3 l’URSS dalla dittatura del proletariato al regime staliniano
L’ascesa di Stalin Da Lenin a Stalin: durante la prima metà degli anni venti l’URSS uscì dall’isolamento in cui si trovava in seguito alla rivoluzione. Lenin, ormai gravemente malato, non vedeva di buon occhio un uomo in ascesa, detto Stalin (acciaio), nominato nel 1922 segretario generale del PCUS (partito comunista dell’URSS). Poco prima di morire, a gennaio del 1924, Lenin nel suo testamento suggeriva di rimuovere Stalin dalla sua carica. Stalin però manipolò questa indicazione. Il sopravvento del centralismo: stalin aveva appreso e fatto sue due regole della rivoluzione bolscevica: 1) andava messo da parte ogni scrupolo morale nell’adempimento della missione rivoluzionaria, 2) la costruzione del socialismo era compito esclusivo e categorico del partito e del suo leader. Anche in virtù di questi principi, venne ridimensionata la struttura federale dell’URSS: le autonomie riconosciute inizialmente alle repubbliche federali furono limitate, il centro del potere rimaneva Mosca. Lo scontro con Trockij: dopo la morte di Lenin il partito aveva opinioni divergenti riguardo il futuro della rivoluzione. Da un lato, Stalin sosteneva la via del “socialismo in un solo paese”, e dunque il rafforzamento dell’URSS attraverso l’industrializzazione accelerata e la collettivizzazione delle terre. Dall’altro lato Trockij aveva la prospettiva di una “rivoluzione permanente”: preoccupato dalla fragilità delle strutture produttive e dall’esiguità della classe operaia, riteneva necessario promuovere, attraverso l’internazionale comunista, un processo rivoluzionario nei paesi europei avanzati, che avrebbero poi potuto sostenere la russia. Vinse la tesi di Lenin, nel 1927. I caratteri del regime Un programma di autosufficienza economica: Stalin voleva rendere la Russia autosufficiente e in grado di reggere il confronto con le altre potenze. Era un progetto ambizioso ma avrebbe potuto dimostrare che la rivoluzione comunista era in grado di trasformare un paese arretrato come la Russia. Nel 1929 procedette alla collettivizzazione forzata delle campagne. Lo scopo era di acquisire eccedenze di prodotti alimentari per approvvigionare le città e di accrescere le esportazioni, che avrebbero permesso di finanziare lo sviluppo dell’industria nazionale. La “guerra” ai kulaki: i kulaki (contadini possidenti, benché nella maggior parte dei casi la loro proprietà erano piccolissimi appezzamenti di terreno) vennero accusati di essere una “classe parassitaria” di cui ci si doveva sbarazzare. A loro difesa si levò Bucharin. Stalin eliminò tutti quelle che rifiutavano l’obbligo collettivista di cedere i propri raccolti. Le trasformazioni del mondo agricolo vennero imposte attraverso la requisizione delle terre, seguita dall’imposizione di turni massacranti e da una progressiva meccanizzazione dell’agricoltura. Dopo il 1935 le campagne vennero assoggettate completamente alle direttive del regime e i contadini furono inseriti in fattorie collettive, i kolchoz. Il successo dell’industrializzazione: l’industrializzazione procedette al ritmo stabilito nei piani quinquennali. In pochi anni il numero degli operai raddoppiò, e la produzione era quadruplicata. Si espanse soprattutto l’industria siderurgica, metallurgica e bellica. Le condizioni di lavoro nelle fabbriche erano però peggiorate in seguito a un rigido ordinamento: non era riconosciuta nessuna forma di autonomia ai lavoratori, i sindacati erano sottomessi al governo. L’ideale egualitario, il fine del comunismo, fu sostituito in realtà dall’incentivazione dell’impegno individuale che comportava competizione tra i lavoratori. Chi produceva di più era portato a modello esemplare e definito “eroe del lavoro” (stacanovismo: dal minatore Stachanov, che ideò un sistema di estrazione di minerali che aumentava la produttività). Il controllo ferreo sulla società: nel corso degli anni trenta il sistema politico di Stalin assunse le connotazioni di un regime totalitario sotto ogni profilo. Dopo il successo dell’industrializzazione e la ripresa dell’agricoltura, l’URSS era sulla via dello sviluppo, proprio mentre gli altri stati erano in profonda crisi economica. I fattori interni ed esterni del potere staliniano: stalin giunse a conquistare il potere assoluto anche perché, dopo la morte di Lenin, venne considerato l’unico uomo in grado di difendere la Russia dalle minacce dei suoi nemici, prima fra tutte l’avanzata del nazifascismo. Stalin ingigantì i rischi che l’URSS avrebbe potuto correre e la sua mente paranoica lo portò a diffidare di tutto e di tutti, arrivò a sospettare che nel partito comunista internazionale si annidassero dei traditori. Le “grandi purghe”: dalla sua visione deformata della realtà, Stalin prese il pretesto per un’ondata di epurazioni sistematiche contro gli avversari politici, reali o immaginari. Già in passato aveva usato il terrore organizzato, contro la massa di contadini che si erano opposti alla collettivizzazione forzata. Adesso le vittime erano molti dirigenti del partito. Il pretesto delle “purghe” (eliminazione degli avversari tramite espulsione o condanna a morte) fu la caccia agli assassini di Kirov, un dirigente bolscevico di Leningrado ucciso nel 1934. Il commissariato del popolo per gli affari interni (la polizia politica) iniziò a colpire alcuni degli appartenuti al PCUS, dichiarandoli responsabili di atti ostili al regime. I sospettati erano trascinati in processi pubblici durante i quali erano indotti, anche con la tortura, a confessare crimini politici mai commessi. Il biennio 1937-1938 fu detto biennio del terrore. L’“arcipelago gulag”: i Russia il regime comunista resuscitò una vecchia istituzione zarista, i gulag, simili ai lager nazisti, che si concentravano soprattutto in siberia, formando una sorta di arcipelago. I gulag servivano a contribuire al grande sforzo in corso, fornendo manodopera per realizzare grandi opere infrastrutturali. A differenza dei lager non erano campi di sterminio, tuttavia le pessime condizioni (malnutrizione, troppo lavoro,il freddo) portarono alla morte della maggior parte dei prigionieri. 8.4 la rivisitazione del marxismo Dentro e fuori dall’ortodossia: le gerarchie sovietiche monopolizzarono il pensiero marxista e lo convertirono in rigida ortodossia. Nei paesi europei gli intellettuali marxisti cercarono di proporre un’interpretazione non dogmatica del pensiero di Marx. Il caso di Lukàcs: uno dei primi esponenti del “marxismo occidentale” fu Lukacs, un ungherese, che nell0opera “storia e coscienza di classe” propose un’interpretazione umanistica del marxismo, sottolineando l’importanza della dimensione culturale, e non solo di quella economica, per la conoscenza della storia e della società. Rovesciò dunque i rapporti tra struttura e sovrastruttura di Marx. Mosca ritenne eretiche le sue tesi e alla fine lui ritrattò. La prospettiva originale di Gramsci: un altro dogma del marxismo-leninismo che fu messo in discussione fu il modello leninista del partito unico, che per molti marxisti occidentali poneva le basi del totalitarismo. Questa versione del marxismo fu rifiutata, fra i tanti, anche da Gramsci. La politica come egemonia: gramsci elaborò una concezione della politica come egemonia, cioè come una sintesi di forza e consenso, come pilastro e forma di organizzazione della coesistenza delle diverse classi sociali in un sistema democratico che consentisse il loro reciproco riconoscimento. Il partito unico sarebbe divenuto l’”intellettuale collettivo” che aveva il compito di realizzare nuove forme di democrazia fondata sulla centralità del lavoratore. Il marxismo della scuola di Francoforte: Horkheimer coordinò l’attività dell’Istituto per la ricerca sociale, con sede a Francoforte, che ebbe tra i suoi esponenti Adorno, Marcuse, Benjamin, Fromm. Il loro progetto principale era quello di elaborare una “teoria critica”, che mettesse in discussione tutti gli aspetti della vita sociale. Horkheimer svolse un’analisi della società capitalistica, caratterizzata secondo lui da un’involuzione della cultura democratica e liberale. Sostenne perciò che il totalitarismo era lo sbocco di una trasformazione autoritaria del capitalismo di mercato al capitalismo di stato. Il mondo industrializzato per lui relegava l’essere umano in una condizione di infelicità e asservimento, per cui era necessario un radicale cambiamento politico e sociale. Dato però che la stessa classe operaia era di fatto stata integrata nel sistema, si poneva il problema di una revisione del marxismo come strumento di analisi sociale. Come dimostrava l’esperienza sovietica, l’abolizione della proprietà privata e la socializzazione dei mezzi di produzione non determinavano la scomparsa dell’oppressione dell’uomo sull’uomo. I filosofi di Francoforte individuarono nella filosofia, cioè nella ragione dialettica, il compito di esercitare una critica globale della società.