1

1.  Tractatus de septem

viciis (Codex Cocharelli)
(1325 ca). Londra,
British Library,
Ms. Add. 27695, c. 7r.

008-032FOLIN.indd 8 10/12/12 17.48

 La Cattedrale di San Lorenzo:
autoritratto in pietra della società genovese
Marco Folin
1. Speculum civitatis Ianue
“Per noi San Lorenzo ha un fascino grandissimo; è
come una città morta che si rivela, che fa risuscitare
gli uomini, fa ingrandire la storia, l’eterna operatrice,
con le vive testimonianze degli archi, dei capitelli,
delle colonne, dei finestroni [...], è la vera poesia
delle cose passate, che palpitarono e fecero palpitare,
lasciando sulle mura fosche, in modo incancellabile,
la loro orma”.1 Così, nel 1918, scriveva l’archivista
di stato Arturo Ferretto celebrando la storia otto
volte secolare della Cattedrale di Genova e il legame
congenito che ne aveva sempre unito i destini a quelli
della comunità urbana che l’aveva eretta come “palla-
dio delle libertà comunali”. Secondo l’erudito cultore
di storia patria, infatti, nel Medioevo San Lorenzo
non era stata solo il “maggior tempio” della città, ma
qualcosa di assai più importante: un “degno modello
di operoso vivere civile”, capace di rappresentare per
ogni cittadino lo “specchio e ritratto dell’avita gran-
dezza e maestà” (sì da essere al contempo “scuola,
accademia, museo, archivio, quartier generale, scri-
gno di reliquie e tesori, teatro dell’eloquenza sacra e
civile, custode dei pesi e delle misure, sede di tutti i
gentili artifizi, incubatorio della cultura e della civiltà
moderna”).2
La Cattedrale come monumento identitario per
eccellenza, dunque, luogo di sedimentazione delle
memorie avite e simbolo della coesione civile e spiri-
tuale dei Genovesi: un’immagine che all’appassionato
spigolatore d’archivio doveva sembrare particolar-
mente attuale nei tempi bui in cui si trovava a scrive-
re – il paese allo sbando all’indomani di Caporetto, i
nemici alle porte, il futuro incerto – quando la “con-
tinua eredità” del passato che trasudava dalle pareti
del Duomo gli si poteva ben presentare quale “ronce
immortelle che si attacca com’edera al cuore e ne
accompagna nel buio” (citazione dai Malheureux di
Louise Ackermann, questa, e il riferimento a un’opera
allora correntemente tacciata di “ateismo” non era
privo di audacia in una pubblicazione dedicata all’ar-
civescovo Gavotti).3
Del resto, nel presentare in questi termini ‘fosco-
liani’ il rapporto fra San Lorenzo e Genova, Arturo
Ferretto si poneva nel solco di una lunga tradizione
– per tutto l’Ottocento non s’era parlato altrimenti
del Duomo sulle pagine dei quotidiani e nelle guide
“artistiche” cittadine4 – che non si sarebbe certo
esaurita con lui: si pensi, tanto per fare un esempio,
al ruolo nevralgico assunto dalla Curia metropolitana
nelle vicende degli ultimi, difficili, mesi della Seconda
guerra mondiale e successivamente, negli anni della
ricostruzione, quando un personaggio carismatico
come Giuseppe Siri si sarebbe imposto come perno
008-032FOLIN.indd 9
riconosciuto (ma non per questo meno controverso)
della politica locale.
Questa idea della Cattedrale come sineddoche della
città è uno dei leitmotifs della storiografia genovese.
Non è forse vero che all’alba del secondo millennio
i legami fra San Lorenzo e la neonata Compagna
Communis erano stati così stretti che quest’ultima
non aveva sentito neppure l’esigenza di darsi una
sede istituzionale ben definita e distinta dal Duomo?5
Da allora e per oltre due secoli Genova non ebbe un
palazzo pubblico e – caso più unico che raro nell’Italia
del tempo – le magistrature del Comune consolare
prima, podestarile poi, continuarono a riunirsi presso
domicili estemporanei e preferibilmente appunto
nella chiesa metropolitana: luogo deputato di ogni
concione di popolo, tanto più in occasioni solenni
come quella che nel 1227 vide festeggiare la conqui-
sta di Savona e Albenga con una curia celebrata in
signo victoriae et anni felicissimi sotto le volte della
Cattedrale.6 Di qui – è stato detto più volte – la natura
apertamente politica, civile, degli apparati decorativi
che ornavano il Duomo, che si trattasse dei marmi
antichi di recupero o delle scritture statutarie che
campeggiavano qua e là sulle pareti, o ancora delle
pitture murali e dei trofei riportati dalle scorribande
in partibus Infidelium. Ecco spiegate le Historiae
della conquista di Tortosa, Almería e Minorca dipinte
intorno alla metà del xii secolo sulla parete meridio-
nale (500, 506b);7 il busto di Giano primus rex Italie
de progenie gigantium qui fundavit Ianuam tempore
Abrahe [“il primo re d’Italia della progenie dei giganti
che fondò Genova al tempo di Abramo”] sul falso
matroneo della navata (561);8 il lampadario bronzeo
“di belletissimo et sutilissimo lavoro moresco” che
nel Cinquecento pendeva davanti all’arca del Pre-
cursore nella cappella di San Giovanni Battista ...9
Di qui, ancora, il carattere di ecclesia civitatis che il
Duomo aveva presto assunto agli occhi dei cittadini,
ampiamente attestato dai cronisti medievali: come
quell’Ursone da Sestri, per esempio, che nel celebrare
le vittorie contro Federico II e i Pisani non poteva
fare a meno di pensare alle imprese cittadine del
secolo precedente tramandate proprio dalle pitture
che facevano bella mostra di sé nella Cattedrale: qua-
rum picta nitet maiori gloria templo [“delle quali la
gloria dipinta risplende nel tempio maggiore”].10 Un
secolo dopo, lo stesso Petrarca sarebbe rimasto col-
pito – pur senza lasciarsene interamente convincere
– dal “discorso di celebrazione civica per immagini”
allestito a San Lorenzo, e di cui statue e dipinti erano
testimoni così eloquenti, per quanto poco credibili
agli occhi di un dotto conoscitore degli Antichi quale
l’autore del Canzoniere.11
10/12/12 17.48
 Marco Folin
2.  Anonimo pittore
genovese, Processione
del Corpus Domini
in Piazza San Lorenzo
(seconda metà
del sec. xvii).
Genova, Museo
Diocesano di Arte Sacra.
È stato spesso sottolineato che le autorità genovesi
non smisero mai – sino alla caduta della Repubblica e
anche oltre – di ribadire questa funzione civica e reli-
giosa a un tempo della Cattedrale come monumento
pubblico, estraneo alle logiche fazionarie e proprio
per questo capace di catalizzare culti cittadini e
devozioni condivise. Emblematico il cerimoniale di
intronizzazione dogale, che già dalla fine del Trecen-
to prevedeva che il doge neoeletto venisse benedetto
dal vescovo nel corso di una cerimonia solenne, in
Cattedrale, utilizzando a questo scopo una reliquia
di inestimabile valore come la Croce “degli Zaccaria”
(677, 678), che si diceva contenere un frammento
della Vera Croce prelevato da san Giovanni Evan-
gelista in persona subito dopo la Deposizione.12 E in
effetti sono molti gli indizi del fatto che le reliquie
del Tesoro di San Lorenzo (oltre alla stauroteca
“degli Zaccaria”, le ceneri del Battista [681-684] e
il Sacro Catino [674] su tutte) abbiano continuato a
svolgere un cruciale ruolo identitario per tutta l’età
10
008-032FOLIN.indd 10
moderna.13 Gelosamente conservate in diversi luoghi
deputati della chiesa, esse non venivano solo esibite
in ogni pubblica ricorrenza e agli illustri forestieri di
passaggio (quando non prudentemente sottratte alla
stessa vista dei fedeli per salvaguardarne l’integrità,
come nel caso del Catino), ma erano periodicamente
portate in corteo nelle grandi cerimonie destinate
a rinsaldare il senso di solidarietà collettiva di un
corpo sociale per altro diviso da endemiche conflit-
tualità intestine.14 Non è certo un caso, da questo
punto di vista, che nel 1513 la custodia della sacrestia
e la gestione dei suoi tesori venissero formalmente
affidate alla magistratura dei Padri del Comune
in quanto legali rappresentanti della Repubblica,
demandando loro fra l’altro l’organizzazione delle
processioni rituali che scandivano il calendario litur-
gico.15 Fra le filze del loro archivio si conservano
note dettagliatissime sull’itinerario di queste sfilate
pompose e sulle complicate trattative cui esse davano
luogo: il sorteggio dei quartieri in cui si snodavano
10/12/12 17.48
 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese

i cortei (cambiavano sempre, a rotazione); la scelta prospetto si integrava con quelli della porta Soprana
delle tappe del percorso, su questo o quel sagrato; la e del palazzo di San Giorgio, allora appena restaurati
composizione dei gruppi di cittadini che avevano – a come “monumenti insigni” della storia cittadina: da
turno – il privilegio di reggere il baldacchino sotto una parte la potenza economico-militare e i traffici
cui troneggiavano le reliquie (Fig. 2).16 Così, la “reli- per mare, dall’altra la coscienza di sé di una comunità
gione cittadina” che aveva come fulcro la Cattedrale coesa, laboriosa, salda nella fede e nel ricordo delle
poteva – sia pur solo in ben precisi giorni dell’anno, sue antiche tradizioni di libertà, che nel padiglione si
e previe lunghe negoziazioni – prendere fisicamente combinavano insieme a comporre una sorta di “tem-
possesso degli spazi urbani genovesi, mostrandosi
per le vie e coinvolgendo nei propri riti ampie fette
della società cittadina.
Né con la fine dell’Antico Regime sarebbe venuta
a esaurirsi del tutto la preminenza della Cattedrale
nel sistema simbolico cittadino, se è vero che ancora
all’indomani dell’Unità d’Italia – in un orizzonte
culturale ormai completamente mutato – fu proprio
intorno al cantiere di San Lorenzo che prese vita una
disputa a tratti violenta, e tale da tener banco per
decenni sulle pagine dei principali quotidiani geno-
vesi: la contesa sui restauri dei principali monumenti
medievali della città e sui criteri che avrebbero dovu-
to ispirarli.17 Da un lato Alfredo d’Andrade, Camillo
Boito, Marco Aurelio Crotta; dall’altro Luigi Augu-
sto Cervetto, Giovanni Campora, Tammar Luxoro, a
battersi in nome delle opposte ragioni dell’“estetica”
e della “storia”, divincolandosi fra le ristrettezze
dei bilanci comunali e le pressioni di una campagna
di stampa pronta a denunciare il deplorevole stato
di conservazione (da “far onta ad un paese civile”)
dei “superbi edifici che abbell[ivano]” la città.18 Un
dibattito per certi versi “scheletrico”, è stato defi-
nito;19 tuttavia, al di là del relativo provincialismo
dell’ambiente genovese, è pur vero che la polemica
travalicò ampiamente i circoli degli addetti ai lavori
per coinvolgere buona parte dell’opinione pubblica,
che poteva seguire le discussioni in corso non solo
sugli organi più paludati dell’élite costituita come il
“Cittadino” o il “Caffaro”, ma anche – a testimonian-
za dell’interesse più vasto suscitato dalla controver-
sia – su giornali di diversa ispirazione (e diffusione)
come il “Secolo XIX”, la “Gazzetta di Genova” o
addirittura il foglio socialista “Il Lavoro”.20
Un epilogo simbolico di questa lunga storia?
Potremmo ricordare il Padiglione Ligure costruito 3

su progetto di Venceslao Borzani per la Mostra
delle Regioni allestita a Roma nel 1911 per il primo
cinquantenario dell’Unità d’Italia: sorta di pastiche
eclettico in cui venivano liberamente riprodotti diver-
si edifici storici genovesi, assemblati con l’obiettivo di
rievocare i “caratteri originari” che avevano contrad-
distinto l’architettura ligure nel corso dei secoli (Figg.
3, 4).21 In esso, ancora una volta, un ruolo di spicco
spettava proprio alla Cattedrale di San Lorenzo, il cui
pio laico” eretto per celebrare il secolare contributo 3.  Il Padiglione Ligure
di Venceslao Borzani
genovese alla ritrovata identità nazionale.22 (1873-1926) alla Mostra
delle Regioni del 1911
a Roma, prospetto
anteriore.
2. “Inutil[e] baluard[o] dei tempi che non ritornano”
Se si prendono in esame altre fonti, tuttavia, sotto
questa immagine un po’ oleografica della Cattedrale
come caposaldo riconosciuto dell’immagine urbana
genovese non mancano le zone d’ombra, i contrasti,

11

008-032FOLIN.indd 11 10/12/12 17.48

 Marco Folin

5.  Nicolas Marie

Joseph Chapuy
(1790-1858), La piazza
di San Lorenzo
(ante 1840), litografia,
Comune di Genova,
Centro
di Documentazione
per la Storia, l’Arte,
l’immagine di Genova
(= Genova, Centro
DocSAI), Collezione
Topografica, inv. 900.

cupola e gli altri non val[evano] molto”.24 A un secolo

di distanza gli faceva eco Stendhal, che del Duomo
non ricordava altro che il paramento policromo delle
pareti, e non certo perché lo apprezzasse: “cosa più
strana che gradevole”, lo definiva.25
Dal canto suo un giovanissimo Valéry osservava
che la Cattedrale – per quanto “bella, gotico-moresca,
con statue antiche e iscrizioni” che si divertiva a
tradurre dal latino – fosse di fatto sciupata dai gusti
grossolani del clero genovese e dalla sua “mania
degli orpelli e delle dorature” (“non parlo come cat-
tolico” – aggiungeva – “ma come uomo di gusto”).26
E lo stesso Dickens, pur impressionato dall’“effetto
davvero superbo” dei drappi che addobbavano la
chiesa per la festa di san Lorenzo, non sembra tanto
colpito dal lustro dell’edificio, quanto piuttosto da
una certa qual fatiscenza che si indovina fra le righe
del suo testo, lì dove dice che al calar del sole “la
chiesa rimase immersa a poco a poco in una oscurità
rotta dai pochi ceri che ardevano sull’altare maggiore
e da qualche piccola lampada d’argento appesa di
fronte alle immagini, [e] l’effetto era assai misterioso
e impressionante”.27
Unica eccezione in questo coro sostanzialmente
concorde quella di uno svagato Mark Twain, che
narrava ammaliato dei “maestosi pilastri” (Fig. 6), del

4.  Il Padiglione Ligure le aporie. A compulsare i diari di viaggio e le descri-

di Venceslao Borzani
(1873-1926) alla Mostra zioni dei forestieri di passaggio per Genova fra il
delle Regioni del 1911 tardo Medioevo e la fine dell’Antico Regime, per
a Roma, prospetto
posteriore. esempio, il sapore lasciato dalle loro impressioni è
tutt’altro: San Lorenzo viene ricordata di rado, più
per il fascino delle reliquie che vi venivano conserva-
te che per il rilievo intrinseco dell’edificio, di scarso
interesse se confrontato (come in molti facevano
implicitamente) con il fasto di altre chiese cittadine,
come Santa Maria Assunta di Carignano o la Santis-
sima Annunziata.23 Così Charles de Brosses nel 1739
precisava di iniziare la sua descrizione di Genova
dalla Cattedrale unicamente “a causa del suo titolo,
e non della sua qualità, che non è un gran che, per
quanto sia interamente costruita in marmo bianco e
nero”; e proseguiva dicendo di non “avervi trovato
nulla che [gli] piacesse”, salvo forse gli scranni intar-
siati del coro e la balaustra “filigranata” della cappel-
la di San Giovanni, mentre gli stessi “affreschi della
5

12

008-032FOLIN.indd 12 10/12/12 17.48

 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese

“grande organo” e della “consueta pompa di doratu- 6.  Alfredo Luxoro

(1859-1918), Interno
re, dipinti, volte affrescate e così via”, salvo riferire della Cattedrale
perplesso delle storie che gli erano state propinate da (fine sec. xix). Genova,
collezione privata.
qualche cicerone locale (“mi dissero che metà della
chiesa, dalla porta principale fino a metà distanza
fra questa e l’altare, era una sinagoga ebraica prima
che nascesse Gesù Cristo, e che da allora non era
stata apportata modifica alcuna. Ne dubitavamo, ma
controvoglia: avremmo voluto crederci, ma pareva in
condizioni troppo perfette per essere tanto antica”).28
Giudizi spesso superficiali, è vero, ma sostanzial-
mente univoci e ribaditi a distanza di tempo, da per-
sone di cultura e temperamento molto diversi. Che
San Lorenzo abbia finito per condividere la sorte di
molti altri edifici pubblici genovesi, oggetto in fondo
– al di là dei cerimoniali di cui si è detto – di ben scar-
se attenzioni da parte di un’aristocrazia interessata
a curare la propria immagine privata assai più che
quella pubblica dello Stato nel suo complesso? Con-
sideriamo meglio i dati a cui si è accennato più sopra:
è vero, la Cattedrale compare fra gli edifici rievocati
nel Padiglione Ligure del 1911 (per quanto emble-
maticamente spogliata di ogni riferimento religioso:
nella lunetta del portale maggiore, per esempio, il
Cristo Giudice era stato sostituito da uno stemma
del Comune di Genova, e altre insegne municipali
avevano preso il posto della graticola di san Loren-
zo).29 Tuttavia non è sulla facciata del padiglione che
ne troviamo l’effige, bensì relegata sul retro (Fig.
4), in una posizione di scarsa visibilità, tanto da non
figurare mai nelle guide e nelle cartoline stampate
per l’occasione: viceversa sul prospetto principale del
padiglione (Fig. 3), incastonate nella mole del Banco
di San Giorgio, facevano bella mostra di sé le forme
riconoscibilissime – vere o presunte che fossero – di
un palazzo patrizio (prepotens Genuensium praesi-
dium, era scritto a chiare lettere sopra l’ingresso).30
D’altronde, questa relativa marginalità della chiesa
e dei suoi simboli a fronte degli edifici che incarna-
vano la potenza economica della città e dei suoi ceti
dirigenti non stupisce più di tanto, ponendo mente al
clima culturale dell’epoca, quando un vero best seller
come il fascicolo delle Cento Città d’Italia dedicato a
Genova poteva chiudersi inneggiando entusiastica- 6

mente ai progressi straordinari che andavano allora
trasformando la facies urbana genovese, e che nel
giro di pochi anni – si prevedeva – avrebbero spaz-
zato via ogni “inutil[e] baluard[o] dei tempi che non
ritornano”: “si avvererà quel sogno nostro stupendo,
che ci mostrò Genova formante una città sola da
Sestri a Nervi, arrampicantesi su pei monti con cento
elevatori e ferrovie funicolari; addentrantesi per le
valli con strade serpeggianti corse da rapidi trams:
da un lato vivaio sterminato di officine, di fabbriche,
di cantieri d’ogni genere; dall’altro città sontuosa,
moderna, elegante, popolata da un milione di lavo-
ratori. [...] E il rombare e lo stridere di innumerevoli
officine e lo sbuffare di cento locomotive trainanti
per ogni senso nelle vie del commercio i carichi vago-
ni; e il mugghiare gutturale e lamentoso dei vapori
in arrivo o in partenza; e il ruzzolare d’infiniti carri,
carrozze e veicoli d’ogni sorta; e il frastuono sordo,

13

008-032FOLIN.indd 13 10/12/12 17.48

 Marco Folin
7.  Pisa, veduta aerea
di Piazza dei Miracoli
con il Duomo,
la Torre, il Battistero
e il Camposanto
Monumentale.
ma incessante della folla affaccendata nelle loggie,
nei doks (sic), sulle calate, formeranno quell’armo-
nia particolare del gran lavoro, inebbriante per chi
sa comprenderla, e che insieme alle spire opaline del
fumo di una miriade di comignoli sale per l’etra a
portar l’eco della vita della grande ed operosa città
ai pacifici abitatori dei monti circostanti”.31
In questo paesaggio inebbriante (o alienato, a secon-
da dei punti di vista) i vecchi palazzi nobiliari poteva-
no restare – e per qualche tempo sarebbero ancora
rimasti – un modello di riferimento per la nuova bor-
ghesia imprenditoriale che amava spacciarsi per erede
dell’antico patriziato cittadino; ma per il Duomo, al
di là delle geremiadi dei cultori della tradizione, non
poteva darsi che uno spazio residuale e defilato.
A ben pensarci, tuttavia, già nella prima metà
dell’Ottocento non erano certo state aspirazioni di
decoro quelle che avevano motivato l’apertura della
carrettiera Carlo Alberto e le conseguenti operazioni
di diradamento lungo la fiancata meridionale del
14
008-032FOLIN.indd 14
Duomo e nella piazzetta (Fig. 5) su cui questo si affac-
ciava.32 Al contrario, in quel caso l’unica ragione che
aveva spinto le autorità municipali a promuovere lo
sventramento dei quartieri fra la Ripa e San Lorenzo
era stata il “comodo” dei commerci cittadini: ossia
il bisogno di provvedere la città di una via di attra-
versamento carrabile che mettesse direttamente in
comunicazione lo scalo merci della Darsena con gli
stabilimenti delle periferie orientali.33 Un intervento
tutto ‘funzionale’, dunque, volto a incrementare il
volume dei traffici portuali e con essi lo sviluppo
economico cittadino, anche a costo di stravolgere il
tessuto originario di quello che proprio allora si anda-
va caratterizzando come “centro storico”; e lo stesso
Alizeri, cui pur si stringeva il cuore al pensiero di tutti
“i monumenti che bisognò distruggere sulla fissata
linea”, dichiarava che non sarebbe stato “opportuno
né giusto l’intorbidar con querele l’ammirazione e
le lodi che si debbono a così utile impresa”.34 Certo,
ad alcuni poteva parere “indecoroso che la via di
10/12/12 17.48
 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese
carreggio [si] inoltri per contrade illustri e rasenti il
destro fianco del duomo”; ma anche questa obiezione
andava spazzata via nel più energico dei modi, dal
momento che “non sarà chi nieghi esserne vantag-
giate queste contrade medesime, sia per ampiezza e
regolarità, sia per decoro di novelle fabbriche, innal-
zate sulle rovine di vecchie e non degne de’ luoghi”.35
D’altro canto, era da tempo che i benestanti avevano
trasferito altrove le proprie mire, verso i nuovi quar-
tieri che di lì a poco sarebbero cresciuti all’esterno
del vecchio nucleo medievale, lungo le direttrici di
fresca inaugurazione della “nuova Genova” (o della
“Genova dell’avvenire”, come veniva pomposamente
definita nel fascicolo delle Cento Città d’Italia): strade
come via Carlo Felice o la passeggiata dell’Acquaso-
la, emblematicamente destinate non già al transito
dei carri da trasporto, bensì alla civile abitazione e al
“passeggio” di un’élite agiata che aveva ormai voltato
le spalle al proprio passato.36
Conseguenze inevitabili del processo di disgrega-
zione e ricomposizione urbana innescato dai pro-
dromi dell’industrializzazione alle porte? Non solo,
se è vero che le matrici di questo atteggiamento nei
confronti delle aree centrali della città si possono
far risalire ben più addietro che alla fine dell’Antico
Regime, e per certi versi sembrano aver ispirato per
secoli le strategie urbane delle magistrature genovesi
e dei ceti che le monopolizzavano. Strategie ambi-
valenti, è stato detto: da una parte improntate a una
certa qual forma di “immobilismo”, volto alla con-
servazione dell’esistente nei quartieri a ridosso del
porto, lasciando all’iniziativa privata l’incombenza
di rinnovare per frammenti un tessuto edilizio den-
sissimo e spesso fatiscente; dall’altra orientate a con-
vogliare verso ben determinate zone di espansione
‘protetta’, all’esterno della città vecchia, le esigenze
di autorappresentazione – e gli investimenti – di una
nobiltà che aveva puntato le proprie carte sulla ren-
dita finanziaria, prendendo le distanze (culturalmen-
te e fisicamente) dal mare che un tempo ne aveva
fatto la fortuna.37 Così, mentre dal Rinascimento
in poi nelle altre capitali italiane venivano avviate
ingenti imprese di rinnovamento spesso imperniate
proprio sulla riqualificazione delle aree centrali e
dei relativi edifici di rappresentanza, l’immagine
di Genova andava legandosi prevalentemente allo
sfarzo dei suoi acquartieramenti nobiliari: una città
“senza piazze” (o per meglio dire senza luoghi d’uso
collettivo chiaramente demarcati in quanto tali),
contrassegnata piuttosto dallo splendore dell’edilizia
residenziale aristocratica.
E a questo proposito proprio le vicende di San
Lorenzo sembrano esemplari: altrove in Italia i gran-
15
008-032FOLIN.indd 15
di cantieri delle cattedrali continuarono per tutto
l’Antico Regime e anche oltre ad avere un ruolo
nevralgico nella politica e nell’economia cittadina – si
pensi solo alla colossale fabbrica del Duomo di Mila-
no, o a cosa fu per Firenze il cantiere di Santa Maria
del Fiore – ponendosi saldamente al cuore dell’im-
magine urbana locale e condizionando in profondità
lo sviluppo dei quartieri limitrofi.38 A Genova, al
contrario, nel corso dell’età moderna il Duomo e le
relative adiacenze non furono oggetto che di limitati
interventi di manutenzione, o al massimo di opere di
ricostruzione dettate dalle necessità contingenti. Si
potrebbe dire – è stato detto più volte – che l’instabi-
lità istituzionale che caratterizza così peculiarmente
la storia politica genovese sul lungo periodo finì pre-
sto con lo smorzare quella spinta unitaria che pure
nel xii secolo aveva stimolato l’avvio di grandiose
opere pubbliche (la Ripa maris, le cinte murarie, la
stessa Cattedrale ...), facendo ben presto ripiegare
le iniziative della Repubblica su obiettivi circoscritti,
mai scevri dagli interessi “particulari” delle conven-
ticole di volta in volta al potere.39
Certo è che dal confronto con quanto accade nel
resto della penisola il ruolo di San Lorenzo come
fulcro dell’immagine urbana genovese sembra uscire
decisamente ridimensionato. O forse è stata l’im-
magine complessiva della città a essersi venuta a
sedimentare qui a Genova secondo schemi del tutto
peculiari, e altrove poco diffusi, attribuendo alle
categorie antagonistiche del bene pubblico e degli
interessi privati (nonché agli edifici che li simboleg-
giavano) un valore ideologico sostanzialmente diver-
so da quello prevalente nel resto d’Italia?
3. Qualche spunto comparativo
Il parallelismo delle vicende delle quattro Repub-
bliche marinare costituisce un topos della storiografia
medievale.40 Amalfi e Pisa, Genova e Venezia: fra il x
e l’xi secolo protagoniste tutte e quattro di una gran-
de espansione mercantile su scala mediterranea, che
costituì il volano per lo sviluppo di una forte autoco-
scienza cittadina pronta a esprimersi anche sul piano
politico, portando alla precoce affermazione di più o
meno stabili regimi di governo di ispirazione comu-
nale. Tutte e quattro variamente legate all’Oriente
bizantino, da cui sarebbero state durevolmente affa-
scinate, e teatro di imponenti imprese collettive di
riassetto urbano che non avrebbero tardato a conver-
gere verso la costruzione di una grande chiesa muni-
cipale, presto identificata come simbolo – se non vero
e proprio alter ego – della comunità cittadina, di cui
in certi periodi avrebbe costituito anche giuridica-
10/12/12 17.48
 Marco Folin
8.  Venezia, veduta aerea
di Piazza San Marco.
8
mente l’incarnazione legale.41 In tutte e quattro que-
sta chiesa (la cattedrale ad Amalfi, Genova e Pisa; la
cappella dogale a Venezia) non rappresentò solo un
fattore di aggregazione civile, ma divenne nel giro di
pochi anni il baricentro di uno dei quartieri più vitali
dell’insediamento medievale, in cui si concentravano
le attività politiche e commerciali, finendo in breve
per imporsi come uno dei fulcri dell’immagine com-
plessiva della città. In tutte e quattro, infine, l’edifica-
zione dell’ecclesia maior alimentò tensioni e conflitti
che diedero modo ai neonati reggimenti comunali di
misurarsi con le altre autorità che si fronteggiavano
sulla scena locale (vescovo e Capitolo in primis), por-
tando alla nascita di embrionali organi di gestione del
grande cantiere ecclesiastico.
Le analogie finiscono qui, però, e anzi la configu-
razione specifica delle istituzioni sorte nelle singole
città è profondamente e significativamente diversa.
Ad Amalfi il prematuro declino del ducato non diede
modo all’Università cittadina di porre la cattedrale
sotto il proprio controllo, e la chiesa restò sem-
pre amministrata dal vescovo e dal Capitolo come
espressione della nobiltà locale.42 A Pisa riscontriamo
tutt’altra evoluzione: la relativa debolezza dei vescovi
implicati nella lotta per le investiture fece sì che il
Comune si arrogasse ben presto il compito di gestire
direttamente l’opera di costruzione della nuova chie-
sa metropolitana, a cui sin dai primi del xii secolo fu
deputato un organo specifico – l’Opera Sancte Marie
– ai cui operarii fu in breve riconosciuta una certa
discrezionalità nella supervisione della fabbrica.43
Nell’arco di cent’anni l’Opera si svincolò del tutto
dalla tutela vescovile per essere posta sotto l’esclusivo
16
008-032FOLIN.indd 16
controllo delle magistrature comunali: sarà appun-
to la presenza di un ente relativamente autonomo,
nonché legittimato ad agire nel nome degli interessi
collettivi, a consentire l’erezione di edifici ambiziosi
e costosi come il Duomo e la Torre prima, il Campo-
santo Monumentale poi (Fig. 7). A Venezia abbiamo
a che fare con una dinamica ancora differente: qui –
dove la cattedrale rimase sempre confinata ai margini
dell’area urbana e le funzioni di ecclesia civitatis ven-
nero precocemente assunte dalla cappella palatina di
San Marco – l’ufficio dei Procuratores Sancti Marci,
a cui fu affidata la costruzione della chiesa, si trovò
da subito provvisto di risorse finanziarie e margini di
autonomia molto più spiccati che a Pisa (la carica era
fra l’altro vitalizia, in deroga agli usi vigenti in città).44
In pochi anni i Procuratores seppero conquistarsi
una posizione di assoluto rilievo nella complessa
macchina di governo della Repubblica, estendendo
le loro competenze in settori nevralgici come l’ammi-
nistrazione dei lasciti pii, la tutela di vedove e orfani,
la supervisione degli ospedali cittadini: attività che
li ponevano al centro dei circuiti creditizi cittadini,
sia pubblici che privati, mettendo a loro disposizione
enormi somme di capitale liquido.45 Più cresceva l’in-
fluenza politica ed economica della magistratura, più
ne aumentavano le incombenze in campo edilizio, che
ben presto si estesero alla responsabilità complessiva
sull’intera insula Sancti Marci: ovvero sulla piazza
che era il cuore pulsante dell’identità cittadina e sugli
edifici che vi si affacciavano, fra cui il Palazzo Ducale
e le Procuratie (la sede dei Procuratori, appunto),
che non a caso nel Cinquecento sarebbero divenute il
perno della renovatio urbis grittiana (Fig. 8).46
Anche a Genova fu direttamente il Comune a farsi
carico della costruzione del Duomo, come già nel
Trecento dichiarava con compiacimento Jacopo da
Varagine in un passo molto noto e citato: credimus
autem quod opus tam sumptuosum et nobile ecclesie
Sancti Laurentii fecit commune Ianue et non perso-
na aliqua specialis [“Crediamo che fu il Comune di
Genova e non una singola persona di rango a realiz-
zare l’opera così sontuosa e nobile della chiesa di San
Lorenzo”].47 In questo caso, tuttavia, non si ebbe la
creazione di una magistratura ben definita, preposta
al cantiere in pianta stabile: il coordinamento della
fabbrica rimase sempre di pertinenza dei supremi
organi della Repubblica, che di volta in volta nomi-
navano dei delegati provvisori per sbrigare questo o
quel compito contingente, terminato il quale anche la
carica cessava di esistere.48 Significativamente, erano
gli stessi delegati pro tempore a percepire il pro-
prio mandato come un impegno fuori dall’ordinario,
rivendicandone l’eccezionalità: è il caso, per esempio,
10/12/12 17.48
 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese
dei tre “costituti” nominati all’indomani dell’incendio
del 1296, che non si peritarono di iscrivere i propri
nomi a caratteri cubitali ai lati della navata restaurata
sotto la loro regìa (559, 560)49 – un gesto d’orgoglio
personale, questo, assolutamente privo di riscontri
nella città lagunare, dove sarebbe stato reputato una
dimostrazione di superbia del tutto inopportuna.
Certo, ai primi del Quattrocento la supervisione
sul cantiere di San Lorenzo venne progressivamente
demandata ai Padri del Comune; il nuovo ufficio,
però, non fu mai dotato di cespiti sufficienti a coprire
integralmente e in via ordinaria le spese dei lavo-
ri alla Cattedrale (la gabella del deceno sui legati
testamentari, inizialmente istituita a questo scopo,
era stata già da tempo devoluta all’opera del porto
e del molo), né d’altro canto le mansioni della magi-
stratura si limitavano alla gestione della fabbrica del
Duomo, la quale al contrario non costituiva che una
delle sue innumerevoli incombenze.50 Fu così che i
margini d’azione dei Padri del Comune, rispetto a
San Lorenzo, furono sempre pesantemente condizio-
nati dalla mancanza di fondi destinati specificamente
17
008-032FOLIN.indd 17
9.  Anton van den
Wyngaerde
(1525-1571),
Civitatis Genuae (1553).
alla Cattedrale, e nei fatti non andavano oltre alla
manutenzione corrente: ogni volta che si rendevano
necessarie operazioni di maggior respiro, erano i
massimi organi della Repubblica che dovevano inter-
venire con provvedimenti una tantum, spesso ricor-
rendo al vecchio sistema dei deputati ad hoc per tro-
vare congrue fonti di sovvenzionamento. Nel 1526,
per esempio, per reperire i soldi che servivano al
completamento del coro si pensò, secondo una prassi
consolidata, di bandire una lotteria;51 mentre vent’an-
ni dopo per finanziare la cupola e la copertura della
navata danneggiata da una violenta esplosione nel
palazzo arcivescovile furono utilizzati i proventi della
vendita dei lotti di Strada Nuova (aperta, com’è noto,
sul sito del vecchio postribolo cittadino).52
In quello stesso frangente, data la mole degli esbor-
si richiesti, non si indietreggiò neppure di fronte ad
accorgimenti più spregiudicati, come quello di cerca-
re nelle prigioni della Repubblica maestranze specia-
lizzate disposte a lavorare gratis in cambio di sconti
di pena: tale il caso di un certo De Rosa, un tagliapie-
tre originario di Lugano detenuto per porto d’armi
10/12/12 17.48
 Marco Folin
10.  Venezia, i “Pilastri
Acritani” fra la Basilica
di San Marco e il Palazzo
Ducale.
10
abusivo, che si impegnò a eseguire gratuitamente
alcune sculture per la Cattedrale come contropartita
della propria scarcerazione immediata.53 L’idea non
sembra così diversa da quella di offrire un porto
d’armi a Galeazzo Alessi, come si fece nel 1550, per
ricompensarlo della sua offerta di collaborare alla
fabbrica a titolo gratuito.54 Un episodio, questo, che
nello scenario che stiamo descrivendo pare assumere
un significato ben diverso da quello che gli aveva
attribuito Mario Labò per corroborare la sua tesi di
un precoce quanto determinante coinvolgimento di
Alessi nel cantiere di San Lorenzo: qui non sembra
tanto di avere a che fare con un privilegio onorifico
accordato a un architetto di fama per rendergli meri-
to del suo contributo ai lavori nel Duomo, quanto
piuttosto con un ennesimo espediente studiato per
risparmiare sulle spese, affidandosi alla consulenza
a buon mercato di un forestiero già impiegato (e
pagato) dall’arcivescovo Sauli nella fabbrica della
sua chiesa di famiglia.55 In effetti, alla luce della
scarsità dei documenti relativi all’effettiva presen-
za di Alessi sul cantiere della Cattedrale, sarebbe
forse ora di rivedere la tradizionale attribuzione
all’architetto perugino della cupola di San Lorenzo
(quando non addirittura dell’intera copertura o del
“disegno generale” del presbiterio), che non sembra
avere altro fondamento che la pretesa di nobilitare
18
008-032FOLIN.indd 18
la fabbrica cinquecentesca con il prestigio del suo
preteso ‘Autore’ (salvo poi stupirsi della peculiare
“timidezza” da questi dimostrata nell’occasione, o
rilevare tutte le discrasie che rendono la cupola di
San Lorenzo “un unicum” nella produzione alessia-
na).56 D’altro canto sappiamo bene che nella Genova
del Cinquecento continuavano a perpetuarsi consue-
tudini edilizie e rapporti di committenza di matrice
medievale, che lasciavano alle maestranze una assai
scarsa autonomia ‘creativa’, e riservavano invece
ai committenti un controllo quanto mai capillare
dei processi costruttivi: fuorviante, in tale contesto,
andare in cerca di autografie dei grandi artisti della
tradizione vasariana.57
Sono appunto queste diverse costellazioni istituzio-
nali e le specifiche pratiche di governo che ne discen-
devano a spiegare perché i rapporti fra la Cattedrale
e gli attigui spazi urbani si siano venuti a configurare
– a Genova da una parte, a Pisa e a Venezia dall’altra
– in modo così radicalmente dissimile. Nelle ultime
due, sotto l’energica amministrazione rispettivamen-
te dell’Opera Sancte Marie e dei Procuratores Sancti
Marci, l’ecclesia civitatis non tardò a divenire il fulcro
simbolico e visivo di una piazza monumentale, tute-
lata da una normativa minuziosa che ne sanciva il
carattere di palcoscenico d’elezione per i riti di rega-
lità repubblicana in cui si riconosceva la collettività
cittadina. A Genova, al contrario, lungi dal poter
usufruire di spazi minimamente adeguati alla dignità
del luogo, San Lorenzo si trovò precocemente sof-
focata dalla fittissima trama di edifici privati che le
si accalcavano intorno, e che rendevano ancora più
angusti il minuscolo sagrato e il paradisum (cimitero)
adiacente, togliendo luce all’interno della chiesa e
visibilità all’ornato dei suoi prospetti (Fig. 9).58 Già
nel 1161, per esempio, per abbattere una casa privata
che impediva di ammirare la formositas maioris por-
tae ipsius ecclesiae [“la bellezza del portale maggiore
della chiesa stessa”], i consoli – che pur utilizzavano
la casa in questione come luogo di riunione – furono
addirittura costretti ad appellarsi al papa per trovare
un accordo con i canonici, proprietari dell’edificio; e
anche così ci vollero oltre trent’anni per arrivare a
una soluzione positiva della controversia.59 Né questo
stato di cose era destinato a cambiare, se di lì a pochi
anni si produsse un nuovo conflitto con i canonici,
sempre a riguardo di una casa che toglieva decus e
illuminacio ipsius ecclesie, infine abbattuta nel 1259
anche – significativamente – per ampliare il cimitero
che si trovava di fronte al portale di San Giovanni.60
Fu l’assenza di una magistratura dotata di sufficien-
te autonomia e congrui finanziamenti che alimentò
l’inerzia se non l’incuria nei confronti delle aree che
10/12/12 17.48
 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese
11
circondavano la Cattedrale? O fu viceversa il “parti-
colarismo” che sin dai secoli più antichi sembra aver
improntato la cultura politica dei ceti dirigenti geno-
vesi che impedì la nascita di istituti capaci di imporre
un regime di tutela degli spazi d’uso collettivo che
circondavano la Cattedrale? Certo è che già nel xii
secolo a Venezia le cose andavano ben diversamente:
paradigmatica, in tal senso, l’usanza di distribuire
intorno alla Basilica di San Marco i trofei trafugati
dalla flotta veneziana nelle sue incursioni in Oriente,
così che la loro aura di gloria potesse riverberarsi
sull’intera area marciana enfatizzandone la desti-
nazione pubblica (si pensi in particolare alla Pietra
del Bando e ai cosiddetti ‘Pilastri Acritani’ eretti di
fronte alla Porta della Carta [Fig. 10], o alle colon-
ne di San Todaro e San Marco poste a delimitare
l’accesso ‘trionfale’ alla piazza per chi proveniva dal
mare).61 Nulla di tutto questo a Genova, dove gli spazi
19
008-032FOLIN.indd 19
11.  Michael
Wolgemut, Genua,
xilografia
da Hartmann Schedel,
Liber Chronicarum,
Norimberga 1493.
di rispetto della Cattedrale non costituirono mai un
luogo privilegiato di esibizione dei bottini di guerra,
perlopiù spartiti fra coloro che avevano partecipato
alle imprese militari e conseguentemente disseminati
in vari punti della città: oltre alle porte e al palazzo
di San Giorgio, spesso anche palazzi privati e soprat-
tutto chiese gentilizie (così nel 1290, per esempio, le
catene del porto di Pisa furono fatte a pezzi e spar-
pagliate in oltre una dozzina di luoghi diversi).62 Non
a caso, nel giro di un paio di secoli alcune di queste
chiese – come in particolare la doriana San Matteo –
poterono divenire un vero e proprio sacrario dedicato
alle imprese di questa o quella famiglia dell’alta nobil-
tà cittadina al comando delle armate di San Giorgio.63
Nei secoli successivi la situazione non sarebbe
migliorata: rare le iniziative promosse dai Padri del
Comune per riqualificare la zona, mentre gli inter-
venti più incisivi – come l’apertura di via degli Impe-
10/12/12 17.48
 Marco Folin
12
12.  Domenico Bonatti, riali voluta nel 1584 da Gian Giacomo Imperiale per
Souvenirs de Gênes,
1829. mettere direttamente in comunicazione il proprio
palazzo di Campetto con la piazzetta del Duomo64
– sembrano rispondere esclusivamente agli interessi
dei proprietari dei dintorni.
Quanto al piccolo camposanto a lato del portale di
San Giovanni, pur “purgato” a spese pubbliche nel
1499, era così stipato da essere ormai utilizzabile solo
per seppellirvi i condannati a morte; e tali erano le
condizioni del luogo che nel 1542 i Fieschi, proprie-
tari di un palazzo nelle adiacenze, fecero istanza alla
Repubblica di trasferire il cimitero altrove a proprie
spese, pur di por termine al “fetore” che appestava
l’aria.65 Anche il vicino chiostro dei Canonici si trova-
va in uno stato di forte degrado, se nella prima metà
20
008-032FOLIN.indd 20
del Settecento gli appartamenti contigui potevano
essere descritti come frequentati da una miserabile
accolita di avanzi di galera e “scampati dalla corda
e dalla forca”: tant’è che per ovviare agli scandali
continuamente ingenerati dalla situazione nel 1743
il governo della Repubblica si rivolse al papa per
far levare l’immunità ecclesiastica al chiostro e agli
ambienti circostanti.66
4. Sepulturis nobilium mire decorata
Intrappolata nel tessuto che la circonda: così si
presenta la Cattedrale di San Lorenzo nelle antiche
vedute di Genova, dalle miniature del Codice Cocha-
relli (Fig. 1) alla xilografia del Liber chronicarum di
10/12/12 17.48
 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese
13
Hartmann Schedel (1493) (Fig. 11), dalla vecchia
pictura ricopiata da Cristoforo de’ Grassi nel 1597
(cfr. Di Fabio 1998, p. 316, fig. 2) a quella che è
stata definita la “madre di tutte le vedute” moderne
della città, ossia la Civitas Genuae di Anton van den
Wyngaerde (1553) (Fig. 9).67 Opere diversissime le
une dalle altre per tecniche d’esecuzione e impianto
figurativo, accomunate però tutte da una medesima
“idea di Genova”, imperniata sull’opposizione fra un
nucleo abitato tanto gremito di edifici da risultare
quasi illeggibile nella sua articolazione fisica da un
lato, e un distretto extraurbano elegantemente pun-
teggiato dalle ville della nobiltà cittadina dall’altro.68
In parte, naturalmente, il dato rispecchia la situa-
zione che abbiamo appena ricordato; ma è anche
emblematico dell’‘immagine mentale’ che allora cir-
colava della città, dal momento che agli autori del
tempo – qualora avessero voluto distaccarsi dalla
morfologia effettiva dei luoghi per dare l’opportuno
rilievo ai monumenti su cui si imperniava la geogra-
fia simbolica dello spazio urbano genovese – non
sarebbero certo mancati gli espedienti figurativi per
farlo. Le stesse vedute cui si è fatto riferimento, non
esenti da espliciti intenti celebrativi, sono chiara-
mente connotate dalla volontà di enfatizzare alcuni
spazi ed edifici presentati come i capisaldi della
forma Ianuae: il porto con i fari, i moli, la darsena, la
21
008-032FOLIN.indd 21
13.  Genua sive Ianua
Lygurum caput,
da Daniel Meisner,
Thesaurus
philo-politicus,
Francoforte 1635.
palazzata di Sottoripa; la cinta muraria del xii seco-
lo con le sue grandi porte ‘trionfali’; la selva delle
case-torri nobiliari cui facevano da contraltare le
ville e i giardini del suburbio ... Un paesaggio urbano
articolato e complesso, insomma, in cui tuttavia la
Cattedrale non sembra trovare uno spazio (e quindi
un ruolo) distinto e riconoscibile, spesso ridotta a
mera menzione della sua torre nolare o della cupo-
la, generalmente rappresentate però – e forse non
è un caso – in forme molto lontane dalla realtà. La
marginalità iconografica del Duomo nell’immagine
cittadina sembra essere così radicata da farsi strada
addirittura all’interno di San Lorenzo, dove trova
una vera e propria consacrazione nel plastico della
città che campeggia sull’altar maggiore ai piedi della
statua della Madonna Regina di Genova, eseguito nel
1638 da Giovan Battista Bianco su disegno di Dome-
nico Fiasella (576).69 Avrebbe potuto essere un’oc-
casione per segnalare in qualche modo la rilevanza
urbana della Cattedrale almeno dal punto di vista
religioso; al contrario, la siderale altezza del punto
di vista adottato da Fiasella fa sì che il Duomo quasi
scompaia nell’anonimo tessuto del centro cittadino,
mentre gli unici elementi che si stagliano riconosci-
bili nella loro individualità sono ancora una volta le
infrastrutture portuali (Lanterna in primis) e le opere
difensive (nella fattispecie la grande cinta delle Mura
10/12/12 17.48
 Marco Folin

14-16.  Genova,
Cattedrale
di San Lorenzo,
interno, navata
meridionale, parete
sud. Gli altari
della Concezione
di Maria Santissima,
del Beato Giacomo
e di San Gottardo,
ora nella chiesa
di Sant’Antonio Abate
di Alpicella a Varazze,
durante i lavori
di smontaggio (1896)
(da Cattedrale
e Chiostro di San
Lorenzo ...,
Genova 2000, p. 193,
figg. 151-153).

14 15

Nuove allora appena terminate).
Nel secolo seguente questi stereotipi non avrebbe-
ro mancato di trovare altri canali d’espressione negli
scorci di spazi ed edifici cittadini rappresentati a
distanza ravvicinata, che incontriamo sempre più fre-
quentemente e che tuttavia sembrano ignorare quasi
del tutto la Cattedrale: così si verifica in particolare
nella Raccolta di diverse vedute della città di Genova e
delle sue principali parti e fabbriche dell’abate Giolfi
(1769), o ancora nella carta per il forestiero incisa
da Domenico Bonatti per l’editore Gravier (1829),
contornata da dodici vignette delle principali attra-
zioni turistiche genovesi (Fig. 12), in cui San Lorenzo
non viene neppure menzionata.70 Ed è indicativo,
in questo scenario sostanzialmente univoco, che le
poche raffigurazioni di Genova che si sottraggono
ai clichés di cui s’è detto, enfatizzando la centralità
della Cattedrale nel sistema urbano cittadino, siano
proprio quelle meno interessate a rendere con qual-
che verosimiglianza la realtà genovese, vuoi perché
eseguite con fini dichiaratamente simbolici, vuoi per-
ché frutto di una scarsa conoscenza della geografia
effettiva dei luoghi. È questo chiaramente il caso,
per esempio, della veduta di Genova stampata nel
Thesaurus philo-politicus di Daniel Meisner (1625),
in cui il Duomo troneggia al centro di una città labo-
riosa e dedita a traffici redditizi (Fig. 13);71 oppure
del Prospectus templi cathedralis Sancti Laurentii
di Johann Georg Hertel (seconda metà del xviii
secolo), in cui una serie di figuranti imparruccati si
muovono sfaccendati sul palcoscenico di una smi-
surata piazza San Lorenzo, fra quinte di edifici ben
allineati, davanti a una veduta del Duomo stampata
alla rovescia e non priva di imprecisioni appariscenti
(gli archi a tutto sesto dei portali, il lanternino del
campanile ...).72 Evidentemente, chi non aveva una
conoscenza diretta di Genova si trovava in difficoltà
di fronte alle immagini urbane cui si è accennato, ed
era indotto a rappresentare la città secondo gli sche-
mi usati correntemente per descrivere la maggior
parte delle ‘normali’ città europee, tipicamente orga-
nizzate appunto intorno alla piazza della cattedrale.
Quando però il visitatore dell’età moderna lasciava
alle proprie spalle i maleodoranti e dimessi caruggi
che circondavano San Lorenzo per varcarne i portali,
la visione che si presentava di fronte ai suoi occhi era
completamente diversa da quella offerta dall’esterno
della Cattedrale: a partire dalla prima metà del Tre-
cento, infatti, le navate laterali e il coro del Duomo
si erano andati rivestendo di altari, edicole, arche
funebri, cappelle variamente decorate e scolpite, che
avevano finito per modificare completamente l’a-

22

008-032FOLIN.indd 22 10/12/12 17.48

 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese
16
spetto della chiesa, sì che dopo due secoli i suoi stessi
costruttori avrebbero avuto qualche difficoltà a rico-
noscerla. Uno dei primi a stabilire di essere sepolto
in un’imponente tomba monumentale a parete da
erigersi nel Duomo era stato il cardinale Luca Fie-
schi, nel 1336 (710);73 e mezzo secolo dopo fu il doge
Leonardo Montaldo – morto in carica di peste nel
1384 – a essere seppellito con tutti gli onori nel coro
di San Lorenzo, in un’arca coronata da una statua del
defunto seduto ieraticamente in abiti dogali, con lo
scettro in mano (cfr. 733).74
In seguito, questi primi esempi furono emulati da
innumerevoli cittadini devoti, disposti a spendere
somme anche ingentissime pur di veder rispecchiata
la gloria delle proprie imprese e del proprio lignag-
gio nell’onore di un monumento funebre innalzato
nella chiesa metropolitana. Così, ecco che nel 1443
il draperius Girolamo Calvi faceva riattare a capella
et sepulchrum per sé e i propri eredi un altare pre-
cedentemente costruito nel 1393 dai fratelli Scotti a
lato del portale di San Gottardo (513);75 e dieci anni
dopo lo seguivano con ambizioni ben più magnilo-
quenti Nicolò e Ambrogio De Marini, che ottenevano
addirittura il permesso di sfondare la parete esterna
della navata settentrionale, accanto al portale di San
Giovanni Battista, per costruire un vano che potesse
23
008-032FOLIN.indd 23
ospitare le spoglie dei loro discendenti: la cappella
sorta allora (247), descritta ancora ai primi dell’Ot-
tocento come “tutta incrostata alle pareti da capo a
fondo in marmi bianchi e mischi”,76 fu successivamen-
te utilizzata come deposito di alcune delle reliquie
più preziose del Tesoro. Di lì a vent’anni ecco aprire
un altro vano sul lato opposto del medesimo portale,
per albergare il sacello del cardinale Giorgio Fieschi
(259), in cui nella seconda metà del secolo trovarono
posto i sarcofagi riccamente scolpiti di alcuni fra i suoi
parenti più illustri; mentre nel terzo decennio del Cin-
quecento veniva costruito nel transetto sinistro l’im-
menso cenotafio ‘romaneggiante’ voluto da Giuliano
Cybo (399), camerlengo di Giulio II, ai lati del quale
sarebbero stati in seguito stipati i monumenti degli
arcivescovi Agostino Salvago (1567) (415) e Cipriano
Pallavicino (1586) (393).77 Ecco soprattutto innalzarsi
ai fianchi del coro le due grandiose cappelle absidali
dei Lercari (434) e dei Senarega (463), che nell’ar-
co di quarant’anni consentirono di dare alla navata
danneggiata dopo l’incendio del palazzo arcivesco-
vile una nuova terminazione trionfale e aggiornata
secondo il linguaggio più avanzato del tempo, tale
da corrispondere degnamente al nuovo assetto del
presbiterio cinquecentesco.78
E l’elenco potrebbe continuare a lungo, ricordando
le arche funerarie del doge Pietro Giovanni Chiavica
Cybo (1558) (525) e di Benedetta Spinola (1581)
(493), del senatore Federico Federici (1647) (492) e
del patrizio Francesco Cicala (1679 ca) (506a), per
non citare che i principali monumenti di cui riman-
gono tutt’ora ben visibili le vestigia sparse fra il
transetto, la navata e l’endonartece di destra. I muri
perimetrali di San Lorenzo erano così traforati per
questo continuo lavorìo di apertura, chiusura, spo-
stamento di cappelle, monumenti e tabernacoli vari,
che alla fine dell’Ottocento la commissione tecnica
incaricata del restauro della Cattedrale – constatato
il dissesto strutturale delle fiancate (ormai la parete
meridionale, in origine spessa un metro, si era assotti-
gliata a non più di una trentina di centimetri, e in certi
punti non arrivava ai cinque) – decise di rimuovere
definitivamente tutti gli altari addossati alla navata
destra (Figg. 14-16) e di tamponarne ogni bucatura,
per evitare futuri pericoli di crollo.79
Certo, abbiamo qui a che fare con un fenomeno
di portata assolutamente generale, di scala europea,
dettato da un profondo cambiamento dei costumi
funerari e delle stesse forme di autorappresentazione
dei ceti nobiliari: un processo che portò ovunque a
una totale ristrutturazione dello spazio ecclesiastico,
con conseguenze decisive non solo sul piano devozio-
nale e liturgico, ma anche sociale, economico, politico
10/12/12 17.48
 Marco Folin
– e naturalmente artistico.80 Nel caso di San Lorenzo,
tuttavia, si ha l’impressione che questa progressiva
‘privatizzazione’ della chiesa da parte di alcune fami-
glie del patriziato cittadino non sia stata solo il frutto
dell’evoluzione generale della sensibilità religiosa e
delle pratiche successorie, ma corrispondesse anche
a una precisa strategia di chi amministrava l’edificio
ecclesiastico e doveva curarne la manutenzione: l’idea
cioè che – in mancanza di fondi adeguati a sostenere
operazioni di rinnovamento complessivo del Duomo
– se ne potesse delegare l’abbellimento, sia pur per
piccole parti, a singoli committenti attirati dalla
visibilità e dal prestigio garantiti da una sepoltura in
Cattedrale. Emblematico è il caso della costruzione
della cappella Senarega, nell’ultimo ventennio del
Cinquecento: già eretta nel 1481 dalla confraternita
“Charitas et benivolentia”, allo scioglimento di que-
sta nel 1527 la cappella era tornata sotto la giurisdi-
zione dei Padri del Comune, che al momento della
deflagrazione nel palazzo arcivescovile, nel 1546, ne
mantenevano ancora la cura.81
Lungi dall’intervenire con opere di restauro di
carattere strutturale, questi ultimi si limitarono alle
riparazioni più urgenti, in attesa di trovare un dona-
tore disposto ad accollarsi l’onere della completa rico-
struzione della cappella in cambio del giuspatronato
sulla medesima.
Ci sarebbero voluti quasi trent’anni, ma infine fra il
1578 e il 1579 si trovò il modo di stipulare un accordo
con Giovanni Senarega (a cui sarebbe presto succe-
duto suo fratello Matteo, futuro doge): quest’ultimo
si impegnava, nel giro di quattro anni, ad ampliare
et pulchram reddere et reformare iuxta architecturam
modellum alius capellae que est magnifici Franci Ler-
cari sita in dicta ecclesia in alio cornu altaris magni
[“ampliare e rendere bella e ristrutturare l’architet-
tura seguendo il modello dell’altra cappella che è del
magnifico Franco Lercari sita in detta chiesa nell’altro
corno dell’altare maggiore”]; mentre dal canto loro i
Padri del Comune gli alienavano la proprietà della
cappella e di altri spazi lì adiacenti in perpetuo, cum
libera facultate de dicta capella disponendi et alia fieri
ad sui libitum ut dominus et patronus dicte capelle
[“con libera facoltà di disporre di detta cappella e
di fare altre cose a proprio piacere come padrone e
patrono di detta cappella”].82 A scanso di equivoci,
una delle prime clausole dell’accordo recitava che i
novelli benefattori avessero fra l’altro il pieno diritto
di costruendi in ea monumenta, ac pingendi et erri-
gendi in et circa eam stemmata et insignia propria
[“costruire in essa monumenti, e dipingere ed erigere
dentro e intorno i propri stemmi e le proprie insegne”]
e di poter generalmente ornare l’ambiente con tutte
24
008-032FOLIN.indd 24
quelle decorazioni che servissero ad honorificam pul-
chritudinem conveniensque ornamentum prout decet
atque par est ornari illustrarique capellam positam in
ecclesia cathedrali tam insignis civitatis [“alla onorevo-
le bellezza e al decoroso ornamento come conviene, e
anche ornare e rendere ilustre la cappella posta nella
chiesa cattedrale di una così insigne cittadinanza”].83
L’onore dei Senarega si rispecchiava nel decoro della
Cattedrale, e viceversa; mentre sia l’uno che l’altro
contribuivano ad accrescere il culto divino e la solidi-
tà dello Stato.
Non meno significative sono le forti resistenze
suscitate intorno alla metà del xv secolo dal progetto
di costruire una nuova cappella per dare degno rico-
vero alle ceneri di san Giovanni Battista: la più sacra
delle reliquie cittadine, sino ad allora conservata in
un’arca sita accanto all’altar maggiore del Duomo, in
una posizione da molti giudicata del tutto inadeguata
(neque illa capella est neque semicapella, sed potius
furnus quidam aut foramen) [“non è una cappella, né
una semicappella, ma piuttosto la bocca di un forno o
una spelonca”].84 C’era chi si opponeva alla traslazio-
ne sostenendo che Dio non potesse certo approvare
lo scialo di denaro che l’opera avrebbe comportato,
e che al Suo cospetto la purezza di cuore dei fedeli
valesse ben di più che discutibili ostentazioni di lusso;
altri affermavano che la vicinanza all’altar maggiore
avrebbe potuto conferire maggior dignità alle spoglie
del Precursore; tuttavia, agli occhi di un forestiero
come l’umanista Iacopo Bracelli (per cinquant’anni
cancelliere della Repubblica, ma in realtà originario
di Sarzana) i pretesti allora addotti dai detrattori
della nuova cappella erano assolutamente speciosi e
– par di leggere fra le righe – non nascondevano altro
che meschini calcoli d’economia, tanto più incon-
sistenti se messi a paragone con gli onori tributati
alle reliquie dei propri patroni in altre città italiane
come Milano o Bologna.85 Ma nonostante il Senato
esprimesse il proprio benestare all’operazione il
problema dei costi avrebbe continuato a travagliare
a lungo i pii responsabili della cappella, se ancora
nel 1492 i deputati ai lavori di rinnovamento della
medesima potevano celebrare le proprie capacità di
multiplica[re] pecunia in un’epigrafe inscritta nella
lunetta della parete ovest della cappella (321).86
Di qui il ruolo cruciale dei donatori privati, che
raramente rinunciavano a lasciare una traccia ben
visibile delle proprie elargizioni: come quando nel
1532, per esempio, Filippo Doria pagò il baldacchino
dell’altare di san Giovanni (345) a condizione che
Guglielmo Della Porta ne decorasse i capitelli con
le aquile del suo stemma familiare (secondo un desi-
derio di apparire non così distante da quello osten-
10/12/12 17.48
 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese
tato molti secoli dopo da Luigi Frugone, munifico
finanziatore dell’altare eseguito nel 1950 da Guido
Galletti, su cui fa bella mostra di sé la scritta Aloysius
Frugone Genuensis aere suo fecit) (364).87 Del resto,
l’idea che in cambio dei loro contributi i donatori
acquisissero qualche diritto – se non proprio a impos-
sessarsi degli spazi da loro finanziati – per lo meno a
una certa forma di visibilità sancita in forme solenni
era un principio riconosciuto da tempo, a Genova: e
appunto nella cappella di San Giovanni Battista ne
abbiamo una conferma quanto mai esplicita nell’an-
tico divieto (ribadito nel 1492 da Innocenzo VIII in
una lapide attualmente murata nella cappella De
Marini) (Fig. 178) che proibiva a qualsiasi donna di
por piede all’interno della cappella del Precursore.
Qualsiasi donna, salvo quelle che appartenevano ai
lignaggi dei Campanaro o dei Da Passano: tali erano
stati i meriti singolari conseguiti dalle due famiglie
grazie alla loro generosità, che persino il Battista
giungeva a fare un’eccezione rispetto all’altrimenti
comprovata depravazione del genere femminile, di
cui già Erodiade e Salomè ai loro tempi avevano dato
saggi tanto efferati.88
Anche in questo caso un confronto con l’avversa-
ria di sempre, Venezia, non manca di far risaltare la
peculiarità delle scelte genovesi: sin dai tempi più
antichi, infatti, nella città lagunare vigeva il divie-
to di seppellire laici (ma anche religiosi, salvo casi
eccezionali) nella chiesa di San Marco, qualsiasi
fossero i meriti acquisiti dal defunto al servizio della
Repubblica. Il dato è tanto più significativo in quan-
to formalmente la basilica marciana era la cappella
ducale, e quindi per certi versi i dogi avrebbero ben
potuto vantare qualche titolo a esservi sepolti: ma le
eccezioni a tale consuetudine profondamente radica-
ta nella cultura politica cittadina si contano sulle dita
di una mano, e non oltrepassano comunque la metà
del xiv secolo.89 Non era forse San Marco il templum
civitatis, la chiesa dell’intera collettività veneziana,
simbolo dell’antica e sempre ribadita identità repub-
blicana dello Stato veneto? Era quanto bastava per
bandire non solo dalla chiesa, ma dalla stessa piazza
e dai vicini edifici, ogni forma di culto individualistico
della personalità, sia pure post mortem.
Persino un uomo carico di benemerenze (e di soldi)
come Bartolomeo Colleoni, capace di lasciare in
eredità alla Serenissima l’inaudita somma di 100.000
ducati d’oro con la clausola che gli venisse eretto un
monumento equestre a San Marco, non trovò alcun
ascolto presso i Procuratori, che non si peritarono di
appellarsi a un’interpretazione quanto mai capziosa
del suo testamento pur di veder sorgere la statua
del condottiero ben lontano dall’area marciana (di
25
008-032FOLIN.indd 25
fronte a San Marco, sì: ma si trattava della Scuola
Grande, non della chiesa, all’altro capo della città).90
Altri erano i templi dove i benemeriti della Repub-
blica solevano essere seppelliti: ossia nelle chiese dei
Mendicanti, in particolare a San Giovanni e Paolo,
dove nella seconda metà del Quattrocento il Mag-
gior Consiglio aveva decretato si dovessero tenere le
esequie solenni dei dogi e dove ne furono tumulati
non meno di diciannove; e ai Frari, dove si contano
altre sei sepolture dogali, insieme a quelle di altri
innumerevoli dignitari e condottieri.91 Sepolcri maga-
ri imponenti, in certi casi sontuosi fino alla protervia,
quasi sempre carichi di esplicite rivendicazioni di
potere: ma ciò nondimeno – o forse proprio per que-
sto – confinati a distanza di sicurezza dalla basilica
in cui si incarnava l’idea della libertà dei cittadini e
dell’indipendenza dello Stato.
Da una parte una città che fondava la sua identità
repubblicana su una netta separazione fra gli spazi
pubblici e quelli privati, in base al principio che si
dovesse evitare il più possibile ogni intersezione
materiale e simbolica fra gli uni e gli altri come perni-
ciosa per gli interessi collettivi. Dall’altra una città in
cui non si dava particolare peso a questa distinzione, e
si era invece avvezzi a lasciare ai maggiorenti l’onore
e l’onere di provvedere alla cura della chiesa metro-
politana, adibita a teatro pubblico delle loro private
esibizioni di magnificenza. In questa contrapposizio-
ne di atteggiamenti – ma anche, lo si è visto, di assetti
istituzionali, pratiche di governo, forme di autorap-
presentazione, in una parola: culture politiche – pos-
siamo forse intravedere uno dei motivi conduttori
della lunga storia che abbiamo cercato di ricostruire,
e una delle ragioni di fondo del peculiare rapporto
che legava la società genovese alla sua Cattedrale.
D’altronde, con la sua consueta lucidità Enea Silvio
Piccolomini aveva già colto perfettamente i termini
della questione nel 1432, quando scriveva che a Geno-
va i nobili vivevano in edes egregias sublimesque, di
tale pompa regalis da essere degne di principi e di re
(cuius excellentia atque decus regis sive principibus
conveniret); ma che tuttavia queste abitazioni erano
così addossate le une alle altre che le strade risultava-
no tanto anguste da non esser praticabili da più di un
paio di uomini per volta (semite quidem anguste, duo-
bus tribusve patentes hominibus).92 Secondo il futuro
papa questa peculiare discrasia fra la magnificenza
privata da una parte e la modestia degli spazi pubblici
dall’altra si rifletteva anche all’interno delle chiese:
dignitose e nulla più, in realtà indegne di una così
grande città, salvo appunto che per la sontuosità delle
sepolture nobiliari – e qui l’osservazione pare proprio
10/12/12 17.48
 Marco Folin
riferirsi al Duomo (sane templa Deo immortali dedica-
ta, quamvis decora, non tamen digna tanta urbe, vero
enimvero ditissima sepulturisque nobilium mire deco-
rata) [“abbastanza templi dedicati a Dio immortale,
sebbene decorosi, tuttavia non degni di una così gran-
de città, in verità ricchissimi e decorati mirabilmente
con i sepolcri dei nobili”].93 Come abbiamo visto, negli
anni a venire il contrasto si sarebbe fatto ancora più
tangibile, e intorno alla metà del xviii secolo Charles
de Brosses si diceva colpito dalla “povertà” dello Stato
genovese e dell’angustia delle strade cittadine, rilevan-
do l’incredibile parsimonia dei costumi locali (“questa
gente non porta abiti di lusso, non ha carrozze, né tavo-
le guarnite, né giuochi, né cavalli”).94 Com’era dunque
– si chiedeva il viaggiatore philosophe – che i nobili
genovesi spendevano tutte le “ricchezze esorbitanti”
che avevano accumulato nel corso dei secoli? Sempli-
ce: acquistavano titoli nobiliari e “fa[cevano] costruire
per sé un palazzo da un milione, e per il pubblico una
chiesa che ne vale più di tre”, a tal punto che “ognu-
na delle belle chiese di questa città, fino all’ultima, è
opera di un uomo solo, o di una sola famiglia”.
In effetti, lo stupore di fronte a questa usanza della
nobiltà genovese di legare il proprio nome a una chie-
sa, finanziandone in toto o quasi la costruzione e poi
il mantenimento, ricorre spesso nelle descrizioni dei
viaggiatori (e non a caso i templi più citati nelle loro
pagine sono Santa Maria in Carignano e la Santissi-
ma Annunziata, erette per iniziativa dei Sauli l’una,
a spese dei Lomellini l’altra).95 Tant’è che ancora in
pieno Ottocento Alphonse Karr poteva osservare
che all’ombra della Lanterna “quasi tutte le chiese
sono state costruite da una famiglia o da una perso-
na. La cosa si spiega: a Genova ci sono molti ricchi”;
ciò nonostante, in città “non si mangia e non si dà da
26
008-032FOLIN.indd 26
mangiare, non ci si veste e si va a piedi. Ci sono solo
tre strade nelle quali possono passare le carrozze,
le altre son vicoli lastricati [...]. Cosa fanno, allora, i
Genovesi, con il loro denaro? Si fanno costruire un
palazzo e una chiesa: il primo in marmo, la seconda
d’oro”.96
È alla luce di questo contesto – marcato sul lungo
periodo da una concezione ‘privatistica’ della chiesa
come luogo di culto gentilizio, e dalla corrispettiva
mancanza di quelle forme di religione cittadina altro-
ve così radicate in Italia97 – che si possono compren-
dere le apparenti contraddizioni evocate più sopra, e
le ragioni della pallida fisionomia di San Lorenzo nel
contesto dell’immagine di Genova che si era venuta
a consolidare nel corso dell’età moderna. Chiesa del
Comune in una città in cui le istituzioni comunali
erano state tradizionalmente esautorate dalla gestio-
ne effettiva del potere, la Cattedrale – proprio per il
suo carattere di tempio civico per eccellenza – non
poteva essere eletta a palcoscenico privato delle
imprese di magnificenza di una singola famiglia; e
finì così per decadere a simbolo di glorie passate,
oggetto di attenzioni intermittenti da parte di un
ceto di governo interessato più all’esaltazione mate-
riale della propria ricchezza che alla celebrazione di
astratti valori pubblici. Ma in fondo non abbiamo
qui a che fare con una traduzione straordinariamen-
te palpabile di alcune fra le più profonde pulsioni
della cultura politica genovese? Da questo punto di
vista San Lorenzo si conferma quanto mai speculum
civitatis: uno dei più eloquenti autoritratti abbozzati
dalla società genovese nel xii secolo, per essere poi
continuamente ritoccato nel corso dei secoli seguenti
sin quasi – si può dire – ai nostri giorni.
10/12/12 17.48
 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese
Note
1
 A. Ferretto, San Lorenzo nella vita civile di Genova, in La cat-
tedrale di Genova 1118-1918, Genova 1918, p. 9. Su Ferretto, cfr.
P. Benatti, Nel primo centenario della nascita: ricordo di Arturo
Ferretto (1867-1928), in “Rapallo” iii (1967), pp. 11-17.
2
  Ferretto, San Lorenzo cit., p. 10.
3
  Ibidem. Sull’ateismo della Ackermann, cfr. A. de Pontmartin,
Madame Ackermann: la poésie athée, in “Nouveaux samedis” xi
(1875), pp. 17-32.
4
  Sul ‘foscolismo’ di molte delle voci che presero parte al dibattito
sul restauro del Duomo nell’Ottocento, cfr. C. Di Fabio, San
Lorenzo, in Medioevo restaurato. Genova 1860-1940, a cura di C.
Dufour Bozzo, Genova 1984, pp. 202-206.
5
  Su questi aspetti Clario Di Fabio è tornato più volte: si veda da
ultimo Idem, La chiesa di un Comune senza “Palazzo”. Uso civico
e decorazione “politica” della Cattedrale di Genova fra xii e xiv
secolo, in Medioevo: la Chiesa e il Palazzo, a cura di A. C. Quin-
tavalle, Milano 2007, pp. 302-316; e Idem, Specchio del Comune,
immagine della Riforma Gregoriana: la Cattedrale di Genova fra
xi e xii secolo, in Il restauro dell’Altare Maggiore della Cattedrale
di San Lorenzo in Genova, a cura di C. Montagni, Genova 2008,
pp. 13-26.
6
  Ivi, p. 23.
7
  Cfr. C. Di Fabio, Bisanzio a Genova fra xii e xiv secolo. Docu-
menti e memorie d’arte, in Genova e l’Europa mediterranea. Opere,
artisti, committenti, collezionisti, a cura di P. Boccardo e C. Di
Fabio, Genova 2005, pp. 41-68, con la bibliografia ivi citata.
8
  Sul busto di Giano come parte di un articolato programma ico-
nografico volto a celebrare un “mito delle origini” di pura inven-
zione, ispirato alle opere di Iacopo da Varagine, cfr. C. Di Fabio,
La scultura bronzea a Genova nel Medioevo e il programma deco-
rativo della Cattedrale nel primo Trecento, in “Bollettino d’Arte”,
s. vi, lxxvi (1989), n. 55, pp. 30-34; sul tema Di Fabio è poi tornato
più volte: cfr. fra l’altro Pitture, oreficerie e mercato suntuario tra
Genova e la Spagna fra xii e xiv secolo, in Genova e la Spagna.
Opere, artisti, committenti, collezionisti, a cura di P. Boccardo, J.
L. Colomer, C. Di Fabio, Cinisello Balsamo 2002, pp. 16-29. Più
in generale, sul mito di Giano come fondatore di Genova, cfr. P.
Fontana, ‘Genua a Iano’. Genealogie immaginarie e storiografia
afilologica nell’antiquaria genovese al servizio della gloria cittadina
(secc. xiii-xviii), in “Nuova Rivista Storica” lxxxii (1998), n. 1,
pp. 105-126; e, per una contestualizzazione a livello italiano, C.
E. Beneš, Urban Legends. Civic Identity and the Classical Past in
Northern Italy, 1250-1350, University Park 2011.
9
 A. Giustiniani, Castigatissimi Annali con la loro copiosa tavo-
la della Eccelsa et Illustrissima Repubblica di Genova, Genova
1537, c. xlv; sul lampadario, cfr. C. Di Fabio, Le capselle eburnee
arabo-normanne di Portovenere e documenti per l’arte islamica a
Genova nel Medioevo, in Le vie del Mediterraneo. Idee, uomini,
oggetti (secoli vi-xvi), atti del convegno, Genova 1994, a cura di
G. Airaldi, Genova 1997, pp. 31-46.
10
  G. B. Graziani, Vittoria dei Genovesi sopra l’Imperatore Fede-
rico II. Il carme di Ursone da Sestri notaio del secolo xiii, Genova
1857, p. 55.
11
  Autorem urbis et nominis Ianum ferunt, primum ut quibusdam
placet Italie regem. Quod an ita sit, an ipse situs urbi nomen dede-
rit, quod nostri orbis quasi ‘ianua’ quedam esse videatur, incertum
27
008-032FOLIN.indd 27
habeo. Prima ibi celebrior opinio est et in chronicis eorum scripta et
publicis insculpta monumentis [“Tramandano che fondatore della
città e autore del nome fu Giano, primo re d’Italia, come pare ad
alcuni. Se sia così, se egli stesso abbia dato alla città il nome del
luogo, che del nostro mondo sembra essere quasi ‘porta’, lo riten-
go incerto. È qui opinione corrente e scritta nelle loro cronache
e scolpita nei pubblici monumenti”] (F. Petrarca, Itinerario al
sepolcro del Signore nostro Gesù Cristo, Genova 2006, pp. 28-30);
su Petrarca come osservatore attento delle città del suo tempo, cfr.
ora C. Tosco, Petrarca: paesaggi, città, architetture, Macerata 2011.
12
 Sulla Croce “degli Zaccaria”, cfr. da ultimo V. Polonio,
A Genova tra xiv e xv secolo: icone e reliquie d’oltremare, in
Mandylion. Intorno al Sacro Volto: Genova, Bisanzio e il Medi-
terraneo (secoli xi-xiv), a cura di A. R. Calderoni Masetti, C.
Dufour Bozzo, G. Wolf, Venezia 2007, pp. 123-135, e la biblio-
grafia ivi citata (cfr. 677).
13
  Sul Tesoro della cattedrale la bibliografia è molto ricca: si veda
il saggio di Gianluca Ameri in questo stesso volume con i riferi-
menti ivi citati.
14
  Sull’importanza politica dei cerimoniali civici genovesi nel corso
dell’età moderna, cfr. E. Grendi, Le conventicole nobiliari e la
Riforma del 1528, in Idem, La Repubblica aristocratica dei geno-
vesi, Bologna 1987, pp. 105-138; e Idem, La società dei giovani a
Genova fra il 1460 e la riforma del 1528, in “Quaderni Storici” 80,
1992, pp. 509-528.
15
 V. Tigrino, Sguardi e riguardi. Genova e il tesoro della sua cat-
tedrale dal Cinquecento all’attuale allestimento museale, in Aspetti
del patrimonio culturale ligure, a cura di E. Grendi, D. Moreno,
O. Raggio, A. Torre, Genova 1997, pp. 43-47.
16
 C. Altavista, Dalla città alla cattedrale e ritorno: il tesoro del
Duomo di San Lorenzo e Genova dall’xi al xvi secolo, in I luoghi
del sacro. Il sacro e la città fra Medioevo ed Età moderna, a cura
di F. Ricciardelli, Firenze 2008, pp. 91-110. Sui privilegi legati ai
ruoli occupati nei cortei religiosi, cfr. anche Grendi, La società dei
giovani cit., pp. 515-516.
17
  Sulla questione, in generale, rimangono fondamentali Medioe-
vo restaurato cit. (in particolare i saggi di C. Di Fabio, San Loren-
zo, pp. 193-248; e M. F. Giubilei, Restauri e demolizioni a Genova
nell’ottica dei pubblici amministratori, dei giornalisti, dei cittadini,
pp. 405-426); e Medioevo demolito. Genova 1860-1940, a cura di C.
Dufour Bozzo e M. Marcenaro, Genova 1990.
18
  Così in un articolo anonimo pubblicato nel “Cittadino”, 3 aprile
1883 (Di Fabio, San Lorenzo cit., p. 205).
19
  Di Fabio, San Lorenzo cit., pp. 204-206; sui restauri di San
Lorenzo, cfr. anche M. Marcenaro, Recupero e ripristino della
Cattedrale medievale: restauri fra Otto e Novecento, in C. Di Fabio,
La Cattedrale di Genova nel Medioevo (secoli vi-xiv), Genova
1998, pp. 332-355; e il saggio di Giorgio Rossini più oltre in questo
stesso volume.
20
  M. F. Giubilei, Restauri e demolizioni cit., pp. 411-413.
21
  Sul Padiglione Ligure di Venceslao Borzani, cfr. S. Rossi, La
fiera delle Regioni. I padiglioni della mostra regionale all’esposizio-
ne internazionale di Roma del 1911, Tesi di laurea sostenuta presso
la Facoltà di Architettura di Genova (rel. M. Folin), a.a. 2007-
2008, pp. 297-330. Più in generale, sull’Esposizione Universale del
1911, cfr. ancora Roma 1911, a cura di G. Piantoni, Roma 1980.
22
 Cfr. Di Fabio, San Lorenzo cit., p. 246.
10/12/12 17.48
 Marco Folin
23
 Per un quadro dei principali resoconti di viaggio dedicati a
Genova fra il tardo Medioevo e l’età romantica, cfr. C. Bo, Echi di
Genova negli scritti di autori stranieri, Torino 1966; G. Marcena-
ro, Viaggio in Ligura, Genova 1973; G. Petti Balbi, Genova vista
dai contemporanei, Genova 1978; Genova dei grandi viaggiatori, a
cura di F. Paloscia, Roma 1990.
24
 “Si je commence le détail de la ville de Gênes par Saint-
Laurent, cathédrale, c’est à cause de son titre, et non à cause de
sa personne, qui n’est pas grand’chose, quoique bâtie en entier
de marbre blanc et noir, tant en dedans qu’en dehors. Je n’y ai
rien vu qui me plût que les sièges des chanoines faits de bois de
marqueterie, sans être colorés, et représentant de jolis tableaux;
une balustrade de marbre en filigrane à la chapelle Saint-Jean. La
peinture à fresque du dôme et les autres ne valent guère, sauf une
Nativité du Baroccio, dans la chapelle à gauche du choeur” (C. de
Brosses, Lettres familières écrites d’Italie à quelques amis en 1739
et 1740, Parigi 1858, p. 45).
25
  Stendhal, Mémoires d’un touriste, Parigi 1854, ii, p. 318 (“Sur
le soir je suis entré dans la cathédrale en pierres blanches et noires
se succédant par bandes; cela est plus bizarre qu’agréable”).
26
 P. Valéry, Lettera a Gustave Fourment del 28 agosto 1887 (in
P. Valéry, G. Fourment, Correspondance: 1887-1993, a cura di
O. Nadal, Parigi 1957), cit. in Bo, Echi di Genova cit., p. 166: “a
proposito di cattedrali ti dirò la mia opinione sul clero di questa
città. Credo che valga ancora meno del nostro. È molto forte
in latino ma barbaro in fatto di gusto. Guasta le chiese con la
mania degli orpelli e delle dorature; l’organo che da noi fa un così
bell’effetto è sostituito da un’orchestra che suona pezzi d’opera”.
In questo caso Valéry non faceva che ripetere i giudizi tranchants
che già Charles de Brosses aveva proclamato un secolo addietro, e
proprio in occasione del suo soggiorno genovese (“je suis toujours
dans la surprise de voir comment les Italiens, après avoir imaginé
et exécuté une ordonnance noble et magnifique, la gâtent en la
surchargeant de méchants petits pompons. Leur bon goût pour les
grandes choses n’est comparable qu’à leur méchant goût pour les
petites”: de Brosses, Lettres familières cit., i, p. 46).
27
 C. Dickens, Pictures from Italy, Londra 1846, cap. iv (“the
whole building was dressed in red; and the sinking sun, streaming
in, through a great red curtain in the chief doorway, made all the
gorgeousness its own. When the sun went down, and it gradual-
ly grew quite dark inside, except for a few twinkling tapers on
the principal altar, and some small dangling silver lamps, it was
very mysterious and effective. But, sitting in any of the churches
towards evening, is like a mild dose of opium”).
28
 M. Twain, Innocents Abroad or The New Pilgrim Progress,
Hartford 1869, p. 140.
29
  Il dato mi è stato segnalato da Solange Rossi, che ringrazio per
l’indicazione.
30
  La pubblicistica uscita in occasione dell’Esposizione Universale
del 1911 è stata recentemente raccolta in occasione di una mostra
sulle celebrazioni del Cinquantenario dell’Unità d’Italia allestita
nel Centro espositivo-informativo sul 150° Anniversario dell’Unità
d’Italia, presso il Vittoriano.
31
  Genova, in Le Cento Città d’Italia (supplemento mensile del
“Secolo”, 25 luglio 1887), p. 7.
32
  Sulla carrettiera Carlo Alberto, cfr. M. Bartoletti, Carrettabi-
le Carlo Alberto, in Medioevo demolito cit., pp. 209-218.
33
  Nella sua Guida artistica anche Alizeri parlava di una “comoda
28
008-032FOLIN.indd 28
via [...] per cui le merci straniere potessero senza troppe fatiche
essere depositate all’emporio” (F. Alizeri, Guida artistica per
la città di Genova, ii.1, Genova 1847, p. 233; corsivo mio). Già ai
primi del secolo valutazioni sostanzialmente analoghe emergeva-
no nella Descrizione anonima di Genova del 1818: cfr. Descrizione
della città di Genova da un anonimo del 1818, a cura di E. Poleggi
e F. Poleggi, Genova 1969, pp. 191-194.
34
  Alizeri, Guida artistica cit., ii.1, pp. 235-236 (corsivo mio).
35
  Ivi, p. 265.
36
  In proposito, cfr. ancora E. De Negri, Ottocento e rinnovamen-
to urbano. Carlo Barabino, Genova 1977, pp. 95-111; e più recen-
temente I. Forno, Tra centro e periferia: l’apertura di strada Carlo
Felice a Genova e il ruolo del Consiglio d’Ornato, in La cultura
architettonica nell’età della restaurazione, a cura di G. Ricci e G.
D’Amia, Milano 2002, pp. 499-512.
37
  Su questi temi rimangono imprescindibili gli studi di Poleggi: si
veda fra l’altro E. Poleggi, Iconografia di Genova e delle Riviere,
Genova 1977; L. Grossi Bianchi, E. Poleggi, Una città portuale
nel medioevo: Genova nei secoli x-xvi, Genova 1979; E. Poleggi,
P. Cevini, Genova, Roma-Bari 1981.
38
  Cfr. M. Haines, La grande impresa civica di Santa Maria del
Fiore, in “Nuova Rivista Storica” lxxxvi, 2002, pp. 19-48. Per il
ruolo economico del cantiere dell’Opera del Duomo di Milano in
età moderna, cfr. M. Barbot, L. Mocarelli, L’ombra lunga della
cattedrale. L’impatto del cantiere del duomo di Milano sullo spazio
urbano (secoli xvi-xviii), in I grandi cantieri del rinnovamento
urbano. Esperienze italiane ed europee a confronto (secoli xiv-xvi),
a cura di P. Boucheron e M. Folin, Roma 2011, pp. 255-272; e
M. Barbot, Le architetture della vita quotidiana. Pratiche abitative
e scambi immobiliari nella Milano d’età moderna, Venezia 2008,
pp. 59-80.
39
  Anche in questo caso riferimento d’obbligo sono gli studi di
Poleggi citati supra, nota 37.
40
  Si veda per esempio il classico R. S. Lopez, Venise et Gênes:
deux styles, une réussite, in “Diogène” lxxi (1970), pp. 43-51 (poi
anche in Idem, Su e giù per la storia di Genova, Genova 1975, pp.
35-42).
41
  Per Genova, in particolare, cfr. Polonio, La cura della cat-
tedrale cit., pp. 119-120; per Pisa M. Ronzani, Da aula cultuale
del Vescovato a Ecclesia Maior della città: note sulla fisionomia
istituzionale e la rilevanza pubblica del Duomo di Pisa, in Amalfi,
Genova, Pisa, Venezia. La Cattedrale e la città nel Medioevo:
aspetti religiosi, istituzionali e urbanistici, a cura di O. Banti, Pisa
1993, pp. 77-78.
42
 G. Sangermano, L’esempio di Amalfi medievale, ivi, pp. 15-58.
43
  Ronzani, Da aula cultuale del Vescovato cit., pp. 71-102; e
Idem, Dall’edificatio ecclesiae all’“Opera di S. Maria”: nascita
e primi sviluppi di un’istituzione nella Pisa dei secoli xi e xii, in
Opera. Carattere e ruolo delle fabbriche cittadine fino all’inizio
dell’Età Moderna, a cura di M. Haines e L. Riccetti, Firenze
1996, pp. 1-70.
44
 D. Rando, Nel nome del patrono, al servizio della comunità.
L’Opus e i Procuratori di S. Marco di Venezia nei secoli xii-xiv,
ivi, pp. 71-116.
45
  In proposito, cfr. R. C. Mueller, The Procurators of San Marco
in the Thirteenth and Fourteenth Centuries. A Study of the Office as
10/12/12 17.48
 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese
a Financial and Trust Institution, in “Studi Veneziani” xiii (1981),
pp. 105-220; e A. Viggiano, I Procuratori di S. Marco, in Le Pro-
curatie Vecchie in piazza San Marco, Roma 1994, pp. 13-50.
46
  Sull’insula Sancti Marci nel Medioevo, cfr. E. Crouzet-Pavan,
Sopra le acque salse. Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du
Moyen Âge, Roma 1992, pp. 877-954; sulle operazioni di renovatio
promosse da Andrea Gritti, cfr. Renovatio urbis: Venezia nell’età
di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di M. Tafuri, Milano 1988; e
M. Morresi, Piazza San Marco. Istituzioni, poteri e architettura a
Venezia nel primo Cinquecento, Milano 1999.
47
  Iacopo da Varagine e la sua Cronaca di Genova, a cura di G.
Monleone, Roma 1941, ii, p. 320.
48
  Cfr. V. Polonio Felloni, Da ‘opere’ a pubblica magistratura.
La cura della cattedrale e del porto nella Genova medievale, in
Opera cit., pp. 123-127; e più in generale Eadem, La cattedrale e la
città nel Medioevo a Genova. Aspetti storico-urbanistici, in Amalfi,
Genova, Pisa, Venezia cit., pp. 59-70.
49
  Sulla reparatio ecclesiae dei primi del Trecento e sui relativi
responsabili, cfr. Eadem, Da ‘opere’ a pubblica magistratura cit.,
p. 130; e Di Fabio, L’incendio del 1296 e la “reparatio ecclesie” fra
1297 e 1317, in Idem, La Cattedrale di Genova nel Medioevo cit.,
pp. 223-231. La pratica a cui si fa riferimento nel testo si sarebbe
perpetrata nei secoli a venire: per un esempio fra i tanti, si veda
la targa apposta nel 1526 sulla colonna del pulpito di Pierangelo
Scala (544).
50
  Sui Padri del Comune, cfr. V. Polonio, L’amministrazione
della res publica genovese fra Tre e Quattrocento. L’archivio Anti-
co Comune, in “Atti della Società ligure di storia patria”, n.s, xvii,
1977, pp. 40-43; e A. Boscassi Il Magistrato dei Padri del Comu-
ne. Conservatori del Porto e dei Moli (1291-1797), Genova 1912.
Quanto alla gabella del deceno (nel 1478 sostituita da un patrimo-
nio di 120 luoghi delle compere di San Giorgio), cfr. Eadem, Da
‘opere’ a pubblica magistratura cit., pp. 127-134.
51
  Ivi, pp. 134-135.
52
  E. Poleggi, Strada Nuova. Una lottizzazione del Cinquecento a
Genova, Genova 1968, pp. 462-463.
53
  Cervetto, Il duomo di San Lorenzo nel suo svolgimento artisti-
co, in La cattedrale di Genova 1118-1918 cit., p. 62.
54
  M. Labò, Galeazzo Alessi e il Duomo di Genova, in Idem,
I Palazzi di Genova di P. P. Rubens e altri scritti d’architettura,
Genova 2003 (1948), pp. 282-283.
55
  Il documento riportato da Labò è datato 20 dicembre 1550:
Gerolamo Sauli – fra i deputati sopra il cantiere del Carignano –
era stato consacrato arcivescovo di Genova da soli due mesi.
56
  I termini citati nel testo si trovano in G. Bozzo, Il campanile
destro, la cupola dell’Alessi, l’abside esterna e i transetti, in Catte-
drale e chiostro di San Lorenzo a Genova. Conoscenza e restauro,
a cura di Idem, Genova 2000, pp. 104-105. Si veda anche E. De
Negri, Galeazzo Alessi architetto a Genova, Genova 1957 (“Qua-
derni dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Genova”
1), pp. 76-78. Ma si veda qui il saggio di Collareta e Giometti.
57
  Su questi aspetti, cfr. ancora E. Poleggi, La condizione socia-
le dell’architetto e i grandi committenti dell’epoca alessiana, in
Galeazzo Alessi e l’architettura del Cinquecento, Genova 1975,
pp. 359-369; e Idem, Il rinnovamento edilizio genovese e i magistri
Antelami nel secolo xv, in “Arte lombarda” xi, 1966, pp. 53-68.
29
008-032FOLIN.indd 29
58
  Per un inquadramento generale dell’assetto urbano del ‘quar-
tiere’ di San Lorenzo, cfr. Grossi Bianchi, Poleggi, Una città
portuale cit.; e Poleggi, Cevini, Genova cit.
59
  M. Marcenaro, Alcuni edifici del potere civile e religioso a
Genova: secoli xii-xiii, in “Ligures” i, 2003, pp. 167-169.
60
  Ivi, p. 162.
61
  In proposito, si veda ora San Marco, Byzantium and the Myths
of Venice, a cura di H. Maguire e R. S. Nelson, Washington 2010.
62
  Due secoli dopo lo ricordava anche Giannozzo Manetti, notan-
do che le catene erano state affisse in celebrioribus urbis sue locis,
in modo che quicunque vel ex mari vel ex terra urbem ingrederentur
inviti etiam conspicerent (G. Manetti, Elogi dei genovesi, a cura di
G. Petti Balbi, Milano 1974, p. 110).
63
  Müller, Genova vittoriosa cit., pp. 96-105; e più in generale
B. Bernabò, R. Cavalli, S. Matteo in Genova, chiesa gentilizia
e “monumento” celebrativo della famiglia Doria, in Verso Genova
medievale, Genova 1989, pp. 25-40.
64
  Cfr. Grossi Bianchi, Poleggi, Una città portuale cit., pp. 232-
233 e 288-291; più recentemente Marcenaro, Alcuni edifici cit.,
pp. 177-178.
65
  Cervetto, Il duomo di San Lorenzo, cit., p. 130. Il risanamento
del 1499 è attestato da una lapide tuttora ben visibile sulla torre
settentrionale (215).
66
  Cfr. R. Mantelli, M. Ravera, Il chiostro nei documenti, in
Cattedrale e chiostro di San Lorenzo cit., pp. 213-214; la citazione
riportata nel testo è tratta da L. M. Levati, I dogi di Genova e vita
genovese dal 1721 al 1746: feste e costumi genovesi nel secolo xviii,
Genova 1913, p. 198.
67
  Sull’immagine di Genova nell’iconografia di Antico Regime,
cfr. soprattutto E. Poleggi, Iconografia di Genova e delle riviere,
Genova 1976; e Idem, Città vecchia e città, il tesoro della memoria
figurata, in Atlante di Genova. La forma della città in scala 1:2000
nell’ortofotopiano e nella carta numerica, Venezia 1995, pp. 10-18
(in cui fra l’altro si trova un’attenta disamina della veduta di Wyn-
gaerde, da cui è tratta la citazione riportata nel testo); per un’ana-
lisi specifica della figura del Duomo nella tradizione iconografica
genovese, cfr. R. Besta, L’immagine della Cattedrale fra Tre e
Novecento, in Di Fabio, La Cattedrale di Genova cit., pp. 315-331.
In particolare, per le vedute del Codice Cocharelli, cfr. F. Fabbi,
Il Codice “Cocharelli”: osservazioni e ipotesi per un manoscritto
genovese del xiv secolo, in Tessuti, oreficerie, miniature in Liguria:
xiii-xv secolo, a cura di A. R. Calderoni Masetti, C. Di Fabio,
M. Marcenaro, Bordighera 1999, pp. 35-320; e Marcenaro,
Alcuni edifici cit., pp. 172-175.
68
  Cfr. Poleggi, Cevini, Genova cit., pp. 5-13.
69
  Poleggi, Iconografia di Genova cit., pp. 25-26; Besta, L’imma-
gine della Cattedrale cit., p. 319.
70
  D. Bonatti, Souvenirs de Gênes, Genova 1829 (su cui cfr.
Poleggi, Iconografia di Genova cit,. p. 49; e Besta, L’immagine
della Cattedrale cit., pp. 323-324); quanto all’opera di Antonio
Giolfi, cfr. E. Poleggi, Genova nel Settecento e le vedute di Anto-
nio Giolfi, Milano 1986.
71
  Genua sive Ianua Lygurum caput (Francoforte, 1625), su cui
cfr. Poleggi, Iconografia di Genova cit., p. 44. In questo solco,
significativa anche la veduta di A. Baratta, La famosissima e
10/12/12 17.48
 Marco Folin
nobilissima città di Genova con le sue nuove fortificazioni (1637),
che distorce sensibilmente l’assetto degli isolati centrali pur di
enfatizzare la rilevanza di un San Lorenzo di fantasia (ivi, pp.
76-79; Besta, L’immagine della Cattedrale cit., p. 320).
72
  Ivi, pp. 324-325.
73
  Per il sepolcro di Luca Fieschi, cfr. C. Di Fabio, Il monumento
funerario del cardinale Luca Fieschi, in Idem, La Cattedrale di
Genova cit., pp. 304-309; e Idem, Cantieri, scultori ed episodi di
committenza nel Trecento. Scultura, pittura e celebrazione civica
nella cattedrale di Genova, 1307-1312, in Niveo de marmore. L’uso
artistico del marmo di Carrara dall’xi al xv secolo, a cura di E.
Castelnuovo, Genova 1992, pp. 232-233, e i saggi e le schede di
questo volume.
74
  Di Fabio, Il monumento funerario di Leonardo Montaldo e le
sepolture dogali nel xiv secolo, in Idem, La Cattedrale di Genova
cit., pp. 310-311; Idem, Documenti per un’iconografia dogale, trac-
ce di un’identità negata, in Niveo de marmore cit., pp. 236-239, e la
scheda (735) in questo volume.
75
  Cfr. G. Banchero, Il duomo di Genova illustrato e descritto,
Genova 1855, p. 154.
76
  Descrizione della città di Genova da un anonimo del 1818 cit.,
p. 205.
77
  Cfr. G. Bozzo, L’altare degli Apostoli, già tomba Cibo. Ipo-
tesi interpretative e iconografiche, in Cattedrale e chiostro di San
Lorenzo cit., pp. 108-119; quanto alla cappella dei Fieschi, cfr. F.
Alizeri, Notizie dei professori del disegno in Liguria dalle origini
al secolo xvi, iv, Scultura, Genova 1876, pp. 153-159.
78
  Cfr. L. Magnani, Cappella Lercari. Committenza e apparato
decorativo, in Cattedrale e chiostro di San Lorenzo cit., pp. 120-
137; e G. Sommariva, La cappella Senarega, ivi, pp. 178-183.
79
  Di Fabio, San Lorenzo cit., pp. 214-219; gli altari così smontati
furono venduti alla chiesa di Sant’Antonio Abate di Alpicella a
Varazze: cfr. R. Scunza, Gli altari cinque-seicenteschi. Resoconto
di una dispersione, in Cattedrale e chiostro di San Lorenzo cit., pp.
192-196.
80
  Per il periodo tardomedievale, cfr. I. Herklotz, “Sepulcra”
e “monumenta” del Medioevo, Roma 1985; e J. Gardner, The
Family Chapel: Artistic Patronage and Architectural Transfor-
mation in Italy circa 1275-1325, in Art, cérémonial et liturgie au
Moyen Âge, a cura di N. Bock et alii, Roma 2002, pp. 545-564.
Per i secoli successivi, rimane stimolante – per quanto focalizzato
sull’ambiente rurale – A. Torre, Il consumo di devozioni. Reli-
gione e comunità nelle campagne dell’Ancien Régime, Venezia
1995. Con riferimento allo specifico genovese, si veda anche G.
Doria, Investimenti della nobiltà genovese nell’edilizia di prestigio,
in Idem, Nobiltà e investimenti a Genova in età moderna, Genova
1995, pp. 250-251.
81
  Cfr. Sommariva, La cappella Senarega cit., pp. 178-179.
82
  M. Bury, The Senarega Chapel in San Lorenzo, Genoa. New
Document about Barocci and Francavilla, in “Mitteilungen des
Kunsthistorischen Institutes in Florenz” xxxi (1987), nn. 2-3, pp.
329 e 353-354.
83
  Ibidem (il corsivo è mio).
84
  Cfr. Alizeri, Notizie dei professori del disegno cit., p. 116. Più
in generale, sulla cappella del Battista, cfr. H.-W. Kruft, La Cap-
30
008-032FOLIN.indd 30
pella di San Giovanni Battista nel duomo di Genova, in “Antichità
viva” ix, 1970, n. 4, pp. 3-50; Idem, La decorazione interna della
Cappella di San Giovanni Battista nel duomo di Genova, ivi, x,
1971, pp. 20-27; G. Bozzo, La cappella di San Giovanni Battista.
Il significato civile di un’opera religiosa in un intervento di Jacopo
Bracelli, in Cattedrale e chiostro di San Lorenzo cit., pp. 60-82 e i
saggi e le schede di questo volume.
85
  Il discorso di Iacopo Bracelli è riportato in Alizeri, Notizie dei
professori del disegno cit., pp. 116-119; sulla figura del cancelliere
umanista, cfr. C. Grayson, Bracelli, Iacopo, in Dizionario Biogra-
fico degli Italiani, Roma 1971, xiii, pp. 652-653.
86
  Divo · Io Bap precvrsori · Franciscvs Lomelinvs et
Antonivs Savli priores et consilivum mvltiplicata pecvnia
excolvere 1496 [“Per il divino Giovanni Battista il Precursore
Francesco Lomellino e Antonio Sauli priori e il Consiglio, raccolto
molto più denaro, abbellirono nel 1496”].
87
  Sulle opere di Guglielmo Della Porta per la cappella di San
Giovanni Battista, cfr. Bozzo, La cappella di San Giovanni Batti-
sta cit., p. 77 e i saggi e le schede in questo volume.
88
  Sul divieto e le relative clausole, cfr. Alizeri, Guida artistica
cit., i, pp. 55-56; e L. Traverso, Il culto di san Giovanni Battista
in San Lorenzo, in La cattedrale di Genova 1118-1918 cit., p. 143.
Spesso se ne trova menzione anche nei resoconti dei viaggiatori:
cfr. per esempio A. Ceruti, Viaggio di Francesco Grassetto da
Lonigo lungo le coste greco-dalmate e italiche nell’anno mdxi e
seguenti, Venezia 1886, pp. 59-60 (riportato anche in Petti Balbi,
Genova medievale cit., p. 158); e Twain, Innocents Abroad cit., p.
140 (“the main point of interest about the cathedral is the little
Chapel of St. John the Baptist. They only allow women to enter it
on one day in the year, on account of the animosity they still che-
rish against the sex because of the murder of the Saint to gratify a
caprice of Herodias”).
89
  Anche le poche eccezioni alla regola, per altro, non si trovano
all’interno della chiesa vera e propria, ma nell’endonartece (così
Domenico Selvo nel 1084, Vitale Falier nel 1085 e Vitale Michiel
nel 1102), oppure nella cappella del Battistero (così Giovanni
Soranzo nel 1328, Andrea Dandolo nel 1354 e il cardinal nipote
Giovanni Battista Zen ai primi del Cinquecento).
90
  Cfr. M. Mallett, Colleoni, Bartolomeo, in Dizionario Biogra-
fico degli Italiani, Roma 1982, xxvii, pp. 18-19.
91
  A. Pertusi, Quedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del
potere ducale a Venezia durante il Medioevo, in “Studi Veneziani”
vii, 1965, pp. 3-123. Per una rassegna dei luoghi di sepoltura dei
dogi di Venezia, cfr. I dogi, a cura di G. Benzoni, Milano 1982.
92
  E. S. Piccolomini, Lettera ad Andreuccio Petrucci del 24 marzo
1432, in R. Wolkan, Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolo-
mini, in “Fontes rerum austriacarum” lxi, 1909, pp. 7-10 (riportata
anche in Petti Balbi, Genova medievale cit., pp. 112-119).
93
  Ibidem.
94
  “Vous voyez que la dépense de ces gens-là, qui n’ont ni habits,
ni équipages, ni table, ni jeu, ni chevaux, n’est pas considérable;
cependant il sont d’une richesse excessive. Fort communément on
trouve ici des gens avec une fortune de 400,000 livres de rente qui
n’en mangent pas 30,000. Du reste de leurs revenus ils achètent
des principautés en Espagne et dans le royaume de Naples, ou
font construire pour eux un palais d’un million et pour le public
une église de plus de trois. Toutes les belles églises de cette ville
sont, chacune, l’ouvrage d’un seul homme ou d’une seule famille.
10/12/12 17.48
 La Cattedrale di San Lorenzo: autoritratto in pietra della società genovese
Au, surplus, l’état est fort pauvre” (de Brosses, Lettres familières
cit., i, pp. 39-40).
95
 Si vedano per esempio le osservazioni di Stendhal e Mark
Twain riportate in Bo, Echi di Genova cit., pp. 61 e 140.
96
 A. Karr, Promenades hors de mon jardin, Parigi 1862, pp. 131-
132 (“je ne sais pas s’il y a à Gênes une seule église qui n’ait été
construite ainsi aux frais d’un particulier ou d’une famille. Cela
s’explique: il y a à Gênes beaucoup de richesse; on n’y mange pas, et
surtout on n’y fait pas manger; on ne s’y habille pas, et on n’y a pas
31
008-032FOLIN.indd 31
d’équipages. Il n’y a que trois rues par lesquelles les voitures puis-
sent passer [...]. Que faire de cet argent qu’ont les Génois? Ils se font
bâtir un palais et une église; un palais en marbre, une église en or”).
97
  Cfr. G. Petti Balbi, Governare la città. Pratiche sociali e lin-
guaggi politici a Genova in età medievale, Firenze 2007, p. 21; più
in generale, sulle chiese gentilizie genovesi, cfr. M. Moresco, Le
parrocchie gentilizie genovesi, in Scritti di Mattia Moresco, Milano
1951, pp. 1-28; e più recentemente L. M. De Bernardis, La par-
rocchia gentilizia di Genova, in La storia dei Genovesi, ii, Genova
1982, pp. 199-217.
10/12/12 17.48
008-032FOLIN.indd 32 10/12/12 17.48