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Nulla dies sine linea Silvano Danesi

Il 18° Grado “Principe di Rosa Croce”


e il valore della drammatizzazione rituale

Al Sovrano Gran Commendatore,


Venerabilissimo e Potentissimo
Fratello Luigi Bastiani

Ai Venerabilissimi e Potentissimi
Fratelli e Sorelle
del Supremo Consiglio.

Nel ringraziare l’opera meritoria del nostro Ven:.mo e Pot:.mo Gran Segretario, il Fratello
Alessandro Cocchi, che lavora incessantemente alla riedizione riveduta e corretta, anzi:
restaurata dei Rituali, mi corre l’obbligo di alcune annotazioni che desidero condividere con
Voi, Venerabilissimi e Potentissimi Sovrani Grandi Ispettori Generali del Supremo
Consiglio.

Il 18° Grado del Rito Scozzese, dal titolo distintivo di: “Principe di Rosa Croce”, per la sua
complessità rituale offre la possibilità di addentrarci in uno degli aspetti, a mio parere più
significativi, della ritualità iniziatica: la drammatizzazione del rito.

La ritualità e la liturgia

Prima di entrare nel vivo dell’argomento, ritengo necessaria una precisazione.


Rito, dal latino ritus, è vocabolo che deriva da una radice indoeuropea *are-, la stessa della
voce greca arithmós (numero), in sanscrito ritis e *ri- scorrere. Il rito si collega
semanticamente al ritmo, rhyitmós e introduce una ripetizione che induce alla non linearità
e, conseguentemente, alla circolarità, al cerchio, allo zero, l'eternamente immobile che è
perennemente in movimento. Poiché il cerchio in sanscrito è sakra, il rito si collega al sacro.
Il rito, se così inteso, attiva, pertanto, la circolarità in uno spazio, connotato da un
orientamento e da una scansione temporale che non è la scansione temporale lineare.
Da qui la necessaria distinzione del rito dalla liturgia (greco leiturgía = servizio pubblico da
léiton = popolare e érgon = lavoro), che si occupa di allestimenti e aspetti cerimoniali.

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Il teatro dell’antichità è il luogo del mito.

"I riti di una civiltà – scrive Campbell - riproducono i miti a essa sottostanti. Si potrebbe
definire, come ho fatto, il rituale come la possibilità di partecipare direttamente al mito. Il
rito mette in atto una situazione mitica; partecipando al rito, si partecipa direttamente al
mito". 1 E aggiunge: "Ciò che il mito fa per noi è mostrare il trascendente oltre il campo
fenomenico". 2
Ognuno di noi, secondo Campbell, ha "un proprio mito individuale, che lo sappia oppure
no" 3 e in effetti "l'individuo deve imparare a vivere secondo il proprio mito". 4
"L'intera concezione degli archetipi della psiche umana – sostiene il grande antropologo –
si basa sulla nozione che nel cervello umano, nel sistema nervoso simpatico, ci siano
strutture che creano la predisposizione a rispondere a certi segnali. Sono strutture condivise
da tutta l'umanità, con variazioni individuali, ma essenzialmente allineate".5 Tuttavia,
ognuno di noi ha "i propri favoriti; ognuno è pronto a un'esperienza diversa rispetto a
chiunque altro. I simboli, per cui siamo già pronti, evocano in noi la risposta".6

"Un rituale – afferma Campbell - non è altro che la manifestazione o la rappresentazione


drammatica, visiva e attiva di un mito. Partecipando a un rito, ci impegniamo in un mito e il
mito opera su di noi, posto naturalmente che siamo catturati dall'immagine". 7

Quattro, secondo Campbell, le funzioni del mito:


• La prima riguarda la ricerca di un ordine e di un senso, che renda cosciente un certo
significato dell'esistenza. La mente va sempre in cerca di un ordine e di un
significato.
• La seconda (funzione cosmologica) riguarda la presentazione di un'immagine del
cosmo e dell'universo circostante.
• La terza riguarda la convalida e il sostegno ad un sistema sociale.
• La quarta è psicologica.

La prima funzione, teleologica, appartiene più propriamente all'ordine di indagine filosofica


e religiosa. La seconda trova risposta in un orizzonte scientifico che ormai si discosta
necessariamente dal positivismo e che lambisce tangenzialmente l'orizzonte metafisico. La
quarta, quella psicologica ci induce a sperimentare ciò che attiene alla psiche.
L’itinerario iniziatico massonico, che è anzitutto conoscenza di sé, conoscenza del Tempio
dell'Uomo, sembrerebbe comprendere la prima, la seconda e la quarta funzione del mito.

Mito e rito, pertanto, sono gli strumenti, con il corredo archetipico e simbolico, per una
conoscenza di sé che è, conseguentemente conoscenza del divino e del mondo.

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La cornice biblica è un velame storico contingente

Gran parte della ritualità massonica ha come riferimenti schemi narrativi e mitologici medio
orientali e in particolare biblici, che nascondono, sotto un velame giudaico cristiano, radici
molto più profonde e antiche.
Le radici libero muratorie, infatti, sono antiche e i «Muratori» non furono soltanto degli
«esecutori» della volontà altrui (Bonvicini)8 "Essi – scrive Bonvicini – furono partecipi di
una ricerca allegorico-simbolica di contenuto teologico che valicava gli angusti confini
exoterici e che si richiamava a Tradizioni extra-cristiane che nell'età Umanistica erano intese
come «anticipatrici» di un Cristianesimo interiorizzato che era in auge in quel tempo fra le
persone di maggiore cultura". 9
"Riteniamo – scrive ancora Bonvicini – che quei lontani maestri siano stati, da uomini
eclettici, dotati di una vasta cultura in quelle che erano le Arti liberali del tempo, degli
uomini aperti alla «riscoperta» e alla «rivisitazione» dei tesori culturali del passato, non
soltanto nelle «tecniche» dell'«Arte classica»". 10

La cornice biblica e il riferimento costante alla lingua ebraica è, infatti, un dato storico, un
modo di espressione dettato dalla contingenza.

Qui ci aiutano Arturo Righini e Umberto Gabriel Porciatti.

"Come è noto – scrive Righini – l'iniziazione Massonica conserva le caratteristiche della


cerimonia sacrale propria delle antiche iniziazioni, e con essa si conferisce, nel nome del
G.A.D.U., la facoltà di pervenire alla Conoscenza. Trattandosi di cerimonia sacra è naturale
che le parole Sacre e di Passo, e non soltanto esse, ma anche gli elementi costituenti la
liturgia del Rito, siano state tolte dall'ebraico poiché nell'epoca in cui la Massoneria prese
l'attuale forma «l'ebraico era considerato una scrittura sacra in cui Iddio aveva parlato
all'uomo nel Paradiso terrestre»". 11 "I dotti, a cominciare dai Padri della Chiesa – scrive
Porciatti – hanno sempre ritenuto che la lingua ebraica fosse la prima lingua umana, quella
parlata da Abramo. Questa più che una convinzione è stata una certezza sino alla seconda
metà del secolo scorso [l'Ottocento, ndr], quando la scoperta del sanscrito e lo studio delle
affinità grammaticali e lessicali delle varie lingue, portò un serio colpo alla teoria della
monogenesi del linguaggio. Ma la Massoneria è sorta assai prima che la scienza avesse detto
queste cose, che forse non saranno le ultime, e perciò il cerimoniale massonico si è
inquadrato nella lingua sacra che nel contempo era ritenuta la più antica: l'ebraico". 12
La scelta dell'ebraico è, dunque, un fatto contingente.

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I quattro piani di lettura e la libertà interpretativa

La ritualità massonica, per la sua natura simbolica, consente più piani di lettura, i quali
conducono il libero pensatore, lungo i sentieri della Tradizione, a superare ogni
assolutizzazione interpretativa.

Nel Convito Dante, che Réné Guénon (L'esoterismo di Dante, Atanor) considera affiliato
all'Associazione della Fede santa, Terzo ordine di filiazione templare, avverte che tutte le
scritture "si possono intendere e debbonsi sponere massimamente per quattro sensi":
letterale, filosofico-teologico, politico-sociale e iniziatico.

L'esercizio costante dell'ermeneutica è necessario per evitare l'illusione di essere giunti alla
verità e, al contempo, per evitare che le interpretazioni di chi ci ha preceduto assurgano allo
status di verità.

Il grado di comprensione di una realtà la determina, cosicché è l'osservatore, con la sua


capacità cognitiva, a creare attorno a sé la sua realtà.

Conoscere se stessi e cambiare se stessi, in un processo evolutivo delle proprie capacità


cognitive, è pertanto il punto essenziale di inizio di ogni mutamento della realtà.
L'esperienza lo insegna.

La Tradizione massonica necessita, pertanto, del costante lavoro di estrazione delle antiche
radici, attraverso un percorso archetipico, simbolico e mitologico.

La drammatizzazione attiva simboli e archetipi

"Un archetipo, per essere tale – scrive Éllemire Zolla -, deve avere una parte inconscia,
sommersa: la sua denominazione deve accompagnarsi a sofferenze e allucinazioni e al
minimo esige un animo commosso, capace di trasporsi in simboli. Soltanto tramite il
simbolo un archetipo traspare". 13

Simboli e archetipi sono eterni e sono paradossali, in quanto naturali. La natura, nella sua
paradossale essenzialità, li consegna alla nostra sensibilità, alla nostra intuizione, alla nostra
capacità interpretativa, che ne cattura, di volta in volta, un significato, mentre gli altri ci
sfuggono, secondo un processo cognitivo che oggi potremmo assimilare al principio di
indeterminazione di Heisemberg.

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Ogni interpretazione di simboli e archetipi è datata, in quanto frutto di una focalizzazione


che risente, inevitabilmente, della cultura del tempo e del luogo e ogni focalizzazione è una
traduzione e, pertanto, una limitazione.
Rifrequentare simboli e archetipi e rileggerli equivale a riattivarli, a toglierli dalle
fossilizzazioni interpretative precedenti e a renderli vivi e operanti.

Ecco la funzione essenziale della drammatizzazione della ritualità: rendere vivi miti,
simboli, archetipi.

Essere religiosi, in questo ambito semantico, è essere vivificanti. "Il termine religione –
scrive Umberto Gorel Porciatti – deriva dal latino religio ed è di etimologia incerta.
Secondo la più accreditata etimologia la radice comune è quella del verbo relegere che vale
anche aggomitolar di nuovo, scorrere di nuovo, risolcare; come tale è data da Cicerone (De
Nat. Deorum, II, 28)….L'etimologia da religare – rilegare, legar dietro, attaccare, aggiogare
– è quella di Lattanzio (Instit. VI, 28)". 14
Tra le possibili etimologie preferisco quella che fa discendere il vocabolo religione dalla
particella re, che significa frequenza, e dal verbo legere, che equivale a scegliere e, in senso
figurato, a cercare, guardare con scrupolosa cura. Cercare è il modo essenziale per
conoscere.
Per questo motivo un massone non può essere un libertino (colui che esercita il libero
pensiero) irreligioso, in quanto il suo operare è costante ricerca, rilettura, osservazione
scrupolosa, sulla via illimitata della Conoscenza.
Nulla a che fare, dunque, la sua religiosità con le "religioni", ossia con i sistemi ideologici
che si occupano, a vario titolo, del Divino.

Il compito essenziale dei restauratori del rito

Se è vero che i riti di una civiltà riproducono i miti ad essa sottostanti, è ovvio che per
ottenere una ritualità corretta è necessario un attento riconoscimento, un lavoro di scavo
che recuperi l'autenticità di un mito, per consentire ad ognuno di noi di poterlo vivere nella
sua verità, ossia nel suo mostrarsi come fondamento.

E' un compito da riformatori? No, da restauratori.

Il ritorno a Campbell consente, a questo punto, anche di poter svolgere alcune


considerazioni sulle funzioni del rito che non possono essere che la conseguenza
dell'apparato mitologico.

Il rito, per essere efficace, va pertanto riportato all'essenzialità della sua corrispondenza con
il mito e ripulito dalle sovrastrutture liturgiche che lo affaticano e lo sviliscono e da
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manifestazioni di celebrazione dell'Ego: titoli altisonanti, salamelecchi iperbolici, esteriorità


profane e profananti.

Il rito va riportato alla sua essenziale funzione di drammatizzazione del mito, di attivazione
archetipica e simbolica, dove la vera maestria è ars maieutica e non inutile e dannosa
esternazione gerarchica.

Fatte queste osservazioni di carattere generale, indispensabili al fine di collocare la


riflessione sul 18° grado in un ambito corretto, si rende necessario un brevissimo accenno
alla struttura della tragedia greca, della quale, a mio parere, è in buona parte debitore
l’incedere rituale del 18° Grado.

Struttura della tragedia greca

La tragedia greca è strutturata secondo uno schema rigido, di cui si possono definire le
forme con precisione.
La tragedia inizia generalmente con un prologo (da prò e logos, discorso preliminare), che
ha la funzione di introdurre il dramma; segue la parodo, che consiste nell'entrata in scena
del coro attraverso dei corridoi laterali, le pàrodoi; l'azione scenica vera e propria si dispiega
quindi attraverso tre o più episodi (epeisòdia), intervallati dagli stasimi, degli intermezzi in
cui il coro commenta, illustra o analizza la situazione che si sta sviluppando sulla scena; la
tragedia si conclude con l'esodo (èxodos).
Prologo
Il prologo (πρόλογος), secondo la definizione data da Aristotele nella Poetica è "tutta la
parte di tragedia che precede la parodo del coro", cioè la parte recitata compresa tra l'inizio
del dramma e l'entrata del coro. Questa parte può essere costituita da un monologo o da un
dialogo, ed ha la funzione di introdurre il dramma.
Parodo
La parodo (πάροδος) è il primo canto che il coro esegue nel corso della tragedia, quando
entra in scena attraverso dei corridoi laterali, chiamati πάροδοι (pàrodoi).
Episodi
La tragedia si sviluppa attraverso tre o più episodi (ἐπεισόδιοι), che contengono le parti
dialogate tra gli attori.
Nel dialogo interviene anche il coro, di solito con brevi battute di commento affidate al
"corifeo", ossia il capocoro.
Il dialogo tragico si sviluppa attraverso alcune forme tipiche: la rhèsis, la sticomitia
(stichomythìa) e la monodìa.
La rhèsis, dal greco "discorso", è il monologo, più o meno esteso, di un personaggio.

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La stichomythìa è, come dice il nome stesso, la battuta di un verso solo. Si ha, infatti,
quando il dialogo si fa più concitato e i personaggi si scambiano battute di un verso
ciascuna.
La monodìa si ha quando un attore canta in metri lirici anziché recitare.
Stasimi
Gli stasimi sono degli intermezzi destinati a separare tra loro gli episodi.
Esodo
L'esodo è la parte conclusiva della tragedia, che finisce con l'uscita di scena del coro.

Struttura del rituale del 18° Grado


La struttura del rituale di iniziazione del 18° Grado sembrerebbe seguire i canoni della
tragedia greca. Il rituale si apre con un prologo, comprensivo dell’apertura dei lavori. Il
tema della fede è aperto da un intervento del corifeo (una voce di Fratello), seguito da quello
degli attori (Saggissimo, 1° Custode) e dall’intervento del coro (voci). L’andamento si
ripete, con diverse accentazioni, riguardo ai temi della speranza e della carità, per poi
entrare nella fase degli espisodi (viaggio, pramantha, cena) e per concludersi con l’esodo
(chiusura o, meglio, sospensione dei lavori).

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Il grafico evidenzia le varie fasi dell’iniziazione dal punto di vista emozionale ed energetico.
La parte energetica, fondamentale, andrebbe opportunamente testata, analizzata, indagata,
anche alla luce di quanto sappiamo delle ritualità antiche.
Il prologo evidenzia un leggero crescendo, con un salto all’inizio della fase relativa alla
“fede”, determinato dall’intervento del corifeo (un Fratello), un ulteriore crescendo (1°
Cust. e Sagg.) e un picco con l’intervento del corifeo (un Fratello), un ulteriore crescendo
(1° Cust. e Sagg.) e un picco con l’intervento del coro.
Queste fasi sono seguite da una caduta verticale segnata sul grafico da una X.
Cosa è accaduto? E’ caduto un pesante velo.
Dopo le varie affermazioni relative alla fede, il 1° Custode dice: “Fratelli, voi avete
incontrato la fiaccola della fede e avete inteso proclamare le credenze degli uomini.
Se ve ne è una che la vostra coscienza accetta, seguitela: siete liberi. Se non ve ne è,
attendete che una nuova fede vi inspiri”.
Il messaggio è chiaro: è la libera coscienza di ognuno il metro della fede. Ogni credenza è
relativa. Tale affermazione è propedeutica a quanto avviene subito dopo.
Il crescendo riprende con le fasi della speranza e della carità, con un picco dovuto
all’intervento del coro e alle parole del Saggissimo, ma ad un certo punto c’è una nuova
caduta verticale.
Cosa è accaduto? E’ caduto un altro pesante velo.
Dopo la lunga esposizione di un’opinione, che tale rimane, per quanto interessante, relativa
a Cristo e che potrebbe apparire come un’indicazione dottrinale, da apprendere come tale,
il Saggissimo dice: “Non adottando alcuna credenza determinata ed anzi
considerandole tutte come transitorie e subordinate al lento progresso della ragione
umana, fedele al solo principio della libertà e del lavoro, la Massoneria superiore ha
potuto conquistare, in ogni periodo storico, la verità parzialmente scoperta: ha
potuto conservarne il senso esatto, ripudiare i cattivi elementi o gli abusi,
abbandonarli senza pena per delle verità più complete. E’ così ch’essa ha glorificato
la Fede, la Speranza e la Carità”.
Sembra qui di leggere le teorie di Popper sul principio di falsificazione.
Subito dopo un leggero crescendo sembra attutire il colpo.
Lascio alla Vostra Saggezza, Venerabilissimi e Potentissimi Sorelle e Fratelli il piacere di
proseguire, attraverso i successivi episodi, fino all’esodo.
La musica e l’intonazione della voce
Solo per inciso, poiché l’argomento merita un serio approfondimento, metto in evidenza
l’aspetto musicale con il quale l’andamento emozionale ed energetico andrebbe
accompagnato. Troppo spesso ci accontentiamo di brani musicali evocativi o legati alla
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tradizione musicale di autori massonici, mentre ritengo che un serio studio dovrebbe
ritrovare il senso degli antichi riti, della cui musicalità troviamo poche tracce nella
tradizione greca, ebraica e nel canto gregoriano.
Non può mancare un cenno all’intonazione della voce. Gli Egizi insistevano nel designare:
“Giusto di voce” colui che procedeva nel cammino iniziatico quando doveva incontrare i
Neter, i Guardiani della soglia, i mostri paurosi e pronunciare correttamente il loro nome.
L’iniziazione egizia, della quale non si è persa interamente memoria e che tratteremo a
tempo debito nel convegno di Napoli del 18 marzo 2017 dal titolo: “L’Egitto dei Neter”,
presume, per la sua riuscita, l’esatta pronuncia del nome, ossia la giusta intonazione
vibrazionale. Il campo della ricerca è aperto e affascinante.
Dopo queste riflessioni, vorrei introdurre alcune osservazioni sulle contraddizioni insite nel
Rituale del 18° Grado attualmente in uso, su alcune stonature da eliminare e su alcune
indebite omissioni da reintegrare.
Parto da queste ultime.

Pramantha, l’agitatore, e il sacrificio vedico

Nel Rito Scozzese è prevista l’accensione della “pramanta” che ricorda, con qualche
importante variazione, lo strumento arani usato per l’accensione del fuoco nel sacrificio
vedico.
“La croce inferiore di legno di mimosa [una specie simile all’acacia], per il tipo di legno e
per la sua posizione orizzontale ricettiva, è –scrive Mario Polia - considerata la parte
femminile dello strumento ed è assimilata all’energia cosmica «femminile» (çacti). Il piolo
verticale è la parte maschile dello strumento ed è assimilata al dio fecondatore. L’accensione
del fuoco rappresenta pertanto una vera e propria riattuazione della cosmogonia”. 15 “La
parte girevole dello strumento – aggiunge Polia – era detta anche pramantha, «l’agitatore»”.
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Salvatore Farina, a proposito della “pramantha” massonica,


scrive: “L’istrumento consiste in una croce di legno, a bracci
disuguali, di 10 o 15 centimetri di spessore, e 20 o 25
centimetri di lunghezza, tagliata grossolanamente, e aventi
l’apparenza di rami di un vecchio albero. Al centro della
croce è un foro cilindrico coperto da un coperchio a forma
di rosa. La pramantha propriamente detta dovrebbe essere
un cilindro di legno dolce di 8 o 10 centimetri di lunghezza
adattantesi al foro della croce, cilindro che, col solo
strofinamento, dovrebbe infiammarsi”.17
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Dopo che il saggissimo, tolta la rosa, introduce nel foro la pramantha, dice: I.N.R.I.
Tralascio i vari significati velanti, per concentrarmi su quello che viene fortemente indicato
nella sua valenza sacra dal Fratello Sacrificatore con un inno a Agni che si ispira al sacrificio
vedico. Tale inno è stato tolto arbitrariamente dal rituale in uso e va reintegrato nella sua
valenza e nella sua bellezza.
F:. Sacrificatore: “Salute a te, fanciullo celeste, alla triplice nascita che Prometeo
apportò agli uomini, figlio di uomo e figlio di Dio; a te che i nostri antenati hanno
adorato sotto il nome di Agni e venerato sotto le sembianze di un agnello che libera
il mondo dalle impurità. Salute a te, rivelatore del cielo e della terra, vincitore dei
mostri, dell’uragano, delle notti e del verno. Sei tu che mostri le meraviglie del
Tempio, che accendi, al di sopra delle nostre teste, le luci celesti, che ci abbagli col
lampo, che ci riscaldi coi dolci effluvi del focolare domestico, che doni agli uomini
il mezzo di rendere se stessi simili agli dei. Ovunque in germe od al potere, padre
di coloro che ti generarono, tu simboleggi ai nostri occhi come per gli Atarvani
dell’antica Ariania, il principio di tutte le combinazioni che si verificano nella
natura, l’essenza del movimento della vita e del pensiero, la Ragione che rischiara
ogni uomo nato al mondo. Aumenta in vigore ed in luce: spandi di lontano i tuoi
bagliori folgoranti, rimonta fino al cielo donde sei disceso, mediatore fra i mondi,
per fortificare i nostri corpi, per illuminare la nostra ragione, per purificare i nostri
esseri, per rischiarare la nostra coscienza. E quando un giorno noi avremo
compiuto il nostro dovere su questa terra, forse porterai gli elementi sottili del
nostro Essere lontano dalla corruzione che è la legge fatale delle cose quaggiù”.

Fuoco, simbolo dell’Essere unico

L’inno è preceduto da tre affermazioni essenziali.


La prima.
Saggissimo: “Nell’origine del movimento della vita e del pensiero, vale a dire di tutti i
fenomeni naturali senza eccezione, gli Ariani, nostri antenati, ammisero un principio che
non era un’astrazione, ma una forza reale e visibile: il fuoco; da prima fuoco terrestre,
l’Agni del sacrificio. Poi il fuoco atmosferico o lampo, infine il fuoco celeste rappresentato
dal sole. Il fuoco concepito dapprima come una personalità divina non differenziantesi
dall’uomo che per l’estensione meravigliosa delle sue facoltà, divenne il simbolo dell’Essere
unico che è la sorgente e la trama dell’Universo”.
La seconda:
Oratore: “Ma fu sempre temeraria l’impresa dei mortali quando pretesero imporre un nome
al G..A:.D..U:.”.
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La terza.
Il Maestro delle cerimonie alla domanda: “Chi vi ha guidati?” risponde : “Raffaelo”.
L’arcangelo Raffaele, il cui nome ebraico (Rafa-El) significa “Medicina di El” o “El
guarisce” è l’arcangelo delle cure fisiche e spirituali. I viaggi, pertanto, sono volti a guarire
spiritualmente, a confrontarsi con idee, credenze, ideologie, per poi abbandonarle, in
quanto relative, e concentrarsi sul viaggio interiore, alla ricerca del proprio centro di gravità
permanente, del proprio Sé, il lapis exilis.

Il numero, archetipo degli archetipi

La complessa figura di Agni merita qualche accenno di riflessione.

Agni, quando nacque come Ahi, era privo di piedi e di testa e nascondeva le due estremità
nella sua matrice, ma quando divenne manifesto assunse la forma del «dotato di piedi».
Nel mito si cela un linguaggio matematico, dove lo zero è l’ofidico cerchio, ouroboros,
senza testa e senza piedi, l’Uno è pedomorfo (un piede) e il molteplice (la serie 0 1) è dotato
di piedi e di mani.

Sotteso al mito è il linguaggio degli dèi: il numero, l’archetipo degli archetipi.

Il sacrificio è anche la separazione della Persona (Purusha) e della Parola (vâc). L’unità
Persona-Vâc è suddivisa nel primo sacrificio. “Per mezzo delle loro parole i cantori co-
creatori (Viprab Kavayah) lo concepirono molteplice, lui che rimase uno”.(Rig Veda X,
114,5).Nel primo sacrificio la Parola (vâc,a Vacca di Luce, come Brigit, Bo Vinda) è
separata dal Purusha.

Concetti simi quelli che si leggono nel Prologo di Giovanni: “Nel Principio era il Logos e il
Logos era presso Theon e il Logos era Theos”.

La separazione della Parola dà luogo al tempo (Purusha è l’Uomo Universale e Agni è


l’Anno) e così “nel” diventa “in”: in principio era il Verbo.

Il Verbo che è Theos si separa da se stesso e dà luogo a un prima e a un dopo e con il


tempo nasce lo spazio.

La Parola è la circolare racchiusa Virgo (Zero) uscita dalla sua circolarità nel pedomorfo
(Uno).

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“Grazie al sacrificio, seguirono le orme dei piedi della Parola, la trovarono che dava asilo ai
Profeti; la condussero e la suddivisero in molte parti; i Sette cantori la intonarono in ogni
luogo”. Rig Veda, X, 71,3.

Il latte (luce) della Parola (vâc) è soggetto alla burrificazione, ossia l’avvolgimento della
vibrazione dà luogo alla luce (Dio disse: “Sia la luce…”), fotoni.

La vibrazione avvolgendosi su se stessa dà origine alla luce e alla materia.

Il rito come imitazione dell’atto emanativo

Il rito umano del sacrificio è un’imitazione di ciò che fu fatto in principio, è innegabilmente
una mimesis, ma è anche un rito di ricomposizione.

“Di conseguenza – scrive Ananada Coomaraswamy - lo scopo finale del sacrificio non è
solo di continuare l’operazione creatrice iniziata «una volta» dalla decapitazione, ma anche
«di capo volgerla» con la ricostituzione totale della divinità divisa, e con ciò il sacrificante
stesso, identificato con la divinità e con il sacrificio. Abbiamo già visto che con il Sacrificio
Prajapâti ritrova la sua integrità, ma soprattutto che non è unilaterale, poiché la divinità
dev’essere guarita da coloro stessi che l’avevano divisa”. 18 ( Tre hanno ucciso Hiram e tre
lo fanno risorgere).

In Shatapatha Brâmana (II,2,2,8-20), citato da Ananda Coomaraswamy, gli Dèi e i Titani


erano sprovvisti di Sé spirituale e di conseguenza mortali. Solo Agni era immortale. Gli Dèi
sacrificarono il fuoco in se stessi: diventarono immortali e invincibili. I Titani edificarono il
fuoco esternamente e rimasero mortali.

“Analogamente – scrive Ananda Coomaraswamy - ora il sacrificante edifica il Fuoco


sacrificale in se stesso. Per quanto riguarda questo Fuoco così acceso in lui pensa: «Qui
stesso sacrificherò, qui farò il buon lavoro». Nulla può intromettersi tra lui e questo Fuoco.
«Sicuramente, finché vivrò, questo Fuoco che è stato edificato all’interno di me stesso non
si spegnerà»”.19

L’Agni hotra, l’offerta del Fuoco, è un rito di avvio al riconoscimento e alla


ricostituzione del Sé e la Massoneria ne fornisce un preclaro esempio nel 18° grado
del Rito Scozzese Antico e Accettato, purché il rito sia eseguito nei dovuti modi,
con la giusta voce, con la corretta drammatizzazione.

Del resto, l’affermazione della Massoneria di essere erede della sapienza egizia antica, ci
riporta a ritualità analoghe, quali quelle contenute del Libro dei morti (Per em Ra, Per salire
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al giorno) e nel “Libro di Ciò che è nel Duat”, dove al tuffo nelle profondità e all’incontro
con energie di varia natura, segue l’acquisizione dello stato di Akh, lo stesso del Sé delle
dottrine induiste e tradizionali e della psicologia junghiana, che della Tradizione si è nutrita.

Un’infamia tutta maschile?

Retaggio di un’idea maschilista del mondo e pertanto, a dire il vero, assai poco iniziatica, è
la frase: “Infine devo interrogarvi su materia assai delicata. Vi è fra noi una legge che
decreta l’infamia contro colui che disonora un Fratello nella moglie, nella figlia e nella
sorella o in un’altra parente o donna a lui cara”.
Le Sorelle possono stare tranquille?. Possono procedere a qualsia disonore senza infamia?
E se un Fratello disonorasse un Fratello con un Fratello? Nell’epoca delle coppie di fatto
tutto diventa aleatorio.
Ben al di là di costruzioni iperboliche, relative alla moltiplicazione dei sessi, è evidente che
una formulazione maschilista fa semplicemente pena.

Qual è la dottrina massonica? Lo svelamento.

Una frase ambigua è quella relativa all’obbligo di studiare la “dottrina”. La dottrina,


normalmente intesa nell’accezione comune, è l’insieme dei precetti o delle teorie in cui
consiste un movimento scientifico, filosofico, politico, religioso e simili; anche, l’insieme
dei principi sostenuti da un autore o relativi a un determinato problema: la dottrina
evangelica; la dottrina di Aristotele, di Platone; la dottrina dell’evoluzione; ecc.
La Massoneria, in questa accezione di dottrina non dovrebbe riconoscersi.
Se dottrina è, al contrario, insegnamento (da docere), allora la dottrina massonica è ben
identificata in quanto, come afferma Dante: “Mirate la dottrina che s’asconde/ sotto il
velame delli versi strani”. (Inferno, IX, 62).
Ecco che ritorna in primo piano il vero insegnamento, la vera dottrina massonica: il togliere
i veli.

Bacone, il Novum Organum e la Nuova Atlantide

Nel “crescendo” relativo alla Carità, si accenna al Fratello Francesco Bacone come al
“padre della dottrina moderna”.

Rinvio ai testi di filosofia e al Novum Organum per quanto riguarda il metodo baconiano
di conoscenza della natura. Sir Francis Bacon è però anche l’autore della Nuova Atlantide.

Come ho avuto modo di osservare nel mio: “Pitagora” (testo base della conferenza tenuta a
Taranto il 17 dicembre 2106 nell’ambito del convegno: “Mediterraneo pitagorico”,
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Francesco Bacone, nella sua "Nuova Atlantide", distaccandosi apparentemente dal


platonismo, che definisce filosofia fantastica, e dalla cultura umanistica, poiché definisce la
magia e l'alchimia saperi fantastici e superstiziosi, propone una restaurazione del potere
dell'uomo sulla natura che si realizza attraverso la scienza e la tecnologia e che ha valore, ai
suoi occhi, solo se porta al servizio dell'ideale di fratellanza e della «carità».
Il «sapiente» proposto da Bacone assomiglia più a Galilei che a Paracelso o a Cornelio
Agrippa e, a Nuova Atlantide, gli scienziati lavorano isolati e si assumono la responsabilità
di tenere segreti i loro lavori o di consegnarli al governo.
Sull'isola governa il re legislatore Solamone, il quale ha fondato l'Ordine o la Società Casa di
Salomone (inversione voluta), guida e luce di Nuova Atlantide. Fine dell'istituzione è "la
conoscenza della cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere
umano verso la realizzazione di ogni possibile obbiettivo".
I membri della Casa di Salomone vengono inviati nel mondo per riferire su usi, costumi,
conquiste scientifiche e tengono nascosta la loro origine. Essi portano a Nuova Atlantide
libri, sommari ed esemplari delle scoperte di tutti gli altri paesi e sono chiamati «Mercanti di
luce».
Un riferimento al rapporto del 18° Grado del Rito Scozzese Antico e Accettato con questa
salomonica istituzione e con i suoi «Mercanti di luce» è evidente.
Assai interessante è la ritualità relativa all'ambito famigliare.
La famiglia costituisce la base portante della società di Nuova Atlantide ed è governata da
un rito dove il padre è il Tirsano (evidente il riferimento al tirso dionisiaco) e il figlio
prescelto, che starà accanto al padre e gli succederà, è il "figlio della vite". A questo figlio
prescelto viene consegnato un grappolo d'uva d'oro e nella cerimonia di iniziazione ha un
ruolo importante l'edera. Tirsano, inoltre, offre ai suoi figli eccellenti, per meriti e per
particolari virtù, un gioiello raffigurante una spiga di grano. Il rimando a Dioniso e
Demetra e ai riti eleusini è evidente. Meno evidente, in quanto poco conosciuto, è il
possibile rinvio ai riti della celtica Ceridwen, assai simili a quelli di Cerere e di Demetra.
I misteri di Ceridwen, segnalati da Artemidoro (simili pare a quelli di Cerere) e trasformati
dal bardismo, conservavano ancora i loro fedeli nel VI secolo, al tempo di Taliesin ed erano
vivi nel XII secolo. “Il re stesso, come si vede dai canti di Hoël o Hywel, re del Galles,
morto nel 1171, era onorato di esservi ammesso. Esiste una preghiera curiosa, nella quale,
già ammesso ai gradi inferiori dell’iniziazione, sollecita al Collegio di Ceridwen con
espressioni di fervente pietà, il favore dell’iniziazione superiore”. 20

Cercate la verità nella sua ombra profonda

“Cercate la verità nella sua ombra profonda. E’ la voce del lavoro e della libertà. Voi
conoscerete la legge che governa il mondo”.

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La voce del lavoro e della libertà è la Parola, Vac del Logos (vedi sopra – paragrafo: Il
numero, archetipo degli archetipi), che è il Demi Ergon, il “Lavoratore pubblico”, il
Grande Architetto dell’Universo in azione.

Come ho scritto nel mio “Pitagora”: “Un’intelligenza che è un’armonia invisibile governa
l’universo e questa intelligenza e questa armonia è il Logos eracliteo, che nel Prologo di
Giovanni è theos ed è in Arché presso theon e poiché una parte del Logos è compresa in
noi, ecco che noi possiamo accedere alla sua conoscenza ed ecco il motivo per il quale il
Logos “è la luce degli uomini”.

Ad aiutarci nel cammino sono gli archetipi, Arché typos, impronte dell’Archè (neter egizi,
dèi greci, angeli e geni), principi che dal Principio principiante, l’Archè, il Puro Pensiero,
emergono in forza del Logos , che è theos, ossia manifestazione.

Il vocabolo theos deriva dalla sostantivazione del verbo theeîn, correre e del verbo
theâsthai, vedere. Pertanto il potere improntante e determinativo dell’Arché, ossia il Logos,
agisce inducendo un correre verso l’evidenza, ossia un manifestarsi (uscire alla luce), di ciò
che è tenebroso, un distendersi ordinato di ciò che è racchiuso e caotico.

Questo il vero significato del “lavoro”.

La luce del Logos e il soccorso degli archetipi comunicano con il linguaggio simbolico, il
quale è la lingua esoterica che conduce al vero sapere. Il vero sapere, infatti, non consiste
nel conoscere una moltitudine di cose, ma nel conoscere il pensiero dal quale sono
governate tutte le cose e questo vero sapere è la saggezza, che deriva dall’esperienza di vita
(Venere), dal superamento delle prove (Ercole) e dal soccorso della Sapienza (Minerva).

Il percorso per trovare la Parola è il ritrovare se stessi, ossia il proprio Sé, l’Akh delle
ritualità iniziatiche egizie, per essere nello stato di coscienza del Sé, per essere realizzati
nello stato di Akh (la forma sottile, il corpo di Luce).

La pietra cubica suda sangue e acqua.

Il riferimento al sangue e all’acqua, come quella del costato di Cristo, che sarebbe stato
versato nella coppa del Graal, è solo una modalità essoterica per dire che il sangue e l’acqua
della pietra è l’effusione di un segreto nascosto che la pietra cubica nasconde dentro di se.

Il cubo ha sei facce, otto vertici, dodici bordi: 6-8-12.


I rapporti tra questi numeri sono armonici.
12/6= 2 ossia l’ottava musicale: Do – Do.
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12/8= 3/2 ossia il rapporto di quinta: Sol – Do.


8/6 = 4/3 ossia il rapporto di quarta: Fa – Do.

Il cubo è armonia, musica, rapporto armonico. Ed è con l’armonia che si giunge al centro
del cubo, ossia al centro della pietra, al centro del corpo di carne, che suda sangue e acqua,
per trovare, il baricentro, il centro di gravità permanente (come canta opportunamente
Franco Battiato): il Sé.

Ed ecco che dal proprio centro ci si proietta al vertice della piramide: dal fuoco interno al
fuoco universale. Ogni riferimento alla ritualità egizia e alla geometria sacra ci porterebbe
lontano, ma è un percorso di grande interesse.

Nel cubo, che è fatto di quadrati, si nasconde anche il rapporto tra l’irrazionale (infinito) e il
razionale (finito).

Nel cubo sovrastato dalla piramide si nasconde il segreto della porta apparente.
Gli antichi Egizi – scrive Shwaller de Lubicz – sapevano benissimo come si entra
nell’invisibile: attraverso la porta apparente” 21, che ha molti stipiti e si restringe, come la
pietra cubica che, continuamente levigata, porta all’invisibile punto centrale, dove il visibile
si espande nell’invisibile.

La cavalleria dell’Aquila e del Pellicano

L’idea cavalleresca merita più di un approfondimento. Rinvio a quanto ho scritto alla vostra
attenzione con le riflessioni dal titolo: “Il Dovere per il Dovere e le contraddizioni insite
nelle affermazioni dei Rituali”.

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Scrivere senza alcuna specificazione che “durante l’oscura epoca medioevale, la Cavalleria
rappresentava la rivendicazione del diritto individuale: la difesa del debole, il giusto orgoglio
del buon diritto, la protesta contro l’arbitrio” è un non senso storico.
Anzitutto l’epoca medioevale non è stata, come è ormai acclarato da innumerevoli studi, un
periodo oscuro. Qui, il testo, mostra un’ignoranza inammissibile. In secondo luogo, come
ho avuto modo di scrivere a proposito del 30° Grado, la cavalleria medioevale è stata, per la
sua gran parte, un insieme di bande armate violente, più simili a predoni che a difensori del
diritto, sicuramente non difensori dei più deboli. Un’immagine della cavalleria come è
fornita dal testo appartiene alle leggende autocelebrative delle confraternite sedicenti
cavalleresche.
Significativo, al contrario, il riferimento all’Aquila e al Pellicano. Non mi soffermo più di
tanto sulla simbologia dei due uccelli, se non per ricordarne le caratteristiche essenziali ai
fini della specificazione delle caratteristiche dei cavalieri del 18° grado.
Il fatto che i pellicani adulti curvino il becco verso il petto per dare da mangiare ai loro
piccoli i pesci che trasportano nella sacca ha indotto all’errata credenza che i genitori si
lacerino il torace per nutrire i pulcini col proprio sangue. Il pellicano è divenuto pertanto il
simbolo della carità (I care, mi occupo di), dell’abnegazione con cui si amano i figli.
Si deve invece, per l’analogia di forme, l’assonanza al nome con cui gli stessi greci
principalmente lo chiamavano: pelekos, da pelekus, l’ascia, a causa dell’apertura del suo becco
smisurato, uncinato alla punta che, slargandosi a ventaglio, risulta essere simile ad una
antica scure; questa, un segno simbolico del sacrificio di sangue, potrebbe far risalire
l’origine delle leggende sul pellicano a tempi antichissimi.
In ogni caso il pellicano è divenuto simbolo di carità, di abnegazione e di sacrificio.
In tutte le tradizioni l’aquila incarna la potenza cosmica; è il re di tutti gli uccelli, avendo il
dominio assoluto dell’aria, così come il leone è il re della savana e il cervo è il re della
foresta. Dalle sue qualità reali o presunte deriva la sua simbologia. Il suo librarsi verso l’alto
nel cielo, fino ad altezze impossibili per l’uomo, lo rende simbolo di qualsiasi movimento
ascensionale, dalla terra al cielo, dal mondo materiale al mondo spirituale, dalla morte alla
vita. Elevandosi verso l’alto, può alimentarsi del fuoco superiore. L'aquila, alla quale è
assimilato il falco, è considerato un uccello solare, detto anche “uccello di fuoco”, per la sua
immaginaria capacità di guardare il sole senza bruciarsi. Il rapporto aquila-sole è ben
presente nel rapporto falco-Horus.
Essere cavalieri del pellicano significa essere caritatevoli, capaci di abnegazione e di
sacrificio (sacrum facere) ed essere cavalieri dell’aquila significa percorrere le vie della
conoscenza, per tendere verso la Luce, simbolizzata dal sole, ma ben più consapevolmente
presente dentro di noi, in qual centro di gravità permanente, in quella G intima che sa

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Nulla dies sine linea Silvano Danesi

collegarsi alla G universale, nel punto di equilibrio ove l’infinito e il finito si toccano e si
trasformano incessantemente l’uno nell’altro.
Cosa ha a che fare con tutto questo la cavalleria medievale? Come al solito, niente.
Finisco con il mio migliore augurio di un felice 2107 di intenso lavoro iniziatico e con un
triplice fraterno abbraccio nei NNN.SSS.NNN.

Brescia, 30.12.2016 E:.V:.

1 Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina


2 Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina
3 Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina
4 Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina
5 Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina
6 Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina
7 Joseph Campbell, Percorsi di felicità, Cortina
8 Eugenio Bonvicini, Esoterismo nella Massoneria antica, Atanor
9 Eugenio Bonvicini, Esoterismo nella Massoneria antica, Atanor
10 Eugenio Bonvicini, Esoterismo nella Massoneria antica, Atanor
11 Arturo Righini, I numeri sacri della tradizione pitagorica massonica, Atanor
12 Porciatti, Simbologia massonica, Gradi Scossesi, Atanor
13 Ellemire Zolla, Archetipi, Marsilio
14 Umberto Gabriel Porciatti, Simbologia massonica, Atanor
15 Mario Polia, Le rune e i simboli, Il Cerchio-Il Corallo
16 Mario Polia, Le rune e i simboli, Il Cerchio-Il Corallo
17 Salvatore Farina, il libro completo dei Riti Massonici, Gherardo Casini Editore
18Ananada Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio.
19 Ananada Coomaraswamy, La dottrina del sacrificio
20 Jean Rainaud, L’esprit de la Gaule, Firne, Paris, 1864.
21 R.A. Schwalle de Lubicz, Il Tempio nell’uomo, Mediterranee

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