Rana, che, con voce


non più sua, gridò; - Siamo occupati fin sopra i capelli.
Sgozziamo bambino. Ripassate più tardi.
Jacques Vaché
1896-I9I9

La strelitzia chiusa tra le dita, l’essenza stessa dell’humour risa­


le in punta di piedi il corso degli anni dell’«ultima» 1 guerra, il cor­
po di fronte e il viso di profilo. Per nulla astensionista, natural­
mente, esibisce un’uniforme dal taglio perfetto e, per giunta, divisa
in due parti, un’uniforme in certo qual modo sintetica, per metà
«alleata» e per metà «nemica», e che riacquista una sua unità in
modo tutto superficiale a forza di tasche appariscenti, di lucide ban­
doliere, di documenti di stato maggiore e di foulards strettamente
annodati di tutti i colori dell’arcobaleno. I capelli rossi, gli occhi
color «fiamma morta» e la gelida farfalla del monocolo completano
l ’isolamento e questa dissonanza voluta e continua. Il rifiuto di par­
tecipare è quanto piu possibile completo, sotto la maschera di una
accettazione puramente formale, spinta quasi all’estremo: tutti i
«segni esteriori del rispetto», di una adesione in qualche modo au­
tomatica proprio a ciò che l’intelletto trova piu insensato. Con
Jacques Vaché non s’ode piu un grido, né un sospiro: i «doveri»
dell’uomo, e tra tutti quello «patriottico» che in quei tempi esagi­
tati ne costituiva l’espressione piu tipica, sfidano anche l’obiezione,
che ai suoi occhi appare ancora troppo accomodante. Per trovare la
volontà e la forza di opporsi, bisognerebbe essere ancora meno defi­
nitivamente fuori della mischia. Alla diserzione all’estero in tempo
di guerra, che conserva per lui un certo qual aspetto palio ttino, Va­
ché contrappone un’altra forma di disobbedienza, che si potrebbe
chiamare la diserzione all’interno di se stessi. Non si tratta piu del
disfattismo alla Rimbaud del 1870-71, ma è un partito preso di in­
differenza totale, preoccupato solo di non servire a nulla, anzi di
disservire con zelo. Atteggiamento individualista ad oltranza. Esso
ci appare come il prodotto stesso, il prodotto piu evoluto a quella
data, dell’ambivalenza affettiva per cui in tempo di guerra si con­

1 L’altra, naturalmente.
3 io ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO
sidera la morte degli altri con molta piu disinvoltura che in tempo
di pace, e per cui invece la vita del singolo diviene tanto piu impor­
tante quanto meno è salvaguardata quella della collettività. Si veri­
fica cioè un ritorno allo stadio primitivo, che si traduce generalmen­
te nella reazione «eroica» (il super-io al calor bianco giunge a otte­
nere dall Ho la resa, il consenso alla propria perdita) ed, eccezional­
mente, nelTesasperazione delle tendenze egoistiche, che cessano di
potersi trasformare in tendenze sociali, a meno che non si verifichi
rincontro con il fermento erotico appropriato (1*« che riprende il
sopravvento come nel caso di Ubu o del buon soldato Schweik). Un
super-io puramente simulatorio, vera preziosità del genere, è rispar­
miato da Vaché a scopi puramente decorativi: una straordinaria lu­
cidità conferisce ai suoi rapporti con Yes un andamento insolito,
spesso macabro, fra i piu inquietanti. È da questo rapporto che sca­
turisce a getto continuo Thumour nero, TUmour (senza h) secondo
Tispirata ortografia cui ricorre, TUmour che acquisterà con lui un
carattere iniziatico e dogmatico. Di colpo Vio è posto a dura prova:
«L’ho scampata per poco - dice - in questa ritirata. Ma io mi rifiuto
di essere ucciso in tempo di guerra», si ucciderà poco dopo Tarmi­
si izio.
«Mentre sono in procinto di terminare questo studio - scrive
Marc-Adolphe Guégan in La ligne de cœur (gennaio 1927) - ricevo
da una persona degna di fede una terribile dichiarazione. Jacques
Vaché avrebbe detto alcune ore prima del dramma: “ Morirò quan­
do io vorrò morire... Ma allora morirò con qualcun altro. Morire
soli, è troppo noioso... Preferibilmente uno dei miei migliori ami­
c i ”. Queste parole, — aggiunge Guégan, — rendono meno sicura, lo
riconosco, Tipotesi della disgrazia incauta, soprattutto se ci ricor­
diamo che Jacques Vaché non è morto solo. Uno dei suoi amici fu
vittima dello stesso veleno, la stessa sera. Sembravano dormire Tu­
no a fianco delTaltro, quando fu scoperta la loro morte. Ma ammet­
tere che questa duplice morte sia stata il risultato di un progetto
sinistro, significa rendere terribilmente responsabile una memoria».
Provocare la denuncia di questa «terribile responsabilità» fu, non
vi è dubbio, la suprema ambizione di Jacques Vaché.
JACQUES VACHÉ 3II

LETTERE

x. P i i otto. 16
Caro Amico,

V i scrivo da un letto sul quale mi hanno gettato in pie­


no giorno questa temperatura snervante e il capriccio.
Ho ricevuto la vostra lettera ieri - l ’Evidenza è che nul­
la ho dimenticato della nostra amicizia, che durerà, spero,
tanto quanto sono rari «les sàrs et les mimes» 1 — benché
voi abbiate solo un’idea approssimativa dell’Umour.
Faccio dunque l ’interprete agli inglesi - e, dedicando a
questo compito quella totale indifferenza arricchita di pla­
cida mistificazione che mi piace introdurre nelle cose uffi­
ciali, porto a spasso tra rovine e villaggi il mio monocolo
di cristallo e una teoria di quadri inquietanti — Sono stato
di volta in volta un uomo di lettere cinto d ’alloro, un fa­
moso disegnatore pornografico e uno scandaloso pittore
cubista - Ora me ne sto a casa e lascio agli altri la cura di
spiegare e discutere la mia personalità tra quelle indicate -
Il risultato è indifferente.
Vado in licenza verso la fine del mese, e starò qualche
giorno a Parigi - Debbo incontrarvi il mio miglior amico
che ho del tutto perso di vista.
... A parte ciò, - che è poca cosa - Nulla. L ’Armata Bri­
tannica, per quanto preferibile a quella Francese, non ha
un gran che di Umour - Ho ripetutamente avvertito un
colonnello addetto alla mia persona che gli ficcherò un ba­

1 « les sàrs et les mimes »; è un’allusione a Sàr Peladou e a Marcel


Schwob, autore di un volume dal titolo Mimes. Si può pensare che
Vaché e Breton avessero un comune interesse per questi due scrittori.
312 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO
stoncino di legno nelle onecchie1 - Dubito che mi abbia
capito = d'altronde non capendo il francese.
Il mio sogno attuale è di portare una camicetta rossa,
una sciarpa rossa e degli stivali alti - e di essere membro
di una società cinese segreta e senza alcun fine in Austra­
lia.
I vostri visionari hanno il diritto di scrivere? - Corri­
sponderei volentieri con un perseguitato, o con un «cata­
tonico» qualunque.

x. 2 9 .4 .1 7
Caro Amico,
...V i scrivo da un ex-villaggio, da un angusto porcile
riparato da coperte - Sono con i soldati inglesi - Da que­
ste parti hanno preso molto vantaggio sul partito nemico
- C'è molto fracasso — Ecco.
...E voi mi domandate una definizione delPumour -
come niente fosse! —
«È NELL’ESSENZA DEI SIMBOLI ESSERE SIMBOLICI»
mi è sembrata a lungo degna di esserlo per la sua capacità
di contenere una folla di cose viventi: e s e m p i o : voi co­
noscete l'orribile vita della sveglia - è un mostro che mi
ha sempre spaventato poiché il numero di cose che i suoi
occhi proiettano, e il modo in cui quella dabbencosa mi
fissa quando entro in una camera - ma perché ha tanto
umour, perché? - Ma ecco: è cosi e non diversamente -
C'è anche molto di formidabilmente u b u e s c o 12 nell'umour
- come potrete vedere - Ma ciò non è naturalmente - defi­
nitivo e l'umour deriva talmente da una sensazione da es­

1 [Si è tradotto onecchie il termine oneilles, usato in luogo di oreìlles


(orecchie), ripetendo il gioco di parole di Jarry nell’Ut« roi].
2 [Si è tradotto ubique con ubuesco considerando più corretto il
riferimento ad ubu (dall’Ubu Roi di Jarry) che non quello al significato
deH’awerbio di luogo latino: dappertutto].
JACQUES VACHÉ 313

ser difficilmente esprimibile —Credo che sia una sensazio­


ne - Stavo quasi per dire un s e n s o —anche - dell’inutilità
teatrale (e senza gioia) di tutto*
Quando si sa
Ecco allora perché gli entusiasmi (innanzi tutto fan
chiasso) degli altri sono odiosi - perché - nevvero - noi
abbiamo il genio - dal momento che conosciamo P u m o u r
- E tutto - ne avete mai d’altronde dubitato? ci è permes­
so* Tutto ciò è ben noioso, d’altronde.
Aggiungo qui un omino1 - e ciò potrebbe chiamarsi o b -
c e s S i o n 2 - oppure - si - b a t t a g l i a d e l l a s o m m a e d e l

RESTO-si.
Mi ha seguito a lungo, e mi ha contemplato innumere­
voli volte in buchi innominabili - Credo che cerchi di mi­
stificarmi un poco - Ho molto affetto per lui, tra l’altro.

18. 8 .1 7
Caro Amico,
...D’altronde. - l ’ a r t e non esiste, senza dubbio - È
dunque inutile cantarne - tuttavia: si fa dell’arte — per­
ché è cosi e non altrimenti - Well - che ci volete fare?
Dunque a noi non piacciono né PARTE né gli artisti
(abbasso Apollinaire) E t o g r a t h q u a n t o h a r a g i o n e a d
a s s a s s i n a r e i l p o e t a ! Tuttavia, dal momento che oc­

corre cosi spargere un po’ d’acido o di vecchio lirismo,


questo ci dia una scossa - infatti le locomotive filano ve­
loci.
Dunque modernità anche - costante, e uccisa ogni not­
te - Noi ignoriamo m a l l a r m é , senza odiarlo, ma lui è
morto - Non riconosciamo più Apollinaire - p e r c h é - lo
sospettiamo di far dell’arte troppo scientemente, di rat-12

1 [Probabilmente un disegno, nella lettera originale di Vaché].


2 [ o b c e s s i o n : neologismo di Vaché. «Cessione può dare una idea
di rinunzia, sconfitta ecc. Forse Tornino è Talter ego di Vaché].
3H ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO
toppare del romanticismo con del filo telefonico, e di non
saper niente delle dinamo. Prendersela ancora con g l i a-
s t r i ! - che noia — e poi a volte magari parlano sul serio!
- Un uomo che crede è curioso, ma poiché qualcuno
N A S C E G U IT T O ...
Ebbene - vedo due modi di lasciar perdere tutto ciò -
Formare la sensazione personale valendosi di uno scontro
fiammeggiante di parole rare - non troppo spesso, però -
oppure disegnare degli angoli o dei quadrati scevri di sen­
timenti - quelli del momento, naturalmente — Abbando­
neremo TOnestà logica - a condizione di contraddirci -
come tutti.
...L ’umour non dovrebbe essere produttivo — ma che
farci? Concedo un po’ di umour a Lafcadio, perché non
legge e produce solo sotto forma di esperienze divertenti,
come PAssassinio — e ciò senza lirismo satanico - caro vec­
chio marcio Baudelaire! — Occorreva la nostra aria secca
un tantino; macchinario — rotative olio puzzolente - vrom-
bi, vrombi - vrombi — Fischio! Reverdy - divertente il
poheta, e scoccia in prosa; max Jacob, vecchio caro misti­
ficatore - FA N TO C CI - FA N TO C CI - FA N TO C CI volete dei
bei fantocci di legno colorato? Due occhi di fiamma morta
e il rotondo cristallo di un monocolo — con una piovra
macchina da scrivere - Preferisco...

1 4 .1 1 .1 8 .
Mio carissimo amico,

In quale stato di prostrazione mi ha trovato la vostra


lettera! - Sono vuoto di idee, e poco sonoro, senza dubbio
sempre più registratore incosciente di molte cose, in bloc­
co - quale cristallizzazione?... uscirò dalla guerra dolce­
mente rimbambito, come quegli splendidi scemi del villag­
gio (e io me lo auguro)... oppure... oppure... che film fa­
rò! - Con delle automobili pazze, sapete, ponti che cedo­
JACQUES VACHE 3 15

no, e mani maiuscole che strisciano sullo schermo verso


quale documento!... inutile e inestimabile! - Con dialo­
ghi cosi tragici, in abito da sera, dietro le palme che ascol­
tano! — E poi Charlie, naturalmente, che smorfieggia, con
le dolci pupille. Il Poliziotto dimenticato nella valigia! !
Telefono, maniche di camicia, con tipi che corrono, con
quegli strani movimenti spezzati - William R.G . Eddie,
che ha sedici anni, miliardi e servitori negri, cosi bei ca­
pelli bianco cenere, e un monocolo di tartaruga. Si spo­
serà.
Sarò anche cacciatore di pellicce, o ladro, o cercato­
re d'oro, o minatore, o scandagliatore. Bar dell'Arizona
(Whiski-Gin and mixed?) e belle foreste da sfruttare e,
sapete quelle belle brache da cavallo con la pistola a raf­
fica, ma ben rasati anche, e mani cosi belle con il solitario
al dito. Tutto ciò andrà a finire in un incendio, vedrete,
oppure in un saloon, una volta ricchi. — W ell.
Come potrò, mio povero amico, sopportare questi ul­
timi mesi di uniforme? - (mi hanno assicurato che la guer­
ra era finita) — Sono proprio al limite... e poi q u e l l i dif­
fidano... q u e l l i sospettano qualcosa - Basta che q u e l l i
non mi scervellino mentre mi hanno nelle loro mani...
Benjamin Péret
1899-1959

Occorreva - si vedrà perché peso le parole - occorreva un distac­


co a tutta prova, di cui non conosco altri esempi, per emancipare il
linguaggio al punto che di primo acchito seppe raggiungere Benja­
min Péret. Egli fu il solo a realizzare fino in fondo sul verbo l’ope­
razione che corrisponde alla «sublimazione» alchimistica, consi­
stente nel provocare la «ascesa del sottile» tramite la «separazione
dal denso». Il denso, in questo campo, è la crosta di significato e-
sclusivo che nell’uso ricopre tutte le parole, e che non lascia pratica-
mente alcun gioco alle loro associazioni fuori dalle caselle in cui so­
no confinate a piccoli gruppi dall’utilità immediata o convenzionale,
solidamente puntellata dall’abitudine. Lo stretto comparto che im­
pedisce ogni nuova possibile relazione tra gli elementi significanti
oggi fossilizzati nelle parole, accresce senza tregua la zona d’opacità
che aliena l’uomo dalla natura e da se stesso. È su questo punto che
Benjamin Péret interviene in veste di liberatore.
Fino a lui, infatti, anche i piu grandi poeti si erano come scusati
per aver visto «molto francamente una moschea al posto di un’of­
ficina» o avevano dovuto assumere un atteggiamento di sfida per
affermare d’aver visto «un fico mangiare un asino». Esprimendosi
in tal modo essi sembrano aver la sensazione di commettere una
violenza, di profanare la coscienza umana e d’infrangere il tabu piu
sacro. Con Benjamin Péret cade invece questa specie di «cattiva co­
scienza», la censura non ha più peso, si obbietta che «tutto è per­
messo». Mai le parole e ciò che esse designano, sfuggite una volta
per tutte alla schiavitù, avevano manifestato una tale esultanza. Gli
oggetti naturali riescono a trascinare ogni cosa nella sarabanda, per­
fino gli oggetti manufatti, e gli uni e gli altri fanno a gara di disponi­
bilità. Si è fatta piazza pulita del vecchiume, della polvere. La gioia
panica è ritornata: tutta la magia in un bicchiere di vino bianco:
questo vino è bianco solo al levare del sole
perché il sole gli passa la mano tra i capelli
BENJAMIN PÉRET 317
Tutto si libera, tutto si salva poeticamente in virtù di un prin­
cipio generalizzato, di nuovo messo in vigore, di mutazione e di me­
tamorfosi. Non ci si limita più a celebrare le «corrispondenze» co­
me grandi luci purtroppo intermittenti, ci si orienta e ci si muove
solo tramite una realizzazione ininterrotta di accordi passionali.
Ne parlo troppo da vicino come di una luce che, giorno dopo
giorno, per trentanni mi ha reso bella la vita. L ’humour scaturisce
qui come acqua di fonte.

I P A R A S S I T I V IA G G IA N O

Ecco come è successo:


« Mi ero preso una ferrigna1 sulla sfera12e scivolavo nel
bianco 34
, quando sentii che qualcuno mi stringeva i rami \
«Pensavo: “ Qui diventa verde!” 5 ma ero troppo an­
dato per articolare6. Quando tornai all’aperto7 me ne sta­
vo tra i pigolanti8 almeno quindici vasche910sopra la fan-
gaia ; ma a me di giocare la tramontana non era mai an­
dato a genio, e non desideravo che una cosa sola: ritro­
varmi sulla fangaia. Mi dissi: “ Non è poi cosi rugosa12, ba­
sta che mi sgoccioli giù per i nodosi13 Ma una cosa era
dirlo, un’altra farlo. Quando mi ci provai, mi accorsi che

1 Ferrigna: scheggia di proiettile.


2 Sfera: testa.
3 Scivolare nel bianco: svenire.
4 Stringere i rami: afferrare per le estremità.
s Qui diventa verde: qui si mette male.
6 Essere troppo andato per articolare: essere troppo stordito per di­
fendersi.
7 Quando tornai alVaperto: quando rinvenni.
8 f pigolanti: gli uccelli.
9 Vasca: metro.
10 Fangaia: terra.
11 Giocar la tramontana: trovarsi a mezz’aria in posizione instabile.
12 Rugosa: difficile.
13 Sgocciolarsi lungo i nodosi: scivolare lungo i rami di un albero.
318 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO
i nodosi e io facevamo tutt’uno. Niente divertente ren­
dersi conto d’un tratto di lavorare per il fresco \ conside­
rato soprattutto che non c’era motivo per credere che la
faccenda finisse. Cercai ancora una volta di lasciare il no­
doso, ma nebbia! \
«Ero nodoso e ben nodoso. Sentivo il martellante12 3im­
pazzire nel mio baule4. Credevo di essere arrivato all’in­
dice del mio lib ro 5, ma andavo storto6; una ciarliera7mi si
posò sulla spaziosa8, rotolò giu per il gibboso9, poi sul
baule, scese sul tam buro101e mi bruciò un ramo.
«Strillavo come un’aquila, senza rendermi conto che,
con il ramo bruciato, non ero più attaccato al nodoso. Feci
uno sgambo11 e piombai su uno schizza12che, invece di re­
stare sfangato13, sprofondò nel mio baule. Non erano moi­
n e 14! Lui, soprattutto, scintillava1516e io non sapevo come
fare per dargli aria l\
«Ebbi un colpo17— e dovevo essere sforato18per davve­
ro per non averci pensato prima. Mi misi a fare fiori19e do­
po alcuni grossi papaveri20la sfera dello schizza venne fuo-

1 Lavorare per il fresco: essere una delle foglie che fanno ombra.
2 Nebbia!: impossibile!
3 Martellante: cuore.
4 Baule: petto.
5 Vindice del mio libro-, gli ultimi istanti che mi restavano da vivere.
4 Andar storto-, sbagliarsi.
7 Ciarliera: bocca.
8 Spaziosa: fronte.
9 Gibboso: naso.
10 Tamburo-, ventre.
11 Sgambo: movimento.
12 Schizza: gatto.
13 Sfangato-, schiacciato.
14 Non erano moine: non era piacevole.
15 Scintillare: essere furioso.
16 Dar aria: far andar via.
17 Colpo: idea.
18 Sforato: stupido.
19 Fare fiori: evacuare.
20 Papaveri: escrementi.
BENJAMIN PERET 3 1 9

ri dalla mia trom ba!. E cantava, cantava; era peggio della


Chenal.
«Tirai lo schizza per la sfera, e dopo una dozzina di fia­
ti 12 di sforzi, riuscii a sbarazzarmene. Una volta libero, si
affrettò a impagliarsela3. Quanto a me, ero con le canne
al ven to4e tuttavia prendo il vecchio5a testimone che non
avevo niente nella borsa6da due mandate7. Avevo i rami
di gomma8, senza dubbio perché non avevo insaccato9
niente da un mucchio di tempo, e, dopo dieci vasche, mi
sciolsi101e non ci misi molto a impiombarmiu. Tornai al-
Paperto12sentendo gli acini13cadérmi sulla sfera.
«Buon Dio, ecco la scarica!14
«Questa sonata15ebbe un effetto magico, e lo scaldino16
riapparve. Poteva essere Pasciutta17e, siccome eravamo in
estate, lo scaldino avrebbe dovuto trovarsi sopra di me.
Era alla mia sinistra e si avvicinava a tutta velocità. Cin­
que o sei fiati piu tardi, era tra le mie gambe! e la mia ca­
rota 18era pronta.
«Ah! Che beatitudine, copa’ 19! Era come una sfarfalla20

1 Tromba: ano.
2 Fiato: minuto.
3 Impagliarsela: scappare.
4 Essere con le canne al vento: essere ubriaco.
5 Vecchio: Dio.
6 Borsa: stomaco.
7 Mandata: giorno.
8 Avere i rami di gomma: vacillare sulle gambe.
9 Insaccare: mangiare.
10 Sciogliersi: cadere, crollare.
11 Impiombarsi: addormentarsi.
12 Tornare all’aperto: svegliarsi.
13 Acini: grosse gocce di pioggia.
14 Scarica: temporale.
15 Sonata: parola.
u Scaldino: sole.
17 Asciutta: mezzogiorno.
18 Carota: sesso.
19 Copa’ : amico, compagno.
20 Sfarfalla: danza.
320 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO
nuova e dentro di me tutto sfarfallava1. Mai avevo fanta-
siato12 una cosa cosi. E t’assicuro adesso l ’ho fatta finita
con le sottane3. Tu non sai, non puoi immaginare!
«Dopo di che, lo scaldino scomparve in un nodoso.
«Mi sembrava di essere una sfarfalla, e sfarfallavo solo
per filate4e filate. Partii dritto verso lo scaldino che era ri­
tornato al suo posto nel coperchio5 ma, dopo pochi fiati,
mi accorsi che non ci potevo arrivare, ricascai sulla fan­
gaia e ci sprofondai tutto, ma faceva brusio6e brustolava7
sempre di più.
«Finalmente ritornai alla superficie della fangaia, ma
mi accorsi di esser diventato cigno su un porta-foglie8 e
avevo i riccioli9 al vento. Sulla fangaia c’era un medaglie­
re 101in grandi stracci11. Mi fece un piccolo segno con la pial­
la 12e mi gridò:
«— Ehi! Lohengrin! Corri all’adunata! »

T R E C I L IE G E E U N A S A R D IN A

Ciò che s’innalza da un campo di grano non assomiglia


necessariamente a una brocca
piu di quanto assomigli a un vagone letto ciò che mangia
i troni

1 Sfarfallare: danzare.
2 Fantasiare: immaginare.
3 Sottane: donne.
4 Filata: ora.
5 Coperchio: cielo.
6 Brusio: caldo.
7 Brustolare: scaldare.
8 Porta-foglie: stagno coperto di ninfee.
9 Riccioli: piume.
10 Medagliere: generale,
11 I grandi stracci: in alta uniforme.
12 Pialla: mano.
BENJAMIN PÉRET 321

dove cervelli in fuoco


sprizzano piogge di sensitive
simili talvolta alle ballerine che si tirano su la giarret­
tiera
ciò che permette allo spettatore nascosto dietro un car­
ciofo di cristallo sorridente co­
me un albero
segreto strappato
che inonda la campagna
dove cresceranno solo segnalatori d'incendio
a forma di pantaloni da donna
ciò che permette dico
allo spettatore dalla testa di palizzata coperta di cap­
puccine
di disselciare la sua strada
con un'insegna di casino in mano
ma se avesse un ombrello infantile appeso alle orecchie
e le costole a forma di Ofelia
respirerebbe tranquillo come un baritono impanato
che sorveglia un campo di ciliegi morti
per lo scoppio del reggiseno dei germogli
la cui linfa
trasparente nella penombra dei cinema
fuggirebbe al passaggio dei tram che mai diverrebbero
camosci
come le rovine fumanti dal sorriso di strada sbarrata
la cui linfa
d'umore nero come uno pneumatico pugnalato
o allegra come una chiesa trasformata in mattatoio
legge il giornale della sera dove si dice
come la barba di un veterano della grande guerra
serve da portapenne ai suoi nipotini
che mi fanno irresistibilmente pensare
alla pubblicità del cioccolato con biglietti premio per
chi lo compera.
Tuttavia la grande lotta tra il carbone e i carbonai
322 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO
terminerà solo con la vittoria delle stelle marine
che si lavano i denti con una candela di ribes
dagli occhi chiusi
come un vulcano che contempli il suo sperma
in marcia verso il mare
e malgrado gli scorpioni che si uccidono nelle sue fiam­
me
non esita a massacrare qualche dozzina di seni di nonne
o di segnali ferroviari
che diventeranno cosi facilmente scorie per piumini
scossi da soprassalti convulsi proprio come biancospini
in fiore
E gli occhi arrossati dai cocomeri vedranno in una nu­
vola di baffi grandi serrature
molli dondolarsi come probosci­
di di elefante con i loro seni di
Metà-Quaresima
con i loro piedi di sorrisi
con le loro gambe di oscillazioni frenetiche
che ricordano
sia pure di lontano
i tremiti nervosi delle sorgenti del Nilo
dove nacque il ballo di San-Vito
dentro un guscio di noce
amaro come un calcio in culo
atteso dal momento in cui si vede oltre i campi di rape
e tulipani
in croce come spade che prestano giuramento
un po’ di luna in un vaso di marmellata logoro come
una cavalletta
che potrebbe prendere il posto di una gondola
spinta dagli sternuti dei rematori
facilmente quanto un acchiappamosche tatuato come
un papa in una sorgente termale
dove vengono curate
BENJAMIN PERET 323

le verruche luminose che crescono alPinterno dei vec-


chi crani illustri
ingoia i piu profondi sospiri
che si camuffano talora in bagni di latte
tempestosi come un montone
talora in un bruto grossolano
che sogna biancheria di pizzo
come un fagiolo al chiaro di luna.
Jacques R igaut
1899-1929

Lo «stoicismo - dice Baudelaire - religione che ha un solo sa­


cramento: il suicidio! » Benché il suicidio non abbia tardato ad as­
sumere per lui questo valore di sacramento unico, a Jacques Rigaut
bisogna attribuire tutt’altra religione che quella stoica. La rasse­
gnazione non è il suo forte: non solo il dolore, ma l ’assenza di pia­
cere è per lui un male intollerabile. È combattuto tra un egoismo
assoluto, flagrante, e una generosità innata, che sconfina nella pro­
digalità suprema, quella della vita costantemente offerta, disposta a
perdersi per un si o per un no. Il piu bel dono della vita è la libertà
che ci è lasciata di poterne uscire al momento giusto, libertà almeno
teorica, ma che vai forse la pena di conquistare con una lotta acca­
nita contro la vigliaccheria e contro tutte le insidie di una necessità
fatta uomo, che ha relazioni troppo oscure e troppo discontinue con
la necessità naturale. Verso i vent’anni Jacques Rigaut decretò da
sé la propria condanna a morte, e attese con impazienza, d’ora in
ora, per dieci anni, l’istante perfettamente appropriato in cui porre
fine ai suoi giorni. Si trattava, in ogni caso, di un’esperienza umana
esaltante, alla quale seppe dare un accento tra il tragico e l’umoristi­
co che è solo suo. Le ombre di Petronio, di Alphonse Rabbe, di
Paul Lafargue, di Jacques Vaché, sono come segnali lungo una stra­
da sorvegliata anche da altri eroi che con fastidio riconosciamo ben
diversi da coloro che li chiamarono all’esistenza sensibile: «Chi
non è Julien Sorel? Stendhal - Chi non è Monsieur Teste? Valéry
- Chi non è Lafcadio? Gide - Chi non è Giulietta? Shakespeare».
Jacques Rigaut, la cui ambizione letteraria si limitò a voler fon­
dare un giornale il cui titolo è già un programma, «La grabuge» [La
rissa], nasconde ogni sera una rivoltella sotto il guanciale: è il suo
modo di aderire all’opinione comune che la notte porti consiglio, e
di sperare di farla finita con la teppa che è in noi, cioè con le forme
convenzionali di adattamento. Baudelaire dice ancora: «La vita ha
una sola vera attrattiva: il fascino del gioco. Ma se ci è indifferente
JACQUES RIGAUT 325
vincere o perdere?» Rigaut gira intorno a questa indifferenza senza
mai raggiungerla, ma il gioco resta. Correre il rischio; in caso di
dubbio più o meno acuto, giocarsi la certezza a testa e croce. Si pre­
senta come un «personaggio morale», ma intendiamoci bene: visto
il carattere stesso della sua decisione, con lui si dà un addio alle con­
venienze. Il dandysmo eterno è in gioco: «Sarò un grande morto...
Provate, se vi riesce, a fermare un uomo che viaggia col suo suicidio
airocchiello». Ha viaggiato curiosamente come lo sbadiglio di Cha­
teaubriand fino a noi: «Imprudenza: ¡uomo che sbadiglia davanti
allo specchio. Chi dei due si stancherà di sbadigliare? Chi ha sbadi­
gliato per primo? Da mascella a mascella, il mio sbadiglio scivola
fino alla bella Americana. Un negro ha fame, una ragazza si annoia:
sono io che ho sbadigliato». Si tratta sempre di saltare su una Rolls-
Royce, ma, si badi, a marcia indietro. «Dopo di me il diluvio», que­
ste parole non gli suggeriscono altra idea che quella d’inseguirsi tra
i suoi antenati, di riacciuffare i morti che possono aver contato qual­
cosa nel corso della loro vita, di dare al loro destino il piccolo giro
di manovella che li devii su un altro binario. Occorre solo trovare
il veicolo. È la corsa delle diecimila miglia di Jarry applicata alla
vita della mente.
Finalmente, il 5 novembre 1929, il momento è venuto. Jacques
Rigaut, dopo una minuziosa toilette, e preoccupandosi che questa
specie di partenza abbia tutta la dignità esteriore che esige: non la­
sciar nulla fuori posto, cautelarsi per mezzo di qualche cuscino da
ogni possibile tremito che sarebbe un'ultima concessione al disor­
dine, si tira una pallottola nel cuore.

Sarò serio come il piacere. La gente non sa ciò che dice.


Nessuna ragione di vivere, ma nessuna ragione di morire.
Accettare la vita è il solo modo che ci è concesso di testi­
moniare il nostro disprezzo. La vita non vale la pena che
ci si dia da fare per lasciarla. Possiamo, per un senso di
carità, evitarla a qualcuno; ma a noi stessi? La disperazio­
ne, l ’indifferenza, i tradimenti, la fedeltà, la solitudine,
la famiglia, la libertà, la pesantezza, il denaro, la povertà,
Famore, la mancanza d ’amore, la sifilide, la salute, il son­
no, Finsonnia, il desiderio, l ’impotenza, la banalità, l ’arte,
l ’onestà, il disonore, la mediocrità, l ’intelligenza, nulla che
326 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

valga a far rizzare il pelo a un gatto. Sappiamo troppo bene


di che son fatte queste cose per badarci; buone soltanto
a diffondere qualche trascurabile suicidio-incidente. (C'è
la sofferenza fisica, è vero. Per quanto mi riguarda, io sto
bene; tanto peggio per chi ha male al fegato. Non mi piace
chi si atteggia a vittima, ma non me la prendo con chi giu­
dica di non poter sopportare un cancro). E poi, nevvero,
quel che ci libera, quel che ci toglie ogni possibilità di sof­
ferenza, è questo revolver con cui ci uccideremo questa se­
ra, se cosi ci piacerà. La contrarietà e la disperazione non
sono mai, del resto, che nuove ragioni di attaccarsi alla vi­
ta. È proprio comodo, il suicidio: non smetto mai di pen­
sarci: è troppo comodo: non mi sono ucciso. Rimane un
rimpianto : non vorremmo andarcene prima di esserci com­
promessi; uscendo, vorremmo portar via con noi Notre-
Dame, l'amore o la Repubblica.
Il suicidio dev'essere una vocazione. C'è un sangue che
scorre che pretende una giustificazione al suo intermina­
bile percorso. Nelle dita c'è l'insofferenza di chiudersi so­
lo sul palmo della mano. C'è il prurito di un’attività che
si rivolta contro il suo depositario, se l’infelice non ha sa­
puto sceglierle uno scopo. Desideri senza immagini, desi­
deri d ’impossibile. Si erge qui il limite fra le sofferenze
che hanno un nome e un oggetto e quell'altra sofferenza,
anonima e autogena. È una specie di pubertà dello spirito,
cosi come la descrivono nei romanzi (poiché naturalmente
sono stato corrotto troppo giovane, per aver conosciuto
una crisi all’epoca del risveglio dei sensi), ma se ne esce
in modo diverso dal suicidio.
Non ho preso gran che sul serio; da bambino facevo le
boccacce alle mendicanti che per la strada abbordavano
mia madre chiedendo l'elemosina, e pizzicavo di nascosto
i loro marmocchi che piangevano di freddo. Quando mio
padre, morendo, pretese di confidarmi le sue ultime vo­
lontà e mi chiamò al suo capezzale, agguantai la serva can­
tando: I genitori facciamoli fuori — Vedrai che bello sarà
Jacques Rigaut
328 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Vamore... Ogni volta che ebbi l’occasione di ingannare un


amico, non credo di essermela lasciata sfuggire- Ma vi è
poco merito a farsi beffe della bontà, a schernire la cari­
tà, e l ’effetto comico più sicuro si ottiene spogliando la
gente della sua piccola vita, senza motivo, per ridere. I
bambini, che non si sbagliano mai, sanno assaporare tutto
il piacere che si prova a gettare il panico in un formicaio
o a schiacciare due mosche sorprese in amore. Durante la
guerra ho buttato una bomba in un rifugio dove due com­
pagni si preparavano prima di andare in licenza. Che ri­
sate, nel vedere la mia amante rotolare qualche passo più
in là, col viso spaventato sotto i colpi che le sferravo col
pugno di ferro, mentre lei si aspettava una carezza; e che
spettacolo, la gente che si azzuffava per uscire dal Gau-
mont-Palace, dopo che io vi avevo appiccato il fuoco! Q ue­
sta sera, non avete nulla da temere: mi ha preso la fanta­
sia di essere serio. - Evidentemente non vi è una sola pa­
rola vera in tutta questa storia ed io sono il ragazzino più
savio di Parigi, ma mi sono cosi spesso crogiolato nella
fantasticheria di aver compiuto o di star per compiere cosi
onorevoli imprese, che non è nemmeno una menzogna. In
ogni caso mi sono preso gioco di un mucchio di cose! V i
è una sola cosa al mondo di cui non mi è riuscito ridere:
il piacere. Se fossi ancora capace di vergogna o di amor
proprio, state pur certi che non mi lascerei andare a una
cosi penosa confidenza. Un’altra volta vi spiegherò perché
10 non mento mai: non vi è nulla da nascondere ai propri
domestici. Ritorniamo piuttosto al piacere, che s’incarica
di riacchiapparvi e di trascinarvi con due piccole note mu­
sicali, l ’idea della pelle e altre ancora. Fino a quando non
avrò superato il gusto del piacere, sarò sensibile alla ver­
tigine del suicidio, ne sono ben conscio.
La prima volta, mi uccisi per far rabbia alla mia aman­
te. Quella creatura tutta virtù rifiutò improvvisamente di
far l ’amore con me, per il rimorso, cosi diceva, di tradire
11 suo amante ufficiale. Non so con certezza se l ’amavo, an­
JACQUES RIGAUT 329

zi ho il sospetto che quindici giorni di lontananza avreb­


bero decisamente diminuito il bisogno che avevo di lei:
il suo rifiuto mi esasperò. In che modo colpirla? Forse mi
son dimenticato di dire che essa aveva conservato per me
una profonda e tenace tenerezza. Mi uccisi per farle rab­
bia. Mi si vorrà perdonare questo suicidio, se si considera
la mia estrema giovinezza all’epoca di quell’avventura.
La seconda volta, mi uccisi per pigrizia. Ero povero e
la prospettiva di un qualsiasi lavoro mi riempiva di orro­
re: un giorno mi uccisi senza convinzione, cosi come avevo
vissuto. Nessuno può volermene per questa morte, veden­
do che bell’aspetto fiorente ho oggi.
La terza volta... vi risparmio il racconto dei miei altri
suicidii, se acconsentite ad ascoltare questo ancora: mi ero
appena coricato, dopo una sera in cui l ’assedio della noia
non era certo stato più insopportabile delle altre sere. Pre­
si la decisione e al tempo stesso, lo ricordo benissimo, ar­
ticolai la sola ragione: E poi basta! Mi alzai, e andai a cer­
care l’unica arma che c’era in casa, un piccolo revolver che
aveva acquistato uno dei miei nonni, ancora carico delle
stesse vecchie pallottole (vedremo subito perché insisto su
questo dettaglio). Mi trovavo nudo nella camera, come lo
ero nel letto, ed ebbi freddo: Mi affrettai a cacciarmi sotto
le coperte. Avevo armato il cane, e sentivo il contatto ge­
lido dell’acciaio nella mia bocca. In quell’attimo è vero­
simile che io sentissi il battito del mio cuore, come lo sen­
tivo battere ascoltando il fischio dell’obice prima dell’e­
splosione, come in presenza dell’irreparabile non ancora
avvenuto. Ho schiacciato il grilletto, il cane è scattato, il
colpo non era partito. Ho posate allora l’arma sul tavoli­
no, forse con un riso un po’ nervoso. Dieci minuti dopo,
dormivo. Credo di aver fatto un’osservazione abbastanza
importante, dato che... naturalmente! È da me non aver
pensato neanche per un secondo a premere un’altra volta
il grilletto. Ciò che contava non era tanto morire, ma aver
preso la decisione di morire.
330 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

Un uomo risparmiato dalla noia e dalle noie trova forse


nel suicidio il compimento del gesto più disinteressato, a
patto naturalmente che non sia curioso della morte! Io
non so assolutamente né quando né come ho potuto pen­
sare cosi, ma ciò non mi dà nessun fastidio. Ma ecco ad
ogni modo Tatto più assurdo, e la fantasia al suo dirompe­
re, e la disinvoltura più in là del sonno, e il modo più puro
di compromettersi.
Jacques Prévert
nato nel 1900

Studiando nel bambino dai tre ai tredici anni le manifestazioni


successive di ossequio alle regole del gioco delle biglie, Jean Piaget,
autore di pregevoli opere tra le quali Le jugement inorai chez Ven­
fant (1932), ne enumera tre, che rispondono a una condotta sostan­
zialmente diversa e si susseguono in modo invariabile: obbedienza
alla regola motoria pura e semplice, che corrisponde prima dei set­
te anni all’intelligenza motoria preverbale pressoché indipendente
da ogni rapporto sociale; alla regola coercitiva, che corrisponde dai
sette agli undici anni al rispetto unilaterale del bambino che riceve
un ordine senza possibilità di replica; infine obbedienza alla regola
razionale, dopo gli undici anni, regola costituita-costituente sulla
base del rispetto reciproco. Nella misura in cui tutto il gioco socia­
le dell’adulto tende a riprodurre su altra scala il meccanismo del gio­
co delle biglie, di uso immemorabile e universale, bisogna conveni­
re che poche persone giungono al livello di coscienza che segna l’ac­
cesso al terzo stadio, e che l’immensa maggioranza degli uomini si
ferma al secondo (sottomissione cieca al capo malvagio, si chiami
Hitler o Stalin, fanatismo della regola che supplisce alla coscienza
della regola, esigenza di far bella figura davanti al «grande», che nel
casi disperati equivale a ciò che a scuola, nei confronti del maestro,
la maggior parte degli scolari bollano come «leccare i piedi»: la
spiata, lo sviolinamento, ecc.).
Si direbbe che Jacques Prévert sia riuscito nell’impresa di pas­
sare a salta-montone (è la parola giusta) dal primo al terzo stadio,
non solo, ma che sia rimasto in grado di rifare questo salto in senso
contrario e cosi via. Con un piede nelYes e l’altro nell’io - quest’ul­
timo differenziato al massimo dal super-io posticcio - o meglio, co­
me ha detto egli stesso, con «un piede sulla riva destra, l’altro sulla
riva sinistra e il terzo nel sedere degli imbecilli», egli sa usare da
maestro quelle scorciatoie capaci di restituirci in un lampo i modi
sensibili e raggianti dell’infanzia, e di rifornire all’infinito il serba­
toio della rivolta.
332 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

T E N T A T IV O D I D E S C R IZ IO N E D ’U N B A N C H E T T O
A P A R IG I [F R A N C IA ]

Quelli che piamente...


Quelli che copiosamente...
Quelli che tricolorano
Quelli che inaugurano
Quelli che credono
Quelli che credono di credere
Quelli che credono nel credito
Quelli che panneggiano
Quelli che sgranocchiano
Quelli che andromacano
Quelli che vittoriovaneggiano
Quelli che maiuscolano
Quelli che cantano a tempo
Quelli che tirano i piedi e li lucidano
Quelli che ventreggiano
Quelli che chinano i rai
Quelli che sanno spartire il pollo
Quelli che son calvi dentro il cranio
Quelli che benedicono i labari
Queli che rendon gli «onori del piede»
Quelli che si levino i morti
Quelli che baionettincannano
Quelli che dànno cannoni ai bambini
Quelli che dànno bambini ai cannoni
Quelli che fluttuano ma non s’immergono
Quelli che non prendono II Pireo per un uomo
Quelli che libertà han si cara come sa chi per lei tasse
rifiuta
Quelli che in sogno piantano cocci di bottiglia sulla
grande muraglia della Cina
JACQUE S PRÉVERT 3 3 3

Quelli che si mettono una maschera sulla faccia quando


mangiano gli sganarelli
Quelli che vanno ma poi fanno friggere te
Quelli che hanno quattromilaottocentodieci metri di
Monte Bianco, trecento di torre Eiffel, venticinque cen­
timetri di petto e ne sono fieri
Quelli che muovono la Grande Proletaria
Quelli che accorrono, volano e ci vendicano, tutti co­
storo e molti altri ancora entravano impettiti all’Eliseo fa­
cendo scricchiolare la ghiaia, tutti costoro s’urtavano, s’af­
frettavano dato che c’era un grande banchetto in maschera
e ciascuno si portava dietro quella che voleva.
Uno aveva una maschera da pipa di terracotta, un altro
una maschera da ammiraglio inglese; ce n’era con masche­
re da fiala puzzolente, con maschere da Galliffet, con ma­
schere da animali dalla maschera trista, con maschere da
A . Comte, con maschere da uomo mascherato, con masche­
re da Rouget de Lisle, con maschere da Santa Teresa, del­
le maschere di testina di vitello, con maschere da monsi­
gnore e maschere da lattaio.
Alcuni, per far ridere la gente, portavano sulle spalle
delle graziose facce di vitello e quelle facce erano cosi bel­
le e tristi, con le loro erbette verdi nel cavo delle orecchie
come i varecchi nel cavo delle rocce, che nessuno ci face­
va caso.
Una madre dalla maschera da morta mostrava ridendo
la figlia dalla maschera da orfana al vecchio diplomatico a-
mico di famiglia che s’era messo su la maschera di Soleil-
land.
Era veramente deliziosamente incantevole e d’un gu­
sto cosi sicuro che quando giunse il Presidente con una
sontuosa maschera da uovo di Colombo fu un delirio.
- Era semplice, ma bisognava pensarci, - disse il Pre­
sidente dispiegando il tovagliolo e dinanzi a tanta malizia
congiunta a tanta semplicità gl’invitati non possono domi­
nare la loro emozione; e attraverso gli occhi cartonati da
334 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

coccodrillo un grosso industriale versa lacrime vere di gio­


ia, uno piu piccolo mordicchia la tavola, belle donne s’ac­
carezzano i seni piano piano e P ammiraglio, travolto dal­
l ’entusiasmo, beve la sua coppa di sciampagna dalla parte
sbagliata, sgranocchia il piede della coppa e, con l ’intesti-
no perforato, muore in piedi, avvinghiato al bastingaggio
della sua sedia, gridando; - Prima i bambini!
Strano caso, la moglie del naufrago, su consiglio della
domestica, s’era confezionata proprio quella mattina una
straordinaria maschera da vedova di guerra, con le due va­
ste pieghe amare ad ambo i lati della bocca e le due borset-
tine del dolore, grigie sotto gli occhi azzurri.
Dritta sulla sua sedia, interpella il Presidente e reclama
strillando il sussidio militare e il diritto di portare sull’a-
bito da sera il sestante del defunto ad armacollo.
Quietatasi un po’ , lascia poi vagare sulla tavola il suo
sguardo di donna sola e, scorgendo fra gli antipasti dei fi­
letti d'aringa, meccanicamente ne prende uno singhiozzan­
do, poi ne riprende, pensando alPammiraglio che da vivo
non ne mangiava spesso benché gli piacessero assai. Stop.
Il capo del protocollo dice che bisogna smettere di man­
giare perché il Presidente s’accinge a parlare.
Il Presidente s’è alzato, ha rotto col coltello il sommo
del suo guscio per avere meno caldo, un po’ meno.
Parla e il silenzio è tale che si sente volare una mosca
e la si sente cosi distintamente che non si sente più parlare
il Presidente, ed è proprio un peccato perché sta parlando
appunto delle mosche e della loro incontestabile utilità
in ogni settore e particolarmente nel settore coloniale.
«... Infatti senza le mosche niente cacciamosche, senza
cacciamosche niente dey d’Algeri, niente console... niente
affronti da vendicare, niente olivi, niente Algeria, niente
afa, signori, e l ’afa è la salute dei grandi viaggiatori, del
resto...»
Ma le mosche quando s’annoiano muoiono, e tutte
quelle storie d’una volta, tutte quelle statistiche le col­
JACQUES PREVERT 333

mano di profonda tristezza, cominciano con lo staccare


una zampa dal soffitto, poi l ’altra, e vengon giu come mo­
sche, nei piatti... sui petti inamidati, morte, come dice la
canzone.

Trad. di Ivos Margoni e Franca Madonia, Feltrinelli, Milano 1967.


Salvador D alí
nato nel 1904

Se Thumour, che è una smentita alla realtà e un’affermazione


grandiosa del principio del piacere, deriva da un brusco spostamene
to deiraccento psichico, che in questa circostanza viene riportato
dall’io al super-io\ se il super-io è l ’intermediario indispensabile a
far scattare il meccanismo dell’atteggiamento umoristico, ci si può
aspettare che quest’ultimo assuma un andamento funzionale e un
carattere pressoché costante negli stati mentali causati da un arre*
sto evolutivo della personalità allo stadio del super-io. Questi stati
mentali esistono: sono gli stati «paranoici» che corrispondono, se-
condo la definizione di Kraepelin, « allo sviluppo insidioso, per ef­
fetto di cause interne e secondo una evoluzione continua, di un si­
stema delirante durevole e non amovibile, che s’instaura lasciando
completamente intatti la chiarezza e l’ordine nel pensiero, nella vo­
lontà e nell’azione». D ’altra parte sappiamo, grazie a Bleuler, che il
delirio paranoico ha le sue origini in uno stato affettivo cronico (a
base di complessi) propizio allo sviluppo coerente di certi errori
verso i quali il soggetto dimostra un attaccamento passionale. La
paranoia presuppone, in ultima analisi, una affettività «a forte a-
zione di circuito», caratterizzata dalla stabilità delle sue reazioni e
da uno sviamento della funzione logica dai suoi canali ordinari. Gli
artisti hanno in comune con i malati paranoici un certo numero di
queste disposizioni, che derivano dalla loro fissazione al periodo del
narcisismo secondario (reincorporazione nell’/o di una parte della
libido, e quindi di una parte del mondo esterno, essendo quella par­
te della libido già proiettata sugli oggetti dotati di valore soggetti­
vo, cioè essenzialmente sugli oggetti parentali, con conseguente al­
leggerimento delle costrizioni repressive e accomodamento al mec­
canismo autopunitivo del super-io). Si può senz’altro affermare che
nella misura stessa in cui l’artista è capace di riprodurre, di ogget­
tivare con la pittura o con qualsiasi altro mezzo gli oggetti esterni
di cui subisce la dolorosa costrizione, egli è in grado di sfuggire in
SALVADOR DALÍ 337
gran parte alla tirannia degli oggetti stessi ed evita di cadere nella
psicosi propriamente detta. La sublimazione che si produce in si­
mili casi, sembra essere Teff etto simultaneo, in occasione di un
trauma, del bisogno di fissazione narcisistico (a carattere sadico­
anale) e degli istinti sociali (erotizzazione degli oggetti fraterni) che
si manifestano soprattutto in questo periodo.
La grande originalità di Salvador Dall consiste nelPessersi dimo­
strato all’altezza di partecipare a questa azione sia come attore che
come spettatore, di essere riuscito a sedere come giudice e insie­
me come parte in causa al processo intentato dal piacere alla realtà.
In ciò consiste Pattività paranoico-critica, che egli ha definito «me­
todo spontaneo di conoscenza irrazionale basata sulPassociazione
interpreta tivo-critica dei fenomeni deliranti». È riuscito ad equili­
brare, in sé e fuori di sé, lo stato lirico fondato sulPintuizione pura,
che è tale da poter procedere solo di godimento in godimento (con­
cezione del piacere artistico erotizzato al massimo grado) e lo stato
speculativo, basato sulla riflessione, che dispensa soddisfazioni di
carattere più moderato, ma di natura tanto particolare e sottile da
permettere che vi si ritrovi il principio del piacere. Beninteso con
Dall si ha a che fare con una paranoia latente, del tipo più benigno,
la paranoia a livelli deliranti isolati (per riprendere la terminologia
kraepeliniana) la cui evoluzione è al sicuro da ogni accidente confu­
sionale. La sua intelligenza, di primissimo ordine, eccelle nel colle­
gare, a cose fatte ma subito, questi livelli gli uni agli altri, e nel ra­
zionalizzare per gradi la distanza percorsa. Le esperienze visionarie
vissute, le falsificazioni cariche di significato della memoria, le in­
terpretazioni illecite ultrasoggettive che compongono il quadro cli­
nico della paranoia, gli forniscono la materia prima per il suo lavo­
ro, ed egli le considera come un filone prezioso cui attingere. Ma,
partendo da questa materia prima, si snoda un lavoro sistematico di
organizzazione e di sfruttamento, che tende via via a eliminare ciò
che le forme della vita quotidiana hanno di ostile e a superare que­
sta ostilità su scala universale. Dali infatti non perde di vista che il
dramma umano nasce e si esaspera soprattutto per la contraddizio­
ne tra necessità naturale e necessità logica, poiché queste due neces­
sità riescono a fondersi soltanto a sprazzi, per giungere a scoprire
nel meraviglioso la regione, illuminata da una luce intermittente,
del «caso oggettivo»: «L’attività paranoico-critica è una forza orga­
nizzatrice e produttrice del caso oggettivo».
Fermandosi come abbiamo visto allo stadio del super-io e com­
piacendosi di questo, Dali considera l ’oggetto esterno come dotato
di una vita simbolica che primeggia su tutte le altre, e tende a far­
ne il veicolo concreto dell’humour. Questo oggetto è infatti distol-
338 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

to dal suo significato convenzionale, utilitario o altro, per essere


messo in stretta relazione con Yio, in rapporto al quale conserva un
valore costitutivo. «Siate certi che i famosi orologi molli di Salva­
dor Dall non sono altro che il “ camembert ” paranoico-critico tene­
ro, stravagante, solitario del tempo e dello spazio». Dali ha espo­
sto a New York un telefono dipinto di rosso, che aveva per ricevi­
tore un’aragosta viva (si può seguire in ciò, fino al suo esorcismo ar­
tistico, la progressione del meccanismo autopunitivo del taglio del­
l ’orecchio, a partire da Van Gogh). Il suo atteggiamento di fronte
a ciò che egli chiama «i corpi strani» dello spazio rivela il suo at­
taccamento allo stadio infantile di indifferenziazione tra la cono­
scenza degli oggetti e quella degli esseri, ed è caratteristica dell’« ae­
rodinamismo morale» che gli ha permesso di realizzare questa rara
fantasia spettacolare: «Affittare una vecchietta per bene, all’ultimo
stadio di decrepitezza, ed esporla vestita da torero, posandole sul
capo, dopo averlo rasato, una frittata alle erbette: che tremerà se­
condo il vacillamento continuo della vecchietta. Si potrà anche por­
re una monetina sulla frittata» \

I NUOVI C O LO R I D E L S E X -A P P E A L S P E T T R A L E

Il peso dei fantasmi.

Da qualche tempo, e col passare degli anni, la nozione


di fantasma perde rigidità, diventa greve e si arrotonda
in quel peso persuasivo, in quella paffuta stereotipia e in
quel contorno analitico e nutritivo proprio dei sacchi di
patate visti contro luce che, come tutti sanno, sono preci­
samente quelli che François Millet, pittore involontario
dei piu importanti fantasmi, ebbe l ’insistita compiacenza

1 Non occorre precisare che questa nota si riferisce esclusivamente


al primo Dall, scomparso verso il 1935 per far posto alla personalità me­
glio conosciuta sotto il nome di Avida Dollars, ritrattista mondano da
qualche tempo reintegrato alla fede cattolica e all’«ideale artistico del
Rinascimento», che oggi fa sfoggio degli incoraggiamenti e dei rallegra­
menti del papa (dicembre 1949).
SALVADOR DALÍ 339
di trasmetterci, fissandoli nelle sue tele immortali, realiz­
zate magistralmente, con tutta la bassezza emozionale di
cui un pittore può essere capace e con tutto quel losco,
concreto e unico, grazie al quale possiamo tutti, da qual­
che tempo, permetterci il lusso di inorridire.
Le ragioni del preoccupante aumento di peso, dalFap­
pesantirsi compatto, delT afflosciarsi realista ed extra-mol­
le dei fantasmi attuali, non sono che conseguenze derivan­
ti dalla nozione primaria e originaria della materializza­
zione stessa dell’idea di fantasma che, come vedremo rapi­
damente, risiede nel sentimento di «volume virtuale».

Perché Vobesità dei fantasmi.

Il fantasma si materializza tramite il « simulacro del vo­


lume». Il simulacro del volume è Pinvolucro. L ’involucro
nasconde, protegge, trasfigura, incita, tenta, fornisce una
nozione ingannevole del volume. Crea un’ambivalenza nei
riguardi del volume, lo rende sospetto. Favorisce lo sboc­
ciare delle teorie deliranti del volume. Provoca vertigini
di conoscenza ideale del volume, di conoscenza inconsi­
stente del volume. L ’involucro smaterializza il contenuto,
il volume, debilita l ’oggettività del volume, rende ango­
scioso il volume virtuale.
Il grasso è l ’elemento angoscioso del volume concreto
della carne, e noi sappiamo che la libido umana rende l’an­
goscia antropomorfa, che personalizza il volume angoscio­
so, che lo trasforma in carne concreta, che trasforma l’an­
goscia metafisica in grasso concreto.
Che cos’è infatti questo spaventoso grasso della carne?
Non è precisamente ciò che avvolge, nasconde, proteg­
ge, trasfigura, incita, tenta, fornisce una nozione inganne­
vole del volume? Esso rende il volume sospetto, favorisce
le teorie deliranti del volume, provoca vertigini di cono­
scenza nutritiva e ideale del volume, provoca immagini ge­
340 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

latinose del volume, immagini extra-sottili, «virtuali», an­


gosciose del volume.
Ma il momento peggiore viene quando i volumi «vir­
tuali», dietro il lenzuolo dei fantasmi che ancora «conser­
vavano la linea», cominciano ad assumere quel portamen­
to sempre più grave, precisamente quello che sottolinea
rinconfondibile peso della realtà e del grasso sostanziale;
ma ancora peggiore è il momento in cui quello stesso len­
zuolo, cadendo, rivela al suo posto i volumi sospetti, nel­
la loro analitica, pesante, massiccia e graziosa apparenza
(caratteristiche del deprecabile stato di obesità dei fanta­
smi attuali), in cui rivela, lo ripeto, la minuscola e insieme
monumentale nutrice recentemente apparsa nei miei qua­
dri: essa rimane immobile, malgrado una torrenziale piog­
gia primaverile, seduta nella posa di una persona che la­
vora a maglia, in una pozza d'acqua, con le gonne intera­
mente e miseramente bagnate, con la schiena tesa, hitle­
riana, molle e tenera. Questo piccolo, grande e autentico
fantasma di nutrice se ne resta là, immobile, mentre, nel
paesaggio in cui è immerso, sorge, tra il cipresso boeckli-
niano e la nuvola boeckliniana foriera di tempeste, lo
«spettro iridato» più bello e terrificante del tartufo bian­
co della morte: Parcobaleno.
Qui la miseria dei presunti sinonimi urta contro gli an­
tagonismi più irriducibilmente specifici; infatti, come si
possono non considerare specificamente diversi l'imponen-
te volume della nutrice seduta nell'acqua, da un lato, e
dall'altro la virtualità illusoria ed effimera dei raggi di so­
le scomposti dall'acqua?

Il «sex-appeal» sarà «spettrale».

Sono molto orgoglioso di aver predetto nel 1928, in


pieno trionfo dell'anatomia funzionale e pratica, e tra il
SALVADOR DALI 3 4 1

piu ironico scetticismo, l ’imminenza dei muscoli rotondi


e salivari, tutti sgocciolanti sottintesi biologici, di Mae
W est. Oggi annuncio che il nuovo fascino sessuale delle
donne deriverà dalla possibile utilizzazione delle loro do­
ti e risorse spettrali, cioè dalle loro possibili dissociazioni,
decomposizioni carnali e luminose. Lo spettro iridato si
contrappone al fantasma (ancora nelle vesti di quel nostal­
gico farmacista di provincia cui tanto disperatamente as­
somiglia quell’altro fantasma diabetico e prosaico che ha
nome Greta Garbo).
La donna spettrale sarà la donna smontabile.

Come diventare spettrale?

Anticipazioni utopistiche. La donna diventerà spet­


trale disarticolando e deformando la sua anatomia. Il «cor­
po smontabile» è l ’aspirazione e la verifica dell’esibizioni­
smo femminile, che, diventando furiosamente analitico,
permetterà di esibire ogni pezzo separatamente, di isola­
re, per darle in pasto a parte, anatomie montate su graffe,
atmosferiche e spettrali come quella della mantide reli­
giosa, anch’essa montata su graffe e spettrale. Ciò sarà pos­
sibile grazie al perfezionarsi perverso dei futuri abiti aero-
dinamici e della ginnastica irrazionale. I busti di ogni tipo
saranno giustamente riportati di moda a scopi extra-sotti­
li, mentre nuovi e scomodi pezzi anatomici artificiali sa­
ranno usati per accentuare il sentimento atmosferico di un
seno, di una natica o di un calcagno (seni falsi dolcissimi
e ben modellati, benché leggermente cadenti e attaccati al­
la schiena, saranno indispensabili per l’abito da passeg­
gio). Il sorriso spettrale sarà provocato artificialmente tra­
mite le fibre metalliche vibratorie dei cappelli. Ma il mo­
dello fuori discussione, l ’antecedente sensazionale degli
abiti spettrali sarà sempre, e fino a nuovo ordine, quello di
Napoleone; desidero soprattutto richiamare l ’attenzione
3 4^ ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

sui pantaloni buoni (buoni da mangiare) di Napoleone, che


rendono evidenti e lievi i volumi super-sottili, teneri e con­
fusi che voi conoscete quanto me, e ciò grazie ai seguenti
fattori: addome e cosce «smontabili», che se ne stanno a
parte, isolati, atmosferici e spettrali, super-sottilmente
bianchi, stagliati nel nero, e Patteggiamento fantomatico
della linea del resto dell’abito (cappello compreso), an-
ch’esso a tutti ben noto.

«Le grandi automobili diventeranno serene».

Attraverso la luminosità sfolgorante ed extra-rapida del


sex-appeal spettrale delle scorticate vive, la prosaica mo-
numentalità delle grandi automobili, delle assi da stiro e
delle tenere nutrici diventerà fantomatica e serena.
Jean Ferry
nato nel 1906

A parte il racconto qui riportato, in cui senza esitazioni riconob-


bi come la quintessenza del turbamento proprio degli anni dopo il
’40 e il riflesso del loro «brivido nuovo», gli altri testi di Jean Ferry
vertono intorno alPidea delPuomo perduto. La nave è ripartita sen­
za preavviso, i passeggeri si sono dispersi non si sa dove. L ’isola è
deserta, ma di notte si colgono segni di vita. Qui, non è Puomo a
spostarsi, è la terra. Il mondo sensibile è Pestensione a perdita d’oc­
chio di quei trabocchetti che Puomo fino allora incontrava sul suo
cammino solo di tanto in tanto: «Non vi è mai successo di mettere
il piede, al buio, sull’ultimo gradino della scala, quello che non esi­
ste? Ebbene, questo paese è sempre cosi. La materia di cui è fatto
è la stessa di quel gradino inesistente». Gengis Khan, in pieno de­
lirio di possesso e di distruzione, corre il rischio, dato che il pianeta
è rotondo, di negarsi, attaccando le sue stesse terre devastate per
sempre. Non solo è impossibile sapere da dove si viene ma da chi si
viene: niente da spartire, in ogni caso, con quelli che si spacciano
per gli autori dei vostri giorni - di quali giorni? Meglio crearsi una
genealogia secondo il proprio capriccio e come detta il cuore, ma
se essi non vogliono saperne? (Vediamo esprimersi qui senza remo­
re una delle contestazioni e delle rivendicazioni capitali del bambi­
no: egli è altro da quello che dicono, un ratto è stato perpetrato a
suo danno. Spaventatevi pure se volete, ma questo è il punto, è la
volta dei genitori di non essere piu riconosciuti dai figli). L ’impor­
tante è che l’uomo è perduto nel tempo che immediatamente lo pre­
cede, e questo prova, di riflesso, che egli è perduto nel tempo che
verrà.
Uno degli effetti ricorrenti deU’humour di Jean Ferry consiste
nel non perdere mai l’occasione di mettere in mostra la stanchezza
che egli volentieri accusa, stanchezza che manifesta ai nostri occhi
tutti i tesori dell’energia. È per lui uno straordinario trampolino:
mi ricorda l ’esercizio di due «eccentrici» che una trentina d’anni fa
344 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

si esibivano all’Olympia in un numero intitolato «Fuorno che si


sgonfia». In una casa che essi, travestiti da muratori, costruivano,
e di cui alla fine non restava pietra su pietra, uno di essi era co­
stretto di continuo a tirar su l ’altro il quale, non appena lasciato a
se stesso, con lo sguardo nel vuoto, cominciava lentamente a girare
su di sé perdendo quota fino ad appiattirsi del tutto, riducendosi a
un mucchietto di vestiti afflosciato al suolo. Non ho mai visto nulla
di cosi irresistibilmente comico e angoscioso. Penso che in Jean
Ferry questi due personaggi siano, allo stesso modo, strettamente
associati. Hanno in comune perfino la carta da lettere su cui leggia­
mo: «Jean Ferry — Fabbricazione di soggetti di ogni genere — Lavo­
ro rapido e coscienzioso — Specialità in costruzioni psicologiche —
Grande assortimento di paradossi, idee audaci, ecc. - Sempre di­
sponibili: storie a forte contenuto umano - Dettagli poetici: a ri­
chiesta - Punte di humour: secondo grossezza». Senza perdere
troppo di vista il Jean Ferry II, «ancora più fiacco del solito», e a ri­
schio di dover correre tutti i momenti in suo aiuto, Jean Ferry I ha
saputo, per dieci anni, perseguire e condurre parzialmente in porto
un compito fra i più ardui, quello di decifrare Fenigma posto da
Raymond Roussel.

L A T IG R E M O N D A N A

Nessuna, fra tutte le attrazioni di music-hall stupida­


mente dannose tanto per il pubblico quanto per coloro che
le presentano, nessuna mi riempie di un orrore cosi so­
prannaturale come quel vecchio spettacolo detto della «ti­
gre mondana». Per chi non Pha visto, dal momento che
la nuova generazione ignora ciò che sono stati i grandi mu­
sic-hall di ieri, ricorderò in che consiste questo numero di
animali ammaestrati. Ma certo non saprei spiegare, né po­
trei tentare di comunicare, lo stato di terrore panico e di
abietto disgusto nel quale questo spettacolo mi precipita,
come in un'acqua infida e atrocemente fredda. Non dovrei
entrare nelle sale in cui questo numero, che d'altronde di­
venta sempre più raro, è in programma. Facile a dirsi. Per
JEAN FERRY 345
ragioni che mi sono sempre rimaste oscure, «la tigre mon­
dana» non viene mai annunciata; io non me l ’aspetto, o
per meglio dire si, un’oscura minaccia, che quasi non arri­
va a formularsi, pesa sul piacere che il music-hall mi pro­
cura. Ho un bel sospirare di sollievo dopo l’ultima attra­
zione in programma, conosco fin troppo bene la fanfara e
il cerimoniale che annunciano questo numero — eseguito
sempre, lo ripeto, come per cogliere alla sprovvista. Non
appena l ’orchestra attacca quel valzer squillante cosi carat­
teristico, so che cosa sta per succedere; un peso insoppor­
tabile mi schiaccia il petto, e il filo della paura è aspro come
una corrente a bassa tensione fra i miei denti. Dovrei an­
darmene, ma non ho più il coraggio. D ’altronde nessuno
si muove, nessuno condivide la mia angoscia, ed io so che
la bestia è già in cammino. Mi sembra, anche, che i braccio­
li della mia poltrona siano una cosi, oh cosi misera prote­
zione...
Prima si fa nella sala l ’oscurità totale. Poi sul proscenio
si accende un proiettore e il raggio di questo faro derisorio
illumina un palco vuoto, il più delle volte molto vicino al
mio posto. Molto vicino. Di qui, il pennello di luce si spo­
sta a cercare, all’estremità della balconata, una porta che
comunica con le quinte e, mentre gli ottoni dell’orchestra
attaccano drammaticamente « L ’invito al valzer», essi en­
trano.
La domatrice è una vistosa bellezza rossa, un po’ langui­
da. Porta, come unica arma, un ventaglio di piume di struz­
zo nere, con cui, alPinizio, nasconde la parte inferiore del
volto; si vedono solo i suoi immensi occhi verdi, al di sopra
dell’oscura frangia ondulata e oscillante. Scollatissima, le
braccia nude su cui la luce mette brumose iridescenze da
crepuscolo invernale, la domatrice è inguainata in un abito
da sera romantico, uno strano abito dai riflessi cupi, di un
nero abissale. È un abito di pelliccia, di una morbidezza e
finezza incredibili. E al di sopra di tutto ciò, il prorompere
in cascate di una chioma di fiamma trapunta di stelle d’oro.
34 6 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

L ’insieme è al tempo stesso opprimente e un po’ comico.


Ma chi può pensare di ridere? La domatrice, giocando col
ventaglio, e scoprendo cosi delle labbra pure dalPimmobile
sorriso, avanza verso il palco vuoto, seguita dal raggio del
proiettore, al braccio, per cosi dire, della tigre.
La tigre cammina in modo molto umano sulle due zam­
pe posteriori; è vestita come un dandy di raffinata elegan­
za, e l ’abito è tagliato in maniera cosi perfetta che riesce
difficile distinguere, sotto i pantaloni grigi e il panciotto a
fiori, sotto la pettorina di un bianco abbagliante dalla pie­
ghettatura inappuntabile e la redingote sagomata da una
mano sapientissima, il corpo dell’animale. Ma c’è la testa,
con quel ghigno spaventoso, e gli occhi folli che roteano
nelle orbite scarlatte, e il drizzarsi minaccioso dei baffi, e
le zanne che a tratti scintillano sotto le labbra contratte.
La tigre avanza rigida, tenendo sotto il braccio sinistro un
cappello grigio chiaro. La domatrice cammina con passo
armonioso; ogni tanto le sue reni si inarcano, il braccio nu­
do si contrae rivelando sotto la pelle vellutata e bionda un
muscolo insospettato: è il violento sforzo segreto con cui
ha raddrizzato il suo cavaliere che stava per cadere in a-
vanti.
Ed eccoli davanti alla porta del palco, che la tigre mon­
dana spalanca con un colpo d ’artiglio, scostandosi poi per
lasciar passare la dama. Quando questa si è seduta, appog­
giando con negligenza il gomito sulla felpa sbiadita, la ti­
gre si lascia cadere su una sedia al suo fianco. A questo pun­
to, di norma, la sala scoppia in applausi beati. E io, io
guardo la tigre, e provo un tale rimpianto di non trovarmi
altrove che ne piangerei. La domatrice saluta reclinando
con nobiltà l ’incendio dei suoi riccioli. La tigre comincia il
suo lavoro, manipolando gli oggetti disposti nel palco a
questo scopo. Finge di esaminare gli spettatori attraverso
un binocolo, toglie il coperchio a una scatola di caramelle
e finge di offrirne una alla sua vicina. Prende dal taschino
un fazzoletto di seta e fa finta di annusarlo; finge, tra la più
JEAN FERRY 347
viva ilarità del pubblico, di consultare il programma. Poi
finge di mettersi a fare il galante, si curva verso la domatri­
ce fingendo di mormorarle airorecchio dei complimenti.
La domatrice finge di essere offesa, e con un gesto pieno di
civetteria mette, tra il raso pallido della sua bella guancia e
il grugno fetido della bestia irto di lame di sciabole, il fra­
gile schermo del suo ventaglio di piume. A questo punto la
tigre dà segni di profonda disperazione, e si asciuga gli oc­
chi col dorso della zampa pelosa. Durante tutta questa lu­
gubre pantomima, il cuore mi batte colpi furibondi nel pet­
to, perché io solo vedo, io solo so che tutta questa parata di
cattivo gusto regge soltanto in virtù di quel che si dice un
miracolo di volontà, che tutti noi siamo in una condizione
di equilibrio spaventosamente precario, che un nulla po­
trebbe rompere. Che cosa accadrebbe se nel palco vicino a
quello della tigre, quel piccolo uomo dall'aspetto di mode­
sto impiegato, dal colorito pallido e dagli occhi stanchi,
smettesse per un istante di volere? Perché il vero domato­
re è lui, la domatrice dai capelli rossi non è che una com­
parsa, tutto dipende da lui, è lui che della tigre fa una ma­
rionetta, un meccanismo tenuto insieme da catene più so­
lide di cavi d'acciaio.
Ma se l'ometto di colpo si mettesse a pensare ad altro?
Se morisse? Nessuno sospetta il pericolo a ogni istante in­
combente. E io che so, che immagino, immagino, ma no, è
meglio non immaginare a che cosa assomiglierebbe la si­
gnora impellicciata se... Meglio guardare la fine del nume­
ro, che affascina e rassicura sempre il pubblico. La doma­
trice domanda se qualcuno in sala è disposto ad affidarle un
bambino. Chi potrebbe rifiutare qualcosa a una creatura
cosi soave? C'è sempre una incosciente che tende verso il
diabolico palco un bimbetto dall'aria rapita, che la tigre
culla dolcemente nel cavo delle zampe, abbassando verso
quel piccolo pezzo di carne uno sguardo da alcolizzato.
Tra un uragano di applausi, si fa luce in sala, il bambino
viene restituito alla legittima proprietaria, e i due partners
348 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

salutano, prima di ritirarsi seguendo lo stesso percorso dal


quale erano venuti.
Appena hanno varcato la porta, e non tornano mai a rin­
graziare, l ’orchestra esplode nella sua piu fragorosa fanfa­
ra. Poco dopo, Fometto si ripiega su se stesso asciugandosi
la fronte. E Forchestra suona sempre più forte, per coprire
i ruggiti della tigre, restituita a se stessa non appena oltre­
passate le sbarre della gabbia. Urla come il diavolo, si ro­
tola facendo a pezzi i suoi begli abiti, che bisogna cambiare
ad ogni rappresentazione. Sono le grida, le imprecazioni
tragiche di una rabbia disperata, sono balzi e schianti fra­
gorosi contro le pareti della gabbia. Dall’altra parte del-
Finferriata, la falsa domatrice si cambia in gran fretta per
non perdere l ’ultimo metro. Il piccolo uomo Faspetta al
caffè vicino alla stazione, quello che si chiama «Mai e poi
mai».
La tempesta di urla scatenata dalla tigre alle prese con
i suoi brandelli di stoffa potrebbe impressionare sgrade­
volmente, per lontana che sia, il pubblico. Ecco perché
Forchestra suona a tutta forza l ’ouverture del Fidelio, ecco
perché il direttore di scena, tra le quinte, spinge frettolosa­
mente sul palcoscenico i pagliacci ciclisti.
Io detesto questo numero della tigre mondana, e non
capirò mai che piacere ci trovi il pubblico.
Leonora Carrington
nata nel 1917

Michelet, che ha saputo rendere luminosamente giustizia alla


Strega, mette in evidenza in essa due doni, inestimabili per il fatto
d'essere concessi solo alla donna, «Tilluminismo della follia lucida»
e «la sublime potenza della concezione solitaria». La difende inol­
tre contro la reputazione tendenziosa, creatale dai cristiani, di esse­
re vecchia e brutta. «La parola Strega evoca le orrende vecchie di
Macbeth. Ma i loro crudeli processi provano il contrario: molte di
esse dovettero morire proprio perché erano giovani e belle».
Chi meglio di Leonora Carrington potrebbe oggi corrispondere
aH’insieme di questa descrizione? Le rispettabili persone che, una
dozzina d ’anni fa, l’avevano invitata a cena in un ristorante di lus­
so, non si sono ancora rimesse dalPimbarazzo provato nell’accor-
gersi che, pur continuando a partecipare alla conversazione, Leono­
ra si era tolta le scarpe e si stava pazientemente spalmando i piedi
di senape. Fra tutti quelli che erano spesso invitati a casa sua a
New York, credo di essere stato il solo a far onore a certi piatti cui
dedicava ore e ore di cure meticolose, con l’ausilio di un libro di
cucina inglese del xvi secolo - salvo rimediare con l’intuito alla
mancanza di qualche ingrediente introvabile o scomparso col passa­
re dei secoli (confesso che una lepre alle ostriche, che mi costrinse
ad onorare mentre gli altri invitati preferirono limitarsi al profumo,
m’indusse a diradare un po’ questi festini).
Di queste imprese ed altre ancora, s’avvale senza dubbio per
«mettere o togliere la maschera che (la) proteggerà contro l’ostilità
del conformismo»; regna in esse uno sguardo vellutato e beffardo,
che una voce rauca rende ancora piu suggestivo. La curiosità, che
raggiunge qui un’intensità bruciante, sembra poter trovare soddi­
sfazione solo in ciò che è proibito. Al ritorno da uno di quei viag­
gi da cui si hanno poche probabilità di ritornare e che è descritto
con sconvolgente precisione nel suo En basyLeonora Carrington ha
conservato la nostalgia delle sponde cui è approdata e non dispera
3 -5° ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

di raggiungerle ancora, questa volta senza colpo ferire, e come


provvista di un permesso di circolare a volontà nei due sensi. Ba­
sterebbero a testimoniarlo i quadri straordinari che ha dipinti do­
po il 1940, senza dubbio i piu intrisi del «meraviglioso» moderno,
interamente percorsi da una luce occulta; essi ci fanno comprende­
re tanto la sua ottica fisica («Il dovere dell’occhio destro è di im­
mergersi nel telescopio, mentre il sinistro interroga il microsco­
pio») quanto la sua ottica intellettuale («La Ragione deve conosce­
re la ragione del cuore e tutte le altre ragioni»).

LA D EBU TTAN TE

Quand’ero debuttante andavo spesso al giardino zoolo­


gico. Ci andavo cosi spesso che conoscevo meglio gli ani­
mali che le ragazze della mia età. Era anche per sfuggire il
mondo che ogni giorno mi recavo allo zoo. La bestia che ho
conosciuto meglio era una giovane iena. Anche lei mi co­
nosceva; era molto intelligente; le insegnai il francese, in
cambio lei mi insegnò il suo linguaggio. Passammo cosi
molte ore piacevoli.
Il primo giorno di maggio, mia madre organizzava una
festa da ballo in mio onore; soffersi per notti intere: ho
sempre detestato le feste da ballo, soprattutto quelle in
mio onore.
La mattina del primo maggio 1934, molto di buon’ora,
andai a trovare la iena. — Che scocciatura, —le dissi, - que­
sta sera devo andare al mio ballo. - Beata te, - mi rispose,
- io ci andrei ben volentieri. Non so ballare, ma se non al­
tro posso far conversazione.
— Ci sarà tanta roba da mangiare, - dissi: - ho visto ar­
rivare a casa dei camion interi pieni di vivande.
— E ti lamenti, - rispose la iena con aria disgustata.
- Io, mangio una volta al giorno, e sapessi che porcherie mi
rifilano !
LEONORA CARRINGTON 351

Mi venne un’idea audace; dissi, quasi ridendo: - Baste­


rebbe che andassi tu al mio posto.
- Non ci assomigliamo abbastanza, - disse la iena un
po’ triste. - Se no, ci andrei sul serio. —Dissi: - Senti, con
le luci della sera non ci si vede tanto bene; se ti mascheri
un po’ , nella ressa nessuno se ne accorgerà. E poi abbiamo
pressappoco le stesse misure. Su, ti prego, sei la mia sola
amica - . Ci stava pensando; io sapevo che aveva voglia di
accettare. — D ’accordo, - disse all’improvviso.
Era molto presto, e non c’erano molti custodi. Apro in
fretta la gabbia e in un attimo siamo in strada. Presi un
taxi; a casa erano ancora tutti a letto. Quando fummo nella
mia camera, tirai fuori il vestito che avrei dovuto indossare
la sera. Era un po’ lungo e la iena camminava a stento sui
tacchi alti delle mie scarpe. Trovai dei guanti per nascon­
derle le mani, troppo pelose per rassomigliare alle mie.
Quando il sole entrò nella stanza, fece diverse volte il giro
della camera camminando più o meno dritta. Eravamo tal­
mente occupate che mia madre, entrando per darmi il
buongiorno, per poco non apri la porta prima che la iena
si fosse nascosta sotto il mio letto. - C ’è cattivo odore in
camera tua, - disse mia madre spalancando la finestra, -
prima di stasera devi farti un bagno profumato con i miei
nuovi sali. - Va bene, — risposi. Non si fermò a lungo, cre­
do che l ’odore fosse troppo forte per lei.
- Non far tardi per la colazione, - disse mia madre u-
scendo dalla camera.
La difficoltà maggiore consisteva nel trovare il modo di
mascherarle la faccia. Cercammo per ore; lei respinse tutte
le mie proposte. Alla fine mi disse: - Credo di aver trovato
la soluzione. In casa avete una cameriera?
- Si, — risposi, perplessa.
- Allora è semplice. Tu la chiami e appena entra ci but­
tiamo su di lei e le strappiamo la faccia; stasera me la metto
io al posto della mia.
- Non è tanto pratico, ~ dissi; - quando non avrà più
332 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO
faccia probabilmente morirà; poi trovano di sicuro il cada­
vere e noi finiamo in prigione.
— Ho abbastanza fame per mangiarla, - replicò la iena.
— E le ossa?
— Anche quelle, - disse: - allora, d'accordo?
— Solo se mi prometti di ucciderla prima di strapparle la
faccia; se no, le farebbe troppo male.
— Va bene, per me è lo stesso.
Mi sentivo un po’ nervosa quando chiamai Maria, la
cameriera. Non l'avrei fatto se non detestassi talmente i
balli. Quando Maria entrò, mi voltai verso il muro per non
vedere. È vero che l'operazione fu rapida. Un breve grido
e basta. Mentre la iena mangiava io guardavo dalla finestra.
Dopo qualche minuto, disse: - Non ce la faccio più a man­
giare; sono avanzati i due piedi, ma se mi dài un sacchetto,
li mangerò più tardi, in giornata.
— Guarda nell'armadio, ce ne deve essere uno, ricamato
con dei fiori di giglio. Togli i fazzoletti che ci sono dentro
e prendilo —. Fece come le avevo detto. Poi: - Adesso puoi
girarti, guarda come son bella! — Davanti allo specchio, la
iena si ammirava con la faccia di Maria. Ne aveva accura­
tamente mangiato i contorni, in modo che restasse proprio
quel che occorreva. - Certo, hai fatto un bel lavoro, - dis­
si. Verso sera, quando la iena fu tutta vestita, mi annun­
ciò: - Mi sento in gran forma. Ho l'impressione che avrò
un gran successo, stasera.
Quando si cominciò a sentire la musica, dal piano di sot­
to, lasciammo passare qualche tempo, poi le dissi: - Ades­
so vai e ricordati di non metterti vicino a mia madre: si ac­
corgerebbe di sicuro che non sono io. Degli altri non cono­
sco nessuno. Buona fortuna —. La abbracciai salutandola,
ma puzzava veramente tanto. Era scesa la notte. Stanca per
le emozioni della giornata, presi un libro e mi misi tran­
quilla vicino alla finestra aperta. Mi ricordo che leggevo
G ullive/s Travels, di Jonathan Swift. Era passata forse
un'ora, quando si annunciò il primo segno di sventura. Un
LEONORA CARRINGTON 353
pipistrello entrò squittendo dalla finestra. Io ho una paura
matta dei pipistrelli. Battendo i denti mi rifugiai dietro
una seggiola. Mi ero appena inginocchiata quando i battiti
delle ali furono soffocati da un gran rumore dietro la porta.
Pallida di furore, entrò mia madre: - Ci eravamo appena
messi a tavola, - disse, — quando la cosa che era al tuo po­
sto si alza e urla: «Puzzo un po’, eh? Già, io non mangio
mica pasticcini». Detto questo, si è strappata la faccia e
Pha mangiata. Poi, con un gran salto, è scappata dalla fine­
stra.
Gisèle Prassinos
nata nel 1920

Suirorizzonte dell’humour nero è ancora da erigere ciò che Dali


ha chiamato il «monumento imperiale alla donna-bambina». Scom­
metterei quattordici dei miei denti, come direbbe la nutrice shakes­
peariana, che non aveva ancora quattordici anni quando ci fu con­
cesso di sentirla per la prima volta, ed era anche la regina Mab, la
levatrice delle fate (come non sappiamo tradurre); non aveva dun­
que età, benché fosse a una generazione di distanza dagli autori che
la precedono immediatamente in questa raccolta. La regina Mab
non è molto cambiata dai tempi di Shakespeare, e il suo compito è
sempre quello di percorrere il naso degli uomini durante il loro
sonno. È la «giovane chimera» di Max Ernst, è la scolara ambigua
che, sotto il titolo «La scrittura automatica», fa da copertina a un
fascicolo della «Révolution surrealiste». La pietà ha fatto decisa­
mente i bagagli, e anche la «vecchietta» su cui tende ad esercitarsi
elettivamente 1’«aerodinamismo morale» di Salvador Dali sta per
passare un brutto quarto d’ora. «Eccola nuda. Il suo corpo è attra­
versato da ferri da calza viola che si è infilata apposta per far figura;
e a ogni capo del ferro, ha attaccato un piccolo nastro verde. Non
ha cosce. Fra il basso ventre e le ginocchia c’è il vuoto. Perché il
tutto stia assieme, ha attaccato le sue gambe a un pezzo di spago.
Infine, rientra nel letto mentre gli occhi, fuori delle orbite, le cado­
no ai piedi. Ha spento il ventre della micina. È buio pesto». Buio
pesto: è una bambina che ride di paura nella notte; sono tutti i po­
poli primitivi che alzano il capo per vedere se i loro vecchi, d a ta ­
ria un po’ stanca, che hanno fatto salire sull’albero ritirando poi la
scala, stanno per cadere. È la rivoluzione permanente in belle figu­
rine colorate a un soldo l’una — non se ne trovano piu — ma la voce
di Gisèle Prassinos è unica: tutti i poeti ne son gelosi. Swift abbas­
sa gli occhi, Sade richiude la sua bomboniera.
GISÈLE PRAS SINOS

U N A C O N V E R S A Z IO N E

In un campo di grano.
L'uomo è vestito di una tunica di pizzo ocra macchiata
di rosso.
Il cavallo è nudo. Pende dalla sua coda una scatola di
fiammiferi da cui escono le antenne di una cavalletta.
L'uomo è seduto su un cuscino bianco a disegni verdi.
Il cavallo sull'uomo.

l ’u o m o Abbiamo disprezzato il diamante verde?


il c a v a l l o Penso che per legge avremmo dovuto farlo.
Poiché la legge è diminuita, il mio spirito chiede la ridu­
zione delle candele.
l ’u o m o Ricordati, sigillo, che l'uomo non ha il diritto
di soddisfare gli impiegati e che perfino il telefono rifiu­
ta di pagare le tasse.
il c a v a l l o Capire è diminuire.
l ’u o m o No; non abbiamo ancora tentato la sorte. Po­
tremmo farlo, dato che è più facile.
il c a v a l l o N o , no, non credete in quelle cose concrete
che, malgrado la loro dignità, devono esaurire le ciance.
Offendetele, dite loro sciocchezze che manchino di co­
raggio, vedrete come ci seguiranno.
l ’u o m o E perché mai? Non ho già abbastanza sconcez­
ze, per dovermi occupare, in più, della coda di un mi­
lionario?
il c a v a l l o L'amore che ho amato mi ha sempre apprez­
zato!
l ’u o m o Si, a n c h 'io .
il c a v a l l o Siamo dello stesso vertice.
ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

S E R IE DI M E M B R A

- Vuole a tutti i cosci camminare, - diceva una donna


alla sua vicina: — Dice di aver già imparato a camminare e
che, con piedi come i suoi, si possono fare cinque chilome­
tri all'ora. L'altro giorno, mentre cuocevo i piselli, mi è
sgusciato tra le mani e si è messo a correre per tutta la casa.
Avevo paura che mi scivolasse sotto i tappeti: ma i suoi
piedi non toccavano terra, e allora Pho lasciato fare. Mi ha
fatto piacere vedere il mio bambino in piedi per la prima
volta La donna si lasciava andare a interminabili discor­
si sul modo di camminare del figlio, che lei trovava meravi­
glioso.
- Ma è ancora troppo piccolo per camminare, - rispon­
deva la vicina ridendo forte. - Il mio si è messo a correre
solo quand'era piu grande, e ha camminato due volte sui
sassi, dopo.
- È veramente troppo piccolo, troppo piccolo, - ripete­
va la vicina, e la madre, scuotendo la testa, si voltava in
continuazione verso la cucina, per tener d'occhio qualcosa.
- Non è quella l'età, - continuava la vicina, - per mettere
un bambino in piedi. G li si potrebbero storcere le gambe,
e chissà se il chirurgo potrebbe intervenire: è ancora cosi
piccolo!
- È ancora cosi piccolo, ancora cosi bambino, signora, -
diceva la madre. — Ma mi dice che se oggi pomeriggio non
lo faccio camminare, andrà a ruzzolare da solo al Jardin des
Plantes. Ha perfino minacciato di prendere dei soldi nella
cassetta per comperare del pane per le oche. Questa matti­
na mi ha svegliata prima delle sette per ricordarmi di lava­
re il suo berretto bianco, e dopo non ho potuto piu pren­
dere sonno. Ma lo voglio far camminare solo la settimana
prossima. D'altronde è il giorno di Pasqua, e lo manderò a
Gisèle Prassinos
358 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO
Messa. Sarà una bella cosa che vada in chiesa, la prima vol­
ta che cammina.
— Oh! signora, — diceva la vicina, — ci sono troppi sassi
davanti alla chiesa. Il mio ha camminato solo due volte sui
sassi. V i avverto, signora: voi volete fargli fare delle pro­
dezze, ma non ci riuscirete; il bambino è ancora troppo pic­
colo.
La vicina chiuse la porta troppo forte, e due vetri si in­
crinarono. Piccole schegge schizzarono fin dentro la cuci­
na di fronte, dove la donna era scomparsa piangendo. Si
affaccendava in cucina, faceva cuocere i piselli e guardava
l’ora. Suo marito doveva arrivare a mezzogiorno in punto.
Erano le undici: «Ancora un’ora da aspettare», si diceva
la donna diventando tutta rossa. Finalmente, quando suo­
narono le dodici, un uomo grosso, con un vestito di flanel­
la rossa, entrò nella cucina. Abbracciò la moglie e, sbadata­
mente, la spinse contro la cucina economica che scottava.
Lei non disse ancora niente. Il marito si sedette a tavola e
lei lo servi: - Ma tu non mangi, - disse l’uomo. - No, no,
- rispose la donna piangendo, - Il piccolo tra poco cammi­
nerà. Credi... pensi che per Pasqua bisognerebbe mandar­
lo in chiesa? - L ’uomo, d’un tratto, divenne ridicolo: - T r a
tre settimane potrà aiutarmi in cantiere. Potrò fargli fare
i buchi nelle porte, per le serrature - . Nessuna risposta, e
l ’uomo se ne andò felice.
La sera ritornò, mangiò nello stesso modo, poi andaro­
no a letto.
La donna non poteva dormire. Si alzava ogni momento
e cercava di prendere al volo le zanzare che volavano nella
camera; poi se n’andava a fare un giro in cucina e ritornava
piangendo a scuotere suo marito. Lui rispondeva con un
abbraccio, lei si rimetteva a letto.
La vigilia di Pasqua, la donna andò dal calzolaio a ordi­
nare un paio di scarpe verdi numero 43. —Deve essere cre­
sciuto, vostro marito, - disse il commesso prendendo nota
dell’ordine. - Si; si, me l ’han già detto, - rispose la donna.
GISÈLE PRAS SINOS 359
La notte, dormi di nuovo molto male. Si svegliò al mat­
tino prima del solito per preparare la biancheria e i ramo­
scelli da benedire. Alle otto andò a svegliare il marito.
L ’uomo si alzò e si recarono insieme in cucina. Spostando
la cucina economica, tirarono fuori una piccola cassa di le­
gno bianco, con delle graziose decalcomanie artistiche. Da
due grossi buchi nel coperchio spuntavano due enormi
masse fasciate dentro delle calze a righe.
Insieme sollevarono la cassa e la deposero sul divano.
Poi la donna prese delle scarpe gialle e le infilò sopra le cal­
ze a righe. Prese teneramente la cassa tra le braccia, la de­
pose sulla soglia e, poiché non era abbastanza robusta,
chiamò suo marito, che arrivò in bretelle.
Questi prese la rincorsa e diede un gran calcio alla cas­
setta che rotolò vivacemente giù dalle scale.
Jean-Pierre Duprey
1930-59

«La tenebra sia! »: con queste parole si apre L ’amour absolu di


Alfred Jarry, e, per antitesi, la frase della Genesi assume qui la
più sconvolgente e immediata efficacia. Le stesse parole costituisco­
no quasi il nucleo intorno al quale si cristallizza l’opera ancora ine­
dita di Jean-Pierre Duprey. Dal caos primordiale infatti avrebbe
potuto sorgere «la tenebra» cosi come è sorta la luce, e il fatto è che
la notte più buia è popolata di animali che possono vedere solo in
essa, senza che nulla autorizzi ad attribuire loro un rango inferiore
a quello degli animali diurni. D ’altronde è accertato che la veggen­
za non conosce circostanze più ostili del pieno giorno: la luce fisica
e la luce mentale vivono in disaccordo. L ’idea della preminenza del­
la luce sull’oscurità può essere considerata come un’eredità dell’op­
primente filosofia greca. A questo proposito, attribuisco una capita­
le importanza e un’alta virtù liberatrice all’obiezione che Stéphane
Lupasco muove al sistema dialettico di Hegel, che troppe cose an­
cora deve a quello aristotelico: «Una dialettica esattamente con­
traria alla sua... è possibile ed effettiva, una dialettica cioè in cui
spetta al valore di negazione e di diversificazione, a ciò che egli
chiama l’antitesi, virtualizzare, attualizzandosi, il valore contrad­
dittorio di affermazione e di identità che costituisce la tesi; e inol­
tre anche una terza dialettica, in cui né l’uno né l’altro valore pos­
sono rispettivamente prevalere, e che scava quindi una progressiva
contraddizione relativa» \
Jean-Pierre Duprey è uno degli archi, e non il minore, che so­
stengono questa prospettiva, arco che è quello dell’intuizione pu­
ra. Ogni epoca spirituale, vista a distanza, è caratterizzata insieme

1 stéph an e lupasco Logique et contradiction, 1947. Quest’opera


,
- agli occhi degli artisti - presenta inoltre l’immenso interesse di stabili­
re e di chiarire il nesso «quanto mai enigmatico», che esiste fra i valori
logici e la loro contraddizione da un lato, e i dati effettivi dall’altro.
JEAN-PIERRE DUPREY 361
da movimenti del pensiero filosofico verso i quali i contemporanei
hanno un atteggiamento piu o meno diffidente (e questo è il caso,
mi sembra, dei recenti interventi di Lupasco) e da fenomeni erutti­
vi sul piano della creazione artistica, che si verificano in persone
giovanissime, senza beninteso che la minima intercomunicazione
possa spiegare la loro concordanza.
Gli anni che separano le due edizioni della presente raccolta,
benché abbiano segnato un certo ristagno storico, sono egualmente
tra quelli che contano di piu sul piano affettivo, poiché Vavvenire,
sotto la sua forma più semplice e concreta, è divenuto aleatorio.
Che ne sarà di questo avvenire o di questo non-awenire approssi­
mativo? Per una volta, si tratta di tastare il polso della specie uma­
na, e che cosa può contribuire a questo se non il contatto e la solle­
citazione di un’opera fino ad oggi la più nuova e la più ispirata?
Senza esitare, alla vigilia del 19^0, io mi rispondo che quest’o­
pera è quella di Jean-Pierre Duprey, benché sia (o perché è) ciò che
questi ultimi sconvolgenti anni si propongono di più «difficile»:
boscaglia dove vale la pena di avventurarsi. Non dipende né da lui
né da me se oggi, rispetto a dieci anni fa, nella miscela deU’humour
nero occorre rinforzare la dose del nero puro. Il genio di Duprey
consiste nell’offrirci, di questo nero, uno spettro non meno ricco
di quello solare. Non meno segreto di quello di Igitur: «Lascia la
camera e si perde nelle scale (invece di scendere a cavallo sulla ram­
pa)», qui l ’humour cova sotto la cenere («Ed è nello stesso ordine
che andavano le cose, dopo che ebbero annegato il mare e sotterra­
to la terra; bruciato il fuoco, l’aria scomparve nel fumo del nuovo
fuoco rigenerato da tutto ciò»). La luce della presenza varrebbe più
che altro a sottrarci alla vista il vero Duprey, principe nel regno dei
Doppi, sotto apparenze d’altronde assai seducenti. Il più importan­
te dei due, di cui sappiamo qualcosa, ma molto poco, tramite l ’al­
tro, abita con la moglie «Ueline, la Nera» nel cuore di una foresta
piena di lupi.
362 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO

LA F O R E S T A SACRILEGA

A t t o secon d o.

SCEN A QU ARTA.

Stessa scena, ma la Notte è diventata verde. Due uomini


sono seduti.

il n u m e r o 1 È la mezzanotte verde del 3 agosto delPan­


no zero e, tra poco, quando il gallo sputerà tre volte...
il n u m e r o 2 ... Niente piu gallo, il ragno ha preso il suo
posto. Canta meglio e più forte con tutte le sue zampe
che sono trombe... Starnutisce per davvero!
il n u m e r o 1 Quando il ragno avrà sputato tre volte,
quando avrà filato la sua voce di tela ingigantita dalle
sue stampelle di trombe, il mondo avrà cambiato senso
e la terra avrà cambiato nome. Sento già dire che Pavan-
guardia delPesercito di cadaveri ha appiccato il fuoco
alle tombe e proclama Pavvento della libertà tramite la
bara...
il n u m e r o 2 E i vagabondi della foresta vedranno le
loro teste volare al di sopra di loro, come proiettili che
non saranno stati loro a lanciare. Essi li vedranno, que­
sto è certo, perché i loro colli glabri e fiammeggianti del
loro sangue saranno occhi spalancati... La mia collera ne
è testimone, poiché io vedo rosso.
il n u m e r o 1 Corpi appesi come campane inutili... G li
alberi avranno sempre frutti.
il n u m e r o 2 Ma il ragno-mille-dita avrà da filare parec­
chio e i lenzuoli funebri saranno, molto rari. Il nostro
padrone Estern, che sa prendere due piccioni con una
JEAN-PIERRE DUPREY 363

fava, ci concede la libertà di essere i suoi cani. Al suo se­


gnale, noi abbaieremo con una f auce sola e senza zanne,
e certamente la battaglia sarà vinta! {Si alza e tira fuori
il pugnale). Devo cucire gli alberi per il velo della no­
stra Padrona, poiché io mi dichiaro sarto... (Conficca il
pugnale in un tronco d'albero). Le foglie gemono e
qualche ramo sanguina... Ma quest'alcool di testa di le­
gno non ha sapore. Ho sete! (Beve).
il num ero 1 Nel frattempo si sta facendo tardi; e poi­
ché Estern, nostro signore e padrone, dottore-in-ester-
nità, ce lo permette sotto pena di morte, siamo dunque
cani! Ma ecco qualcuno; sento benissimo il silenzio del
suo passo, a causa delle mie mani scolpite in monconi di
porco sordo e trafitte da antenne d'asino... A causa delle
mie zampe superiori piuttosto, che sono le mie due orec­
chie supplementari! Ciò spiega come io senta due passi
doppi...
... Ma sistemiamoci le maschere!

Compaiono i numeri 3 e 4, con identiche maschere da


cani.

il n u m er o 3 V i saluto con tutte le mie zanne; e che la


lebbra dia l’ultimo tocco ai vostri travestimenti! Il mio
compagno, che malgrado le apparenze è una donna, ar­
riva da lontano con una grande notizia. A ll’ora fissata
di una cifra esatta che è XII - e quest'ora non cambia
più - all'incrocio degli spazi mancanti farà la sua appa­
rizione il cavalier Sagittario, la cui cavalcatura, la caval­
catura di spettro, calpesta un sole di disco! Il risultato
non è previsto, ma io posso predire di conseguenza la
prossima fine delle ostilità della pace...
Del resto la battaglia infuria, ed è la furia stessa dei ca­
daveri in libertà che porta il buono e il cattivo vento.

Getta le armi. Si avvicina il numero 4, femmina.


364 ANTOLOGIA DELLO HUMOUR NERO
4 Tanti saluti a voi, secondo Pabitudine e i
il n u m e r o

convenevoli canini! V i sono dunque debitrice...

Strappa la maschera per apparire sotto Pautentico a-


spetto della Nera, moglie di Estern.

la nera In piedi! O piuttosto... a cuccia, al modo dei


miei cani e serpenti di stampelle! Stampelle voi stessi!
E poiché mi dovete obbedienza di libertà, vi cucirò le
ossa col filo della vostra vita, se...
... Ma preferisco chiudere il libro dentro il quale ho sot­
tolineato i vostri nomi, o ancora vedervi ubriachi del
sangue di tutte le vostre vene che non scoppieranno!

Pietrificati restano, ma f i n i t i . L'uno si è irrigidito pro­


prio sulla pietra su cui è seduto, ma la sua testa penzo­
la. S’è abbattuto il suo compagno dall'alto dei suoi due
metri, che è ben lungi dal raggiungere...
Il numero 3 si è eclissato.

la nera Ma le loro labbra erano vecchie, le vene sec­


che! Le loro membra erano di legno, croci che li segui­
vano; e uova spente i loro occhi! Sono morti, ma ciò si­
gnifica delle pietre in più: non ne mancheranno per ri­
costruire il nostro castello.

Tocca col piede il corpo steso che non si muove più. Si


guarda intorno, con un occhio che cerca l’Occhio che ha
visto o che non ha visto nulla... E lascia la scena.

SCEN A S E T T IM A .

Inanimati, si r i a n i m a n o e i loro corpi li spingono in


piedi. Il numero 1 smascherato. Si stropicciano entram­
bi le membra indolenzite.
JEAN-PIERRE DUPREY 365
il n u m e r o i La morte non ha alcuna importanza, poi­
ché altro non è che una specie di genuflessione. Ma il
mio braccio si è acciaccato e il cranio mi duole, si è aper­
to su un abisso alPinterno di me.
il num ero 2 ... Lo stesso le mie anse o, se preferisci, le
mie braccia! Mi svelano un vuoto che galleggia alPinter­
no del mio vaso di corpo; e piuttosto vedrei delle ferite
nelle mie dita, o altrove! Ma io non sanguino, né sudo...
... Ma zoppico! La mia zampa destra è troppo corta per
me...

Si strappa la maschera e riappare sotto l ’aspetto del paz-


zo-furioso-zoppicante-anche.

il pa zzo Mi manca un segno! Ne è testimone il mio pie­


de deforme.
il num ero 1 Sogno di vampiro... Vetro del mare e mor­
te tripla nei miei occhi! Il vento ci costruirà un edificio
pubblico e il cielo di questa tempesta che giunge sarà la
nostra sala d’armi. Vieni! Pazzo, se vuoi, ma vieni!

Lo trascina via e la voce identificata dalla cifra 1 e dal


numero della stessa quantità, si allontana dietro di loro
e si perde...

voce del num ero i Siamo in ritardo ma tanto peggio!


Mordiamo i morti e facciamo ai vivi impossibili segnali,
cui tuttavia attribuirò un senso nettamente negativo. La
battaglia infuria... Ma noi lasciamo qui le nostre insegne
di cani...
In d ice d e lle illu strazio n i

p. 23 Jonathan Swift
31 Georg Christoph Lichtenberg
71 Thomas De Quincey
79 Christian Dietrich Grabbe
91 Petrus Borei
103 Xavier Forneret
119 Lewis Carroll
133 Charles Cros
139 Joris-Karl Huysmans
185 Alphonse Allais
193 Jean-Pierre Brisset
219 John Millington Synge
227 Alfred Jarry
243 Raymond Roussel
257 Guillaume Apollinaire
269 Arthur Cravan
277 Franz Kafka
295 Marcel Duchamp
327 Jacques Rigaut
357 Gisèle Prassinos
In d ice generale

p. 3 Premessa
7 Parafulmine

Antologia dello humour nero

19 Jonathan Sw ift 1665-1745


35 D.-A.-F. de Sade 1740-1814
46 G eorg Christoph Lichtenberg 1742-99
54 Charles Fourier 1772-1837
67 Thomas D e Quincey 1784-1859
73 Pierre-François Lacenaire 1800-836
76 Christian Dietrich Grabbe 1801-36
87 Petrus Borei 1809-59
96 Edgar Poë 1809-49
101 Xavier Forneret 1810-85
109 Charles Baudelaire 1821-67
114 Lewis Carroll 1832-98
124 Villiers de lTsle-Adam 1840-89
129 Charles Cros 1824-88
139 Friedrich Nietzsche 1844-1900
143 Isidore Ducasse conte di Lautréamont 1846
154 Joris-Karl Huysmans 1848-1907
166 Tristan Corbière 1845-75
170 Germain Nouveau 1852-1920
3 7 2 INDICE GENERALE
P - 173 Arthur Rimbaud 1854-91
180 Alphonse Allais 1854-1905
192 Jean-Pierre Brisset
202 O. Henry 1862-1910
209 André Gide 1869-1951
John Millington Synge 1871-1909
222 Alfred Jarry 1873-1906
237 Raymond Roussel 1877-1933
25O Francis Picabia 1878-1935
234 Guillaume Apollinaire 1880-1918
262 Pablo Picasso 1881
265 Arthur Cravan 1881-1920
273 Franz Kafka 1883-1924
287 Jacob van Hoddis 1884-1921
29O Marcel Duchamp 1887-1968
3OO Hans Arp 1888-1966
3O3 Alberto Savinio 1891-1952
309 Jacques Vaché 1896-1919
316 Benjamin Péret 1899-1959
324 Jacques Rigaut 1899-1929
33I Jacques Prévert 1900
336 Salvador Dali 1904
34 3 Jean Ferry 1906
349 Leonora Carrington 1917
334 Gisèle Prassinos 1920
360 Jean-Pierre Duprey 1930-59
F in it o d i stam pa re i l 23 lu g lio 197-7
p e r c o n to d e lla G i u l i o E in a u d i e d ito r e s . p . a .
p re sso le I n d u s tr ie G r a fic h e G . Z e p p e g n o & C . s. a. s., T o r in o

c .4829-8
. l
\
« Questo libro, pubblicato per la prima volta nel 1939 e ristampato,
con alcune aggiunte, nel 1947, ha segnato, cosi com’è, un’epoca. Ba­
sti ricordare che quando esso fu stampato le parole "hum our nero”
non facevano significato (quando non suggerivano addirittura una
forma di umorismo tipica dei " negri ” ! ) Solo da allora questa espres­
sione è entrata nel dizionario: sappiamo quale fortuna ha avuto la
nozione di humour nero. Tutto sta ad indicare che essa continua ad
essere in piena effervescenza, e che si diffonde tanto per via orale (le
storie del tipo "m acabro” ) quanto attraverso l ’espressione plastica
(specialmente a livèllo di disegno in certi settimanali) e il cinema
(almeno quando si pone ai margini della produzione commerciale)».
Cosi André Bretón nel maggio ’66 postillò quella che considerava
l ’edizione definitiva dt\YAntologia dello humour nero. Sin dal suo
primo apparire la scelta di Bretón venne giudicata scandalosa. A c­
canto a grandi classici (come Swift, Poe, Baudelaire, Rimbaud) Bre­
tón inseriva nella sua raccolta, beffarda e iconoclasta, un De Sade,
un Fourier, un De Quincey, un Lacenaire, un Grabbe, personaggi o
poco noti o decisamente scomodi, irritanti. Ciò che Bretón voleva
non era tanto realizzare l ’antologia di un genere letterario, con i suoi
canoni precisi e confini ben delimitati, quanto allineare esempi di
una letteratura concepita come emanazione, esplosione (secondo
una definizione comune a Rimbaud e a Baudelaire) e, potremmo ag­
giungere noi, come provocazione, irrisione, rovesciamento, opposi­
zione: tutta una serie di ipotesi della letteratura come alternativa e
divaricazione rispetto a un universo immobile, già codificato. « L ’hu-
mour nero - è ancora. Bretón a parlare — è nemico mortale di quel
sentimentalismo dall’aria eternamente braccata - quel sentimenta­
lismo sempre all’acqua di rose - e di una certa fantasia di corto re­
spiro, che troppo spesso si spaccia per poesia...» Alla luce di questa
scelta di base va dunque letta l ’antologia che riserverà al lettore sor­
prese d ’eccezione non solo sul fronte degli autori già canonizzati,
ma anche e soprattutto sul fronte dei compagni di strada del surrea­
lismo.

Lire 4300
(4245)

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